Grice e Jaja: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Conversano). Filosofo italiano. Grice: “I like Jaja – of course you
cannot understand Jaja unless you understand Fiorentino, Croce, Spaventa and
Gentile! The quintessential Italian philosopher!” – Grice: “Jaja is a
sensualist, like me.” –Grice: “My favourit essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja,
a cui è dedicato l'Ospedale Civile di Conversano. Si trasfere a Napoli, dove studia
sotto la guida di FIORENTINO. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire
il suo maestro. Il suo incontro filosofico
principale e con SPAVENTA. Col trasferimento di J. a Napoli i rapporti con
Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. J. non è stato mai considerato un
filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre
GENTILE allo studio di Spaventa – “although he was possibly more than Hardie
was to me!” – H. P. Grice -- merito che l'allievo riconosce sempre. Altri saggi:
“Origine storica ed esposizione della critica della RAGION PURA”; “Studio
critico sulle CATEGORIE e forme dell'essere”; “Dell'A PRIORI nella formazione
dell'anima e della coscienza,”; “ L'unità SINTETICA e l'esigenza positivista,”;
“Sentire e pensare,”; “Identita e Semiglianza ed identità”’[cf. Grice: “Cfr. My
theory of identity-relative, as a critique to Wiggins” -- “ Sentire, pensare, conoscere,”
“ L'intuito nella coscienza.”; Preti, J., filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca. repubblica,.
treccani. J.: neoidealismo italiano, su orthotes.com. J. Gentile, Memoria, su sba.unipi, Spaventa
Gentile Idealismo, J. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. open, Horizons Unlimited srl. Gentile,
Memoria su J., su sba.unipi. J.. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert
Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” –
a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.” Implicature!” Comincia gli studi al seminario in vista di una
futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli,
dove studia sotto la guida del filosofo neo-kantiano FIORENTINO (si veda) e a Bologna, per seguire
il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna a Caltanissetta e Chieti.
Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta MEIS (si veda) e per suo tramite SPAVENTA
(si veda) che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una
figura chiave per la formazione intellettuale di J. Con Spaventa i rapporti
dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare. Consegue
la libera docenza e ottenne la cattedra
di filosofia teoretica a Pisa. Tra i suoi allievi ha Gentile, che gli successe
poi sulla cattedra, e Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle
stampe a Bologna con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica
della ragion pura di Kant, colloca Kant all'origine di una scena della
filosofia che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli
articola la storia della filosofia successiva a Cartesio. Da una parte il
filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e
della necessità -- Malebranche, Spinoza, Leibniz. Dall'altra la tradizione
francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica -- Locke e Hume. Kant pone il problema, ritenuto centrale da J.,
del debito che il giudizio ha nei confronti sia dell'esperienza, sia
dell'universale. Tuttavia J. ritiene che Kant non da una soluzione adeguata e
definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei
continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a
leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una
prospettiva che egli deriva da FIORENTINO. Secondo J., Kant pone il problema
della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo
risolve. La manchevolezza è nell'intima natura del sistema kantiano. In questo,
lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e
spontaneità, entrambi irriducibili, mentre la soluzione consiste nel mettere in
luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente
soggettivo ma OGGETIVO e pertanto corrisponda alla realtà. – cf. H. P. Grice,
the justification of objective value, The Carus Lectures, Oxford. Compare qui
un interesse di J. per il modo in cui
l'intelletto proviene dal senso -- cfr. Plebe, in Guzzo – Plebe -- che mostra
anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze
empiriche e che in seguito lo porta a confrontarsi con il positivismo e
l'evoluzionismo. Pesano in questo probabilmente sia gl’interessi positivistici
di Fiorentino, cui egli dedica questo saggio, sia l'ambiente intellettuale
bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di MEIS (si veda). Ha modo
di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e
forme dell'essere di Serbati. Qui critica Serbati della teosofia in quanto non
dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere,
mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: È necessario
studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui
passa nel formarsi. Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima
di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia
finisce con il postulare una irriducibile alterità della cosa in se rispetto
alla mente. Dopo Kant, Fichte, e quindi Hegel,
invece completano il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente o psiche è il risultato o effeto di ciò che la mente e il
pensiero hanno rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo
proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse
inadeguata sul piano interpretativo. E uno Hegel mediato in primo luogo da SPAVENTA,
che ne sottolinea l'aspetto soggettivistico, e che J. legge in modo ancora più
immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero o la psichi umana. Temi
e ispirazioni filosofiche, in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani,
e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero
J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In “Dell'A PRIORI
nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La
somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J.
nell'esaminare e nel correggere
Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione,
rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di
articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La
sensazione non è solo lo stimolo – alla STEVENSON (H. P. GRICE) -- che proviene
dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'ATTO INTROSPETTIVO del
sentire e alla sfera spirituale. In questo, da una parte valorizza l'importanza
dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo. Dall'altra
mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico o
ESTERNALISTA, o ESTROPETTIVO, POSITIVISTA, ESTERIORE --. Tornato su questi temi
in “L'unità SINTETICA kantiana e l'esigenza positivista” si propose di
conciliare l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece
interessata a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza
kantiana, che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale
conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più
evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si
appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca
nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai
gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La
trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. È mio fermo convincimento che il problema
speculativo, in tutta la sua ampiezza, resta un labirinto senza uscita finché
non solo non e studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia in genere e
dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per
esso della COSCIENZA – cf. Grice, “Personal identity,” “Intention and
Disposition” – Stout vs. Prichard -- coscienza, ma più ancora finché nello
studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il
senso finisce e la coscienza incomincia. O, dove il senso non è più solamente
senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi
germogli. – cfr. Grice on Empiricism as a bete noire --. J. è interessato
a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono.
Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degl’evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione è vero e fecondo, un'affermazione non priva di
interesse in un autore che esercita il suo influsso nella formazione di una
filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degl’elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini, è interessato a
conciliare una comprensione scientifica mecanicista della natura, che prescinde
da una descrizione in termini INTENZIONALI, e che l'evoluzionismo ha esteso anche
agl’organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in
termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica
anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica,
chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in
termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare
che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. La sensazione è foriera
della coscienza e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio
-- non salto. Gl’elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.
La vita della coscienza è due cose. E la continuazione della vita del senso, e
per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme. L'immagine evolutiva
è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita,
che intende come una forza che si
dispiega. Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che, nel sentire – cfr.
Grice in Schwarz, SENSING PERCEIVING -- si raccoglie tutto il mondo naturale
sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e
perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e
s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che
si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza
sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce
ancora. E non intendiamo dei soli individui che compongono il grande regno
animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti,
forniti delle capacità, della forza di sentire, non vivono soltanto,
assimilandosi e trasformando gl’elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente
della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza RAPPRESENTATIVA
– cfr. Grice on Aristotle on life and soul --. Nella rappresentazione, la forza
naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno
sopra di sé – META-REPRESENTAZIONE – reflessiva -- nel cui compimento è il suo
possesso, e la sua integrazione. Puo già leggere in Spencer una concezione
dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si libera mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza. Non resta dunque, che
sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I
fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come
era e poteva esser dato nella logica formale potranno trovare dura questa conclusione.
L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura ritrova se
stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo senso, J.
può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato l'evoluzionismo per
produrre una loro filosofia della storia. Una conclusione, questa, che
trova conforto in uno scritto successivo di J., L'intuito nella coscienza.. È qui
affrontata la questione se l'intuito ha una parte nella ricerca scientifica. J.
risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano
solo quando il pensiero indagatore sente il bisogno di ricorrere alla
conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore, e cioè quando vi è
perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la
conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti, J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che
i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà. La realtà
storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior
modo nell'universale e per l'universale. I fatti e la storia sono testimoni
cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo
Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (Pisa), insiste sul concetto del
pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli
ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico
di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Si tratta di salire
nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire
l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti
hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come nota, a tal proposito, J. qui non muove più dal
senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è DATO dalla coscienza, per
spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette
innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la
verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed
assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero. Oltre agli saggi menzionati, si segnalano
ancora, fra gli altri: Un po' di polemica nella quale principalmente si
discorre dell'articolo 73 dello Statuto in rapporto a' poteri supremi dello
Stato, Bologna; Saggi filosofici, Napoli
-- raccoglie scritti già pubblicati e l'inedito La virtù e i suoi
elementi costitutivi -- la prefazione alla raccolta di Scritti filosofici di
Spaventa, cur. Gentile, Napoli; Enigma della coscienza, in Rivista filosofica;
L'insegnamento filosofico universitario ed il regolamento nuovo, Pisa. Membro
della Società reale di Napoli e cavaliere dell'Ordine della Corona
d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero toscano, (C. Sgroi); Corriere toscano, (Tarantino); Gentile, Lettera a J., in
Gentile. La vita e il pensiero, a cur. della Fondazione Gentile per gli studi
filosofici, lettera di Gentile laureato
al maestro; Battaglia, Lettere di Meis a J., in Memorie dell'Accademia di
scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; Gentile, J.,
Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; Miccolis, Lettere inedite di J.,
Firenze s.d.; Gentile, J., Pisa Id., Le origini della filosofia contemporanea
in Italia, Messina Alliney, I pensatori
della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; Croce, Conversazioni critiche,
Bari; Guzzo - Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova; Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, Cristallini, Il pensiero filosofico di J., Padova
(con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); V. Carcuro, Polemiche
filosofiche antirosminiane: Terenzio Mamiani e D. J., Aversa; A. De Gubernatis,
Diz. biogr. degli scrittori contemporanei, Firenze , s.v.; Enc. Italiana,
XVIII, s.v.; Enc. filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli
autori italiani contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that
he tutored Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was
a Hegelian at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli
hegeliani d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he
finds that the Hegelian absolute, the State, as compromise between
‘gl’individui, as Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato
Jaja. Jaja. Keywords: implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Javelli:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- semantica del
segnare -- segnante e segnato – filosofia italiana -- Luigi Speranza (S. Giorgio di Canavese). Filosofo italiano. Grice: “I
love Javelli – he is, like me, an Aristotelian; being a northern Italian, he is
a Thomstic Aristotelian, which I’m not sure I am!” Grice: “One good thing about
Javelli is that he commented on MOST works by Aristotle!” -- Essential Italian
philosopher. Studia a Bologna. Fu esegeta. Argomenta
contro Lutero. Opera omnia” (Lione, Giunta). Partecipa al dibattito sul
Tractatus de immortalitate animae di Pomponazzi, di cui scrisse, su richiesta
di Pomponazzi stesso una confutazione. Partecipa al dibattito sul divorzio di
Enrico VIII, esponendosi a favore della scelta del sovrano. M. Tavuzzi, in
"Angelicum", DBI.Casale Monferrato.modum definiendi, dividendo et
demonstrandi, Tu tamen adverce licet fiteadem realiter, ratione tamen distingui
turinquantu docens, et inquantu utens. Namin quantu docens consideratur in e,
in quantu utens relpicit alias scientia. Logica docens sufficienter
diuiditur in tres partes. Prima est in qua tradatur de
terminis in complexis, et hoc ditiiditur in duas. In prima consideratur de terminis secundo intentionis,
et iste est liber praedicabilium. In secunda consideratur
de terminis primx intentionis, et iste est liber praedicamentorum,
et post praedicamentorum. Secunda est in qua tradatur de
terminis complexis, id est de oratione et propositione et hic
est liber “Peri Hermenias”. III est in qua tradatur de argumentatione et
hoc dividitur in quatuor. In prima agitur de argumentatione syllogistica
absoluta et simplici, idesi noh applicata alicui materiae et hic
est liber pnorunviln secunda agitur de syllogismo demonstratiuo,
et hic est liber posteriorum.
In tertia agitur de syllogifmo topico, id est probabili,
flthic eft liber topicorum. In quarta agitur de syllogismo fallaci,
quem dicimus sophisticum, co q* per ipsum solum
gc iteratur deceptio, et hic est liber elenchorum. Hoc est summa librorum,
quos tradidit nobis Aristoteles inventor logicae. Reliquos autem minores tradarus quos appellamus parva logicalia,
non habemus formaliter ab Aristotele.
Sed posteriores traxerunt virtualiter
ex praedictis libris Aristotelis, ita <y
eorum principia iam habuimus ab
Aristotele, ut tibi declarabitur, quando agemus de consequentiis
et suppositionibus etc. Et aduerte q? sufficientia
praedictae divisionis fumitur hinc, argumentatio ut dictum est supra Jeft
pn cipalc confideratum a logico ueluccius finis, non enim logicam quaerimus
nifl ut acquiramus habitum faciliter et ra de argumentandi ad quancuncp conclusionem.
Argumentatio aut est
quoddam totum conflans ex propositionibus, ut
tibi declarabitur loco suo, propositio vero confiant ex terminis.
Cum igitur eadem scientia sit considerari va totius et
partium, necesse esi logicum versantem circa argumentationem,
considerare de argumetatione et partibus eius,
partes autem cius fune duplices. f. propinquae et remotae
propinquae sunt propositiones remote autem termini in
complexi, nam propositiones componunt immediate
argumentarionem. Termini aurem incomplexino componut
eam, nisi quia ingrediuntur propositionem. Ex
quibus conflat in qua confiderantur termini in complexi,
ordinatur ad secundam, in qua confideratur propositio
et secunda ad tertia, in qua consideratur argumentatio,
et in ca completur intentio logicj. Conftar
igitur quomodo dinldenda sit logica, et
quae sint cius partes sufticienrcr ipsam
di nidentes. Hoc de praesenti cap. dicta fint. A quo sit
incipiendum in logica et quis ordo prosequendus ne confundatur ingenium
nouicii. In VII capite investigandum est a quo primo incipiendum fit
tractare in logica, et quis ordo m tractandis lcruandus fit, ne novicii
ingenium confundatur. Quantum ad primum aduerte quod nonulli
confidcrant logicam inquantum est DIALECTICA, id
est DISPUTATIVA, alii autem inquantum versatur circa
argumentationem, quae non solu potest fieri voce
sed et mente et scripto. Primi considerantes disputationcm
non fieri sine SERMONE, nec sermonem sine uoce,
nec vocem sine TONO, ideo a sono tanquam a priori et
communiori definitive et divisive dicunt inchoandum. Secundo
loco a voce definitive et divisive. Tertio loco a
nomine et verbo ut habent c(Tc in voce et
componut orationem et propositionem vocalem, ex
quibus componitur syllogismus sive argumentatio vocalis, qua sit DISPUTATIO
INTER DUOS. Hunc ordinem lcruat Petrus Hispanus et ratio ad hoc movens
cum fuit, quia consideravit Aristoteles in suo libro “Peri
Hermenias” acturus de propositione definit nomen et
verbum ut funr cius partes integrales per vocem, quafique non confideret
de nomine et verbo et oratione et propositione et argumentatione, nisi ut
deferuiunt disputationi, cui non deferuiunt nisi ut sunt in voce reliquit ergo
omnia praedicta ut sunt in mente et in scripto et intendit de modo magis famoso
ac notiori ad sensum, qui est modus in voce. Alii autem advertentes
<f licet modus ific famosior et vulgarior
fit, tamen experientes quod omnia praedicta habene esse IN ANIMA, in voce
et in scripto, nec unquam proferuntur voce, nec
feribuntur nisi prius mente concipiantur, unde et
dixit Aristoteles in primo “Peri Hermenias”, quod ea
quae sunt in voce, sunt earu quae sunt in anima PASSIONUM id est conceptuum
notae i signa, ideo arbitrati non sunt incipiendum a voce nec a
sono, sed a termino, id est DICTIONE. Nans
terminus ut est in mente componit
propositionem mentalem et ut est in voce, componit
propositionem vocalem et ut est in scripto, componit propositionem in scripto,
et quoniam nomen verbum et oratio poliunt
ede in mente et in voce et in scripto, ideo dicunt melius
esse quod definiantur per. Ti terminum ut pote magis communem
et per vocem. Hancjg! cur viam uc universaliorem sequemur et
prateipue quia no concrariacur priori sententiae. Nam
sicut est verum dicese. “Socrates est homo; ergo, Socrates
est animal,” sic est verum dicere, nomen est vox significativa,
ergo est terminus significativus. In plus enim se habet terminus
quod vox, quem vox non evrificacur de nomine nisi ut est in voce.
Terminus autem verificatur de nomine, in mente, voce, et
scripto. lncipiemus ergo a termino definitive et divisive.
Quantum ad iccundum adverte tp cum termini
in complexi fxnc priores fit simpliciores oratione et
propositione in via compositionis et propositiones fine priores
syllogismo, qm componunt syllogismum, et non cconucrfo, ordo foientix
requireret q prius tradaremus de praedicabilibus et praedicamentis, et secundo
loco de propositionibus utrra dat Aristoteles in
libro “ Peri Hermenias” et III loco de syllogismis
formalibus et topicis et sophisticis et demonstrativis eo ordine quo de eis tradat Aristoteles in tota arte nova. Verum quia novus logicae auditor tranft
immediate ab arte grammatica: ad logicam, et logicus accipit a
grammatico nomen et verbum et aliquas alias partes orationis
uc dicemus pro ut componunt propositionem, et propositio componit
syllogismum, ideo ne novicii ingenium inuoluatur, expedit
f>us tradare de gtib9oronis, deinde de oratide
et cmltiatione, sicut etiam tradat grammaticus modo grammatico
et socundo loco tradabimus de syllogilmo formali et tertio
loco de praedicabilibus, et quarto loco de praedicamentis. Nam
abfqj notitia propositionis et syllogismi, n<» pollet novitius
i illis erudiri modo logico, ut tibi tinanif eft u
erir. Deinde procedemus ad alios tradatus
eo ordine que tibi nianifeftabimus loco suo.
Conftat igitur tibi a quo incipere intendimus, et
quem ordinem foruare, ne nouitii ingenium
inuoluatur. Hxc de praesenti cap. dida fint. Explicit
trac. primusqui Tuit de praecognoscendis ordinatus per
authorem, et reuifus per eundem secundus qui est
de partibus propositionis. N rradatu iecudo
agendu est de partibus orationis, quae apud
Logicu praecipua une nomen, et verbum et qtr» scire non poteris quid est
quotuplex sit nomen apud logicum, fifr &
verbu nisi prius noveris quod sit terminus, et quotuplex
sit. Et quod dico de termino intellige de voce. Primum quod
poni£ in definitione nomini et verbi cM
terminus apud coitcr tradatores de logicalib
apud aut Aristotele vox, ut tibi declaravim9 i tradaru
pcedeti, c.7. io huc tradatu diuidem i.4.capita.. Primum, Quid et quotuplex
sit terminus. Secundum, quid quotuplex sit nomen et verburn. III quid et
quotuplex sit oratio. IV, Si logico sufficiunt duae partes orationis,
(ciliccC nomen rectum et verbum rectum. Quid & quotuplex sit
terminus. IN pino cap. investigandii est qud sit TERMINUS et quot sine vitares
divisiones cius. Hic igitur duo ageda sunt pmo definiemus terminu declarates
singulas definitionis particulas secundo assignabimus coes, et vies
divisiones termini. Quatu
ad prnii aduerte, q? hic no intedimus
loqui de oi significato in quo fumit
terminus in doctrina Aristotelis. Sumii at eribus modis,
Prlo funii! maiori, et minori extremitate medio, et dnr TRES
TERMINI tres ex qbus coponi! oisve rus syllogismis et
de hoc ino loquemur I trac de syllogismo formali, et
absoluto. Secundo iiimitur pro definitioc rei,
quae dicitur apud Aristotele terminus quem
in se claudit, 8C terminat totam rei
definitae essentiam et de hoc modo loquemur
in trac. de syllogismo topico et demostratiuo. Tertio sumitur
pro omni co ex quo propincp constituitur
ORATIO et propositio et in quod resolvitur.
Et dico propinque quoniam sicuc apud gramaticum DICTIO componitur ex aliquibus
remote et ex aliquibus propinqj. sic apud logicum ORATIO et
propositio ex aliquibus coponitur utrocj modo.
Nam apud grammaticum DICTIO componitur propincp ex syllabis,
quoniam scipsis et non mediante alio, comfonitur aurem remote ex literis,
quoniam non ex scipsis sed mediante syllaba. Sic in proposito apud logicum oratio et
propofitio componutur propinqj ex terminis, quem ex scipsis et
non mediante alio, componuntur autem remote ex syllabis
5C literis, liter enim componut fyllabas, et syllabe
terminos, et termini orationem. Ec in hoc tertio sensu solum
intendimus in hoc trac. Ioqui ac definire terminum. Sed aduerte <jf in
tertio sensu ad huc tripliciter fumi p6t. f. communiter, ftrl de et
ftrictissime. Comuniter sumitur pro omni didionc p
pinqj componente orationem, et fic non solum nomen
dC verbum, sed etiam alis orationis partes,
ut pronome, prepositio, aduerbium etc. dicuntur termini.
Stride sumitur p omni eo quod est vel poteft esse subiectum et
praedicatum et copula in propositione. In quo sensu, nec signa universalia
nec particularia, nec adverbia sunt termini, quem no sunt nec possunt esse per
se ipsa praedicatum aut subiectum, sed modi Huc dererminatioes eorum, fifr
aduerbia sunt determinationes verbi ut “bene currit”, “hodie ucnit”
&c. Srridisfime autem sumitur pro omni eo quod est vel potest esse
extremum propositionis, extremum autem dico subjectum et praedicatum,
&*n hoc sensu copula non est terminus, quia non est EXTREMUM, sed
unitiuum extremoru, unit et copulat praedicatum et subiectum et in
hoc sensu definiuir eum Aristoteles in libro priorum diccns, (?
terminus est in quem resolvjf propositio ut in subiectum et praedicatum. His
praepositis adrerte qr hic habemus deffinire terminfl non ftridc nec
ftritisfime sumptum, sed comunircr, aliter non potiemus ipsum dividere ut
dividemus infra. Nam una ex divifionibus erit haec,
terminorum unus est PER SE SIGNIFICATIVUS, alius non per se significativus. Constat
autem ex prxdidis quod terminus non per se significativus, non cil tf terminus stricte
nec strictissimc sumptus. Definientes igitur terminum coicer et absolute
fumptfl dicimus quod est pars propinqua constitutiva orationis et propositionis.
Dicitur pars propinqua immediata orationis et propositionis ad
differentiam literarum et syllabarum, quod non nisi mediante termino
componunt orationem. undeaduerte sicut se habent lapides et ligna et fundamentum,
&p aries ad compositioncm domus, sic liter ac et syllabae et
termini ad constitutionem orationis, nam lapides et ligna non
component immediate domum, sed componunt imediate fundamentum parietem et
tectum, haec aurem imme diate dotnumrideo
illae remotae, hae autem propinquae nucupantur.
Sic in propositio, literae et syllabae non componut immediate orationem,
sed TERMINUM, terminos autem immediate orationem.
patet ergo terminum esse immediatam et proximam partem orationis
ad differentiam literarum et syllabarum. Df conftitutiva orationis, quonia hic procedimus ex po-
ri:ad differentiam relolutionis quae supponit constitutum ex partibus.
Df ergo constitutiva orationis, quoniam hic intedimus praeparare materiam syllogismi,
quae est propositio ideo investigamus in primis,
ex quibus constituit pr immediate propositio, et
in tractato de syllogismo aperiemus ex quibus propinque et
immediate conftituitur syllogismus. Haec autem definitio convenit termino,
in mente, in voce, in scripto: quoniam terminus
in mente, est pars propinqua orationis mentalis et
in voce, est pars propinqua orationis vocalis et in
scripto, est pars propinqua orationis scripta.
Viso quid
sit terminus apud logicum cSmunitcr et absolute fumptus,
assignandae sunt generales divifiones eius, uc
Idamus iuxta quod membrum ponendus est in
definitione Hominis et verbi et orationis. Terminorum, aliquis est PER SE SIGNIFICATIVUS,
aliquis nihil per se, id est per se sumptus significativus. Terminus
per se significativus est ille qui ultra se ipsum aliquid intellectui
re-presentat, ut “homo”, “animal”, “lapis”: representat enim homo ‘intellectui
animal rationale’ et “animal” re-praesentat ‘animatum sensitivum et per se
motiuum’, et “lapis” ‘corpus terreum durum offendens pedem’. Nam SIGNIFICARE
est aliquid intellectui re-praesentare. Vnde idem est terminum esse per se
significativum et esse per se re-praesentativum alicuius
apud intellectum. Dicitur
ultra seipfum, quem re-praesentare seipsum
intelleftui est commune omni termino, cum fit intelligibilis
ab intellectu, cuius obiectum est ens communis fit num ut se extendit
ad ens reale et ens rationis ut dicemus alias. Terminus nihil per se significativus eft ille qui per
se sumptus ultra se ipsum nihil intellectui re-praesenrat -- ut “buf” et
“baf” et “biltris”. Dicoper se fumptus, ut
excipia quando proferuntur ex intentione irridendi. Tuc enim ex
proposito irridentis fumunrur ut per se significativi,
sed id NON EST ORDINARIUM. Nam pleruncp proferuntur aut exeunt ex ore
sine proposito aliquid ultra feit sum significandi.
Ad hoc autem quod sit per se significativus, oportet ut
naturaliter vel AD PLACITUM IN ALIQUO IDIOMATE ORDINARIE ET CONSUETUDINE
FIRMATA, sic vel sic ultra se ipsum significet. Dimisfo termino nihil per se
significativ, ut pote inutili proposito nostro, quando NON COMPONIT ORATIONEM
ORDINARIE ut subiectum et praedicatum, nec est pars
nec determinatio eorum ad differentiam signorum universalium
(/\x) et particularium (Vx), dividendus est terminus per se significativus.
Et prima divisione dividitur in terminum per se
significatiuum naturaliter et in terminum PER SE
SIGNIFICATIVUM AD PLACITUM. Terminus per se significativus NATURALITER est
ille, qui apud omnes homines idem uitra se ipsum re-praesentat intellectui, ut
“homo” et “animal” in mente est autem homo *in mente* vel anima species, sive *similitude*,
sive *conceptus* hominis. Se habet enim huius modi *similitude* sive *conceptus*
ut *vera imago*, puta ‘Caesari’, quae apud omnes ex sui natura
re-praesentat Caesarem (‘GIULIO CESARE’/Giulio Cesare – ‘Fido’-Fido.
Sed adverte quod non solum terminus in mente vel anima est
significativus NATURALITER sed et quidam termini dum
proferuntur, et quaedam animalium SIGNA, ut dum INFIRMUS
GEMIT, apud omnes repraesentatur DOLOR, et dum CANIS LATRAT apud
oes re-praefentatur IRA. Terminus autem PER SE SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM, est
ille qui NON apud OMNES IDEM, sed IN DIVERSO IDIOMATE diversa re-praesentat,
vel tatum in uno idiomate aliquid determinate re-praesentat, in alio
autem nihil. Et causa huius est, quia huiul modi termini non
significant ex instinctu naturae sicut interjectiones quae non
sunt bene trasferibiles ex uno idiomate in aliud, sed impositi sunt ad sic
significandum EX DECRETO ET AUTHORITATE primorum instituentium, quibus sic
placuit rationabiliter tamen, in uno quoqj
idiomate res singulas sic vel fic nominare. Et adverte
quod ultra hoc quod terminus ad placitum differt a
significativo naturaliter in hoc quod NON apud OMNES IDEM
re-praesentat, dum profertur, nec significat ex instinctu
naturae, sed decreto primi authori: in duobus aliis
diffcrt. f. in modo proferendi et in significato. Nam terminus ad
placitum per se de et distinde profertur, modo non adiit ineptitudo
linguae exparte proferentis. Termini autem naturaliter significativi
propter impetum passionis, amoris, aut timoris, aut gaudii,
aut irae, ut in pluribus truncate proferuntur, etiam remota
ineptitudine linguae. Differunt etiam ex parte significati,
quoniam termini ad placitum significant conceptum intellectus: illi autem
magis indicant AFFECTUM appetitus, quam conceptum intellectus vel animae. Sed
ne novitius involuatur, hic sisto, donec siat capax solidioris docrinae. Dimisso
termino per se significati — non naturaliter pro nunc TERMINUS SIGNIFICATIVUS
AD PLACITUM multas sub se continet divisiones, quarum
frequens est udis in doctrina peripatetica [LIZIO], ex
quibus una est quod quida est categorematicus,
quida syncategorematicus. Categorematicus est ille qui tam g se
sumprus quam cum alio, tam in ppone quam
extra, aliquid ultra se ipsum intellectui re-praesentat -- ut “homo”, “lapis”,
“curro” – ego curro – nomen et verbum -- , “amo”. na “homo” g
le folutn significat ‘animal rationale’, “lapis”
[significant] tale corpus, “curro” [significant] adum
currendi, “amo” [significat aduin amandu --- “shaggy” significant
‘hairy-coated.’ -- syncategorcmaticus est ille qui per se solum sumptus nihil
extra seipsum apud intellectum significant – “What is the meaning [SENSE] of
‘or’, or ‘to’?” --. Si autem sumatur cum alio, puta cum nomine substantivo [non
adjective, ‘shaggy’] e vel cum verbo, simul significat, inquantum
determinat nomen aut verbum. Et sic signa universalia (/\x) et particularia (Vx) et preposinones
(“to”) et adverbia, et coniunctiones (“and,” “or”) sunt termini
syncategorematici. i.co significativi. Nam signa universalia (“all”,
/\x) determinant nomen substantivum
politum in subjecto ad ft a dum pro OMNIBUS, aut pro nullo – ut, “Omnis homo
currit”, nullus homo currit. Signa autem particularia (Vx, some – at
least one --) determinant subiectum particulariter -- ut “Quidam homo currit”, +>
“Quida homo non currit.” Praepositiones
(“to”) aurem determinant nomen ad constructionem pro cerro casu,
puta ablativo ucl accusative. Adverbia
determinant verbum f>ro determinato Io co, ut
adverbia localia, vel pro determinaro tempore, ut adverbia
temporis , vel pro determinato modo quantitatis ucl
qualitatis tut adverbia quantitatis et qualitatis. Coniunctiones (‘and,’ ‘or’) autem
determinant terminos et orationes, secundum, modum copularivum
(‘and’), vel disjuinctivum (‘or’) vel illatiuum.
exeplum primi, “et” , arcp exemplum secundi, “vel,” “aut” , exemplu tertii, “ergo,” igitur,
iracp. Inter syncategorematicos terminos
non comprehenduntur intejectiones (“ouch!”) : quoniam ut
docuimus signficant NATURALITER, nec pronomina primitiva, quoniam sumuntur
loco proprii nominis et certam significant personam. De derivativis autem videtur
quod sic, quem sunt ut determinationes nominum substantivum
- ut “meus liber”, “tuus pater”, “nostra patria,” etc. Similirer
participium ji5 eft terminus syncategorematicus, compleditur
enim nomen substantiuum et verbum -- ut “legens” loquiTUni» ‘homo
qui legit’ loquitur. Ex his omnibus sequitur,
quod cum sine odo partes orationis, tantum
nomen et verbum sumendo cum nomine pronomen
primitivum, et cum verbo participium, sunt termini
categorematici, alix autem partes sine termini
syncaregorematici apud logicum, et
caulam huius dicemus postquod definierimus nomen et uerbum.
Terminorum categorematicorum quidam eft primat intentionis,
quidam secundae. Prima intentio apud veros peripateticos (LIZIO)
est primus conceptus fundatus immediate in re, quod est
ens reale, ut primo apprathenditur prxhenditur ab
intellectu, -- ut ‘animal rationale’ est prima
intentio quam format intellectus, et immediate
fundatur, iit natura hominis. Secunda aurem
intentio est secundus conccprus formamus ab
intellectu, fundatus in re non immedia ce sed mediante primo conceptu,
ut esse praedicabile de pluribus
differentibus numero in quid, est secundus conceptus quem
format inrellectus de homine. Nam postquam
appraehendit cp ‘homo’ est “animal rationale”, advertit ut est ‘animal
rationale’, convenit omni contento sub homine, et sic est praedicabilis
de quolibet suo individuo in quid, et tunc
format secundum conceptum, dicens quod natura hominis e
eo quod est ‘animal rationale’ est praedicabilis
de pluribus differentibus numero in quid et quod dico de
homine incellige de qualibet natura specifica contenta sub animali. Terminus
igitur primis intentionis est terminus significans primum conceptum,
fundatum immediate in essentia rei -- ut “homo”, “capra”,
“leo”. Terminus autem secunda intentionis est terminus
significans secundu conceptum fundatu in natura
rei median re pmo conceptu -- ut “genus”, “species”, “differentia”,
“singular”, etc; Et ne confundatur intellectus novitii hic
sisto. In tradaru aute de universalibus sive praedicabilibus diffusius et
altius de terminis pmx, et feciidx INTENTIONIS loquemur. Et aduerte quod
divisio termini in terminos pmz impositionis, et secundo
positionis apud nos, qui sequimur VIAM REALIUM non
differt a praecedenti. Nam “homo” in mente vel
anima excogitatus, et voce probatus, et in scripto politus,
significat (>mum conceptum ideo est terminus pmz
intentionis in mente vel anima, in voce, in scripto. Et iste
terminus species ex cogitatus in mente vel anima et in voce et in scripto
et secundae intentionis, quia significat secundum
conceptum modo quo diximus. Non ergo est necesse ultra divisionem
faftam inter terminos f>mx, 8( secundae intentionis, assignare eam
quae dicitur pmz, & secundx imtentionis ut penitus distinctam
aprxcedenti, qux fuit inter m x , et secundx intentionis. Hoc enim
continetur in illa. Terminorum quidam cfimunis,
quidam singularis. Cdmunis eft q de pluribus
pradicatur -- ut “homo”, “animal”, “lapis”, et apud
grammaticum dicitur nomen appellativum, quem pluribus
convenit. Terminus singularis est qui de uno
solo praedicatur -- ut piato, & fortes, et apud
grammaticum dicitur nomen proprium (“Fido”), qmuui foli
conuenk, & ad «erte <y terminus singularis
apud logicum pot fieri quatuor modis, primo
per nomen indiuidui, ut “Plato” 'ftudet, secundo
per nomen coe adiun&o pro nomine demonstratiuo,
ut hic homo studec, tertio per nomen circtinlocutum.
i «miiltas circunstantias singularizatum, ut Sophronifci primogc
nitus filius feribit, quarto per ly, quod
apud logicum, et philosophu est signum demonstrativum,
ur ly “homo”, ly alal &c. Terminorum quidam magis universalis, quidam
minus univerfalis, & utrunq; membrum continetur sub
termino communi. Magis universalis est qui
praedicatur de pluribus q minus univerfalis, nam
magis univerfiilis praedicatur de omnibus
de quibus praedicatur minus universalis, &1n
hac divisione continetur animal et homo, na
animal praedicatur de omnibus de quibus
praedicatur homo et de aliis pluribus ut de omni
animalium specie, homo autem tantum de contentis sub
homine individuis, et iuxta hanc divifionem
asfignabimus ordinationem conten Corum io
quolibet praedicamento, procedendo a generali!
Cmoadfpcdalisfimum. Terminorfim tam singularium q
communium quidam eft finitus, quidam infinitus, finitus
eft determinati et certi significati: qui scilicet fignificat
unam ccr tam ac determinatam naruram, et de
nulla alia verificatur, ut homo significat solam naturam
rationalem, animal foli naturam fenfitiuam, etc. Infinitus
est qui negat unam naturam,eam, scilicer
quam significat terminus finitus, et ucrifi catur
de quacuncp alia, ideo dicitur infinitus, id est
indeterminatus in significando, et
terminus finitus fit infinitus per appositionem non,
ut non horno, non lapis, non animal. Nam
non homo negat naturam hois, $ ( verificatur
de quat Cunc $alia« Vndc lapis eft non
homo, leo eft non homo &c. Et
aduerte q' quando terminus finitus, infinitatur
per non. iS fit tota una
diftio,ut non homo, fi autem ftet non, per se,
& homo per se, dicitur terminus non
infinitatus sed negatus -- ut “Non homo
currit”, et per terminum negatum fit propositio
negativa haec enim eft negatiua “non
homo currit”, haec autem eft affirmativa, non homo puta leo currit.
Terminorum quidam est positivus, quid priuatiuus . Positivus est
qui significat aliquam formam sive habitum
perficientem fuum fubiedum,ut uifus perficit
ocu lum «Lux aerem, iuftitia animum etc. Privativus est qui significat negationem
talis formae, relinquens taroe aptitudj k
ne in fubiedo, eo quod eft aptum hre
talem forma -- ut “caecitas,” “tenebra,” “iniustitia,” “mores furditas”, etc. “Caecitas” enim
significat negationem visus in oculo apto
here visum, modo, et te porc quo cft aptus videre.
Dicitur notanter quod est aptum habere
talem formam, qm fi non est aptum , no
uerificacur ii de eo terminus priuativus, sed
terminus pofitiuus negatum aut “non videns”,
non lucens, non audiens. Unde de lapide
haec est falsa – vera apud Grice. “Lapis est caecus,” -- vel
surdus, uel tenebrosus, haec autem est VERA. “Lapis est non videns”,
non audiens, non lucens. Terminorum quidam abstradus,
quidam a concretus. Abstractus est qui
significat formatu per se fine f- connotatione subiedi
-- ut “color”, “sapori”, “albedo”, “dulcedo”, “anima”, “iustitia”,
“spem” (‘speranza’) etc. Concretus est qui significat
formam conno i- tado subjectum, uc “coloratum”, “album”,
“nigrum”, “animatum”, “iustum”, ‘hopeful,’ etc. Et adverte quod
haec divisio coincidit cum illa, dc :t qua
erit fermo in ante praedicamentis, scilicet
Terminorum r, quidam est denominans, ut grammatica, hic est
idem quod ab li ftradus, quidam denominativus,
ut grammaticus hiccR idem quod
concretus. Terminoit quidam in complexus,
quidam complexus. In complexus est ille, qui est
terminus simplex, er vel copoficus, vel
uniens in se plure? terminos per se significatiuos ad placitum,
ita tamen quod habent uim unius exem-
,a« pium primi homo, capra, leo, exemplum secundi. Scuti- K.
fer, armiger exemplum tertii “paterfamilias”, “primo-genitus,”
“sanctus Georgius”, “summus pontifex”. Comple-Jtu« est ille, qui in se aggregat
plures terminos per se significativos ad
placitum, qui NON HABENT VIM unius, sed siue aggragati, siue
separati recinet suum proprium significatum. Et
nccerminus complexus semper est oratio, aliquado sine
verbo, ut “homo [est] albus”, “animal [est] volatile,” in qua *secunda*
pars determinat, et limitat primam, aliquando cum verbo -- ut
“Homo est albus”. Vnde logici univerfaliter dicunt quod terminus
incomplexus est ut dictio. Complexus autem
ut oratio. Tuta men aduerte quod terminus complexus coitcr nominatur per
orationem infinitivam, ut deum ede trinum hominem esse risibilem, quae oratio
dicitur e(Te quid complexum, et enunciabile, ut ibi manifeftabitur, cum
loquemur de modalibus. Terminorum quidam significant sine
tempore quidam cum tempore. Significare sine tempore
est significare rem absolute sumpram non mensuratam
aliqua differentia temporis, cuius differentis sive
partes praesens, praeteritum, et futurum, et hoc modo significar
nome et pronomen sumptum loco nominis. Nam dum
dico hoitio, aut animal, homo significar rem quae est
homo absolute, et non inquantum praesntem,
aut praeteritam, aut futuram. Tu tamen aduerte quod
licet nomen significet sine tempore, nihil tamen prohibet
aliquod nomen significare tempus, aut partem temporis, ut haec
nomia, tempi, hora, dies ebdomada, mensis, annus. Nain
licet significet tempus, non tamen aliquid distinctum a tempore, et
mensuratum tepott. Per oppositum autem significare cum tempore est significare rem adiunda aliqua differentia temporis.
Et hoc modo verbum et participium significar cum tempore.
Verbi gratia “curro” et “currens”, significant currum pro
tempore praesenti, et non aliter, “cucurri” pro
praeterito etc. Unde significare sine tempore, ut dicemus
infra, proprie convenit nomini, oppositum autem
convenit uerbo. Terminorum quidam univocus, quidam AEQUI-VOCUS,
quidam analogus. Univocus est qui sub UNA definitione naturam unam significat,
sive sit una specie, sive ana geacre -- ut “homo” sub hac definitione,
est ‘animal rationale’, significat natura humanamquae est una
spe, &aul fub hac definitione, est ‘corpus animatum
sensitivum’, significac naturam animalis quae est una genere. Aequivocus est
qui sub distindis ronibus, et abfqj ordine, et immediate plures
naturas significat distinctas spe -- ut “canis” significat
immediate ‘canem coelestem’ sub hac definitione quod
est sydus in ore sigui leonis, et “canem latrabilem” sub
hac definitione quod est animal iracundum et “canem marinum” sub hac
definitio ne q* est ‘animal aquaticum simile cani terrestri’.
Analogus est qui sub diffindis ronibus ucl sub una in aequaliter
participata plures naturas quodam ordine prioris, & posterioris fignificat.
E xcmplum primi. “Sanum” (Aristotele – Grice – “Multiplicity in
Aristotle”) sub hac rone q? est esse
adaequatum in humoribus significat ‘animal sanum”,
sub hac f one q' eft e(Tc causatiuum
(imitatis significat ‘medicinam’ Isi nam, sub
hac rone quod est ede indicat iuum sanitatis, significat ‘urinam sanam.’ Prius
tamen dr de ‘animali’, pofterrus autem de ‘medicina’,
et ‘urina’: quoniam nonnifiin ordine ad ‘animal sanum’. Exemplum secundi. “Ens”
sub hac rone quod est cui debetur eflfc, significat primo ‘substantiam’,
deinde acens quoniam substantia est ‘ens’ simpfr, et “accidens” est ens “secundum
quid”, et solum in ordine ad substantiam. Hic
termini cur universaliorcs divisiones quae in docrina
peripatetica [LIZIO] frequenter funt in usu, ta i
libris termino logices, q pbiae. pr aepofirae aut funt, ut noviti9 paulatim
a(Tucfcat, & nc fim coadi frequeter singulas
repetcre. Haec dc. i .cap. dida fint. Quid et quotuplex est
nomen et verbum apud logicum. In secundo capite investigandum est quid et
quotupleg sit nomen et verbum apud logicum, sunt enim principales partes propositionis,
ut tibi manifestum erit, primo igitur agendum est de nomine secundo de verbo. Et quonia hic intendimus
agere dc partibus propositionibus, et de propositione,
& de syllogifmo, non solum in voce, sed et
in mente vel anima, et in scripto, ideo definiemus
ca non per vocem, sed terminum qui est communis nomini et
uerbo in mente vel anima, in voce, in scripto. in
reliquis autem no recedemus a via, et me* do definitiuo
fcruato a Petro Hispano, qui logicam Cui formavic ut compendium logicae totius
traditae nobis ab Aristotele, excepro libro posteriorum. Non .n.
Petrus hispano formavit tractatum aliquem correspondentem
libris posteriorum, hac forte rone,
qmcxiftimauit novitium penitus incapacem syllogismi demonstrativi,
Nos autem faciliori
modo quo poterimus particularem tractatum formabim ut paulatim
alluefcat novitii ingenium, et ne
fubito auditu libri posteriorum confusus retroccdat.
Licet autcm Aristoteles in libro “Peri Hermenias”, et Petrus
cius imitator definiant nomen et uerbum per
vocem, et nos per terminum, tn no eri mus
oppositi, nisi in hoc, quod nos magis ample, illi
autem magis ftriftc definierunt, Considerarunt. M partes orationis
folurti ut sunt vocales, nos autem ut
poflunteife mentales – vel in anima --, et vocales, et scriptis. Unde
sicut dicit Aristoteles et Petrus cf nomen est
uox, fifr et verbum, dicemus nos i terminus, fiib
quo continetur terminus vocalis qui dicitur vox etc. Primo igit agentes de nomine
definiemus quid sit apud logicum, et si multiplex est.
Quantum ad primum adverte cp nomen ad
mente Aristotelis in voce, in scripta est TERMINUS PER SE
SIGNIFICATIVUS AD PLACITUM sine tempore, cuius nulla pars separata
aliquid significat finita et reda. Primo dr quod est
terminus, quem nomen est pars propinqua ofonis et proponis, ut
patet. Et quem terminus est quid magis commune quod sit nomen,
ut patet ex op. praecedenti. Nam et verbum
est terminus, non tamen est nome, ideo
in haedefi nitide ponif terminus ut genus. Na
ut declarabimus trac de syllogismo dialectico, pmus
terminus in definitione positus, est loco
generis, quem eoior est ipso definitor,
reliqui aqte ponuntur loco differentiae ut
declarabimus Secundo dr p se significativus, ut excipiantur
termini NON PER SE significativi -- ut “buf” et “baf” et
terrmni syncatcgorema Cici ut signa univerfalia (‘omnis’
‘all’) et particularia (‘aliquis,’ some, at least one), uc “omnis”, nullus,
aliquis, quae licet apud grammaticum fint
nola:, non tamen apud logicum, quoniam g (e fumptanon polfunt esse praedicarum ncc fubic
et u proponis, fcd tm determinant subiectum. Au aur praedicatu
uc docuimus in rertia divillonc tcrminoif. Tertio dr AD
PLACITUM ad driam termini significatis NATURALITER -- ut
interjections (“ouch!”), quod condant non clfe noia
qm no declinantur per casus, nec fune fubicdumaut
praedicacutn proponis nisi in suppositione materiali
-- ut “heu” e interie&io, heu eft bi syllabum,
& ad driam termini J. conceptus in mente vel anima,
qui NATURALITER significat ut declaratur in. i “peri
hermeneias” t Quarto dr fmc tempore ad
driam verbi, quod significae cum ege, quid fit significarc
fine rge, & cum tge iam docuimus
in divisione terminorum , et diximus q? no «nconucnit
aliquod nomen significare tempus, ve; partem tgis
-- ut dies, hora non th cum tgc. Vide tu
illic» Quihto dr cuius nulla pars
separata aliquid lighat. idi no men dividaf
in partes fiias, quz (int fyllabz ut
pr, & omne nomen nmplex, ucl quz fint
dictiones, ut in noic composi, ut est “paterfamilias,”
uel Icutiferus, et fumant g fe. i. extra
totum nomen nihil significant. Quod fic
intclliges,aut nihil orno significant ut marc. Na
nec tnamee re, g fe fumpta ali quid significant.Vel
fi aliqd significant, non th habent illuti
lignatu, quod hnt in toto noic.V.G. Hoc
nomen dhs signac |»ncipem. Si ante refoluat
in do et in minus,do uciqj signat:;f*aftum
dandi, et minus signat oppositum magis, sed ut co
ponunt ly dhs nihil fignificant. f.dc significato
ly dhs. Idem intellige de nomine composito,
cuius partes separatz et (i aliquid fignat,
non tn illud quod fignat totum nomen
ccm pofitum, ut “paterfamilias” significat rectorcm familiz. “Pater” autem per se fumptus
significat ‘genitorem’ et “familia” ‘familiam’, ica q in toto significant
ur.um, separatz autem signiS eant duo. Ethzc expositio est communis apud veros logicos*
Unde Avicenna recitat in logica sua aliquos dixifle,
quod verbum in complcxum est cuius nulla pars separata
aliqd significar. fi quod fic de intellectu et
significato totius qm nl hil , phibct aliqd
aliud fighare -- ut “magister” nam “magis” aliqd significat:
et “ter”, sed non tetinent significatum quod significat
“magister” nec in totum nec in partem. Er
fic paret quod haec definitio
conucnic nomini cam simplici, quam composito,
tam primitivo, qua derivativo, dum ntodo intdligatur,
uc cxpo luimus. Sexto de finitus ad
differentiam nominis infiniti, quod et si
apud grammaticum sit nomen, non came apud
logicum, quoniam apud ipsum nomen est
illud, quod potest elie subjectum et praedicatum in propotitioc.
Subiectum autem et praedicatum oportet, ut determinate aliquid
significent, afr propotitio effec inutilis, nec deferuirct syllogismo
formado ab intellcdu pro inquirenda ucritatc.Vndc et terminus acq liocus
inntilcm facit proponem, niti fumatur determinate.
Verbi gratia canis coeleftis lucet. Sed
uc docuimus in divisione septima terminorum, terminus infinitus nihil determinate
tignat, ideo cum non postit esse fubicdum &
praedi catum proponis non cft nomen
apud logicum niti fecundi! quid, ut dicatur nomen
non fimptf r sed nomen infinitum, sicuc solemus dicere quod
“chimera” non est nomen REALE sed nomen fidum, quia nihil significat sed
imaginarie. Sed dices, apud logicum hzc cft propotitio. Non homo currit,
ergo poteft effc fubicdum, & per confequcns nome. Respondccur.
Tales propositiones sunt inutiles ti teneatur nomen infinitum
in sua infinitate &i n deccrminationc. Si autem determinetur ticdiccndo.
Non homo.i. asinus currit tunc propotitio erit utilis,
sed nomen infinitum non remanet infinitum, fed
zquiualet finito. Septimo dicitur redus ad
differentiam obliquorum, qui non fune nomina apud logicum. Nomen enim est apud ipsum
quod f m fe aliquid significat, 8( f m se poteft
effc fubicdum propotitionis. Sed obliqui neutrum
habent ex fe. No primum, quia tignificatum trahunt, a
redo ticur,& deriuan tur ab co. Redus autem ticut non deriuatur ab
alio tic non accipit tignificatum ab alio cafu sed habet afe. Non
secundum, quia ti apud logicum formatur propotitio perucrbif impcrfonaIe, ut
Platonis intereft legere: ly Platonis no eft subiectum, niti refoluatur in
redum tic. Ille cuius eft legere est Plato. Sic
intclUgc de aliis. Prztcrca solus redus fufficit t11 K Ir O \t. i115 s io i
ur Si rii a fr-io mn. A re 3t n ad formandam
prop6ncm pcrfedann et maxime de secundo adiaccntc, ad quam non sufficit
nomen obliquum. Haec enim cQ perfcda. Deus est, homo
est, hacc aurem imperfe da. Dei est, hominis est. Non
ergo obliqui moerentur dici nomina sed fmc cafus
nominum. Hoc de definitione nominis apud
logicum rcalem & peripateticum dida fint. Quantum ad
secundum. F quotuplex fit apud logicum, Ideft
inquantum poreft c(Tc subiectum et praedicatum,
ppo fitionis, conftat, ex didis quod non est multiplex,
quoniam solum nomen rectum et finitum poreft clic secundum le
subiedum et praedicatum in propone modo quo
expofuumus.Vnde logicus a grammatico sumit fibi
redum ut nc« cellarium ad fomandum absolutam proponem significativam
veri & falsi Reliquos auccm casus lumir adbencclfc, et magis propter servandam
congruitatcm quam veritate sermonis, ne uideatur logicus delpicere regulas grammatices.
Haec de nomine dida finr.
Quantum aduerbum aduerte quod ad mentem Aristotele
verbum cam in voce quam in scripto sic definiendum est
verbum est terminus per se significatiuus ad placitum cum tempore,
cuius nulla pars separata aliquid significat,
finitus & rectus extremorum unitiuus. Terminus ponif loco generis ficutin definitione nols, quia eft eoior uerbo. Nam omne
verbum eft terminus: sed non converso p
fe fignariuus ponitur eadem rone sicut in definitione nols fifr ad placitum ad
driam interiedionuni, et verbi mentalis, qrh significat NATURALITER,
ut diximus in definitione nois,
Cum tempore ponitur ad differentiam nois, et
pronominis, et conuenit in hoc cum participio quod uc- nit a
uerbo. Quid fit significarecum tempore, 8c quare uorbu et participium signifi.ar
cum tempore, uidc in diuifione undecima rerminoru. Cuius nulla pars
separata aliquid sfignificar, intelligcndum est de verbo tam simplici quam
composito, sicut expofuimus in definitione nominis,
in hoc enim uerbum conuenit cum nomine,
finirus ponitur ad differentiam uerbi infiniti. Infinitatur
aute verbum sicut et nomen per appofitionem negationis,
ut non curro non laboro. Quod quidem apud logicum no eft verbum,
qm nihil determinate significacficur nec nomen infinitum. Undefacc rct proponem inutilem:
nili determinetur licut diximus de nomine infinito,
sic dicendo, fortes, non currit» I « feribie» Re cius ponitur ad differetiam uerbiobliqu^cft autem uerbum obliquum apud logicum uerbum prztcriti et
futuri temporis, et verbum cuiuslibet modi przter
modum indicativum.Vnde quaedam fune uerba
obliqua ex tempore ra tum,ficut uerba praeteriti
temporis, et futuri indicativi modi, ut “amavi”, “amabo”. Quaedam
autem ex modo rantum uti imperativa tempore przlenri. Quzdam ex modo,
et tempore, ut uerba optatiua, et subiunctiua et infinitiva temporis
praeteriti et futuri. Ideo autem apud logicum non fune verba, quoniam non faciunt primo et
perfcipfa propofitionem veram aut falsam, sed per redudionem ad verbum indicatiui modi et
temporis przfcntis. Nam hzc non cft uera
Czfar fuit,nifi quia aliqii fuit uerum
dicere Czfar cft» Sifr* hzc non cft
uera.Eclipfis crir,nifi quia aliqh erit
uerum dicc rcrcclipfis eft. Quoniam igitur
folum uerbu redum,»i»mo- di indicatiui
przlenns temporis facit per se ipfum propofitionem veram et
falfam, et sola propofitio indicativa pinis temporis facit syllogifmum dcmonftrariuum
.i.fcicntialcm ut tibi declarabitur in rrac. De syllogismo demonftratiuo,
ir dignatur logicus recipere a grammatico solum verbum indicatiuum praesentis temporis,
et przcipucfum, es, cft:quo niaminipfum ut dicemus
refoluuntur omnia uerba dida adiediua.Excremoru
uilitiuus ut in hoc diftinguatur a nomine et
pronomine fumpto loco nominis, nam illa
funt ucl
poffunt elTc extrema in propofirione,ideft
fiibiedum et pdf catum, verbum autem non, fed
habet unire extrema. Unde dicitur apud logicum
copula, qm copulat przdicatum cum fubiedo. Item
in hoc diftinguitur a participio, q» licec
significet cum tempore ut uerbum
tn non poteft effe copula, nec facit g
feipfum oronem perfedam, dicendo fortes Ic gens,
sed cft necefle fubintelligerc
uerbum» Verbi gratia foftcs eft legens, ucl
fortes leges eft ftudiofus. Conftac igiC quid
fic uerbum apud logicum, & quare folum
uerbum i e- dum. i. quod no deriuai ab
aliquo priori: quale est uerbum lotum indicatriui modi
tgis prxfcntis,vnocrctur dici abfolute uerbum. Reliqua aut tga; & modi
dicantur obliqui fiue cafus uerbi refti,
quoniam defcendunr, & deriuatur ab eo. Quotuplex
auc fit verbum apud logicfi, non est immora
dum ex quo solum ucrbu rciftum moeref apud ipsum dici
nierbum ex rone ia di&a. Sed apud gramaticu
ideo est multiplex verbum, ut
patet in coniugationibus verborum, et
I regulis fiiis, quoniam non attendit ad formadum propone
veram aut falsam sed congruam, et uitare incongruam et
quoniam per oes tgis drias, & oes modos
uerborum for mari por, et alio modo g
uerbum aftiuum, aIio modo g paf fiuum
&c.ideo apudgramaticum uerbum mulcipfr
diuidic. Nam
gramaticus concedit iftaurpocecongruazho eafinus
f| negat logicus, ut falfam. Hxc de. 2. cap
dida fmt, Quid fit et quotuplex fic oro
apud logicu. IN tertio cap. poftqua actum est de partibus oronis
age» dum est de ipsa orone
ut de toto conftitutot cuius praecognitio ideo nccciraria est
quoniam feire non possumus qd fit enunciatio et propo, ut tibi
manifeftabitur infra, nifi pus notum fuerit quid, et quotuplex fit
oro. Hic igitur tria age da funt, primo quid fit, secundo quotuplex sfit
tertio qua orationis species sit propofitio.
Quantum ad primum aducrtcip ad mentem Aristotelis oratio in
voce et in scripto, fic definiri debet, Oratio eft terminus per se significatiuus complexus ad placitum,
cuius partes separatx aliquid sfignificant. Primo dicitur eft ter g
le significa rone, qua didum eft de
nole et uerbo et ponitur loco generis,
quoniam eoior e. Nam ols oro eft
terminus per se significatiuus : fed non ccd
uerfo. Difhim eft enim cp nomen et verbum
funt termini per se significatini, non tamen sunt oratio.
Secundo dicitur complexas ad
differentiam hominis et uerbi, quo nullum fiuc
fimplcx, fiuc copoficil, e termiiim complexus. Quid autem
fit terminus complexus nide in diuifione
decima {terminorum , et illic inucnics
quomodo proprie conuenic oration. Tertio dicitur
ad placirum, ad differentiam ofonis mentalis, qux significat
conceptum mentalem complexum, qui conceptus
lignificat naturalr, sicut diximus de nomine et
uerbo mentali – in anima. Praeterea, oro in uoce, et
in scripto significet ad placitum, probatur fic. Partcs
fux. f. nomen, et uerbum significat ad placitum,
ut docuimus in cap. prxccdentJ ergo et ipsum
totum confoturum ex eis, quod cft oratio. IV
di cuius partes feparatx aliquid significat,
id ponitur ad differentiam nominis & uerbi, quorum
partes, uc docuimus in eorum definitionibus, non fignificat aliquid fc
parate, modo quo illic expofuimus, partes aute ofonis fune termini
caregorematici, intclligendo de partibus principalibus ficut intendit Arift. Si non de partibus
secundariis, quae polfiint eife propones aduerbia etc.
Termini autem catcgo rematici tam in oronc,
q extra retinent fuum lignatum, ut docuimus
in diuifione tertia terminorum. Vn fi
fiat hxc oro, “homo albus currit”, ho extra
hanc oronem fignat aial ronale, ficut et in
oronc, & albus significat habens albedine.
Tu tamen aduerte cp licet fit commune omni orationi haberepartes qux separatx aliquid significant,
non tamen id fit uno modo i omni oronc,
nam fi oro fit fine uerbo, ut ho
nio albus, partes fux aliquid significant
modo, quo significat dictio. Si afit fiat oro
fimplex per uerbum, uc “homo est animal,” partes fux separatx eodem modo significant.
fut didio. Si aurem fiat oro subiuctiva,
ut si veneris ad me dabo tibi equum, partes lux funt dux ofones ut patet.
Unde si separentur, significabunt non ut diftio, sed ut ofo.
Vcrura quia refoluitur m duas orationes, et dux orationes in
terminos componentes, ur ego dabo, tibi equum, ideo commune est omni
orationi quod partes fux separatx aliquid significent, aut ut dictio, aut ut
oratio. Sed dices. Quare in hac definitione non apponitur finitus et rectus,
sicut in definitione nominis et verbi, prxeipue a quia dictum
eft q nomen infinitum nori potest esse fubiecti nec praedicatum,
nec verbuni infinitum potest cflc copula,
fimiliccr nec nomen obliquum nec uerbuni
obliquum. Reipondetur quod ideo non opponitur,
quia in definitione non debent poni nili
quae conucniunt omni contento fub definito, non omnis
autem oratio formatur ex nominee et verbo finito, & redo. Nam haec eft oratio,
non homo currit et haec, Catonis est legere, et
haec, homo currct. Qn aut diximus quod nomen
infinitum et obliquum non poflimt ee subicdum, no fumus locuti de orone sed de propositione,
qm sola oratio indicatiua praetentis teporis
ut dicemus eft propofitio. Qm igitur aliqua orario
poteft coponi ex nomine iufinito, et obliquo, fitr ex uerbo, et
aliqua non, puta propo firio,idco non
dicitur redus neque finitus, fed abftrahit ab
utroque. Conftat igitur quid fit orario apud
logicum, Quantum ad fecundum aduerte, quod apud
logicum oratio prima diuifione diuiditur in
orationem perfedam et imperfe&ani,
deinde utruncp diuifionis membrum fubdiuiditur,
nidebis infra. Oratio perfeda est illa quae perfedum sensum gencraf in animo audietis,
id eft quod audita quietat, quo ad significatum intentum a
PROFERENTE (“utterer”) uel feribente, animum auditoris,
Verbi gratia. Socrates intendit notificarc Platoni
ftatfl regis, et dicit. Rex ualet fortis in
bello contra hoftes,
Hac ratione audita quiefeir animus audientis. Quod fi dicar.
Rex contra inimicos, et non ultra procedat, imperfedum fenfum generat in animo audientis,
id eft non quierat ipfum ideo dicitur oratio imperfeda. Nam audiens rex contra inimicos,
ultra non proceditur, dubitare incipit uti£
prae ualeat, an fuccumbat contra inimicos
fuos, patet igitur ora tionis prima
diuifio apud logicum. Oratio perfefta
continet quinque species, quae funt indicatiua
temporis praetentis, &
omnium temporum modi in dicatiui, ut “Petrus
amat”, amabat amauit, amaucrat, amabit imperativa, ut “fac
ignem”, deprecativa , ut “Ora deum pro me”. optativa,
ut – “ut inam te videam doctum”. coniunctiva. ut “fi
ucncris ad mc, honorabo te”. Omnes iste dicuntur pcrfic
auditae quierant ANIMUM AUDIENTIS quo ad earum significatum,
nec ipsum suspensum tenent. Tu tamen
aduertc, quod imperantia, et dcprecativa non dit fefunt
penes modum nec tps verbi, sed penes
appofitos respectus. Nam utracp fit per modu imperativum,
sed deprecativa fir proprie ad superiorem, imperatiua
aOt ad inferio rem. Item aduerte quod coniunftitia ad hoc q»
fit oro perfecta oportet, ur coplcfiatur duas orones, aliter no quierat animfi audientis,
ut parer, reliquae uero spes per unicam ofonem quictant audientem,
ideo per feipfas funt perfectx. Oratio
autem imperfeda tres cotiner species secunduqs tribus modis poteft formari. Nam formatur per nome fubftatiuum cum adiecfiiuo,
ut “homo albus” “animal risibile”. vel
per duo sobftantiua per appositione, ut
animal homo, deus pater, Deus filius. Et hacc
eft prima species et formatur per foliim
infiniriun, ut fortem currere. Si autem apponatur fum,
es, eft, cum termino modali cricpcrfectarut forte currere
eft posfibile. i t haec eft fecunda species, et
formatur per verbum Jcipir, et definit, ut fortes incipit,
fortes definit.
Siautem apponatur ifinfriuum efficitur perfecta,
ut fortes incipit conualefcere, fortes definit
fcriberc, et hoc est ter tia species. Item aduerte <y oratio perfecta
poteft fieri per unicum nomen, tielunicum ucfbum,
et maxime quando sic responsiva interrogative
Vt fi qtiis a te petat. Quis uenit do rnum?& RESPONDEAS,
Petus, Vel sic, nunquid fortes uenit? Et RESPONDEAT: “Venit.” Confiat igitur
quo dividenda sit oratio apud logicum.
Quantum ad tertium aduerte quod sola
orario indicativa est pmo et per
(e propofitio. Dico pmo et per se qm
alie species non fiunt propofitio, nifi
reducantur ad indicatiuam. Vnde ifta: “Si homo volaret,
haberet alas”, non est propositio, nisi reducatur in istam:
“si homo volat, habet alas.” Et indicari u •
prxreriti aut futuri temporis, non est
propolitio nifi reducatur ad indicatiuam
praefenris temporis. Nam ifta: “Ad a fuit, ideo
eft^iera, quia Aquando fuit verum dicere.” Adam est
sciliccc quando Adam cxiftcbar. Ratio autem propter quam apud logicum sola
oratio indicativa est primo et per se propositio, est, quia intentum logici eft
uti oratione ad investigandum verum etfalsum, ergo cam proprie recipit, quae
secundum fe significat verum et falsum, et hoc est
indicativa. Nam alis potius
deferuiunt affectui mentis qua quod sint ordinatae ad enunciandum verum et
falsum conceptum animi aut intellectus. Quod pacet hinc. Imperativa indicat
voluntatem superioris per imperium, optativa indicat desiderium sive
affectum optantis. Praedicatiuc indicat affectum inferioris erga fuperiorem per
supplicationcm. Coninndiua autem licet uideatur exprimere uerum aut
falsum conceptum mentis, non tamen determinate, fed fufpc fuic, est enim conditionalis
quae ut dicemus in cap. de hypotheticis nihil
ponit in ede. Indicativa autem dcterm.nate di cic
verum aut falsum. Nam hxc eft determinate vera, homo est animal, et haec
determinate falsa homo est lapis, ideo. sola'm ceretur dici japofitio.
Proponicur enim imelledui ut per eam formet syllogismum,
et per syllogismum deueniat in ucram conclufionis
nociciam. Conflat igitur quae orationis perfeda species mcerctur logice
dicipropofitio. Unde aduerte, quod logicus non tantum magni facit oronem
congruam et ornaram, quantum veram, ita etiam fi
eflfct incongruam et inornata, modo uerii et falfum cnuncict,
accepta eft apud logicum, ppterea logicus acceptat
iftam, deus feruitur ab hole licet cam reprober
grammaticus negans feruior inueniri pasfiuum. Hoc de prxfcnti cap.dida
fine. OlnUli/ Si logico fufficiunt dux
orationis partes scilicet nomen re» verbnm redum.
Caput quartum. IN cap. quarto inueftigadum
eft fi dux orationis partes fciliccc
nomen & uerbum redum fufficiunt logico. Tu
igitur aduerte , quod logicus rationabiliter
reripjt tantum duas, ut fibi neccflarias,grammaricus,
autem odo Ratio uero djfferenrix est hxc. Logicus
et grammaticus dififerunt fine. Intendit enim
logicus fcire, difcerocrc ucrum a falfo, grammaticus
autem intendit fcire difccrncre congruum sermonem
ab incongruo. Ad confequendum primum fufficiunt
nomen & uerbum , quoniam fufticiuncad componendum
.ppofirfone, quae eft significans verum uel falfum, ut
tibi manifeftabiturin trac. lequeti ad
formandi! congruum sermonem, et diftinguendum ab
incongruo no sii Hiciunt nomen et uerbum, sed
oportet uti praepoficiqnibus, et aduerbiis et coniunftionibns,
S(c. Et
ideo ut grammaticus
habeat omnem modum formandi SERMONEM congruum, nccc sTarix
funt fibi plures partes orariois, quam
nomen rectum et verbum rectum. Et qm ifte dux fibi sufficiunt, ideo
appellat eas categorcmaricas, id est per se significatiavs, alias autem
syncategorcmaticas, id est simulsignificativas. Quis autem fit terminus
categoricus et syncategoricus
diximus in divisone tertia terminorum. Sed dices.
Logicus indiget pronomine demonftratiuo, ut quando dcfcendic
sub subiecto propositionis univerfalis affirmatiue uel
negatiue dicendo, omnis homo cft animal, cf
et “hic homo est animal”, et hic est
animal etc. Item iniget participio, ut dicemus
in trac.fequenti, quando rcfoluit propofitioncm falsam
de uerbo adicdiuo in fuum parti
cipiurn & Ium es eft, ut fortes currit,
fortes eft currens, ergo faltem quatuor
partes orationis funt ei ncccftariae. f.nomcn et
pronomcn, uerbum, et participium. Refponderur nomen et pronome
apud logicum funt, uC una pars, qm utitur
pronomine loco nominis, et participii! ftar cum nominee et uerbo.
