Luigi Speranza -- Grice e Nannini: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei corpi animati – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice:
“Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini
about the naturalism: the ‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action,
‘l’azione’ – He is the Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent
of the Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e,
inizialmente, con Luporini. Ha
accompagnato la sua attività di ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni
accademici con una intensa attività politica a Siena come militante del Partito
Comunista Italiano. È stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di
Filosofia Teoretica all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni
anche filosofia della mente ed è stato principale cofondatore e direttore di
una scuola di dottorato interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre
più volte, visiting professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e
Oldenburg. Attualmente in pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso
l’Siena e dal è direttore di Rivista
Internazionale di Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono
incentrati sulla filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e
la storia del pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia
analitica ed in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare
il “naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come
Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello
spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il
proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in
meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla
teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato
soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di
naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del
problema mente-corpo. Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il
Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella
filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di
filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” -- Una introduzione storica alla filosofia dell’animo,
Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo,
Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici
sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società”
Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di
Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero
di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia»,
Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in
L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo
forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia
materialistica, in «Giornale di metafisica», Nicolaci G., Perone U., Ontologia e
metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in
Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come
Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società:
Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello:
Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e
filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano,
Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le
scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C.,
Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo
scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in
Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena),
SeB Editori, In-conscio, co-scienza e
intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta
cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per
una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, N., La Nottola di Minerva:
Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Sandro
Nannini. Nannini. Keywords: corpi animati, l’interazione dei corpi animati,
l’ego come direttore assente, freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi
Speranza: “Grice e Nannini: il santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The
Swimming-Pool Library. Nannini.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia. Grice e Nardi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Alighieri -- dantesco
– Alighieri – la scuola di Spianate -- filosofia toscana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Spianate).
Filosofo toscano. Filosofo italiano. Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice:
“The Italians are fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito di una famiglia
benestante, composta di nove figli, viene avviato sin dalla tenera età alla
carriera ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati francescani a Buggiano e
diventa chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce dal convento di
Buggiano perché non aveva intenzione di continuare nella vita religiosa,
avendone perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e teologia
frequentando il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di Pisa.
Volendo proseguire gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada, quella
di entrare in seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di Pescia
e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento Modernista,
condannato da papa Pio X con l'Enciclica Pascendi. Nel 1908 Nardi
sostenne l'esame di concorso per una borsa di studio triennale conferita
dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di frequentare un corso di
perfezionamento filosofico presso l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio).
Nel 1909 Nardi aveva da poco iniziato a frequentare l'Università
Cattolica di Lovanio che già decise l'argomento della sua tesi di laurea
Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante,
che venne discussa con Wulf. La lettura dell'opera di Pierre Mandonnet, nella
parte dedicata a Sigieri, non persuadeva N. sulla soluzione data al problema
della presenza di questo averroista nel Paradiso dantesco. Due pregiudizi la
inficiavano: il primo “consisteva in un'inesatta visione storica di quello che
nel Medio Evo e nel Rinascimento era stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio
del Mandonnet era quello di ritenere il pensiero filosofico di Dante conforme
in tutto e per tutto a quello d’AQUINO." Nel momento in cui N. Entra a
Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non abbracciò la filosofia
neo-scolastica che quella Università belga stava elaborando. Non aveva senso
per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento, nell'epoca del positivismo,
l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva l'unificazione di fede e
ragione. Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel corso della sua vicenda
di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al massimo rigore
filosofico, risentendo come una traccia indelebile dell'esperienza di Lovanio,
dove dovette affrontare studi scientifici. Per Nardi l'interpretazione del
testo coincide con la libertà, ma tale atto libero non può attivarsi senza uno
scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale documentario, l'esatta
interpretazione filosofica dei testi. Ottenuta un'ulteriore borsa di
studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di filosofia a Vienna, Berlino,
Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi su Sigieri nella “Rivista di
filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri interventi spesso critici con
la linea editoriale del periodico. scritto ai corsi dell'Istituto di Studi
Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in Italia la sua laurea in
filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la tesi di laurea in
filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano Abano. Collabora
alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale mantenne per lunghi
anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il sacerdozio. In una
successiva lettera indirizzata al
vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato l'ambiente familiare a
spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere e minacce. Di trasferì
a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo classico Virgilio, dove vi restò
fino al quando si trasferì a Milano. Ha da Giovanni Gentile un incarico per
l'insegnamento della filosofia medievale presso la facoltà di lettere
dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra universitaria (se non dopo molti
anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in base al quale la curia romana escludeva
i sacerdoti secolarizzati dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna
D’Oro” dal presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris
causa da parte dell’Padova e da parte di quella di Oxford. Le opere e gli
studi su Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo
allo studio del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di
Sigieri di Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione
schemi consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che
ci permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una
costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un
vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era
trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe
polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli
fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle
sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi
sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto
Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di
un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con
il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà
al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue
ricerche. L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo
della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai
il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il
senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della
Divina Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro
tutte le buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia
è custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una
profetica visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la
filosofia di Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi
complessa tendente a superare le antinomie e che mantiene intera la sua
spiccata originalità, il suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo
occorre da una parte ristabilire il preciso significato delle parole in
rapporto alla terminologia filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire
dall'altra l'ambiente culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si
muoveva per arrivare a determinare la fonte, il libro letto da Dante. N. ha
gettato luce su molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia
araba e neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e
Sigieri più di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello
scolasticismo aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema
della "visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre
come nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non
è finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in
virtù di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al
terzo cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente
nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia
si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale
culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine
mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di
trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti. L'opera
dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che
termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del
tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con
le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La
terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia,
poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi
compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di
Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è
poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la
speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi
l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è
"il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia
della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una
visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei
Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia. Saggi: “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI
-- ; “Critica dantesca” (Milano, Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di
Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia
e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza). Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale
Critico della Filosofia Italiana",
Premi Feltrinelli, su lincei, Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto
Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem
Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone
del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica
sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le