Cum nomine quide, qm poteft efte fubiedum
propofitionis ficut et nomen, ut legens currit, et stat
cum uerbo, qm fignificat cG tepore, ut docuirmrt fupra, et
ideo apud logicum identificanrur nomini et uerbo
licet apud grammaticum remaneant diftinfte. Conflat igitur cp
fint partes orationis necclfariae dialectico ad
formanda propofitioncm et ex propofitionibus syllogifmum. Hoc dc
prxfcnti cap.dida fint. Explicit rradatus secundus copcndii logices
peripateticat ordinatus per authorem et fuit de partibus propofitionis. Incipit
QVT eft de propofitione et speciebm cius. Nhoc tertio tracta, agendum est de
propofitione, gratia cuius praemifimus tradatum praecederem, in quo a&uin
est de partibus eius, et de genere per quod definienda eft, et hoc eft oro ut
tibi manifcftabitur. Diuidemus autem
ipfumin fex capita. Primo agendum eft de propofitione definitiue & diuifiuc
prima diuifione. Secundo agendum est de categorica simplici et de olbus eius
diuifionibus. Tertio agendum eft de, pp6ne hypothetica et eius spebus. Quarto
agendum est de propone categorica modali. Quinto agendum eft de
aequipollentiis propofitionum categoricarum fimplicjuni, qux funt oppofitx
contrarix, fubcontrariae, conrradiftoriae, et subaltcrnx. Sesto
agendum eft de aequipollentiis modalium
oppofitaif. De ppone, quid fit et cius prima
diuifione. In primo capitulo agendum eft
de propofitione quid fit & quotuplex in genere sive
prima diuifione. QuStum ad definitionem aduerte, <y sic
definitur de me te Aristotelis. Propofitio eft oratio
uerum uel falfum significans indicando. Primo
dicitur oratio, loco generis, eft enim in plus oratio
quam propositio: dictum est enim in
tract. praecedenri, oratio perfcfta diftinguitur in
quinque species, ex quibus sola INDICATIVI MODI est propofitio, ergo
omnis propofitio est oratio perfecta, sed non econuerso, ex consequenti est
genus propositionis, propofitio autem est species orationis jjcrfe&c. Sicut
animal est genus hominis, homo autem est species animalis. Nam omnis homo est
animal, sed non econuerfo. Secundo dicitur verum vel falsum
fignificans, pro cuius notitia aducrte, cp cum proponum alia iit
affirmatiua, alia negatiua, ut declarabimus infra. Significare ucr u in
affirmatiua est significarc rem sicut est.Verbi
Gratia haec est ucra, homo est rationalis, quia
fic eft ex parte rei. Vnde hoicm
e(fe fonalem cft ucrum Significare uerumin negatiua eft fignificare
rem ficut non eft. Verbi Gratia haec eft ucra –
“Homo non est asinus”, quia fic eft in re.
Vnde hominem non esse assimum est verum. Significare falsum in propone affirmativa
est significarc rem aliter q fic.V.G. hzc est
falsa, “Homo est lapis”, qih significat hominem esse lapidem, et tamen aliter
eft. Significare falsum in propone negatiua, eft non significarc rem sicut
cft.V.G.hatc eft fal(a, homo non cft animal,
quia non figni fjcac ficut eft. Nam homo
eft animal, ergo fallinn eft ipluin non
efte animal. Dicitur ergo in
diffone, uerum uel falfum. fignificans ad differentiam oronum imperfectarum,
ut homo albus, afinus rudibilis, et oratio infinitiua,ut
fortem cur rcrc, et oratio famularis, ut Socrates incipir,
nifi.n.aliudadda tur, non solum non quierant animum audientis,
fed nec dicut aliquid devero aur
falfo nifi copleantur per aliud. V.G*
Si ly homo albus addatur homo eft
albus.Si ly fortem currere addatur, est verum vel possibile vel contingens.
Si ly fortes incipit addatur,
e(Te bonus. Conftat ergo g
fc funi ptz nihil dicunt de vero aut falso.
III dicitur indicando quod dupliciter exponitur, primo fic,
indicando, id est est oratio modi indicatiui verum vel falsum significans.
Vnde alii definiunt propositionem dicen te$, quod propositio est oratio
indicatiua verum vel falsum significans. Et id ponitur ad differentiam
orationum perferarum quae fiunt per alios modos, per imperativum, optativum,
et cetera. Nam ifte ut docuimus in trac przcedcnti in capi
trrtio potius dclcniiunt nobis ad manifestandum
affectum mentis, quam verum aut falsum conceptum intellectus Orationes etiam modi indicativi temporis prztcriti
& futuri % non significat primo et per se verum
et falsum, nisi reducantur ad unam temporis przfentis indicativi ut in eode
loco docuimus. Sola ergo oro indicativa temporis praelcntis moe-retur dici
propo, quia sola lufficit ad formidum syllogitmu aliae autem non,
iuli reducantur ad illam: ut tibi mamfcftii erit
in trac. de syllogifmo formali:
iccudo ab aliquibus exponitur ly indicando.i. aflercndo.Verum
id non vf convenire omni propositioniilcd
tantum propolicioni in materis naturali, quae necessario est vera,
et in materia remota,
quae de necessitate est falsa. In materia autem contingenti cum possit elle vera
et falsa, non pot dici afiertiue fea opinatiuc quod significet verum aut falsum,
ideo melius est ftarc in p ma expone,
quae etiam est de mente Aristotele in. i. peri hermeneias.
Quid aut fit & quo fiat propo in materia naturali sc contingente et
remota dicemus infra in hoc met. tradtatu.
Con^ itat igitur quid fit propofitio apud
logicum. Quantum ad primam diuilioncm
proponis aduerteqj ad metem Aristotelis in primo periher.
dividitur primo in categorica et hypothcetica, dicil categorica
gratee predicatiua latine, categorizo enim graccc et
praedico latine. De hypothetica graece, SUPPOSITIVA latine,
est enim graece ‘hypo’, “sub” latine, et “thesis” graecc,
“position” latine. Ratio autem divifionis est haec,
quia omnis propofitio significat verum aut falsum, et
eft quid compositum et omne compofitum cft refolubi
Ic in lua immediate componentia. V
el ergo propositio componitur ex terminis immediate,
et in eos relolujtur immediate non in aliud immediate.
Et sic est categorica, quae coponitur immediate ex subiecto et
praedicato et copula, modo, quo dicemus infra.V el
coponit I mediate ex duabus oronibus per
aliq coiudione puta ergo, fi, et uel, et imediate
in eas rcfoluit, et ille imediate i terminos, et
fic eft hypo thctica, ut dicemus in ca.III
huius tradatus. Catcgorica pero dividitur in simplicem et
modalem. Simplex est in qua praedicatum fimpfir dicitur de subiedo – ut: “Homo
est animal.” Modalis est in qua praedicatum dr de subiecto non simpflr sed cum modo et
determinatione, -- ut: “Homo est animal necessario”, “Homo est
albus contingenter.” Et de modali agemus
in cap.IV huius trac.Hsc de primo cap. dicta
fint. Dc propositione categorica et omnibus cius divisiombus.
In II cap. investigandum est, quid fir propositio categorica et
quot fint cius divisiones, et de singulis agendu est excepta modali,
de qua agemus loco luo, primo igitur definiemus
eam, deiiide accedemus ad divisiones. Quantum ad definitionem aduerte,
quod ad mentem Aristoteles sic definitur Propositio categorica est propositio
j qux habet subjectum praedicatum et copulam taquam
principia es partes fui. Ponitur
propositio loco generis. Omnis enim popositio categorica, est propositio, sed
non e converso. Nam et hypothetica est propositio, et tame
non est categorica. Dicitur quae habet subiedum
et cetera. hoc totum ponitur ad differentiam
hypotheticae, cuius partes principales sunt dux orationes,
in quas immediate refoluiturtut patet in jfta. “SI
tu curris, tu moveris” -- principales
partes et immeoiarxnon sunt termini,
sed iftx dux orationes: “tu curris” (p), et “tu moueris”
(q). prim autem et niediatx sunt termini ex
quibus hxc orario componitur, “tu curris”, et haec, “tu moveris”.
Dicitur igitur quod
principales partes categoricx non funr orationes,
sed termini, ex quibus immediate componitur,
quorum unum est subiectum, alterum praedicatum,
alterum copulat -- ut -- “homo est animal” – “homo”
est subjectum, “animal” praedicatum, “est” copula,
coniungit enim praedicatum cum fubiecto. Sed aduerre: ut fcias quomodo in omni categorica est subiedum copula et
praedicatum, quod sit tribus modis, p„ mo per verbum fum, es, est, de tertio adiacente
. Est autem categorica de tertio adjacente quando post fum,
apponitur alius terminus – ut: “Fortes est animal.”
In hac constat de subiecto et praedicato et
copula, secundo sit per verbum adiedi-uum. Est autem apud logicum omne verbum adiediuum, praeter lum,
es, est, in quod relbluitur omne verbum adiediuum etinlitum
participiumtut fortes currit fic reloluit. “Socrates est currens”. “Socrates”
est subiectum, “currens” praedicatu “est” copula,
tertio sit per verbum sum, es, est, de secundo adiacente. Est autem categorica de secundo adjacente,
qn poftum, es, est, alius ccrminus no fcquit –ut: “Deus
est” -- coelu est et in hac est
allignarc tubum praedicatu et copula, alio mo q
in praedicis, afljgnat auceduplV , pmofic, deus est. i.
deus est habes cire, “deus” est fubum,
habes esse est pdicatu, est copula, se cudo
fic Deus cft d. deus cft exiftes. Dens est SUBJECTUM
EXISTENS praedicacum, “est” copula. Nonulli dicunt tp
in caregorica de fccudo adiaccntc, eft
gerit uicem copulat et prxdicaci, et id
uidetur innuere Aristoteles in pmo perihcr.ubi definient uerbum
inquit et est iemper eorum qux de altero praedica tur nota, ideft
uerbum semper se tenet a gte prxdicati. Con
fta: igitur quid fit propofitio categorica
iimplex. Sed dices quare magis dicitur categorica,
ideft prxdicatiua quam fubicdiua, cum tam
fubiettumq praedicatu fmc partes cns.
Prxtcrca quare terminus praecedens verbu fum cs, est,
dicitur fubiectum, subsequens autem dicitur
prxdica tum, et ipsum uerbum substantivum dicitur
copula. Refpondetur ad pmum, cp
oe copofitum denominandu eft a parte sua
digniori. Unde homo dicitur rationalis et
intellectualis ab anima intellectuali, qux dignior cft in eo qui
sensitiva et vegetativa. Prxditatu aute dignius eft fubicfto qm cftficut
forma, fubiectu vero sicut materia, et dicemus intra cp
talia funt fubiefta, qualia, permittutur a praedicatis.
Cogrucigicdicn categorica. i. praedicativa et no subiectina
Ad lecundu dfp ideo terminus praecedens verbum
de subiectum, quia de eo df prxdicacum ira
cp fubiicitur prxdica to, V ndc et gramarfeus
appellat ipm suppofitu. Terminus vero subseques verbu
df praedicacum, quia prxdicatur et df de altero.
i.dc fubiecto. Vnde apud gramaticum df appofi tum.
Et
aduerte q? totale subieftum est ois
terminus prxee dens copulam, fiue unus fiue
plures fint. V. G. “homo est animal”, homo eft
fubm, homo magnus et honoratus e pneeps in
ciuitarc, fubieftu funt oes illi termini
prxcedetes, pars au tem liibicCti quilibet
eorii. Ide intcllige ex parte prxdicati. Sed dices. Quarc
fubieftu & pdicatum per fe inuice
notifi eant sive definiunt, cu definitio
circularis uideatur. Inutilis Refpondetur quia
hntrefpedum ad inuice, fubiedtum. rtfpicit praedicatu
& praedicatum rcfpicit subiectum, ficut ft
lius rcCpicic patrem, et pater filium. Respediva aute conuenienter
per fe inuicem norificantur & definiuntur, qm
mutuam habent dcpcndentiam. Sedde hoc alrius
loqucmur in trac. de praedicabilibus, p
nunc fuftine tu iuuenis ne inuolua ris.
Conftat igitur tibi quid sit propofirio
catcgorica. Quantum ad cius diuifiones aduertc, ut
habeas plenam de cis notitiam, fic difponendae
funt. Propofitionum categoricarum, alia affirmativa, alia negatiav.
Secunda. Alia vera, alia falsa. Alia cuius quantitatis, alia
nullius. Alicuius quantitatis alia uniuersalis,
alia particularis, alia indefinita alia singularis. QuIta. Alix gticipacvrroc
prermio, aliae altero, aliae nullo.
Participantium urroqj termino, aliae participant
qtroqj termino eodem ordine, aliae ordine
conucrfo. Participantium utrocp termino siue eode ordine siuc
coverfo quxda formantur in materia naturali,
quaedam in materia contingenti, quaedam in materia
remota. Odaua. Participanrium utroqj termino
eodem ordine tam in materia naturali q in
materia contingenti et in materia remota quaedam sunt contrariae quaedam
subcotrariae, quaedam contradiftorix, quxdam fubalternx. Nona.
Participantiu utrocg termino ordine couerso et I n triplici materia (iuc
naturali fiue contingenti fiuc remota quxdam conuertuntur conuerfione fimplici,
quxdam converfione per accidens quxda couerfioneg contrapositione Omnes iftx
diuifiones dantur de, ppofitione catcgorica fimplici qux dicitur de inefle.i.in
qua prxdicatu simplicicci4 et fine determinatione facta g alique fex modo. sucrfi
falsum nccef Tariil cotingens, posfibile imposfibile, dicit de subiefto Quae
aut ex his diuifionibus coueniat et categoricati modali dicemus in cap.
quarto huius trac. De singulis aut divisionibus agedu cst
in spe et ordine, quo prxpofitx funt. Verum antedcfcedamus in spe^nl
aliqua prxdi et artMi diuiltonu datur de substantia, pponis, aliqua de
qualitate, aliqua dc qtitatc ut cibi declarabit infra, ideo ad viem notitia
diuifionu, quae fiet toto hoc noftro opere, ne funus coadi idem faepius
repetere, praeponendi fune omnes vfes modi, quibus folct
fieri diuifio. Tu igitur aduerte <y in doctrina
Aristotelis divisio fit quatuor modis generalibus.
Primo generis in Ipccics. Secundo totius
in partes. III vocis significata. IV diuisio secundum accidens. Divisio
gnis in spes, fit duobu modis pmo
gnis^n (pes (ut> alternas, ut qndiuiditeorpus
p alata et inaiatu, et aiatu per fenfitiuu St
no (cnfitiuu, fecundo gnis in spes spalissimas,
uc qii dividitur color per albedinem et nigrcdinem.
Et hac divisionem cognosces in trac. de praedicabilibus. Diuivio totius in gtes
fkqncp modis, pmo qntotu dividif in ptes fubicdiuas indiuiduales,
ut qn dividit ho in forte Pia Ioanne. Pecru, etc. Scdo qn totu dividitur in partes eflcntia
lcs, uc ens naturale compositu dividif in materia et
forma, sicut dividit homo in animam et corpus, III
qn dividitur totu co tinuuin partes suas intcgralcs, ut
domus in fundametum, tc» dii, et pariete, et
corpus animalis in partes, qufe sunt membra sua,
ex qbus integrat corpus, IV qn dividitur totu dito tinuu in partes fiias,
inter quas & fi no fit continuitas est
rame ordo et proportio. Hoc rao dividif EXERCITVS in
mtlitcs, cqtcs peditcs, 8(c. quinto qn diuidif totu poretialc fiue
poteftariufi in partes fuas poreftatiuas qn
diuiditur anima per potentias fuas & virtutes
fuas, ut tibi manifeftabitur i libro de anima,
et ifra manifestabimus tibi in libro de syllogismo Topico
Divisio uo cis in sua significata sit
tribus modis primo vocis univoce in significata
uniuoce, ut qn dividif ho in fortem et platone
etc, secundo vocis aequivoce in significata aequi-vocata,
-ut qn diuiditur “cancer” in ftclla fiue signum
ccelefte, et aquaticum aial, et morbum, III vocis
analogicae in significata analogata, ut qti
diuiditur “sanu”, iu alal (anu, urina lana,
medicinam sanam, cibum sanum, aercm sanum, excretum sanum, et
cetera Et hanc divifione cognofccs in trac. de pntis.; Divisio secudu
accidens sic tribus modis, primo subiefti in
accidentia, ut holum alius parvus, alitis magnus 1
alius albus, alius niger, alius medio
colore coloratus, (c3o accidentis!in subiecta, ut
accidentifi, qux funt m hoie, aliud in aia, ut seia,
aliud in corpore, ut agilitas etc. tertio
accidentis in accidentia, ut accidcntiu, quarda dura,
quaedam liquida, qnada lucida, quaedam tenebrosa, et
hxc divifio manifestabit tibi in philosophia naturali et
praecipue in libro de generatione. Ifti igitur sunt
iqodi univerfales famofiores apud Aristotelem,
quibus fieri confutuit divisio. Quantum ad
pmam divifionem, quac est per affirmatiua et negatiuam
aduerre, quod affirmatiua dupfr definitur, pmo fic, Categorica affirmatiua
eft. ppofirio in qua praedicatum affirmatur de subiefto:
-- ut: “Homo est albus”. Sed adverte cj» tuc
praedicatu affirmatur de subiectc quando
negatio no p cedit copula, q? fi
praecedit negatio, negatur pdicatum de subiecto, et efficitur
negariva – ut hic “Socrates non est albus.” Si
au tem fiib fequitur no efficitur negatiua, sed permanet affirmatiua
,-- ut: “Homo est no albus”. Ire adverte
«p alio modo affirma! pdicatum de fubiecto
in affirmatiua uera & in falsa, na
in vera affirmatur re et uoce quia
fic eft in re, ficut dr, ut homo re & uoce est risibilis.
In falsa atite affirmatur uoce tm et non rc. Nam licet dicam
q» “Homo est asinus” tarhe non fic eft in re, secundo definitur fic.
Affirmatiua eft in qua verbum pncipale affirmatur de fubiedo, ut “Homo est animal.”
Dr in qua nerbum principale affirmatur ad differentiam uerbi secundarii qtiod
fi negattir uel affirmatur,
propter ipfum non fit propofitio affirmatiua
nec negatiua. Vnde ifta non eft negatiua. Socrates
qui non currit, mouetur, nec ifta eft affirmatiua,
“Socrates, qui currit, non movetur.” Nam In prima licet
uerbum secundarium, quod eft, currit, negetur, tamen
principale quod eft mouetur, affirmatur, ideo permanet
affirmatiua. In IccQda autem fit oppofito
modo, ideo permanet negatiava.
Et ratio huius est, quia ticrbii secundarium fe tenet
a parte subiecti, q3 paret refoluedo in fuu
participiu fiuc aftiuum fiue pasfiuu,ut hic. Sortes qui non currit, ideft. Socrates a9 non carrcns mouccur, Socrates
qui currit, id est Socrates curreni non mouerur: Subiectum autem coniunctum participio affirmatiuo negatiuo no
facit propositionem dic affirmatius ucl ncgariuam,
tcd negatio cadens fuper uerbum principale fiue immediate,
ut quando lubfequitur fubiedum, ut “homo non
est afinus”, sive mediate, ut “Non homo est
animal”, dum modo fumatur negatio negans, et no
infinitam terminum, cui opponitur, nam fi infinitarer,
non faceret negatiuam. Vnde lixc non
clt negative. “Non homo currit”,
qm ly non homo clt nomen infinitum, etc. Vnde non
homo curru, xquippollet ifti, afinus qui ft no homo
currit. Coftat aut hanc elfe affirmatiua
Patet igitur quid fit categorica aftirmatiua. Categorica negatiua dupliciter
definitur. Primo lic,
categorica negatiua eft propofitio in qua praedicatum negatur de luolubicfto,
auc ho non eft lapis. Secundo fic, eft propofirio in qua uerbum
principale negatur . Dicitur verbum principale ad differentiam verbi secundarii, quod ut docuimus
siue affirmetur sive negetur, non facit proposirionem
affir.aut nega. Et aduertc,quod propofitio poreft
fieri afflr. uel nega. dupliciter lcilicet explicitc et
IMPLICITE. Si explicite, fit per nomen et uerbum
indicariui modi, ut homo est risibilis. SIIMPLICITE potest fieri per
unicum terminu, ut quando dicimus, “homo est risibilis”,
et e converso, ly e converso aequippollet uni
propositioni, qux elf hxc, et risibile est homo. Item aduerte quod divisio per afflrmativam
et negativam non foium convenit categoricae
sed etiam hyporheti cac et moduli, quomodo autem fiat
hypothetica affirmativa et ne gar. similirer modal
s, dicemus agentes de eis. Nunc autem fuftine, ne
confundaris ut nouus auditor. Hxc de prima
diuifioncdi&afint» Quantum ad secundam diviisionem categorica:
fciliccc per veram et falsam, aduerte quod cartgorica vera, tam
affirmatiua quam negatiua dupliciter definitur. Primo fic, uera eft, qua: significat
uerum , id eft significar rem sicut eft, si est affirmatiua, vel
significat rem sicut non est, si est negatiua. Sed de hac latis
diximus in ca. pr scedenti in dedaranlo
definitionem propofkionis secundo autem fir defiintur. Vera
cft illa, cuius fignificatum primarium est verum. Significatum autem primarium
cft illud quod exprimitur p oro nem infinitiuam. Verbi gratia hxc eft ucra Deus
eft bonus qm deum clfc bonum, est verum. Sic.n. eft in re. Dico cuius primarium
significatum est uerum ad differentiam secunda rii. sccundarium
autem eft quod continetur in primario 8c fcquitur ad illud. Verbi gracia primarium huius,
homo est rationalis, eft eftc rationalem ad hoc autem fcquitur cfte
ani mal, clfe animatum, ede corpus efie
fubie&am. luxta
igitur significatum primarium et fccundarium indicanda
eft propofirio uera,qm cft ucra primo et
per fe ex eo, ex fccundario autem est tantum confequenrcr.
Nam bene sequitur qcf
“Si fortes est homo, fortes est animal.” sed
non ceonuerfb, ut declarabimus in trac. dc
confequentiis. Similiter falsa dupliciter definitur. Primo sic, falfi est
qux aliter significat quam fit in re, ut hxc cft
falsa, “Homo est ansinus”, quia significat hominem esse asinum,
et tamen aliter est rn re, quia in re no
est asinus, sed homo sive rationalis, et de
hac definitione iam di ximus in cap.
prxccdentiin definitione propositionis. Sccun do fic, falsa est illa cuius primarum
significatum est falsum. Verbi
gratia hxc est falsa “Homo est asinus”,
quia holem esse asinum est falsum, cu fic
ronalis, et asinus irratroalis. Quodfi fiereciudicium secundu SECVNDARIVM
SIGNIFICATVM (IMPLICATVRA), quod est dfe animal, effet vera.
Nam hxc est, vera homo est animal v non tamen sequitur,
ergo est afinns, ut declarabitur tibi in trac. De
consequentiis Hxc de fecunda diuifioncdiftafint, Quantum ad tertiam diuifionem
fcilicet quod aliqua eft alicuius qiiamicari$, aIiquanulliu$. Alicuius
quantitatis eft illa, cuius fubieftum ftat pro aliquo ucl pro aliquibus uel pro
omnibus uel pro nullo, ut declarabitur in diuifione sequenti. Nullius
quantitatis cft illa cuius fubicftum fufpcnditur a propria denoiationc, ronc,
pbationis termini prxcedetis ip Ium quails eft exclufiua cxceciua reduplicatiua,
de quaif , p- Satiqne a<fturi fumus in trac.de probationibus ter tuc.n.ap arebit tibi qflo ifte probatur no rone fubicfti,
uc , pbaf universalis particularis etc. sed
ronc figni fiuc fyncategdfcma ris,ut exclufiua g
tm, reduplicatiua g inqtum cxccpriua p p ter, etc. T uigr fuftine
donec exercitat0 magis fueris, et ad ji di&u erae dcuencrim9. Haec de tertia diui.,
p niic dida fint. Quantum ad quarta diui. f. quod proponum alicuius qtitatis alia eft vPis,
alja particula.alia indefi. alia fmg duo ageda
fut primo declarandum eft qflo hxc divisio est sufficiens, secundo pertradadum
est de quolibet eius membro. Quantum ad pmum aduerte quod qtitas
proponis atteditur penes fubm prout ftat, p
pluribus aut uno lolo. Pot igituf
cofiderari fubin dup Tr. Primo fi ftat pro uno folo. Secundo
fi pro pluribus fi pro uno (olo,
{ira cp uni (oli couenit facie ponem fingu. fi pro pluribus,
hoc dupfV, quia vel pro pluripus indeterminate vel determinate,
fi indeterminate fic fam cit, pp6nem indefi. fi determinare duplr quia hæc determinatio fubti vel sit per signum vle affirmatiuu vel
negativum, ut omnis nullus, et sic est propo ul’is,
uel fit per signum particulare affir- uel
nega et fic eft propo particularis Costat igit hxc divisio eft liifficiens.
Et fiquxras quid fic qtiras, pp6nis. Hkiideo quod ficut
Qtiras fubx proprie accipit iuxta mensuram
longitudinis, et latitudinis et , pfundicaris, fic quantitas ,
pp6nis (umit iuxta menfuram fubiedii, prout
uerificatur praedicative de uno uel plunbus. Conftat igitur quo hxc
diuifio eft sufficiens, et quid fit et unde fumitur
qtitas propofitiois. Quartum
ad secundum aduerte, quod propofitio uniucrfalis dupliciter
definiriH-. Primo fic, propositio viis tam affirmativa quam negativa est
illa, in qua fubiicitur ter. communis signo uniucrfali determinatus.
Prinio dicitur in qua fubiicitur terc6is. iponitur in fubie fto ter.cois.i.q por coucnire
et pdicari de pluribus, apud
gramaticum dr nomen appellatiuum -- ut “homo”, “capra”,
leo» Secundo dicitur figno uniucrfali
dctertninatus figna uni uer Talia (untquxdam affirmatiuaut omnis quilibet
quifcp, negatiua sunt, nullus, nihil, neuter , dicunt uniucrfalia quia
faciunt ftarc fubicdum pro olbus aut pro
fnullo ut ifta rft uniucrfalis affir. “Omnis homo
est animal”. Verificatur enim fubiedum pro quolibet homine in singulari.
Nam fi omni homo est ammal ergo et ifte, & iftc, &
ifte , & fic de omnibus alii eft animal. III dicitur
determinatus. i. modificatus fiue limitatus ad standum non ablolure , lcd
pro omnibus aut (p nullo-diximus.n in tertia
diuifionc tci minor u, quod signa ufia fune termini
lyncatcgorcmatici, qm fumpticum alio, id est cum nomine
lubftantiuo determinant ipliim in propofitione addandum pro omnibus
aut \ro nullo» Sed aduerte, quod signum
uniucrfale ad hoc quod faciat propofitionem
uniucrialem fimplicirer & proprie debet ap
poni fubiedo in redo et
explicite Nam fi apponitur
iiibic- do in obliquo, non facit eam universalem simpliciter,
sed secundum quid. Vndc ifta eu uflibet hominis afinus,
currit, non eft univerlsalis absolute, quoniam signum non apponitur
ly asinus, quodest principale subiectum, lcd ly hominis, quod quoniam est obliquus est secundarium
fiue parrialc fu bicdum. Unde pratdida propofitio absolute est indefinita,
ut tibi dcclarabitur. Dicitur explicire, quoniam
fi ponitur iplicire vel uirtualiter ucl cum
diftindione, non facit propositionem universalem forma)itcr,
sed tantum interpraetatiue» Sicut funr iftar,
totus fortes est minor forte, totum est in mundo est
in oculo meo. Non homo currir, etc. Quomodo
autem fint uniuerfales interpracatiuc declarabitur tibi
i trac. de probationibus terminorum, ubi diftinguemus de toto, et quo
ifta aequipoleat uniuerfali nega citi ac non homo currit declarabitur
tibi in cap. de acqujpolenriis catcgoricarum. Nuncautem fifio nete
inuoluam. Similiter aduerte, <y uniuerfalis affirniatiua poteft
fieri dupliciter, fex— licet collcdiue ut
omnes apostoli sunt duodecim, & diftributiue, ut
omnis homo eft rissibilis. Et iterum
diftributiue poteft fieri dupliciter, fcilicct abfolute et
accommode. Verum quomodo fiant et quo verificentur,dcdarabiturstibi
in rrac. de fuppofirionibus, pro nunc fuftinc
Haec de propofitione uniueriali dida fint. Propositio
particularis eft illa, in qua fubiicitur ter mi-
communis signo particulari determinatus.
Dicitur in qua tubiicitur ter communis,
ea ratione qua et
in propofitionc uniuerfali. De signo parti. determinatus,
ad differentiam proponis uniuerfalisz cft autem signum particulare
determinatio termini cois qui cft fubicdum in
hac propone, per quod designatur subiednm accipi non pro oibus sub
eo corcntis, sed pro aliquibus ucl pro aliquo:
ut quidam homo currit ergo vel iste vel ille,
ucl ille currit: et fufficit quod verificetur, p aliquo pofito quod tantum unus currat. Er
aduerte, quod propofirio particularis poteft fieri mul Cis modis.
I quando subiectum est ter. cois cum signo particulari tam affirmatiue quam negatiue
: ut: “Quidam homo currrit,” “Quidam homo non currit.” II per ly aliqd fumptum adieftiuc:ur
aliquid eft I manu tua. Haec est particularis virtualiter,
quoniam ly aliquid sic exponitur aliqua res est I
manu tua. Dico fumptum adjeftiue quoniam sumptum subftantiue facit
propofitionem indefinitam ut dicemus. III quando fubiicitur ter.
cois cum signo universali, sed signo
pratponitur ncgario: ut: “No omnis homo currit”, haec
enim aequipollet huic, “Quidam homo non currit.” IV quando
fubiicitur termi.cois cum signo universali affirmarivo,
sed praeponitur negatio et poft ponitur: ur hic, “Non omnis homo non currit”,
arquipollet enim huic, “Quidam homo currit.” Sed tertium et quartum
modum declarabimus fic effe in cap. de æquipollentiis categoricarum.
Haec de propositione particulari deffifinr.
Propositio indefinita est illa in qua subiicitur terminus communis, nullo signo
universali vel particulari determina rus: ut: “Homo currit.” I dicitur in qua
fubiicitur termi. communis eadem ratione, qua diifhim est in definition
propofirionis universalis et particularis. II dicitur nullo
signo ad differentiam propofirionis universalis et particularis. III
dicitur nullo figno uniuerfali vel particulari ad
differentiam cxdufiue,in qua ponitur signum:
cantum, et in reduplicativa, inquantum, qua: signa
quoniam non tunc uniuersalia, ncc particularia, ideo non
faciunt propofitione alicuius quantitates. Sed dices,
quare dr indefinita, cum aequipollcat particulari. Na ide fenlus
est dicere, aliqs homo currit, et homo currit. Rndetur, dr indefinita. i. indeterminata,
quia acceptio fu? subicecto non determinatur ad certam quantitatem secundu modum enuntiandi per
signum universale vel particulare: licet supponat subiectum
determinat ciut dicemus in tract. de suppositionibus: et quando dicitur idem fenlus
est dicere: “Quidam homo currit” et “Homo currit”,
conceditur quo ad luppoticioncm et verificationem, sed
non conceditur quo ad modum enunciandi, et sic
intendimus ipsam esse indefinitam et
non quo ad verificationem et i suppoficionem. Sed, p nunc liiftinc,
donec trademus de suppositionibus. Hæc de propositione indefinita difta sineproposirio
singularis eft illa in qua fubiicitur terminus ai fcrccus vel termi. communis
cum pronomine demonftrati primiriuc speciei, ut Plato currit.
Iftc homo comedit. U le “Homo dormit.” I dicitur in qua
fubiicitur ter . discretus, ad differens
Ciani propoficionis universalis etparticular &
indefinitae, in quibus fubiicitur ter.
cois opponitur aute ter dilcretus ter. .coi,
quoniam di fererus deunofolo est aptus praedicario
C grammaticus appellat “nomen proprium” (MARCO)
q? uni
loli conue-r nit, ut: “Plato.” Cois autem eft
aptus de pluribus praedicari, ut homo et animal, et
grammaticus uocatipfum nomen appellatiuum, quod pluribus conuenit. Secundo
vel termi communis cum pronomine demon ftratiuo.
Nam licet termi. communis de feftet pro pluribus
camenper pronomen demonstratiuum reftringitur ad ftan dum pro uno solo indiuiduo,
ideo atquipolletter. difcretcL Vnde ifta propofitio:
hic homo currit, dcmonstrato Socrates; scquipollct ifti.
“Socrates currit.” III dicitur
primitius specic, ad differentiam pronominum deriuatiux fpccici.
Sunc aucem pronomina demostratiua primitivx speciei ergo,
tu, liii, ille, ipfe, ifte, hic, & is. Derivative autem lunc meus,
tuus, suus, noster,. uciltr, nostras, ucftras. ldeo autem e
a, quae iiint primatiux speciei co flituunt
propositioncm singulare qm trahunt lubictf uni ad fajpponcndum
pro unosolo, ut iste homo demostrato forte currit, et ego.
f Petrus curro, et tu. I Piato curris. Ea vero qua sunt derivative lpei,
ut meus, tuus, non confticuunr , p- pofuioncm singularem,
non n. rcftringunt fubm, cui apponutur ad statum uno
io lo, fed pot ucrifkari de pluribus. Verbi gratia,
“Petrus het X asinos”, et dicit meus aiinuscur
rit, ly asinus no stat pro isto tm, ucl pro illo
tm sed # oibus difiuftiux. Nam si meus asinus currit,
et habeo X, ergo uclifte, ueljfte qui est meus currit. Pronomina auc demonstratiua primitiux
spei reftringur tcr.coem ad ftadu, p uno solo
demonstrato, ut ego. f. Petrus scribo,Tu vero. l. Plato dormis. Constat
igitur quid sit propositio sngularis. Tu tame
aducrte,quod no Loluni pot fieri per
ter. dilcre tum, & per tcr.coem cum pronomine demonstrativo
primi tiux speciei, sed et per tcr.r clariuum ,
ut pofito quod lo phronifcus habet tantu unum filium, cuius nomen ignoretur,
ftdico Sophronifci filius studet Papix, est singularis,
propositio similiter si dico. Pater Calix venir, e singularis,
quo uiam ifti ter.relatiui xquipollcnt termini dilcretis.Irem
potcft fieri per rer dilcrctum circumlocutum, ut
fi dico. Vir cri Ipus rubeus, et claudus
cantat in platea. Iftc enim circunsta tix
manifeliant talem hominem et non alium,
ideo reddut propositionem singularem. patet igitur quid sit propositio slingularis et
quod modis fieri contingit. Item aducrte, quod si quis te interrogat de
substantia fitie natura propositionis, dicendo. Qux propositio estifta.
“Socrates est homo”, respondere habes,
categorica et qux est ista. “Si tu curris,
tu moveris,” respoderc habes “hypothetica” vel CONDITIONALIS
(sincategoremata subordinans ‘se’). Si au ecm quis te
interrogat de QVALITATE propositionis dicendo. Qualis est
ista “Fortes currit,” respondere habet affirmatiua, et
Qualis est ista, “Homo non eft asinus,” respondendum
est, negatiua. Si ucro
quis te interrogat de QVANTITATE propositionis
di Ccndo. Quanra est
ista; OMNIS homo currit, respondendum est, universalis,
et sic de aliis. Vnde logici pro hoc triplici quæstio
formaucrunr hunc ucrfum. Quac.ca.uel ip.qualis. ne.
uel af.v. quanta.par.in fin i. Quae categorica, vel
hyporetica vel conditionalis, o suppositio (hypo-thesis). Qualis, negatiua, vel
affirmatiua. V «quanta. i.universalis vel particularis
indefinita vel singularis. Sed dices. Quae est subftantia propofitionis,
et quae cius quantitas, et quz eius qualitas. Respodetur
fuba cft cius natura sive essentia, puta
qft sit quid co in positum ex talibus partibus.
f. ex subiecto prædicato et copula ut catcgorica:
ucl ex duabus oronibus p aliquam coniundionem
coniundis: ut: “SI tu curris, tu moveris,” ut hypothetica
vel suppositio vel conditionalis. QuStitaseius est extensio subiecti ad
standu pro uno vel aliquibus uel omnibus uel nullis. Qualitas eius
est secundum quam dicitur qualismt affirmatio,
negatio, veritas, falsitas, necessitas, contingentia, possibilitas, impossibilitas.
Nam omnia ista qualificant propositionem. Unde interroganti
qualis sit ista, “Homo est animal”, respondcre
debemus, quod rft affirmatiua ucramon solum possibilis sed etia NECESSARIA
[ANALYTICA – Grice/Strawson] Quarum ad V divisionem, quae est hac, proponu
categoricarum, quaedam participant utroqj termino, quaedam altero,
quaedam nullo, adverte, quod cum termini componcnrcs categoricam sint subiednm et
prædicatum: quae Ctjam dicuntur extrema propositionis, parridparc
termino vel terminis, est conuenirc in subiecto vel in prædicato, vel in
utroque. Non participare autem est non convenire.
His prxnv.sfis adverte, quod duas catcgoricas participare utroque
termino, est eas convenire in subiecto et
praedicato, ita subiectvm prima est subiectvm secundae et prædicatum
primae est prædicatum secundæ, nec in alio differunt nili quod una est
affirmatiua, altera negativa, ut sunt istae duae, “Homo est animal”,
“Homo non est anima”l, participare in altero
termino tantum scilicet vel solum in subiecto,
ut hic: “Homo est animal”, “Homo est rationalis”,
vel in prædicaroratum ut hic: “Homo est animal,” “Asinus est animal.” Participare
nullo termino, est non convenire io subiecto nec in prædicato, ut
hic, “Homo est risibilis,” “Asinus est risibilis.” Et adverte quod hic
loquimur de participatione formali virtuali, quod dico, quoniam licet istae
duae conveniant virtualiter: “Homo est animal,” “Risibile est animal”, non
tamen formalitcr, quoniam formaliter non sunt idem “Homo et risibile:,
dato quod essent idem re, quod tamen non
conceditur in via thomistica (AQUINO (si veda)). Iterum adverte,
quod hæc divisio data est, ut cognoscatur oppositio
contraria, subcontraria, contradidoria, subalterna propositionu categoricarum
de quibus aduri lumus infra. Namilla fupponit participationem, proositionum
oppositarum urroqj termino formaliter et non solum virtualiter ut tibi
declarabitur in divisione odaua. Quantum ad divisionem lextarn, quae est
quod, proposition5' categoricarum participantium utrocg termino
formaliter, quaedam participant utroq? termino eodem ordine,
quaeda ordine converso. Adverte igitur quod
duas categoricas participare eodem ordine
utrocp termino, est sic, quod est subiectum in prima est subiectum in
secunda et quod est prædicatum in prima est prædicatum in secunda, ut hic.
“Socrates est homo”. “Socrates non est homo”, et semper
intelligedum est formaliter et non virtualiter tantuin. Duas autem categoricas participare utrocp termino ordine converso, est
sic, quod est subiedum in prima est
praedicatum in fecunda, et quod est praedicatum in prima eft
subiectum insecunda, ut hic: “Homo est animal rationale,” “Animal rationale est homo.”
Et hæc divisio deferuiet quando loquemur de conversionibus propositionum categoricarum,
ut tibi manifestabitur. Quantum ad VII
diuifionem, quae est haec. Propositionum participantium vtrocg
termino sive eodem ordine sive converso quaedam siunt in materia naturali,
quardam contingenti, quædam in remota, adverte, qnllat siunt in mareria naturali in quibus
prædicatum semper et infcpai abii:ter convenit subiecto,
et id sit multis modis, primo quando genus, aut
differentia, aut definitio, aut, proprietas, aut quali,
eas naturalis praedicatur de re. Exempla I: “homo est animal, II
homo est rationalis. III, homo est animal rationale,
IV homo est risibilis V Ignis est calidus,” “mel
est dulce”, “nix est alba.” Item quando idem
prædicatur de lcipfo:ut “Fortes est fortes” [Grice, Women are
women, war is war]. Ille aut fiunt in
materia contingentium quibus prædicatum poteft
aduenire et removeri a subiecto, abfqj hoc <y corruni. patur subiectum,
et gg hoc diftinguuntur a , ppofitionibus i,
materia naturali, quoniam in illis li
auferatur prædicatum, no pmanet subiectum. Nam si homo cedat ede animal, aut
rationalis, aut risibilis et si ignis cedat ede calidus
etc. nec ha-, mo nec ignis permanent, sed
corrumpuntur et definunt ce» Tu igitur adverte, c?o mnis
jjpositio, in qua prædicatum est accidens commune
[HAZZING] et separabile, et etiam inseparabile [IZZING],
modo non fluat a principiis fpccici, sit in materia
contingenti, utiftae, homo eft albus, ethiops est niger, aqua est calida,
etc. Dico rnodo non fluat a principiis speciei: ut pferuem rerum.
j>prietates: ut est RISIBILITAS in homine, PAR et impar in NUMERO, curvum et
RECTVM in linea, fumum calorem in igne lite nancg faciunt propositionem in
materia naturali. Quid ne. ro sit fluere apneipiis specjci declarabitur tibi in
trac. de prædicabilibus in cap. de proprio et accidente. Illae vero fiunt in
materia remota, in quibus prædicatum non potest verificari de subiecto,
Imo id inuicero repugnant. Istae autem sunt in quibus subiectum
et prædicatum sunt opposita contraria vel contradidoria vel privative
ucl relative opposita. Exempla: I “Album est nigrum”. II: “Homo est non
homo”. III. “Caecus est videns”. IV “Pater est filius”. Et aducrte ,
q? dicuntur fieri i|i materia remota, scilicet
repugnanti, qm natur subiedi&i prædicatiin oibus p didis repugnant
adinuioem, nec se compatiuntur. Inde est q1 omnis affirmatiua in materia remota
ferng et de neccsfiUtate est falsa, negatiua autem femg et immutabiliter
ucra. In materia vero naturali est opposito modo. Nam affirmariva femg
est vera, negatiua fepig falfcM Jn nuter» cotingeti ?4 est medio
m6, qm tam affirma, q nega, aliqn e vera aliqn falsa,
nam qn prædicatum inest liibiedio, affirmatiua est uera, negatiua falsa,
qn prædicatum removetur, affirmatiua est falsa, negariva est vera.
Hoc de VII diuifione difta fint. Quantum ad oAauam divisionem, quae
fuit haec, Propositionum categoricarum participatium utroqj termino eodem
ordine triplici materia. Cnaturali contingenti et remota adverte, quod inter
eas sit quatruplex oppositio: contraria sub-contraria, CONTRADICTORIA, ubalterna.
Oppositio contraria sit inter eas quarum una est universalis affirmatiua &
altera uninerfalis negatiua, de eifdcm fubieflis et prodicatis univoce
&aeque ample & aeque strictca cceptis. Primo df quarum una est uniuerfalis
&c. Nam ut distinguantur a contradictoriis, debent esse eiufdem quantitatis et
diverfae qualitatis. Si eiufdem quatitatis, ergo utraqj est universalis vel particularis,
non secundum quia non essent contrariae sed subcontrariae. Ut dicetur infra
ergo primum. Si, DIVERSÆ QVALITATIS, ergo i&fca est
affirmativa et altera negativa. Secundo dr de ei (dem subiectis et prædicatis:
uc ois homol albus, nullus homo est albus, et dcfeftu huius iftaeduae non
funt contrariae ois homo est albus, nullum rifibilc est albus. Tu tn
aduerte quod subiectum et prædicatum pnt esse
idem tripliciter, pmo fm vocem tm & non
fm SIGNATVM, secundo t m. SIGNATVM tm et non fm
vocem, tertio fm vocem et SECVNDVM SIGNIFICATVM. Exempla: I “Omnis
canis latrat: nullus canis latrat. Omnis homo currit, nullum ronale
currit. “Omnis homo est alal nullus homo eft alaU
Prima identitas non sufficit ad contrarietatem, ideo
dicitur in definitione, acceptis UNIVOCE, constat aut quod
canis est TERMINVS ÆQUIVOCVS; II aut sufficit ad
contrarietatem virtuale leu ÆQVIVALENTE sed no ad
formalem; III vero sufficit ad contratietate proprie dicta et formale
[CF. H. P. GRICE, DICTIVE MEANING AND FORMAILITY – as candidates for EXPLICITVM
– why not both, as in J.?] , unde licet iftx duae, “Omnis homo currit,
nullu rationale currit, sint cotrariae virtualiter
eo q SECVNDVM SIGNIFICATVM homo et rationale fune idem non
tamen forma\itct, qm formaliter non participat E ii utroqj termino
secundum vocem et SECVNDVM SIGNIFICATM. III dicitur aeque ample &aeque ftrufie acceptis.
Dcfe du huius apud multos istae dux non sunt contrarie. “Omnis homo est animal,” “nullus homo est animal,” quoniam
in prima potest teneri tam pro masculis quam pro femminis; in secunda SOLVM PRO
MASCVLIS. Tu tn adverte, quod secundum usum i
utracp accipi confucuit pro MASCVLIS ideo acceptantur: ut ue rz contrariZj
Item defedu huius istæ dux non sunt contrariae. “Omnis
homo EST albus”, “Nullus homo FVIT albus”, quia in prima reftringitur
ad præsentes, in secunda autem ampliatur ad przfentcs vel præreritos.
Sed pronunc fuftinc, donec pertrademus de AMPLIAZIONI et APPELLAZIONI. Tu tn adverte,
quod prxdldx non sunt contrariae non solum ronc di da, sed quia copula non
tenetur eodem modo in prima set secunda. Nam in prima est ly est, in secunda
est ly FVIT. Unde in definitione intelligendum est q'
contrarix debent c(Te de ctfdem subicdis et
prædicatis et copulis. Hoc de contrariis dida fint. Oppositio contradictoria est inter eas,
quarum una cft viis affirmatiua, altera
particularis negativa , ut “Omnis homo est animal”, “Quidam
homo non est animal”, uei altera cft vfis
negatiua, et altera particularis affirmatiua, ut “Nullus homo currit”, “Quidam
homo currit”, dccifdcm fubicdis &pdicatis & copulis,
uniuocc & zque ample, et xque ftride acceptis. Omnia debent intclligi ficut expofitum
eft dc contrariis. Ut autem habeas
maiorem noticiamdc contradidione aduerte ex
dodrina Ariftotclis, quatuor condidioncs requirit, & defedu
cuiullibct carum enitatur contradictoria oppositio. Prima est quod sit
affirmatio eiufdem de eodem et negatio, dummodo sumatur idem secundum
rem et vocem, ut “Socrates currit”, “Socrates non currit”. Defedu cuius ista apud logicu non sunt contradictoria
formaliter sed virtualiter sive equipollenter tantum ex parte rei. “CICERONE
currit”, “MARCO non currit”, posito enim quod sint sinonima ex parte
significati quia ide homo didus est MARCO et CICERONE,
tame distinguuntur voce icas isb ffffi futc:
ctu OOP* uiJ' ipl> lo«
Taa jnci u$ yra (Tei. t& il* ra^
jsi» iC30 is. io» srt-
t& itio, Sa ? t<p ,cof jii UOC *f sive
termino, qm duo fune termini, MARCO et CICERONE,
ideo non sunt contradictoria formaliter sed aequipolleter. Æquipollenter quidem,
qm IDEM INDIVIDVVM intclligitur per MARCO et CICERONE,
formaliter autem non, qm logicus observat oppositionem
de virtute sermonis, philosophus aute qui est artifex realis,
DE VIRTVTE rei et SIGNIFICATI. Vnde apud physicum ista contradicunt.
Materia prima est ens in potentia. Primum fubic Ctum non est ens in potentia.
Pro eodem
enim accipit materiam primam et primum SUBIECTVM. Secunda est q
duae propositiones contradictoriae REFERANTVR AD IDEM ut secundum
idem, et propter huius defeflum, illae no contradicunt, “Ethiops est
albus” detes. “Ethiops non est albus” pedes, non
enim sit prædicatio secundum eandem partem. III est. Quod teneatur similirer,
ideo iste dux non contradicunt: “Nullum animal est
genus”, “animal est genus”. Nam In negativa stat “animal” pro
suppositis, in affirmativa stat p natura communi.
Sed id non intelliges donec in tracta.
suppositionum exercitatus fueris, ideo fuftine. IV est quod REFERANTVRad
idem tempus. Et defeCtu huius, iste dux non contradicunt, fortes venit
HODIE, fortes no venit HERI. Et adverte quod omnes iste conditiones
exprimuntur in deffinitione contradictionis, quae extrahitur ex doctrina del
LIZIO prxcipuc in quarto metaphyficae, et est hoc. Contradictio est affirmatio
et negatio, id est propositio affirmativa et negativa eiusdem prædicari
de eodem subiecto, ad idem secundum idem, similiter
et pro eodem tempore Hoc de contradictoriis dicta fint. Oppositio subcontraria
est inter eas, quarum una est particularis affirmatiua vel indefinita, altera
autem est particularis negativa vel indefinita de eisdem prædicatis et
subiectis et copulis univoce acceptis, et eodem modo
supponentibus. Primo dicitur propositio affirmativa negativa
particulares aut indefinita, ut excludamus duas singulars.
Nam Illx sunt contradictorie SECVNDVM rem et SIGNIFICATVM licec.
Eiii TRACTATVS tertivs non in figura, quoniam in figura uc
declarabitur tibi. oportet unam c(Tc universalem affirmativam vel negativan
alteram autc particularem affirmativam uel negativam ut patebit in figuris quas
in ira deferibemus. Quare autem duae
singulares non sunt subcontrariae ratio est haec, quia due subcontrariz possiunt
esse simul verae, ut: “Quidam homo currit, quidam homo NON currit.” Due autem
singulares non possiunt esse simul verae nec simul falsae, sed una vera et
altera falsa in omni materia, uc fi hzc est vera fortes non est afsnus, hoc
neccesario est falsa “Socrates est ansinus”. Ergo sunt contradictori. Secundo
dr de cildcm SVBIECTIS etc. inrclligendum est eodem modo sicut dictum est in
oppositione contraria. III dicitur univoce tentis, defectu cuiu» iste
no fune subcontrarie. Quoddam: “Snum est animal”. Quoddam “Sanum non
est animal.” IV dicitur eodem modo supponentibus, defectu cuius iste, non sunt
subcontrarie: “homo est species”, “homo non est species”, nam, in prima, “homo”
supponit pro natura communi, in secunda pro natura partita in
suppositis. Sic quide dicimus pro nunc. In trac. autem suppositionum manifestabimus quomodo ista non est indefinita,
“homo est species”, sed singularis, et
ideo manifeftius tibi erit, <y no sunt subcontra riz, non
solum quia non supponit “homo” in prima et secunda eodem modo, sed quoniam sunt
singulares quas ncccdc est ut diximus c(Tc oppositas contradictori SECVNDVM rem
et SIGNIFICATVM. Oppositio subalterna est inter eas, quarum una est vflis
affirmariua et altera particularis aut indefinita aut singularis affirmativa.
Vel una est viis negatiua et altera est parti «auc
inde. aut singularis negativa de eisdem subiectis
et prædicatis et copulis etc. ut dictum est
in aliis oppofirionibus. Hic Hto sunt declaranda,
primo quare dicuntur subalterne, secundo quare de singulares
aftirmativa et negativa fune liibalternz et non subcontrarie.
Ad prim Utn dicitunt ideo universalis affir. et particularis
affirmatiua dicuntur subalternzquia
una fub altera ponimr.i4 particu. rub universali.Vnde universalis se habet, ut an$ particu
ut pns. Nam bene sequitur.
“Omnis homo est animal”; ergo, quidam homo est animal,
et homo est animal, et iste homo est animal,
ut tibi manifeftum erit in suppositionibus. Non autem sequitur cconverso,
quia ab inferiori distributive ad superius affir. non
valet consequentia, non enim sequitur, “Aliquis homo est
stultus; ergo, omnis homo esst stultus.” Et aduerte sicut dicuntur subaltcrnae per rcfpedum
suppositionibus, quem habet particulares ad universales, sic dici possent superaltcrnx,
per relpe&um superpositionis, que habet universales ad particulares. Sed primis placuit sic
denominare ab inferioribus, quorum est subiecti et supponi superioribus. Ad secundum dicitur q? ideo dux singu. affir. et neg.
fune subalterne qm sicut valet consequentia ab univerfali affir,
ucl nega. ad particu. et inde affir. et nega. sic valet ad singu.
Affir et nega. Nam fi hxc consequentia valet ols “homo
currit”, ergo, “aliquis homo, et homo currit”, sic
ualet, ergo iste et “iste currit,” quoniam, ut
declarabitur tibi in trac. suppositionum, signum universale
affirmativum negativu distribuit terminum immediate sequentem et licet defendere ad sua
singularia divisiuc. Sed pro nunc fuftine ne confundaris,
do nec habebis de suppositionibus notitiam. Et ideo
sunt subalterne sicut particu. et indcfi. Non autem sunt subcontrari
ratione iam difta, quoniam subcontraries contingitellc simul veras,
dux autem singularis negativa et affirmatiua, in omni materia ita se habent y si
una est vera altera est falli, et non poliunt esse simul vere nec simul false, et
ideo, ut diximus non fiint subcontrarix cd CONTRADICTORIE. Constae Igitur
tibi quo propositiones categorice participantes utro que termino et
eodem ordine, conftituunt quatuor geifepa oppositionum. Et quoniam possunt formari
in materia naturali et remota et contingenti, ideo
figurabimus tibi tres figuras. II erit de oppositis in materia naturali,
II de oppositisin materia remota, III de oppositis in
materia contingenti. LOGICAE compendium. Peripatetica ordinatum per Reverendum
Magistrum Chiifoftornum J.. anapicium ordimsprxdica, nunc tandem 8C d'U“°P“Pro'
ditin lucem A Continet aute undecim tractatus uidelicet I est de praaecognoscendis.
II de partribus propositionis. III de propositione. IV de V universalibus. V de
prædicamentis. VI dc syllogismis formalibus. VII de suppositionibus VIII
ampliationibus & V’-> V V^lArii* « ' * Jj; ii .I' d appdlationibusJ IX de
consequentiis. X de probationibus terminorum. Vndeamusde syllogismo demonstrativo,
in quo quo continetur LIZIO docrina in lib. poster. QjiaE Gmma recenti hac nostra
editione uiligentissime, exposita fiint, atque elaborate, Grice: “For all their
subtleties I lizii, or peripatetic logicians never cared about formulation.
Consider Javelli: the dog barks, anger is represented, ‘canis latrat
raepresentatur ira, gemitus infirums raepresentatur dolor. No care is taken to
represent the proper signification. It is still the ‘anima’ if the vegetative
one, it is still the dog’s spirit. If the dog barks, he means that he is angry.
If the infirm moans he means he is in pain, and so on.” Grice: “Javelli is one
of the most careful Italian philosophers. He had a fascination for two little
tracts by Aristotle towards which I also felt an attraction: De Interpretatione
and Categories. His comments on De Interpretatione are brilliant in that he
reduces all to ‘re-presentare’. The infirmus who groans or moans represents
‘dolor’. The dog that barks represents ‘anger’. These are ‘signs’ of the
natural kind – and rather than dark clouds meaning rain he is into ‘phone’ –
vox – here it is vox signifying that p or q naturaliter. (my example of groaning
of pain). From there he jumps to the institutional meaning, ad placitum, ex
decreto et authoritate – e consuetudine, -- a system which superseds the
previous one. Giovanni Crisostomo Javelli. Iavelli.
Giavelli. Javelli. Keywords: implicatura, grammatica razionale, psicologia
razionale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Javelli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Jerocades: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della
massoneria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo
italiano. Grice: “I would consider Jerocades more of a poet than a philosopher,
but then he was a priest and a Mason!” Essential Italian philosopher. Scrisse il
saggio “Dell'umano sapere”, di stampo illuministico, che verrà successivamente
pubblicato a Napoli, e “La partenza delle Muse”, edito na Messina. Si trasferì a Napoli. Dietro raccomandazione
di Genovesi, col quale era entrato in corrispondenza, venne assunto al
"Collegio Tuziano" di Sora come maestro d' “ideologia”. Frequenta gli
ambienti massonici. Secondo il clero sorano, tuttavia, quelle opere non si
attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che prima della rappresentazione
di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi ridicoli e di
stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero, il vescovo emise
un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione, con la
reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette mesi, lasciò
Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore. E
in Calabria: qui si dedica alla composizione delle raccolte Quaresimale poetico
e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna a
Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali
esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo, ovvero che
miravano a costituire una repubblica, cosa che determinò la sua incarcerazione
a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà,
avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una
siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in
seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono
nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie
all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di
suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini
di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in
solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso
Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia,
ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da
Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per
l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne'
funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro,
“Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli:
Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi
di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia
degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B.
Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in
Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A.
Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese, I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D.
Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in Cestaro Lerra, Il
Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti
del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie,
Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo
Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese, J., La lira focenseː un abate poeta
in loggia, Piromalli e Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1. T) Indaro , figliuolo di Diifanto,e di
Mirto, J» nacque in Tebe , città capitale della Beozia. Mono il padre , eh’ era
sonator di tibie , la ma- dre , eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino , e ,
quindi , dopo la morte di lui , sposò Pagonida , ambi professori di musica. Di
qui è,ché al nostro Poeta si danno tre padri , de' quali due nel vero sono
patrigni . Or questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e
morì tra le Muse, le quali a quel t&mpo erano e ricche, e nobili ,ed
onorate. I suoi primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da
Laso Ermìoneo, e che peifezionò sotto Simonide , ed Eschilo i quali' fiorivano
in quella età. Indi , , dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la ,
tutta la sua v»ta al modello della pietà . Tra gii altri numi venerava
spezialmente Pane, Rea, e Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ;
, propagata per la Beozia , e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di
Pittagora, e non di Talete. La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in
modo , che pieno di queste idee, formò di Rea, egli era o uno de' sacerdoti , o
almeno il compagno e il partecipe de' sacri misteri. , a. La sua dotta e saggia
pietà e l’ornamento, e'1 retaggio della sua industre e faticosa famiglia.
Imperciocché , ricevuti da Timossena , sua consorte , un maschio , chiamato
Diofanto', e due fem- mine, per nome Protomache , e Polimeri trasfu- , se col
sangue la sua virtù per modo ne’ figli che gli mandava il giorno e la notte al
tempio dej padre, e della madre de’ numi. La sua casetr A9 me • #- , §a
medesima era un tempietto dtvoto, in cui con vi- cenda soave si passava dai
coro alla mensa , e dalla cetra atta tazza , cioè dal travaglio al riposo, e
dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione gli Spartani prima, e qnndi i
Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune l'albergo di lui riguardato qual ,,
saero asilo delle Muse , e di Febo . Di fatti la faina di Pindaro era sparsa
per tutta la Grecia , e al di là della Europa; già che Serse nella sua famosa
spedizione n' ebbe ancor del rispetto , co- me dipoi n’ ebbe Alessandro gloria
del re della Persia 3. Or qual si fu la vita civile di Pindaro? Ap* plicato
alla poesia , e alla musica , non cantava , che numi , ed eroi . L'antichità
vide e lodò i suoi carmi , Inni , Ditirambi , Treni , Peani , ed altri Lirici,e
Melici componimenti, rapportati da Sm- ela , che non vinsero la forza vorace
dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so- lo si mostrano
alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza raccolti , Restano
dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj , Pizj , Ne- mei , ed
istmici , de' quali Aristofane . grammatico di gran nome , ne fece una raccolta
, ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi , che tra
le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia , e si è perduta 1’ Erogonia ; ma
tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi , e gl*
Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro
Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’A- chille^ d' Uhsse. Ma
benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella
pace , nel silenzio , e nell’ozio, e vivere con se stesso , col mondo , e co’
numi ; non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci- ,1
, quasi emulando la Dìgitized by Google 5 pi del suo tempo, e dal
conoscimento di varj po- poli , e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non
si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il
mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma ,
Siracusa , e Cirene , e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò
nelle Corti. , Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo ,
e sceso al paragone con Corinna , pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla
beltà del- la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la
sua vita dividendo le ore fra , lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica
vir- tù : e così finalmente morì , cadendo nelle brac- cia di Teosseno
giovanetto di Tenedo, dopo , avere ascoltato con sommo piacere una festa
teatra- le, ed armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp. 36. di anni
84.,bìochè altri narrino altri- menti e la vita, e la morte di lui. La vita de*
saggi , sempre disputata , non è il corso di peri- gliose avventure gravi di
speciosi e nobili avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri , e tutti i qua-
dri d’ un Poeta formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede
a’ suoi carmi di qua- , dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne ,
simulacro , o per la varia sorte de’ versi Litici ; o perchè tal è la poesia,
cioè pittura, e ri- tratto o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava
una statua col nome dell'eroe, della pa- tria, e del giuoco $ e’ gliene voleva
alzar un’altra di versi , di quella più perenne ed eterna . E' fece u- so del
dialetto dorico che più confassi con lo sti- , le sublime. Ma quello, che più
distingue Pinda- ro dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli , Episodj
imitato non sempre felicemente , da ,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à
Lirico-tragico, A3 e tal % e tal volta Lirico-comico; imperciocché ,
siccome in Omero ci ha favole, e favolette , co>l in Pindaro ci ha canzoni,
e canzonette. Per questa ragione nel tradurle , ed esporle si è tenuta una
maniera diversa, secondo che oggi è fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è
in pregio solamente la poe- sia , e la musica Lirica , e questa è o tragica
detta altrimenti Pindarica , e Alcaica ; o comica , altrimenti detta
Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno e l’altro stile Lirico ,
onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma l’epica, e la drammatica
, tanto tragica quanto , comica , è poesia disgiunta oggidì dalla musica , ed
*’sì deono rispettare le superbe vicende del secoli . Ecco la ragione, onde ho
tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del Guidi; e tal volta, ma di
raro , all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi parlidistrofe, d'antistrofe,
ed’ epodo ? di ternioni quaternioni , e quinternioni ,j che oggi sono più che
vecchie monete . Chi ha voluto tener le usanze antiche , si ha dato una legge
importuna, che poi ha dovuto pagare col prezzo di tante gloriose fatiche. Chi
non esalta il merito di Adimari , e Gauter ? E pochi sono , che apprezzano le
loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato per necessità di consiglio . Or
la- sciando a tutti e traduttori , e cementatori di Pindaro la gloria immortale
del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso mio questo faticoso lavoro, e ho
ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se questa è una lode , io la confesso ;
poiché mi è grato un onore, che mi venga dal merito. Sog- giungo ancora d'aver
letta, a quest’ uopo , Plutarco, Eliano, Pausania, Clemente , Stobeo, Eusebio, Quintiliano,
Orazio, fra gli antichi ; Suida, , GiraJdi , Motóri , "• Baile , Fabbiicio
, Schmid io , A\ Be, 1 Pindaro, il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o
confesso ancora di aver vinto la causa , di cui la questione si fu: Se gl’inni
Cristiani sono da più , o da meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già
molti anni passati, che sono da più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto,
tra- dussi ed esposi gl’inni Cristiani , e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa
alla fede, e alla ragione de* - giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri
e ,, quindi le Odi d’ Orazio, non restavano, che gli Inni di Pindaro al
compimento dell’opera. Ecco la iuta fede legata già sciolta. Chi legge , se ha
sénno vegga e conosca la 4; verità . A non voler dir altro , basta il dire che
, negl'inni Pagani o manca la persona, o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E
se dicesi, che ap- presso i Pagani tal era la persona reale , e tale il
soggetto dell* inno; io dico che cangiate le idee, , dubbiamo venerare le
nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono ignorate da chi le , adora, e
conosciute da chi le disprezza. Quindi è , che questa causa spetta al giudi ciò
de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp. il nostro poeta. Nel resto non può
negarsi, essere oscura e confusa 1 antichità, e chiara e distinta h nostra età,
in cui quel che si legge, si vede, e quel che si vede, s’ intende . Per me
m’inebbrio di gioja quando canto nel coro un inno de' nostri; e. nel cantare un
inno Pagano , sia superbo e pomposo, non mi sento nel petto un senso di dolce
pietà. £ non abbiamo noi i nostri agonistì, i campioni» -gli atleti r , gli
atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro che kcorsa f , e Ja lotta, sono le virtù
del Benedetti, Aditimi, Stefano, Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne
tratto profitto ma , di. aver sempre apprezzato sovra di tutti lo stesso
la Chiesa . Si legga solo F inno di Venanzio giovanetto, e santo deli’
Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti
Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo- , lali, e politiche che il suo
stile spesso è orien- ; tale, come lo stile liturgico di Asaflfo, d' Orfeo
d’Omero, e di Ossian; ma queste bellezze, che di rodo si ammirano ne' poeti
Pagani, ne’ nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi resta a dir due parole su
i Giuochi, che formano F argomento dell’ opera • I Giuochi , dette ancora feste
giostre certami agojii , con- (,,, trasti ) erano o ginnici , o musici . I
musici eran prode del conto, del suono, della poesia, della storia, e della
eloquenza; e tal volta erano dispu- te circolari da scuoia. Questi si davano d'
ordina- rio neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel Teatrone di rado assai nello
Stadio, infra il romor delia turba, il vincitore avea la corona, la sta- tua, e
il soldo pubblico,e forse Finno della vittoria. Mi questi giuochi non eran
molto famosi. I Giuochi ginnici erano o sacri , o profani . £
profanieranolascherma,ei! bersaglio,edaltri, destinati col tempo alle pene de’
rei., I sacri & solenni eran cinque, la corsa , la lotta, la pugna , la danza,
la palla, detti in generale Pentatlo da' Greci , da’ LATINI Qoinquerzio , e tal
volta Pan- crazio , benché Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la
lotta* La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo , o frenato, o senza ;
freno ; e col carro , tirato da due. o da quattro cavalli £ Il premio della ,virtù
eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro, d’apio, di rame , o
di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di
lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria 1
luogo di questi Giuochi era lo Stadio, in tre par-* t» diviso, e distinto con
tre colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu- ,,
dici delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope, da Enomao da
Ifito e p;ù volte tralasciare, e più volte riprese si celebravano , nel
principio d' ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran
festa degli antichi ROMANI. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl
randó altre insegne e divise , onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se
stessi. Vivi fra * morti , e mprti fra i vivi , passano in pace la vira e fanno
il lor nome risonare nel silenzio , della virtù. Fra molti, che io venero, ha
luogo Gaetano Ancora Napoletano giovane d’ alti ta- ,, lenti , e di aurei
costumi . E’ rubando agli alti , affari politici, e al vigor giovanile, e alle
ombre notturne poche ore del tempo le consacra a quel ,, profondo studio , che
da' primi anni coltivò, d* una maschia e robusta Letteratura Latina , e va di
quando in quando esponendo una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro
delia età vetusta si serba come un sacro depost- , ,, <5. Molte, e varie notizie
si sono d'america vate 11 da Pausania , da Natale de Conti, e da saggi
scrittori delle Greche antichità , Ma disperando di poterne qui dare un Saggio
compiuto che servisse di scorta alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio
doke amico, e maestro Gaetano Ancora y il quale, tra le gravi cure della Corte,
cori va . con applauso universale i più severi studj della Letteratura, oggimai
quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni , e la scuola di tutte le Muse non ar- ,
1 disce più di onorare il nome de suoi gran figli col titolo di saggi e di
dotti e va lor proccu- ,, , onde T Olim- JO to della umani, e divina
ragione . Quindi la Repubblica delle lettere gode di tante dissertazioni dilui,
chesonodiraro, diutile, edifestivo argomento , e che raccolte si daranno a. suo
tem- po al'a luce. Or egli piegandosi gentilmente al- , le mie premurose preghiere,
ha scritto un Saggio tu i Giuochi solenni di Grecia, il quale, stampa- to alla
fine del libro la erudizione comune , serve al- e al rischiaramento delle ©ni
di Pindaro. Perciò son io contento delle mie fatiche , le quali con questo lume
compariranno , come spero , meno oscure, e meno importune $ e la Musa Dircèa
sarà più sacra, e più venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime , e sì
sacro , come colui , che canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell'
ingrato obblìo d' una facile indifferenza, o d' una criminosa ignoranza?
eseiohofattosì, cheil suonomesiatranoi p ù conosciuto, ed imitato almeno nelle
sentenze, se non si può-nello stile, Sublimi feriam sidera Tropea.
Palazzo Sant'Anna. odierna sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti. J.
visse da filosofo inquieto una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee
di libertà di cui si è fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre
opere di natura religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza,
soprattutto verso la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il
livello della politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio
che apparirà fortemente precario e non convincerà nè il potere politico nè il
potere religioso. Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la
vita, tuttavia non sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette
fermamente al tiranno fino alla morte. Quest'uomo che le istituzioni
hanno più volte punito secondo i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu
un 'uomo contro', ma non aveva la vocazione al martirio. Io mi fermerò a
considerare l'ultima prigionia dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una
vita oltremodo inquieta. A Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi non si
chiudeva solamente una vita, si spegneva il tentativo di conciliazione di un
credente massone e giacobino con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA
L'abate J. non aveva la vocazione al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è
stata vissuta nella lotta, una opposizione ideologica contro i potenti e una
tuonante avversione al mondo clericale. Il terremoto del Capo, questa
operetta indiavolata, come la definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti
fossero i suoi nemici, ma anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola
per colpire, offendere, insultare. La parola fu la grande arma che
Jerocades usò per illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi
lo contrastava, per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande
facilità di parola, scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle
stampe i suoi scritti senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea,
nella casa dei Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma
l'accostamento biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie
religiose e politiche: penso a Fiore, a CAMPANELLA, profeti perseguitati per i
loro sogni di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di
fondo che ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del
cristianesimo. Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione
ecclesiastica di J. e sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere
elementi di approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del
giansenismo, del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più
o meno di provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma
specificamente ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula,
Angherà, Nudi o altri meno noti). Il valore culturale, etico, sociale di
queste personalità e della loro opera in Calabria e fuori, osserva Mariotti, e
stato messo in rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre
superano del tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto
contestativo soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro
l'ignoranza, l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici.
Pare sia più maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità:
anche per capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini,
spesso condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora
esasperati da situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua
dell'asprezza delle manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e
cattolica di certe esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e
accettiamo i rilievi al loro tempo sospetti, di Muratori sulla Regolata
devozione dei cristiani, di SERBATTI su Le cinque piaghe della
chiesa." Penso che, leggendo l'ancora inedita Orazione per
l'apertura della Scuola di Economia e Commercio nell'Università di Napoli,
detta da J., questa riflessione si riveli quanto mai opportuna. Egli,
rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato in un ignoto
villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati alla pesca,
alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra i remi e le
reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del dolore,
dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi e
travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva
ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a
mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per
tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni
giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi
elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del
Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in FILOSOFIA,
e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia." E'
altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario
rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa
disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni
tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano
influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i
collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con
un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare
per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione
all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci.
Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero
che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali
che per quelli pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava
soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il
notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto
nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di
ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli
eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti.
I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti
ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava
all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il
Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i
candidati agli ordini ad entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto
disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto
come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari.
Ma anche i sinodi diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato
è stato di Ibanez: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento
e fino al vescovo Vaccari. La
preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi
ossessiva in un vescovo latitante come Mele nella corrispondenza col suo
vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di
Tropea prima della sua unione con Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero
fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per
nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo episcopato
morì a Tropea J.. Sugli anni compresi sembra prevalere un grande silenzio
su J. nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre il Martuscelli,
primo biografo del J., ci riporta con alquanta dovizia di particolari l'ultimo
periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini illustri della Calabria,
Cosenza), le notizie che abbiamo di lui dai contemporanei locali sono molto
scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie per servire alla storia della
santa chiesa tropeana, Napoli, Paladini, Notizie storiche sulla città di
Tropea, Catania- ed. anastatica a cura di Bella). Quasi irreperibili
nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti è la
mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o
quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni... Gli
archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari
di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si
eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione
sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite
pastorali: Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca J.; Visita
Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. J. Visita Monforte: absens...: A. J.;
Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi privati si è
trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di
Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone a Meligrana ricorda
che "le cose di J. [per lui trascritte] non sono che ordinarissime
composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più
avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di J. (Raffaele)
"un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia,
attraverso don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di J., che dice
di conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più
fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale
risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani
Sava, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo
bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco
Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E.
Meridionale. Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde
agli ultimi anni di vita di J. sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a
una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel
Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di
immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine
dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice
Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano
dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli
Affaticati. J. viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e
pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha
colpito duramente. Forse non e esagerato pensare che si aspettava il
momento giusto per presentargli il conto. LA SOLITUDINE DELLA MORTE
Il Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita
di Antonio Jerocades e la sua morte. fu mandato in Francia", egli scrive:
in realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e
Mazzitelli erano stati uccisi. J. figura tra gli esiliati a Marsiglia per i
fatti e, nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche
una descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro
l'orazione funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la
pace di Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma
dove 'si ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a
Parghelia. Dopo dieci mesi fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e
dissesi che ciò fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre
di suo fratello Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio
in quanto nella detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo.
L'ordine era di tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella
quiete", scrive il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia;
il quale aggiunge che, cominciando J. al suo solito a satirizzare, perdè la
confidenza dei religiosi". In realtà la situazione appare più
complessa, come risulta dalla lettera di Migliaccio, successore del Pappaona,
inviata a Mele e conservata a Tropea nell'archivio Francia: Ecc.
Rev.ma con ven.ta carta V. E. Rev.ma partecipò al mio antecessore che il
sig. Preside della Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Luigi Calenda
le avea scritto che il superiore di questa casa, quante volte i medici ne
conoscano la necessità, potrà far uscire a camminare il sac. J. di Reale ordine
qui detenuto, in compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio
antecessore subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una
noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è
poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire,
nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che
non è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro J. fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea U.mo e obblg.mo servitor vero e
suddito Giacomo Migliaccio del S.mo Red.re Di V.E. Rev.ma
Mons. Mele Vescovo di Tropea "In quel soggiorno - scrive ancora il
Martuscelli - molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte
cantate, sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il
salterio. Finalmente logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio
munito dei santi sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio. Da
colà fu il suo corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei
sacerdoti". Muore. L'atto di morte si conserva nel registro della
parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della
parrocchia di Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e
definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo Atto di
morte Rev. Sacerdos J., annum sextum ac sexagesimum cum attigisset,
sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit
Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum
in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum
fuit. A. arch. Taccone TROPEA - Parrocchia di S.
Demetrio - Atto di morte Sacerdos J. casalis Pargheliae hujus Diocesis
utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in
Universitate Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis
poenitentiae et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit,
eiusque cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum
fuit. Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che
Jerocades fu sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche
vicissitudini, involuto nelle tristissime vicende andonne ramingo in Francia,
ed in altri Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del
trattato di Firenze del Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore
di Tropea, morissi Per concludere che
"più copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno
nelle nostre Centurie degli scrittori calabresi". Di questo periodo
della vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle
esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il
veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando
voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute. Stupisce però che
il vescovo Mele, nella visita ad limina, presenti una visione idilliaca del
clero e della diocesi, mentre nella visita pastoralee in altri documenti
conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e
l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota
abbiamo potuto rintracciare relativa al caso J., tranne tracce indirette nell'Archivio
Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo Mele. Nell'archivio
dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa essere trovato del
materiale documentario che già lascia intravvedere Orlandi, storico
dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-.FI "I Redentoristi
napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine interessanti
all'abate Jerocades. Era comune che le autorità inviassero dei condannati
al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle case della
Congregazione. "Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava di un
compito assegnatogli dal dispaccio regio del 22 marzo 1790: 'Qualora i
vescovi diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o
chierici a fare gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre
riceverli, con esigere anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione
che non venga eccedere il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei
preti o chierici si sia fatta presso di loro. L'ordine reale veniva poi eseguito dai
vescoli. Pertanto i Redentoristi "si trovavano nell'impossibilità di
sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità, che tra l'altro non era
sempre immune da rischi, come nel caso J.. Nella lettera del P. Migliaccio si
afferma con forza: Il superiore passato non dovea pure firmare quell'obbligo,
ch'egli non era fatto castellano, o carceriero. Orlandi, storico dei
Redentoristi, riporta un passo di Capasso (Un abate massone, Parma. Che in
questa nuova relegazione J. abbia continuato a mostrarsi secondo i casi massone
e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche perchè è certo che non
cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico. Ma l'esilio,
quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo crollo al suo
cervello, di già a bastanza indebolito. Naturalmente, se a J, era sgradito soggiornare a Tropea, ai
Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare. Dura da un anno quello stato
di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura,
accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a
fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di
teologia, non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti
alle impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il
frate sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per
il frate che riuscì a scansarlo". La lettera del padre Migliaccio
sopra riportata conferma quanto scrive Capasso. Orlandi conclude che
"invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere
liberati dalla sgradita presenza di J. che rimase a Tropea fino alla
morte". Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un
giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del
vescovo Monforte] J. di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti
e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa;
volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi
sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta,
la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte
di J. Muore ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.
Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio, fu denunziato da Costanzo,
da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello,
dove parlava male del Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal
Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il
rettore Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al
suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto
infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre
membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e Paladini a
ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di
approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a
sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed
n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il
padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli
altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo
disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in
retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con
pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre
il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito
poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in
Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le preoccupazioni
del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e quali fossero i
sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva fortemente fustigato
e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante laico il racconto di
Didier in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, appare assai ricco di
anticlericalismo e di spirito romantico: J., autore della Lira focense "fu
crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale (sic!), ebbe per
prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica, ritenendolo ateo e
giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette reazionarie dei
Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco cristiano, l'esercitarono
con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non vi sono torture che essi
non inflissero al carbonaro poeta: il povero prigioniero morì presto, e colui
che gridava, in uno slancio di benedizione, "Vita, dono del ciel, sei
bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i suoi giorni spegnersi nella
prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico e persecutore. La salma del
martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon riparatore che riunirà in un
solo altare tutti i martiri dispersi della libertà italiana. La terra sia
loro leggera fino al giorno prossimo delle riabilitazioni!" La fonte
del Didier era certamente legata allo spirito patriottico che aveva bisogno di
creare i martiri. Questo spiega anche la data errata e il riferimento alla
salma che riposa a Tropea mentre sappiamo che Jerocades fu seppellito a
Parghelia. Nella prefazione alla Lira Focense pubblicata a Cosenza,
Francesco Migliaccio accentua il carattere persecutorio: "fu dalle
calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri assalito ed oppresso. Credette
farsi schermo e difese [...] negli occulti recessi della sua patria. Ma per la
malvagità dei tempi... fu nella sua veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa
di Missionarj di Tropea. Quivi nella indigenza, schiacciato dalla ferrea mano
che l'oprimeva chiuse i suoi giorni". A parte i comprensibili toni
romantici del Didier e di Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi
giorni nell'abbandono e nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà.
Neppure la visita del Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non
trovava più motivi al suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e
ammirata, adesso era solo il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi
senza rimedio il suo cocente anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo
colse dopo aver ricevuto i sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha
trovato un uomo distrutto e che nelle parole del salmo 50 da lui amato ha
trovato l'ultimo motivo per affidare alla forza della parola l'anelito del
cuore. UN DIGNITOSO CONGEDO Non fu una morte normale quella di
Jerocades: nella sua inquietudine non bastò la famiglia dei liberi muratori,
non soccorse l'avventura giacobina, diede sofferenza la chiesa alla quale
apparteneva. Nella post-fazione dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che
alcune poesie che formano la Lira focense sono sacre e ricavate dai libri
cristiani e ne dà una spiegazione storica; ma a me sembra che egli voglia darci
atto di non aver mai abbandonato la certezza cristiana come in questa Salve
piena di affetto e di fiducia. O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio
madre, e sposa, e figlia, Volgi, ah volgi a noi le ciglia, Bella
madre di pietà. Mostra vita, e nostro bene, Nostra speme, e nostro
amore, Volgi a noi quel tuo bel core, Ch'è la stessa carità.
Figli di Eva, abbandonati, Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal
furor dei rei tiranni Chi ci salvi, oh Dio! non c'è. Senti il
grido, ascolta il pianto Di chi giace in ree catene, Bella Madre,
in tante pene Ci volgiamo afflitti a te. Dunque o nostra
Protettrice, Volgi a noi quel tuo bel ciglio; Mostra a noi quel tuo
bel figlio, Quando ha fine il lungo error. Tu sei madre assai
pietosa, Bella Vergine Maria; Tu sei dolce, e tu sei pia,
Tutta pace, e tutta amor. E mi appare persino commovente la Novena alla
Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades dedica a Raffaele suo nipote,
figlio del fratello Vincenzo: "Nel Castello dell'Ovo, villa un dì di
Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di stato dopo tre anni di esilio e in
altri prigioni e in altri esili, dopo Dio non ho altro obbiettivo delle nie
cure e delle mie preci che la Madre di Dio. Serbando fede alla patria,
l'ho sempre invocata col nome di Madonna di Porto Salvo, e questo conveniva
ancora al mio stato perchè nelle tempeste si cerca un porto e nelle battaglie
si cerca un asilo, impaziente di altra dimora: "Ch'io son vivo al
desir, morto alla spema". Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa
Novena che a voi, caro nipote, offro e consacro qual dono e qual debito.
Io ve la consacro qual dono poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti.
Sono povero di fortuna e quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi
quando non disdegnaste di dirvi mio nipote". A me quest'ultima frase
appare commovente per la carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che J.
dice ancora come credente e come sacerdote: "Chi sono i testimoni
della fede? I vecchi. Io, che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato
maggiore di questo donarvi della religione e fede di Cristo? A te,
Raffaele, e all'eredità del padre e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e
nella Chiesa di Porto Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del
padre appenderete ancora s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e
le glorie di Maria, da noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto
Salvo". Il senso di verecondia che traspare da queste parole non ci
rivela forse il dramma di un uomo, di un credente, di un sacerdote che,
guardando indietro alla sua vita tormentata fa un bilancio coraggioso e
definitivo? "Dopo Dio non ho altro obietto delle mie cure e delle
mie preci che la Madre di Dio" Antonio Jerocades. Jerocades.
Keywords: filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense,
giaccobinismo, ‘repubblica romana”
“repubblica partenopea”, le odi di pindaro, ginnasia, antichi romani. – Grice
on Plato’s Republic. Refs.: “Grice e Jerocades” – The Swimming-Pool Library. Jerocades.
Grice e Jervolino: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermeneutica del
dialogo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo
italiano. Grice: “I like Jervolino, but then I like any
philosopher of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential
Italian philosopher. Allievo di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con
diverse riviste specialistiche di filosofia (Filosofia e Teologia, Studium).
Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur, tra cui:
la ricerca di un filo conduttore unitario all'interno della sterminata
ermeneutica (“Il cogito e l'ermeneutica: La questione del soggetto e la
inte-azione” (Procaccini, Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato
e auto-trasparente. Ricoeur appare nei
suoi studi come caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito
che, ferito e spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso
attraverso un lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della
trans-ductio, trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla
co-ospitalità conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre
saggi:“Il cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui
interazione” (Procaccini, Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena,
Napoli) – cfr. H. P. Grice, “Absolutes” --; “Logica del concreto, logica dell’astratto” --
“Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel, Piovani, Morano, Napoli); “L'amore”
(Studium, Roma); “Il segno della prassi. Saggi di ermeneutica, Città del sole,
Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura” (Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica
ed implicatura” (Guerini, Milano); La traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana,
Brescia, “Etica e morale, Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli,
Milano); Quei ragazzi di nome Fausto
Bertinotti Boys – Archivio Panorama. Grice: Jervolino
is playing with Calvino. You see, Calvino, a rather unimaginative writer, wrote
a collection of things he titled, in the whole thing and in the first part,
“Glia mori difficili” – People would have forgotten about it had it not been
for Nino Manfredi who brilliantly played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in
‘L’amore difficile’, sic in the singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’
– in that collective film. Jervolino is having in mind this, and now poses
Ricoeur as the widow and himself as the soldier. On top, he invites Ricoeur to
write the prologue which he stupidly agrees to! Caputo has analysed the
reciprocity of love and the stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is
Calvino – the original sin – who could have checked with the etymology of
‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino.
Keywords: ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino”
-- “Two cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed
implicatura”. “Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jommelli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del musicista filosofo
– muovere l’aria – l’azione melodrammatica – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Aversa).
Filosofo italiano. Essential Italian
philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul
suo soggiorno in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come
uno dei più sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo,
chiedendo di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga
che egli trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete
burlarvi di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è
Jommelli, sono io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa
città» - «È un grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come
voi, ma vi auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto
musicale». Grice: “I like
Jommelli. Like Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are
thought to be too avant-garde, too. I especially recall with affection how I
would trio with my father on the violin and my younger brother Dereck on the
cello. Dereck became a professional cellist with Hampshire. My obituary might
well read, “Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a
professional cellist. With Jommelli we
never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco
Affektenlehre) può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco
Figurenlehre) adottata nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli
affetti dell'uditorio; già i greci avevano la concezione che la musica potesse
suscitare emozioni: è proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti
dell'epoca attingono per applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime
cronache rinascimentali di interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità
civili ed ecclesiastiche, consapevoli del forte potere della musica sulla
psiche, la utilizzarono come veicolo dei propri messaggi propagandistici.
Ficino apprezza di più le forme semplici e comunicative rispetto alla polifonia
poiché la prima era maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o
placare le passioni umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa
e innaturale. Dello stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica
greca per le sue capacità affettive. La teoria musicale identifica ogni
affetto con un diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia)
identificati da specifiche figure musicali definite figurae o licentiae
(licenze). La loro particolarità era contraddistinta da anomalie nel
contrappunto, negli intervalli e nell'andamento armonico, appositamente
inserite per suscitare una particolare suggestione. Athanasius Kircher –
gesuita matematico, musicologo ed occultista tedesco – nel suo Musurgia
universalis afferma. La retorica ora allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo
incita all'ira, poi alla commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle
passioni violente e ad altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta
infine l'uditore destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo
stesso modo la musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove
l'animo con vario esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis)
Questo trattato e stampato anche a Roma.
Tra le classificazioni e distinzioni degli affetti umani compilate è da
menzionare quella di Cartesio che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649,
ne distingueva sei ritenuti principali, quali meraviglia, amore, odio,
desiderio, gioia e tristezza. Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi,
ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (Venezia, 1600), attacca questa
nuova forma musicale che utilizzava intervalli "così assoluti et
scoperti", poiché trasgredivano le regole contrappuntistiche (per esempio
le dissonanze non sempre sono precedute da una consonanza per risolvere su di
un'altra). Monteverdi difenderà quella che lui definisce seconda pratica
nell'Avvertimento del Libro quinto: queste licenze hanno uno scopo preciso, e
devono essere viste in un nuovo modo di comporre, diverso dalla concezione
musicale di Gioseffo Zarlino. Già dai madrigali infatti Monteverdi con le
dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti le immagini proposte dal
testo. Vologeso was
written using a wordy libretto by Verazi, itself an extensive reworking of
Apostolo Zeno's Lucio Vero (1700). The plot deals with the constancy of love in
the face of great obstacles, in this case the love of Vologeso, king of the
Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio Vero has defeated and
captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and spends most of Acts I and
II seducing and bullying her into abandoning her husband. When Lucilla,
daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns up, she and the Roman
emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio, assisted by Vologeso,
leads a revolt that results in Lucio's capitulation and the restoration of
their freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The plot allows ample
opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in Lucio's importunities
and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation with lions in an
arena, and the revolt that ends the opera. The music is conventional in its
use of recitative followed by arias, but forward-looking in that many of the
recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra rather than the
traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated da capo form so
that they do not slow up the action, and the chorus and orchestra play a more
considerable part in the proceedings than is usual in Baroque operas. Jommelli
had no great gift for melody and the opera offers few memorable tunes, but he
had a talent for brilliant vocal display and dramatic orchestral effects. The
total effect is imaginative, lively, and attractive. The casting is odd;
with only one male voice and five sopranos it's hard to tell the characters
apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman all have good voices and are
comfortable with Baroque style and ornamentation and expressive in their
characterizations. Waschinski and Taylor are as good as most falsettists,
though as usual their uneven voice production and unfocused tones set my teeth
on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make plausible the heroic
figure of Vologeso. (I really do not understand why conductors and producers
nowadays insist on using these voices in Baroque opera, a practice that has
neither historical nor aesthetic justification.). The Stuttgart Chamber
Orchestra is alert and responsive, Frieder Bernius keeps everything moving
along briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso doesn't stand up too
well compared to the Italian operas of Handel or Gluck, but taken on its own
terms and as presented here, it is thoroughly enjoyable While Mozart
may have claimed Jommelli’s musical style to be passé by the 1770s, Vologeso
itself is a reworking of an already antiquated libretto by Apostolo Zeno,
originally called Lucio Vero and first set by Carlo Pollarolo for Venice in
1700. Moreover, the version set by Jommelli and performed here by Classical
opera is in fact a modification of a modified libretto. The new librettist
Mattia Verazi had revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli
for Rinaldo di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story
is a familiar one, mingling political intrigue with love both unrequited and
true. In the eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Stuart Jackson)
is victorious in battle and captures Berenice (Gemma Summerfield), wife of the
Parthian king Vologeso (Rachel Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero
makes every effort to win her with the assistance of his minister Aniceto (Tom
Verney). Meanwhile, Vologeso attempts to assassinate Lucio Vero but is
recognised by Berenice, causing him too to be taken prisoner. Further
complicating matters, Lucio Vero’s betrothed, Lucilla (Angela Simkin), has
arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France), an ambassador from Lucio Vero’s
co-emperor, Marcus Aurelius. After many separations of the faithful Vologeso
and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s part to attain the
latter, and the threat of civil war from Marcus Aurelius, all is resolved and
the various couples are reunited without any blood being shed. Although
Zeno’s libretto is not remotely like those produced by later poets and
composers interested in reforming operatic conventions, the play’s enduring
appeal might well be attributed to its strong sense of spectacle, which
coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the play contains
on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination, Vologeso’s fight
with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for Berenice in addition
to traditional opera seria ingredients of triumphal marches, grand armies, and
the obligatory chorus announcing a lieto fine. Sometimes I felt that this
element of spectacle was lost in the context of a concert performance. Though
that is of course an unavoidable casualty of this mode of presentation, it was
further compounded by Jommelli’s own reluctance to capitalise on these aspects
of the play as did other contemporaries. Furthermore, artistic director Ian
Page writes in the introduction to the programme that besides the expected
editing of the recitative, he chose to cut not only a number of pieces in their
entirety, but also some arias’ middle-sections and their reprises in the
interests of ‘maximising our potential to appreciate and enjoy the opera’. Of
these, one was the opening chorus, which might have helped to restore some of
this sense of grandeur, if indeed Page’s goal was to get a feeling of
‘[experiencing] what a typical eighteenth-century opera was like’. J.’s
musical style in this opera has clearly moved on from the grand and expansive
show pieces we find in his earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747
(performed in London in 2014 and also reviewed here). With the exception of one
or two numbers which might be said to respond to a more traditional heroic
opera seria style, such Crede sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the
focus in Vologeso is instead on creating a more declamatory mode and
‘realistic’ rendering of the dramatic and emotional content of the text. As
such, the use of coloratura is generally much reduced and arias very often feel
more like ariosos, often to the point that it feels like accompanied recitative
intrudes upon melodic lines. The music is nevertheless still imbued with grace
and lyricism, and is marked by sometimes fussy, yet fine, delicate and
lace-like accompaniments. And there are some really good and interesting
numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s
first aria Tutti di speme al core, the already mentioned Crede sol, as well as
some very effective and attractive accompagnatos. In spite of the title,
this version (or at least as it has been presented to us with the cuts)
nevertheless still focuses greatly on the character of Lucio Vero and his
relationship with Berenice. Stuart Jackson’s performance came across as
something of a slow burning affair, only really coming fully into the character
after interval and reaching the apogee of dramatic intensity in his final aria.
And yet it felt largely like Lucio Vero was being interpreted as being the
youthful hero, the primo uomo role usually reserved for a castrato. This may
well be due to Verazi’s redaction of the opera, which seems to me to result in
a somewhat schizophrenic character, vacillating between tyrannical, or rather
psychopathic, conqueror and lovelorn hero. This is effectively underlined by
the kind of music with which Jommelli furnishes the character: languid arias
with long, plangent melodic lines, such as his opening Luci belle and the
cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias which verge on aria di
furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are not driven by real love
for Berenice but rather an overwhelming desire for power: not only in and of
itself, but also power over others. To this end, his rejection of Lucilla is
not merely an amorous choice, but a rejection of the power of Rome and the
authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether. So too the
psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to his will.
Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous lead did
not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant
execution. The performance otherwise had much working in its favour. I
very much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some
excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer
France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that
the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom
Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was
decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for
Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of
course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to
expect from Classical Opera. My overall impression from the programme
notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat
unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes
further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly
great composers, to be sure…’. While undoubtedly there are countless flops
littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best
left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And
Jommelli’s legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that ‘…much
of the music of contemporaneous composers… sounds quite like Mozart for much of
the time’ should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness
notwithstanding, who is effectively a product of his time! A final note:
a future Classical Opera concert this year is to feature some arias from
Semiramide by Josef Mysliveček, another figure well known to the Mozart family
and whose work has occasionally been misattributed to the young Wolfgang in the
past. A full opera of his at some point, further showing how Mozart was fully
integrated into the existing musical landscape, would be most welcome indeed!
Jommelli.
Keywords: musicista filosofo, Vincenzo Galilei, Grice’s piano, pavane.
Meistersinger, Mahler, music-hall ditties. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. Jomelli
Grice e Julia: la ragione conversazioanle e
l’implicatura conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Acri). Filosofo italiano. Grice: “Julia was more of a poet
than a philosopher; but then for Heidegger, philosophy IS poetry and vice
versa!” -- essential Italian philosopher. Studia a Cosenza sotto Focaracci. Direttore del
Telesio, periodico. Strinse grande amicizia Padula. La temperie culturale in
ambito locale vede la difficoltà della Calabria a integrarsi nella nuova entità
politica. Area essenzialmente contadina, la regione ha una classe dirigente che
preferisce assoggettarla al clientelismo e alla sua arretratezza piuttosto che
metterla al passo con zone del Paese più avanzate e progredite; perciò il mondo
intellettuale d'avanguardia, deluso dalle speranze e conscio del sottosviluppo,
si volge verso il positivismo e il socialismo. Vive tra il tardo romanticismo e
l'affermarsi delle innovative correnti costituite dal naturalismo e dal
verismo, nella scia di Carducci e Verga. Le contraddizioni della sua epoca lo
formano come un intellettuale spiritualista che rifiutail materialismo e in
parte il mondo contemporaneo, e d'altra parte un sostenitore degli ideali
socialisti, del riscatto delle masse disagiate e della glorificazione del
passato della Calabria a partire dall'assedio degli Aragonesi e dei suoi
conterranei coevi illustri, fra i quali Miraglia, VPadula, Quattromani, Tocco,
oltre a CAMPANELLA. Accostatosi in un primo tempo al misticismo di Gioberti, si
converte al verismo, alla ricerca del pragmatismo e di un modello di poesia di
alto civismo che lo stesso Julia proclama nei suoi Sonetti e liriche. Parte dai
miti popolari e dalle ballate della tradizione romantica per marcare
orgogliosamente la storia della sua terra. Considerato il padre della
letteratura calabrese, si interessa alle origini della cultura letteraria della
regione analizzando anche alcune opere a lui precedenti. Il suo impegno regionalistico
si concretizza in uno studio su Selvaggi, nel quale si individua un
collegamento fra Galeazzo di Tarsia e le produzioni romantiche. Vi fu poi un
saggio su Padula e un esame delle liriche riferibili all'Accademia Cosentina.
Sa però spaziare oltre i confini delle sue terre, fino a richiamare Milton nel
suo scritto dedicato a Padula. Oltre a uno studio su Monti, produce dei lavori
anche su Mazzini, Poerio, Correnti, legati dall'attenzione alle tematiche
relative al Risorgimento e perciò in convergenza con il proprio pensiero, che
dal punto di vista della poetica si richiama ai modelli che il letterato
individua in Leopardi, Berchet e Giusti, oltre che in Prati. A. Piromalli, La
letteratura calabrese” (Pellegrini, Cosenza); Monografia su calabriao, su
calabria. Digital Storytelling su J. a cura degli studenti del Liceo J. di
Acri, CS. Ovvero delle Famiglie Nobili e titolate del Napolitano, ascritte ai
Sedili di Napoli, al Libro d'Oro Napolitano, appartenenti alle Piazze delle
città del Napolitano dichiarate chiuse, all'Elenco Regionale Napolitano o che
abbiano avuto un ruolo nelle vicende del Sud Italia. Famiglia Julia A cura d iDodaro
Socio Corrispondente dell’Accademia Cosentina Arma: d’azzurro alla fascia
d’oro accompagnata nel capo da un destrocherio di carnagione tenente un uccello
di nero e in punta da un albero radicato al naturale(1). Titolo: Nobile di
Acri. Arma Famiglia La famiglia J., in origine nota come de “Giulia”,
figura fra le antiche e nobili casate di Acri, Cosenza. I J. godettero sempre
nella locale società di un buon livello di prestigio sociale come testimoniato
dalle alleanze matrimoniali contratte con diverse famiglie patrizie fra le
quali ricordiamo le seguenti: Benincasa, Candia, Capalbo, de Simone, Dodaro,
Falcone, Fusari. Simbolo della condizione privilegiata della famiglia è il
grande palazzo sito tra il rione Casalicchio ed il quartiere Piazza. Tale
edificio, al cui interno si conserva la ricca biblioteca di famiglia, è
abbellito da un portale lapideo sul quale spicca un mascherone sormontato da
un’antica riproduzione in pietra dello stemma del casato. Il suddetto blasone è
timbrato dalla classica corona a cinque punte che identifica i Julia come
nobili. Acri, Palazzo Julia, portale Nel 1506, con atto del notaio
Gaudinieri, il sacerdote Nicola Maria Julia fonda una cappella privata sotto il
titolo dell’Immacolata Concezione all’interno della chiesa di San Nicola di
Bari in Acri (4) (situata nel rione Casalicchio). Nel 1706, Fabrizio Julia
vende a Giuseppe Leopoldo Sanseverino un terreno dove e edificato l’imponente
complesso del palazzo acrese dei principi di Bisignano, permutandolo con la
casa e il fondo Macchia(5). Dal matrimonio fra il dott. Raffaele e la N.D.
Giuseppina Capalbo nacquero Salvatore ed Antonio dei quali il primo (deceduto
nel 1851) fu rinomato avvocato mentre Antonio viene ricordato come “Medico
illustre” che “in età provetta, in pochi mesi, studiò leggi presso il Focaracci
e ne apprese quanto ne anno i più maturi; onde s’incentrarono in lui il medico
e l’avvocato. Fra i personaggi celebri di questa famiglia ricordiamo il citato
Raffaele, Governatore di S. Giorgio e Vaccarizzo. La figura cui si lega
maggiormente la fama del casato è quella di J., FILOSOFO. Allo stesso è
intitolato il Liceo Classico e Scientifico di Acri. Svolge gli studi presso
l’istituto Molinari di Acri ed il seminario di S. Marco Argentano (8).
Frequenta il seminario di Bisignano dove ebbe come insegnante il Canonico
acrese Francesco Saverio Benvenuto, quest’ultimo colto latinista nonché
teologo, filosofo e parroco maggiore di Santa Maria in Acri. Intraprese gli studi giuridici e per alcuni
anni esercita la professione di avvocato poi accantonata a favore dell’insegnamento
di materie filosofiche. Quanto alla sua produzione filosofica questa e quella
del poligrafo (letteratura, filosofia, storia, cultura calabrese) inoltre. Nei
suoi studi predilesse la valorizzazione e la riscoperta di figure regionali
poiché gli pareva che la Calabria fosse dimenticata e poco apprezzata dopo la
raggiunta Unità. Fra le sue opere ricordiamo: Saggio sulla vita e le opere di
Gravina, Saggio di studi critici su Selvaggi e la Calabra poesia, ROVERE e i
suoi dialoghi di scienza prima, FIORENTINO filosofo, Lettere al figlio Antonio
su Cesare, SANCTIS in Calabria, Monti. Muore in Acri. “Telesio,” rivista
codiretta da J. Antonio Julia, figlio di Vincenzo, fu avvocato e raffinato
poeta sposa, in prime nozze (14), Mariantonia Dodaro,
figlia dell’avv. Giovanbattista e di Cristina Benvenuto. Il loro fu un
matrimonio felice e allietato dalla nascita di Maria Gabriella(15), Vincenzo e
Antonietta(16) (1897 † 1978). Antonio Julia e sua moglie Mariantonia
Dodaro Antonio Julia fu legato da sincero amore a sua moglie e quando
questa prematuramente scomparve, riversò il suo dolore in alcuni toccanti
componimenti poetici che rappresentano una struggente testimonianza del suo
dramma interiore e assieme della sua spiccata sensibilità d’animo. AL
CROCIFISSO DEL SUO LETTO Non più le sue lucenti Pupille a te si volgeran la
sera; non più per le dolenti mie stanze echeggerà la sua preghiera… O tu,
che pendi ancora, mistico Iddio, sul vedovo mio letto, volgi le luci ognora
sovra i miei figli e sul paterno tetto! Dimmi che ancor le rose Olezzano
per te, vigile Iddio, le parole amorose che a te rivolse, ne l’estremo
addio… Dimmi che ancor tu senti La voce sua, ne l’ombre de la sera, e
che, in soavi accenti, mormora pe’ suoi figli una preghiera!..(17) Note:
(1) - Gli smalti dello stemma Julia sono noti grazie ad una raffigurazione del
blasone in oggetto riportata dallo storico acrese Raffaele Capalbo (1843-1921)
in un suo lavoro inedito sull’araldica delle famiglie nobili di Acri. Nella
riproduzione del blasone dei Julia, visibile ancora oggi sul portale del loro
palazzo in Acri, il destrocherio appare vestito. (2) - Per approfondimenti si
rimanda a CHIODO, L’Archivio Privato della famiglia Iulia di Acri - Inventario
sommario, in “Archivio Storico per le Province Napoletane” (3) - Per un elenco
completo delle famiglie patrizie di Acri si vedaCAPALBO, Memorie storiche di
Acri, S. Giovanni in Persiceto (BO), Edizioni Brenner, (4) - R. CAPALBO, op.
cit., Ibidem - Ibidem - Quest’ultima, appartenente a una famiglia
originaria di Rogiano Gravina, era sorella di Ferdinando Balsan, letterato e deputato del regno d’Italia nonché
preside del liceo Telesio di Cosenza. Lo stesso figura tra i maestri del nipote
Vincenzo Julia. A. PIROMALLI, La Letteratura Calabrese, vol. I, Cosenza,
Pellegrini Editore,Ibidem (9) - Ibidem (10) - Ibidem (11) - Ibidem (12) -
Per approfondimenti su alcune vicende storiche che interessarono la famiglia
Fusari si rimanda a CAPALBO,- https://juliavincenzo.atavist.com (14) - Alcuni
anni dopo il decesso della prima moglie, si unirà in matrimonio con Maria
Beatrice Antonietta Romano di Acri. Poi sposatasi con Carlo Giannice Andata
successivamente in sposa a Giuseppe dell’Armi
- A. Iulia, Momenti, S. Maria Capua a Vetere, Casa ed. Della Gioventù,
p. 36. Si veda anche il componimento intitolato “Alla Vergine della Sua Stanza”.
Questo egregio, su cui fondiamo, a buon dritto, non pic cola speranza, per le
diverse prove del suo nobile ingegno fin'ora dateci, coltiva con forte, inteso
amore le filosofiche discipline, tutto solo rannicchiato in piccol paesuccio
delle Calabrie, Acri. Egli, da quello n'è sembrato, predilige la filosofia di
quel sommo torinese filosofo, che col suo Primato Civile e Mormale D'Italia
fanatizzò tutti isuoi connazionali per la dupla autonomia del loro Paese, Libertà
ed Indipendenza; e con l'Introduzione allo studio dellaFilosofia, la
Protologica ed altre opere speculative ispira nei cultori di questa no
bilissima scienza l'amore delle nazionali dottrine. J. a dunque è un
giobertiano , un ontologo , e per lui quindi sta che l’ente, il primo essere,
Colui che dà l'essere a tutte cose, non però spezzandosi, non diffondendosi, nè
emanandole dal suo seno, come il ragno il ragnatelo; ma liberamente creandole; per
lui dico sta, che l'Ente, l'ASSOLUTO reale, non astratto, quale il pose,il
proclama Hegel, è il Primo Filosofico, cioè a dire è non solo il primo essere o
primo ontologico ; ma anche la Prima Idea o Primo Psicologico. Sicchè non solo
anno le cose tutte da Dio l'essere loro, ma anche la loro intelligibilità.
Verità già insegnatadal fondatore dell'Accademia , il divino Platone, il quale
dice che l'idea del DIIVINO è pel mondo intelligibile quello che il sole è pel
mondo visibi le, e che l'essere assoluto dà alle menti nostre l'esistenza e
spande su loro e sugli obbietti della scienza illume della verità« detí v
8.& Tlothuns oùoxv xai adnocías» come il sole, che non solamente rende
visibili le cose, ma dona loro eziandio il nascimento, l'accrescimento e la
maturita -- τον ήλιον τοϊς ορωμένοις ου μόνον , οίμαι τήν του οράσθαι δυναμιν
παρέχειν φήσεις , αλλά και την γένεσιν αυτών όντα. Quindi per J. sta quel
metodo detto deduttivo, o sillogistico, che dai principii va alle conseguenze, ma
non come pretende il fondatore del Peripato del LIZIO, il qua le fa il
sillogismo posteriore all'induzione, ed il cui scopo non consiste in altro che
in applicare i principii alle cose particolari a meglio rifermarle. J. ha
capito bene che l'induzione non può darci punto tanto i principii proprii a
ciascuna scienza, quanto i principii comuni ed assolutamente universali. I
principii sono ontologici ed originalmente presenti alla intelligenza, secondo
dice il divino Platone, e non già puramente logici ed astratti, secondo dice
Aristotele, che li vuole prodotti la merce dell'intelligenza con gl’elementi
fornitici della sensazione. Nè debbe dirsi che J. neghi l'induzione. Ei
l'ammette, e nel senso di venir essa provocata, sostenuta e guidata in noi dal
lume di certe idee generali sempre presenti all'anima nostra, essendo un
impossibile elevarsi da qualche fatto individuale e variabile all'idea della
legge generale e permanente, senza averci di già nella mente, almeno in una
maniera vaga e confusa, l'idea di ordine, di generalità e di stabilità. Laonde
dice Laforet nella sua Storia della Filosofia Antica,in parlando di Aristotele.
Comment s'élever de la perception de faet contingents et relatif à l'idée de
principes nécessaires et absolus, si le necessaire et l'absolu sont entieremant
étrangers à l'intelligence? Dunque pel J., come per ogni giobertiano, si deve
partire di Dio per costruire la scienza filosofica ossia dalla idea somma ed
improdotta , perché è quel principio supremo che illumina e rende conoscibili
gli altri principiimeno generali e senza di cui non potrebbe aversi quella
sintesi obbiettiva, che argumenta di necessità nel suo moto organico la
gerarchia dei principii scientifici; e deve radicarsi in un principio assoluto,
supremo, universale, immutabile, il quale, reggendo colla sua virtù ogni
singolar passo del procedimento razionale, accorda ed unifica tutti imomenti
del discorso ideale, e tutta insieme 1.umana enciclopedia. Laonde dice
saviamente nel suo dotto di scorso intorno al Panteismo Attanasio, nella La
Carità diNapoli. Sintesi senza gerarchia di principii io non intendo
nell'ordine dell'idee, come non vedo nell'ordine umano sociale e nell'ordine
fisico di natura. E ingradamento di gerarchie che ponga in atto una sintesi
universale torna impossibile a concepire pur col pensiero senza un principio
supremo, essenzialmente uno ed immutabile, che sia il centro immoto che governi
i moti del multiplo e del diverso e tragga a sè ed accordi il multiplo e dil diverso».
Laonde, lasciando chel'induzione non conduca ai principii , a ciò che è
universale , sia che dessa fosse positivista o come la intende il positivismo,
siache fosse anche nel senso di Aristotsle, ci facciamo a lodare J. per avere
ei scelto quel sistema, che parte dall'idea dell’ASSOLUTO reale per costruire la
scienza, non sipotendo, per tante e tante ragioni dette e ri-dette, porsi per
primo conoscibile ciò che non è prima cosa; per chè sarebbe, seguendo questa
via, un turbare l'armonia della scienza filosofica; giusta che vien fatto dai
psicologi, i quali partono dal contingente, ed oșano spiegare l'assioma degl’assiomi,
la verità prima con la verità seconda, e separare l'ordine di esistenza da quel
lodi conoscenza, il primo psicologico dal primo ontologico, dando questo per primo
filosofico. Di qui non potremmo esserer improverati che atorto, se dicessimo che
iseguaci del PSICOLOGISMO di Aristotele -- non però di quelle d’AQUINO (si
veda) ch'è ben altro -- siam lontani da una vera scienza; perché la scienza è
con la sintesi, e la sintesi co'principii, e la gerarchia dei principii
scienziali nel principio sommo, Dio, radica ta. Siechè scienza sull'ANALISI è
scienza effimera, è scienza di nome, essendo disgregazione, e tale è la
filosofia di Aristotele, siccome è conto da quei due principii ammessi da lui. Nihilest
in intellectu,quod prius non fuerit in sensu -- e che l'anima nostra si rassomiglia ed una
tavolarasa -- Δείδ'ούτως ώσπερεν γραμματειωώ μηθένυ πάρχει εντελεχεία
γεγραμένον. È quantunque fosse vero che Aristotile ammettesse l'intelletto
attivo profondamente distinto dalla sensibilità, essendo quello che opera
83 $¢%su ciò che ci vien porto dalla sensazione, per tirarne od indurne
avec lemonde intelligible; sun intervention n'apportedo nerien de now eri veau
à ce qui est déposé dans l'àme par suite de la perception des 0C sens, il ne peut
qu'exercer son activité et travaillier sur ce qui est racu dans l'intellect
paseif. L'intellect actif d'Aristote nous semble jouer, redans la formation de
la connaessance,un rôle exactement samblable à 1021"celui que joue la
reflexion de Locke; ni l'un ni l'autre n'ajoutent ta rien à l'objet fourni par
la sensation, toute leur action seborné à éla: )doaborer cet objet» Dunque
nonpuò farsi ammeno di ammettere col ret.Julia e la scuola giobertiana
l'apprensione diretta ed immediata , din cioè l'intuito dell'Assoluto, e
ritenere essere questi la prima idea, la l'oprimaconoscenza,che,perla viadiun
primo guardare,vieneal. into:l'intelletto umano nello stato d'intenebramento,
che la riflessione di in poi, la quale èun secondo intuito od un ripiegamento
dello spirito e sopra il primo intuito, chiarifica e fissa, e non già che la si
acqui isti e conosca in forza del raziocinio, passandosi dalla cognizione a
iilistratta, ottenuta per la via dell'induzione, a quella concreta del V e
on& ro Assoluto, avendo ben dimosorato altrove, che i psicologi si tro fost
vino in grande errore, credendo ed insegnando, che Dio siccome ve
fosesritàassiomatica,essendouniversale,necersariaed immutabile,debba 18 essere
astratta,e che vi bisogna di forza indispensabilmente il ra ley ziocinio per
ascendere, mediante essa verità astratta, al vero primo buik ed assoluto,
mentre, siccome facemmo notare in proposito di Milone Insomma, senza menarla
piùinlungo, della insignescuola on anda tologica è J., siccome l'ha mostrato
co'suoi vari scritti di ar veratgomento filosofico e conquello, veramente stupendo,
Discorsointorno alla vita ed alle opera di Balsano, in cui, prendendoa consi
ost: der ar e questo disgraziato dotto Calabrese, divenuto vittima del pugnale di
un assino, e, considerandolo non solo quale oratore egregio ed acuto critico,ma
anche qualeillustre cultore delle scienze filosofi cincche, e forte amatore del
sistema ontologico, palesa a chiare note i suoi O. * pensamenti in fatto di
filosofia, che sono indubitatamente quelli del Pladiotonismo, cristianizzato d’Agostino,
ammirato d’AQUINO (si veda) e d’ALIGHIERI (si veda), divulgato da Gioberti, ed
abbracciato dalla th, maggior parte de'pensatori nostrani. La FILOSOFIA di J.
che ci avemmo in dono da lui medesi i mo , palesa ad evidenza non solo la
scuola filosofica cui appartie ne; non solo la lucentezza delle idee, ond'è
corredata sua mente; e non solo l'affetto per la patria grandezza quanto a politica,
governo e civile, scienze, lettere ed arti; ma dàanche prova della perizia che
l'universale ed elevarci sino alla concezione dei principii; pure non to
bisogna dimenticarci che nella teoria dello Stagirita è desso affatto &
vuoto, senza alcun rapporto diretto col mondo intelligibile, da potersi pelo
dire che nella conoscenza eserciti l'ufficio nè più nè meno della
riostruflessione di Locke. E dice bene Laforet. Danz la theorie du Sta ta,
girite l'intellect actif est tout a fait vide et n'a nul rapport direct «Profilo
Bibliografico pubb. nella Rivista Itoliana di Palerino ela:Anno IV,N. 11,nonci
ha cosa più chiara, che essa verità assio -artormatica primitiva è obbiettiva
in sommo grado,appunto per le sue veritacaratteristiche di universalità,
necessità ed iminutabilità. COSS me adal tile. // ne 84 ha ei
nell'idioma nazionale. Sicchè è a rallegrarci con lui dei buoni studi, dell'amore
delle nazionali dottrine dell'eccellenza del sistema che ha adottato nelle
scienze speculative, anteponendo (fra i due sistemi che veramente possono dirsi
i più perfetti, essendo ambo sin tesisti, cioè a dire razionalo-empirici od
empirico-razionali) l'ontologismo al psicologismo, e, fuggendo, quelloche è più,
gl’eccessi del razionalismo e dell'empirismo, e quei tali sistemi erronei,
idealismo e positivismo, pei quali delirano i filosofi, da cui camminando si di
questo passo, non ci possiamo attendere, se non un ar venire sventurato. Prosegue
J. i suoi studii filosofici, e ci offra lavori speculativi di maggior lena, per
poterlo vie meglio ammirarlo, e rallegrarcene con lui. Delle dottrine
filosofiche e civili di Gravina per Balsano, con saggio sulla vita e sulle
opere del Gravina per J. — Cosenza, Mgliaccio. Gravina è considerato dai più
come poeta e letterato segnatamente pel suo trattato della Ragione poetica,e
come insigne giureconsulto, specie per lasua opera De
ortuetprogressujuriscivilis.Ma eglime rita,sotto un certo rispetto,d'essere
altresi considerato come filosofo e per le dottrine speculative che professava
e per quei sommi principii a cui s'informano i suoi SAGGI DI FILOSOFIA, dovendo
le scienze particolari e d'applicazione, quali sono appunto le discipline giuri
diche e pratiche.esser precedute ed illuminate da una scienza speculativa più
alta ed universale,cioè dalla Filosofia pro priamente detta. A nostri giorni il
calabrese Balsano si pro pose di far meglio conoscere le dottrine filosofiche e
civili del Gravina, studiando accuratamente e con intelletto d'amore le opere
del suo grande concittadino.Ma ilBalsano,non che pubblicarlo,non potè compiere il
suo lavoro, perchè trafitto dal pugnaledell'assassino! J. ha raccolto la sacra
eredità del suo venerato maestro,dettando un'eru dita ed ampia monografia sulla
vita del Gravina, e pubbli candola insieme al lavoro inedito del Balsano. In
questa vita e troviamo uno specchio breve ma fedele dei tempi
del Gra vina, specie riguardo agli studii; la pittura del carattere morale del
pensatore rogianese,un cenno de'suoi numerosi scritti e de'suoi meriti
letterarii. L'opera del Balsano,dettata in una forma quanto castigata
altrettanto elegante ed elevata,contiene una larga esposizione dei pensamenti
del Gravina diretti a coordinare tutte le sue meditazioni di filosofia
speculativa e di morale , di religione edidiritto,diesteticaed'insegnamento,dipolitica
edi civiltà.È divisainduelibri.Nelprimosiragionadelledot trine civili. Quanto
alla filosofia, dal Balsamo si cerca dimo strare che Gravina, studioso della
TRADIZIONE DELL’ANTICA FILOSOFIA ITALICA,si attenne specialmente alla dottrine platoniche
(comeapparisceanche dall'Orazionesua De instaura tione studiorum), armoneggiandole
col progresso della civiltà cristiana,delle scienze particolari e massime del
Diritto,egli che aveva meditato le opere dei sommi giure consulti romani, e che
aveva piena la mente ed il petto della grandezza di ROMA antica. Le dottrine
platoniche da lui professate gli fecero innalzare la mente ai principii sommi
del Diritto, a meditare la riforma delle dottrine civili,ed a comprendere la
sintesi el'armonia delle parti principalidel sapere. Difatti, il Gravina vedeva
la scienza umana come un'armonia e ricordava la piramide in cui egli dice
espressamente avere gli antichi savi simboleggiato la scienza umana e la natura
delle cose : il che significa che per lui l'ordine della scienza risponde a
quello della natura, l'idealità alla realità; e come il primo vero è l'idea
divina nota da principio all'intelletto creato, così il primo essere è Dio
creatore della scienza e dellanatura.Tutto l'ordine dei contingenti reali ha sua
causa efficiente nell'ASSOLUTO che licrea; tuttol'ordinedelle cono scenze
empiriche ha sua origine nell'idea eterna, presente sempre all'intelletto umano
e norma o tipo a cui si riscon trano le cose finiteapprese per esperienza
sensibile. E sotto questo aspetto può dirsi che ilGravina precorresse al
Gioberti,che in cima del sapere e dell'essere doveva porre Dio creatore.Adunqueilcontemporaneo
delViconon segui le dottrine del Locke, ma invece quelle più elevate di
Pla 225 Disp. 2. 15 tone e del
Cartesio, quantunque non și mostrasse sempre giusto verso Aristotile. Ma se al
Gravina non può negarsi un certo valore filo sofico, i suoi veri meriti
risguardano, più che la FILOSOFIA ela Letteratura, la Giurisprudenza. Preceduto
da Gentile, da Bacone e da Grozio, Gravina non solo ricercava l'origine del
Diritto e ne indagava iprogressi (De ortu et progressu juris civilis), ma
sapeva altresi elevarsi alle idealità o ai principii supremi del Diritto.
Quindi è che a lui debbono molto la Storia del Diritto, specie,diquelloromanocheinsegnava
in Roma stessa, e la FILOSOFIA. Il Gravina, esaminando l'origine e la natura
del Diritto, non lo separava dalla Morale come oggi fanno taluni, perchè nella
legge morale,da cui scaturiscono tutti i doveri umani, trova pure il suo primo
e vero fon damento il Diritto. Egli precorse al Savigny da un lato, al VICO e
Montesquieu dall'altro, interpretando con larghezza di veduta la storia civile
e giuridica di ROMA. Il Balsano si era proposto di ritarrre ilGravina non solo
qual eminente giureconsulto, sì ancora qual filosofo civile, mostrando com'egli
additasse le norme eterne d'ogni società umana (che ammetteva come un portato
della natura) nella vita privata e pubblica, nell'ordine privato e politico. Ma
ripetiamo, Balsano non potè compiere l'opera sua;la quale delresto,merita di
essere conosciuta e studiatadai cultori della Filosofia, benchè ci sembri
scritta con entusiasmo soverchio verso ilproprio concittadino risguardato come
filosofo. DISCORSO Recitato nella sala dell' Accademia Cosentina ).
Piansi,o Signori,nella mia pensosa solitudine,la morte immatura del caro
Fiorentino, che mi fu amico e fratello !; vengo ora a glorificarne l'ingegno
nel tempio della scienza, innanzi al simulacro del vecchio Telesio, al cospetto
di dotti Accademici,di fervidigiovani,dieletti ingegni,di distinti Professori,
che meglio di m e , nato e cresciuto nelle m o n tagne, potrebbero valutarne i
forti studi e la vasta intelli genza. Parlerò con franchezza, senza adulazioni
rettoriche, senza intemperanze di lodi; dinanzi ad uomini gravi ed a u steri le
apoteosi e la rettorica sono un fuordopera. La parola mendace sarebbe un
insulto alle ceneri di Fiorentino, uomo sovero ed aperto, che disdegnò il
lenocinio e le bel lezze oratorie, seppe dire con schiettezza di calabrese la v
e rità ad amici e nemici, e fu audace demolitore del vecchio mondo; inesorabile
agl'ipocriti ed ai ciarlatani. Nella rioca personalità del Fiorentino
grandeggia il filosofo ed il pensa tore;lascio,per ora,ad altri di me più competenti,
esami nare il letterato, lo scrittore, ed il cittadino; io vi parlerò soltanto
dell'Autore di BRUNO;del Saggio Storico sulla Filosofia; di POMPONAZZI e di TELESIO;
quat tro titoli di gloria , che basteranno a rendere immortale il nome di
Francesco Fiorentino. 1 Vedi il mio articolo sul Fiorentino pubblicato
nell'Avanguardia n u meri 101-102, riprodotto dalla Gazzetta Calabrese e dal
Calabro in Catanzaro; dal Corriere del Mattino e dall'Ateneo, in Napoli.
L'Italia , o Signori, fu scossa nei principi del secolo, dopo la grande
Rivoluzione dell'ottantanove , dalla parola del nostro GALLUPPI, che il
Gioberti chiamò il Nestore della sapienza italiana. Senza mistiche intemperanze
, senza voli metafisici, ei richiamò, nuovo Socrate, la mente degli Italiani ad
indagare il m e e la coscienza ; a scrutare profon - damente ilsubbietto
umano;e,rigettando lequiddità scola- stiche ed il sensismo di Condillac e di
Tracy, contribui à rinnovare presso di noi il metodo naturale , e fu salutare
reazione all'esorbitanze speculative del secolo decimottavo , Conscio della
esigenza storioa del secolo decimonono,il Gal luppi iniziò presso di noi lo
studio della storia della filoso. fia ; indovino , pur combattendola fieramente
, l'importanza speculativa della sintesi a priori, che in parte accetto ; e,
benchè avesse trascurata la Rinascenza,Telesio,Bruno, Cam . panella, può dirsi
, il vero educatore dello spirito filosofico in Italia. La Calabria, terra
delle grandi iniziative e delle magnanime audacie, si elevò con Galluppi
all'altezza del pensiero moderno, e fu, sarei per dire, la squilla settimon
tana di CAMPANELLA, che risvegliò in Italia il pensiero lai
caleedumano,ilpensieropuro eduniversale. FIORENTINO studia Galluppi, ne
comprese l'indirizzo storico, o gli piacque la nuova e socratica spe culazione,
che un modesto filosofo iniziava nella estrema Calabria, sulle rive di quei
mari, che ripetono ancor l'eco delle armonie pitagoriche. Galluppi, con le sue
serene e casalinghe meditazioni, non bastava ad appagare il libero ed
irrequieto ingegno del Fiorentino , aquila delle montagne , che volea spezzare
le pastoie del vecchio mondo e della speculazione galluppiana. In mezzo a
queste ansie intellet. tive sopravvenne il Gioberti a scuotere le menti dei
Meri. dionali con la magica parola ; ed il Fiorentino, assetato di ideale e di
patria, come tutti i forti ingegni di Calabria, accettò anch'egli la mistica
speculazione giobertiana , o fu idealista platonico ed ortodosso. E chi potea,
pria del sessanta, resistere al fascino del Gioberti? Chi rinnegare la p a
tria, ch'egli glorificò nelle pagine immortali del Primato ? Guerrazzi chiamò
il Gioberti scintilla piovuta dal Vesu vio sulla cima delle Alpi : veramente ci
è in lui l'audacia, la fiamma profetica, la divinazione geniale del
Mezzogiorno; ci è VICO e Campanella , QUINO o G. Bruno ; ci è la fede dei
credenti, lo spirito ribelle dei tempi nuovi, l'ome rica fantasia di Platone ,
l'austero sillogismo di Aristotile. Nei dolori dell'esilio,egli scrisse la
Teorica del Sopranna turale, ch'è l'apoteosi della vecchia ortodossia ;
riassunge nella Introduzione tutto il passato teologico e tradizionale, rinnovò
il realismo del Medio -Evo , sposandolo al pensiero moderno; risuscitò nel
Primato, con l'entusiasmo del pro feta, i titoli della nostra grandezza, e
lanciandosi col volo dell'Aquila alpigiana nel grembo dell'Essere , credette di
averne interrogate le profondità, ringiovanito il vecchio Dio della Scolastica
, e sciolti tutti i problemi con la formola ideale e con l'Ente creatore.
Gioberti non arrestossi a metà; e,ringagliardito da nuovi studî, ingegno audace
e progres · sivo, com'era, accettò gran parte della speculazione moder na, e,
spastoiandosi dal vecchio teologismo, dalle utopie del Primato , inaugurò la
nuova Italia col Rinnovamento ; la nuova Scienza con la Protologia, e la nuova
Chiesa con la Riforma Cattolica , e con la Filosofia della Rivelazione ;
sebbene non interamente emancipato dalla vecchia ortodos sia. Ai tempi che il
Gioberti pubblicò il Rinnovamento, ed il Massari le Opere postume del suo
grande amico, le Calabrie erano chiuse dalla muraglia cinese,ed ilnuovo pen
siero laicale del Gioberti non potè penetrare nei nostri b o schi. La gioventù
era ancora innamorata del misticismo e della formola ideale; i vecchi eroi
della Rinascenza non erano ancora conosciuti tra noi ; o SPAVENTA, esule a
Torino, dove pubblicò dal 54 al 56 i suoi stupendi Saggi Critici su Bruno e
Campanella, era quasi ignorato in Calabria. Il Fiorentino, non bisogna
nasconderlo,avea subito an. Scrisse allora a Napoli il Bruno , un Saggio,
come schiettamente confessa l'Autore ; composto in tutta fretta nelle vacanze ,
e disteso in soli v e n totto giorni.Quel Saggio, benchè imperfetto, segna
ilprimo momento della critica evoluzione del Nostro in filosofia, il passaggio
, cioè , dal vecchio dommatismo giobertiano alla speculazione libera e laicale
dei tempi moderni. Nello studio del passato il Fiorentino trova la spiegazione
dei posteriori sistemi;e,poichè non poteva valutare le teoriche del Bruno, senza
risalire alle origini, guarda la dialettica nelle scuole di CROTONE e VELIA, e
ne rilevò con sa gace giudizio l'importanza speculativa nel gran dramma del
greco pensiero.Si occupò,egli ilprimo,presso di noi,della stupenda Dialettica
del Cardinale di Cusa, e ne indagò i le gami col sistema del Nolano , dove
causa e principio sono una medesima cosa , e la esteriorità della causa e la
inte 1 Leggeva i SS. Padri in una cella di monaci: ne trascrisse molto; e ne
pubblicò alcune opere a Messina, voltandole in italiano. Cusani; Aiello; Giuseppe del Re; Salvetti; Gatti;
Fratelli Spaventa; Imbriani; Meis; Tari; Savarese; Perez; Mancini; Sanctis; Marselli; Trinchera; Turchiarulo; Zio;
Quercia ed altri. pen siero germanico, diffuso nel Mezzogiorno dai più
forti ingegni del Napolitano; indovinò la grandezza spe - culativa della
Rinascenza , e si sentì attratto dall'eroica fi gura del Nolano. ch'egli
l'influsso dei Santi Padri ',e,principalmente, come dicemmo, del filosofo
Torinese, che da lui studiato profon damente in gioventù, non fu dimenticato
nella età matura, in mezzo ai più splendidi trionfi del suo ingegno. Venne però
il sessanta, con le sue titaniche audacie, e con le sue immortali demolizioni a
svegliare Fiorentino dalla sua fede dommatica e dal suo sonno
ortodosso;e,benchè non ancora emancipato dal vecchio Gioberti,si volse a
studiare il riorità del principio
si ricongiungono nell'Uno ,ch'è insie me causa e principio. L 'Uno nel sistema
del Nolano, è to talità assoluta; vale a dire che come principio della forma
zione dello cose è minimo,come totalità perfetta ó massimo; come identità
delprincipioedellafinepigliailnome diUno, ove tutto si assorbe, come in vasto
ricettacolo; ove il pensiero e la realtà si confonde in una identità suprema.
In ciò con . siste il Panteismo di Bruno, che Fiorentino rigetta, soggiogato
dal vecchio Gioberti, confutando l' eccletismo poco omogeneo, gli ondeggiamenti
e le contraddizioni del Nolano , che fonde insieme la Causa dei Pitagorici,
l'Uno degli Eleatici , ed il Principio degli Alessandrini. E pure , ad onta
delle prevenzioni ortodosse e giobertiane , il F i o rentino non disconosce le
novità laicali, di cui è ricco il sistema del Bruno; la maggioranza del
pensiero, la menta lità, che splende come intelletto divino, mondano , partico
lare,ed ilconcetto direlazione,ch'è tanta parte dellaPro tologia del Gioberti ,
e costituisce il verace assoluto ; l'asso luto , cioè , della moderna
speculazione. Dallo oscillare del Bruno tra la Scolastica e la Rinascenza
deriva che il finito ora è una vana parvenza, ora la massima realtà; ed il
Nolano ondeggia tra Eraclito e Parmenide di VELIA, tra il flusso c o n tinuo e
la rigida immobilità. Il Fiorentino mette Bruno in relazione con Spinoza e
Schelling , ne nota col solito acume le differenze e le somiglianze, o conclude
che i tre filosofi si rassomigliano nella prospettiva generale del sistema,
hanno il medesimo intendimento di unificare la scienza e d'immedesimarla col
mondo ; cercano fuori del pensiero il centro della loro unità , e costituiscono
quella serie di Panteisti, che si dicono obbiettivi; l'Uno, la Sostan
za,l'Assoluto sono tre creazioni parallele.Il Fiorentino ana lizza del pari la
Dialettica di Hegel e di Gioberti , m o n u menti immortali della moderna
speculazione, e nota che in Hegel e Gioberti contrastano due tradizioni, due
filosofie, e due nazioni; la filosofia della creazione e la filosofia
della identità, il cattolicismo ed il razionalismo, l’Italia,
patria di S. Tommaso o di Dante,e la Germania, patria di Lutero e di Göthe.
Fiorentino, senza sconoscere la importanza della filosofia tedesca, glorifica
la vecchia formola giobertiana, il cattolicismo e la rivelazione; rigetta quasi
il pensiero m o derno, desidera il rinnovamento della antica filosofia italia,
na, e, collocando su glialtari il Gioberti della Teorica e della Introduzione,
chiude il Saggio con queste parole: «Giova « netto ancora,sognava che il nome
di Gioberti suone « rebbe terribile sui campi di battaglia, e venerando tra le
« arcale della Università. Quel mio sogno giovanile si è av « verato in gran
parte e la indipendenza e l'unità della « mia patria,propugnata da quel grande
statista, è presso « a compiersi; mi sarebbe ora assai dolce il vedere una «
scuola ed un'accademia iniziarsi, diffondersi , giganteg « giare in quel nome
si caro ad ogni italiano, con quella « formola,che assomma la scienza e la fede
dei nostripa. « dri. Da esse soltanto noi potremo sperare giovani, c o m «
pagni di quelli che combatterono a Curtatone, e cacciarono « gli Austriaci da
Varese e da Como.» Giordano Bruno portò il Fiorentino ad uno studio più
accurato della greca filosofia, di cui è anche specchio e ri produzione,inbuona
parte, la Rinascenza italiana, della quale il Nolano è l'eroe ed il martire.
Professore straordinario di Storia di filosofia a Bologna, il Fiorentino si
diede a studiare alacremente e con tenacità di calabrese Aristotile e
Platone.Si fatti studii, come racconta egli stesso,gli apri rono nuovi
orizzonti, gli allargarono la vista intellettiva, o gli fecero scorgere
ildifetto fondamentale della filosofia gio bertiana. Fiorentino si allontano
dal vecchio Gioberti, non colcuore, sibene con la mente, ch:i forti amori
deigiovani anni non possono dimenticarsi. Rude e franco calabrese, intelletto austero,
Fiorentino si emancipò dalla scuola filosofica ortodossa,quando si convinse che
il mito e la leggenda pre valevano sulla pura speculazione, sul pensiero libero
o laicale. La critica, che Aristotile fa di Platone,a cui Gioberti si
rassomiglia,fece schivo il Nostro dal mescolare immagini ad idee, e lo inimicò
con le metafore filosofiche la severa, m a ineluttabile critica di Aristotile;
non i Tedeschi lo c o n vertirono alla nuova filosofia , degna dei tempi
moderni, si bene il rigido, inesorabile Aristotile Fiorentino scese, calabro
atleta, nella arena della greca filosofia, e gio vine ardente fu trasportato
lungo le sponde dell' Ilisso , tra gli alberi fragranti, che ne ombreggiano il
margine ; sotto il bel cielo di Omero , tra le dispute di Socrate, i simposî
platonici , e le austere meditazioni dell'Accademia. Sapeva egli fondere ed
accordare insieme l'idea greca all'idea ca labra, rappresentata nei tempi
antichi da Pitagora, e tutte e due al nuovo pensiero laicale del Rinascimento ,
rappre sentato presso di noi da Telesio e Campanella. Ringiovani così il
pensiero , irrigidito nelle ferree strette della Scola stica e del vecchio
Gioberti ; e farfalla , ch'esce a poco a poco dal suo involucro; montanaro
calabrese, che si trasfi guraman mano sottoilsoffiodeinuovi tempi, si sentì umano
ed universale nei Dialoghi di Platone e nella Metafisica di Aristotile.La
Grecia fu infatti la terra dove sbocciò ilfiore dell'Arte, e germogliò il seme
dell'umana ragione ; fu la patria del pensioro speculativo, della Dialettica, e
della Categoria, a cui metton capo ipiù vasti sistemi dell'antica e
dellamoderna filosofia.Fu lapatria di Platone, che per genialità e divinazione
speculativa, per universalità di pensa menti , per movimento drammatico, per
colorito artistico e finezza di dialogo, grandeggia su tutti i filosofi; egli
fonde in sè l'eloquio facile e maraviglioso di Omero e l'attica bellezza di
Sofocle. La vecchia Grecia s'idealizza e si trasfigura nel gran discepolo di
Socrate; la speculazione diviene arte e dramma, ed il pensiero , chiuso nei c
ancelli di Talete e di Eraclito, abbraccia ilmondo, si fa universale ed umano ,an
Vedi Filosofia Contemporanea in Italia, Napoli] ticipa il Cristianesimo e
preludia all'età moderna Egli fonde, come disse bene il Ferrai, in una grande
unità isofisti e i politici, gli artefici e i guerrieri ; uomini , donne ,
vecchi, fanciulli, schiavi e liberi, e in questo mondo in azione ti si fa duca
e maestro, innalzandoti, migliorandoti, affinando le tue facoltà, spesso
spirandoti nell'anima un sacro entusiasmo per il buono , per il vero ;
quell'entusiasmo , aggiungo io , che crea i grandi fatti della storia, e quei
capolavori del l'arte, che si chiamano Convito ed il Fedro, ove si spec
chiatuttoilsorriso dell'Ionio mare,l'apollinea bellezzadei Greci , il fascino
di Diotima e di Aspasia ; la morbida poesia dell'Attica e l'arguta ironia di
Socrate ; divina bellezza , m u . sica arcana , che rende unica la Grecia tra
le nazioni più civili e più artistiche del mondo . N o n volendo abusare della
vostra bontà io m i restringo per ora a Platone ; che ci porterebbe assai lungi
il voler discorrere completamente del Saggio Storico sulla filosofia Greca ;
discutere ed esaminare Aristotele e quanto altro riguarda le Categorie ed i
problemi della filosofia m o derna , di cui si occupa il Nostro nel suo
stupendo lavoro. Il Fiorentino scrutò con animo libero e spassionato la vec
chia speculazione ellenica; la Grecia anteriore a Socrate,ove campeggiano le
grandiose figure di Talete, di Senofane, di Eraclito, di Parmenide , di
Anassagora ; o dove si elabora a poco a poco l'idea platonica e la categoria
aristotelica . È un quadro ricco di pensiero, ed anche di poesia,che con vivi
colori ci tratteggia Fiorentino con quella sua ge nialità, con quella lucida
esposizione, che tanta grazia a g giunge ai suoi lavori speculativi;
incantevole lucidezza, che ritrae i limpidi Soli diffusi sui patrî vigneti e
sulle marine di Cotrone. Il Saggio Storico sulla filosofia sarà sempre, secondo
il nostro debole parere, l'opera più bella, più geniale del Fiorentino ; ci è
il profumo e l'entusiasmo della gioventù, ci è la vita artistica, anche in
mezzo alle severe meditazioni del pensatore ; quella vita, che solo può dare la
Giorn.Napoli] gioventù , nella sua più rigogliosa fioritura ed espansione. Ciò
nonostante,spassionati estimatori dell'ingegno del nostro amico , riconosciamo
in quel saggio lacune ed imperfezioni, che l'autore medesimo, uomo schietto e
leale,vi riconobbe, ricco di nuovi studi sulla lingua, sulla filosofia, sulla
lette ratura greca ; dotto nel tedesco e conoscitore profondo dei moderni
lavori alemanni su Platone ed Aristotile. Intanto facciamo notare che il
cardine fondamentale della critica del Fiorentino furono le idee platoniche e
le categorie aristo teliche , che sono e saranno sempre le colonne e le pietre
granitiche dell'umano pensiero. La critica platonica (come nota il Chiappelli
nel dottissimo studio sulla interpetrazione panteistica della dottrina
platonica) si è a giorni nostri ri fatta da capo ; e la quistione si aggira sui
fondamenti di tutto il platonismo, valeadire,sulgenuino valoredelladot trina
delle idee, che forma il centro del sistema platonico. Dalla interpetrazione di
codesta dottrina dipende quella di tutto il resto del sistema ; è il
presupposto , da cui , come tanti corollarii, scendono tutte le altre parti di
questo m o numento immortale del genio greco,che scosso dalla potente critica
di Aristotile , travisato dal Neo -platonismo , rivive anche oggi , dopo le
vicende di tanti secoli. Varie e con traddittorie in ogni tempo furono le
interpetrazioni delle idee platoniche;furono scambiate,ora con gl’ideali
estetici,che vagheggia l'artista, ora ritenuti come generi logici e concetti
intellettivi,ed ora come gli eterni paradimmi del divino artefice,modelli
esemplari delle cose, e quindi esistenti per sė;laquale interpetrazione,che
sitrova diffusatraiNeo platonici,traiPadridella Chiesa,ed in tutto il Medio-Evo,
anche oggi è sostenuta da valorosi critici. È certo poi che le idee in Platone
sono trascendenti , immobili e separate dalla materia,e che carattere
principale del Platonismo è la irreconciliabilità tra l'idea e la materia, tra
l'intelligibile ed ilsensibile:Le piùingegnose interpetrazioni deicriticimo.
derni,e massime del Teicmuller, che fa di Platone un Panteista, non han potuto
colmare l'abisso,che nel greco filosofo separa l'idea dal cosmo, l'elemento
intelligibile dall'elemento materiale. Relegate, come sono, le idee in un mondo
inac cessibile, non possono esercitare nessuna influenza, nè sul l'essere, nè
sul divenire delle cose sensibili, nė spiegare il formarsi delle cose
medesime.Anche la relazione delle ideo con Dio, osserva Fiorentino, rimane
indefinita; le idee non hanno causalità, perciò la causa efficiente deve
trovarsi accanto a loro, o concorrere con loro alla formazione dei mondo. Platone
non tenta neppure di conciliare Iddio con le idee ; perciò accanto alla
speculazione tu trovi ancora il mito, non come semplice ornamento,ma come
elemento in tegrale del sistema. Solo è certo che l'altissima idea è per
Platone quella del Bene ; la quale ora s'immedesima con la ragione divina, ora
è quella, a cui guardando il Demiurgo dà forma al mondo ; se non che non si può
risolutamente affermare che il Bene s’immedesimi con Dio,ch'è un dato della
tradizione piuttosto che della filosofia , ed in Piatone non essendo chiara
quella immedesimazione , non riesce perfetto il collegamento tra le idee e la
mente divina, ed il sistema delle idee riesce poco coerente, e sempre o n
deggiante ed incerto. Il Fiorentino nel Saggio slorico rigettò la
interpetrazione delle idee platoniche come riminiscenze di una vita anteriore,
come modelli e paradimmi del mondo, come pensieri divini ; e ritenne che
Platone non è sempre lo stesso ne'suoi Dialoghi ; giovane filosofo da poeta,m a
turo senti bisogno di spiegare la scienza,e ricorse alle idee ; negli ultimi
anni adottò il linguaggio pitagorico a proposito delle idee , e le considerò
come numeri. La dottrina delle idee platoniche , trattata davvero
scientificamente , consiste pel Fiorentino nei Dialoghi il Teeteto , il
Sofista, ed il Parmenide. Il Sofista prepara il Parmenide, a cui dà il fonda
mento ed ilprincipio;ed ilParmenide sostituisceallame. Manuale di Storia della
Filosofia, Napoli] tessi ed ai simulacri la relazione, ch'è la vera natura e la
vera condizione di tutte le idee ; è la loro vita e fecondità .
IlFiorentino,austero intelletto e libero pensatore,preferiva alla lirica del
Fedro e del Simposio , alla epica narrazione del Timeo ildramma ideale del
Parmenide.Fiorentino scrutò profondamente i tre dialoghi platonici , o ne
rilevò il vero significato. La scienza, egli disse , non è sola sensazione e
sola opinione, come vogliono iJonici, ed ecco ilsignificato del Teeteto; la
scienza non è la sola cognizione dell'Uno,come pretende Parmenide,e neanco
dell'essenze immobili ed ir relative dei Megarici;ed ecco ilsignificato del
Sofista.La scienza è l'una e l'altra opinione e cognizione, relazione di
entrambe ; ed ecco il risultato ultimo del Parmenide ; tanto vero che, senza la
relatività delle idee, il Parmenide rimarra sempre un enimma, il sistema di
Platone un leggiadro tes suto di favole, di reminiscenze oltremondane ed
assurde, e di sperticate idealità. Scrutando meglio il Sofista ed il Par .
menide, Fiorentino asserisce che il principio da cni muove Platone nel Sofista
, ossia l'Ente , e quello da cui muove nel Parmenide, ossia l'Uno, sonolostesso
principio;senon che l'ento è rigido, immobile, indeterminato, e l'Uno è
determinato, e produce i Molti. L'uno è il medesimo e dil diverso del Molli;
come viceversa il Molti si può dire mede. simo ed altro dell'Uno; tanto che, a
parere del Fiorentino, abbiamo nel Parmenido esplicito ildiverso e l'altro;
sebbene rimanga in Platone nell'ombra la causa della estrinsecazione della
idea, e l'apparire della materia. Platone non colse la vera natura
dell'altro,che non può essere nè un'essenza,nė un'idea;sìbene una relazione; egli
perciò oscillò dall'uno all'altro di questi due termini,per trovarvi la
materia, ed, irresoluto, la fè credere una volta essenza,ed un'altra idea. Pare
che in tutte queste sottili ed ingegnose interpetrazioni del Fiorentino
entrasse un po il sistema e la critica moderna dell’Hegel , sempre caro al
Nostro , come quegli che fu la sintesi più stupenda del pensiero laicale
tedesco,da Lutero a Kant. Felice Tocco, di cui tanto si onorano le
Calabrie, nelle sue dotte Ricerche Platoniche, esplicitamente osserva che
Fiorentino interpetra il Parmenide di Platone alla maniera di Hegel, e che , ad
onta delle argute considera zioni sulle stonature della Dialettica platonica,
nou tenne iu conto il fare negativo di tutto il dialogo. Il trapasso, dalla
teorica della metessi e degl’influssi a quello della dialettica assoluta,èun
saltocosìsmisurato, chedifficilmentepotrebbe farsida un uomo,per vastissimo
ingegno ch'egli abbia,sopra tutto nel tempo,in cui la speculazione è ancora sul
nascere, ed i sistemi filosofici sono appena abbozzati.E ingiusto per ciò,
conchiude Tocco, ilraccostamento della dialettica platonica all’egheliana, e
non bisogna interpetrare con Hegel Platone,etrasportare ilmondo antico nel
mondo moderno!! Alla origine e natura delle idee è intimamente legata la
Dialettica platonica ; essa non è altro , se non che la legge dell'intreccio
ideale, il modo come si forma il Logo, o la Ragione universale ed assoluta. Il
ritmo della Dialettica vera di Platone, secondo la interpetrazione del
Fiorentino,è nel Parmenide ; il contenuto del quale si risolve in una trilo
gia,di cui la prima parte presenta la idea solitaria dell'Uno, e
l'annulla;la2.lamedesima idea appaiata con quella del l'essere, e con essa in
contraddizione ; la 3. risolve la con traddizione nel momento, ch'è il
diventare; momento e di venire,che sono mutuati dalla dialettica Hegeliana,e
rendono infide e soverchiamente moderne le interpetrazioni del Fio rentino.
Egli era convinto, quando scrivea il Saggio Storico, che la dialettica
Hegeliana è modellata sulla platonica, e che le prime tre categorie del
filosofo alemanno, l'essere, ilnon essere,ed ildivenire ricordano l'uno,
l'ente, ed ilmomento del Parmenide. La Dialettica platonica , monumento gran
dioso dell'umano pensiero, ispirò in ogni tempo gli Artisti ed i Filosofi; e Fiorentino
conchiude che Goethe v'im [Catanzaro. Lo studio della filosofia greca
fece rientrare il Fiorentino nel mondo moderno,ch'egli avea sfiorato col lavoro
giova- nile del G. Bruno; il greco pensiero, che più degli altri è pensiero
umano ed universale, ricondusse il nostro alla R i nascenza,la quale, se inizia
l'epoca moderna con le ribel lioni speculative del Bruno, del Telesio e del
Pomponazzi, usufrutta con Telesio e con Bruno la parte viva ed immor . tale
della greca filosofia,ilconcetto della natura, autonoma od assoluta, e l'idea
dell'Infinito generante. Fiorentino,in gegno fecondo e progressivo,accettò i
pronunziati, gli ardimenti, o , le ribellioni della Rinascenza; nelle fresche c
o r renti della natura ei sentì ringiovanirsi, ed il suo 'pensiero divenne più
ampio ed umano . L'epoca della Rinascenza è, o Signori , un'epoca gloriosa ,
battagliera , o titanica ; la Scolastica è assottigliata ; la cavalleria ed il
feudalismo se ne vanno;la Teocrazia perde ilsuo prestigio,e la sua uni
versalità ; la poesia si emancipa dai terrori mistici ; alle fo. sche pitture
del trecento succedono i freschi colori del T i ziano e del Correggio ; nasce
lo Stato laicale, e Machiavelli crea la storia moderna. I filosofi
rappresentarono in questo gran dramma una parte gloriosa,e specialmente
ilmantovano Pomponazzi,che per audacia speculativa,per energia di ca rattere è
uno degli eroi più spiccati del Rinascimento ita liano. Fiorentino, che come
fiero calabrese e libero pen satore,era naturalmente attratto verso i grandi
precursori ed apostoli, si mise a studiarlo con coscienza di filosofo e p a
zienza di critico; sgobbò sui polverosi volumi in folio, si chiuse come un
vecchio anacoreta nella sua cella di Bologna; ed affrontó con leonino coraggio
l'intolleranza e lo scherno degl'insipienti , le beffe dei gaudenti, che senza
forti stupara la movenza del Dialogo ; Hegel il severo ragionamento ; il Vico
vi attinse lo schema della Scienza Nuova ; Rosmini il principio del Nuovo
Saggio ; ed a quell'opera immortale bisognerà ricorrere ogni volta,che si
vorranno scandagliare davvero le origini dell'umano pensiero senza accurato
lavoro vogliono , con la veduta corta di una spanna,giudicare gli uomini serî
ed austeri,gli uomini che sacrificano tutto sull'ara del pensiero e della
scienza ; indomiti o tetragoni nei loro propositi ; Capanei,che muoiono e non
si arrendono. Pomponazzi insorse fieramente contro la Scolastica, e contro la
greca filosofia; e nello spiegare la natura dell'a nima, ed il processo del
conoscere non ha esitato punto,nè riprodotte, come altri fecero, le incertezze
aristoteliche. Sgombrate tali perplessità, il filosofo mantovano si liberò
dall' intelletto separato di Averroè , dell'intelletto agente dello Afrodisio,
senza però emanciparsi del tutto dagl’in flussi e dalle intelligenze superiori;
ondeggiante ancora, come tutti gli uomini della Rinascenza , tra la Scolastica
ed il mondo moderno ;tra S. Tommaso e Giordano Bruno. Stremò , è vero,
Pomponazzi la trascendenza in filosofia; con siderò l'intelletto umano come
sviluppato dalla potenza della materia ; ma non volle attribuire all'intelletto
dell'uomo la concezione dell'universale ; e disconobbe la vera m e diazione,che
l'uomo fa tra lecose eterne e caduche. Egli scruta insistente i più ardui
problemi metafisici, religiosi e morali, la Provvidenza, il Fato, la Libertà,
la Predestinazione e la Grazia ; e porta in tutte queste discussioni la novità
e l'audacia,proprie dei filosofi del Rinascimento ;piega più dalla parte della
determinazione fatale degli Stoici che da quella della vuota determinabilità
dell’Afrodisio; che l'arbitrio non può essere primo movente;e l'aver compreso
il difettodella dottrina della libertà , come è in Alessandro ed in Aristo
tile; l'aver intravveduto nel fato stoico maggior ragione volezza costituisce
uno dei massimi pregi della critica del Pom ponazzi . Disconobbe inoltre il
valore assoluto delle R e ligioni; ne spiegò con ragioni naturali l'origine, il
fiorire, la decadenza ; le riconobbe portato dello spirito, eterno ed
irrequieto viaggiatore, che tutto rinnova e distrugge. Con questa divinazione
il Pomponazzi fu anche precursore dei nuovi tempi, e della scuola moderna
;se non che mancogli la perfetta coerenza nelle dottrine,e non si sollevò al
con cetto profondo dello spirito, come lo intendono i moderni. L'ingegno del
Pomponazzi , benchè novatore e ribelle, non si era completamente spastoiato dal
vecchio mondo scola stico ed aristotelico ;ei non poteva ai suoi tempi
cancellare del tutto il Dio di Agostino e di S. Anselmo; non po teva scartare
intieramente la Provvidenza oltremondana , von poteva combattere a viso aperto
le tradizioni della fede o r todossa. Ei però aveva intravveduto che al Dio
estramon dano , collocato fuori la coscienza , dovea fra poco succedere il Dio
intimo e vivente; che la vecchia forma religiosa do vea ringiovanirsi e al
Motore immobile di Aristotile dovea succedere l'Infinito di Bruno. È questo il
merito pre cipuo del Pomponazzi , che a buon dritto deve chiamarsi il
precursore della Riforma e del mondo laicale moderno ; e l'averlo saputo
rilevare con sagacia di critico coscienza di storico è gloria del Fiorentino.
Ciò segna un altro m o mento importante nella evoluzione critica e speculativa
del Nostro ; la quale avrà il suo compimento ed il suo massi - mo splendore nel
Telesio,e negli studii sulla idea della Natura nel Risorgimento italiano. Telesio
infatti costituisce l'ultimo e più splendido momento speculativo e storico del
Fiorentino, il quale rap presenta perciò in Calabria il più alto grado , la più
alta manifestazione dellacriticastorica,edilcompletosvegliarsi presso di noi
della coscienza laicale ed umana; rappresenta la continuazione della
Rinascenza,ingrandita, però,trasfor mata e divenuta pensiero europeo ed
universale coi Saggi critici di B. Spaventa. Fu primo lo Spaventa in Italia a
dare la debita importanza a Bruno ed a Campanella , ed a tutta la filosofia del
Rinascimento , rivendicando gli eroi del nostro pensiero, ed i martiri obbliati
della ragione. « L’Italia, disse Spaventa , apre le porte della civiltà m o «
derna con una falange di eroi del pensiero. Pomponazzi, Telesio, Bruno,Vanini,
Campanella, Cesalpino paiono figli « di più nazioni. Essi preludiano più o meno
a tutti gl'indirizzi posteriori , che costituiscono il periodo della filo «
sofia da Cartesio a Kant. Vico è il vero precursore di tutta l'Alemagna. (Prolusione
alle Lez.di fil. nap.) Le austere parole e i forti ragionamenti del filosofo
abruzzese eccitarono il potente ingegno di Fiorentino,e co.. ine il nostro
schiettamente confessa , lo fecero orientare in quell' arruffio, ch'è la
speculazione della Rinascenza , e lo innamorarono di quel periodo filosofico,
che prima si con tentava di ammirare, senza averne perfetta e matura cono
scenza, piuttosto,perseguire ifacili lodatori che per veder ne realmente
l'importanza coi proprii occhi. Educato dalla critica nuova e poderosa dello
Spaventa, Fiorentino percorso da padrone e da maestro il campo glorioso della
Rinascenza italiana, e v'impresse orme da gigante.Gli uomini nuovi od
audaci;imartiri dell'idea piacquero tanto a Fiorentino,ed eis'immedesimò
loro,aspirandone l'immortale profumo,ed il soffio della giovinezza. La
Calabria, che, senza conoscersi , spesso si vilipende e si schernisce, non era
per lui barbara c selvaggia, covo di briganti, e nido di cannibali; era in vece
terra di filosofi, di critici, di poeti ; culla di martiri e di eroi, terra
artistica ed originale,a cui,ultimo tra gl’in gegni calabresi, consacrai tutto
me stesso,e per la quale non cesserò di combattere, finché avrò forze, finchè
in Italia vi saranno uomini senza coscienza storica e senza carità di patria.
La Calabria (e perdonate questo amore indomabile alla mia patria nativa, alle
mie care montagne ) seppe a n ch'essa indovinare e comprendere i tempi nuovi ,
uscire dal fondo de'suoi burroni,e mettersi a paro coi più grandi eroi della
Rinascenzaitaliana.La Calabriaseppe anch'essa com battere con la sua selvaggia
vigoria lo impero , la scuola , ed il potere teocratico. Il calabro pensiero, che
ancorasiac cusa di angustia e municipalità, è, com’io dimostrai, un pensie
ro,non solo nuovo ed originale,ma eziandio italiano, europeo ed umano .
Universale in filosofia, inizid con Telesio lo stu dio dellanatura, sconosciuta
ai padri nostri, velata per tanto tempo dalle ombre del Medio-Evo;nel tetro
carcere della Vicaria creò col Serra la scienza economica ; con Galeazzo usci
dal cerchio della poesia provinciale , e fuse nel calabro Sonetto la vigoria di
Dante e la musica di Petrarca ; pre corse col Campanella a Descartes ; e con
Gravina anticipo Vico e Montesquieu, o creò la nuova critica italiana.
Fiorentino , che , com'egli stesso canto , avea Saldo il voler ne le virili
imprese, E indomita la tempra calabrese, innamorato della vecchia Calabria, fa
rivivere con magiche tinte le belle ed eroiche figure dei padri nostri,
Parrasio, Telesio, il Martirano, il Quattromani, il Tarsia, Cornelio, Severino,
Schettiniecc.; filologi, poeti e critici precursori , che usciti dal fondo dei
nostri boschi illustrarono le prime Università, e diedero un potente i m pulso
al Rinascimento italiano, col fondare e promuovere quella stupenda Accademia
Cosentina, segno in tutti i tempi di odio inestinguibile e di amore indomato,la
quale è tanta parte del dramma grandioso della Rinascenza;diede all'Ita lia
grandi latinisti da emulare il Poliziano , il Sannazaro , il Fracastoro , e
sorpassarne altri con Coriolano Martirano; porta scolpito il fatidico motto :
Donec totum impleat orbem ; decrescit numquam ,nec fulmine laeditur;e servi di
modello a tutta Europa col Telesio per la scoverta del vero metodo naturale.
Sotto questo doppio aspetto la vide l'occhio sagace del Fiorentino, e
stupendamente la illustrò , sollevandola a quel posto, che merita, e meriterà
sempre, finchè le tradi zioni del pensiero laicale ed umano rimarranno vive in
C a labria,e ne trasformeranno lavita,l'arte,elaspeculazione; finchè vi saranno
uomini insigni come il Presidente Sca glione,ed ilSegretario Greco,che ne
accresceranno le glorie e l'importanza , continuando l'esempio dei loro
illustri a n tenati, che noi, gaudenti e borghesi , abbiamo dimenticati, sconosciuti,
e fino scherniti. Fiorentino, che il dotto Canonico Scaglione avea
precorso con lo studio sul Telesio, pubblicato negli atti dell'Accademia,
studiando a fondo, al lume della nuova Critica, le opere del filosofo
cosentino, proclama che il Telesio inaugura i tempi moderni, ritiene la Natura,
come il principio universale delle cose , il ricetta colo di tutte le forme, e,
come schietto naturalista,ri. getta Aristotile e la Scolastica, la Teosofia, e
la Magia. Telesio, evitando la contraddizione aristotelica, che rompe l'unità
della natura,parte da una materia primitiva ed uni ca,e da una contrarietà
universalissima, il caldo ed ilfred do , nature agenti , dalla cui azione sulla
materia nasce la generazione e la corruzione. Telesio , pur ritenendo la
necessità di un'opposizione universale e di un'unica materia, il che era anche
ammesso d'Aristotile , ne ha profondamente modificato il valore. La forma
aristotelica, ch'era sempre assoluta ed estranaturale, non gli parve principio
naturale , e la sbandì , e la rigettò dalla sua filosofia, con la rude
franchezza del calabrese. In una parola , la natura non ha mestieri per essere
spiegata di principi, che non siano naturali; e così fu vinto e sor passato il
Medio -Evo, e la Filosofia delle Scuole. Il soffio giovine e fresco delle
nostre montagne spazzò lo nebbie sco. lastiche , e Telesio , meditando gli
arcani della natura nel suo ameno podere, sito sulle rive pittoresche del fiume
Coraci, fu veramente il precursore di Bruno e di Galilei, l'u omo nuovo ed audace,
che scrolla il vecchio mondo medie vale, ed inaugura l'epoca moderna. Telesio,
rigettando l'entelechia aristotelica, vi sostitui una sostanza sottile , mobile
, lucida, che per lui costituiva il principio della vita;semplificò inoltre
ilsistema del natu ralismo,tolse ildissidioimmenso,che funel Medio-Evo tra la
natura esterna e l'organismo vitale , e fuse insieme nel suo novello sistema la
Fisica e la Biologia . Fiero ed i n e sorabilo calabrsse, rovescio tutto, non
diè quartiere ad Ari stotile ed alla Scolastica , o combattė senza ipocrisia ,
ed a fronte scoverta; diede una nuova teorica dell'anima, sorpas.
sando il Fedone platonico, e l'intelletto universale di Ari stotile; fondò sul
senso la conoscenza, ed ammise il mondo etico come un effetto e risultato
naturale. Nel vasto dramma telesiano, che Fiorentino stupen damente tratteggia,
brilla di nuova luce il martire di Nola , il quale, ebbro del nuovo Dio,
dell'Infinito generante, e della Natura,allarga efeconda iconcetti
delfilosofocosentino,éd accetta pienamente il naturalismo. Il vero assoluto
rimane però in lui un punto oscuro,dove i contrarii si affondano e spariscono;
il Nolano, più che cogliere con l'atto intellet tivo l'assoluto, vuole
trasformarsi in lui, e divenire Iddio. E leroico furore, che lo trasporta in
grembo dell'Infinito, non il sillogismo speculativo, e la serena meditazione;
l'ebbrezza dell'amante, che lo trasfigura in grembo alla di vina
Anfitrite.Bruno,uomo del Mezzogiorno, nato presso il Vesuvio,ha scosso in ogni
tempo la mente dei pensatori, ed il cuore dei poeti. Eroe leggendario del
pensiere, ca valiere errante della scienza, mistico o ribelle, inesorabile
flagellatore dei cucullati pedanti, egli che avea vestita la bianca tunica di
Domenico, Bruno percorse,si può dire, da un capo all'altro l'Europa disputando,
combattendo,af. frontando ilvecchio Aristotile,laciarlataneria delleScuole, e l'infallibilità
dei dottori. Vilipeso e adorato, schernito glorificato, ora debole innanzi
a'suoi carnefici, ed ora sublime ; tradito a Venezia dal Mocenigo , suo
discepolo ed ospite, è consegnato al Sant'Uffizio, dissacrato e condan . nato a
morte. Quando in Roma gli fu letta la sentenza, Bruno, con calma eroica e
tremenda ironia, ha il coraggio di profferire innanzi ai giudici queste
memorande parole: « Maggior timore provate voi nel pronunciar la sentenza
contro di me,che non io nel riceverla L’eroe della verità, e del pensiero laico
fu legato come un volgare malfattore ad un'antenna,e,bruciato vivo in Campo di
Fiore, imperterrito il Bruno non mandò nè un sospiro, nè un lamento; le
fiamme furono la sua apoteosi;e benchè le sue ceneri fossero state disperse al
vento, corsero l'Eu ropa come polline fecondatore, e vi propagarono i semi del
libero pensiero, e della filosofia moderna. Fioren tino, pensatore e poeta,che
dopo più maturi studî avea ac cettata in tutta la sua pienezza la Rinascenza ,
ritorna su Bruno , e lo vede nel Telesio sotto un nuovo punto di vista; e se
prima,nel suo lavoro giovanile, lo avea rigettato, come panteista ed antimistico,
ora lo guarda , e lo ammira come ilveroeroe delpensiero,l'araldoeilmartire
della nuova e liberafilosofia;degno, come disse B. Spaventa,di avere un posto
accanto a Prometeo ed a Socrate. Quel che FIORENTINO scrisse di SPAVENTA,
permettete , o Signori, che io lo riferisca al nostro fiero concittadino. Il
grande « ideale del filosofo per Fiorentino era il Bruno ; pari forse «
avrebbero avuto il fato, se fossero vissuti nella stessa età. FIORENTINO guarda
il rogo con lo stesso corag . « gio; BRUNO avrebb » disprezzato con la stessa
serenità, « non il rogo, ma qualcosa di peggio,quella rete sottilissi. « ma di
cabale, onde la turba ignara circonda gli animi al « teri;che tentano
slacciarsi da maltesi agguati: non ilrogo, «ma lacalunnia divota:dopo
ilTorquemada ilTartufo: < siamo ben progrediti noi. Il vecchio Dio della
Scolastica si assottiglia in G. Bru . no; in lui si fondono Dio e l'Universo;
la creazione è svi luppo di Dio stesso, processo necessario , che rende cono
scibile e reale l'attività di Dio : in una parola, il Dio del Nolano non vive
se non per la natura,e nella natura:fuori e senza di lei sarebbe un'astrazione
ed un fossile. La n e cessità della creazione, che il Bruno insegna a viso
aperto, lo mette di accordo col futuro naturalismo spinoziano, e lo fa
precursore della moderna filosofia alemanna. La filosofia del Rinascimento ,
incarnata in Telesio ed in Bruno , per avere considerato l'assoluto , come
natura , ha preparato il grande avvenimento dello Spirito, la cui speculaziane
incomincia con la coscienza cartesiana. L'infinita natura , ini ziata da un
Sofo di Calabria,è la gran parola della Rinascenza e dei tempi moderni !...
Telegio e Bruno preparano inoltre la vasta speculazione di Tommaso
Campanella,indo mito Frate, che sopporta,con la fiera costanza del Calabrese
anni di carcere,ed un giorno intero di torture. Permet tete,o Signori,ch'io
m’inchini al martirio di Campanella, ed al rogo di Bruno ; martirio e rogo ,
che sono la gloria del Mezzogiorno,e del libero pensiero;la condanna più elo.
quente dei feroci persecutori dell'umana ragione. CAMPANELLA, che sublima alla
dignità di principio speculativo la divinità latente del Bruno, è il vero tipo
dell'uomo cala bro, ricco d'ingegno e di cuore, intemperante, battagliero,
audace, iniziatore. È uomo originale e contraddittorio ; fa l'apoteosi della teocrazia
e della Spagna, della scolastica, del Medio-Evo,e poi scrive la Città delSole,
e vagheggia la democrazia ed il socialismo, la sovranità del libero pen siero,
e lo Stato laico moderno. Ei fonde in sè due età di verso , la età della fede ,
e l'età della ragione ; Platone ed Aristotile , Telesio ed il Cusano ;
l'austero sillogismo del pensatore,e le vaporosità dell’Astrologo;le
apocalittiche visioni dell’Abate Gioacchino, o la fredda sottigliezza del
Machiavelli; l'ossequio alle somme chiavi, e l'audace ribellione di Lutero. Campanella,
stupendamente tratteggiato da FIORENTINO, ritorna , come metafisico , a
Platone, ed al Medio-Evo; come sensista e psicologo, anticipa, nella teorica
del senso e della cognizione, Cartesio, ed il mondo moder no . Ei proclama la
identità del pensiero e dell'essere; se non che sì fatta unità non acquista la
forza di vero principio, e Campanella,ad onta delle sue stupende divinazioni,
ondeggia ancora tra lo schietto naturalismo ed il sistema delle cause finali.
Alla filosofia naturale , che tolse in p r e stito ed usufruttuò dal nostro
Telesio, CAMPANELLA aggiunse una metafisica, che ne rimase staccata; mettendo
ogni sforzo per levarsi alle categorie supreme della natura e dell'essere, non
seppe applicarle alla natura, e con tutta l'energia p o derosa di assurgere
all'Unità, restò nella opposizione, ch'è il carattere principale del
naturalismo. Il solo naturalismo, chiarendosi col Campanella impotente a
spiegare la genesi della Natura, non potė, esso solo, sciogliere il gran
problema del mondo moderno,e conciliare l'universale col particolar :;
ricomprendere il senso in una forma di pensiero più larga, dove l'opposizione
riapparisse trasformata ed unificata in una sintesi suprema e dialettica. Tale
fu il progresso a p portato nel naturalismo, o nella filosofia moderna da
Galileo e Descartes; tali sono le glorie del nuovo pensiero, antimi stico e
laicale , iniziato da due filosofi, nati tra i selvaggi burroni delle nostre
Calabrie. Fiorentino,dopo aver richia mato alla memoria degli Italiani. Cornelio
, e Severino, glorie dell'Università Napoletana , e filosofi telesiani; dopo
aver valutato la importanza del Galilei e del Bacone, si arresta col Descartes
alla soglia della filosofia moderna, lieto che la speculazione filosofica si
stacchi dalle scienze naturali, preliminare,per altro,necessario nella evo
luzione del pensiero moderno,e siposi nel Cogito cartesiano. La natura si
emancipa, il pensiero si scioglie, e diviene più libero e più snello; lo
Spirito , che tutto ringiovanisce e trasforma, fondo ed armonizza Telesio e
Bruno , Campanella e Galileo , Bacone e Descartes, e la silvosa Calabria entra
co'suoi filosofi, e coi suoi profeti, co’suoi martiri, e co'suoi precursori nel
dramma glorioso del mondo moderno. Vi rientra sotto l'impulso del Fiorentino ,
che, nato presso Stilo, tocca di nuovo la squilla dimenticata del Campanella ,
annunzia ai giovani calabresi l'aurora di nuovi giorni, la completa
emancipazione dalla Scolastica e dal Medio-Evo; lar isurrezione del pensiero della
Magna-Grecia, fuso, ingrandito, trasformato nel pensiero moderno. La Calabria e
l'Accademia Cosentina non potranno dimenticarlo ; non potranno disconoscere
l'austero filosofo, che ne illustrò stupendamente le glorie, e con magico
pennello ne ritrasse gli apostoli, e gli eroi , rivendicando i padri
nostri al c o spetto di un secolo banchiere e borghese. La morte lo colse ancor
giovine sulla soglia del tempio del Rinascimento; glo. ria al virile sacerdote
della scienza,che muore, adempiendo il suo dovere, mentre si folleggia,
deridendo gli eroi del pensiero,imodesti operai del mondo moderno,e sigittalo
scherno sulle ossa dei grandi precursori della nuova Filosofia e della nuova
Critica. Io ho fede che la gioventù ca labrese, così ricca d'ingegno e di
cuore, cosi amante delle patrie glorie,avrà un culto per gli uomini,che muoiono
sulla breccia, martiri della scienza e della patria; per le anime generose,che
non curano le amarezze della vita, l'esilio,la povertà, la carcere,ed
accettano, fino le torture di Campanella, fino il rogo di Bruno. Ho fede che la
Calabria si rinnovi nel lavacro della Rinascenza e negli studii virili
delpassato,elagentileedotta Cosenza, riccaperme di care e dolorose
memorie,prodiga di tanto sangue alla patria, di tanto contributo d'ingegno alla
storia del pensiero italiano, s'ispiri nell'austera figura del più grande dei
suoi figli, il cui busto parla tra il verde degli alberi la gran parola del
Risorgimento alla nostra gioventù. Ho fede che l'austera parola del filosofo di
Sambiase non suoni più nel deserto, e la sua tomba, su cui piansero amici e
nemici,sia un'ara dove le novelle generazioni attingano iforti propo siti, e,
quel che più ci preme,la serietà della vita, l'abnegazione, il sacrifizio, ed
il libero pensiero. Così,o gio vani, non sarò costretto a ripetere gli amari
versi dell’austero poeta di Recanati. Oggi è nefando stile Di schiatta ignava e
finta Virtù viva sprezzar lodare estinta. Vincenzo Julia. Julia. Keywords:
implicatura, filosofia calabrese, Campanella, Telesio, Sanctis, Leopardi,
Mazzini, Garibaldi, Gioberti, Spaventa, Hegel, Aligheri, Serra, Bruno. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Julia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Juvalta: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Chiavenna). Filosofo italiano. Grice: “At Harvard, I said I was ‘enough of a
rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” – Grice:
“Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with value and
reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in terms of an
accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher. Ogni sforzo di derivare una valutazione morale da
qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è dunque vano e
illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si pretende di
fondare.» Il genitore e il barone Corrado Juvalta, cancelliere della
locale pretura originario di Villa di Tirano. Dopo gli studi liceali trascorsi
tra Como e Sondrio, si iscrive a Pavia dove si laurea con una tesi su Spinoza,
sotto la guida di CANTONI. Successivamente insegna a Caltanissetta, Potenza,
Spoleto, e Torino. Le tematiche accademiche prevalentemente trattate
riguardarono soprattutto i valori di libertà e di giustizia con ampie
riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e universalità, arriva ad
auspicarne una loro applicazione anche nello studio delle categorie politiche
ed economiche. La filosofia di J. è una
profonda riflessione sull'etica portata avanti con il metodo dell'analisi.
Anche se, come risulta dalla sua, non troviamo nei suoi scritti importanti
contributi sul piano gnoseologico ed epistemologico, dal momento che il suo
principale campo d'indagine fu prevalentemente il Sistema morale, possiamo
affermare senza dubbio che sia il kantismo che il Positivismo costituirono il
nucleo di fondo della sua posizione, da cui sviluppò la sua impostazione
metodologica. Il positivismo, in particolare, è stato il primo grande
sistema filosofico con cui si è misurato nella prima fase della sua elaborazione
concettuale. Tuttavia J. sarà costretto
a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di
questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di
accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla
scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso
e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità
o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le
cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta
nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di
valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica
deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente
etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica
scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un
giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura
fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere
condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su
criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che
intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione
di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente
l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di
mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono
risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando
parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo
dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza
di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene
rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo
categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa
all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta
prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in
particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni
assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come
obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i
contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su
ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta J. a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di
ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore
morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale
dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al
momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad
agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità
dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che
pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le
precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi
valori. La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel
campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e
coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada
l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e
di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro
precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico
Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il
cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La
razionalità accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato,
ma non lo può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la
razionalità non riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di
valore. La ragione dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la
ragione esige la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e
i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente o postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni
sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per
sé. I valori ultimi di libertà e giustizia
Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non
secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può
scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra
condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’
del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che
la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa
arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti
debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra
vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale
della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia
costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori
morali, tra quelli possibili, che risultano universalizzabili. Essi sono le
sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio
fine e di raggiungere i propri beni o valori, in vista di una totale e piena
realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro.
Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema
morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di
ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti
quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta
socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive
necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di
fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni
inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa
libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema
filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente
contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in
arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero
soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e
organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del
lavoro filosofico ottocentesco. D'altra
parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua
riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi
una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti
del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“
Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); Le dottrine
delle due etiche, Rivista filosofica; Per una scienza normativa morale, Rivista
filosofica; Il fondamento intrinseco del diritto; Su i limiti della morale, Bocca,
Torino; Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, Rivista filosofica; Postulati
etici e postulati metafisici, Rivista di filosofia; Postulati etici e
imperativo categorico, Atti congresso di filosofia, Bologna, Formiggini, Genova;
Sula pluralità dei postulati di valutazione morale, Atti del congresso della
società filosofica, Genova, Formiggini, Genova; I vecchio e il nuovo problema
della morale, Z, anichelli, Bologna; In cerca di chiarezza; Questioni di morale;
I limiti del razionalismo etico, Lattes, Torino; Il conflitto morale, Rivista
di filosofia; La dottrina morale di Spinoza, Rivista di filosofia; Basciani, L’etica
della giustizia, Desclèe, Roma; Picardi, La morale in J., Filosofia, Marzorati,
Milano; Viroli, L'etica laica, Angeli, Milano); J., «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I
been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to
how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book,
“Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the
‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --.
‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE; Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE
SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle
dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi
sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno
alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti
come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il vero
fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il
problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di
mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un
problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e
fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è
insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non
equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive
di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie-
vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun
problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare
come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la
preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del
fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme
da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale
ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la
sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre
il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale
prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o
opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di
interpretazioni e di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda
con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè
nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente
stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa
accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si
accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno
accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a
dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione
pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un
problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e
negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia-
scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri,
che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi
diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e
chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e
sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno
stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò
che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata
in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione
diversi. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca
il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. Dimostrare la
bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia
da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi
l'osservanza. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento:
a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che
si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato
piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. Sulla pluralità dei
postulati di valutazione morale. La persuasione che i principi morali, i
criteri di valutazione, le norme della condotta, non solo possano ma debbano
avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè
si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna
altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione,
dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla
metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come
dall'altra parte. Perché la scienza si sforzava di dimostrare che la realtà a
cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso
arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di
obbiettivamente valido; e la metafisica insisteva nel porre in evidenza la
relatività, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità
di attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una
qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri. Ora l'uno e l'altro
tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di
questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa
d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia
riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè
dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore,
smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non
negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera
e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale l'obbiezione
che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle per-
sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano
coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente
conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una tale obbiezione non
esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come
pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessa-
ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato
se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico
che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio
morale a non si legittima se non col principio teorico A; se troviamo accettato
a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica,
incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non
connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra alternativa:
che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna
necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si ammettesse
che un medesimo criterio morale può accordarsi con principi teorici diversi, si
dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fon-
dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un
procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è
necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba
trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia
una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non
ci dovrebbe essere. Tu qui! Ma è impossibile! dice la metafisica alla morale
quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla
morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova,
ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in
casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa
possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a
difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si
avvera, manca la [Ma se questa fondazione extra-morale della morale è
illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo
afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si
fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se
veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a
quelle; né quali siano, tra le innumerevoli leggi scoperte e che si vanno
scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta
di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle
leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di
incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti
condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza,
formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un
pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di
un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore
mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come
valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha
relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della
vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come
bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi
non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che
la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra
dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in
effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe
facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già
posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una
pedanteria. Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di
essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto
profondo smentire la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la
cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno
dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e
della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se
questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le
si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse
nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa
trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi
trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla
apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della
biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e
autorità, se non ne avesse, alla sua voce. competenza richiesta. Un libriccino
pubblicato dal LALANDE alcuni anni fa -- Précis raisonné de Morale pratique,
Alcan -- si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre
accennare ad altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il
catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e
aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di
credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei
«competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo
comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul
contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor-
do, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti
quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo
in proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Metafisica e
morale. E Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una
Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si
vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si
tratta del valore. Quanto poi alla Metafisica definitiva si chiede: a che
stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette
già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè,
dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? Neanche è
da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio
incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio
dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare,
ogni difficoltà di questo genere sia allontanata. Quel che non può dare
una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto
di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà
«intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata
o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando
Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere
è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose,
e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e
deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro
volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto
di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine
dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La
sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è
già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in
quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non
implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in
quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada
che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore, in
qualunque entità esso sia riconosciuto, non l'esistenza delle cose; e la realtà
è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci
presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile
dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda
e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei
due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten-
za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con
un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la
finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci
alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di
morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o
legge o induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una
realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si
considera co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il
giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non
deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o
la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose
sono, è tutt'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come
leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a
una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni
nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la
valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è
espressa, e sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione
del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale
fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della
«concezione immaginaria di un ideale -- La morale et la scienze des mœurs. Questa
conquista metodica della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti
— se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa
che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo
meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle
parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può
essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di
nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era
dipartita». Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da
vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata,
sorretta, guidata, controllata da un interesse, l'interesse teorico, e come
tale sia, anzi è senz'altro, un valore intellettuale: ma ciò non muta d'un ette
la distinzione notata. Sulla pluralità dei postulati di valutazione
morale. Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di
oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli;
o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili
o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non
piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e
del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di
valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e
ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co,
ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi
del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta
non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli
oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si
intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi
di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi
parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli
uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di
fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú
manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso
e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò
si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve e trascurando
le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive: La realtà si può
interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta
come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono-
scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni
valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a
priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè
si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o
un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della
realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della provvidenza
diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento
della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa
come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come
valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e
perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il
processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già
dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla
conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo
il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento
della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della
realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e
fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione
metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva
trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la
propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la
moralità come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di
forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di
conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui
lasciar di discu- tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come
sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del
conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in
conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del
conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e
via dicendo. Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il
fresco quei che vi passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a
identificare il problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la
valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità
come criterio di moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente
mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della
scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita
nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era
avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il
patrimonio. Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica,
e, direi nel senso piú bello della parola, ingenua, di derivazione dei valori
da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità,
o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar
scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale
attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare
nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono vere,
poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui
generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può
costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova
dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare
nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento
della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo
dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un si- gnificato morale, se
l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli
sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro
di Sisifo, che ogni co- scienza riprende faticosamente per lasciare che
ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno
sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico
subordinava, almeno nella riflessio- ne consapevole e nella costruzione logica,
il giudizio di valore al giudizio di realtà. Nella filosofia dei valori il
giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo,
al giudizio di valore. Il momento che nell'intellettualismo ontologico era
nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore
nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole
e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo
discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che
veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica,
sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o
discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali. Illusione poco
meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi di
tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la
valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa
esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie. Questo sommo bene,
questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo di tutti i
valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza empirica, un fine
inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le tendenze, aspirazioni e
attività dell'uomo; o in un fine che domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura
umana, e subordina di diritto ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di
valutazione. Alle due diverse concezioni del fine rispondono due tipi
principali di dottrine morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza
coi due tipi di dottrine sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo
precedente. Ma la corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione
era nella pretesa di derivare la valutazione morale da una realtà la cui
conoscenza si impone all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore
è ammesso, o si suppone che debba essere ammesso inconte- stabilmente come
supremo o massimo, o almeno superiore ad ogni altro. Ora l'illusorietà della
pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale se non a patto che se
ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la preminenza su ogni
altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si escludono gli altri
caratteri) in questa sua supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene
supremo che lo giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa
alternativa: o di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora-
le che si crede di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale,
è valore anche per altri rispetti; cioè sarebbe un valore di altro genere anche
se non fosse valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo
fine: la felicità, o il piacere. riescono di solito quando e nella misura che
possono a quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso
del divino, l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a
presupporre quel che credono di derivare. Dell'utilitarismo in generale e delle
sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la
centesima volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu
notato e che piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le
insufficienze e le incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che
fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio dell'utilità, e di
mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali e il contenuto
delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la derivazione è
impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una petizione di
principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo manifestamente
arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente vuoto nel quale
ciascuno versa il liquido preferito e che non è sempre neppure per la stessa
persona il medesimo ma abbia un contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il
possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria, simpatia, cultura,
ingegno, soddisfazione della propria co- scienza; e che tra questi beni sia
possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa dimo- strare
davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú sicuro, ma il
solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia l'osservanza
costante delle norme morali. Con ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa
il valore morale delle norme consiste nella loro utilità come guida della
felicità; ma soltanto che i valori morali sono anche valori eudemono- logici;
che il contenuto della valutazione morale e quello della valutazione utilitaria
coincidono; non mai che il valor morale di un'azione consista nel suo esser
mezzo alla felicità. Resta fuor di questione s'intende e deve esser quasi
superfluo avvertirlo la considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se
sia o no piú persuasiva o piú impulsiva l'una o l'altra valutazio- ne. Si può
anche ammettere, senza soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la
edonistica; ma ciò non prova affatto che questa si confonda o si identifichi
con la valutazione morale, o valga a sostituirla. Dimostrare a un giudice che il
dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far carriera, potrebbe essere,
in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà
di far consistere l'onestà del giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in
realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né
determinabile se non ad arbitrio; e solo significato comune e costante del
termine finisce per essere quello di ap- pagamento dei desideri, di
soddisfazione, di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa dover- si
trovare nel raggiungimento di ogni fine. E la diversità persiste e risorge
nella molteplicità varia e contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non
basta raccoglierli sotto uno stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine.
Perché se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o
una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella storia
dell'utilitarismo con il criterio della qualità so- vrapposto e in effetto
sostituito dal Mill a quello della quantità. E allora si capisce come possa
avvenire che il criterio della felicità finisca per accordarsi con quello della
valutazione morale; se le soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali,
e il bene piú desiderabile l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra
i due criteri quanto al contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è
troppo facile vedere a quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità
alla cui stregua si pretende di giudicare il valore morale è assunto come
supremo perché e in quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso
stesso secondo un criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della
felicità quel che trova approvato e disapprovato in nome della coscienza
morale. Viene in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver
risolto il problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano
dello stesso avviso era la moglie che se- guiva il parere del marito, dove
erano di avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie.
Adunque, anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio
della valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò
che costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto
ad esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una
valutazione secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica)
del valore morale. Porre come bene supremo la santità (il divino in quanto è
sentito e voluto come modello o norma della vita si determina in un ideale di
santità) è derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come
principio e termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un
elemento; o Ne ho parlato altrove (La dottrina delle due etiche di Spencer e la
morale come scienza) e non occorre insistervi qui. 5 Sebbene il parlare della
soddisfazione della propria coscienza come di un bene desiderabilissimo sia legitti-
mo, non è legittimo, né conforme alla verità psicologica, considerarlo come il
fine della condotta morale. Il fine è l'attuazione di quel valore che la
coscienza riconosce come morale; e non è l'altezza della soddisfazio- ne che se
ne possa attendere, che costituisce il pregio dell'azione, ma è il pregio
dell'azione che misura l'altezza della soddisfazione; la quale è pura soltanto
a patto che non se ne faccia lo scopo dell'operare. Su la pluralità dei
postulati di valutazione morale Erminio Juvalta meglio, l'attuazione di questo
è voluta come una condizione, o un momento dell'attuazione, di quello. E qui
giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza. Che
questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il
valo- re religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo
conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle
proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i
dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice
con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro
ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive.
Fondare la valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che
siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori
religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non
siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può
crearli6 o sostituirli. Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun
ragionamento basta a spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da
quel sentimento del divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale
egli investe non solo questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe
diffici- le nella intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i
valori morali e i valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade
sempre dove un grande interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una
categoria di valori occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e
raccoglie ad unità, come attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è
quel che suole piú comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma
fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna
valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se
non vi sia già esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto
che si sia incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui
validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione
per la quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a
persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza del va- lore
religioso. Se si accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della
religione è la credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene,
soprattutto dei valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re
ipsa, riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale
credenza sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della
conservazione quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro
esser sentiti, il loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione.
Di che ho già det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece
si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore
religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e
caratteristico del sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento
del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il
nostro essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne
penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso,
l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore
religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in
questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare
all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la
ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo
aggiungere che non penso neppur per sogno di negare una possibile efficacia
all'insegna- mento religioso in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai
(salvo forse agli occhi di chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione
di notizie o di idee, ma è vigore di convinzione, calore di affetti, opera di
formazione; insom- ma, educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni
dell'educabilità. E si suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto
grano di sale. 7 Cfr. Postulati etici e postulati metafisici.] stico riesce
impossibile di concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e
soprattutto mo- ralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma
ogni bene, il Bene. Ma la perfezione che vede in lui, a quale stregua è
giudicata tale? L'ideale che trova realizza- to in quello non è foggiato
secondo un criterio di valutazione morale la cui validità è accettata e ri-
conosciuta all'infuori dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi
non è quella perfe- zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a
cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per-
ché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda
scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la
devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che
è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non
li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori di
altro genere. Questa priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé,
questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle
discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú
consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica
manife- stamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per
sé. E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle
controversie di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo)
mostra che la validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza
che è data e riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa.
Quanto all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa,
sebbene ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che
non sia possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o
cattivo se non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire
invece che non è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè
una sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione
morale non è sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla
connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare
i valori morali come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e
quindi i pre- cetti morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa;
importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma
estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel
che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione
edonistica. Dire che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una
propaggine dell'olmo, e nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia
anche vero che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio
tagliar l'olmo anche a chi ami soltanto la vite. Quel che si è detto dei
tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione religiosa si
potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda di trovare il
fondamento in un inte- resse diverso dall'interesse propriamente e
specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle
forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso
incoe- renti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle
opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú
significative, le due forme, nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due
tipi di valutazione qui sopra brevemente analizzati, la edonistica e la
religiosa; che sembrano a prima vista i piú lontani e l'uno all'altro opposti.
Si può avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa
(esempio l'utilita- rismo teologico) e un'interpretazione religiosa della
valutazione utilitaria (altruismo comtiano, mi- sticismo umanitario). Da quanto
si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei
particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del
valore morale nella sua connessione 15 Su la pluralità dei postulati di
valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza con altri valori, abbiano
importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o ese- cutivo; in altre
parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione
con- forta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da
interessi diversi il motivo specifi- camente morale. Sarebbero dunque analisi
ed indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si
propongano fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di
costituire il fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché
radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della supremazia dei
valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé
valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è
fuor di questione che, no- nostante il carattere di artificiosità che si trova
piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei
sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità
s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle
concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che dovrebbero servire alla
dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo
chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in
questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto,
qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare la ragione, oltreché
nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà questo carattere
specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o indiretto d'altra
natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri rispetti; come
d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare,
diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori delle diverse specie
si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in mille guise. È bensì
vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente si potrebbe dire dei
valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo coincidere o il suo
essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità costante, con un valore
— per quanto grande — di altro genere, o anche con piú altri ordini di valori o
con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di logica può estrarre un
valore morale se non di là dove esso si sia già posto o insinuato; e che
credere di poter trovare un valore morale tra valori che non siano già morali è
fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli altri con la
speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono altri valori, e
sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di valutazione
morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di vista
dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso, ciò che
è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la
ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine
morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri
valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della
loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle
relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza
caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il
contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o
strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto
al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa
considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu-
tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere
di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e
al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione
decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della
valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una
graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro
conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un
aspetto particolare, e forse non il piú importante. Il carattere di
autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi
approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una
sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si
traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati
essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta
dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o
decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.
L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra
minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o
nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a)
Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e
apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare
l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva
operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo
storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura,
degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione
logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle
dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla
dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento
dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale
sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che
non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della
dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare
quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta
morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione
progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso
dell'evoluzione. Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva
piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee
e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta
la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il
prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci
fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il progresso del
senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo
la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua
abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta
derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon-
denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei
quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio —
quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi
derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen-
te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che
il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu
condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico
dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio
edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. Se a
una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non
attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la
coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme
le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età
e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che
l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti
e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i
fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue
conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria,
piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore,
direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei
valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori).
Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a
qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua
dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una
induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è
che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo
conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia
ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è
essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle
idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità;
ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di
valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto
che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di
valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione
dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice
progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a
quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi
è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno
sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal
punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che
oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è
conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di-
ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo
l'altra. Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero
riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento,
per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma la sostanza
delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel
sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei
sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta
alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione
critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir
cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della
realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di
trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni, dalle quali la
speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini. È
bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si
intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura
dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne
svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto tra
le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami
spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste
intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche
estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capita-
le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di
valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica strettamente
intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno
a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume
co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi,
i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza
della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente
si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o meno ricco di
intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle
intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la
crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale
inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella
dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa
novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto,
orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di
una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse
esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si accompagnasse
sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata. Questa
concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di
intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei,
almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che
quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo morale
dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le
forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa affermazione
o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di
circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione
di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere
della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li dà
esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento cercato in
una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza
di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come
l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa
e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a
cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si
esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o
trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri-
mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel
potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti.
Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal
trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi,
o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo
psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica
della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere
non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. È forse
superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non
di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del
sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu-
zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica
applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori
dei suoi sillogismi valutativi. La valutazione morale precede, nell'ordine
delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se
nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di
quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po'
attenta. La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o
proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è
gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che
sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non
valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come
valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia. Il
valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due
soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza
decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono attuarsi
o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione
implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi
consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile
riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la
posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un
termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare
l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà
nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro
qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro
riconoscimento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza
essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati
a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di
essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della
volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si
rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita
nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato
nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e
non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui
si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la
possibilità di impulsi contrastanti. Di qui nasce la tendenza incoercibile,
manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che
esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il vero
volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o
non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non
ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché
significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se
ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire
l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno,
di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. Ma hanno tuttavia e possono avere degli
obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori
morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente,
cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una
coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con
grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine
sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non
bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne
ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica
necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere
individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità
a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza
di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato
morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come
le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un
po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta
nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come
norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle
singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si
accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza — data
nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione
normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che
torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici
al volere morale. Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi
antagonistici tendono a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della
subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice
che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso
ordine, e rovesciandone per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito
fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si
concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza
dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la
sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione
per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e voluti come
garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in
nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo
valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione
esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve
subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si
consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia
coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí
nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al
Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta
moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale.
Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo.
Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono
non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e
della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione
imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e
apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità
esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li
accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è
surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non
può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un
interesse diverso. Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne
segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non
smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma,
come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui,
nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e
causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è
scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente
di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa
delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla
volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta
come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del
volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i
valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li
ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza,
l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e
di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza
morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non
soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore
morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi,
viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme
all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in
parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che
tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e
attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma
si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il
potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua
la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà
pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita,
un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente
cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la
valutazio- ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su
quell'Autorità il criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni
questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi
costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come
rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto
dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che dà
autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente
con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale
rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove
è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il
teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la
Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una
valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una
spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che
a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di
quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è
il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con
l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si
accordino con essa. Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle
forme principali nelle quali si presenta, e si è presentata storicamente, la
dottrina del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il
potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto,
neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia
insieme irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú
manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è posta, o
l'adeguazione è incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o
negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione,
sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della
valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale
o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo
accordarsi totale o parziale con la coscienza della persona. Sulla prima tesi
non c'è da osservare che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla
quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della
valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re
che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a
parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra
l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle
platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli
inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se
stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un
criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella
degli ingegnosi, degli intelligen- ti, dei superiori, da quella del numero; a
riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia
sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la
giustizia? E il potere illimitato del Sovrano, al quale Hobbes riconduce ogni
criterio di morale e di diritto, esclude solo in prima istanza, cioè in
apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di
questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si
suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo
tirannico che nessun governo. La seconda delle vie indicate conduce a far
riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come
aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone:
sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali,
sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari.
Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore
diverso. Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di
singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della
forza. Un giudizio morale che non è valido se cor- risponde alla valutazione di
n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della
democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico
(cioè come crite- rio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini);
ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo;
per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune,
e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare
sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare
a fare una legge ma non a farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità
morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei
singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni
in cui tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce,
si riconoscono due cose: che per cia-
scuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della
propria coscienza; che la distinzione la quale può essere di importanza
capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme
giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa
su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar
come) dalla coscien- za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque
sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe
ricondursi l'autorità della coscienza collettiva. Quando si parla di fini della
società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla
coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come
separati, o, peggio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi;
e si dimentica o si trascura di tener pre- sente che i fini della società non
sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri;
e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze
individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso
tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di
distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un
grado corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore
sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di
individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso,
e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale
sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è
cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della
società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed
è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale
da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è
giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è
questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini
designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società,
ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o
grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza
morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú
apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un
rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e
star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il
piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e
l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è
di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose
sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel
mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da
un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità
personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta
come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far
veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la
condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per
essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta
analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta
in ultimo che di un «punto di vista diverso; e che, se dal punto di vista
dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista
della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali,
e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza
sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale.Più
breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello
stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello
stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non
c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione
del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro
della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori
morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale
che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli
sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di
interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di
attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono
estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello
stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere
universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza
personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il
Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si
trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o
presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al
secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma
sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore.
Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra
autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna
ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano
totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o esemplari di
una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di
conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali,
posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della
differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al
problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della
valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali
nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del
consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che
cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È
legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso
non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento
interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei
secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del
dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare
la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o
concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela
nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere
valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è
dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si
identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché
sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che
ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il
dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è
perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nascono, sia dal
concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal
concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa
la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo
individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del quale il
valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. Ogni sforzo di
derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già ricono-
sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si cerca,
o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali o
valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come
morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che
un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una
classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel
dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di attuazione
di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati e voluti
per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad altre
forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e immediata è
ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale (postulati etici
in proprio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema di valutazioni si
fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi, di cui si assume
che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati del- la coscienza
morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa indipendenza, questa
validità per sé o autoassia dei postulati etici, le costruzioni dottrinali
rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che essa né può trovare né
ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e un significato diverso
se non opposto; e forse considerate da questo aspetto rivelano meglio la
tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre risorgenti di tentativi
diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei capi precedenti. L'idea
centrale dell'intellettualismo morale di cercare il fondamento morale in una
realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di questa realtà, dei suoi
gradi di entità e di perfezione, il criterio della valutazione morale, diventa,
guardata da questo aspetto, un'espressione della tendenza profonda e
incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion d'essere della realtà,
nel criterio morale la chiave della sua interpretazione; di commisurare la
realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente soltanto ciò che è
degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e del male un
mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che muove i
tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non soltanto
edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la ragione
del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni altro, che
ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la convinzione che
anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo patologico,
direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è morale, o ciò
a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto ha valore
davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori
morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E
quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà)
per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo
conquistato, i titoli di nobiltà che spieghino e legittimino l'autorità della
morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle
indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare
nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico
un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato
l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. Come l'appello
al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo
consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano
valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia,
e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di
ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'autorità si cerca il fondamento
in una volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a
questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella
stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú
alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali,
sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú
forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. La forma generale, con la quale si presentano
da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono
posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento
della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser
tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che
conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli
esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere
onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una
realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso,
postulare una Volontà in cui si adegui il potere al volere, sul fondamento
della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle
esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal
punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i
valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posizione; se e
quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste
esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate
sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro
soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane
stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la indipendenza, la
auto-assiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali
non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione
morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di
volontà, perché la volontà è produzione, crea- zione, iniziativa. Dove si
ravvisa o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume
una forza (non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che
ci sia rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto
più grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che
questa forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce
in atto contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi
sacrifici; è perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza
più sicura (nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il
martire) della saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò
che appare inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il
senso comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso co- mune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e
l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se
questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito,
per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali
di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non
implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel
riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via),
cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le
conclusioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si
raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel
suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e
fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione
pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza
logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali;
benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa
indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo
riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della
speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual
problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via
per la quale Kant la cerca. Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto
fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del
volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto,
qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo
«patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è
legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze
che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è
legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la
fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della
ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in
quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse
pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten- denze,
a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe
parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare
l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e
appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qua- lunque
specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la
forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò
espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice
piú sotto. Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa
soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere
ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula dell'imperativo
dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso
tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la
massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi.
Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che
l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della
medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza
contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la
possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che
questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già
ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale
validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una MASSIMA piú
generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come
legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a
prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui
li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne
oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il
vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. Se
s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che non soltanto
si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una
massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso; può
darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale
senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso
basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (nella Fondazione) in
sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre-
ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue
doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che
tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun
riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro
il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che
dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il
secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni-
versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. Per
converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen-
za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come
immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche
massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della
quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non
metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile
pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è
il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di
univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o
l'incompatibilità di questa universalizzazione della MASSIMA con la volontà che
la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame
alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie
diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene
a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo
stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che
già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge
universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire
facilmente con esempi. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte
a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia
prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se
il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico,
accadrà che in nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima
quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi.
Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la
possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in
grazia del quale l'ho accolta. Se si suppone invece che io riconosca essere
nella forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio
incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza
che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata —
anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e
l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si
accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di
valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta
dal mio volere come legge universale. Il significato nel quale è preso dal Kant
il criterio della universalizzazione, è, come si è detto, il secondo; e
propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora
esaminati. Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la
sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere
universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che
ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una
natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere,
anche quando l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire
i suoi talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il
piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma
egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della
natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere
ragionevole egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate
in lui». (Fondazione). La medesima considerazione è ripetuta a proposito
dall'altro esempio in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di
non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del
parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che
sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è
impossibile di volere che un tale princi- pio valga come legge della natura» Per
il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e
del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una
prova dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura
dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge
stessa morale. Soltanto intesa cosí la formula (nella Fondazione) della volontà
di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una
legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica. Opera
in modo che la massima del [Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si
accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può
assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi
vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se
contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e
personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera
come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che
vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca-
rattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi
giudizi. La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al
più come un tentativo poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di
vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a
dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di
identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere
ragionevole» col volere del caro Io. Il corsivo delle parole sottolineate in
questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spa-
zieggiata. Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella
traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni); per la Critica della ragion
pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di
Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer, Berlin). Kritik der praktischen Vernunft, tuo volere
possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e
coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri
conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare
dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma feconda in quanto dà un
contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma. Opera
in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni
altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo. Ma intesa
cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale
con- formità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come
principio di una legisla- zione universale, vale a dire, alla legge morale; e
della universale validità delle massime come co- mandi, cioè dell'universalità
del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla
universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i
modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la
volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa. Se ora vogliamo, e
possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e
servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e
completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara. I
valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono
la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica
sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei
ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da
ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come
potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi
sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in
rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di
ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione
pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»). Ma la ragione per quanto
si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza; teo- rica: dei
giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle
valutazioni deri- vate e mediate con le valutazioni direttamente date o
postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dà dunque le valutazioni,
sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'ufficio
di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio. Non è
meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne
estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà
con se stessa; esigenza necessa- ria e caratteristica di ogni uomo che sia
persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la
smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a
noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come
persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i
valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esi- genza unificatrice
della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle
conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito,
i valori fondamentali sono dati dalla vo- lontà; né si può derivarne la natura
dalla natura della trama; né dal disegno della tela.Né maggior luce può venire
dalla Volontà come Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da
quello del Volere buono. Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio
come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile, e capace di volere i valori morali
per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione
stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa
medesi- ma universalità.Quanto al concetto del volere buono, esso aggiunge
bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota
dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma
questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il
rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere
puro — e gli impulsi sensibili. È dunque un carattere che riguarda la moralità,
non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia
dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che
consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità
della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo
empirico, la ratio cognoscendi della leg- ge, sta però nella legge la ragion
d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che
i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né
sapere perché meritano che si debba attuarli. Che debbano essere scritti con la
iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche
essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle
altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale
maiuscola che li fa essere e diventare so- stantivi. Resta da esaminare la
forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella
in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della
legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come
fine in sé. Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima
formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di
piú di quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo
costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da
cui si pretende dedurlo. Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della
valutazione morale ma richiede un riferi- mento agli oggetti della valutazione;
ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso
cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi. Il termine che
media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il
rispetto della natura ragionevole. Poiché la legge è la ragione, il rispetto
della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole,
come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale
si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla
legittimità di passare dal rispetto della ragione al rispetto di una natura
ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo Kant la sua
forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si
realizza questa forma. Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come
puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il
passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma
quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere
ragionevo- le, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice
rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto
nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la com- prende sí, ma è
ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto
è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di
medesimo in tutti gli uomini, di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un
bisticcio) impersonale? Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già;
dall'assumere come fine questa persona- ragione vuota di ogni altro contenuto
non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come
tale. E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla
persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con
ogni altra persona e non anche per quel che vi è di proprio originale,
individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un
apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso
risuona. Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale)
conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che
essa ordina e fonde nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del
comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione,
ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza
vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si
può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma. Ma è troppo
evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal
rispetto alla ragione e alla legge perché legge. Intesa cosí la persona umana,
essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa,
ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la
universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in
luce le esigenze, determina le condizioni di at- tuabilità; (e potrà poi
indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle
degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei
valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono»
attua in forma di doveri. Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda
non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni,
modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca
come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la
conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività
spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito
sopra con l'esempio (nella Fondazione) a cui si riferisce. Come essere
ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano svi-
luppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di
fini possibili». Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il
volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole necessariamente lo
sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che
il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza
contestazione come fini di un volere buono cioè come valori morali14. E appare
manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente
formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare
morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E
risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione del- l'operare è veramente
buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le
azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a
cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui
attuazione fatta con purità di volere consiste la moralità? [ E che veramente
si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza
dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non
solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova —
non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma
l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale. Infatti la
ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che
chi è stanco della vita può uccidersi non è già l'impossibilità di concepire
seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma
l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica
che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita
è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo
e vogliamo il contrario. Così nel secondo, il dato contro cui urta la
universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione
di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà
sull'interesse egoistico; e la con- seguente impossibilità di volere che cessi
di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo
certi. Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel
quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della
benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria
quiete o dei propri comodi. Alla quale domanda si presume dunque che la
risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e
non può esser data, che da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se,
supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse
all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il
contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina
per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per
il dovere? Non vi è una coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante
coscienze morali quante sono le coscienze personali nelle quali sono
riconosciuti come supremi e normativi e validi indipen- dentemente dal flusso
momentaneo e variabile delle valutazioni transitorie e accidentali, certi valo-
ri; ed è riconosciuta l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente
possa valere non solo come norma costante del giudicare e del volere proprio,
ma anche come norma costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come
norma universale del giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si
suppone che quei certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può
parlare della coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma
anche di contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una
pluralità di coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di
criteri di valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi-
ma autorità di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino
singolare che esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo
formalismo per sé, ma dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da
ogni fine materiale e quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva,
la dottrina è sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che
si debba riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non
può capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare
infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli
soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il
criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a
certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza
morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo
stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non
esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è
valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che
ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú
un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano
costantemente con quello; se io non riconosco legittimo — fatto da qualsiasi
altro — il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è
un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i
valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci riconoscere
— senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato non razionale
— il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o reale. Si
governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in ogni caso
come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché riconosca
legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel che faccia
l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o
l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca
della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla
ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma
il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa
contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e
deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal
quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione
che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come
se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o
incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri
valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di
irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa
irragionevole. Adunque il criterio di Kant non supera, dato che ci siano, le
differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io
pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra
persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va-
lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del
conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una
delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale
è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente
come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla,
la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella
valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che ogni oggetto ideale o
contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per altri
rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie. Anzi è
per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che si è
cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione, la
ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica, egoistica
o altruistica, o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale
rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere — con questa e per questa
ragione — per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il
tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al
contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella
coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe — all'infuori del carattere
specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come
valore morale — essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro
ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della
diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere
ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori
morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori
si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di
condizionalità degli altri valori, con i valori estetici; e il mistico un
ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e
graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí
lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista
calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già
una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si
vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli
altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere
rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se
continuano a valere per la forma come morali, valgono — per il contenuto —
soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante.
Basta per convincersene badare alle differenze caratteristiche della
motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica
a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla
forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e
fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che
esprime l'orientamento prevalente della coscienza — anche quando non è in
giuoco la valu- tazione etica — non solo conduce alla transvalutazione notata,
ma tende a indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a
dar colore e calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di
quell'ordine, a riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti
per tali anche dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo
orientamento. Ed è istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col
quale parla di diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della
giustizia l'egoista gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo
ingegnoso che aveva a mala pena il pregio di non urtare nel codice penale; e
quello (sia pure di dignità fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida
allo scandalo e invoca un preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda
il suo senso estetico, la trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E
si potrebbe continuare, in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno
degli orientamenti valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente
la sfera dei valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non
coestensivo al contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi
sistemi di valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse
tipicamente diverso — abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei
valori che ognun d'essi, per l'esigenza sua propria, riconosce come morali;
abbiano cioè comuni soltanto quei valori morali che sono nello stesso tempo
valori diretti o indiretti del proprio genere, o che al- meno non contrastano e
non negano quella propria specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano
cosí a cerchi eccentrici di vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali
è minima la superfi- cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte
d'estensione rispettivamente comune a un numero di cerchi minore; e in misura
variabile, secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte,
anche la coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse
stesso morale (la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei
valori estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o
indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a
quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e
l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per
la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in
evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di
un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale
a quello del fattore che rimane: ethics, Intrinsic value), si trova a dovere
apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso
è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per
es., od estetica. (Non è senza significato anche per questo rispetto che il
Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il
finalmente chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il
carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato
quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice
autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus,
il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla
valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di
spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità
intrinseca dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali
splende un raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori
morali da altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore
e spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si
traducono. Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e
trasmutabile per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri
valori spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal
trionfo dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per
le diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune
determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale
cadeva il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a
partire dalla dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese, si delinea
e si allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza
di contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo
il contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi.
E i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio
intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o
filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono
piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire,
paralleli di giustifica- 39 Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto;
essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una
diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune,
che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda.
Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di
contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé
autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la
coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio
criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado,
tra quella e queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito
filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano
rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare
al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che
certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé,
l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti
indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che
siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono
condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività
corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha
posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo
ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come
valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza
dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le
istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste
condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità,
simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque
tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre,
saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri — astrazion
fatta da ogni valutazione morale — dei valori, sia propriamente personali (doti
della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo
atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi
atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che
li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di
condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di
strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna
accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o
la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico
all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del-
l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari
indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto
singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o
condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile,
in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti valori
condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di precedenza
imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. Non occorre lungo
discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il filan- tropo
potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di condizionalità anche a
qualità attitudini forme di attività, alle quali o non potrà attribuirli o
dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo, ossia un disvalore,
il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà possibile una di-
stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo di valutazione, e
i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come gli esempi citati
dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi valori comuni
avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di essere
strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia posto
come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente necessaria
permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo elemento all'ipotesi; e
supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il mistico e
l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali, quell'or- dine
di valori che risponde alla direzione tipica della propria coscienza. Accadrà
che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al contenuto con la
valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei quali si
riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno interiormen- te
riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i valori posti e
dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà riconoscere in pari
tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me normativo un ordine di
valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti questi medesimi va- lori,
ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale è universalmente
necessaria. Cioè dovrà riconoscere che, esteriormente alla propria coscienza,
l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú ristretta sfera di
valori. In altri termini, non potrà esser posto come criterio morale e comune
se non un criterio di valutazione che assuma, come universalmente validi e
costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei valori appunto nei quali
si riscontra la detta priorità condizionale; ma che insieme non neghi, e non
escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza in particolare, cioè
nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra e si giustifica per
ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. Si delinea dunque, per la
riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i valori la cui at-
tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e costante per qualsiasi
coscienza capace di moralità, e i valori la cui attuazione è un'esigenza
soltanto per la coscienza che li pone a sé come morali; tra i valori per i
quali ogni coscienza può riconoscere legittima una legislazione esterna che ne
imponga la validità; e i valori dei quali una legislazione esterna deve
soltanto non escludere la possibilità; tra i valori che possono essere oggetto
di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na, e i valori che, non
possono essere oggetto che di una obbligazione interna. Gli esempi addotti in
principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un contenuto comune
universalmente valido, non rispondono a una determinazione rigorosa; e hanno
soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora cerchiamo di fissare
con precisione quali sono propria- mente i valori che lo costituiscono,
troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni riconosciute in
effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari fondamentali da
ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà esprime l'esigenza
delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di
sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la giustizia esprime
l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie all'esercizio universalmente
efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in ogni altra persona questi
valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli- citi in questi) deve
dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente valido, anzi come il
solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente universale. Ma qui è da
notare una circostanza rilevante. La libertà non è una condizione di fatto, un
possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente il Fichte, una
conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che richiede sforzi
sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da dire della
giustizia che è lo spec- chio sociale della libertà. Ora se il valore della
libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano) consi-
ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro essere
condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed inevitabile la
possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in- tellettuale, dell'esteta,
dell'altruista, tra l'interesse sempre presente, diretto della conoscenza o della
bellezza o della simpatia e i doveri mediati e indiretti della libertà e della
giustizia; o, in termini generali, tra i valori diretti e per la coscienza
individuale supremi, e i valori che per lei appaiono sol- tanto indiretti e
strumentali. Cosí obbiettivamente nell'ordine di una possibile legislazione
esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri, quelli appunto che
soggettivamente per la legislazione interna di molte se non di tutte le
coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali soltanto in
grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna tutela
subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la
questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui
commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel
capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e
normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé
e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e
riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori
di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui
sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario
di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la
distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette
quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. C'è, sottinteso, nella tesi
del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei
valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual
è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori,
diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una
coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni
imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di
valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle
valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in
effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e
perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia
sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la
volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto
idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare
ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le
condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una
unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono
in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di
ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma
ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto, della
persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà.
Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il
valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di
confronto e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la
validità di ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto
del quale si discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge
irrimedia- bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche
cosa di perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza,
quando si discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone
neces- sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa.
Bisogna dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto;
accettando o respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è
via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale;
accettarlo vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la
personalità, a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità
astratta e comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o
quella persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in
quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di
individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo o di
quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in quanto è questo.
L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma
non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza come legge del mio valutare e
del mio fare, impone a me che l'idealità posta e riconosciuta come suprema
valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il valore intrinseco, ne
approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si presentano, in me e fuori
di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e di volere che ogni uomo
sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come
persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la
volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na, è posta da questa mia
volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo, la mia coerenza deve
essere e non può essere altro che la coerenza della ragione; l'e- sigenza che
la mia volontà impone a me di essere persona è quella medesima esigenza che la
volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone a lui, e che a me e a
lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come tale; ma l'una e
l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto spirituale in me e negli
altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali l'io può attingere
l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la medesima idealità. La
mia volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due
esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non
solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io
degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che
dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma
non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di
essere quella certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma
la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di quello spirito di cui
è la volontà. Ma quale è la prova che questa idealità non è un capriccio
dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e
delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a me stesso, da
me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei
valori posti da me non è contestabile da altri né control- labile. Ma vi è
tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio
comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e
questa prova è il sacrificio. Ap- punto perché il sacrificio attesta che ogni
mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di
attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi
costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal
valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser
pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui
si è devoti. Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando
di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e
caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima
luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con-
tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si
realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella
forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo
strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il
valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale
si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge
della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità spirituale
della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la libertà, che
nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente acquista valore
solo strumentalmente universale e necessario, in quanto l'attuazione dei valori
di libertà ap- pare la condizione comune e imprescindibile della attuazione di
ogni ordine di valori, è invece qui valore per sé immediatamente universale; e
sorgente di quegli stessi valori che valgono per le co- scienze singole come
supremi soltanto perché sono lo strumento del realizzarsi di essa libertà in
cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei valori costitutivi della
personalità in astratto, come dei va- lori costitutivi delle diverse
personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona ideale come
dei valori propri della persona reale. Nel presupposto stesso di ogni
valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza dell'uni- versale come
l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione comune e l'esigenza
di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza che la volontà
personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e dell'altra, o,
meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un tempo: sii
persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per
essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espres-
sione individuale e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente di credere
che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori, di affermare
nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere giusti, quello di
es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato a fare delle
scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla parola. Le
intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le nuove forme di
arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult. Ma vi sono, in
un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole continue
scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che cavano e
puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio farà
sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove intuizioni e
nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che
prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino
nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla medesima
classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale si rivela
l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di
grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e
colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima
disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al
bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità
diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei
grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono
per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è
caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo
significato originario, in una «idiosincrasia». Queste minori e, nella loro
infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però,
come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere,
conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal
che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E
qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di
fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di
sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne
possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come
questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma
tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono
natural- mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza
personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di
questa prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i
valori universali morali — i valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono
come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della
valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella
germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve
essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli,
il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione
di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e
universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da
segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende
necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti-
mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa
antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra
l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera
consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi
valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte,
l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi
tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú
recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e
l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si
facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili soltanto ad alcuni —,
quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già
li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te,
incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta
elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come
nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano;
ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale
sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la
possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale
prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di
tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della
cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie
coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre
in es- sere quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona
umana), tra valori morali universali e valori morali propriamente personali,
corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che
as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli
altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere
una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne
della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume
tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo
il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva;
cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne necessarie
alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto,
che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in alcuni, se
non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche
corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono:
l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la
garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e
quello che prende impropria- mente nome dal socialismo: — la giustizia è la
costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima
possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre-
tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della
Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si
rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di
intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze
costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale.
Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato
soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla
forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come
negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una
legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di
distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del conflitto
è dovuta non solamente e non tanto all'abbassamento inevitabile che ogni
idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico, quanto
ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle
condizioni della sua vali- dità. Questo capitolo presenta soltanto nei suoi
lineamenti più generali una materia che deve essere trattata distesamente a
parte [Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere
altrimenti, la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È
individualismo; universalistico si, ma individualismo. Una prova di ciò assai
significativa è appunto la deduzione che Fichte fa dal dovere che ciascuno ha
di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione
morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro.
Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là sono detti in modo
diverso. Nell'esemplificazione introdotta qui sopra si è supposto che l'idealità normatrice
potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi
o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che
l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso,
nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a verità, non presenta
quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali
può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto
costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche
l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché,
si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che
valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di
valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza
al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico
razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente
strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i-
dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia
pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo
oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma
edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato —
s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul
liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la
tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come
valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili
del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il
piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì
sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in
pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista —
considerata come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni
spe- cie di valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono
considerati e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione
e di godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il
sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo,
possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per
con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come
un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua
giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della
coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un
ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore
primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota essenziale.
E ne segue parallelamente che si possa ravvisare nell'ordine giuridico cosí la
realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede
idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e
sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome il valore
morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo sente e lo
riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si riconosce
come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte delle
coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche l'ordine dei
valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte- nuto del
diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e non dal
principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista; subito
da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe pretendere
ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce la
conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al
contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto
devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente
l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena)
ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico
dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. Di qui seguono
due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po-
litica. Il primo è questo: che il potere politico, in quanto è forza di
coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si
siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé,
direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto
interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i
mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi),
sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine
egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto
an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo
del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti esteriori
della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né morali né
immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla coscienza
dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere
giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere
politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo, comune
col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare organo
promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di
queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come
elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni
egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel- lettuali,
estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú
desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni
essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria
e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i
mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e
morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e
apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori
spirituali. La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i
mezzi o le condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed
elevazione spirituale di ciascuno. Fin qui si è considerato il Potere politico
soltanto come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci,
dalla cui volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello
stesso potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se
si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di
Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in
un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per
rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite
nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso
tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di
ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di
idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le
conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato
assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere
l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché
lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna.
Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la
persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo.
Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non
in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col
Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni esigenza
di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è necessaria. Di qui
la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici
che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente
incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza opposta nei partiti, che
credono superabile l'opposizione, e condizionata etica- mente la sovranità
degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto occasione di notare nel
capitolo precedente che per la ragione stessa per la quale la idealità è
concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come normativa di tutta la
condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni interesse individuale e,
quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo all'idealità etica che lo
costituisce in persona, diventano la prova viva e continua del valore
intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della conformità, per adoperare
termini già usati, del volere operante o esecutivo col volere valutante o
legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per
sé all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e accidentale
dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è
rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio
comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al
quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare
ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva
e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni
soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede da noi, in
noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale morale come
un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo
il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attin- gere i
partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella virtualità è
sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la
nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una certa
analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il
Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù
divina realizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore
morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e
spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla
prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come
mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa
considera le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e
giustificate soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili
fuori di quella. Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza
stessa religiosa deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione
non è neppure per essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua
giustificazione in quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della
quale essa coscienza riconosce il valore supremo della propria idealità, e
l'autorità divina del Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della
persona umana come sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della
inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed
implica quella libertà che essa non può negare in altra persona senza negarne
il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la
propria; che è il principio da cui muove e il termine a cui riesce ogni
elevazione dello spirito. Inoltre: Ogni sforzo che si faccia per tradurre un
dovere religioso in obbligo giuridico e dar- gli una sanzione materiale
esterna, contraddice, nel momento stesso che sembra affermarla, l'esi- genza
della religiosità. Perché tende a sostituire al motivo religioso — del tutto
interiore — della devozione e della adorazione, un motivo esteriore e di
necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale si trova cosí invocato
a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione interiore dello spirito,
e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa distinzione e indipendenza del
Potere politico e della legislazione esterna da ogni particolare fede
religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile non meno che la
indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale. Perché ciò che
fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è insieme ciò
che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che la «esperienza
religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le intuizioni alle quali
essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova, certe di una certezza
diretta, cioè anteriore a ogni prova, non meno delle sensazioni. Ma al pari di
queste non sono comunicabili ad una coscienza che non le prova e non le vive.
Potrebbe parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di
questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento
dell'intuizione) per il quale la co- scienza trapassa dalla intuizione sua,
dall'esperienza propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come
oggetto dell'intuizione. Ma anche questo processo sfugge alla discussione
perché non è logico ma psicologico: anzi non è per la coscienza del mistico un
passaggio, una argomentazione, ma una integrazione che si pone coll'atto stesso
dell'intuizione e che è vissuta con la medesima certezza. Perciò, chi vuol
sotto- porre dal di fuori questo processo ad analisi critica, analizza in
realtà qualche cosa di diverso. Ana- lizza il processo discorsivo che dovrebbe
fare, per provare la validità della sua conclusione, una co- scienza che non
senta già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri
come conclusione di un passaggio logico, quel che per il mistico non è
conclusione logica, ma è evidenza psicologica. E d'altra parte è pur vero che
questo medesimo carattere di evidenza immediata che rende la certezza del
mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo
ogni pos- sibilità di dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda
sull'autorità e non sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la
individualità e la incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è
accettata come tale per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla
divinità dalla quale è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e
presuppone quella certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì
un contenuto dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se
la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali,
per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine
divina, le prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi
che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma
sono prove che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel
divino, di cui ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore
personale e insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle
diverse credenze religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò
che costituisce la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo,
ciò che costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra),
non è la medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla
negazione non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di
ogni fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una
idealità, che per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In
questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la
fonte di ogni in- cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale.
Ciascuna di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna
deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza
ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui contenuto
si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori nella
esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è
qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si
misura la sua dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est
necesse.Ho cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si
può dire, dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema
di una pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si
abbandoni il presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che
l'imperativo categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere
convengano a un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle
deduzioni della dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini
piú chiari e meno tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza
morale sia una e la medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla
dentro ogni persona, ma per le cose che dice; non solo per l'autorità con la
quale comanda, ma per ciò che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o
meglio ad anteporsi (se non anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure
ho cercato di dimostrare) a mutar senso e posizione — al problema che è
tuttora, almeno nella forma consueta, considerato come il problema centrale, il
vero problema del- l'etica: quello del fondamento. La quale forma di
trattazione sembra supporre — già nel modo di porre il problema (filosofia
della morale) — che sul contenuto concreto di ciò che si chiama morali- tà, sul
modo di condotta che si distingue come morale, sui criteri coi quali
giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non cada dubbio; e
il dubbio riguardi le ragioni per le quali si de- ve veramente tener giusto e
buono quel modo di condotta, e legittimo quel criterio; e ingiusto e ille-
gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia ora, dico non solo nella
letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea, arbitrariamente assunto; che
nel decidere — se ciò che vale di piú sia la verità, o la bellezza, o la
giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione di sé o la rinunzia,
l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non tutte le coscienze
vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona non volgare e non
ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di una sincera e
severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi, contrasti e
opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che nessuno potrà e
vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe di sussistere e
di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso apparire nelle
discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari dell'Etica di
teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e che giungono
a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni contraddittorie. E
qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia portare su di esse
bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale una dottrina,
se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle dottrine morali
come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre- tendesse di valutare
e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò basta a confermare, se
di conferma vi è bisogno, che il problema di una pluralità di con- tenuti della
morale, ossia di una pluralità di criteri di valutazione, non è un problema di
semplice possibilità astratta, cioè una curiosità scientifica e filosofica, ma
è un problema d'attualità concreta e viva; è, veramente, a mio giudizio, il
problema per eccellenza della coscienza morale contemporanea. 1 Su la pluralità
dei postulati di valutazione morale; Il Vecchio ed il nuovo Problema della
morale. Questo modo di vedere è favorito, se non conservato, dal preconcetto,
del tutto arbitrario, che la morale sia una dipendenza della filosofia
teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da cercare la ragione dei
criteri e dei principi che reggono e giustificano la condotta. Il quale
preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di chi andasse a
cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la spiegazione degli
atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano. 3 Né in sede di
discussione e di critica si può respingere senz'altro come amorali o immorali
dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza assumere come valido
appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione contestano la validità.
Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza di condanna.
Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo — quando si fa piú
aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova questa pluralità.
Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo sforzo logico
della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente raggiunta, del
criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o almeno dualità
di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di felicità e virtù
— ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai del tutto superata
dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità reale di criteri nella
valutazione della condotta non è raggiunta se non in apparenza, nella stessa
mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non rinunzia, e non può
rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto della vita terrena
finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che re- golano questa al
medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto dal contenuto
sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico inevitabile
tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a
determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o
della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale
l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è
affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par-
ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire
raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo
propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte
piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte-
riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di
un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente
ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la
possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la
condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini
propri della persona, e le forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo
storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il
razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando,
illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo,
superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale,
spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la
giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome
della natura e della ragione erano state condannate, avevano condotto a questo
doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita
interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività
spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante
della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in
essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con
l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività
considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso,
a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore,
alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine
dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a
considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le
quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte
rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la
loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto
estraneo all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale,
lasciando aperto il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico,
sociologico, storico. Cosí quel che per il razionalismo era il contenuto comune
della coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla
morale. E mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità
e esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i
valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e
calore di valutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di
aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e
nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si
chiama piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di
opinioni, di ere- sie morali che è la caratteristica, e che esprime, per dir
cosí, la maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. Non si
vuol dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione
particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività
individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o
sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di
istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una
diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una
orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure
è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità»
notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú
largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini
contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e
negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione
ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché
anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da
escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale
molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che
la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i contrasti
di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel campo di
quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e
indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre
si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti
irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si
presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali — o
giustificate in nome di esigenze razionali — tendenze e forme di vita spon-
tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie
alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori
morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno
in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si
affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni
significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a
quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto
ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della
ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra
criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a
risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del
contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale
perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare
appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne
fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere
né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo
appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i
detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia,
non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella
ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con
divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover
ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia
di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa
la sorgente delle valutazioni morali. E tuttavia non solo fu — nell'età aurea
del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che
la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella
ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto
l'esigenza della coerenza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime,
ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri
diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel
credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato
che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe
premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi
stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto
osservare le leggi della logica, rispettare quei principi logici senza dei
quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma
voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad
ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o
postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro
certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché
non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la
distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di
esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione sarebbe
essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non solo
l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i
criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che
non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione.
Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi:
O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei
giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con
la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme
logiche. Oppure se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è
diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma
offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da
formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché
ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O
finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che
basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del
contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario
riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma
stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che
anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di
argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via,
la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta
il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a
dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il
contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema
della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente
in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura
delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È
l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste
nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare
quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che
concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa,
espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata
nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú
il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4
Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa
distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè
riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la
condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che
rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra
di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o
la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in
discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il
contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello
propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le-
gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione
speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica
che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si
riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion
pratica. La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: che il bene e il
male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si
conoscono le altre cose. che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo,
ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa
perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta indipendentemente dalla
seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di
Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di
quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso
giustamente, a merito di lui. Vecchio e nuovo Problema]qualsiasi vale piú di un
qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile
con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è
tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me
e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del
pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò
diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la stima
di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque una
contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio sulla inerenza
all'uomo di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che
riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che
riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile
avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in
questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle
cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar-
tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio
sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o proprietà
implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno, cioè in
ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che possa o
debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in realtà;
tanto che il negargli questo valore non implica negare sia la realtà, sia la
possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'ente. Cosí come negare alla sfera
il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implica per GALILEI
(si veda) la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna
qualesivoglia delle sue proprietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si
potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà,
un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla geometria;
e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della
sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che
ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né
all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o
della piramide. Lo stesso, mutatis verbis , vale per l'esempio allegato del
cane e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso
è appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io
non provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga
piú della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il
cane valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato -- non per nulla
nella scelta SERBATI (si veda) ha la mano felice -- la repu- gnanza ci sia, è
innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della
univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza
morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella
misura in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e
sempre: negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego
nessuna delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non
nego nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque
poi sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di
quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia
maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato
dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la
ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del
riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E
il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi
potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione
che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la
verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del
cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse
davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la
differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non
cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da
quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due
enti, prova, nel caso che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale
in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio
di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque,
riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La
verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono
della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e
con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono
presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati,
sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione
diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta
alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un
processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne
governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si
prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con
questa circostanza, per dir cosí, aggravante: che, come s'è accennato, accade
di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un
processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono
comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che
riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i
giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le
costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore
(e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di
circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei
giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come
primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle
costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e
conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio. Sfuggendo cosí
all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a
volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in
cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla
validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta
meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la
natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile,
dai giudizi teoretici. La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o
essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha
a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circostanza è questa: che
una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente
valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono
incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici,
senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea
dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia
formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú
nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi,
avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una
valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del
sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o
lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature
suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è
indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli
una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè
si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio
teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui
una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse-
guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze
deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni
didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di invertire
la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e inversamente;
come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione reciproca di due
proprietà fra di loro.] te assunto insieme un giudizio di valutazione, nella
misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o per chi ascolta
qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa evidentissimo quando si
tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú gravemente e piú
universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale, falsario e simili.
Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione della loro prova
teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li accompagna; ap-
punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E non per nulla
la diffamazione è punita piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio valutativo
(sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto, ossia su
giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì l'esistenza del
fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in nessun modo il
valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso e incorporato
nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui l'azione è
prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo sentono e
tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio di primari,
cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità si riconduce
la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il cui valore per
essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è appunto piú
facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona intelligente «bada che
quella pistola è carica», non occorre altro discorso per persuaderla a
maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o meglio, nessuno
ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un giudizio sul valore
della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la vita non valesse piú di
una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che qui è sottinteso, può
essere considerato come primario, per esempio in tutti i precetti dell'igiene
(dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso derivato rispetto a
questo, sul valore della sanità): ma può essere non primario per chi giustifica
a sua volta il valore della vita col valore del sapere, o del bello, o della
giustizia, o della carità, o della potenza, o della gloria, o di qualsiasi
altro ordine di fini o di attività o di godimenti. Ma poi, quando si dice che
l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto della vita, si fa di ciascuno
di quei beni che sopra sono assunti come beni per sé, un bene derivato rispetto
a quello della vita. E cosí se si dice che il sapere accresce la ricchezza, o
la giustizia assicura la tranquillità, o l'onestà alimenta la fiducia
reciproca, si pongono, almeno occasionalmente, come derivati, dei valo- ri
primari, e si assumono come primari rispetto ad essi, dei valori derivati. È
adunque chiaro che i giudizi di valore si legano fra di loro in una catena
continua, anzi in un groviglio di catene, del quale non è necessario qui cercar
di capire piú particolarmente la struttura; e che per queste mutue e varie
connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si può assumere come
primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che figura come
derivato in un sistema diverso. Ma in qualsiasi processo di giustificazione,
questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci deve essere; e si
tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se spetta alla ragione
giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca l'attribuzione di
valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un valore derivato; la
quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia un processo
razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una affermazione diretta
o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si distingua come razio-
nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé razionali; cioè che non
sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di ammettere. Se si tien
conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della razionalità o
irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista, accettando il
principio assiologico che assume come primario quando giustifica il suo sistema
di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri- spondenti, rinneghi
la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in contraddizione con se
stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando da egoista non
raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera. O perché il criterio
egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista non può
fare a meno di accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso sbaglia i
conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la questione. I conti
li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza che ciò voglia dire
nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o l'indegnità dei nostri
scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi e dà luogo ad un
giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso; e sba- gliano i
conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo dunque le delusioni
che possono venire agli egoisti da errori di calcolo. Concludente invece, anzi
decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che non si possa essere
egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di configurare un egoista
incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi forse cedendo appunto
alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì di subordinare ogni
interesse, di qualunque genere, degli altri al suo interesse pro- prio, ma
pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha l'aria di dire agli
altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come faccio io a servirmi di
voi per i miei comodi? Naturalmente quando si è foggiato un egoista su questo
tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non è mai, in generale, molto
difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che vi sia posto dentro
prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si dimostrerebbe che
non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se, essendo coerente,
cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la tesi che si deve
dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo. Egoista coerente è
chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato dal suo inte- resse
maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che procura ad esso
operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di danni; ossia, un
egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può considerare come esempio di
contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso frequentissimo e co-
munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella circostanza egoista
perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre sente dentro di sé di
«aver torto», sente che la sua azione presente è disforme da quel modo di
operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel modo di operare
che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che egli stesso
seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe fare così e
sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio; il sacrifizio
di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente qui (ed è il
caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello scontento
interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata dalla
ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la costanza dei
criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo razionale che
rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta qui. Il contrasto
segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo e deve riconoscere
il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha operato bensí da
egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia. Egli è in con-
traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta tra i motivi,
seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di valutazione che
egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio sulle azioni altrui
e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria anche a se stesso.
E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio di valutazione che
egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se dato che non fosse
sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un processo razionale farlo
sorgere per gli altri, ma ammette e trova naturale e legittimo nello stesso
tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È pronto a sopraffare,
potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se altri, potendo,
sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? Si dirà che cosí facendo si riesce
all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione reciproca degli
egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda compatibili, e abolisca lo
spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»; o al riconoscimento del
valore supremo, della forza come criterio ultimo della condotta. Ora il primo
risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo; l'egoismo, diventando ragio-
nevole sbocca in un criterio diverso, anzi contrario: si fa legge, cioè
diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa sull'egoista la spada di
Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può essere piú debole domani,
il piú forte contro i singoli è meno forte contro la coalizione dei singoli. Il
numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo sopraffà esso ha ragione perché è
il piú forte. Per sostenere che il criterio della forza deve valere soltanto
tra i singoli e singolarmente presi, occorrerebbe un altro presupposto, un
altro giudizio, un altro criterio fuori della forza, che valga a distinguere
entro quali limiti l'uso della forza è legittimo. Ma fuori di questa clausola
(che ricondur- rebbe al risultato precedente), la forza contiene in sé la
propria condanna perché genera da sé la propria negazione. Né l'uno né l'altro
di questi discorsi che paiono vittoriosi è, se si guarda spassionatamente,
concludente. Cominciamo dal secondo. È bensì vero che l'egoismo se non scende a
patti con gli egoismi che gli si possono contrapporre sbocca nel criterio della
forza; ma il criterio della forza non si nega e non si smentisce finché si
ammette che esso valga per tutti, che la mia volontà sia legge finché il piú
forte sono io, e che sia legge la volontà degli altri quando piú forti sono gli
altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando valesse finché il piú forte sono
io e non valesse piú se il piú forte è un al- tro. Si può dunque dire che il
criterio della forza può riservare delle sorprese, e portare, a chi l'accet-
ta, piú danni che utili. Ma non si può dire che sia in sé contraddittorio; come
non è contraddittorio per un giocatore accettare la legge del gioco coi suoi
rischi e le sue promesse, anche se queste sono superate da quelli. Ciò riguarda
dunque, non la coerenza intrinseca del criterio, ma la questione se a un
egoista accorto convenga o no di farne la sua legge. Se ci pensa bene, se pesa
il pro e il contro con pruden- za, forse non sceglierà una strada nella quale i
pericoli sono superiori alle speranze. Se si trova difficoltà a immaginare
seguíto questo criterio fra gli individui, non c'è che da pensare al principio
che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri, se non fino ad oggi, i rapporti
fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre secondo l'imperativo
nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa tuttora - agli occhi di
molti - come il solo imperativo seriamente politico. In questa concezione dei
rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma rigorosa quella tesi
estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui - e che parve ad
alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a- narchismo di una
società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi piace? O si
vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no, che
accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio
possibile, - in determinate circostanze storiche, ma come il solo razionale? Senonché
anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata
su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato
abbia un valore incondizionatamente supremo. Ed ecco l'altra alternativa:
l'egoismo che si limita e si fa diritto. Ma qui è ancora piú facile scorgere
l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta
il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua
li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa
perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per
lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto
cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu-
stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che
questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà
storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun
modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge
che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno,
l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici
e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme
giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a
contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la
limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno
sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata
dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú
grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo
puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima)
ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono
nome di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se
faccia piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con
questo nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal
punto di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza
di conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e-
sigenza si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della
società, il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da
un punto di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso
sforzo di giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività
anche piú elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la
contraddizione intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare
piuttosto il contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la
tenacia dello sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se
non l'unica, di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione,
sia di mostrare che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso
cioè di un intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si
pone la pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema
di condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre
sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il
quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri
contrari. Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per
sé. Ma è soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non
accettarlo, di ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. Chiedo scusa
al lettore se adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad
effetti stilistici che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo.
Non bisogna dimenticare che in queste espressioni l'egoismo che si nega,
l'arbitrio che limita se stesso e molte altre somiglianti, il senso voluto
significare è reso possibile perché e in quanto il termine in questione
(egoismo o altro) è preso a indicare in una due significazioni diverse:
nell'una è l'astratto (la connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il
collettivo (l'insieme degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si
contrastano). Il quale è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano
veramente utili soltanto le azioni che servono a certi fini e a certe
soddisfazioni loro. Ma utili in qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah
questo sí), non sarebbero ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a
cui sono dirette, economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc.
Che siano dette utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che
abbiano vera importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si
dimostra con molti discorsi che sono meno nobili degli altri. Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale \ Con ciò la tesi egoistica cerca
di porsi su quella medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle
scuole la via piú comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú
semplice, si di- rebbe quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di
ricondurre le norme a un bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto
o si debba riconoscere incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da
principio della dimostrazione d’assioma medio o proprio della costru- zione
morale, è il giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema
del fine. Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come
supremo e che si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro
legittimità è dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla
ragione di trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine
supremo è dato e si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità
di supremo; — di giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che
non basti un ri- conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di
diritto; che spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è,
un tal fine, ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il
valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume,
e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente
dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare
praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è
supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u-
mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li
concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico
delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si
riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione
o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena
necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí
naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il
fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e
incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine
apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e
concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può
dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli
si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è
necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale
contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce
come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità, o
Perfezione, o altro Bene, della quale quel contenuto assume la veste, il titolo
e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí
accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è
il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non
potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che
reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità:
ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine
realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge
la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce
logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne
ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene
determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire,
l'altro a dar valore alla costruzione. Ora finché si ammette che la felicità o
quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel
contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni
favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della
costruzione e il supposto che lo investe del valore di fine, non ha luogo, o
apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che
il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro.
Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di
contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in
quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o
specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo
gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di
"Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere
fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano
come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura;
oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e
natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a
distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che
consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra
semenza...» E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di
diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far
capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono
indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non
vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere
riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per
subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono
inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo
il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il
riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è
difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al
quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la
subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in
ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a
giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo che
è bensì esso razionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il
processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale
dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua,
che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto
rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente
e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi
effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e
giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il
Bene morale; e poiché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene
deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione
lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere
come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si-
stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene
a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio
seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere,
di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione
dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di
dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo
come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo.
Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che
ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore
morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La
ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra
la congruenza con le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre
le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e,
dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui
può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha
valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per
la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e
che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità
di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una
«natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi
dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali
dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono
questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o
i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è
che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un
unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità
logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza
razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è
già data o postulata [Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno
a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e
non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla
con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone
ragionevoli vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno
patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che
basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè
dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima
vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di
espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia
impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa
d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione
d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e
valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o
valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e
manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si
incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni
mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro
dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di
origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel
raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei,
edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in
vista di fini diversi e anche opposti tra di loro; e nel raccomandare
l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano
pienamente d'accordo; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono
comunemente accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve
ragionevolmente accettare quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia,
tra i normalmente possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve
riconosce- re che esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di
operare. Non riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora
riconoscere che se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta
un principio bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere
ragionevole. E poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato,
se- condo le tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica
conduce a quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione,
ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per
mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la
connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere
rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi
o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la
riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse-
guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire
«ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale,
finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa
irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma-
zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati.
Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla probabilità
di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che esso sarebbe
probativo anche se fosse del tutto ipotetico, è da os- [Anzi su questa
circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di importanza
capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove (confronta
Vecchio e nuovo problema): cioè che una qualità, una virtù, un modo di operare
che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri rispetti
diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore di
utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: come avvenga che la
giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di
natura diversa; come sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del
problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto
morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una
rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro
genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti sanno servare
che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le
persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima
vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle
opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e
soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non
si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze
e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma
nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata,
richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene
a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché
alcuni si dimenticano di essere, o credono di essere mentre non sono.
Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come
contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio
al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di
principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se
cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva
che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú
insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano
come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su
questa idea che la costruzione giuridica — della quale l'espressio- ne piú nota
è la Dichiarazione dei diritti — sia una pura astrazione razionale, è fondata
la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre
nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e
la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone
la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione
razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico
(qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a
me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria
costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio
che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal
razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel
concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o
sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune,
surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si
capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo
che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come
strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto
dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente,
dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo
soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte
allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e
sorridere l'homo historicus. Né si dica che Nietzsche è finito al manicomio;
ciò non proverebbe nulla: perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti:
e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; perché
quando Nietzsche la pensò non era pazzo; perché anche se fosse stato pazzo, la
teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; perché in ogni caso
sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle
premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno,
accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica
perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo
inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana.
E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di
rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae moralis
institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow di un autore tutt'altro che
ignoto, Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del
Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro
governo. Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in
disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema
dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre
il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della
libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di
ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà
e della giustizia, fatte in nome. Mentre, se si esclude quel supposto e si ammette
che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o se si
ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po- sizione
sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti «naturali» non
hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti. Ma il principio
che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare la persona come
mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di valore il
principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga quanto
qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere negati
senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto dell'accettarli o
negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non era. Perciò non è
da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in quella
costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la costruzione
debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e non è, per
chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di ragione non
solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la coscienza mo-
rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può dedurre da essi.
Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che fossero impliciti
necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo ragionevole» volesse
dire insieme uomo che accetta quei principî di valutazione. (Il che non vuol
dire, si badi bene, che avesse torto nell'accettarli e nell'as- sumerli come
degni di essere accettati). Ma se si ammette o si suppone che siano accettati,
la costruzione razionale che se ne ricava, come dottrina dei rapporti etici e
giuridici che governerebbero qualsiasi società umana, nella quale essi fossero
sanciti come criteri supremi della condotta, in ogni sua forma — sia dei
cittadini tra di loro, sia dei cittadini verso lo stato, e inversamente, sia
degli stati fra di loro —, non solo non è ille- gittima, ma è la sola
legittima. E il suo valore etico, giova affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque
possa essere la distanza che si osserva o si immagina intercedere fra uno stato
conforme a quella esigenza ideale, e questa o quella forma di realtà storica e
concreta. Anzi, per chi assume quell'esigenza come avente valore morale
supremo, i doveri corrispon- denti all'attuazione e all'osservanza di quei
rapporti saranno i doveri fondamentali precedenti in au- torità e in
obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i diritti correlativi esprimeranno
i valori sociali e politici supremi indipendentemente da ogni giudizio sulla
realtà e attuabilità delle forme ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí
configurati16. Per converso, chi respinge questo postulato, non solo può, ma
deve, ragionevolmente, nega- re ogni valore alla costruzione razionale
corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo — in sede di di un preteso interesse
della collettività e dello stato, non è negare l'interesse della Società, ma
piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus è povero di contenuto appunto perché
si esaurisce nei doveri del cittadino, cioè nei va- lori giuridici e politici,
e dimentica o trascura i valori propri della vita personale interiore. Il che
prova che sono lasciati nell'ombra non solo i fini propri dello stato (uffici
positivi) ma anche i fini spe- ciali dei singoli; appunto perché domina e vince
ogni altra preoccupazione quella dei fini comuni universali e fondamentali -
così per la vita individuale come per la vita sociale - della libertà e della
giustizia. Chiamare la concezione ideale di una forma di diritto una
astrattezza e usare questo termine a dispregio, non è esatto e non è giusto se
non quando questa forma ideale sia concepita fuori dalle condizioni necessarie
a farlo essere diritto. Nel qual caso sarebbe legittimo dire che il diritto
ideale è un diritto impossibile, e sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e
parlarne. Ma un diritto ideale concepito nelle condizioni che sarebbero
richieste a farlo sussistere come diritto positivo, non è piú astratto che un
diritto positivo qualsiasi concepito nelle sue condizioni storiche. Salvo che
nel secondo caso le condizioni esterne del diritto sono reali, nel primo sono
possibili; nel concetto dell'un diritto l'idea delle condizioni che ne fanno o
ne hanno fatto un diritto positivo, trova corrispondenza nella realtà, e nel
concetto dell'altro l'idea delle con- dizioni che farebbero del diritto ideale
un diritto positivo, non ha trovato o non trova più, in una forma storica di
realtà, la sua corrispondenza. Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale J. morale — di chiarire quale postulato assuma al posto di quello che
respinge, e quale sarebbe il si- stema etico-giuridico che ne discende). Ma
commette una grossolana fallacia elenchi, quando pretende di confutare o
condannare quella costruzione etico-giuridica in nome della realtà o della
storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la stregua della attuabilità dei
rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma non del valore di questi
rapporti. Cosí il razionalismo assume erroneamente come dati razionali dei
postulati di valore e si il- lude di poter imporre in nome della ragione dei
principi che non valgono se non supponendo accet- tati quei postulati che li
giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni valore alle costruzioni
fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica è diversa da quelle
costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non hanno nelle condizioni
di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata sul contratto, o che
non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti positivi, equivalga a
dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e che non possa essere
apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo tale da poter pensare
che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto volontario di tutti i
cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia sanzione di diritto e
valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi criteri piuttosto che a
certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere storico non è competente.
D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle senza cessare di essere
storico e diventare moralista o ideologo, reazionario o rivoluzionario,
«conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O ricusa certi
postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O rinunzia,
non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della volontà uma- na
nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché ogni azione
umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso un
risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una scelta,
e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel «realismo» o
«storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere ricondotti a un
postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla ragione né è dato
dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o respingerlo, non vuol
dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né riconoscere o misconoscere la
storia; avere o non avere senso storico. Il che è la prova piú manifesta che
non è un dato della ragione il postulato di valore a cui si riconduce l'esi-
genza espressa nella dottrina del diritto razionale, come non è un dato della
storia il postulato, pure di valore, a cui si riconduce l'esigenza implicita
nella dottrina del diritto storico. Resta da osservare al nostro proposito per
quel che riguarda il razionalismo etico-giuridico, come da questa illusione che
l'universalità della ragione volesse dire anche universalità di consenso nei
postulati valutativi incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di
credere che potesse ba- [A questa differenza fondamentale tra valutazione e
giudizio storico, è da ricondurre, a mio giudizio, la questione del rapporto
tra spirito rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e
sottilmente MONDOLFO (si veda) nella «Nuova rivista storica». Il rivoluzionario
(come del resto ogni innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni
uomo di iniziative) è, o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè
giudica e opta per un ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico,
non è perché è un prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e
voluto). È nella storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico,
cioè vuole agire sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in
quanto sceglie tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali
da potere essere favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia,
se non in quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità
morali. In quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del
modo col quale la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è
nella storia.] stare per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti,
dissipare «i pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione
inversa che per respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di
quegli stessi postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via
che di far tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo
delle conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo
in sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che
smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso
senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della
realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto
di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la
ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un
compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito
mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo
teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare,
come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un
ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi-
rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la
circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il
principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa
affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono
trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione
e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la
certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. Resta
un'ultima via, la terza; la piú audace e radicale. È la ragione che pone la
legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o
principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o
dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi
il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza
che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o
risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga
assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che
gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di
Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del
razionalismo morale. La prima delle vie indicate, quella del platonismo, e in
modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la
morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede
che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la
certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer-
tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per
Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è
soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e
affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la
ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono
veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul
fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza
formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella
legge che è essa la sola razionalmente necessaria. Ma essendo incontrastato per
Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col
contenuto tre soluzioni: O si può intendere che la legge morale è una forma
senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il
criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi
determinazione del contenuto. O si può pensare che occorre bensì un contenuto
che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne
investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è
necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere
contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere
piú, fra di loro diversi. Si può pensare che la forma razionale, la forma della
legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta
appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti
a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione
che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è
insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è
possibile uscire in nessun modo. Forse a queste tre interpretazioni,
teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note
dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre
si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che
alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere
possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del
volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse,
pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda
formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio
alla terza interpretazione di un contenuto determinato
inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla
mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro
criterio dell'universalità sic et simpliciter -- la possibilità di concepire la
MASSIMA come legge universale dell'operare --, ma che, nei termini precisi in
cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto
senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di
quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella
formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa
volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima
valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí
universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè che è
tutt'uno al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il
che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del
volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale
dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge,
ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo
della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere
che l'universalità, e altra applicazione che cercare se il modo di operare
corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un
contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel
criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa
che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o
sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il brav'uomo che
non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa Kant
in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale
della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale
principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile?
Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile
con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è
pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa
che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il
criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la
legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa
legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo
riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la
massima dell'azione abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa
volere che valga come legge universale. Con ciò il pensiero di Kant sembra
escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la
forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano
presentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro
diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva
di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto
che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione-
vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il
pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è
necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge
soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è
sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto
nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono
soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in
modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente
con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente E
va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la
massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o
disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare,
anzi neanche di un'azione qualsiasi.] il valore, di cui quindi si sa che è
impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque
questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa
e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme
una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa
impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura
dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che
vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel
Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di
volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità
di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa.
Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa
questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere
un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare
la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli
altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi
salva l'esigenza razionale? Questa ipotesi (che la realtà della coscienza
morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma
in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il
dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla
ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la
quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare
corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la
posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o-
perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe
la condotta in unità coe- rente di legge. A una conclusione del medesimo genere
riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in
una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il
carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e
lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto
soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla
concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è
l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che
di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto
questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale,
il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne
diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre
determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, [Mi sia lecito riferirmi per
la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può
volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita
può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita
una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel
pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche
che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia
indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il
piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così
possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse
anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la
superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge,
non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità
di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo
contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali)
sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una
massima che smentisce questa superiorità. Sul formalismo della morale kantiana
estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario della R.
Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi, Libreria
Editrice lombarda, Milano] che non possiamo conoscere speculativamente, ma di
cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e riconoscerne la perfezione, la
bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi, l'affermare una realtà
soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non che è il contenuto della
forma morale, non ci dice in che consiste questo contenuto, e non ci fa uscire
da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme alla legge morale, ma non dice
quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci illumina dunque, su questo
punto, piú di quel che valga a far capire quali sono le disposizioni di una
legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os- servata. Per uscire
davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo di cui non si sa
altro se non che è governato dalla legge morale, e di una legge morale che ha
valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque attenersi alla seconda
tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io credo, risponde veramente
al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per punto nelle stret- toie
della sua esposizione, come risponde all'intento fondamentale che anima la sua
dottrina del primato della ragione pratica e piú chiaramente ancora al
proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione alla seconda edizione
della Critica della Ragion pura. In realtà «l'uso pratico» della ragione
consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle porte della metafisica che
sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar libero alla fede il campo
del soprasensibile vietato alla conoscenza; nell'ammettere, se vogliamo usare
espressioni corren- ti, piú che il diritto la necessità di credere, la
necessità «razionale» di ammettere quel che la ragione, in quanto è garanzia di
certezza teoretica, non può né dimostrare né affermare; di oltrepassare — per
rendersi conto della possibilità del dovere — il campo dell'esperienza
sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che trascende l'esperienza.
Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto, se una certezza diversa dalla
scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle porte del
soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma apre per
lei e in nome suo. Sulla soglia del sopra-sensibile la ragione sembra dire
all'esigenza morale quel che VIRGILIO a ALIGHIERI all'entrata del Paradiso
terrestre. SE VENUTO IN PARTE OV’IO PER ME PIU OLTRE NON DISCERNO. Ma la fede
fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al
quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori,
questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e
sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo
mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge
morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si
applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di
questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà
inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa prefazione
(che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei
problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare
riassunto in questa, che direi confessione caratteristica. Ich musste also das
Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glauben Platz zu
bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, Cassirer).
Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della
ragion pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una
conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica
così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette
l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo
che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come
dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito
principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa
attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è
mio). Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. In questa
interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un
oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un
contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la
legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione valutativa
si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato dalla ragione
in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un dato della
ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di quel mondo
è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da questa
certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la legittimità
della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta come
incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi-
denza razionale. Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge
morale implica accanto alla esigenza razionale un oggetto della volontà, un
ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che
trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare
u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa
attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una
esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è
forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e
suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà
obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè
azione in vista di un risultato, è il fondamento irreducibile dei giudizi
primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà,
delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del
sentimento. Non è il caso di cercare qui se e che cosa MARTINETTI (si veda)
mette di suo e di postkantiano nella sua interpretazione, né di vedere se e
fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la
dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la
difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere.
La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile
che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure
assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale,
quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui
ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due
l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma,
differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale
si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro genere. E allora
vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra
questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce
che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che
sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si
ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per
sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a
questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo
riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un
modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le
intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure
profano la stranezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema
e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una
osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a
ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità
incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie
ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità
di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta
valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che
dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a
costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel
mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale
consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare
commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale
rigorosamente mistica: forza, in quanto è intuizione, atto di fede, certezza
interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata
di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire
logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la
condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo
soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un
distacco logico del genere di quello accennato tra il criterio usato a
determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a
giustificarle. L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni
mescolanza e contaminazione patologica di sentimenti, di inclinazioni, di
tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani —
forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno
preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del
tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia inevitabilmente
soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a riconoscere che vi
possono essere forme universali di valutazione intrinseca, cosí come vi sono
forme disinteressate e universali di sentimento. Il metodo ddll'econonia pura nell’etica.
Pavia. Dizioni. Rivista filonofica PAVIA, BIZZOSI Corso Vittorio
Em.inuele; Prolegomeni a una /Ifòoiale balla
/Iftetatisica Pavia - SUCCESSORI BIZZONI -
Vi iC^osstbilttà e i Ximtti bella /Iftorale
come Sciensa La Dottrina delle due Etiche di Spencer e la
Morale come Scienza. Per una Scienza Normativa Morale. Il
Fondamento Intrinseco del Diritto secondo VANNI. Toi-itio BOGGA —
Torino SI I w NELL* ETiea
PAVIA BIZZONI Corso Vittorio Emaniu'e, W*MB*«W%i»'SSS-»»lBiS«M«»«!.<f. IL
moo OEUECfliiOMm mi. mrmu «"iJi! hypotheses
fingo. L'economia assume, come è noto, l'ipotesi che gli xwmiìii nel
produrrCy consiunare, distribuirsi e far circolare la ricchezza siano
7nossi esclusivameìiie dal desiderio di coyisegiiire la maggior possibile
soddisfazione dei loro bisogni mediante il minore possibile sacrifizio
individuale. Alla costiuzione deduttiva, che se ne ricava, dei teoremi
economici, ossia delle leggi della condotta dell’homo oeconoìnicus, è
indiffei-ente la questione se il postulato edonistico esprima veramente
una condizione di fatto, ossia se l'ipotesi da cui si deduce ogni
verità economica coincida o diverga ed in quale misura dai motivi
che effettivamente determinano le azioni umane, come è indifferente qualsiasi
valutazione che e del postulato assunto, e della condotta dell’uomo
econo77iico, e degli ef- fetti di questa condotta, si possa fare da un
punto di vista morale. In effetto il giudizio sul valore di
giustizia o di bontà del motivo economico e delle leggi che ne
discendono, varia, Fa parte degli Atti del Congresso Filosofico di Parma,
al quale doveva essere presentato coi titolo più generale : € Condizioni e
limiti di una trattazione scientifica dell'etica ». (2 Cfr.
Pantaleoni. — Principii di Economia Pura. IL METODO dell'economia PURA
XELl'eTICA come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al pessimismo
piir radicale; e il giudizio sulla corrispondenza dell’ipotesi
colla realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo
assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a quelli che lo
considerano come uno dei fattori, non l'unico, nel campo stesso
dell'economia; i quali, appunto perchè l'economia cosi intesa studia
soltanto l'azione di UN FATTO [cfr. Grice, ‘a dull’ – ‘enough of a rationalist’]
fattoi'e, isolato per astiazione dal complesso degl’altri la cui
efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non riconoscono alle sue leggi
che un valore ipotetico, correlativo al carattere ipotetico dell'uomo
economico e dello stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno come
l'alti'O giudizio, il carattere scientifico della costruzione deduttiva
rimane incontestabile. Nella misura che la corrispondenza colla realtà
psicologica è inadeguata, si riconosce l'arbitrarietà del postulato, e
della costruzione che ne dipetide, in quanto pretenda di porsi come
scienza della realtà; e a secoruìa che si ammette o si nega che il
postulato ha valore morale, si ammette o si nega valore morale alla
disciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni caso restano
incontestati questi due punti. La ricerca intorno alla corrispondenza colla
realtà psicologica e storica del motivo economico e delle condizioni
nelle quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla costruzione
deduttiva del teorema economico, la quale è valida, 7iei limiti dell' ipotesi,
sempre, qualunque sia il grado di questa corrispondenza. Qualsiasi
indagine valutativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia prossimi
sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è parimenti distinta, ed
estranea alla costruzione scientifica il metodo dell'economia nell'etica
6 <iometale; la quale rimane la medesima tanto se il
motivo economico è considerato come morale quanto se è tenuto come
immorale, o amorale, e quali che siano le ragioni di questa valutazioue. Supponiamo
ora che il postulato edonistico – o EUDEMONISTICO (GRICE) -- sia riconosciuto
universalmente e accettato come postulato morale. E chiaro che la
disciplina precettiva derivata o derivabile dall'economia ha valore e
carattere di precettistica morale; sia che il valore morale del motivo
economico e accettato per se come un dato primo e immediato, sia che venne
derivato, ossia giustificato alla sua volta, da un fine o da una esigenza
ulteriore; e qualunque e questa ulteriore giustificazione. E
opportuno su questo punto un breve chiarimento. Nella supposizione ora
fatta che il valoi'e morale <iel motivo economico sia universalmente
riconosciuto, non è in alcun modo implicita l'affermazione che sia
riconosciuto da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si
potrebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legittimità, senz'altro
ammessa dell'egoismo individuale (GRICE: “SELF-LOVE”) o dell'egoismo di specie
come regola di condotta. Da altri sul carattere attiibuito alle leggi
economiche di leggi naturali e necessarie e non modificabili dalla volontà
dell'uomo; da altri sopra una interpretazione OTTIMISTICA (cf. GRICE OPTIMISM
in Philosophical Psychology) delle leggi stesse o degli effetti o
risultati che l'osservanza piena ed universale di esse produce o tende a
produrre. E si puo del pari ammettere che l’ordine di relazioni conforme al
principio economico e considerato come provvidenziale o divino – “design” Grice
-- e si riversi su di esso il prestigio e l'autorità di sentimenti e di
credenze religiose o metafìsiche. IL .METODO dell'economia PURA
XELl'eTICA. Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giustificazione
o valutazione, dato che si faccia, e diversa per le diverse coscienze a
seconda delle opinioni religioseo filosofi che diverse sulla «latura e sul
fondamento della moralità. E tuttavia il valore morale della MASSIMA
conforme al motivo economico e della norma che ne deriva puo, nella
disciplina precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un
dato di FATTO (GRICE: ‘recognised fact’) e trovare in questo la sua
giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità delle
ulteriori valutazioni. E in questo caso si avvererebbero le seguenti
condizioni. Rimane fuori di discussione il carattere scientifico della
costruzione e della disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è
dato dalla validità logica delle conclusioni, cioè dal rigore col quale sono
dedotte dal postulato. Rimane del pari fuori di discussione la elettiva
validità morale del postulato il quale è, per ipotesi, riconosciuto
universalmente conforme all'esigenza morale. Questa validità morale del
postulato (e del sistema di norme che ne dipende) sussiste così se il
detto riconoscimento sia concepito indipendente, come se sia concepito
dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso, qualunque sia
il FONDAMENTO (cf. GRICE, “Fundamental Question”) ultimo di questa
valutazione ulteriore. E resterebbe perciò distinto dal campo
della costruzione deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e
al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni soggettive
della sua validità e della sua efficacia. Ossia il campo «Iella ricerca
propriamente filosofica o metafisica e quello della ricerca propriamente
psicologica e, nelle sue applicazioni, pedagogica. Ma, (,ui'
avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il loro avverarsi,
la costruzione scientifica in discorso non potrebbe tuttavia sfuggiie alle
due limitazioni seguenti. Non puo dirsi la scienza della condotta
morale, ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to
motivo morale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto la
conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre da risolvere LA
QUESTIONE (GRICE: Fundamental Question). Se quel motivo esaurisca tutto il
contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda altri motivi
irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme contemplino tutta la
condotta morale nella sua estensione e nella sua complessità o ne
contemplino solo una parte od un aspetto – “only the rational aspect of
conversational qua cooperative endeavour”. Essa non esprimerebbe le norme
di una condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società – il OXFORD da H. P. GRICE “things an honest
chap does”-- ; m:. di una condotta la cui piena attuazione non è
possibile se non nelle condizioni astrattamente supposte; cioè la condotta dell’uomo
morale ipotetico in una società morale ipotetica. Oi'a il concetto
che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al carattere e ai
limiti della morale come scienza coincide, nei suoi lineamenti formali,
con quello che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che
sia [Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ai
saggi, Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica. Pavia,
Bizzoai; e Su la possibilità e i limiti della morale come Scienza.
Torino. Bocca fm'mmme'9mmm>é'>f A
s essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teorica
(ìi una trattazione morale, il costiruii'si di una scienza etica, nella
forma e con un procedimento analoghi a quelli dell'economia; e colla
})ieiia consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della
disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e
dentro i limiti che si sono oi- ora accennati. Ma una costruzione
etica analoga a quella dell'economia pui'a presenta una difficoltà
preliminare che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte,
supponendo, corno si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale
al motivo economico. Se qualche critico osservas che é fuor di proposito
voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia
stessa é oramai superato, o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in
nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle
esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione
si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una
trattazione scientifica dell’Etica tanto cammino, quanto ne lece nel
campo dell'economia la scuola classica; e che a mettere in canzone le
ipotesi e le Robinsonate degl’economisti si comincia dopo che l’ipotesi hanno
già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso di scambiare
senz' altro le astrazioni con la realtà. Ma si può anche aggiungere che
il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati da una
chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità delle loro
conclusioni, sono più vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri
dell'economia; e che la scuola storica, se ha il merito di cercare e
mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle
pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla scuola
deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi. Gen.) e ne presuppone le
leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse (orme
storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare
e correggere i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano
il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore
morale. Negano cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità
attril)UÌto arbitrariamente alle leggi economiche. Ed é facile avvertire
che gl’economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino) in
realtà sono moralisti che cercano di 'il [La
difficoltà l'iguai'da la scelta e la determinazione del postulato; il
quale deve soddisfai-e a due condizioni. L’una comune all'etica e
all'economia. L’altra esclusiva dell'etica. La condizione comune è
l'applicabilità universale del postulato come principici informatore di tutta
la condotta; la condizione propria dell'etica è che il motivo, di cui si
postula questa universale e incontrastata efficacia, abbia valore
morale. Ora, VI è un motivo, del quale si possa legittimamente
presumere che sia riconosciuto universalmente il valore morale, e del
quale sia insieme possibile l’applicazione universale e simultanea a tutta
quanta la condotta individuale e COLLETTIVA? A questa domanda ho
già cercato altrove di trovare una l'isposta; esaminando prima in che
consista l'esigenza caratteristica di una norma morale; e poi se vi sia e
quale volgere a uno scopo pratico (nella scelta del quale sono guidati da
un criterio etico) delle conoscenze fornite dalle dottrine e dalle
indagini economiche : e la forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione
su basi etiche dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un
pezzo avrebbero dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di
considerare l'esigenza etica estesa alla stessa struttura, non soltanto
politica, ma anche economica della società. Ma ciò che più ini])orta
di osservare a questo proposito é che una critica radicale — da un punto di
vista etico — della realtà dei rapporti economici porterebbe, a guardar bene, a
rimproverare all'economia pura non un eccesso ma un difetto di astrazione.
E il difetto di astrazione si rivela in ciò: che mentre l'economia si
propone di studiare l'azione isolata del motivo economico, e perciò
suppone ridotta l'azione dello Stato ada tutela dell'UGUALE LIBERTA PER TUTTI, assume
nello stesso tempo — come condizioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p.
es. la proprietà fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o
alterano T universalità o l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per
questo rispetto arbitrariamente, come categorie necessarie^deWe categorie
5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente, come conforrni all'ipotesi
delle condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e
<ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a
«^nustificai'e il valore normativo del motivo corrispondente. La
conclusione di questa analisi era la seguente. LA DESIRABILITA di un
ordine di effetti, che si assuma come FINE non viene tanto dalla DESIRABILITA
che gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto e
immediato di godimento, quanto dalla DESIRABILITA degl’effetti, lei (juali esso
apjiarisca la condizione necessaria. E perciò, inentie è vano andar
cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trov.a mai, o si
risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valei'e come
su premo si deve cercai'e non nell’uno o nell'altro de: fini a cui
si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di effetti, in un sistema di
condizioni, dato che sia assegna- bih*, nel quale si possa l'iconoscere
questo carattere ap- [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma
di tutti quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E
quimii il fine che può avei'e universalmente una DESIRABILITA superioi'e
a ogni altro, non juiò consistere se non m un ordine genei'ale e, si
potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca
necessaria perchè sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore
<li ([uei beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una
gerarchia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una grandezza o
quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso (iella precedenza
necessaria o della indispensabilità; per la (juale venga a l'accogliersi
su di esso come in un unico foco la luce e il calore di DESIRABILITA che
irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via. E perciò,
ammesso che qualsivoglia fìne lancino ha, come ha in l'ealtà, per
condizione la convivenza e LA CO-OPERAZIONE sociale, il fine che può avere
questo valore di precedenza necessaria sugl’altri deve essere di
necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni
di convivenza e di CO-OPERAZIONE sociale, cioè di una qualche forma di
società. Ma perchè a.] una forma di società possa essere riconosciuto
questo carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua
esistenza hanno per tutti un valore potenzialmente uguale. Ossia che
nessuno dei FINI dei quali quella forma di CO-OPERAZIONE pone la POSSIBLITA
[Grice trascendentale] e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e
fatto delle esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno
dei componenti la società. in altri termini che tutti i .socn
trovino nelle condizioni di esistenza della società la medesima equivalente
possibilità esteriore d\ rivolgere la loro attività alla ricerca di
qualsivoglia dei fini, dei quali la convivenza e COOPERAZIONE sociale è CONDIZIONE
[GRICE, metaphysical justification]. Ora se si riconosce come esigenza della GIUSTIZIA,
questa esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè ha
universalmente valore di fine prossimamente supremo, determinare questo
fine equivale a determinare un tipo di società nel quale siano attuate le
condizioni richieste della giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale -
conforme a questa esigenza - di HOMO IVSTVS e di socielas insta. E ciò
equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe
effettuato nell’ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia
in-dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o di in/Iuenza che
si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei singoli,
subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro motivo o
desiderio al desiderio della giustizia. E se supponiamo che con un
procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema
Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, e già deteterminato,
noi avremmo una scienza pura della giustizia -- una diceologia » piD'a,
alla quale sarebbei-o totalmente applicabili le considerazioni circa i
cai'atteri e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione
siffatta. Ili, Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza
pura della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole
sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali : di essere una
costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste
obbiezioni occoi're chiaiMre la portata. L'arbitrarietà della costruzione
supposta pU(') es- sei'e intesa in due sensi. Nel senso che la validità
delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il
cui valore è bensì assunto come un DATO DI FATTO, ma senza una ragione
perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difjbrrne
dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata
universalmente e costantemente all'esigenza della giustizia. Se si
intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è aidjitraria
; perchè il valore del postulato fondamentale (ossia del motivo, o del
tine, o del [L'economia dà al postulato edonistico – e EUDEMONISTICO _- un
contenuto materiale determinato considerando come soddisfazioni le
soddisfazioni di certi biso<'-ni. e come sacrifìci certe privazioni e
certe pene; mentre al postulato della giustizia il contenuto materiale,
al quale se ne deve fare l'applicazione, é dato (la tutte le specie
d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui
ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatort^
supposto) che in una società data sono possibili. ili
criterio di valutazione) quale si sia, è sempre ammesso assunto, ossia si
suppone o si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica
può compiere il miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione
perentoria - se è una ragione, - non può consistei-e che nel ricondurre
il valore del postulato a quello di un altro fine o di un'altra esigenza
ulteriore, della quale si ammette o SI suppone ancora che la validità sia
riconosciuta. E se si dice che è propio del fine o dell'esigenza morale
il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si
auìmette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l'esigenza
è riconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente,
appunto perchè vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio
valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è sempre in
ultima analisi il valore morale dell'esigenza che é preso come un dato
primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso,
qualsivoglia dottrina etica è, perchè etica, arbitraria. Se poi si
pone come caratteristica del valore morale la possibile validità
universale della MASSIMA corrispondente, nessuna esigenza è piti
radicalmente universale di quella che esprime la CONDIZIONE stessa di
questa POSSIBILITA. Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto
in effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda o non
corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato della realtà psicologica
rivelato dall'analisi della coscienza morale, è una questione diversa. E
se l'arbitrarietà s'intende in questo secondo senso, come difetto totale o
parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non
nel considerare come morale l'esigenza della giustizia, ma neir assumere
questo motivo come il motivo morale. fi JH^ffriaililf».W'.ifc^ ] menti'e
la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel considerai'lo isolato
da questi, mentre nella realtà sono più o meno strettamente connessi e
coopei'anti o contrastanti con q ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà
a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo ris[)etto,
arbitraria ; al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario
qualunque sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un'
arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché non si
pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)- l'ale dato ; e la
costruzione si dà per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la «
vei'a scienza » della morale com' è , se le condizioni dell' ipotesi
rispecchiassero la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè
supporre che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\
poniamo il motivo altruistico – GRICE: OTHER-LOVE? 0, meglio, perchè non
assumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza morale, tutti i motivi
che la realtà psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La
l'isposta all'una e all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere come
rispondenti all'esigenza morale i cri- tei'i molte[)lici che si i-ivelano
nelle norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a
co- sti'uire non una scienza, ma una veste d’Arlecchino. Perchè la
morale empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del
medesimo ci'iterio le applicazioni più artificiose e vai-iabili. Ora, che
l'esigenza morale possa U) Tralasciando pure di insistere, come lio
già osservato altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi
fondamentale esistente tra le norme di condotta che valgono come morali
rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti,
tragici talvolta, tra i doveri famigliari e i do- co„,poru,.e
criter, ,ì,ver.i e anche opposti ,fi val,„az,one senza cessare di essere
morale, s, potrà aocl.e ammettere (purché s, s.a disposti ad accettarne
le conseguenze;; ma che si possa, assumendo criteri contraddittori!,
costruire una dottirina coerente, non si può sostenere. Bisogna
dunque scegliere; e la scelta ,iel motivo della giustizia, se è
arbitraria hi quanto e seella ,U uno fra più "on e arbitraria in
guanto mandnno le ragioni della scelt.. Poiché è facile rilevare che il
motivo delia giustizia e 'I solo al quale si possa supporre che risponda
in effetto universalmente e costantemente tutta la condotta senza
che l’osservanza da parte degl’uni richieda o presupponga l’inosservanza da
parte degli altri. L'altruismo (GRICE OTHER LOVE) non potrebbe essere oss.Tvato
universalmente, se non a patto che fosse subordinato alla sua voka a mia
norma di giustizia. Infatti, affinché sia possibile I abnegazione e la
rinuncia incondizionata di sé agl’altri, veri sociali, bisogna
osservare che le „or,„e date e accettate come morali o.o,.o contemplare e
contemplano realn.ente, almeno ,„ parte, de„e rela- wL ; T '
,•'" "^i" "> S-iadi relazioni pr.ma,,e e
fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la negazione del crueno
applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e „ ruiieTau:
r"'T, '"^' t"'-^ I iano i In ""'. '^ cercare
,,uale a qu le concila la minima fatica del primo col minimo
disagio del secondo crueno seguito qu, é un criterio d’EQUITA. Si
riconosce ciocche non sa- omodi;e tutte le comodità per se
senza tenere in conto le comodità dell'altro. .Ma se questo crueno
(seguito nello stabilire la condotta migliore, Jata ,,uella conLol
<i.ve,.a de, due, fosse applicato a determinare la rela.one t,-a i due
p,Jl Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z TorT
"T"" '»™"'--'>^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la
norma nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non
esis,e,.ebbe, o sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata al
sorgere di quel .-apporto NH
itì'i^tli^ì-. Hif ^••s«ì»?T<P7** Ifi
bisogna chf^ gli nni si .saci'ifichii)0 e gli altri o qualche
alti-o accattino il sacnfi/io ; cioè bisogna che gli uni os^or- vino LA
MASSIMA (lell'altruismo, e gli altri o qualche altro quella dell'egoismo.
Se poi si ammette che nessuno debba poter saci'ifìcarsi più di un altro
qualsiasi (lasciando di osservare che in tal caso praticamente i
sacrifici si eli<le- rebber.)) fiisogna che la condottta altruistica
di ciascuno non impedisca una pari condotta altruistica degl’altri. Cioè
bisogna che fattività altruistica alla sua volta sia governata da una
norma di giustizia. Ciò viene a dire che la famosa formula kantiana,
se si considera nella possibilità della sua applicazione simultanea
per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è suscettiva d'altra
inter[)retazi()ne che di massima univeisale di giustizia nel senso sopra
chiarito. In un Saggio originale e sucrgestivo, che vale bene più di
qualche grosso volume inconcludente, CALDERONI (si veda) illustra una concezione economica della
morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista sembri antitetica,
il concetto qui esposto) nella quale egli osserva giustamente come la maggior
parte delle azioni virtuose non siano considerate come tali se non perchè
sono prodotte in quantità inferiore alla domanda; e son per noi un dovere
appunto perché gli altri uomini non le lanno,' e rimangono tali a
condizione che non siano troppi gli uomini capaci e volonterosi di imitarle. E
trae da questa considerazione la conseguenza che la formula di Kant è del
tutto inapplicabile. Ora è certo che Kant intende di parlare di validità
universale del motivo a cui si informa l’azione. che può essere quindi
variabile secondo le circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che
la detta; e che non può richiedere uniformità di condotta esterna se non
nel caso che si tratti della medesima attività esercitata nelle medesime
condizioni esterne. Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà
che l’unico motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il
motivo della GIUSTIZIA; e che intesa così, la formula di Kant resiste
alla critica anche dal punto di vista di CALDERONI (si veda) -- Disarmonie
economiche e disarmonie morali, Firenze, Lumachi --. La marginalità nella
Morale. Assumetelo dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e
costru.tevi la vostra . Scenza pura della giustizia. Cile ne farete poi?
— A che c<,sa propriamente potrebbe servire costruita elle
fosse, non si può con esattezza determinare ,n precedenza. Si potrà vedere, nel
caso, quando sia fatta o pi ut- "«to, a mano a mano elle si venga
facendo. Troppe ricerche . el resto non si farebbero se si aspettasse di
averne diino- strato 1 utilità; e ,li troppe altre , risultati portarono
frutti <lel tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riuscisse
inconcludente, nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó u'iica ,n questo
genere, specialmente nel campo della morale. E t,.a le molte curiosità,
perchè non dovrebbe trovar posto anche questa : ,ii sapere come
andrebbero le faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero
ad essere tutti e sempre e in ogni contingenza della vita so-
liratutto e prima di tutto giusti? M.-i è pur naturale d'altra parte
che debba intravederne almeno qualche possibilità ,li applicazione eh, la
propone e che ne debba dire qualche cosa. Le applicazioni possono
essere principalmente due: come mezzo di interpretazione o di
sistemazione scientifica della realta morale ,lata; e come fondamento di
una disciplina precettiva, ossia di un'Etica applicata della giustizia. Se
l’osservazione psicologica dimostra che è arbitraria, l'assunzione del motivo
della giustizia come unico motivo morale, dimostra pure <die
quel valore gli è però realmente riconosciuto: e che se non ., riconduce
ad esso effettivamente ogni valutazione ^nica, esso entra però come
elemento o fattore di valutazione in qualunque giudizio morale. Può essere
dunque opportuno, a uno scopo di sistemazione coerente delle norme
effettivamente vigenti, conoscere quali sarebbero se questa esigenza
operasse isolatamente, cioè se tutte si ispirassero unicamente ad essa; e
considerai-e, con un artifizio di cui tutte le scienze offrono
innumerevoli esempi, come deviazioni limitazioni risultanti dalla presenza di
alti'i motivi, le norme che non coincidono con quelle astrattamente
dedotce. Sarebbero, per un vei'so, da considerare come tali le norme
della condotta politica interna ed esterna ispirate dall'interesse dello
Stato, o del maggioi- numero, o di una classe, in quanto al rispetto di
queste esigenze sia attiibuito valore morale. E sarebbe, pei- un altro
vei'so, possibile interpi'etare le norme della BENEFICENZA come
espressioni della stessa esi-genza della giustizia, in quanto si considerano
rivolte a sanare o a lenire gli effetti che ne accompagnano 1'
inos- sei'vanza, e le deviazioni o le limitazioni. Ma l'applicazione
più rilevante riguarderebbe l'Etica propriamente intesa come disciplina
normativa. La scienza pui'a della Giustizia appunto perchè considera
già raggiunte e attuate tutte le condizioni richieste dalla esigenza che
essa postula, ossia, in termini equivalenti, fa astrazione da ogni
circostanza interna od esterna che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia,
configura un sistema di relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè
formula Sarebbe possibile per questa via togliere — dico nella
trattazione teorica — certe contraddizioni o antinomie davanti alle quali si
arrestano solitamente i filosofi quando ne determinano l’esigenze
razionali delle leggi, le quali possono valere come tali soltanto nelle
condizioni contemplate dall' ipotesi ,- vale a Hn^e non sono suscettive
,li applicazione, sic et simpliciler, a condizioni iliverse. Ma se si
ammette che T onime di relazioni ipoteticamente costruito abbia valore di fine,
cioè se si ammette come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà
luo-^o a cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne
debba riuscire, come è facile prevedere, assai difficile e complicata)
quale sia in condizioni reali storicamente date la condotta, die nei
limiti imposti da queste, è ini, atta a favorirne la trasformazione nella
direzione segnala dalle condizioni ideali contemplate
nell'ipotesi. Ossia si potrà ricavarne un'Etica applicata della Giustizia,
alla quale la realtà storica fornirà la conoscenza delle condizioni tra
le quali si deve spiegare e dei mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per
essere praticamente efficace la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come
darà la conoscenza 'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella
giustizia e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla
forma <lella giustizia il contenuto materiale. E le norme,
cosi ricavate da questa applicazione a una realtà data delle leggi .Idia
Giustizia pura, saranno valide, se SI accetta come fine morale
prossimamente supremo, cioè precedente a ogni altro fine generale e
speciale, l'attuazione del sistema di relazioni contemplato da quella, e
come morale la condotta corrispomlente. Cosi questa Etica applicata, come
la Scienza Pura dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi
dot- trina metafisica, ma non pretende di sostituirla. Ignora
i problemi metafìsici ; ma nel senso che non no richiede e non ne
assume una certa soluzione piuttosto che un'alti*a; non nel senso che ne
neghi l'esistenza o ne escluda la trat- tazione. Ilimane di fronte ad
ossa iinpi'ogiudicata, e da essa distinta, ogni questione sulla natura e
sul fondamento ukinìo dell’esigenza stessa morale; così come rimane
impi'egiudicato il pi'oblema pratico, o pi'opriamente psicologico e
pedagogico, intorno al valoi-e e all' efficacia delle credenze religiose
o metafìsiche come condizioni o fattori sof^^-jcttivi dolla
moralità. Ma, ciò nonostante, o forse appunto pei'ciò, è
verisimile che sia giudicata, specialmente alla stregua delle
tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o contcmpoi'aneo,
doppiamente monca ; monca considerata come dotti'ina ; monca considerata
rispetto alla efficacia pratica. a) Cei'tamente può parere strana
se non ingenua Tnlea di segnai'e una divisione di competetjza tra T
indagine scien- tifìca e rin(iagine proprianifMite filosofìca e
metafìsica, men- ti'e pai'e di assistere a una specie di «atto di coiitrizion<'
» delle stesse scienze speciali già formate ; le quali, dopo es-
sersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza dalla filosofìa,
sentono il bisogno di ritornare ad essa e di rintracciare in lei le origini
della loi'o vita e la ragione del loro valore. Tuttavia una
considerazione un po' più attenta può mosti-are die il contrasto è
soltanto a})parente e che la tendenza delle scienze speciali all'
inter|)retazione e alla integrazione filosofìca dei loro presupposti e
dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include, la legittimità di
una di- stinzione anche nel campo delia morale. Perche essa })re-
suppone appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati , i loro metodi
i Ioì'O risultati, e che i sistemi speciali di dottrine cosi edifìcati
sussistano ed abbiano una validità propria, sia pure limitata e
provvisoria, all'infuori dell'interpretazione e della valutazione che ne debba
o ne possa fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza permanente
dell' Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è la mutua
collaborazione delle diverse discipline alla critica e alla integrazione
del sapere e del valere umano, sono gli Stati che hanno territorio e
giurisdizione propria che possono far sentire la loro voce. I delegati
della Corea sono esclusi. Intendo quello che si può dire. La
morale è essa stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali
è subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei loro
principii e delle loro conclusioni. Fosse pure, o, piut- tosto, dovesse
pure essere cosi. Quali sono queste esigenze della morale ? Come si
determinano ? Qual'è, fra i molti sistemi diversi opposti e anche
contraddittorii, quello auto- rizzato a rappresentare « la morale *, e a
far valere le sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si
può distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato che
SI trovi, della valutazione morale, dalle esigenze ulte- non, argomentale
o poste da questo o da quel sistema per interpretarla o giustificarla,
allora è nello stesso tempo data la distinzione tra esigenza propriamente
morale ed esigenze avanzate ,ia una interpretazione o integrazione
metafìsica della esigenza morale; e si delinea insieme una
separazione legittima tra V indagine che cerca di risalire
dall'esigenza morale ai postulati metafisici, e l'indagine che ricava
dal- l'esigenza morale le applicazioni che logicamente ne
discendono. Ma, nella realtà viva e vissuta della coscienza,
valutazione morale e valutazione metafisica formano un tutto unico; e
separando l'esigenza etica dalla fede me- tafisica colla quale è fusa e
della quale si alimenta, s, è spezza r unità della coscienza ,
si oscura o si cancella il signitìcato e il valore interiore della
moralità, e si pre- senta come vita morale lo scheletro o, meglio, lo
stampo esterno e quasi l'impronta fossile dell'atto morale. Sarà
verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU può sfuggire a questa
obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e che è fatto oggetto di
conoscenza riflessa e i-agionata diventa perciò stesso un tipo, uno
stampo, un fossile; anzi stampo è la parola, stampo ò la stessa
rappresentazione artistica se non è vivificata e i-isvegliata da chi la
deve intendere e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe, per
colmo di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini usate
a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile» della coscienza e
delle sue ci'eazioni. E quanto al sepai«are nella teoria ciò che
nella realtà è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca
è prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto
stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, il Chevreul,) è un'
astrazione. Ciò che importa veramente è di non dimenticare che l'astrazione non
è tutta la realtà. Ora, sceverando dal complesso degli elementi,
onde la vita etica nella coscienza personale iMsiilta o può
risultare, quello che è suscettivo della più universale applicazione,
e costruendo il tipo di vita che ne risulterebbe, non si pretende di
esaurire il contenuto della coscienza, ma soltanto di distinguere le
norme di condotta a giustificare le quali basta uu certo postulato, dalle
norme e dalle forme di vita morale che si fondano sopra altre esigenze
ossia l'ichie- dono altri postulati. E chi crede che la chiarezza
dei concetti e il l'igoi-e del procedimento si debbano poi'iare, fin dove
è possibile, anche nella speculazione etica, ammettei-à che può
essei-e que- utile allo scopo, se non anche
necessario, il seguir( sta via. Rimangono altri problemi. E chi lo nega?
Ma prima condizione per cercar di risolverli con frutto è di non
confonderli tra di loro. E nasce da una confusione di problemi
diversi l'obbiezione, che si potrebbe dire pragmatistica, del
difetto di efficacia pratica, o più esattamente parenetica o pedagogica,
di una dottrina morale che faccia astrazione da ogni valutazione
metafìsica, e presenti un sistema di norme che ha di necessità soltanto
un valore ipotetico, cioè, nel caso nostro, condizionato al valore che
può avere nella coscienza il motivo impersonale della giustizia.
(lì Le espressioni di più d' un antiintellettualista indurrebbero 4uasi
ad ammettere che la morale sia una specie di grande imbroglio, nel quale
a voler vederci chiaro, si finisce per non credere più. Ora, altro è
riconoscere Cile ogni valutazione é in ultimo data alla intelligenza e
non dalla intelli- genza, e che nessuna conoscenza e nessun ragionamento
può far volere un fine che non sia già voluto, o per sé, o come
condizione a un altro fine- altro è credere ed aOermare che l’intelligenza
o la ragione sia « in contrasto » olla moralità. Come potrebbe essere
? Non certamente in quanto si rivolge a determinare 1 mezzi necessari e
convenienti a un fine. Nel qual caso non è nemica, ma ancella della
volontà in generale, e, se la volontà é « buona ». della volontà morale.
Non potrebbe essere, dunque, se non in quanto toglie o muta la valutazione del
fine (cioè delP oggetto o contenuto materiale del motivo morale) mostrandone \^
connessione, prima ignorata o trascurata, con qualche cosa d' altro, che
sia oggetto di una valutazione diversa; diciamo, per comodità, negativa o
repulsiva. E allora, poiché la valutazione di questo qualcosa d'altro non
può venire dall' intelligenza (la quale, come si sa. chia- risce
rapporti, non dà valori), manifestamente non si possono dare che due casi
: ha origine nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà
fatto che mettere in chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto
conforme, sia in realtà più o meno disforme in forza della connessione
notata. Ma ciò non Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose
già dette, e su questo punto ho insistito a lungo altrove, mi
restringo qui a riafTermare la legittimità, anzi la necessità logica e la
convenienza morale, di tenei- separata netta- mente ogni ricerca che si
volge a detei-minare quali siano le norme di condotta richieste da un
certo fine, dalla ricerca delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o
può dipendere l’osservanza delle norme. La legittimità delle
deduzioni, dato che ci sia, e la validità dei precetti rispetto al fine
sussistono indipendentemente dalla presenza o dalla assenza dei motivi
che ne persuadono o ne impongono l'osservanza, e dalla natura di questi motivi.
Come il contenuto e la giustificazione delle prescrizioni d'un medico non
dipendono dalla disohbedienza o dall' obbedienza dell' ammalato nò dalle
ragioni di questa obbedienza. tocca in nulla il valore e
l'efficacia del motivo morale. Ammettere il contrario sarebbe come dire che
cessa di amare la giustizia chi cessa di difendere una causa che ha
riconosciuto ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un
interesse egoistico); e anche qui l' intelligenza non farebbe che rivelare
una condizione di fatto : la presenza e Tefficacia di motivi non morali
nella valutazione dei fini e :lella condotta. La conoscenza dunque, anche
in questo caso, non altera il valore del motivo morale; può eventualmente
mostrare che il valore e l’efficacia sua non è esclusiva, o incontrastata
come si supj)oneva. Ma correggere un errore di giudizio non é cambiare
uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un'
illusione. Ma è nell' illudersi d'esser morali che consiste la
moralità? Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per
abuso di linguaggio, attribuire a una pretesa efiicacia pratica delle
norme; mentre le norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente,
una efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a
muo- vere le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che
nasce da un difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza
giustifica- tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione
dell'obbligo, e la pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in
sé forza obbligativa. Cfr. Prolegomeni ecc. , e. I: (L'esigenza
esecutiva) ; e Studi su la possibilità (La pregiudiziale dell'imperativo
categorico). La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a
determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta , non . posla da
qualnnque costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e operativo d motivo
della giustizia non esclude, ma piut- i tosto include, una ulteriore
valutazione del motivo stesso ' ogniqualvolta nella realtà esso derivi in
tutto o in parte la sua forza da questa sopravalutazioiie. Ma anche
in questo caso non bisogna dimenticare che una tale efficacia .sarebbe
sempre essa stessa posMata come un dato di fatto, non comunicata o
la,-g,la da una fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione
religiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup. pone già
viventi e .operanti. Il suo valore come motivazione morale dipende dal valore
reale che esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa
appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale ,,el-
i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti
da lei. E se questa fede mancasse, una fon- <iaz,one metafisica o
religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non
diversa né maggiore di qualsi- voglia costruzione arbitraria.
Senonchè si potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI
,ie^e appunto volere quella fede dalla quale si può aspettarsi
l'incremento del motivo morale, e che, poiché SI tratta di « optare»,
conviene dal punto di vista' pratico optare per una fede moralizzatrice.
E compito del moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede
come presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia- l'tà,
e presentare la dottrina morale connessa e incorpo- rata con quella
fede. Su un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire
molte' cose; notiamone poche. E prima di tulio convien pur ripetere
che un tal compilo. t^ 1 fc
m (lato che spetti al inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o
pre- tende (li essere educatore o apostolo, non in quanto si
propone di cercare quali concernenze ini[)liclii V accetta- zione di un
cei-t() postulato e si contenti di atierniare che chi accetta il
postulato deve accettai-e le hoimikì che ne discendoiHi. I due uffici non
si identificano ; chi ha slo//(i di ricercatore può non avere
stoft";i di a[)()stolo o di avvo- cato ; e potrehhe in og"ni
caso invocare aiiche qui il prin- cipio delhi divisione del lavoro.
Ma dal [)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt' altro che
incontestahile. Suggerire e infondere una fede! E presto detto. Ma in che
modo o per (jual via? Partendo dall'esigenza pratica per arrivare alla
credenza, cioè pre- sentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia
della ni orai ita ? Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non
si nega in effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore
assoluto dei postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che
essi sono affermati o posti come condizioni o fattori nella pro-
<luzione di certi effetti, cioè sono valutati utilitariamente; e se
non si offende il sentimento religioso, considerandolo unicamente come un
motivo sussidiano invocato a sup- plii'e alla fiacchezza del uiotivo
morale. Un pragmatist.a conseguente potrehhe non avere (ii «juesti
scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il pragmatista vieti
meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò che si vuol
produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un sentimento che
vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un risultato non
dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ; dove le rai'ioni
usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è già persuaso;
cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è superfluo
servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si intende di edi-
ficare la credenza su una educazione propriamente dog- matico-religiosa,
dov'è più la opzione^, la affermazione libera e spontanea della
coscienza? E come può il moralista educatore presentare o im-
porre come unica e definitiva una iede, o una credenza religiosa o
filosotìca^che egli sappia essere personale e volontaria? La verità
è che mentre nel valore morale (posto che sia riconosciuto) del postulato
che si assume a fonda- mento della costruzione scientifica, è
necessariamente im- plicito il valore morale delle norme che ne
esprimono l'applicazione, non è necessariamente implicita l'accettazione
di certi piuttosto che di cert' altri postulati metafisici. Mentre, accettato
un postulato di cui sia possibile r applicazione alla condotta umana, la
coerenza logica basta a dare la legittimità delle norme che se ne
deducono, la coerenza logica n07i basta a porre come
necessariamente richiesta da quel postulato una determinata fede
religiosa filosofica ad esclusione di qualsiasi altra. La salita al
cielo dei postulati metafisici non si fa colle scale della lo- gica. (Il
che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel fatto che possono trovarsi
concordi nelT accettare e nell' osser- vare la medesima esigenza morale
uomini di opinioni i-e- ligiose e filosofiche diverse; come,
inversamente, può la stessa fede religiosa e filosofica presentarsi,
nella realtà storica e psicologica, connessa con norme morali
discordanti). E la « libertà dì coscienza > sarebbe una frase
vuota di senso o piena di immoralità^ se il voler la giustizia e
Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o l'accettazione
della medesima fede. ài fondata da
Sen. C; Rivista Filosofica VRLO Cantoni. La Possibilità l I e i
Limiti MORALE STUDI TORINO. BOCCA. In questo volume sono
raccolti tre scritti pubblicati in più riprese nella Rivista Filosofica
diretta dal mio indimenticabile maestro ed amico CANTONI (si veda), al quale
il profondo e tenace convincimento delle proprie dottrine non tolse
mai di rispettare e stimare sopra tutto, anche nei di¬ scepoli, la
lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di titolo, i tre studi
che ora ripubblico riveduti e in parte aumentati, sono lo svolgimento del
me¬ desimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi, cia¬ scuno
dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi*
volta, continuazione di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol «
Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafisica » ; nel quale è
esaminato il problema della possibilità di un’ Etica normativa
indipendente da qualsivoglia soluzione, positiva o negativa, dei problemi
di natura metafisica. E perciò spero di essere scusato se mi riferisco
qualche volta anche ad esso ; e se in in questo volume sono lasciate in
disparte, o trattate con brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune
questioni delle quali s’è già discorso in quello. Anche to'
importa di avvertire, sempre a proposito dello Studio « La Dottrina delle
Due Etiche di Spencer e la Morale come Scienza », che — se nella
esposizione sia generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho
cercato studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero
dello Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto
di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico che
assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio precedente. E
per questa ragione ho tralasciato deliberatamente non solo qualsiasi
digressione, ma ogni discussione che non fosse strettamente necessaria
allo scopo mio particolare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di
accenni alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.
Pavia. e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale dell’opera
dello Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La Dottrina
etica in generale. Il concetto
informatore. La distinzione delle due Etiche. Il metodo dell’ Etica. dati dell’
Etica. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo , e possibilità di
conciliazione fra i dati dell’ Etica. La dottrina delle due Etiche. Due
questioni fondamentali , attorno a cui si raccoglie la dottrina. Il
giusto assoluto. Il giusto relativo. Errore comune nel modo di concepire
la condotta ideale. La priorità scientifica dell’ Etica Assoluta
«sull’Etica Relativa. Confronto colle altre scienze. Critica Preliminare
: Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal quale hanno
origine. La pregiudiziale dell’ imperativo cateyorico pag. 40
Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’ obbligo e la
giustificazione. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea
alla determinazione e alla giustificazione della norma.In che consista
la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere
il compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito
normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti.
Due presupposti arbitrari comuni ad ambedue : a) che le norme siano
già determinate e note. che si accordino fra di loro. Necessità di un
criterio per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico -
Suo difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La
soluzione dell’ indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale : la
costruzione metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica,
non serve a determinai e 10 norme. Il preconcetto fondamentale
Presupposto comune ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi tra esigenza
scientifica (determinazione) ed esigenza etica (giustificazione).
Legittimità di porre il piobleina in una forma diversa. Conclusione della
Critica Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le esigenze di
una scienza normativa morale. Il criterio del limite dell' evoluzione e
dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo di condotta
cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità
dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo di società
giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’ adattamento
completo. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga
nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento
completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto.
Il piacere puro non può essere il criterio della massima DESIRABILITA. La
questione del « fine » e dei fini - Soluzione illusoria trovata nel
termine felicità e altri equivalenti. Equivoco nell’identificazione dell’
oggetto dell’ attività col piacere. Quale possa essere il fine che
soddisfa alla doppia esigenza della determinazione e della
giustificazione delle norme. Il tipo di società giusta dello Spencer. Come
concepisca la società giusta Spencer. Presupposto illegittimamente
assunto dalla biologia. Difetto fondamentale : Incocrenza fra il tipo
dell’ uomo giusto c il tipo della società giusta. Difetto che ne
deriva nella relazione tra giustizia e BENEFICENZA. L’ individualismo
dello Spencer e il postulato della giustizia. Ufficio e limiti di una costruzione
scientifica dell' Etica. Come debba concepirsi un tipo ideale di società
giusta. Etica Pura ed Etica Applicata. Conclusioni della
Critica.Presupposto fondamentale, e carattere ipotetico dell’Etica come scienza
normativa. Pubblicando I dati dell’Etica prima che fossero composti
il II e il III volume dei Principii di Sociologia, Spencer giustifica
questa deviazione dall’ordine del suo programma col timore di non poter
compiere l’opera finale della serie: I principii di Etica. Degli indizi
che in questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e chiarezza
m’hanno avvertito che la salute, se non la vita, mi può venir meno per
sempre, prima che io compia l’ultima parte del compito che ho assegnato a
me stesso. Quest'ultima parte è quella per la quale io considero come
sussidiarie tutte le parti precedenti. Il mio primo Saggio su L’Ufficio proprio
del Governo indica vagamente il mio pensiero intorno a certi principi
generali di bene e di male nella condotta politica ; e da quel tempo in poi
il mio fine ultimo , lasciando indietro tutti i fini prossimi, è stato
quello di trovare una base scientifica ai prìncipi del giusto e
dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua estensione. Lasciare
incompiuto questo fine, dopo aver fatta una preparazione cosi ampia per
raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui probabilità non posso pensare senza
sgomento^_e_sono ansioso di evitarla, se non del tutto, almeno in parte.”
The Principles of Ethics”. London Qualche cosa di simile alla catastrofe preveduta
sopraggiunse infatti; perchè dopo un lento decadi¬ mento e indebolimento
progressivo egli fu costretto a sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente
potè riprenderlo: ed anche allora, la sua prima preoccupazione fu
quella di compiere i principi di Etica; e pose subito mano a quella
parte della Morale, che dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a
Giustizia. Colle parole e col fatto egli mostrava dunque che Tintento
supremo al quale consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua speculazione,
era u n intento mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza:
Finis in scientiis est unicus ad quem omnes sunt dirigendae. E in p
realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e
illuminano tutti gli scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro
e li riscalda il soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina
dell’evo¬ luzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto la
comprensione del processo naturale e necessario che produrrà in un
avvenire lontano ma sicuro una umanità giusta e felice. Animata cosi di
speranza, la dottrina prende colore di fede. E veramente egli la
professò come una fede; non soltanto visse per la sua dottrina, ma visse
la sua dottrina. E i prin-
. (wlien first iss. sep.) De. Intell. Emend. — cipi che pone a fondamento della morale e del
diritto, € di cui vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse
dell’universo, ispirano e governano con indomita costanza tutti i suoi
giudizi e tutte le sue opinioni, da quelle sulla Educazione a quelle
sull’Etica delle carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta
alle proteste contro il « br igantaggio politi co », dalle ironie contro
«la Sapienza collettiva» a quelle contro « i diecimila sacerdoti della
religione d’amore che! non apron bocca quando la nazione è mossa dalla
' religione dell’odio. » Quell a unità e solidarietà di principi
teorici e pratici , p er cui la sua mora le si presenta come s cienz a
ella sua scienza come una morale, e questo continuo cimentare che egli
faceva i suoi principi con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde
la sua dottrina pareva prender veste di programma sociale e politico,
hanno certamente contribuito a pro¬ durre^ questo doppio effetto: che la
preoccupaz i, morali' si insinuasse anche nella critica delle sue
dottrine teoriche; e che l’opera sua, considerata prevalentemente, se non
talora quasi esclusiva- mente, come l’espressione di certe tendenze e
di un certo indirizzo religioso morale economico politico, apparisse, col
prevalere di tendenze e di aspirazioni diverse, invecchiata c oltrepassata di
più, e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso. E
cosi potè facilmente accadere che anche certi principi, certi metodi e
certe ipotesi fossero lasciati in disparte, o si stimassero superati e
come logori e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la
falsità o la infondatezza, ma perchò apparivano con¬ nessi e solidali con
quel sistema o quell’indirizzo che si giudicavano superati.
Ora se è vero che a intendere il significato e il valore di una
dottrina particolare è necessario con¬ siderarla nelle relazioni col
sistema di dottrine di cui fa parte, non è perciò meno legittimo
conside¬ rare se essa possa aver valore e segnare un acquisto,
anche all’infuori della validità di quel sistema e di quelle altre
dottrine, colle quali primamente si svolse. L’intento di questo saggio
ó appunto di esaminare il valore teorico e metodico della distin¬
zione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la quale ò bensì, nel
pensiero dello Spencer, parte integrante del suo sistema, ma hg, secondo
il mio avviso, ragione di essere, indipendentemente dall’applicazione che
egli ne fa e dai postulati che l’hanno suggerita. Perciò si divide
naturalmente in due parti: espo¬ sitiva e critica; la prima rivolta a
mettere in chiaro le ragioni e il significato della distinzione nella
filosofa di Spencer; la seconda a esaminare la possibilità e la utilità di
mantenerla e applicarla sotto una forma diversa.
L’esposizione comprenderà pure necessariamente due parti: una
che richiama, in modo breve quanto è possibile ma esatto, il concetto
informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’Etica; l’altra
che traccia più distesamente la dottrina particolare
esaminata. Quella legge di evoluzione , che si manifesta nell’intero univ
erso visibi le, nel sistema solare come un tutto, nella terra come parte
di questo, nella vita in generale, e nella vita di ciascun orga-
nismo individuale, nei feno meni ment ali degli esseri animati fino al
più elevato; qu ella stessa legge si manifesta nei fenomeni della vita
umana e sociale é quindi a nche in quei fenomeni della condotta,
dei quali tratta la morale. In conformità di questa legge]
j^etWnr.< e delle leggi via via subordinate in cui essa si rifrangevi
produce una el evazione^progres siva nelle forme della vita sub-umana ed umana,
la quale si traduce in un a dattamento s empre migliore, più esteso
e più durevole alle condizioni da cui dipende l’esistenza dell’individuo,
e l’esistenza della specie; e, dove la vita sociale apparisca,
l’esistenza della società. Per l’uomo adunque l’adattamento
riguarda tre ordini di condizioni; ossia è di tre forme; e, benché
si possa astrattamente considerare ciascuna forma per sè, tuttavia, per
la connessione naturale e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le
tre forme d’adattamento nella realtà procedono di conserva con mutue
azioni creazioni continue; cosicché a ogni progresso in una forma di
adattamento corrisponde un progresso nelle altre forme. Il limite,
verso il q ua le tend ^questo processo, è l’adattamento completo a
tutte le condizioni della vita umana più elevata; per il quale il massimo
svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della sociale,
non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo adattamento
completo implica non soltanto una perfetta conformità esteriore
dell’operare alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari una
conformità correlativa e della struttura, e delle attività, fisiologiche
e psichiche; è insomma ad un tempo adattamento della condotta e
adattamento dei fattori interni della condotta. Quindi anche le
idee, i sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e
intensità e gradi di subordinazione, pienamente adatti e conformati ai
bisogni e alle esigenze della vita in tutte le sue manifestazioni, e
trovano nelle forme di condotta corrispondenti il loro appagamento pieno
e concordante. che viene a dire
che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della massima FELICITA.
Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adattamento eoj puleto .
massima FELICITA (eudaimonismo – GRICE), sono per Spencer tre concetti che
coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di un medesimo
risultato finale, ed esprimono il limite verso il quale tende
l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. E’ appunto per q uesta
ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero dello Spencer, tra
evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre come ottima la
cpndotta rispondente al limite della evoluzione. Perchè Spencer, come è
noto, ammette esplicitamente che il fine ultimo, espresso o so ttinteso,
d ell’operare, non può essere che una forma di coscienza desiderab ile, cioè di
piacere ; e che la condotta ò buona nella misura che essa apporta, tenuto
conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra di sè e sopra gli
altri, un avanzo dei piaceri sui dolori. Totalmente buona, dunque, o
perfetta, non è che la forma di condotta che coyà&ponde a quel
limite; ogni altra forma diversa, ossia adatta a gradi di evoluzione più
o meno lontani dal limite, non può essere che imperfetta, ossia buona
relativamente, non assolutamente. Quindi due Etiche : Etica Assoluta che
determina le leggi della condotta ottima; ed Etica Relativa che cerca di
stabilire per approssimazione quale sia la condotta relativamente
buona, ossia la condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento
e di adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla
condotta perfetta. E quindi la necessità, e la priorità logica dell’Etica
Assoluta; le cui determinazioni rirelazioni più generali, più semplici, più
esattamente definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. Or
come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia quale sarà il metodo? Spencer
si accorda cogl’utilitarist i che lo precedono nell’assumere come criterio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di condotta si
possano e debbano conoscere. Per gl’UTILITARISTI che lo precedono è l’induzione
empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per lo Spencer
di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o certe
utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di inferirne che
rapporti simili si manterranno nell’avvenire; si tratta invece di determinare
comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri utili;
o più chiaramente, quale condotta debba essere dannosa e quale debba
essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni empiricamente osservate,
ma sulla connessione causale necessaria tra le azioni ed i loro
effetti che deve fondarsi la determinazione delle norme morali. E, poiché
questa connessione deve essere alla sua volta una conseguenza necessaria
della costituzione delle cose, deve essere pos- sib ile dedurre da
principii fondamentali quali specie di azioni tendano a produrre FELICITA
e quali a pròdurre infelicità. E le deduzioni così ottenute debbono essere
riconosciute come leggi di condotta e aver valore indipendentemente da
una estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e
del dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che Spencer
chiama Razionale, dall’Empirico, e dà ca¬ rattere di rigore scientifico
alla ricerca morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della
causalità naturale dei fenomeni della condotta; e il vero metodo
scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze che abbiano superato lo
stadio empirico, deve consistere nel cercare e nel costruire in sistema
non alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le relazioni
necessariamente esistenti tra cause ed ef¬ fetti in tutta quanta la
condotta. Ma se le leggi della condotta debbono determinarsi per deduzione
necessaria, quali sono i dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ?
I fatti di cui si occupa l’Etica non costituiscono un ordine nuovo
che si distacchi da un ordine inferiore o precedente, come, per es., le
formazioni organiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali
rispetto ai biologici : ma appartengono per un verso alla biologia in
quanto sono effetti in- [Spencer li considera anche come appartenenti alla
fisica, in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti
e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma
di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo più elevato
degli animali; e per un altro alla psicologia in quanto sono coordinamenti di
azioni suscitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza ; finalmente
in quanto queste azioni direttamente o indirettamente riguardano esseri
associati, appartengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un
tempo una formazione biologica, una formazione psichica, e una formazione
sociale: e perciò è nei risultati delle scienze corrispondenti che si
devono cercare i principii fondamentali, i dati dell’Etica. E quindi
i dati da cui si debbono dedurre le norme dell’Etica Assoluta sono forniti
dalle condizioni che la biologia, la psicologia e la sociologia
indicano rispettivamente come proprie di un adattamento
completo. Ora, in conformità alle leggi di queste scienze, la
condotta corrispondente a un adattamento completo ossia la condotta ottima, è
caratterizzata dalle condizioni che si possono riassumere nei seguenti
tre punti: Condizioni biologiche : Corrispondenza perfetta tra gli organi
e facoltà umane e le attività necessarie alla vita completa. Il che
importa che tutte le attività necessarie al massimo svolgimento
equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa considera¬
zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno essere
tralasciata. della vita per sò e per gli altri trovino il loro comimento
nell’esercizio spontaneo di facoltà debitamente proporzionate e producenti
quando entrano in azione il loro quantum di soddisfazione (cioè di
piacere). Corrispondenza per- fet ta dei sentimenti, come motivi
deir operare, ai I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i dolori, cui
danno origine i sentimenti distinti come morali, siano, al pari dei
piaceri e dolori fisici, impulsi positivi e negativi proporzionati nella
loro forza ai modi di operare richiesti. Condizioni sociologiche:
Accordo perfetto t rp le attività dei consocia ti. Il che importa
che tutte le attività conducenti alla vita completa di ciascuno non
solo non impediscano direttamente nè indirettamente, ma favoriscano la
vita completa di tutti. Stato di pace permanente. CO-OPERAZIONE cooperazione;
nessuna aggressione diretta o indiretta; scambio di servizi
gratuiti. La condotta ottima è dunque quella che sod- [Non è
difficile vedere come l’assumere le condizioni suesposte equivalga a supporre
direttamente o indirettamente eliminate tre antinomie che sotto varie
forme compaiono , si può dire , in tutta la storia della morale ; l’antinomia
tra il piacere presente e il piacere futuro, cioè tra piacere e utilità;
l’antinomia tra il bene proprio e il bene degl’altri, tra ciò che è
richiesto dalla FELICITA individuale e ciò che è richiesto dalla felicità
generale ; e 1’ antinojnia tra sentimenti egoistici (GRICE SELF LOVE) e
sentimenti altruistici (GRICE OTHER LOVE), tra la tendenza al piacere e la
coscienza del dovere. disfa a
tutte queste condizioni ad un tempo; e però compito dell’Etica Assoluta
resta quello di dedurre da queste condizioni le norme a cui tutte le
forme di attività umana, a qualunque fine siano volte, debbono
conformarsi per essere totalmente buone. Per tal modo sono determinati i
principi o i dati sui quali deve costruirsi l’Etica Assoluta: le
condizioni della vita umana, individuale, parentale e sociale, proprie dello
stato di adattamento perfetto; è determinato il metodo: la
deduzione; ed è posto fuori di contestazione il fine ultimo clic
giustifica le norme così dedotte e dà alla condotta proposta valore di
ottima: la massima FELICITA universale. Ma restano d ue grandi
difflcol tà : una incocrenza, almeno apparente, da togliere, e una lacuna
da colmare. L’incoerenza è questa: Come si può sostenere che il fine
della condotta buona è LA FELICITA, se le norme di essa condotta devono
essere dedotte dalle leggi necessarie della vita nello stato
sociale, e devono valere indipendentemente da ogni estimazione diretta e
individuale del piacere e del dolore ì 0 , in altri termini, come si
risolve l’antitesi tra il fine assunto e il metodo proposto? La
lacuna è la seguente: Le condizioni che si pongono come proprie della
condotta ottima e che la deduzione morale deve prendere come dati ,
sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze in tutto o in
parte incompatibili fra di loro? Insomma quello stato finale di
adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel quale le condizioni
contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual via può
ottenersi ì . L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità; ma
questa, a mano a mano che la vita si eleva, dipende da una serie sempre
più lunga e complicata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬
giunta perché sia possibile il fine. Le norme morali rappresentano la serie più
generale e preliminare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie
più lontana dal fine, e quella che deve essere osservata prima di tutte
le altre; la condizione delle altre condizioni. Ora siccome tutte le
attività necessarie alla vita tendono a diventare una sorgente diretta di
piacere, (perchè i piaceri sono relativi alla struttura e questa si
modifica secondo le attività) così le fo rme di attività morale, appunto
perchè necessarie, debbono diventare una sorgente diretta di piacere. Per
tal modo, l’osservanza delle condizioni che conducono alla FELICITA diventa
direttamente piacevole, ed è adempiuta. senza che essa FELICITA (che rimane il
fine [L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si
legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna
considerare a parte, occupano i Principi di Etica. ) sia lo scopo diretto e
immediato della condotta; ossia, (ed è un pensiero che fa
ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge come
una conseguenza, non direttamente voluta nò chiaramente rappresentata,
all’ esercizio delle attività morali divenuto per sè immediatamente
gradevole. La soluzione della seconda difficoltà derivante dalla
lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva, tra bene proprio e
bene altrui, e nella conciliazione soggettiva, tra egoismo (GRICE SELF
LOVE) e altruismo (GRICE OTHER LOVE), raggiunte per effetto e della
solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei singoli e quelle del
tutto, e dello sviluppo concomitante della simpatia. Colla soluzione
di queste due difficoltà Spencer intende dunque che sia dimostrata la
possibilità — dal punto di vista scientifico — e la legittimità dal
punto di vista morale — della sua costruzione; e con questa dimostrazione
il pensiero che informa la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee
generali, compiuto (1). Ed ora, tracciato il disegno in cui
si inquadra Le induzioni dell’Etica, che nella traduzione francese
porta il titolo di Morale de differente peuples, dall’esame delle
diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli rac¬ coglie la
conferma di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle leggi della
vita nello stato sociale ; e principalmente della estrema variabilità dei
sentimenti morali, e della corrispondenza generale di due tipi opposti di
moralità ai due tipi di coesistenza e CO-OPE- [ la dottrina particolare che più
direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii distintamente di questa.
S’è visto come nel pensiero dello Spencer la condotta ottima sia la
condotta pienamente adatta, la condotta che c orrispon de al limite
dell’evoluzione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lontane da quel
limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno buone; onde la distinzione
di Etic A ssoluta ed Eftej> Ora si presentano spontanee
due domande: l.° Perchè introduce lo Spencer, contro il modo comune di
comprendere 1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t ra Moral e
A ssoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica] CO-OPERArazione CO-OPERAZIONE
sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre quattro parti, Etica
della Vita Individuale, ed Etica della Vita Sociale : la Giustizia, la
Beneficenza Negativa e la Beneficenza Positiva
contengono le dednzioni o applicazioni particolari ; nelle quali,
in conformità ai principi e al metodo accennati, vogliono essere determinate le
norme della vita privata e deila vita pubblica quali risultano
rispettivamente dalle condizioni contemplate dall’ Etica Assoluta e da
quelle contemplate dall’ Etica Relativ a. Notiamo subito, benché
l’avvertenza debba parer quasi inutile , che per lo Spencer la parol i
fl.v<vofn^o non ha nè può a vere n ell’Etica un significato metafisi
co ; le norme etiche per lui non hanno ragione di essere all’ infuori
dell’ esistenza animata quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori
di esseri capaci di pia¬ ceri e di dolori. quello di stabilire le
norme della condotta retta, della giustizia pura, e, senza curare gli
impedimenti e le imperfezioni che i difetti della natura umana possono
ingenerare, presentare il tijoo ideale di pe rfezione al quale ciascuno
deve cercare di avvicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e viziosa la
distinzione? Ammesso che dal punto di vista speciale di Spencer questa distinzione sia legittima,
non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento elle la realtà
presente ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto, ossia assai diverso
da quello che essa suppone? L’esposizione del pensiero di Spencer
intorno -alle foie Etiche mi pare si possa acconciamente
raccogliere in due parti, nelle quali trovi successivamente risposta ciascuna
delle due questioni. Cominciamo dalla prima. Si crede comunemente che si
possa determinare un tipo di condotta assolutamente giusta in condizioni
reali di esistenza imperfetta, mentre questa determinazione non è
possibile; e, se fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei
moralisti, sia nei discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente
accettati come veri; e pare infatti che senza di essi non sia possibile
giudizio morale, per- -- Absolute and Relative Ethics. -- che la
distinzione stessa tra atti giusti e atti ingiusti sembra implicarli
necessariamente. Sono questi: Che in ogni caso vi sia un modo di operare /
assolutamente giusto. Che sia possibile stabilire quale sia. Ma l’analisi
di un gran numero di azioni dimostra che in casi assai numerosi non è
possi¬ bile il giusto, ma soltanto un minimo ingiusto; e in casi
pure numerosi non è nemmeno possibile determinare in che cosa questo
minimo ingiusto consista. Il giusto assoluto esclude del
tutto il dnltw che è il correlativo di qualche specie di male, di qualche
divergenza da quell’adattamento perfetto che soddisfa pienamente a tutte
le esigenze della vita completa. Se il concetto di condotta buona è,
in ultima analisi, il concetto di una condotta che produce in
qualche parte un avanzo di piacere; e di condotta cattiva, che produce un
avanzo di dolore; il bene o il giusto assoluto nella condotta può esser
quello soltanto che produce p iacere pur o, pi acere non misto a dolore
di sorta . E quindi la condotta che produce qualche conseguenza
dolorosa ò parzialmente cattiva, e la forma più elevata che una
condotta cosifatta può raggiungere ò il minimo ingiusto, il giusto
relativo. Ora le forme di adattamento incompleto presentano, più o meno
vasto e grave, un doppio difetto : Discordanza od antitesi fra i tre ordini
di fini della vita, per la quale atti che producono uti¬ lità o
piacere all’ individuo o alla prole portano danno e dolore agli altri, e
viceversa ; e discordanza anche nello stesso ordine tra fini immediati e
me¬ diati, presenti e futuri ; per la quale 1’azione richiesta dall’
utile avvenire può esser sorgente di dolore nel presente, o la
soddisfazione di un desiderio immediato può impedir di raggiungere un
bene lontano e mediato, o esser causa di un male futuro. Nella misura in
cui queste due specie di incongruenze (le quali si incrociano e si complicano
fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni devono produrre una
certa somma di dolore sia sull’agente sia sugli altri. Ora « finché v’ ò
dolore v ’è male ; e la condotta che apporta qualche male non può
esser giusta assolutamente. A chiarire questa distinzione Spencer
cita degli esempi di azioni assolutame nte giuste e di altre solo
relativamente giuste. Una madre sana che allatta un bimbo sano, un padre
che, dotato di eccitabilità simpatica, partecipa ai giuochi del figlio
e li guida, sono esempi della prima specie. Nell’un caso e nell’altro l’azione
produce piacere a chi la fa e a chi la riceve; e aiutando lo sviluppo
fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro insieme, è utile al benessere
futuro ; cioè produce direttamente e indirettamente soltanto piacere
senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e con
soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli atti di BENEVOLENZA di chi
fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone
un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti
assolutamente per la medesima ragione. Degl’esempi addotti da Spencer di
azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono tipici
anche per il contrasto che offrono col modo di giudicare comune: La cura
di molti figli cagiona a una madre assai dolori, ma le sofferenze
immediate e le lontane che l’incuria apporterebbe supererebbero di gran lunga
quei dolori. La condotta giudicata buona in questo caso è quella che
produce minor male ; ma non è ottima. È la meno ingiusta. non 1’ assolutamente
giusta. Così 1’ allontanamento dei clienti da un negoziante che esiga
prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa
diminuire il suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre
persone a lui congiunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar
quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e
generale. L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo
relativamente giusto. Riconosciuta così la verità che una gran
parte della condotta umana non è giusta assoluta- Burnente, si deve
riconoscere l’altra verità che in molti casi non é possibile stabilire
quale sia il minimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si
considerano gli effetti che quella stessa discordanza, già rilevata, tra
i fini della vita, deve produrre. V’ è un limite fino al quale é
relativamente giusto che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso
pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale
l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli apporti non soltanto a sò ma a
tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende
ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite? Dipendendo esso
dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa, non è neppure in
due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso più che una
congettura. Un commerciante che sia travolto nel fallimento d’un suo debitore e
posto nella necessità di fallire egli stesso se non è aiutato, deve
o no domandai^un prestito a un amico? Il prestito potrebbe trarlo dalle
difficoltà, e in questo caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi
creditori non chiederlo ? Ma fors’anco non lo salverebbe, e allora non è
una frode procurarselo? Benché in casi estremi possa esser facile
decidere, come sarebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il più
intelligente e competente non può calcolare le probabilità ? Questo
doppio errore del confondere il giusto assoluto col minimo ingiusto, e del
credere che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’
errore che si commette nel concepire il tipo della condotta, la condotta
dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle
condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non
quali sarebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme mutate, ma
quali sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò vana per due
ragioni: La coesistenza di un uomo perfetto e di una società
imperfetta è impossibile ; dato che potessero coesistere, la condotta che ne
seguirebbe non fornirebbe il tipo morale cercato. In primo luogo,
date le leggi della vita come esse sono, un uomo di natura ideale non può
essere prodotto in una società composta di uomini- che hanno una natura lontana
dall’ ideale. Aspettarsi che tra uomini organicamente immorali nesorga uno
organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un
bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere dipenda
dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società ciascun
individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche generazioni
si ramifica per ogni parte nella società e partecipa della natura
media di questa ; e che quindi, nonostante spiccate differenze individuali, deve
conservarsi una comunanza di natura tale da impedire che un uomo,
qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società
rimane di gran lunga inferiore. In secondo luogo, la condotta
ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile
per l’uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona
assolutamente giusta c perfettamente simpatica non potrebbe vivere
e operare in conformità alla natura sua in una tribù di cannibali.
Tra un popolo perfido e al tutto privo di scrupoli, una intiera
veridicità e franchezza debbono apportare rovina. Se tutti intorno a lui
riconóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui natura non gli
permetta di inlliggere dolore agli altri deve soccombere. Fra la condotta
di ciascun membro della società e la condotta degli altri vi deve
essere per necessità una certa congruenza. Un modo di operare interamente
diverso dai modi di operare prevalenti non può continuare con buon
esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o della sua discendenza,
o di ambedue. Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di tipo, egli
deve essere concepito non a sé, senza relazione colle condizioni che sono
necessarie perchè la condotta possa essere giusta, ma in corrispondenza
con queste. L’uomo ideale deve essere considerato come esistente in una società
ideale. Perciò, secondo l’idea di Spencer, il voler, per
esempio, stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse
posto nel bivio o di farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di
men¬ tire alle sue convinzioni politiche, sarebbe perfettamente vano ;
perchè le condizioni cosi supposte contraddicono a quelle richieste dalla
definizione dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale
soltanto può concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste violenza e non
esistono abusi ; nè vi può essere collisione tra i modi di sentire e di
operare richiesti dal bene proprio e della discendenza, e
chiesti dal bene pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè può
servire di commento al pensiero di Spencer, ma perchè la somiglianza è
significativa, queh^ udjko ^ dei “Promessi Sposi”, nel quale il padre
Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di
cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i commensali di Don Rodrigo su
questo punto. Se fosse lecito a un cavaliere bastonare il messo che
gli consegna un cartello di sfida senza avergliene chiesto licenza ; e il
padre Cristoforo, chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce
finalmente in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor
di proposito, tutti quei dialettici della cavaileria. Il mio debole parere
sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate. Ecco
riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale dell’Etica
Assoluta di Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi
sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà
presente e viva è appunto così. Oh ! questa è grossa, risponde infatti il
conte Attilio. Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede che lei non
conosce il mondo. E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a fare, 1’ufficio
dell’ Etica non sarà quello di stabilire quale deve essere la condotta nel
mondo reale presente, non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno,
non ò inutile, anche ammessa la distinzione Spenceriana, correr dietro al
fantasma di una condotta ottima, adatta a uno stato di perfezione, che
l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste? A
questa seconda domanda risponde la dimostrazione della precedenza necessaria —
nell’ordine della trattazione scientifica — dell’Etica Assoluta sull’ Etica
Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scientifiche si
sono raggiunte trascurando prima i fattori di perturbazione, che alterano ed
oscurano l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto
soltanto di questi. Quando la estimazione di questi fattori fondamentali,
non, come si presentano nella realtà, mascherati e complicati di elementi
secondari, ma quali si suppongono idealmente con un processo di
astrazione, ha aperto la via a conoscere e formulare le leggi generali, allora
diventa possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei
fattori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali
contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi ge¬ nerali, le verità
fondamentali, solo per questa via si possono ricercare e scoprire, e solo
con questo procedimento il sapere passa dalla sua forma em¬ pirica
alla sua forma razionale. Per ottenere la formula che esprime il
potere -ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi
, iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non
abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la
potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una
parte più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del
corso di un proiettile si ottiene trascurando dap¬ prima tutte le
deviazioni prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il
medesimo negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali,
diventa possibile tener conto degli elementi dai quali si è fatta
astrazione, delle complicazioni risultanti dall’attrito, dalla plasticità,
dalla coesione, dalla resi¬ stenza dell’aria : e ottenere così una
determinazione ' Jt- ^ "(VOM, P-O sempre più esattamente
approssimata al l'atto reale. Qui è manifesta la re lazione tra certe
verità assolute della meccanica e certe verità relative che implicano le
prime, come è manifesto che non si possono stabilire scientificamente le verità
relative finché non sieno formulate indipendentemente da queste le
verità assolute. Il che equivale a dire che la ! scienza meccanica
applicala può svilupparsi soltanto dopo che si è sviluppata la scienza
meccanica ideale. Le medesime considerazioni valgono per la scienza
morale. È impossibile determinare con approssimazione scientifica quale sia,
date certe circostanze reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si
conosce quale sarebbe il modo di operare giusto; e questo non si può conoscere
se non si suppongono eliminate tutte le circostanze che lo
impediscono o lo limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè,
in breve, se non si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le
condizioni ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente
giusto. A chiarir meglio questa relazione tra Etica Assoluta ed Etica
Relativa lo Spencer ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso
dalle scienze biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Patologia.
La Fisiologia, nello studio degli organi e delle funzioni che combinate
costituiscono e conservano la vita, suppone l’organismo sano e le
funzioni sane, non tenendo conto dei difetti, degli eccessi, delle
anomalie di cui si occupa la Patologia : e questa poi presuppone quella, perchè
le idee anche più rozze intorno alle malattie suppongono idee di stati
sani di cui le malattie sono deviazioni; e la conoscenza degli stati e dei
processi anormali e morbosi può diventare scientifica soltanto quando vi
sia già una conoscenza scientifica di stati e processi non morbosi.
Si milmeste l a Morale Assolut a deve precedere laJSl orak
^llclativa; la quale non deve applicare sic et simpliciter alle
condizioni particolari della vita reale le conclusioni dell’ Etica
Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso nella condotta
che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta, deve determinare di
quanto essa si allontana dal giusto e come si possa ottenere, date queste
condizioni reali imperfette, la massima approssimazione al giusto
contemplato dall’ Etica Assoluta. Questi confronti coi quali lo Spencer
intendeva illustrare il suo concetto intorno alla relazione fra le due Etiche e
alla priorità logica dell’Etica Assoluta sull’ Etica Relativa, si direbbe
che abbiano servito ad abbuiarlo; e però non è fuor di luogo
qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che precede deve essere
apparso, spero, che è per una esigenza inerente alla natura della
ricerca scientifica che Spencer sostiene la necessità che l’Etica Assoluta
prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa precedenza necessaria egli
cita l’esempio della precedenza analoga della Meccanica Razionale
rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia Normale rispetto
alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero di Spencer la priorità
dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un campo particolare di
ricerche di un suo criterio metodico generale; del quale egli trova
la conferma in tutte le scienze, che hanno superato 10 stadio
empirico. Il paragone non è dunque, propriamente, tra la sua Etica Assoluta e
la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la sua Etica
Relativa e la Meccanica applicata o la Fisiologia Patologica; non è, voglio
dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di queste scienze applicate
tra di loro ; ma è paragone tra le loro relazioni. E il significato del
confronto è questo : che tra le due Etiche, come le concepisce lo
Spencer, corre una relazione analoga a quella che intercede
rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo così) e tra le due
Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere
inteso ; e in questo senso è appropriato. Perciò, quando la critica
obietta che l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e
dalla Fisiologia, può essere che abbia ragione, ma interpreta 11
confronto in un senso diverso da quello voluto da Spencer. Perchè il
concetto, per il quale il paragone è assunto è, nella sua espressione
più semplice, questo: che anche per l’Etica la soluzione scientifica o
scientificamente approssimata dei problemi più complessi richiede la
soluzione dei problemi più semplici. Il paragone non deve dunque
essere staccato da questo concetto e preso con una significazione
diversa; altrimenti si fraintende e paragone e concetto ; e rimane oscurato
uno dei punti più importanti della dottrina particolare ora esposta.
La quale non ebbe mai molta fortuna nò presso i fautori di una
morale scientifica, nè presso gli avversa ri. Questi, preoccupati forse
in generale dal pensiero di mostrare la insufficienza
dell’indirizzo naturalistico, hanno veduto nella dottrina delle due
Etiche (illustrata da quei confronti!) sopratutto una fi gliazione del
concetto meccanistico, e f’hanno combattuta in nome delle esigenze della
Morale; quelli hanno notato nella affermata necessità di
costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla
teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale
e del diritto: e l’hanno combattuta in nome delle esigenze della scienza.
Gl’uni e gl’altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente
in relazione colla dottrina generale colla quale si presentava connessa,
senza badare alle ragioni che la possono legittimare all’infuori del
sistema e della forma speciale di applicazione che in esso ha trovato.
La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina esposta traccia
il piano che Spencer si è proposto di seguire per soddisfare al compito da
lui assegnato all’Etica: quello di determinare, scientificamente le norme
della condotta morale.] Ma già intorno a questo modo di intendere
l’ufficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le obbiezioni; le quali
devono essere, almeno nel loro contenuto sostanziale, esaminate. Perchè,
se non si riconosce la legittimità del suo concetto sull’ufficio dell’Etica
è vano discutere della possibilità e legittimità del piano proposto per
attuarlo. L’esame critico si distingue perciò naturalmente in due parti;
delle quali la prima potrebbe dirsi critica preliminare. L’Etica
può, o non può, essere scienza normativa? Ecco una prima questione
pregiudiziale, che, a giudizio di un profano, (solamente dei profani?)
potrebbe dare un’idea poco lusinghiera dei progressi e dei frutti della
speculazione morale. L’opinione se non universalmente, certo generalmente.
dominante è che non possa. L’opinione dominante par che si chiuda in
questa alternativa: l’etica o è scienza, e non è più normativa; o ò
normativa, e non è più scienza. La ragione dell’antitesi, che così si pone, tra
le esigenze della scienza e le esigenze della morale, è nota. Dicono i
puri moralisti. Una morale che non dia alla norma carattere di
obbligatorietà non può essere vera morale; e darle obbligatorietà assoluta non
si può senza uscire dal campo della scienza. Nel latto, una condotta che
si ponga scientificamente come morale, è obbligatoria soltanto se si
accetta il fine, al quale è ordinata la norma; cioè è obbligatoria
ipoteticamente, non categoricamente. E se non c’è i m perat ivo
categorico, non c’è m orale. E i puri scienziati rincalzan. La scienza è
scienza delle cose e dei latti come sonq e non come dovrebbero essere.
Si può cercare quali sono i caratteri e i fattori, la formazione e
le trasformazioni dei modi di operare, dei sentimenti delle credenze
distinti come morali; si potrà anche, tracciati i lineamenti generali
del processo di formazione, argomentare induttivamente una
possibile evoluzione ulteriore con qualche pro¬ babilità; ma la scienza
non sa di bene e di male; cerca ciò ciò che è; tenta di prevedere, se le
riesce, quel che sarà; dimostrando che certi effetti dipendono da certe
condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti dobbiamo volere quelle
condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a disvolerle.
Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere che la scienza non
possa dare un imperativo ca¬ tegorico, par che ammettano esplicitamente o
im¬ plicitamente che la morale debba o possa essere una dottrina
che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si ricava il
dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima cosa, hanno
torto di supporre la seconda ; hanno torto di credere che compito
dell’Etica possa essere quello di dimostrare l’obbligatorietà, e di
supporre che una dottrina religiosa o metafisica possa fondare quel
che riconoscono non poter essere fondato da una dottrina puramente
scientifica; possa fondare il “tu devi” — “tu devi” è un giudizio
di constatazione e non può essere altro. Dicendo « tu devi » io non posso
intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o « tu senti dentro di
te qualchecosa che [ Ho già mostrato altrove, in un capitolo
rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una Morale distinta
dalla Metafisica, Pavia, Bizzoni) come e perchè sia perfettamente va no e
illusorio credere che da una costruzione , teorica l sojjmtificn n no.
nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma obbligatoria , se
l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta o supposta; e
come nasca e si mantenga 1’ illusione, e lo sforzo di credere che non è
un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza ; e , del resto,
la breve trattazione che segue, benché concluda il mede¬ simo, è fatta da
un punto di vista diverso. ti spinge, senti di essere obbligato a
non fare o a fare »; oppure quest’altra: « c’è una volontà cbe ha
il potere di obbligarti ». Nel primo caso si fa appello alla coscienza ;
a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone che esista
; nel secondo caso si fa appello a un potere, che pari- menti o
esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno
sforzo dialettico può ricavare l’obbligo dalla natura della cosa
comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far
esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo
potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso
improprio. “Tu devi” può voler dire: “È giusto che tu faccia; è giusto
che ti senta obbligato a fare, o che ci sia chi ti obbliga”. Ma se vuol
dir questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia
giusto l’obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un
obbligo) si raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non
basta a porre l’obbligo, lo giusti- fica dato die ci sia, e potrà far
desiderare che esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che
giustificano l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o
l’impulso (con qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che
le due cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non
si può ridurre 1’una all’altra senza togliere una delle due. Non si può
derivare l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza
riconoscere che l’obbligo vale solamente in quanto valgono queste ragioni;
fcioè senza assegnargli un valore ipotetico, non più CATEGORICO. Nè si può
ricavare la giustificazione della norma dall’obbligo categorico, senza
riconoscere che la norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go; ossia
senza negare qualsivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il contenuto
della norma non avrebbe nessun valore se l’obbligo mancasse. Gli è
che quando si dice essere il dovere condizione necessaria della morale,
si scambia la morale colla 'moralità, la norma colla conformità
alla norma. Ma l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della norma.
Ora, che dell’osservanza della norma sia condizione necessaria e
caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà ammettersi, ma ha
ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla determinazione della
norma, non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire
che è essenziale alla costruzione della scienza medica l’obbligo di
prendere le medicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le
prescrizioni mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è
non meno vero che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non
muterebbe in nulla il contenuto e il valore delle prescrizioni. L’obbedienza
del cliente non muta la scienza del medico. E le condizioni da cui
dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che
giustificano una norma , che fi ufficio di tutte le scienze precettive si
fa consistere nel cercare e determinare le relazioni tra certi mezzi e un
certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai- fi
infuori da ogni preoccupazione che riguardi la reale esistenza ed
efficacia del desiderio o dell’ obbligo di conseguirlo. Il che si vede manifestissimamente
in una scienza precettiva, che, a rigore, costituisce un capitolo dell’
Etica ; nella quale la questione dell’ osservanza delle norme (e dell’
obbligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente distinta dalla
questione della ricerca e della determinazione delle norme; forse appunto
perchè fu considerata e trattata indipendentemente dalla morale; voglio
dire nell’igiene. Dove a nessuno viene in mente di pretendere' che sia
una condizione della legittimità o del valore delle norme dettate da lei,
questa: ch e il conformarsi ad esse sia sentito com e un d over e. E se
accade, come può accadere in ef¬ fetto, che l’osservanza di qualcuno dei
suoi precetti sia già tenuto come un dovere, il riconoscere che questo
precetto è ordinato a un fine, al quale si dà valore di bene, fa che fi
obbligo stesso appaia giusto. Ma in questo caso è facile vedere che la
giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a questo : a dare un valore
ipotetico all’ obbligo categorico; cioè à dimostrare che sarebbe bene osservare
il precetto, anche se non ci fosse l’obbligo. Ora lo stesso vale, nè più
nè meno, per la morale. Altro è cercare quali siano le norme da osservare per
raggiungere un certo ordine di effetti (quello che la morale ponga come
fine) e altro è cercare da quali condizioni dipenda che l’osservare
queste norme possa essere sentito e posto come un dovere. E l’importanza
che questo secondo pro¬ blema può avere non toglie che esso sia diverso
e debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale dell’obbligo
categorico non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle norm e;
in primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si assume,
e non si dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo
luogo perchè se si intende, come si intende in effetto, che 1’
Etica deve dare non V obbligo, ma la giustificazione dell’obbligo, questa
giustificazione non può consistere che nel mostrare come la norma abbia
valore anche indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sarebbe bene o sarebbe
giusto conformarsi ad essa anche se il conformarsi non fosse sentito come
un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il valore di una norma
vuol dire mostrar la derivazione di una norma da un fine a cui sia riconosciuto
quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a dire derivare la norma da un
fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’
obbligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la considerazione
dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono possibile. La
caratteristi ca di una dottrina etica no n sta dunque nell’
obbligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si assume. Ed eccoci alla
vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza precettiva si riduce a un
sistema di relazioni e di leggi che hanno valore di norme da seguire per
chi si propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di
effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $
ed i fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà valore di fine
a quell’effetto; ma non pretende nè che questa desiderabilità sia
riconosciuta universalmente, nè che essa sia, pure universalmente, riconosciuta
come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma
questo appunto [Sono lieto di notare che in “Ethics, a
xcience”, “Philosophical Review”, McGilvary insiste sul concetto, clip è
conforme a quel che ho sostenuto e sostengo , che 1’ Etica , come
scienza, è indicativa non imperativa. Senonchè, per un verso, non si
capisce dall’ articolo se egli ammetta o escluda il medesimo di
qualsivoglia costruzione dottrinale; per l’altro, egli non tien conto di
quella differenza, nella quale consiste a mio giudizio la earatteristica
dell’Etica. pretende l’Etica. Onde il compito dell’Etica si specifica in
due punti, di cui il primo segna la sua caratteristica: l.° cercare se vi
sia e quale sia l’effetto o l’ordine di effetti che possa avere un tal
valore, cioè il fine del quale possa essere ammessa la UNIVERSALE
DESIDERABILITA sopra ogni altro, determinare le condizioni e i fattori da cui
quell’ effetto dipende. E, nel supposto che dipenda dall’azione umana
individuale e collettiva, determinare la condotta, ossia le norme dell’operare,
corrispondente. Se il fine di cui può essera assunta questa universale e
preminente desiderabilità è umanamente possibile, cioè tale che se ne
riconosca possibile il raggiungimento senza assumere o postulare
nessun intervento sopranaturale e sopraumano, la costruzione etica sarà
scientifica; se no, sarà religiosa o metafisica. E quindi il problema
della possibilità di un’Etica scientifica assume questa forma: se si
possa assegnare un fine, naturalmente cioè umanamente possibile, al
quale sia riconosciuto un valore superiore a ogni altro fine. La determinazione
delle norme morali sarebbe data dalle relazioni trovate o da
trovarsi tra quel fine e la condotta individuale e collettiva da essa
richiesta. Ed eccoci a una seconda questione pregiudiziale.
Non è improbabile che qualche lettore trovi que sto modo di porre il problema
intorno al co mpito dell’Etica , antiqua to e fuori della realtà.
Sento dirmi. Nella realtà il compito dell’Etica è concepito e proseguito
in modo assai diversp anzi opposto. Le n prme della condotta morale sono
già d ate e conosc iute. Ciò è tanto vero, che sulla determinazione
concreta dei precetti particolari, di quelli che si chiamano “doveri” e
che si raccolgono nella parte comunemente chiamata Morale Speciale,
non cadono sostanzialmente dubbi o contestazioni, e i filosofi
della morale ne sdegnano quasi la trattazione o ne danno soltanto le linee
generali. Nella realtà dunque l’indagine morale non ha per iscopo
di cercare e determinare le norme ricavandole da un certo fine; ma di
costruire la sistemazione teorica di un codice di condotta già dato,
raccogliendo e unificando le norme particolari in una norma generale,
della quale si cerca quale possa essere la giustificazione; anche se la
costruzione induttivamente così ottenuta rivesta poi l’apparenza logica
di una costruzione deduttiva. Quindi è antiscientifico e inutile andar cercando
fuori della realtà, nel campo di una possibilità, ipotetica, un fine —
poniamo pure che sia possibile trovarlo — il quale risponda a quelle
esigenze, per il gusto di ricavarne delle norme. Le quali, o si
accorderanno con quelle riconosciute in effetto e vigenti come morali,
o discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire che la pretesa
derivazione deduttiva delle norme da quel fine nasconde una reale
derivazione induttiva del fine dalle norme; se discordano, questa
discordanza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco, di norme elle
contrastano con quelle riconosciute e accettate, e a far respingere come
non morali o utopistiche le norme e il fine dal quale sono ricavate. Io
non ho difficoltà a riconoscere che i due indirizzi prevalenti nella
speculazione morale con- temporanea— l’indirizzo sociologico-storico. e
l’indirizzo idealistico-prammatistico — si accordano fondamentalmente nel
respingere le costruzioni etiche razionali o pure, e nell’assumere come
punto di partenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali l’uno
considera principalmente l’aspetto esterno, sociale, e l’altro l’aspetto
interno, psicologico. Ma noto subito che la novità nel punto di partenza
e nel processo di costruzione, è soltanto apparente; o, per essere
più esatto, la novità consiste
nel- [Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno
quanto al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento
regressivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, Kant
avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare. l’assumere la legittimità di
un procedimento, che inconsapevolmente domina in generale la speculazione
etica, e che si scorge più evidente in quei sistemi i quali hanno
raccolto rispettivamente nei diversi tempi e luoghi più largo consenso;
(consenso non verbale, si intende, ma reale). In altri termini non
si fa che seguire in modo consapevole e riflesso quella stessa tendenza e
preoccupazione, a cui ha obbedito in generale la speculazione morale,
almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi tempi
come ortodossa, o retta, o sana che si voglia dire; la preoccupaziono di
giustificare, il modo di operare, di sentire e di giudicare già tenuto
come buono. Ora il rendersi conto che la costruzione etica — sotto
l’apparenza logica di una deduzione progressiva di certi precetti
particolari da una norma generale e di questa da un fine posto come
supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai precetti particolari
alla norma' generale e da questa ai principi che la giustificano), segna
certamente un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza del
processo reale storico e psicologico di formazione dei sistemi morali. Ma
altro è conoscere quale sia stato il processo realmente seguito, altro ò
affermare la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortissimo
argomento di probabilità, se avesse fatto buona prova. Ma se si guarda ai
risultati, vien fatto piuttosto di pensare il contrario; di pensare, che
la speculazione morale sia viziata nelle origini appunto dal
preconcetto che la domina e dal procedimento che il preconcetto
suggerisce. Ed è da questo preconcetto che nasce, a mio giudizio, così il
diletto della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico, come
di quella a cui fa capo l’indirizzo prammatistico. In primo luogo importa
notare che ambedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune il
presupposto che compito dell’Etica sia quello di unificare le norme già date,
risalendo da esse ai principi o ai postulati, sembrano ammettere
questi due punti. Che le norme morali siano già tutte conosciute e
determinate, o che dalle norme conosciute si ricavi il criterio per quelle non
determinate. Che le norme date siano fra di loro concordanti o compatibili, o
almeno non in contraddizione l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè
l’altra di queste condizioni si avvera nel fatto. E prima di
tutto non è esatto che le norme della condotta siano già date e
conosciute. Anche se Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più innanzi, di
assumere a criterio del giusto l’adattamento perfetto o il piacere puro, ha
ragione nel sostenere che in un gran numero di casi la coscienza
non ci dice quale sia il modo di operare giusto o approssimativamente meno
ingiusto. Ma, oltre ai casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali
si potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare quale sia la
migliore applicazione del criterio, sappiamo però quale sia il criterio da
usare) vi sono sfere intere di azioni, per le quali la coscienza
non saprebbe suggerirci una scelta sicura, e per le quali non ci
dice, come per altre, “non è giusto” o “è giusto”. Difenderò io il
divorzio o lo combatterò? Approverò o non approverò l’allargamento del
suf¬ fragio politico? Sarò conservatoreoliberale, monarchico o
repubblicano, individualista o socialista, liberista o protezionista? In
quali circostanze ed entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro
indirizzo? Non serve rispondere che ciascuno deve operare in queste
materie secondo la propria coscienza. Si tratta di sapere come una
coscienza onesta deve operare perchè alla bontà delle intenzioni (che
è presupposta) corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando
questo giudizio alla coscienza individuale si riconosce o che possono
coesistere criteri morali diversi, o che lo stesso criterio morale
può legittimare ugualmente modi di operare opposti, o finalmente
che quelle parti della condotta escono dal campo della morale. Ma
se possono legittimamente coesistere per certe parti della condotta
criteri morali opposti, quale sarà il criterio superiore che serve a
decidere fra questi criteri contrastanti? o altrimenti, perchè
non si ammette che possano del pari legittimamente coesistere
criteri contrastanti anche per le altre parti della condotta? Se poi lo
stesso criterio morale può legittimare due modi di operare opposti, ciò
non può essere che per mancanza di determinazione delle
circostanze; e prova in ogni modo che le norme particolari della condotta
morale non sono tutte determinate e conosciute. E se finalmente quelle
parti della condotta escono dal campo della morale, quale norma
suprema è mai quella che non ha nulla da dire intorno a una parte così
grande dell’operare, come è, per esempio, tutta la condotta politica
del¬ l’individuo e della società? Si dirà che per questa parte, per
la quale le norme non sono date, il criterio si ricava de quelle già date e
accettate come morali? Urtiamo in una seconda difficoltà. Per
ricavare dalle norme già date il criterio cercato, per unificarle cioè in una
norma più generale, occorre che le norme date concordino fra di
loro, che in tutte si possa riconoscere appunto questa unità di criterio.
Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è cosa troppo nota,
sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di condotta che
valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace e di guerra, o sui
contrasti, tragici talvolta, tra i doveri famigliari e i doveri sociali,
bisogna osservare che le norme date e accettate come morali possono contemplare
e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni, direi,
secondarie, le quali esistono e sono possibili in grazia di relazioni primarie
e fondamentali, che le norme non contemplano e che sono la negazione
del criterio applicato in quelle norme. Mi sia lecito spiegarmi con un
esempio ipotetico assai semplice. Se si suppone che un uomo sia saltato
sulle spalle di un altro e si faccia portare da lui, v’è luogo a
cercare quale sia la posizione migliore per il portante e per il portato; sia
quella, poniamo, la quale concilia la minima fatica del primo col minimo
disagio del secondo. Il criterio seguito qu i è un criterio d i equit à;
si riconosce cioè che non sarebbe o giusto, o buono o utile per nessuno
dei due, il pretendere tutte le comodità per sè senza tenere in conto
le comodità dell’altro. Ma se questo criterio (seguito nello
stabilire la condotta migliore, data, quella condizione diversa dei due) fosse
applicato a determinare la relazione tra i due ,prima che siano divenuti
rispettivamente portatore e portato, questa condizione sparirebbe, e ciascuno
camminerebbe colle sue gambe. Ossia la norma morale regola nel caso
supposto un rapporto che non esisterebbe se essa fosse applicata al
sorgere di quel rapporto. E può avverarsi, così, delle norme morali qualchecosa
di analogo a quel che racconta di sé Senofonte, che all’oracolo chiedeva quale
via dovesse tenere per giungere più felicemente in Asia, guardandosi bene
dal chiedere prima se era bene o male che andasse. Un sociologo
potrebbe stringersi nelle spalle e osservare che è colla realtà data che
bisogna fare i conti, e che è ozioso andar cercando come sarebbe
giusto che essa fosse; non resta che acconciarvisi alla meno peggio. Vedremo
ora come questa posizione di puro adattamento passivo sia, per forza
stessa della realtà, che diviene e muta, insosteni¬ bile: ma ò opportuno
notar subito che quando si renda palese un contrasto del genere notato,
colla consapevolezza di questo contrasto è inevitabile che nasca
nella coscienza morale l’aspirazione a una realtà diversa; e quindi
l’aspirazione o a modificare la realtà se essa appare mutabile, o a
cercare la ragione della giustizia fuori della realtà. Queste lacune
e queste incongruenze delle norme in effetto vigenti come morali in un
dato tempo e luogo, dimostrano intanto due cose: che, quale sia la
condotta migliore in un determinato momento storico, non è una semplice
constatazione da fare, ma è un problema da risolvere ; e un
problema assai più difficile e complicato di quel che possa
apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso è
necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le
lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un
criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo ufficio e questo
valore, è un criterio alla stregua del quale devono essere valutate anche
le norme particolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per
tutta la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione
di tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso
modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo,
astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate
e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in
tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scientificamente
stabiliti si trovano a coincidere coi precetti empiricamente seguiti, la
determinazione scientifica procede come se spettasse ad essa di determinarli e
giustificarli). E allora il problema torna ad essere quello del criterio
che deve essere assunto. Ora il criterio che l’indirizzo
sociologico suggerisce è, come è noto, — e conforme al concetto , che
esso pone in evidenza, della relatività della morale e del diritto — la
corrispondenza alle esigenze sociali del momento storico che si
considera. Il codice morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di
condotta richiesta dalle condizioni dell’esistenza sociale in quel tempo e
luogo, e trova in esso la sua giustificazione. A nessuno può
venire in mente di negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme
morali dalle esigenze della vita sociale. Ma se queste esigenze possono
spiegare come si sia formato storicamente e psicologicamente il codice di
condotta correlativo finché sono inconsapevolmente identificate colle
esigenze della coscienza morale, esse non bastano più, neppure a
determinare quale sia la condotta adatta in un certo momento
storico, una volta che siano assunte come criterio riflesso e
consapevolmente seguito; non bastano, tranne che in un caso: nel caso che
le condizioni di esistenza, da cui quelle esigenze emergono, siano considerate
come immutabili o come assolutamente sottratte ad ogni azione od
efficacia che possa esercitare su di esse la condotta umana , individuale
e collettiva. Perchè quando intervenga la consapevolezza di una possibile
efficacia modificatrice della condotta umana sulle condizioni sociali e
sulle esigenze che ne nascono, allora entra di necessità nella
valutazione della condotta la considerazione di questa efficacia; la
quale, richiede il confronto tra lo stato presente e uno stato futuro,
tra uno stato reale e uno stato possibile. E la ragione della
scelta tra i due non può essere data dalla realtà dello stato presente,
ma dalla diversa desiderabilità dei due stati messi a confronto; e quindi
non soltanto dalle esigenze dello stato reale, ma anche da quelle dello
stato possibile o creduto tale. Per conseguenza, condotta buona apparirà non
quella semplicemente che è richiesta dalle condizioni di fatto, ma quella
che, nei limiti imposti dalle condizioni reali, tenda a modificarla nella
direzione segnata dallo stato più desiderabile. Soltanto in un
caso, puramente teorico, la condotta tracciata in conformità con questo
criterio, coinciderebbe colla pura e semplice corrispondenza alla realtà
delle condizioni fiate; nel caso che lo stato reale presente apparisse
universalmente e sotto ogni rispetto più desiderabile di ogni altro. Ma anche
in questo caso la valutazione è data dalla desiderabilità, non
dalla realtà. Insomma, altro è comprendere che una
forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro è [Di qui si
vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente ripetuta, sopratutto
dai seguaci più rigidi del materialismo storico, che la condotta giusta è
ad ogni momento quella che è resa necessaria dalle condizioni del momento; i
quali poi sono spesso ardenti e anche non di rado generosi fautori e
propugnatori di riforme e di innovazioni anche radicalissime nelle
condizioni e nella struttura stessa della società. Sento 1’ obbiezione : « Gli
è che noi prevediamo necessario e inevitabile il mutamento in quella
direzione, e ci affatichiamo , come la levatrice , a rendere meno
doloroso il parto del futuro dai fianchi del presente. Lasciamo, per
restare nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro
voler affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo,
questo futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del
presente? E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non
apprestare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che
altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste con¬
dizioni , pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’ opera
vostra; cioè nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno per
questa parte, il criterio della desiderabilità a quello della obiettiva ed
esteriore necessità. Cosi la condotta corregge la dottrina. Gran.... ist
alle Theorie— Und grilli des Lébeus goldner Baiati]. aver coscienza
della bontà di quella condotta ; la quale non può nascere che dalla
coscienza della bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede
che sia, ordinata; altra cosa è la necessità di certe condizioni, altra è
la loro desiderabilità; altra cosa è la spiegazione storica, e altra la
giustificazione etica. Di questa esigenza di una giustificazione,
alla quale, una volta che sia sorto il lavorìo riflesso della comparazione e
della critica, nessuna costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa
invece il nuovo prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo si
deve, come credo, in gran parte, alla insu fficienza d el rel ativismo
sociologico e storico nel campo della morale. Esso è in sostanza,
come è noto, un ritorno alla metafìsica in nome delle esigenze
pratiche; la affermazione del diritto di ciedere alì’ esistenza reale di quelle
condizioni che si pongano come necessarie a dare un fondamento oggettivo
al valore delle norme e dei motivi morali. In questa reazione a difesa
della fede il nuovo idealismo, fatto audace cìàPfavore delle circostanze
e dalla debolezza degli avversari, è passato, come accade, dalla
difensiva alla offensiva; e non solo afferma la legittimità del proprio
indirizzo nel campo della morale e della religione, o, come si dice,
nel campo dei valori pratici; ma anche nel campo della scienza, o d
ei valori teoretici ; pretendendo che in ultimo anche il sapere
teoretico, benché non se ne accorga o si dia l’aria di non accorgersene,
non abbia altra ragione per giustificare i principi e i postulati che assume a
fondamento delle sue interpretazioni dei fatti e delle leggi particolari, se
non una ragione di convenienza ; il valore che quei principi hanno
come mezzi per la sistemazione del sapere, cioè in ultimo per la
soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui non è il luogo di
discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero — più come
intuizione di un aspetto trascurato della realtà psicologica, che come
legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la ricerca
scientifica; la con- [Però non posso fare a meno di notare
l'equivoco che, a mio giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra
la ragione che legittima i principi teorici, e la ragione che il
prammatismo invoca a legittimare i principi pratici. L’ equivoco è questo : E
verissimo che 1’ im rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si
può parlare di un sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo
cosi, grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e
in quanto possono servire. Ma servire a che ? A unificare e sistemare le
cognizioni delle cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come
desideriamo che nan o ; a costruire non quella verità che piace a noi di
ammettere, ma la verità senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri
desideri e ai nostri capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico
è appunto il bi sogno di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non
che desideriamo e come le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi
diamo all’espressione « come sono » esso è sempre distinto e diverso da
quello che può aver 1’ espressione come desideriamo che sieno. Perciò non è il
caso di ripetere qui, sotto veste gnoseologica, la domanda di Pilato.
Perchè quando si parla, per es., delle leggi di gravità, si può bensì
sostesidero nel campo della morale, c soltanto rispetto- ali’argomento
che ci riguarda. Per questo rispetto la soluzione che essa dà del problema
della giustificazione etica, non dilferisce sostanzialmente dalle altre
soluzioni di carattere metafisico, se non per il fondamento. A proposito
del quale, siccome, se anche se ne ammetta la validità, questa non
toglie il difetto che nasce dal 'carattere metafisico della
soluzione, mi accontento di osservare, per quelli che credono di sfuggire
per questa via all’utilitarismo, che essa conduce a una forma, mistica se
si vuole, ma ad una forma di utilitarismo ; anzi alla forma estrema e più
radicale : la valutazione delle stesse credenze metafisiche e religiose
dal punto di vista di un interesse umano ; sia pure questo
interesse il massimo, il termine di confronto di tutti gli altri. Perchè
conduce a considerare la credenza come un sostegno della moralità, ossia
in ultima analisi come un mezzo pedagogico. E non nere che
questo è un modo nostro di formulare e unificare i fatti ; ma i fatti
sono quelli, e a nessuno viene in mente di pensare che noi li crediamo
veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in piedi. E anche chi ammette che
1’ acqua sia stata fatta a posta per cavarci la sete, sa benissimo (diamine !)
che altro è dire che in un pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno
sete quei che vi guardano dentro. Di questa indebita intrusione di argomenti
gnoseologici in que¬ stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta
esaurientemente, con profon¬ dità e con chiarezza, c ome suole, VARISCO
(V. in particolare: Introduzione alla Filosofia Naturale, e Studi di
Filosofia Naturale).] è escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel
mentre ehe si pone il valore della credenza, si venga a togliere valore
all’ oggetto della credenza. Venendo ora al nostro argomento, è
certo che l a soluzione del prammatism o, come in genere le altre
soluzioni di carattere metafisico, soddisfa a quella esigenza della
giustificazione etica, alla quale non soddisfa il relativismo storico. Ma
aneli’essa presenta — dico all’infuori da ogni contesa sulla legittimità del
fondamento e sulla vali¬ dità teoretica dei principi e dei postulati
ammessi — il difetto capitale delle costruzioni metafisiche. Ed è
che il fine di ordine sopranaturale cosi postulato, non può servire a
determinare le norme. Non può servire, per la ragione perentoria che
la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di so¬ pra della
vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia, che
si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti
determinabili sono contenuti nei limiti della vita finita individuale e
sociale, una relazione di questo genere, dico, non può essere in nessun
modo dimo¬ strata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto che
lo stesso fine sopranaturale, la stessa costruzione metafisica può essere assunta
a giustificare norme concrete di condotta non soltanto diverse, ma
opposte, senza che si possa ricavare da essa nessuna ragione per la quale
tra due forme di condotta diverse, una possa o debba giudicarsi
preferibile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di preferenza nell’
ordine degli effetti, che le due condotte rispettivamente producono o tendono a
produrre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta correlativa un valore che
sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e diventa il fine
naturale della condotta medesima. Con questa differenza tra i due
fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo appello
a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura affermazione)
ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo
fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle con¬ dizioni da
cui il fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la condotta e
gli effetti della condotta. Ossia un fine sopranaturale non può fornire
esso il criterio per determinare la condotta, se non a patto che —
implicitamente o esplicitamente — si assuma, come subordinato ad esso e
da esso richiesto un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale
in realtà le norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario
l’osservare che il criterio desunto dagli effetti che l’azione
tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna,
nella quale sopratutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se
per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,
bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la condotta
esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un
criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano,
in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i sentimenti che hanno
valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si
riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi;
non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si
distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui
si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di
qualche cosa. E finalmente, una forma di perfezione interiore che si
consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non
può essa stessa fornire il criterio per determinare quale sia la
condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto questa perfezione si
consideri come un effetto o un ordine di effetti che dipende naturalmente (in
parte al meno se non in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi.
Le pratiche del¬ l’ascetismo non avrebbero senso se non si riconoscesse a
loro questo carattere di mezzi atti a produrre certi effetti. Concludendo: la
soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come
ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche
se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un ufficio consolatore,
non regolatore; può servire a dare o aggiunger valore a certe norme e ai
fini umani connessi con queste, ma non può servire a determinarle ; può fornire
un principio di giustificazione, non un criterio di derivazione. E
perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema che riguarda la
determinazione delle norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il
problema, e la validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne
cerca la soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione etica
corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del
relativismo storico — se anche può offrire un criterio di
determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa
all’esigenza morale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole
attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della
corrispondenza alle esigenze della vita sociale, non si può riconoscere
un valore superiore a ogni altra norma, se non supponendo che la forma di
esistenza sociale correlativa si riconosca universalmente e sotto ogni rispetto
più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è per nulla
legittimato, nè si può ricavare . dal criterio assunto. L’altro — quello
dell’i dealism o prammatistico — in quanto fa capo a principi e
postulati metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce
alle norme morali, ma ò radicalmente impotente a fornire un criterio di
determinazione delle norme. Il primo può determinare le norme, ma
non giustificarle ; il secondo può giustificarle ma non
determinarle. L’uno e l’altro tipo di soluzione hanno comune il
preconcetto fondamentale che compito dell’Etica debba essere quello di
trova re le rag ioni sulle quali ò fondata la bont à o la giustiz ia di
quella forma di condotta, che già teniamo come buona.
Ammesso tacitamente o esplicitamente questo presupposto, l ’esigenza
scientifica porta a riconoscere le connessioni naturali tra quella forma
di condotta e i bisogni della vita sociale del momento storico, e
quindi ad assumere come criterio etico la corrispondenza a questi bisogni ; l
’esigenza morale o giustificativa porta a cercare a quali patti o
condizioni quella forma di condotta possa veramente essere riconosciuta
come buona, e quindi ad assumere come fine della condotta un bene il
quale soddisfaccia a quel requisito di universale e preminente
desiderabilità, che non si trova in quel fine , che è in realtà il fine
naturale della con¬ dotta. E i moralisti che cercano di conciliarle
ambedue, e soddisfare all’esigenza scientifica senza rinunciare alla esigenza
giusti- E allora la conseguenza legittima è que¬ sta : che una scienza
normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che serve a
determinare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto — che
questa esigenza non ò soddisfatta finché si cerca la giustificazione di un
codice di condotta già dato, assumendo questo come punto di partenza, e
quindi come fine la forma di convivenza e di cooperazione sociale alla
quale esso codice corrisponde, — non prova V impossibilità di una
etica normativa scientifica; prova al più la impossibilità di una tale
scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica in quel modo,
[ CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il
problema in un modo diverso: cercare quale possa essere il fine che
soddisfa a questa esigenza, e dalle condizioni che esso richiede ricavare
le norme della condotta? Il porre il problema in questa forma non è
forse legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto nascere dal porlo in
forma diversa, e dall’analogia] ficativa, tentano di risolvere l’antinomia
assumendo in conformità all’ esigenza scientifica il criterio , e in
conformità all’ esigenza morale la giustificazione ; ossia attribuendo un
valore metafisico al fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate
e dal quale si possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti
e in apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta
di stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e
quando si tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare l’altro;
senza che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi
pronto a trovar giusto quello che l’altro suggerisce (che l’esigenza
caratteristica della norma etica non toglie) colle altre scienze
precettive? Sento risorgere V obbiezione : Posto pure che
l’impresa riuscisse, a che cosa gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In
primo luogo, anche se non servisse praticamente a nulla, non cesserebbe
di avere un valore teorico il sistema di rapporti che per tal modo
si venisse a conoscere. In secondo luogo a nessuno ò dato affermare a
priori l’inutilità pratica di una cognizione scientifica, sia pure che
riguardi dati ipotetici (E quale cognizione scientifica non contempla
dati, almeno in parte, ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni
generali se ne può aggiungere una terza particolare. Chi può dire clic al
modo stesso, almeno, col quale può essere utile la conoscenza delle
relazioni che esistono tra forme diverse di moralità e condizioni
storiche diverse, non possa tornare utile la conoscenza delle relazioni scientificamente
stabilite tra una forma di condotta possibile c un ordine di condizioni
possibili ? Concludo. Il problema, s e una scienza normativa etica
sia possibile, non è un problema risoluto, ma è un problema da ris olve
re. Se si possa e si debba risolvere nel modo tenuto da Spencer, è
questione diversa e clic rimane da esaminare. E questa critica
preliminare mentre avrà servito, come spero, a dimostrare che il
presupposto fondamentale di Spencer intorno al compito dell’Etica non può
essere a priori escluso, ha posto in chiaro le esigenze fondamentali alle
quali una scienza normativa morale deve soddisfare. E così ci
fornisce una guida per la critica della dottrina. Il criterio del
tinnite dell ’ evoluzione e dell’ adattamento completo nm^se^e a
determinare il tipo di condotta cercato. Il programma che Spencer
traccia e si propone di seguire (non dico che in realtà gli sia rimasto fedele)
per costruire una scienza normativa etica, si può raccogliere, in queste
due te si: I.° La necessità di assumere come tipo della condotta morale
la condotta dell’ uomo giusto in una Società giusta; e la necessità
conseguente d ella disti nzione 'ìdfn fv** i ^ tra E tica Pura (Ji/icr
Assoluta) ed Etica Applicata parevo*)» f (Etica Relativa) e della
precedenza teorica della prima sulla seconda. II. 0 La identificazione
della condotta giusta, oggetto dell’oca Assoluta, col tipo di
condotta che egli pone come proprio del limite dell’evoluzione. Ora,
benché nel pensiero dello Spencer le due tesi siano solidalmente
connesse, e la seconda sia
ilei'quadro del sistema la fondamentale e quella che legittima e
rende possibile ad un tempo la sua costruzione, non ò difficile vedere
come da un punto di vista critico esse possono e debbono essere
considerate a parte. La prima, infatti, formula una veduta metodica ; la
seconda esprime la speciale applicazione che di quella veduta metodica lo
Spencer ba creduto di fare. In altri termini, è astrattamente possibile
riconoscere che il tipo ideale dell’uomo giusto non possa determinarsi se non
in relazione con una società giusta e clic per determinare la condotta
giusta relativamente a certe condizioni reali, sia necessario aver prima
ricono¬ sciuto quale sarebbe la condotta giusta in condizioni idealmente
supposte, anche se non si accetta che il tipo ideale di condotta giusta
possa essere concepito in quella forma e su quel fondamento che lo
Spencer crede di dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa
nella prima tesi non solo si possa, ma si debba accettare come
legittima e necessaria, e che in essa si racchiuda come in germe un
concetto fecondo. Certo, credo, se una scienza normativa morale ò
possibile, è possibile per quella via; e i difetti della costruzione etica
dello Spencer nascono non dall’averla seguita, ma piuttosto dall’
essersene allontanato. Cosicché la critica stessa della seconda tesi
riesce a confermare la legittimità della prima. Assumendo come tipo
ideale di condott a ^ insta la condotta corrispondente al limite dellV
vn- ! azione, lo Spencer riconosce, esplicitamente o implicitamente, alla
forma di vita individuale e sociale che segna quel limite, valore di fine
morale. Ora. lasciando la difficoltà, sulla quale altri ha già
zifjf.'w’Ui insistito, che uno s tato concepito come il risultato
necessario dell’evoluzione naturale possa aver valore di fine liberamente e
deliberatamente voluto e proseguito? difficoltà che non mi pare
insuperabile, io credo che questa identificazion e presenta He due
difetti capitali : essa non vale, per se, a for- O' La difficoltà nasce
dal modo di intendere la possibilità e la necessità. Affermare la
possibilità die si produca un fatto, non è altro che riconoscere o
ammettere la presenza reale dei fattori, l’azione dei quali, qumido non
incontrasse ostacoli, produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè
necessariamente, quel fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire
necessario in quanto si am¬ mette la reale e adeguata efficacia di tutti
i fattori da cui dipende, ' può essere proposto come fine quando tra i
detti fattori entri l'azione MI'uomo, cioè quando la necessità .
dell’effetto sia condizionata dalla presenza e dalla efficacia di certe
idee, sentimenti, aspirazioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla
efficacia adeguata del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è
escluso che l’effetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso
elio 1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata
appunto al valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’
azione corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che questa
interpretazione sia compatibile coi principii dell’evoluzionismo Spenceriano è
questione che, come si vedrà, rimane estranea all’ intento di questo
studio, e che i più risolvono nega¬ tivamente (cfr., tra gli altri,
ZECCANTE, La dottrina della co- [ni re un criterio per la
derivazione delle norme morali (nella realtà, come si vedrà più innanzi,
il tipo ideale è determinato da Spencer sopra un altro fondamento);
e non è sufficiente come principio di giustificazione. Cominciamo dal
primo. Il concetto di evoluzione, come quello di tempo, del
quale esso è, in fondo, nuli’altro che la traduzione in termini di causalità
naturale, esclude l’idea di limite, inteso almeno come termine
fisso, oltre il quale ogni processo di trasformazione, cioè di
causazione, si arresti. Il processo stesso di dissoluzione che, secondo il
pensiero di Spencer, si alterna a periodi indefinitamente grandi con
quello di evoluzione, non segna il termine di un periodo e l’inizio
d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza movale in Spencer; e
G. V ijiaki : SERBATI (si veda) e Spencer. Di queste, come di tutte le
obbiezioni mosse all' Etica di Spencer,
a cominciare dal Guyau e dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta
con grande larghezza e ricchezza di notizie SALVADORI nel saggio “L’Etica
Evoluzionista” che è una apologia entusiastica di tutto il sistema
Spenceriano. Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto
astenermi da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi,
come di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’
onore il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si
connettono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo
luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dottrina delle
due Etiche è diverso, e diversa la via seguita ; in se¬ condo luogo
perchè se avessi voluto per ogni questione toccata discutere le diverse opinioni,
avrei dovuto fare, a commento di un breve scritto, tutta, o poco meno, la
storia della morale. di una valutazione umana o teologica. In
realtà il cammino non si arresta per tracciar di segni che l’uomo
faccia sulla via della natura. Nè, del resto, quando Spencer parla di
limite dell’ evoluzione della vita umana, intende di significare il
momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in
cui la vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo
massimo svolgimento non può essere. necessariamente, che relativo a forme date
e conosciute o comunque determinate di vita, cioè di organi, di
funzioni, e di attività ; e, anche inteso cosi, non può venir stabilito se non
fissando un grado che si consideri come massimo; cioè, insomma,
segnando nel processo (non importa ora con quale criterio) un momento ,
che sia punto di arrivo di una serie (della quale sia rappresentato
da punto di vista teleologico come fine), ma che potrebbe essere preso,
con un criterio diverso, come punto di partenza di una serie
ulteriore. È sufficiente a segnare questo momento il criterio
dell’adattamento completo ai tre ordini di fini: della vita individuale,
della vita della specie e della vita sociale? È subito chiaro che
questo adattamento completo non può bastare esso stesso, se non si
determina quali siano le sfere di attività e di fini, l’adattamento ai
quali serve di criterio per stabilire se il limite è raggiunto. Perchè se si
intende per adattamento completo un adattamento definitivo a
tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso e insuperabile al
quale si arresti, e oltre il quale non sorgano nuove aspirazioni e nuovi
fini, noi non potremmo argomentare nò che un tale limite sia per
essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui im¬ porta di più) dato che si
raggiunga, quale sia il grado o la forma di vita, che un tale
adattamento sia per fissare e suggellare come definitivo.
Perchè i fini sono, come ognuno sa, correlativi ai desideri o ai
bisogni. Ora a mano a mano che le forme di attività si moltiplicano c si
differenziano, si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò si può nò
induttivamente, nè deduttivamente determinare a qual punto questo processo
possa o debba arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi
evoluzionista, ogni adattamento implica dimi¬ nuzione di sforzo e quindi,
ceteris paribus, avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene
di¬ spiegando in nuoA r e forme di attività, c quindi nella ricerca
di nuovi fini. Anzi il sorgere di ogni forma più complessa di attività, —
ad esempio ogni fun¬ zione più elevata — presuppone normalmente
l’adattamento già avvenuto delle attività meno com¬ plesse e
relativamente elementari, — funzioni più semplici — di cui essa ò una
nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a certi
fini, ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinitamente.
Oltredichè il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre
nuovi rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la
desi¬ derabilità dei beni conosciuti su nuovi oggetti che
acquistano valore di utilità, c moltiplica così i beni, cioè i desideri e
i bisogni; o trova nel mutare delle condizioni esterne nuovi modi di
soddisfare ai bisogni già esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre la
via a nuove aspirazioni, alle quali la soddisfazione già assicurata dei vecchi
bisogni, permette che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni
adattamento raggiunto è condizione e stimolo a nuove forme di attività al
modo stesso che ogni conoscenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e nascere
« a guisa di rampollo, appiè del vero il dubbio. Si dirà che Spencer intende
l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre
ordini di lini fra di loro; intende cioè la conciliazione c 1 accordo tra le
esigenze della vita individuale quelle della vita della specie e quelle
della vita sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà
sopra notata risorge a proposito di questa conciliazione perfetta,
si presenta la domanda: A quali patti si fa questa conciliazione?
Perchè se è vero, come Spencer ha cura di ripeter spesso, che nelle
condizioni presenti di esistenza i fini di un ordine non possono essere
prosemiti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei fini di un
altro ordine, bisogna evidentemente perchè la conciliazione si faccia,
che intervenga una cessazione, o una modificazione o una
sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini
considerati ; ossia una modificazione nei bisogni e nelle esigenze
dell’individuo, o della specie, o della società. Supponiamo ora per
semplicità di discorso che i fini individuali e i fini della specie si
possano considerare fin dal presente conciliati; o, per usare i
termini dall’economia pura, che si possa assumere 1’ egoismo di specie come
comprendente m se l’egoismo individuale (il che è in gran parte conforme
alle vedute stesse dello Spencer); la conciliazione resterebbe da farsi tra i
fini della vita individuale e i fini della vita sociale. E
allora il problema è il seguente: Nello stato di conciliazione
contemplato, fino a qual punto sono i bisogni e i fini individuali da noi
conosciuti o immaginati che avranno mutato di specie, di
estensione, di intensità, per adattamento alle esi¬ genze sociali, e fino
a qual punto si troveranno invece modificate le esigenze sociali per
adatta¬ mento ai fini della vita individuale? E manifesto che per
conoscere in che cosa la conciliazione sia per consistere bisogna o che
sia definita la sfera delle esigenze individuali, in corrispondenza
colla aliale si possa determinare la sfera delle „ sociali che con
quelle si accordi; o sia definii sfera delle esigenze sociali per una
determinazione tersa; o finalmente siano definite certe corni z on
(qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H vacano, esse, a
determinare ad un tempo , limiti «Ielle une e delle altro.
:ì _ Queste condizioni Spencer ricava dalle esigenze del “r »
™<ità induetnale !«<*<»' cui si suppone realizzato il puro
«gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo dell'uguale liberta ; e>
4“““* il limite dell'evoluzione è in realtà ,1 ^ della
società industriale del suo temp , tamento completo consist costruttiva
biologica e psicologica 1 nenti la società umana a questo tipo d, convivenza
e di cooperazione. Per conseguenza non è un (1) qua.» riatto «no «i
*“ Spencer che qui il Etta , (cio4 quando que- biella
II. n edizione dei ‘ de i System of et’ opera fu ^pubblicata
come Synth. Phil.) si trova aggiun e cbe eva stato lo
stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu dettato prima; ma,
smarrì o poi Qra in quel ca pitolo geisostituito da quello che figura ne . .
ident ifi c hiuo provare la possibilità che le attività ^«isMche
^ colle egoistiche, si citano gli mse 1 s ’ nism i di-
«e—. -certo tipo di vita completa che serve a determi¬ nare il tipo
ideale della società giusta, ma è il tipo considerato come ideale di
società giusta che determina la vita completa. Adunque, poiché la conciliazione
dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi delle condizioni
che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa a queste, è il
tipo ideale di società clic in edotto è assunto come fine, e sono
le condizioni proprie di quel tipo che ser¬ vono a determinare le
norme. benessere individuale non maggiore di quello che è
necessario alla conservazione della vita individuale ; ed esser possibile
il formarsi negli individui di una organizzazione tale che la ricerca
delle soddisfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle
attività che il benessere della comunità richiede. Si noti che, aggiungendo in
appendice il capitolo che contiene questo passo, Spencer non fa riserve
di nessun genere, anzi dice esplicitamente che esso può servire a chiarire e
compiere il pensiero espresso nel testo. Un altro luogo in cui è ribadito
in forma diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto fondamentale, si
trova nella seconda let¬ tera di risposta alle critiche di Davies sull’
obbligazione morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice
C. alla Giustizia : « Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale ho
altrove insistito : che appunto come il cibo è giustamente preso quando è
preso per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere quando manca
l’appetito implica uno stato fisico disordinato ; cosi una buona azione o
un atto di dovere è fatto giustamente soltanto se è fatto per soddisfare,
un sentimento immediato ; mentre se è fatto per la considerazione di
certi risultati finali in questo o in un altro mondo, implica uno stato
morale « imperfetto (A. Sistem ecc. The Moral Motive. — Nella trad. it.
della Giustizia edita da Lapi questa appendice è omessa. Ma se così è, quanto
alla determinazione delle nolane il postulato dell’adattamento completo,
posto clic si possa assumose, non serve a nulla; equivale
semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali compongono la
società ideale abbiano una natura così latta, che l’osservanza della condotta
corrispondente costituisca per essi un bisogno o un desiderio superiore a
ogni altro, senza possibilità di conflitto con altri bisogni o desideri;
cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso posto che nei sistemi
morali è comunemente tenuto dal dovere , e nelle scienze precettive in
genere dalla supposizione che esista un desiderio o un bisogno specifico
corrispondente al fine da cui si ricavano le norme. E quindi allo
stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei motivi da cui può
dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che fare colla
determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’ adattamento completo
dei bisogni e desideri individuali a certe condizioni di convivenza e CO-OPERAZIONE
sociale, non ha che fare colla determinazione di queste norme. Perchè le norme
sono ricavate appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone
avvenuto l’adattamento; e che perciò servono esse di critetio e per determinare
le norme e per conoscere se l’adattamento è raggiunto.
Uljh&MJ? Jabot* Il criterio del piacere puro,
corrispondente all’ adattamento completo, n on ser re a giustificare il
tipo di condotta proposto. Ma perchè assume Spencer come proprio della
Società ideale un adattamento completo, che, mentre esclude
arbitrariamente ogni evolu¬ zione ulteriore, non serve a definire questa
Società ideale perchè è definito esso stesso in relazione con
quella ? Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la
condotta umana in tutta la sua estensione apporta a sè e agli altri nel
presente c nel futuro puro piacere, piacere non misto a dolore di sorta ; e
per I Spencer, come s’è visto, il giusto assoluto e sclude il
dolore . E perciò il tipo ideale contemplato dal1’ Etica Assoluta non può
essere se non quello nel quale la condotta apporta puro
piacere. L’ adattamento completo darebbe dunque al tipo ideale
di convivenza e cooperazione sociale quel carattere di universale e
preminente desiderabilità, che deve avere il fine assunto dall’Etica. Lo
dà veramente? Benché a prima vista possa parere strano il
dubbio e inutile la discussione, bisogna riconoscere che un tipo di
esistenza individuale e sociale nel quale tutta quanta la condotta in
tutta la sua estensione porti sempre e soltanto piacere, non è, date le
leggi psisologiche conosciute, e non può essere, un fine.universalmente
desiderabile sopra ogni altro. Lascio di discutere se,
supposta una condotta, diciamo così per brevità, totalmente piacevole,
il piacere stesso non verrebbe a sparire, come stato di coscienza
distinto, per mancanza di quel contrasto e di quell’ alternanza fra gli stati
psichici (così bene illustrata tra gli altri dall’ Hòffding), senza
della quale anche i godimenti più forti il¬ languidiscono e vaniscono
nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di vita
corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni
forma di coscienza riflessiva e di deliberazione volontaria, cioè
l’intelligenza stessa e la volontà, almeno nelle loro forme più elevate
riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale
corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’ uomini meccanizza
ti. Certo, se si bada clic l’attenzione attiva è sempre, in grado maggiore o
minore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato principalmente, se non
unicamente, dal dolore e non dal piacere, bisogna riconoscere che la
capacità dello sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a
svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’intelligenza si
affievolirebbe; come già si può osservare in quelle persone sfaccendate e
sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura
tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di
aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a
maggior ragione per la volontà. Certamente le leggi
psicologiche conosciute tendono ad escludere, per le ragioni accennate sopra
a proposito dell’adattamento completo, che un tale stato possa
avverarsi ; ma, dato che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione
per negare, in forza delle medesime leggi, l’eventualità se non
della soppressione, di un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche
più elevate. E allora si presenta subito la questione, se, ammessa
pure soltanto la possibilità che a un tale stato si accompagnasse questo
effetto, potrebbe una forma di esistenza siffatta apparire desiderabile
sopra ogni altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscuramento e
anche la soppressione dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca
il dolore? E quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che
quelli appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi,
non ci sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi,
non è una tal vita nel suo genere beata ; anzi la sola beata perché é
esclusa la capacità di provare altri bisogni? Ora che un tale stato
possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si supponga
l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui si
tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile per chi ne ò
fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi
esercita certe forme di attività possa parere desiderabile sopra
ogni altro un tipo di vita, nel quale per avventura quelle attività
fossero oscurate o soppresse. In questo caso possono valere
l’osservazione notissima del Mill e la ragione colla quale la conforta;
che, certo, non avrebbero valore nel primo caso. Ma anche
lasciando questo aspetto della questione, non bisogna dimenticare che appunto
perchè il piacere puro è il correlato subiettivo dell’ adattamento
completo, la medesima condizione di una condotta totalmente piacevole, —
per le ragioni dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero e
nella specie dei (ini, rispetto ai quali l’adattamento [ È meglio essere
un nomo i nfelice che un jjj^o.ap,ddi.sfotto : è meglio essere Socrate
malcontento che un imbecille beato. Ora la ragione addotta dal Mill vale
per l’uomo, ma non per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere,
come egli dice graziosa- munte, (i nalch e parola hi difesa del porco e
dell’ imbecille. E nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la
soddisfazione in¬ tera dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di
paragonare il suo stato con quello di altri uomini. Senonchè riconosce
poi che la conoscenza di gradi più elevati farebbe nascere anche
nell’uomo felice il « desiderio ardente di giungervi » che è appunto ciò
che <pii importa. (Hoffding - Morale). potrebbe essere raggiunto
— può concepirsi attuata non in una sola ma in più forme di vita fra
di loro diverse ; e resterebbe sempre da trovare un criterio
comparativo della DESIRABILITA, o da ammettere che tutti i tipi di vita, per i
quali si concepisce possibile una conciliazione fra i tre ordini di
fini (anche se la conciliazione fosse ottenuta allo stesso modo che nelle
società animali, cfr. la nota qui sopra), siano ugualmente desiderabili.
Il che importerebbe la legittimazione a pari titolo di forme di condotta
fra di loro diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare
daltronde che dal piacere puro il fondamento della legittimazione.
E qui tocchiamo un argomento il quale si al¬ larga fuori del campo
particolare della dottrina di Spencer e riguarda nello stesso tempo
una questione più generale: la natura del fine. Siccome il carattere
che si richiede nel fine assunto a giustificare le norme morali è,
come s’è ripetutamente detto, quello della universale e preminente
desiderabilità sopra ogni altro, si pensa che esso debba essere il fine
dei fini, il fine ultimo e supremo ; uno stato definitivo , oltre il
quale, e al di là, non ci sia più nulla da desiderare e da cercare.
E allora non resta che questa alternativa : o si cerca un fine il quale contenga
e comprenda in sò tutti i fini ; e prendono forma I FANTASMI DI FELICITA,
DI BEATITUDINE [CICERONE], di perfezione, noi quali si fd" figurano
definitivamente appagati tutti i desideri, e scomparsi o sommersi quelli
che non vi trovano appagamento ; oppure si considera come fine la
forma colla quale si presenta alla coscienza la soddisfazione di
qualsiasi desiderio; cioè il piacere o la liberazione dal dolore.
Ma tanto l’una quanto l’altra delle soluzioni non sono che
apparenti, o si risolvono in una vana tautologia. PORRE COME FINE LA FELICITA
senza determinare quale sia o IN CHE CONSISTA LA FELICITA DI CUI SI DISCORRE è
certamente un modo per conciliare verbalmente tutte le differenze di
opinioni e superare tutte le difficoltà; ma nella realtà non le concilia
e non le supera, più di quel che valgano a togliere le diversità di
opinioni politiche e a raccogliere i partiti ad unità di intenti certi «
ordini del giorno » in cui si afferma all’ unanimità essere fine supremo
per tutti il « bene della patria o la prosperità della nazione o altre
formule somiglianti. E se si determina in che si faccia consistere
la felicità, quali siano i fini che si comprendono nel fine unico
chiamato con questo nome, allora delle due l’una : o i diversi fini così
compendiati e compresi nel fine unico, sono veramente unificati, e,
perchè ciò sia. occorre che essi possano ridursi ad uno; e quindi diesi
possa dimostrare che uno fra essi è causa o condizione degli altri, o che
tutti dipendono da una medesima condizione o ordine di condizioni ;
e in questo caso la felicità è caratte¬ rizzata o da quel fine o dal
conseguimento di questa condizione, che diventa esso fine, perchè
su esso si riversa la desiderabilità di tutti ; e il termine FELICItA non
è che.un duplicato di quel certo fine o di questa condizione. Oppure i
diversi fini non sono clic sommati insieme, e giustaposti l’uno
all’altro, rimanendo in realtà distinti e senza che si veda la necessità
della loro connessione; e allora 1’ unità non è che verbale, e in realtà
invece di un fine, si hanno più fini, ciascuno nel suo genere
supremo. Si dirà che si dà alla FELICITA non il senso di un certo
contenuto determinato che la costituisca, ma il senso di appagamento dei
desideri, di soddisfazione dei bisogni, senza clic si definisca quali ne
siano per essere il numero e le specie; nel qual senso si può affermare
che LA FELICITA rimane sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato
il contenuto? E si riesce allora alla seconda alternativa, di considerare
come fine ciò che si ammette esservi di comune e di costante nel
raggiungimento di qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma
sotto la quale si presenta la soddisfazione di qualunque desiderio : il piacere
o la liberazione dal dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere
è come dire che il line ultimo è il godimento che accompagna il
raggiungimento del fine o dei fini, o che lo scopo dei desideri è la
soddisfazione dei desideri. E allora si vede perchè il puro piacere
non possa dare un criterio di legittimazione e di valutazione comparativa
dei fini e quindi delle forme di condotta. Perchè o si prende come
criterio la quantità del piacere, la intensità della soddisfazione, senza
badare alla natura del desiderio a cui corrisponde, e non è possibile
assegnare un solo desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per
due coscienze diverse, neppure per la stessa coscienza in momenti
diversi. 0 si valuta la soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde,
e allora ciò che distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfazione
ma l’oggetto a cui il desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo
gradevole, ma le condizioni che lo producono, non è il godimento del
bene, ma il bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco nell
identificare il bene col piacere; il fine, cioè l’ordine di effetti che
costituisce l ’oggetto del desiderio, collo stato soggettivo che è il
godimento (quando ci sia) del fine raggiunto. È bensì vero che un
bene di cui si concepisse che nessuno mai potesse godere in nessun modo,
non avrebbe valore di bene; ma è non meno vero che un godimento del
quale non si sapesse assegnare nessuna causa o condizione o mezzo atto a
produrlo, non potrebbe mai essere proposto o assunto come scopo di
un'at¬ tività qualesivoglia. Ora quando si parla di un fine
desiderabile sopra ogni altro al quale sia ordinata la condotta, non si può
intendere che un bene, il quale sia bensì, direttamente o indirettamente
causa o mezzo o condizione di godimento, senza di che non sarebbe bene;
ma che non può consistere nel godimento stesso, ma in un certo
effetto o ordine di effetti determinabile e possibile, che possa
costituire l’oggetto di una ricerca attiva, cioè di una certa condotta
Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e quivoco che CONDUCE A
RIPORRE IL FINE NELLA FELICITA o nel piacere ; l’equivoco che questo
effetto o ordine di effetti debba costituire un fine ultimo, uno
stato definitivo, al di là del quale non siano assegnabili altri fini.
Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è contraddittorio non
soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già dette, ina col
presupposto stesso fondamentale che si assume di necessità quando si
voglia determinare scientificamente un sistema di norme. Perchè qualunque
[Non altrimenti avviene nel campo speciale dell’economia. E bensì vero
che se non si supponesse la possibilità del consumo, cioè del godimento
dei diversi beni che costituiscono la ricchezza, questa non avrebbe
valore, e non avrebbe senso la produzione ; ma 1’ oggetto a cui si volge
1* attività produttrice e del quale si cercano le leggi, è la ricchezza, non il
consumo. fine rappresentato come umanamente possibile, appunto perchè
deve essere concepito come un effetto, che si produce, date certe condizioni,
è a sua volta pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo
ad altri fini. Pensare un effetto naturalmente pos¬ sibile che sia
ultimo, è come pensare chiusa e finita a un momento dato la serie della
causazione, abolita e spenta in un effetto che sia stato prodotto ogni
efficacia causativa ; e allora vien meno ogni ragione di pensare come
dipendente da certi mezzi, cioè da certe cause, anche l’effetto
stesso che si considera come fine ultimo; e quindi è tolto ogni
fondamento a qualsivoglia determinazione di rapporti tra mezzi e fini, e
perciò anche a qualsiasi determinazione di norme. Si dirà che si
intende « ultimo » rispetto alla salutazione, cioè talea cui si riconosca
valore per sé, indipendentemente da ogni considerazione ulteriore.
Ma se si ammette che da quel fine, quando sia raggiunto, dipendono altri
effetti, nell'atto stesso che lo si pensa condizione di tali effetti
ulteriori, la valutazione di questi (che non può essere esclusa)
•muta il valore del fine egli dà nello stesso tempo valore di
mezzo. Dal che nasce questa conseguenza assai notevole: che la
desiderabilità di un ordine di effetti, che si assuma come fine, non viene
tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come bene. cioè come
oggetto diretto e immediato di godimento, quanto dalla desiderabilità
degli effetti, dei quali esso apparisca la condizione necessaria. E che
perciò, mentre è vano andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale
non si trova mai, o si risolve in una pura espressione verbale, il fine
che può valere come supremo si deve cercare non nell’uno o
nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore per sè, ma in un ordine
di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia assegnabile, nel
quale si possa riconoscere questo carattere appunto di con¬ dizione
necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si attribuisce
valore per sè. E quindi il fine che può avere universalmente una
deside¬ rabilità superiore a ogni altro, non può consistere se non
in un ordine generale e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la
cui attuazione apparisca necessaria perchè sia possibile universalmente
la ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso
di una gerarchia, della qiiale segni il culmine, nè nel senso di una
grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della
precedenza necessaria o della indispensebilità; per la quale venga a
raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di DESIRABILITA
che irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via. E
perciò, ammesso che qualsivoglia fine umano abbia, come ha in realtà, per
condizione la convivenza e la cooperazione sociale, il line che può avere
questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di
necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni ili
convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di
società. Ma perchè ad una forma di società possa essere riconosciuto questo
carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza
abbiano per tutti un valore potenzial¬ mente uguale : ossia che nessuno
dei fini, dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità
e dai quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle
esigenze di essa forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la
società. 0, in altri termini, sia qualsivoglia il fine che si
suppone cercato, ciascuno trovi nelle condizioni proprie di quella
forma sociale la medesima esteriore possibi- bilità di rivolgere a quella
ricerca l’attività pro¬ pria. che vi trova qualsiasi
altro. L’analisi ci ha dunque portato a queste conclusioni : a riconoscere
che il limite dell’evoluzione, 1’ adattamento completo, la massima FELICITA,
nè for- [Il che non implica, occorre appena avvertirlo, una uguaglianza
nei risultati ottenuti, o come si dice inesattamente, una « uguale
distribuzione di FELICITA » la quale supporrebbe, insieme colla
condizione notata, anche una uguaglianza di attitudini, di attività e di
preferenze.] nisce un criterio ili determinazione delle norme, nò basta
come principio di giustificazione; a riconoscere la legittimità del concetto,
clic bisogna assumere come fine un tipo ideale di società ; e a
stabilire le esigenze fondamentali, alle quali questo tipo deve
soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali ragioni i l tipo
sul quale in realtà Spencer ha modellato la sua società giusta non
soddisfaccia a queste esigenze. Il tipo di società giusta di Spencer. In un articolo di risposta ad
alcune cri¬ tiche mosse ai « Dati dell’ Etica » Spencer polemizzando con Means così si
esprimeva a proposito del modo di intendere la giustizia: A molti
sembra ingiusto che la dura fatica di un bi- folcogli faccia guadagnare
in una settimana meno di quanto un medico guadagna facilmente in un
quarto d’ora. Molti sostengono essere ingiusto che i figli del povero non
possano avere i vantaggi del l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma
quest e deficenze nelle quote di FELICITA che alcuni ritraggono dalla CO-OPERAZIONE,
sicc ome clerivano da ereditata inferiorità di natura, o da inferiorità
di c oMizioniMn cui i loro antenati inferiori sono c a- ^ ~ ^
cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io la intendo, non
ha nulla che fare. L’ingiustizia che trasmette alla discendenza
malattie c deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole le
conseguenze penose delle stupidità e della cattiva condotta dei
genitori, la ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc
apac ità, a lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che
lascia in relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or
- < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una
specie di ingiustizia estranea alla mia tesi. il i cose stab
ilii'-, quantunque in forza di esso, una ' inferiorità della quale
l’individuo non ha colpa produca i suoi mali, e una superiorità della
quale egli non può vantare nessun merito, apporti i suoi benefìzi;
e dobbiamo accettare, come possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne
deri vftrm vantaggi che i cittadini si procacciane
rispettive attività » (1). Ho citato questo passo, non
perchè gli stessi concetti qui espressi non siano, esplicitamente o impli¬
citamente, sostenuti in tutta quanta la sociologia e la morale dello
Spencer, ma perchè forse in nessun altro luogo appare piu manifesto il
presupposto che vizia la sua concezione della società ideale. Assu¬
mendo come elemento del concetto di giustizia — accanto a quello dell’
uguale libertà — la condi¬ [Replie to Criticism on « The Data of Etihcs »
in Mind. zionc ricavata dalla biologia, che la vita progredisce c si eleva
soltanto a patto che gli individui superiori godano i vantaggi della loro
superiorità e gli inferiori subiscano i danni della loro inferiorità,
egli identifica la inferiorità fisiologica e psichica colla inferiorità
sociale; la inferiorità obesi potrebbe chiamare nativa o costituzionale
colla inferiorità clic si potrebbe dire di posizione. Ora, che un
uomo debole non possa vincere le medesime resistenze che uno forte, che
un bambino poco intelligente impari meno e peggio di un intelligente, è
naturale e necessario; ma non si può dire che sia giusto nè ingiusto. Che
i figli eredi¬ tino F ingegno o l’ottusità, la sensibilità o
l’insensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che i primi
godano i vantaggi e i secondi sopportino i danni che sono conseguenza
rispettivamente di questa loro soperiorità o inferiorità ereditata, sarà del
pari biologicamente necessario, ma non è ancora nè giusto nè ingiusto;
diventa bensì giusto o ingiusto rispettare o violare questa relazione
naturale, soltanto se si considera questa re¬ lazione come condizione di
una elevazione progressiva delle specie che sia assunta come effetto
universalmente desiderabile, cioè come fine. Ma che i figli del contadino
non abbiano la possibilità di venire istruiti o educati, non dipende
dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da
una inferiorità sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità
anche se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attissima a questa
coltura. Ora, mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe
che i figli del contadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo
stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro ri¬ spettive capacità e
sforzi frutti maggiori o minori, la diversità delle condizioni sociali
esclude gli uni dalla gara c toglie non solo la necessita ma la possibilità
clic l’opera di selezione si rinnovi tra i superstiti di ogni nuova
generazione sull’unico fondamento delle loro rispettive attitudini e
attività. Sul che non è necessario insistere dopo le critiche note e
ripetute ; ma valga l’accenno per rilevare che a torto Spencer identifica colla
inferiorità biologica, o meglio, costituzionale, l’inferiorità clic deriva
dalle condizioni sociali, e crede che possa valere a giustificare le
conseguenze della seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare
le conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla sfera dei
beni conseguibili che è imposta da condizioni esteriori è cosa affatto diversa
dalla limitazione clic nasce dalla capacità e dalle doti in¬ trinseche; e
se questa è giusta, posto che si prenda per fine superiore a ogni altro V
elevazione della specie (e dato che ne sia condizione), quella è
giusta soltanto se si considera come fine superiore quella certa
forma ili cooperazione sociale che la rende necessaria. Anzi quella
limitazione d’origine sociale che si ponga come giusta per quest’ ultimo
rispetto, appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere che sia giusta la
condizione che ciascuno sopporti i danni della sua inferiorità e goda i
vantaggi della sua superiorità » non include, ma piuttosto esclude
1 altra condizione, a torto da Spencer compresa o conglobata con quella;
che ciascuno sopporti i danni o goda i vantaggi che sono conseguenza di
una inferiorità o di una superiorità, la quale risulta non dalle sue doti
fisiche e men¬ tali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe
circostanze esteriori. E in verità sarebbe da meravigliare che
lo Spencer non abbia rilevato la differenza, o non ne abbia tenuto
conto, se non si ricordasse che il punto di partenza, il foco centrale da
cui muove e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è, come
s’ò detto in principio, un ideale etico, anzi propriamente sociale e
politico; onde l’intento prin¬ cipale diventa quello di trovare la
giustificazione del suo ideale nelle leggi della vita, e per esse
nelle leggi stesse dell’ universo. l ( h Ora il suo ideale sociale
e politico è in sostanza quello stesso del liberalismo, in cui
crebbe e si maturò il suo pensiero, che era già compiuto e definito
nelle sue parti quando uscì il Prospectus; e perciò nel costruire la sua «
Società di uomini giusti », per quel che si attiene alla struttura
sociale, egli non fa che supporre rea¬ lizzati i desiderati teorici, o
già riconosciuti espres¬ samente, o ricavati logicamente dai postulati
eco- n omici e politici di quel liberalismo . 11 quale era bensì
arditamente coerente nella affermazione dei principi e dei corollari
riassunti nella formula della giustizia (la uguale libertà per tutti), ma
conside¬ rava o come anteriori ed estranee a questa legge, o come
naturali ad un tempo e conformi ad essa, le dive rsità storicamente date
di condizione econ o- mica degli individui e delle classi socia li. Onde
lo Spencer non tenne conto della disuguaglianza effettiva, che nell’
esercizio di quella libertà, formalmente uguale per tutti, porta 1’ esistenza
di quella diversità, che egli credeva giustificata dalle leggi
biologiche . 1 frinii. Ne segue che mentre nella sua società ideale
egli costruisce l’individuo giusto facendo astrazione da tutto ciò che
nei fini individuali vi può essere di incompatibile non solo colla
cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el costruire invece la so
- cietà giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di aggre ssione
esterna e interna che si esercit i, dato « lo stato di cose stabilito »,
ma non fa astrazione da quelle con dizioni che importano una reale
limitazione diversa nella sfera delle attività é dei fini conseguibili dei
singoli ; e però la sua non è una società giusto, ma una società di
uomini giusti; giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia,
cioè, è modellata sulle esigenze di una certa struttura sociale,
nel configurare la quale egli non tien conto di quelle condizioni che pur
suppone soddisfatte nel formare il tipo dell’ uomo giusto. E
cosi si avvera qui una i n eoe ronz a del genere che si ò accennato più
sopra: che le norme della sua giustizia siano applicate a regolare
delle relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili in
grazia di relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano
e che sono la negazione del criterio applicato in quelle. Perchè mentre
suppone che gli individui seguano nella loro condotta una perfetta
imparzialità subordinando alle esigenze della giustizia o dell’ uguale libertà
— fine prossimamente supremo — tutti gli altri fini generali e
particolari, suppone poi, come proprie di una tale cooperazione di uomini
giusti, condizioni che sono in tutto o in parte la negazione
dell’imparzialità, e che non esisterebbero se lo stesso criterio dell’ imparzialità
fosse seguito nel costruire il tipo della società giusta. E
in questo senso che, accennando incidentalmente altrove all’Etica Assoluta
dello Spencer, notavo come un vizio di essa non un eccesso, ma piuttosto
un difetto di astrazione; perchè egli assuine abusivamente come esigenze
costanti e universali di ogni forma di CO-OPERAZIONE, e quindi anche del
suo tipo ideale, le condizioni proprie di un certo momento storico; e
pone come dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata dalla
legge della uguale limitazione per tutti, delle condizioni che
importano una limitazione disuguale. Stando così le cose, il
raggiungimento o l’approssimazione a un tale tipo di società, non può
apparire come fine universalmente preferibile, nè le norme che esprimono
la condotta richiesta da quel tipo possono avere carattere di universale
os- servabilità sopra ogni altra, E ciò da un doppio punto di
vista. Agli individui delle classi sociali poste, per effetto di
quella disuguale limitazione, in condizione di inferiorità, questa
inferiorità che non è conseguenza della propria condotta, deve apparire
una menomazione ingiusta dei diritti; agli individui delle, classi
sociali poste in condizioni di superiorità, questa superiorità, che
parimenti non è conseguenza della propria condotta, deve apparire, se la
coscienza si elevi a una imparzialità universale e coerente, una
menomazione ingiusta dei doveri, E nasce di qui quel se greto
rancore in chi riceve, e quel senso indefinito di malcontento e
quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta dalle sorgenti la
simpatia, oscurando la serenità della beneficenza, se la accompagni il
dubbio che essa non sia se non un compenso parziale e tardivo di
ingiustizie patite e di ingiustizie godute. La simpatia non può essere
schietta dove non regna la giustizia; e non si possono definire le
forme e i limiti della beneficenza se non dopo die siano definite, e
siano o si suppongano osservate le norme della giustizia; onde la
necessità logica che il tipo ideale della società giusta sia
determinato all’ infuori da ogni supposta efficacia modificatrice che la SIMPATIA
e la BENEFICENZA esercitino sulle condizioni e sulla condotta dei singoli
e della società. Soltanto così è possibile accertare se il tipo di
cooperazione assunto come ideale possa essere universalmente
desiderabile, e soltanto così è possibile determinare dove la giustizia
finisca e la beneficenza cominci ; dove finiscano le relazioni di
diritto e dove comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società
ideale di Spencer pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva
inevitabil-mente dal primo; di supporre realizzate le condizioni della perfetta
simpatia in una società nella [Questo si riflette con tutta
chiarezza nella pratica quando si tratta di rapporti semplici e sulla
giustizia dei quali non cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti
che abbiano relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi
di cortesie che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i
diritti e gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e
tingono d’ altro colore i rapporti di simpatia. quale non sono
realizzate le condizioni della giustizia. La sua società è una società più o
meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale
egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le norme
della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini
giusti, quando si tratti di determinare le norme della giustizia ;
e una società giusta di uomini perfettamente SIMPATIZZANTI quando si tratti di
determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma
anche supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare
gli effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale,
il tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la
ricerca e il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali LA CO-OPERAZIONE
serve, apparirebbe per una parte dei COOPERANTI subordinata alla
benevolenza di un’ altra parte. Il qual difetto basterebbe per togliere, nel
giudizio di una coscienza imparziale, a quel tipo di CO-OPERAZIONE il
carattere di univers ale preferibilità. Ma il difetto era, come s’ò
detto, dato il presupposto Di Spencer, inevitabile. La simpatia è
pe r lui il mezzo di conciliazione dell’egoismo coll’altruismo. Ma poiché i
limiti rispettivi dell’egoismo e dell’altruismo sono segnati dalle
esigenze del suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la
condizione dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò
caratteristico a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si
tratta dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore
della conciliazione , porta lo stesso titolo e sostituisce nei dati »il
capitolo smarrito e aggiunto poi in appendice, che ho citato più sopra, nel
quale si cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo
l’adattamento alle esigenze della vita sociale delle api e delle formiche.
Per questo rispetto direi, se non sembrasse un paradosso, che il grande
assertore e propugnatore dell’individualismo, è in fondo, senza che
se ne accorga, un difensore della subordinazione totale e definitiva
dell’individuo a un tipo di CO-OPERAZIONE sociale, che egli considera bensì
come la condizione necessaria alla vita più elevata dell’individuo e
della specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della vita
di un gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di
una certa struttura economica. E quando egli combatte
l’intervento della società nel regolare i rapporti economici, in nome
dei diritti dell’individuo, dimentica che una parte considerevole di quei
diritti, sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che
questa disparità ha la sua radice nella costituzione economica, che
lo stato, come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a difendere. La
quale osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro
il cosidetto Socialismo di Stato. Vale soltanto a provare che
l’individualismo di Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto
capitale del tipo di società di Spencer come in genere del cosidetto stato
di diritto nasce non da quel che afferma, ma da quel che dimentica
; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale libertà per
tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal- 1
omettere, come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le condizioni che
rendono possibile 1’ uguale libertà. E, ad esprimerlo in
termini kantiani, il difetto si riduce a questo.DOVE VI E CO-OPERAZIONE
CON EFFETTIVA PARITA DI DIRITTI, CIASCUNO DEI COOPERANTI HA AD UN TEMPO
RIGUARDO A QUALISIASI DEGLI SCOPI DELLA CO-OPERAZIONE, PER UN RISPETTO RAGIONE
DI MEZZO E PER L’ALTRO RAGIONE DI FINE. SE INVECE L’ESIGENZE DELLA CO-OPERAZIONE
INDERDICONO A QUASIVOGLIA DEI [Nota LORIA che quando si grida contro la
concorrenza come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla
concorrenza la produzione di effetti che nascono dalla mancanza di
concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto
nel campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza
benefica. Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione , e sono il
risultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza
di concorrenza fra lavoratori e capitalisti. (Cost. Ec. Odierna)] COOPERANTI la
ricerca di una parte dei beni, a cui E CONDIZIONE NECESSARIA LA CO-OPERAZIONE
DI TUTTI, per questa parte l’escluso ha soltanto RAGIONE DI MEZZO, e *non* RAGIONE
DI FINE. Il che avviene appunto, malgrado il riconoscimento formale, o
meglio, verbale, della uguale libertà, anche nella società ideale di
Spencer. La quale perciò non può aver valore di universale e
preminente DESIRABILITA perchè non soddisfa alla condizione richiesta:
che tutti i sodi trovino nelle condizioni di esistenza della società la
medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro
attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA DEI BENI, AI QUALI LA CO-OPERAZIONE
SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO CARATTERISTICO DELL’UNIVERSALE
DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia è il postulato caratteristico
della GIUSTIZIA. E supporre una società giusta di uomini giusti equivale a
supporre riconosciuta e applicata universalmente e costantemente in qualunque
specie di azione o di influenza che si eserciti, così dalla società
come da ciascuno dei singoli, l’esigenza di quel postulato. Ufficio
e limiti (li una costruzione scientifica dell’ Etica. LA SOCIETA GIUSTA così
intesa non rappresenta dunque un tipo definitivo della vita più elevata
possibile, analogo ai tanti regni dell’Utopia che la fantasia morale ò
venuta fingendo nei diversi tempi. Anzi per questo rispetto una maggiore
o minore elevatezza, complessità o intensità di vita, di attività, di
fini, non ò affatto implicita nel postulato nè si può ricavare da esso ;
e si può concepire (e non ne mancano in effetto gli esempi) una
forma di società in cui sia, almeno parzialmente l'aggiunto un grado
assai elevato di civiltà, la quale sia tuttavia meno giusta di un’altra
più semplice e meno civile. Appunto perchè la giustizia riguarda la
universale possibilità di cercare i beni, ai quali E CONDIZIONE la
convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e non include che questi beni
siano di molte o di poche specie, di maggiore o di minor
pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato anche la
concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di vista del
pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione necessaria
della universalità della simpatia e quindi della compassione, deve
apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come fine
ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di
giustizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda
coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria
infelicità, spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e
contingente, ed effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli
istituti sociali. E QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche
rispetto al pessimismo è forse una conferma non trascurabile del
valore di universale preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un
tempo della sua indipendenza da ogni particolare concezione
metafisica. Adunque, poiché uno stato di giustizia non è
caratterizzato da altro se non dall’ ipotesi che le esigenze di quel
postulato siano soddisfatte, non si può nè si deve pretendere di ricavare
dal postulato un contenuto determinato, ma soltanto la forma generale
delle norme. Il contenuto specifico deve essere ricavato dai fini, ai
quali SI RICONOSCE O SI SUPPONE CHE LA CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE
MEZZO, e in relazione al quali si possano definire le condizioni
richieste dal postulato della giustizia. Quali siano questi fini non
si può stabilire se non o per constatazione o per ipotesi. Per
constatazione, quando corrispondano alla osservazione della realtà
psicologica in un dato momento storico, ossia in una forma di civiltà. Per
ipotesi, quando si voglia cercare preliminarmente quali sarebbero le
condizioni richieste dalla possibilità di ciascuno dei fini isolatamente
preso o di un gruppo. (Ed è inutile a questo proposito insistere qui
sulla eventuale opportunità o necessità di ricorrere a tali ipotesi
specialmente nelle ricerche, come questa, nelle quali non è possibile la
sperimentazione). Ma tanto nell’uno quanto Dell’altro caso le
condizioni che se ne ricavino e che vengano stabilite come proprie del tipo di
società giusta considerato, presentano questo carattere : che non sono
date, ma costruite, che non sono reali, ma ideali. Ora, se noi
determiniamo quali siano le norme di condotta corrispondenti a quelle
condizioni, queste norme esprimeranno quale sarebbe il modo di operare
nella supposizione che esse siano già date e reali, e non quale sia il
modo di operare che tende a realizzarle, mentre sono date condizioni piu
o meno diverse. La prima determinazione è oggetto di un’ Etica
Pura : la seconda di un’Etica Applicata, nella quale si consideri come
fine il raggiungimento delle condizioni ideali che sono assunte nell’ Etica
Pura, e si stabilisca per approssimazione quale sia in un dato
momento storico la condotta sociale e individuale, che, nei limiti
necessariamente imposti dalle condizioni reali date, ò più atta a
favorire la trasformazione di queste nella direzione segnata da quelle. Soltanto
così l’Etica può evitare un errore del genere di quello nel quale
cadevano gli economisti della SCUOLA CLASSICA; i quali, dopo aver
supposto l 'homo oeconomicus mosso unicamente dall’interesse
personale, il che avevano diritto di fare, lo considerarono poi come reale e
die dero valore di leggi n aturali e necessarie alle conclusioni ricavate
da questo e dagli altri dati astratti supposti. Ora appunto percliò
le condizioni soggettive e oggettive dell’ homo iustus e della societas
insta, sono supposte e non reali, le norme che esprimono quale
sarebbe la condotta dell’ homo iustus e della societas iusta non
sono immediatamente nè integralmente applicabili in condizioni diverse dalle
supposte. I « doveri » e i diritti dell’ uomo giusto nella società giusta non coincidono
coi doveri e i diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni
storiche; alla stessa guisa che i diritti naturali dei filosofi dello stato di natura
non coincidevano coi diritti positivi delle società in cui
vivevano. Ma se si dà valore di fine all’attuazione delle condizioni
proprie della societas iusta, i doveri e i diritti 1 dell’ homo iustus
diventano il modello al quale si riconosce desiderabile che cerchi di
avvicinarsi il sistema di doveri e di diritti che vale come giusto
in una società reale data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una
società foggiata in conformità all’ipotesi dello Stato di Natura e del
CONTRATTO, si fosse riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed
evitando la confusione fra giustifica¬ [Gide. Principes d’ éc. poi.]
zione etica e spiegazione storica) come fine da raggiungere invece che come
stato originario, il diritto naturale ricavatone sarebbe legittimam ente
apparso come il tipo idealmente giusto, al quale il diritto
positivo doveva avvicinarsi e adattarsi. Adunque/qu ando si eviti
l’errore di scambiare i dati ipotetici coi dati reali, c la pretensione
utopistica di applicare direttamente e integralmente le conclusioni
ricavate dai primi alle relazioni che sono imposte dai secondi A a ppare
evi dente ad un tempo e la 1 ( frittimi t à della distinzione, e la
priorità logica dell’Etica Pura surf mica Applicata. Raccogliamo in breve i
resultati dell’ analisi. Una scienza normativa etica non differisce
dalle altre scienze precettive se non pe il valore, che si attribuisce al
line suo: il quale deve essere desiderabile univ ersalm ente jyjjma e a
preferenza di ogni a ltro , se si vuole che sia riconosciuto lo
stesso carattere alle norme ricavate da esso. Questo fine
universalmente preferibile non nuò essere che un fine relativamente
prossimo, il quale (abbia o no anche valore per sè) sia mezzo o
condizione di tutti i fini che si considerano come ultimi; e quindi
non può essere che una forma di convivenza e di */ . amw Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra
le due Etiche cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito
riferirmi a quanto ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già
citati. coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli possa
riconoscere tale requisito. Ma una società siffatta ò supposta, non
reale, e le norme di con¬ dotta che se ne ricavano regolano delle
relazioni che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono perciò
applicabili direttamente a relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro
determinazione è non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal
punto di vista scientifico alla determinazione delle norme che debbono
regolare le relazioni più com¬ plicate della realtà ; necessaria dal
punto di vista etico alla giustificazione di queste norme ; perchè
esse sono valide in quanto esprimono ravvicinamento, nei limiti del possibile,
di queste relazioni reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a
dire che l’Etica Pura fornisce all’Etica Applicata il criterio per
determinare le norme, e il valore che le giustifica. Ma non bisogna
dimenticare che le norme, sia dell’Etica Pura, sia dell’Etica Applicata,
hanno il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fondamentale che si
accetti come valido e fuori di contestazione il postulato della giustizia.
Ossia hanno valore se si suppone che OGNI socio RICONOSCA che una forma di convivenza e di CO-OPERAZIONE
nella quale ciascuno abbia, quanto alle limitazioni esterne, valore di
fine a pari titolo di qualunque altro è preferibile a una forma di CO-OPERAZIONE
nella quale una parte dei <? socii » abbia, per uno o più rispetti,
soltanto valore di mezzo e non di FINE. Quindi, è bensì vero
clic l’assunzione di quel postulato è la condizione necessaria all’
universale riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone
come caratteristica della norma morale 1’ universalità, rinunciare a quello
vuol dire rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba
affermare chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per
tal guisa stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del quale
si richieda una giustificazione, valore ipotetico ; e che perciò
questo valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce
incontestabile il postulato. Appare di qui che è vano e illusorio
cercare la giustificazione di una norma morale nelle leggi |
naturali. Perchè ciò che giustifica una norma di condotta non è la
naturalità, ma LA DESIRABILITA dell’ effetto contemplato ; e le leggi
naturali stesse possono apparire giuste od ingiuste secondochè si
assumano come universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la
conformità della condotta ' fi 1
affo irafic-li itr [v yJ.tA ttfilk t**' he* ìtU 'o jqie
j. La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi necessari a
raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come- yuibìlità di
questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar valore di
universale DESIRABILITA a un ordine di effetti, per il solo fatto che ce
ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi conduce, o ò creduta
condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che l’essere o
no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo, l’essere o no
presenti ed efficaci nella coscienza umana certi bisogni, desideri,
aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura
stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus
ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella
osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà;
ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la
giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità.
Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili,
almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene
l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiustizia,
quando si assuma come postulato la prefe- ribilità di una comunione
sociale in cui una parte non abbia che diritti e un’altra non abbia che
doveri. Benché allora 1’ Etica si sdoppierebbe in due Etiche diverse,
anzi opposte : l’Etica degli uomini- fini c l’Etica degli uomini-mezzi;
o, per usare le parole del Nietzsche, la Morale dei padroni e la
Morale degli schiavi; e la medesima condotta sarebbe, seguita dagli uni,
giusta, seguita dagli altri, ingiusta. Che una giustizia di questo
genere ripugni alla psiche del socius per una ragione analoga a quella per
la quale ripugna alla psiche dell’ uomo logico ammettere che un rapporto tra
due cose o fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è
credibile; (sul presupposto di quella ripugnanza, si fonda, io credo, la
giustificazione etica della coazione e delle sanzioni). E certamente
rimane aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno ai
problemi che riguardano il come e il perchè il postulato che assumiamo
possa e debba essere accettato ; e se alla esigenza che esso esprime si
possa o si debba assegnare un ufficio, e quale, nella
interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo e della storia. Ma da queste
indagini, le quali sono di natura metafisica, la costruzione scientifica
dell’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi indipendente, per
una ragione analoga a quella per la quale l’igiene è e si mantiene
indipendente da ogni questione intorno al fondamento e al valore
del postulato assunto da lei, e dal quale deriva il valore normativo dei
suoi precetti: — che un organismo sano sia preferibile a un organismo malato. Perciò,
finché si rimane nel campo della ricerca scientifica, la sincerità richiede
che, anche nell’Etica, malgrado ogni interiore certezza, questa
condizionalità del valore delle norme sia esplicitamente riconosciuta, e che
anche nei termini si eviti 1’equivoco, e fin dalle parole sia bandita
ogni pretensione a un valore che non sia condizionato al
presupposto assunto. Per questa ragione, oltreché per fissare
rispetto alla dottrina di Spencer le differenze notate nel modo di
intendere il fine, e di concepire la società giusta e 1 ’ uomo
giusto, e la priorità non soltanto logica ma giustificativa di un’Etica
rispetto all’altra, LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini « Etica
Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura
V'.',:r , ì ' pvi n l iuta i v a » i ieri mmi « e~=r . 1
", della giustizia ed Etica Applicata della giustizia ». (^ 3 ;
n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od
'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le norme di
condotta nell’ ipotesi che, osservate preliminarmente le condizioni della
giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle condizioni
richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due ulteriori
sezioni dell’Etica : l’ Etica Pura della Simpatia e 1’ Etica Applicata
della SIMPATIA. A leggere questo titolo, quelli che VARISCO chiama
felicemente i filosofi dell’ oramai e quegli altri che si potrebbero
chiamare i girasoli della filosofia (i due tipi coincidono in parte,
ma non in tutto) c’è da scommettere che sorrideranno. Non è oramai
pacifico che di una scienza della morale non si può parlare? E vale la
pena di perdere il tempo attorno a un problema « oltre¬ passato »?
— Io mi rassegnerò a lasciarli sorridere; ma non son persuaso dell’
oramai, e trovo che il problema è tutt’ altro che superato. La quale
persuasione per altro non garantisce nulla, pur troppo, rispetto all’
altra faccenda del perder tempo ; perchè il tempo si può perdere, e far
perdere, come sappiamo benissimo tutti, anche trattando di argomenti non
oltrepassati. Dico dunque che il problema, almeno nel modo nel quale
credo che debba essere posto e ho cercato di porlo, è più vivo che mai e di
interesse capitale così per l’Etica come per la Filosofia del
diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se dovrò, richiamandomi a cose
già dette, parlare, più spesso che le buone regole non consiglino, in
prima persona. Quando sostengo la possibilità e la legittimità di
una scienza normativa morale, non intendo che una tale scienza possa o debba sostituire la metafisica, e
bandirla proprio da quel campo che è il vero vivaio dei problemi
metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti morali. E nemmeno che
possa pretendere di costruire la morale, l’unica vera morale erigendo a
norme della condotta certe leggi naturali cosmiche, o biologiche o
psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si presuma di dare valore
imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è diversa. Una scienza
normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia scienza
pre¬ cettiva, consistere in altro che in u n sistema di relazioni e di
legg i, le quali hanno valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia
assunto come fine quel- F effet to o quell'ordine di effetti, del quale
esse ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibo¬ sco dalle
altre, perchè s uppone che al fine suo [MJLjcTalfA
Ò)lCJUjLt> 'ittl- , del quale esse ’Sl'Kp
tkf si a rico n osc iuto un valore di universale pref
eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò una
determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni.
Che il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa stabilire
la dipendenza condizionale da una certa forma di condotta collettiva e
individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della costruzione
; perché la relazione che lega le norme con quel fine potrà essere
lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere conosciuta altri
mezzi che quelli di una indagine scientifica. Che sia ammesso
come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale
preferibilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente
possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si
ricusa di ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la
determinazione delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non
perde nulla del suo carattere scientifico ; ma le norme non hanno valore
morale. Ossia, il valore morale delle norme così ricavate ò relativo
alla accettazione del postulato; e la derivazione scentifica di un sistema di
norme dal fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza
della condotta morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la
condotta morale, se si ammette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è
altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e
fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nessuno
fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale
una esigenza che non trovasse nella */ r f>' r \ c < ’• ' a •
fi «.e realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho- cercato
di porre in chiaro in primo luogo quale fosse l’esigenza caratteristica
del valore morale di una norma ; poi, se si potesse assegnare un
fine umano, e quale potesse essere, che rispondesse a queste
condizioni. Non è il caso di ripetere il già detto; qui ne
ricordo soltanto le conclusioni : — che l ’esigenza che assum o, e, credo aver
dimostrato, legittimamente, come caratteristica di una norma morale ò quella di
una universale giustizia ; e che il fine che soddisfa a questa esigenza
non può essere che una forma di società umana tale, che tutti i
sodi trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o
equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla
ricerca di qualsivoglia dei BENI AI QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE
E MEZZO. Supponendo dunque ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto
e non faccio una ipotesi arbitraria; poiché Tesigenza della giustizia,
alla quale il postulato fa appello, è la più profonda e più tenace e più
incoercibile dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è
soggetto di moralità e considera se stesso, ed è considerato, come
persona a pari titolo di ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso
di questo scritto, a quello clie che lo precede nel presente volume, e a
un altro studio : Prolegomeni a una Morale indipendente dalla Metafisica,
Pavia, Bizzoni. Tuttavia per quanto possa parere ed essere legittimo prendere
per concesso qu esto postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi importa
rilevare chiaramente , che il fine e le norme corrispondenti hanno quel
valore che si attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si
accetti come valido e fuori di contestazione. Se non 6
ammesso, ò vano pretendere clic la costruzione normativa valga a farlo
accettare o possa obbligare ad accettarlo. Essa non può che
mostrare la coerenza delle norme proposte col fine assunto, e di questo
colla esigenza della giustizia; e mostrare con ciò che non si può
ragionevolmente ammettere questa esigenza senza ammettere il valore di
universale priorità attribuito al fine, e quindi alle norme. Ma che
l’esigenza invocata sia ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato
di fatto che la costruzione normativa trova, se c’è; ma che non pone
essa, ne per sò vale a mutare. Adunque la scienza normativa morale
così intesa si riduce alla determinazione delle norme di condotta
valide per una coscienza che anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza
della universale giustizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme di
condotta per una coscienza per la quale valga come suprema l’esigenza
egoistica, le norme risulterebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il
medesimo ; la deduzione sarebbe, o si può concepire che potrebbe
essere, ugualmente ragionata e scientifica. E del pari se si assumesse come
regolatrice l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incondizionata
di sò agli altri, o qualsivoglia altra esigenza e un fine possibile corrispondente.
Di qui si vede quanto sia superficiale c vuota di significato
l’opinione tante-volte ripetuta, e che forma quasi il leitmotiv di un’
opera che ha latto gran rumore, che la ragione non ci comanda che
l’egoismo. La ragione per sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO NE L’ALTRUISMO -- nè
la giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che
servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la
vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie
della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli uomini senza
scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè più razionale dell’altruismo, nè il
regresso più razionale del progresso, nè la conservazione dell’individuo
più razionale di quella della specie, nè 1’ utile proprio più razionale
che 1’ utile della collettività. RAZIONALI NON SONO I FINI, MA LE
RELAZIONI DEI MEZZI AI FINI. Ed è così ragionevole che dia la -- Dire che
la ragione non consiglia che 1’ egoismo equivale a dire che una condotta
non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una
di queste due cose : 0 che di un fine non egoistico non si possono
assegnare mezzi possibili, e vita per un’idea chi pregia più l’idea che la
vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli
che la verità. Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso
la ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della ragione può avere, come
non dubito che abbia, una efficacia indiretta nella valutazione dei fini,
non è dubbio che questa efficacia si esercita in favore di quei
fini e di quelle norme che rispondono alla quindi non si può
determinare quale sia la condotta atta a raggiungerlo ; cioè che si tratta di
un fine fuori di ogni efficienza umana. E in questo caso non ci sarebbe
senso a proporlo come fine dell’ operare nè in nome della ragione nè in
nome di qualsivoglia altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta
sarebbe rispetto ad esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico
non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine
egoistico al quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo
fine egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può
essere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto reale
o supposto ; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni
ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è allora non che
la ragione consiglia l’egoismo; ma che gli uomini sono tutti e sempre e
inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai quali soltanto riconoscono
valore per sè sono fini egoistici); e quindi, finché sono e rimangono
egoisti, non possono trovar ragionevole altra condotta all’ infuori di
quella suggerita dall’ egoismo. Sapevhm- celo ; ma non vuol dire che l
'essere egoisti sia più ragionevole die il non essere. D’altra
parte, posto che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti, anche il
precetto o il consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per avere
valore pratico, fare appello in ultima istanza a in fine egoistico, nè più nè
meno di quel che farebbero nello stessè caso i consigli della ragione. Con
questo bel risultato : che gli uomini rinuncino ad essere ragionevoli per continuare
ad essere egoisti. tendenza caratteristica dell’attività razionale:
l’universalità. Ora nel campo dell’attività pratica il fine del quale
soltanto si può concepire universale il raggiungimento, e la norma, della
quale soltanto si può concepire universale l’osservanza, sono un
fine e una norma conformi all’esigenza della giustizia. Ma, tornando al nostro
argomento, anche il riconoscere che il fino e le norme determinate in
conformità al postulato hanno, e possono avere essi solamente, la nota
razionale dell’universalità, non ne toglie il carattere necessariamente e
insuperabilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa dipendere da
questa loro universalità, si prende per concesso che l’universalità sia
assunta come criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- [Son
trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione che non solo
l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una regola di condotta, che
si possa concepire nei rapporti tra gli uomini universalmente e costantemente
osservata, senza contraddizione, o senza che sia necessario supporla
subordinata alla sua volta a una norma di giustizia. Perchè sia possibile
l’abnegazione e la rinuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli
uni si sacrifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio ;
cioè che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o
qualche altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba
poter sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a
un tacito SCAMBIO DI SERVIGI RECIPROCI), bisogna che la condotta
altruistica di ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altruistica
degli altri ; cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia governato
da una norma di giustizia. zionalc e teoretica dell' universalità la
coscienza faccia una stima pratica, attribuendole un valore e un’
autorità superiore ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza
normativa etica, alla quale mi riferisco, è la scienza della condotta
richiesta da un fine conforme all’ esigenza detta. Se si riconosce come
caratteristica del valor morale di un fine e delle norme che ne dipendono
una esigenza diversa, o se si pone come congruo ad essa un fine
incongruo, o si assumono come condizioni conformi all’esigenza di una
universale giustizia delle condizioni clic negano o limitano questa
universalità, le norme riconosciute e accettate come morali saranno
diverse. Ma non concluderebbe nulla contro la tesi che difendo
l’opporre che le norme o alcune delle norme in effetto tenute o seguite
come morali sono diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate
in conformità al postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di
esporre (piali sono le norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di
cercare che cosa bisogna ammettere per accettarle; ma di determinare
quali sarebbero le norme della condotta morale nell’ipotesi che si accetti il
postulato. Insomma si fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne
segua. Ma per negare valore scientifico a una tale costruzione
ipotetica bisogna negare la dipendenza condizionale del fine assunto da
una certa condotta collettiva e individuale; e per negarle valore morale,
bisogna negare il valore morale dell’esigenza, o ammettere che essa è o dove
essere subordinata a un’esigenza diversa. Finché non si giustifica nè l’una nè
l’altra negazione, il dichiarare oltrepassato il problema vale poco; e il
sorridere vale anche meno. Perchè esponendo questo concetto io non
mi sono dissimulato le difficoltà e le obbiezioni possi¬ bili;
sopratutto quelle che fanno capo alla affermazione comune della impossibilità
di una determi¬ nazione di norme morali che non si fondi sopra una
dottrina metafisica. Questa questione anzi ho esaminato di proposito, e
le conclusioni di quell’analisi non furono confutate. Avrei dunque, « in
tesi di diritto » ragione di ritenere spostato l’obbligo della
prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò sempre chi dissente
dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve rassegnarsi a battere e
ribattere per tutti i versi lo stesso chiodo. E prima di tutto
occorre qualche parola su quella che si potrebbe chiamare la tesi
scettica, [Che essa possa e debba aver valore anche dal punto di
vista del Diritto è cosa evidente; ma come c quanto non sono questioni
da risolvere cosi di sfuggita. della impossibilità di una qualsiasi
determinazione di norme morali. Il fatto etico è contingente,
multiforme e variabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni tentativo di
determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal sentimento e dalla
volontà e non dalla conoscenza, e non si può ricavare da un
processo di deduzione logica. Questa tesi ha il grave torto di confondere
la morale colla mora lità ; confusione sulla quale dovrò tornare
anche più innanzi. Il fatto etico e variabile. Certamente. E il
fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure variabile?
E forse perciò non si stabiliscono nonne giuridiche determinate e precise,
e non si considera questa determinazione come un’esigenza della vita sociale,
e non si misura dalla sua precisione e coerenza il progresso della vita
e della coscienza giuridica ? E non è un luogo comune la lode fatta
a ROMA di MAESTRA DEL DIRITTO? Non si venga a dire che il f atto
"iuridico riguarda solo la non, come la inorale, anche e
sopra tutto la interna ; qui si fa questione, anche per la morale,
appunto, della condotta ester na, nella quale la moralità interiore deve
pur tradursi ; ed è assurdo dire, per esempio, che non ha senso il
precetto « non frodare, e vano cercar di determinare in che la frode
consista, perché la frode è, forse più che qualunque altra cosa al mondo,
contingente multiforme e variabile. È pur fuori di dubbio che l’operare
in un modo piuttosto che in un altro, dipende dal sentimen to e
dall a vo lontà, e non dalla co noscenza del precetto ; e che non si può
dedurre da nessuna com¬ binazione di premesse l’azione. Nessun
congegno di premesse, nessun processo logico, nessun sistema di
conoscenze pone in essere la benché minima cosa ; .A}* VcttmaJ. ’l|
conseguenza di un ragionamento ò sempre fin g iudiz io, non un
’azion e ; nella morale come in qualunque altro campo; l’azione., potrà.. o non
potrà seguire, secondo che le disposizioni sentimentali c. volitiv
e sono tali o tali altre; potrà anche seguire senza che ci sia il
giudizio. Verissimo e giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito.
Perché qui è questione non di fare, ma di sapere quel che convenga fare,
chi si proponga e ammesso che si proponga un certo fine. Ora lo stabil ire
queste relazioni tra un certo fine e certe operazioni necessarie a
raggiungerla é ufficio della conoscenza, non della volontà ; e io spero
che nessun voluntarista vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol
andare, poniamo, a Canossa, conoscere quale sia la strada per arrivarvi.
E il dire che non è la conoscenza nè di un certo effetto, nè dei mezzi,
ciò che fa volere l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla all’ufficio
specifico della conoscenza; anzi, e appunto perciò, lo determina. E
rimproverare a un sistema di norme di essere per sè inefficace a muovere l’azione
non ha senso ; come non avrebbe senso pretendere che una formula chimica
produca essa il composto del quale indica la combinazione. L’ ufficio
delle norme morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia,
non può essere che un ufficio informativo, non formativo ; di guida, non
di stimolo, di indicatore, non di propulsore. E quelli che
adducono, per mostr are l a inanità di una co¬ s truzione norma tiva, l a
dipendenza dell’ azione dal se ntimento e dalla volontà , non si
accorgono di confondere essi il conoscere coll’operare, cioè, come'
s’è detto, la ni qrfllo nnIlp mo ralità, la determina- zio ne_delle norm
e colla c onformità alle norm e. Senonchò si può soggiungere che la
determinazione in questo campo non serve, perchè la conoscenza delle norme si
sprigiona volta per volta come da sè fuor dalle circostanze, per un
intuito naturale che è più fine e delicato di qualunque deduzione scientifica.
E così viene in campo, accanto alla tesi dell’ impossibilità, quella
dell’ inutilità : l a cos cienza morale rende inutile la dottrina morale.
Lasciamo per ora la difficoltà capitale che nasce dal fatto stesso
da cui è nata la riflessione critica della morale: il fatto della
diversità di contenuto nelle coscienze morali diverse; e poniamo —
senza concedere — che 1*i ntuit o basti per tutti e sempre a segnare
caso per caso la via. Non ne seguirebbe ancora l’inutilità di una ricerca
che si proponesse la determi nazione sistema tica del fine a cui .intui
¬ ti vamente tend e e delle norme che intuitivamente segue la co
scienza mora le. Come la guida istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non
basta a rendere inutile l’igiene; o come non basta a condannare la
conoscenza fisiologica, per esempio, della dige¬ stione, il fatto che
digeriscono bene, anzi di solito digeriscono meglio, quelli che non sanno
di quelli che sanno come la digestione avvenga. E veniamo alle
obbiezioni che toccano diretta- mente la nostra tesi. In primo luogo
si può osservare che la p retesa scienza della mora le, nell’ atto stesso
che dichiara di voler tenersi estranea a qualunque affermazione di
carattere metafisico, presuppone una certa soluzione di un problema
essenzialmente metafisico. Perchè, assumendo come fine morale un ordine
di effetti umanamente possibile, pone come risoluto il problema se il
fine supremo possa o debba essere umano o sovrumano, relativo o assoluto;
risolve cioè, sia pure negativamente, un problema metafisico. Cerchiamo
di intenderci. Si supporrebbe risoluto il problema, se assumendo un fine
(diciamo per brevità) umano, si ponesse questo fine come ultimo
assolutamente, come definitivamente supremo; cioè se gli si assegnasse un
valore assoluto ; e si negasse la possibilità di una ulteriore valutazione
del fine stesso ; di una sopravalutazw We^Tciafisica, per la quale
sia creduto mezzo alla sua volta, o condi¬ zione o preparazione di un
fine sopraumano. Ma questa possibilità 1* ipotesi non la esclude.
Si dirà che in tal caso il fine umano non è più il vero fine; e che
perciò le norme debbono essere ricavate da quello a cui si dà davvero
valore di fine ultimo, valore assolutamente, non relativamente,
supremo; e che questa necessità riporta il problema della determinazione
delle norme in piena metafìsica. Ma è questo che io nego ; e dichiaro di
non capire come da un fine assoluto si possano ricavare delle norme
per la condotta in condizioni finite, da un al di là le norme per un al
di qua; e dubito che quelli i quali dichiarassero di capire,
equivo¬ chino sui termini. Perchè non si potrà mai dimostrare un legame
di condizionalità tra un certo modo di operare o un fine sopra natura le
; essendo il proprio e caratteristico del sopranaturale c del
sopraumano di esser fuori dalla efficienza naturale e umana. Se si
considera il fine sovraumano come un effetto che può essere condizionato
da mezzi puramente umani esso cessa di essere sovraumano (Urmson, Saints and
heroes). Ma se invece rimane tale, cioè trascende la efficienza umana, si potrà
bensì credere ed affermare che a raggiungerlo si richiede una certa
condotta, ma non si può assegnare una relazione di condizione tra la
condotta ed il fine, cioè non si può ricavare dal fine la norma. La
riprova si ha nel fatto, evidente ad ogni osservatore non del tutto
superficiale, che, anche nei sistemi di morale teologica o metafisica, quando
si tratta di determinare le norme che debbono regolare la condotta
nelle relazioni della vita comune, famigliare e sociale, non è più
il fine assoluto quello da cui si deducono le norme, ma un fine umano,
sia prossimo, sia remoto; un certo ordine e un certo tipo di vita individuale e
sociale. Le norme dedotte da questo fine subordinato si presentano
bensì come derivate aneli’esse dal fine assoluto, perchè si assume quello
come posto o voluto o necessitato da questo ; ma in che modo dal fine
assoluto si ricavi il fine relativo, come e perchè, per raggiungere o
approssimarsi a quel fine sopraumano, sia necessario tendere a questo
fine umano, non si dimostra nè si può dimostrare. E quando par che
si dimostri, gli è che si è assunto tacitamente e come incorporato in
modo surrettizio nel fine assoluto il fine relativo, che poi se ne
deriva ; cioè in ultima analisi non si è fatto altro che porre o assegnare
un valore sopraumano al fine umano; ossia si è fatta (fucila che ho
chiamata una sopravalutazione metafisica di quel certo fine umano dal
quale in realtà sono ricavate le norme. Xon è dunque vero che
assumendo un fine umano si risolva, o si postuli una certa
risoluzione di un problema metafisico. Non si la che ubbidire a una
esigenza, la quale sussiste sia che si risolva positivamente, sia che si
risolva negativamente il problema intorno alla natura del fine
assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla quale non
si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta individuale e
sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo fine,
esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda condizionalmente
dalla condotta, cioè che sia umanamente possibile. Ma non è
un’altra esigenza, un’ esigenza propriamente morale, che il fine abbia un
valore assoluto e non soltanto relativo? Non discuto se sia o non sia ;
perchè si tratta in ultimo di constatare un fatto di coscienza, e
per la constatazione di un fatto la discussione non approda. Poniamo che
sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine assoluto fanno qualcluTco^
~~di me glio che postulare la possibilità di quel fi ne e
postularne il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità e questo valore
siano dati nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali li prendono,
per dir cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento? E se è
cosi, e non può essere altrimenti, se la credenza nel fine e il riconoscimento
del suo valore assoluto, e la derivazione da esso del (ine o dei
fini relativi della vita finita, non possono essere dati o fondati dalla
dottrina, ma soltanto assunti o affermati, è facile vedere che la
dottrina vale per la coscienza clic la sente e, direi, la vive già,
e che accetta Vaffermazione perchè la trova corrispondere a ciò che è già dato
in lei stessa ; ma non vale essa, la dottrina, a far accettare queste
sue affermazioni a una coscienza che intuisca e senta c creda
diversamente. La costruzione dottrinale metafisica non riesce dunque clic
a fare appello a un a intuizione o a una v alufazio ne di cui
ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove manca
; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da quella che essa suppone,
si trova nella stessa condizione della costruzione non metafisica. Cioè
vien meno alla ragione per la quale il valore assoluto del fine è
richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del fine non è già
assunto come una constatazione di fatto, consiste nella pretesa illusoria
che la dottrina possa e debba assicurare per questo modo alle norme
una validità universalmente riconosciuta ; e nasce da una preoccupazione
pratica analoga a quella dalla quale è ispirata l'altra pretesa che
l’Etica dia alle norme autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento
capitale: 1’ esiggenza del carattere imperativo della norma.Ho già
ripetutamente segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza
dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già
notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia della
conoscenza a determinare l’azione ; l’equivoco di con fondere la morale
colla moralità, la norma col la conformità alla norma: e quindi di
pretendere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè metafisica nè
non metafisica può dare : la garanzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia
esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’errore; e
l’uso di definire 1’ Etica la scie nza o la dottrina de i -doveri,
contribuisce a ribadire il preconcetto. nato dalla preoccupazione pratica,
che compito di una dottrina morale possa o debba essere quello di
costruire o fondare delle norme ób- hliyatorie. Mentre l’etica, dico
qualunque dottrina etica, non può fare altro che dedurre, o
indurre, o comporre a sistema, delle norme o ilei precetti, i quali
hanno valore di doveri, se e in quanto la coscienza concepisce, o meglio
sente e vuole , come dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la
prosecuzione del fine (o dei fini) dal (piale quei precetti Yi
(yivuni l&u vuxnrib I nei — sono derivati. E
se anche tutte le coscienze universalmente, in ogni tempo e luogo,
concordassero nel sentire come obbligatoria 1’ osservanza di una
certa norma, non per questo si potrebbe dire che l’imperativo è un
carattere della norma ; l'imperativo sarebbe sempre anche in questo caso un
carattere del motivo che spinge all’ osservanza della norma ; un dato
della coscienza che la abbraccia, che la riveste e la investe di questo
motivo, clic la sente così. Quale sia la preoccupazione
pratica da cui nasce e si alimenta il preconcetto, e. quale, sia il
processo per cui si viene ad assegnare alla costruzione normativa un
compito al quale essa non può soddisfare in nessun modo, ho pure già
cercato di mostrare altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto non mi
par privo di interesse mettere in chiaro con 1’analisi come i modi, nei quali
può essere interpretato e tentato il proposito di fondare una norma
obbligatoria si riducano a postulare l’esistenza dell’ obbligo, quando
non riescono a una forma più o meno larvata di imperativo ipotetico. E
come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo categorico
per dato o postulato, non se ne possa ricavare la determinazione delle
norme; ma si richieda perciò l’assunzione espressa o sottintesa di un fine,
o di un criterio di valutazione e derivazione, estraneo e indipendente da
quello. Il compito di assegnare una norma che abbia autorità
obbligatoria può essere, e lu in effetto, inteso in più significati diversi ; i
quali si possono ridurre ai quattro tipi seguenti. Dimostrare che la
norma proposta corrisponde a un sentimento, a un motivo, a una disposizione che
si manifesta nella coscienza come obbligo. Allora il senso reale ò, non
già che la do ttrina dia essa autorità o bbligatoria alle su e
norme; bensì questo: che essa riduca, traduca o formuli in norme i modi
di condotta ai quali la coscienz a si sente obbligata. Ma così la categoricità
del precetto è constatata e assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina
; e la norma obbliga solo se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i
comandi della coscienza; il suo tono imperativo è un’eco, e vien
meno se tace la voce della quale assume il tono. Presentare le norme
come ordini di un Potere (qualunque ne sia la natura)
irresistibile, che costringe volenti e nolenti a seguirlo. Intesa così
l’autorità non viene nò dalla natura delle norme, nò da quella del fine a
cui sono ordinate, ma da quel Potere del quale l’Etica fa, per dir
così, la presentazione ; anzi il suo ufficio si riduce in realtà a quello
di interprete ed araldo di quel Potere ; che essa non pone, ma a cui là
appello, e che suppone sia riconosciuto dalle coscienze alle quali
parla in nome suo. Ad ogni modo l’espressione analizzata, se
si usa ad indicar questo ullìcio, è del tutto abus iva;
l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò di determinare quale
sia la legge imposta da quel potere indis cutibile e irresist ibile, di
cui si am¬ mette o si riconosce l’esistenza. Dimostrare che
ciò che la norma prescrive dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra ogni
altra cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di essere
come ò, 1’ uomo fosse diverso ; seguisse la sua vera natura, fosse
giusto, o perfetto, o realizzasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro
che in questo senso non si là che o determinare il fine in l'unzione di
un certo tipo ideale, o il tipo in funzione del line ; ossia, in altre
parole, determinare la relazione che sussiste tra una certa natura e una
certa condotta. La qual relazione per necessaria che sia, non si vede
come [tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di
fondare in tal modo 1’ obbligatorietà, ma¬ nifestamente si suppone ebe il
conformarsi a un certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già
sentito come obbligo; e si rientra, quanto al fon¬ damento di questo, nel
primo dei casi enumerati. Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere
uomo davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo fine o
seguire una certa condotta, si avrebbe non piii un imperativo categorico,
ma un imperativo ipotetico. Dimostrare che ciò che la norma
prescrive, dece essere voluto universalmenta e incondizionatamente.
Questo ò manifestamente il significato che pare più proprio, e nel quale
intesero e intendono l’esigenza i moralisti i quali credono di poter ricavare
l’obbligo dalla natura del fine che assumono come ideale etico. Ma
l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la possibilità di
una di queste due vie o derivare l’obbligatorietà dal valore
riconosciuto al fine, assumendo questo riconoscimento come dato o
postulato ; o derivare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere al
fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di queste due tesi deve
essere considerata distinta- mente e un po’ più a lungo. Posto pure
che al fine assunto fosse riconosciuto in realtà universalmente valore
di sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo che il sentirlo e
riconoscerlo come sommo bene porti con se il sentirsi obbligati a volerlo
e cercarlo. Questo riconoscimento non genera la coscienza del-
Pobbligo, bensì ne mostra la ragionevolezza, fa che la coscienza approvi
l’autori tà ob bligante; cioè giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora
una tale giustificazione riesce a questa alternativa: o serve a dimostrare
che Insognerebbe ragionevolmente trovar buona e seguire la norma anche se non
si sentisse l’obbligo, perchè la norma è ordinata a quel certo fine che è
riconosciuto come sommamente desiderabile. E in questa forma la pretesa
fondazione dell’ imperativo categorico si riduce alla formulazione di un
imperativo ipotetico, che si sostituisce o si aggiunge al categorico. 0 riesce
a un’argomentazione di questo genere : Siccome è bene sommo il fine, è
bene l’osservanza della norma; e poiché si ammette o si suppone che la
coscienza d’un obbligo assoluto sia necessaria a garantire questa
osservanza, l’imperativo categorico appare la condizione sine qua non,
acquista valore di mgzzo indispensabile al proseguimento del
fine. Nel primo modo si viene a dire che l’impera¬ tivo categorico è
giustificato perchè è bene ciò che esso comanda; nel secondo che è
giustificato perchè è bene che esso comandi in quel tono. Ma nè l’uno nè
l’altro modo nè ambedue insieme riescono a fondare l’obbligo assoluto;
anzi appunto perchè 10 giustificano gli tolgono il carattere di
categorico. 11 che se nel primo caso è più evidente, non è
meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la categoricità dell’
imperativo sia condizione necessaria all’osservanza della norma, non ne
viene perciò che l’obbligo sia categorico, ma soltanto che sarebbe bene
che fosse, che è desiderabile che sia: ossia la pretesa derivazione che se ne
fa, mostra la necessità di una condizione, non la pone in atto se
manca; pone in chiaro un’esigenza, non la sod¬ disfa. In secondo luogo la
dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria, perchè a
convincere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna le ragioni; il
che equivale ad ammettere che venendo meno queste ragioni verrebbe meno
quella necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come
categorico, finché è utile che valga; come chi dicesse un’ autorità che si fa
valere incondizionatamente sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza
d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare
da un fine, qualunque sia il valore che gli si attribuisce, non può farla
sorgere; se c’è, la giustificazione riesce ad assegnare le condizioni della
sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. Il che può però aver un senso, se si guarda bene ; ma in
un caso soltanto : nel caso che la coscienza la quale si rende
ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’
im¬ perativo categorico, e la coscienza nella quale 1’ imperativo
vale come categorico, siano due coscienze diverse ; ossia nel caso
che una coscienza riconosca la necessità che 1’ imperativo valga
incondizionatamente per un’altra coscienza. Che è un senso assai
meno strano di quel che possa parere a prima vista. Oppure
finalmente si intende che apprendere ciò clic è posto come line equivalga
per ciascuno a dover riconoscerlo come tale; che non si possa
conoscere la natura del line senza sentirsi obbligati a riconoscergli
valore di bene supremo ; cioè che la conoscenza generi la coscienza
d’un obbligo. — Questa che è in sostanza la tesi di¬ fesa, tra gli
altri, con grande vigore dal nostro SERBATI, è veramente l’interpretazione
tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare l’obbligo
dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento oggettivo nella natura stessa di
quello. Ma — senza dilungarmi su questo tema in una critica troppo
nota — è inevitabile questa alternativa : o il dover riconoscere esprime una
necessità puramente logica, e non può dare quello a cui è invocata, cioè
nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore; o vuol esprimere una
necessità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè pretende ricavare
da una determinazione obbiet¬ tiva la constatazione di uno stato
subiettivo, la quale presuppone appunto resistenza di quella co¬
scienza dell’obbligo, che crede di far nascere e senza della quale la
constatazione non è possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta
nel primo tipo di interpretazione; quando non si voglia ammettere
questa tesi : che è obbligo rico¬ noscere quel fine come sommo bene e
volerlo, così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia
che la coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore.
Ossia non si ammetta la tesi dell’obbligo di credere anche senza o contro
l’attestazione della coscienza. Il che renderebbe inevitabile l’appello a una
autorità esterna, alla quale la coscienza si deve inchinare; e
farebbe della morale del bene oggettivo una morale dommatica, che rientra
nel secondo tipo. Adunque l’analisi dei modi nei quali può
essere interpretato e tentato il compito di fondare una norma obbligatoria
conduce a questa conclusione: o si intende che « fondare una norma
obbligatoria » voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del
fine; e allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente Kant,
non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico; o
si intende che voglia dire assumere come dato l’obbligo e determinare le
norme in conformità a questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza
in questione non è soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta
, non posta o dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e
validità sussiste all’ infuori della costruzione dottrinale, che la postula, ma
non la fa essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come
esistente non la pone in essere, nè ne legittima per sè
l’assunzione. Per tal modo, se il difetto capitale di una scienza
normativa etica conforme al concetto esposto sul suo ufficio e i suoi
limiti, è quello di non^ poter presentare le norme col carattere di
imperativo categorico, questo difetto è comune, e non potrebbe essere
altrimenti, a qualsiasi costruz ione dottrinale. die non si proponga di
derivare le norme da un imperativo categorico assunto come dato.
Ed allora resta da vedere se. prendendo l’imperativo categorico per dato
o postulato, si possa ricavare da esso la determinazione delle norme; o
se non si debba ancora ricorrere all’ assunzione espressa o sottintesa di
un fine, o di un criterio di valutazione e di derivazione, estraneo e
indipendente da quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per
sè in suffi¬ ci ente alla d eterni i nazione .-dei le jparmc morali
è manifesto, qualora si intenda con esso assumere null a più che la
forma destinata a rivestire un contenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel
qual caso è pur manifesto che, appunto perciò, il dato dell’obbli-
gazione rimane estraneo alla costruzione dottrinale. Ma non è
altrettanto evidente, quando si ammetta che nel dato dell’ obbligazione è
contenuta ad un tempo la forma dell’ imperativo e la m ater ia del
precetto ; ossia che da questo dato si possa ricavare, hjUifot vtA
»pUóh UàwtiH o ad esso debba conformarsi e subordinarsi sia la
determinazione del fine sia il contenuto delle norme. Senonchè,
quando si prenda come dato non la pura ferina soltanto ma un cer to
contenuto, si è inevitabilmente condotti, come l’analisi precedente
ha dimostrato, a fondare la morale .sull’autorità, superiore ad ogni
discussione, di una certa rivelazione, interna o esterna ; e ad assegnare all’
Etica 1’ ufficio di espositrice e interprete di questa.
Rilevando questa conseguenza io non intendo affatto di darle il
valore di una dimostrazione per assurdo. La tesi nella forma a cui è
ridotta ò tut- t’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in confronto
dell’ affermazione generica e ambigua che « la morale deve dare norme
obbligatorie » il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma appunto
perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si trova di
fronte. Tanto se si intende che la ri velazio ne da interpretare sia
in|£g^ quanto se si intende che sia esterna, si presenta la medesima
difficoltà; quella difficoltà, antica e notissima, dalla quale venne
il primo stimolo alla riflessione e alla critica nel campo della morale: l a
pluralità delle rivelazioni. Poiché i responsi della cosc ienza
morale sono s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono divèrse e
in parte op poste le rivelazioni religio se, resta, o che si riconosca a
tutte la medesima autorità, cosi co me i l tono imperativo è. il
medesimo; o che si scelga. f Quan to alle. religion i ò .troppo
chiaro che nessun criterio ricavato dalla rivelazione stessa può
valere a dimostrar l’autorità di una piuttosto che del- 1’altra,
poiché t utte si danno come assolutament e certe e indiscutib ili ; e le
stesse prove sulle quali una rilevazione attesta la sua autorità sono
ado¬ perate da ciascun’ altra per asserire la propria, e da tutte
risuona sui precetti morali diversi il me¬ desimo tono di comando.
Si cercherà il criterio della scelta nella natur a del le cose co
mandate o proibite, come avviene quando si parla di m aggior sapienz a o
el evatez za o n obiltà de i prec etti morali di una religione rispetto a
quelli di un’altra? Allora è i ^conte nuto dei precetti morali che viene
assunto come criterio dell’autorità della rivelazione. E il
valore di questo contenuto, che è così usato a provare la superiorità di
una rivelazione sulle altre, si può dunque riconoscere
indipendentemente dal suo presentarsi sotto la forma di un comando
rivelato, dal momento che è esso invocato a provare l’autorità del comando. Ma
allora I’ulhcio dell’Etica lungi dall’essere quello di interprete
e araldo di una rivelazione, 6 quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^
rivelazio ni. Il che importa a ben più forte ragione che tanto il
fine quanto le norme morali si suppone che possano e debbano essere conosciute
c de¬ terminate a ll’ infuori di ogni snodale rivelazione.
cioè all’infuori da ogni appello all’autorità. Ciò che vale per
l’autorità di una rivelazione esterna, vale per quella di una
rivelazione interna. Tra due coscienze, delle quali rispetto alla
mede¬ sima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra il non
fare, il criterio di valutazione comparativa non può esser dato dal
carattere imperativo, che è comune ad ambedue, ma deve essere un
altro. Ed anche allora il criterio che serve alla valutazione
comparativa sarebbe esso in realtà quello da cui dipende cosi la
determinazione come la giustificazione delle norme. Non resterebbe che
riconoscere ja mede¬ sim a autorità a tutte le rivelazion i. Il che
importa l’una e l’altra di queste conseguenze: o la assoluta indifferenza
del contenuto per qualsiasi luogo -“ -- e tempo; o la
limitazione a determinate condizio ni storiche dell’autorità e del valore
di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima (1), si presenta la
domanda: Questa limitazione ha o non ha Mi permetto di non fermarmi ad
esaminare la tesi della as¬ soluta indifferenza del contenuto. Sarebbe
come sostenere nel campo della terapeutica che ciò che importa nella
ricetta è la firma della sua ragion di essere nelle condizioni storiche,
dalla cui presenza è circoscritta la sua validità? Se la
limitazione non dipende da queste condi¬ zioni, ma essa pure non ha altra
ragione di es¬ sere all’ infuori dell’ autorità o del carattere
impe¬ rativo col quale hic et nunc si presenta, allora si ammette
che, astrazion l'atta da questo carattere di obbligatorietà col quale una
certa norma si presenta in quel certo tempo e luogo, non vi sarebbe
nessuna ragione di preferire nelle stesse circostanze una norma ad un’
altra, cioè si giunge per un al¬ tra via all’indifferenza del contenuto
. Se poi questa limitazione ha la sua ragione di essere nelle
condizioni storiche stesse, entro le quali è valida, cioè in una parola
se ò relativa a queste condizioni, allora si ammette che sono
queste condizioni il criterio della limitazione ed è la corrispondenza a
queste condizioni storiche il criterio della validità. Cioè si ammette
che vi è qualche cosa che dà alla norma il suo valore all’ infuori del1’
obbligazione e al disopra dell’autorità obbligante, medico, e le
prescrizioni di qualunque genere si equivalgono 1’ una l’altra. E forse è
ancor meno manifestamente falso questo che quello. Non sarà però
inopportuno avvertire che ogni questione intorno al merito dell’ agente
rimane qui al tutto in disparte. (lT E lascio^ le difficoltà che
nascono dalla necessità di ammettere un’ altra rivelazione alla cui autorità si
possa ricondurre la limitazione in discorso. dal momento che esso
serve anche a stabilire i limiti entro i quali 1 autorità è riconosciuta
come valida. Cioò si viene a riconoscere ancora come 1’ obbligazione non
possa essere un dato sufficiente alla determinazione e valutazione delle
norme, e come per essa non solo non possa essere negata, ma venga
confermata la legittimità di una scienza normativa morale. Senoncliè a
questo punto mi sento opporre un nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non
^esiste la Morale Kantiana ? Non ricava egli dalla volontà buona, dal
dovere, dall’ osservanza della l egge perda legge, la norma morale
suprema, nella notissima formula, nella quale, indipendentemente da ogni
particolare rivelazione storica, c sopra ogni speciale contenuto
materiale, si raccoglie tutto un sistema di norme razionali?
E se la sua morale è f m^gle. cessa perciò di avere il suo valore,
e sopratutto cessa di esistere, e, a fortiori, di essere possibile?
Certamente a nessuno può venire in mente di negare la possibilità di un
sistema che ò esistito ed esiste, e a me, forse meno che ad altri, di
negarne il valore. Così la grande costruzione razionale dei
doveri dell’ uomo del Kant, come la grande costruzione razionale
dei diritti dell’ 'uomo che piglia nome dalla Rivoluzione Francese sono
ben lungi dal melo ri tare il facije compatimento col quale parlano di
astrazioni e di formalismo certi fonografi della sociologia. Ma qui
al proposito nostro importerebbe vedere la costruzione razionale del Kant
sia fondata sul d ato dell’ obbligazione, co me pare , o non ni ut trist
o sulbesigenza dell' universalitaTche n KanT crede bensì trovare
implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T<
ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ ide
a_di ' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap- p
robazione interiore dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza
del dovere. Perchè i l concetto iÌT"degg e che serve al Kant
per passare dal dato del dovere all’esigenza dell’uni¬ versalità, non è
un elemento contenuto nel dato stesso e che possa esserne ricavato
analiticamente, ma (L una sintesi nella qual e insieme
coll’obbliga- zioneè già assunta l’esigenza dell’universalità che
la giustifica. Ed è questa esigenza dell’ universalit à, non il dato
dell’ obbligazione che fornisce al Kant il criterio supremo della
morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche nella morale
kantiana, l’imperatività non sia un dato sufficiente alla determinazione
delle norme, e come in realtà venga assunto non solo un criterio
(1) Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr.
Prolegomeni ecc. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL Kv non ricavato da quella, ma
implicitamente anche un certo contenuto — occorrerebbe un’analisi
assai meno sommaria; poiché non è questo un argomento da sbrigarsi
così alla lesta. Basti per ora non aver omesso 1’accenno. IL
FONDAMENTO INTRINSECO DEL DIRITTO secondo I VANNI Il
Fondamento Intrinseco del Diritto SECONDO VANNI. Il volume
dal titolo Lezioni di Filosofìa, la cui pubblicazione fu curata con riverente
pietà e con devota ammirazione dalla Vedova e da alcuni tra i più valenti
Discepoli poco dopo la morte immatura dell’Autore, è forse tra gli
scritti del Vanni quello in cui la sua dottrina appare più compiutamente
ordinata a sistema, e nel quale a un tempo si rivelano felicemente
congiunte le qualità dello scienziato e dell’insegnante; e veramente si
può considerare come il testamento scientifico del celebrato Maestro.
Certo, qualunque giudizio porti sul fondamento e sulla validità
intrinseca del sistema, nessuno può disconoscere la larghezza e la
profondità della coltura filosofica e giuridica, e la chiarezza della
trattazione; e sopratutto la sincerità e, direi, 1’ onestà scientifica
che ò propria di chi medita e scrive per amore disinteressato del
vero. Vanni, Lezioni di Filosofia, Bologna, Zanichelli. La
l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il tre ricerche : la ricerca
critica ; la ricerca sintetica o lcnomenologia giuridica; e la
ricerca deontologica. Nella prima egli comprende non soltanto
la determinazione dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti della filosofia
del diritto colle scienze affini, ma anche una indagine preliminare di
critica gnoseologica. che GROPPA li accordandosi con FRAGAPANE ritiene, a mio
giudizio giustamente, estranea al compito di questa disciplina.
Giustamente, finché si intende che la filosofia del diritto debba
istituire una sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se si
intende anche di negare la opportunità di premettere, come in fondo fa Vanni in
queste Lezioni, quali sono i presupposti gnoseologici accettati. Poiché
ogni dottrina deve pur assumerne, di una o d’altra speeie, esplicitamente
o implicitamente. Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere
e si applicano di solito nelle ricerche speciali tacitamente. Ma compito del filosofo
è appunto, come osserva Rosmini, di c omprendere e fo rmulare elii
aramente quello che gli altri sottintendon o. Del resto il fatto
che Vanni voglia prender le mosse da una v alutazione critica sulla
natura e al sapere giuridico, prova quanta larghezza di pensiero, e
direi, di coscienza filosofica egli portasse nelle sue ricerche, e con quanto
scrupolo sentisse l’obbligo di rendersi conto anche dei più lontani
e generali presupposti della sua dottrina. La seconda ricerca si
sdoppia in due parti : statica, che determina la nozione logica del
diritto, inducendola dell’analisi del diritto positivo dei popoli più
progrediti, e similmente dello Stato; dinamica (genetica o storica) che studia
la genesi e la formazione storica del Diritto e dello Stato; e si
potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del diritto. Finalmente un’altra
ricerca di carattere etico o valutativo ha per oggetto il problema della
Giustizia, ossia del fondamento intrinseco e delle esigenze razionali del
diritto. Questa, che costituisce la parte ultima, ò senza dubbio la più
importante, perchè riguarda quello che è il problema centrale della
filosofìa del diritto; e nella cui soluzione principalmente Si manifesta la
nota carat¬ teristica delle diverse dottrine. E la dottrina del
Vanni, benché l’indirizzo e. direi, la moda oggi prevalente la consideri
oltrepassata, merita di essere ricordata e discussa; perchè mentre intende
il compito della filosofia del diritto non soltanto come
storico-genetico, ma anche come normativo, (nel che si accorda coll’
idealismo) si propone di assolvere questo compito tenendosi nei limiti d’una
costruzionc puramente scientifica, ed escludendo ogni postulato di natura
metafisica; nel che consente col proposito, se non col metodo, dello
storicismo c del positivismo. Ora il difetto principale della sua
dottrina, non nasce, come può parere a prima vista, dalla pretesa e
comunemente ammessa inconciliabilità tra il compito normativo e la
validità scientifica ; chè anzi questo intendimento, chiaramente
concepito e tenacemente proseguito, di una costruzione normativa
scientifica del diritto, è a mio giudizio, un alto titolo di merito; ma
nasce dall’essersi fermato, direi, a mezza via nel rilevare a quali
condizioni sia possibile una costruzione etico-giuridica che soddisfaccia
a un tempo ad ambedue le esigenze. La jiottrina d VANNI, per quel che
riguarda il fondamento intrinseco del diritto e il metodo, si può
considerare come una forma di quella che Spencer ha propugnato e difeso col
nome di utilitarismo razionale: e infatti, pur rilevando giusta¬ mente
l’importanza e il valore del pensiero del Romagnosi, egli la riconosce
come il precedente più immediato e più notevole della sua. Ma la
trova erronea per tre rispetti ; perchè ammette un diritto
naturale; perchè pretende di costruire una norma etico-giuridica assoluta
; e perchè Analmente lo Spencer intende le condizioni di esistenza da
cui le norme devono essere dedotte, in un senso puramente biologico.
Principalmente su questo ultimo punto egli accentua il suo dissenso,
prendendo come base, non le condizioni dell’esistenza individuale e
la legge della sopravvivenza dei più adatti, ma le condizioni
dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica sta dunque nella
necessità per chi vive in società (e la socialità è la esigenza suprema
del1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed alle esigenze
poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra intrinsecamente necessarie
quelle forme e quei modi di condotta che sono richiesti dalle condizioni
della vita in comune. Fra queste condizioni ve ne sono alcune che hanno
un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto rappresentano
l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione; e nell’osservanza
delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste potrebbero non essere
spontaneamente osservate, è necessario che le azioni relative ad esse non
restino abbandonate alla buona volontà e alla spontaneità e che con una
norma di condotta irrefragabilmente obbligatoria ed eventualmente coattiva
s’induca all’osservanza anche il volere recalcitrante. Quindi in altri
termini la ne¬ cessità del diritto, il quale ci apparisce allora
come una norma che ha da garantire le condizioni fonlamentali per la coesistenza
e la cooperazione umana. Cosi non soltanto l’Etica, ma anche il Diritto
viene ad avere un fondamento intrinseco, e viene ad averlo anche lo
Stato, il quale è indispensabile alla funzionalità (tei Diritto » Xon è
necessario un lungo discorso per vedere che quando il Vanni crede di
fondare in questo modo l’esigenza razionale del diritto finisce per
assumere in realtà come presupposto il principio che egli vuole, e crede
di dovere, derivare apoditticamente, e al quale appunto è subordinato il valore
di necessità razionale assegnato alle norme ideali che devono servire di
modello e di criterio di valutazione. Infatti la relazione naturale e
necessaria tra una certa condotta e certe condizioni, necessarie alla
loro volta alla convivenza e cooperazione sociale, serve bensì a stabilire che
quella condotta deve essere riconosciuta come un mezzo necessario
al fine di conservare e promuovere la convivenza e la cooperazione
sociale, posto che questo sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non
vale a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo come fine;
e fine precedente in valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par
che intenda superare la difficoltà osservando che la necessità puramente
naturale in quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in
una esigenza ed in una necessità razionale. « Essa allora esprime un
principio logico fondamentale, il principio di contraddizione ». Se in
forza della na¬ tura stessa delle cose c dei rapporti causali, per
ottenere un certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere
un certo risultato è indispensabile un certo modo di condotta, impliche¬
rebbe contraddizione che si potesse impiegare un mezzo diverso o seguire
una condotta diversa. Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è
certamente tra il pensare che una condotta è indispensabile a raggiungere
un certo fine e pensare che questo stesso fine possa essere raggiunto con
una condotta diversa ; ma io non violo nessun principio logico e non sono punto
in contraddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende
da certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i
mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’
ordine cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce 'iì
processo della^ evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo
modo, che spostare il presupposto; cioè ammettere, ancora e sempre, che
si riconosca valore di fine subiremo a questo adattamento all’ ordine
cosmico. Il quale presupposto potrà o non potrà venir
legittimamente assunto come dato o postulato ; ma è e rimane un
presupposto. E perciò le norme ideali che se ne deducono hanno questo
valore di nonne nell’ ipotesi che si accetti come fine supremo quell’ordine
di effetti dal quale sono dedotte. Ma rilevando cosi il carattere
necessariamente ipotetico della costruzione, alla quale riesce anche
il « sistema delle condizioni della vita in comune del Vanni, io non intendo,
anzi escludo, che questo carattere ipotetico costituisca per sò un vizio
proprio di questa e di tutta una classe di costruzioni etico-giuridiche,
come pretende P idealismo metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso
sfuggire a questo carattere ipotetico riallacciando quel tipo di
convivenza e di relazioni sociali, che assume come modello e in
conformità al quale determina le norme ideali, a un fine di natura
metafìsica, che abbia perciò valore assoluto. Dove sono da notare,
sia detto di passata, due circostanze, a mio giudizio, decisive : Primo :
che le norme ideali sono pur sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni
sforzo od ogni apparenza contraria, dal tipo sociale assunto come
modello, e non dal fine metafisico, della cui autorità e del cui valore
esso si riveste. Secondo: che il valore assoluto di questo fine metafisico
non può essere che assunto aneli’esso o come dato o come
postulato. La verità è semplicemente che un sistema di norme
giuridiche contempla di necessità un certo ordino di vita individuale e
sociale; e che la validità dello norme dipende dal valore che si suppone
riconosciuto a questo ordine di vita. Questo riconoscimento di valore,
questa valutazione del fine è dunque il presupposto inevitabile della
validità etica del sistema (la quale non esclude la validità scientifica, ma
non si esaurisce in questa); e la questione si riduce a decidere se si
pub o non si può assumere legittimamente come dato o come postulato
questo riconoscimento del valore che nel sistema è assegnato al
fine. Ora è nel rispondere a questa questione, non nel
carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza del sistema di Vanni e
dell’ indirizzo naturalistico in genere; e alla quale del resto non
riesce a sfuggire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una risposta adeguata
alla questione esige che si determinino le condizioni richieste perchè a un
ordine di convivenza e di CO-OPERAZIONE SI RICONOSCA VALORE DI FINE
UNIVERSALMENTE REGOLATORE -- valore, direi, piuttosto che di summum bonum
di PRIMVM DESIRABILE. Ossia perchè si possa ammettere che tutti i soci
consentano liberamente nel valutarlo e volerlo come tale. E che si assuma poi,
come modello per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che
soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale configurato in conformità di
quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il
dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o di un
certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione
può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile l’osservanza
dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere
voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma
non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo per
la coscienza della sua necessità naturale. chi potrebbe legittimamente
scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione a un
male con la aspirazione a un bene? Nemmeno gioverebbe, d’altra
parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo riconoscere tale l’affermazione (poiché qui di dimostrazione
non si potrebbe parlare) che esso ha un fondamento o una giustificazione
metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli assegna
questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che esso gli
attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco? Ma Vanni (per
restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato qui se
non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con tutta
probabilità che per la via indicata come la sola legittima si riesce a
una costruzione pura¬ mente astratta, di un tipo utopistico di
società che non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che
si ricade nei difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola
storica, s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un
diritto assoluto valevole per tutto c sempre, e senza riferimento
possibile alla variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come
egli fa, il fondamento intrinseco del Diritto n ella conformità della
condotta alle condizioni richieste dalla vita in comune, questo
riferimento non solo appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste
egli nel rilevare, le condizioni della vita in comune non sfuggono al
moto dell’ evoluzione e della storia ; e se anche alcune hanno il
carattere d’una certa uniformità e costanza, altre invece variano
correlativamente al grado di sviluppo umano e alle forme di
organizzazione sociale, e sono proprie di ciascun grado e di ciascuna
forma. Il che importa che debbono variare corrispondentemente le norme
regolatrici; ossia che nell’applicazione « il sistema etico-giuridico
fondato sulle condizioni di esistenza va combinato col principio di
evoluzione e subordinato al criterio della relatività storica.” Ora,
lasciando di rilevare come con questa subordinazione si assuma sempre per
presupposto che l’osservanza delle condizioni richieste dal tipo sociale
storicamente dato, abbia, per il solo l'atto che la coscienza ne
riconosce la necessità storica, anche valore di fine, importa notare come
si venga con ciò a rinunziare ad ogni valutazione comparativa delle
diverse forme storiche del diritto. Perchè una valutazione comparativa
richiede di necessità un criterio, il quale non può essere dato dalla
corrispondenza alle condizioni storiche. E se si prende un criterio
diverso, allora è la conformità a questo criterio e non la necessità
storica, che si assume come esigenza razionale o come giustificazione
inrinseca del diritto. È certo che se una costruzione
etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere sospesa, come
gli dei dell’ORTO, tra cielo e terra, e fuori di ogni possibilità di
applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe accettare la
tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del diritto qualsiasi
funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura sociologia. Ma
esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe essa dipendere,
invece che dalla radicale sterilità di una costruzione veramente razionale,
dalla preoccupazione di giustificare eti- Se, e a quali condizioni, una
tale costruzione sia possibile, è argomento del quale si è già discorso
altrove e che non può esere toccato di sfuggita. camentc forme di diritto
che non sono eticamente giustificabili, di assumere come condizioni
richieste dalla giustizia e conformi ad essa certe condizioni,
reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione di quelle richieste
dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, In conclusione da trarne
sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile come
criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le condizioni
reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme ideali non
possono essere applicate simpliciter a condizioni diverse dalle supposte.
Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come criterio per
determinare quale sia in un dato momento storico la condotta sociale e
individuale che, nei bifidi delle esigenze reali necessariamente imposte
dalle condizioni in effetto esistenti, è più acconcia a favorire la
trasformazione di queste nella direzione se¬ gnata da qualle esigenze
ideali, ossia tende ad attuarle. il che importa che le esigenze
corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento storico
non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto, ma forniscano
il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile tradurre in
norme di diritto positivo le norme ideali. Ossia in breve:
l’esigenza razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino
sociale perchè possa aver valore di fine; la realtà storica. La Dottrina
delle Due Etiche di Spencer e la Morale come Scienza. Per Una
Scienza Normativa Morale Il Fondamento Intrinseco del Diritto
secondo il Vanni. Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta.
Keywords: implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio
della cooperazione, cooperazione e desiderabilita universale, ragione e
cooperazione, cooperazione come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed
egoism, amore proprio, benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Juvalta on the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library,
Villa Grice.
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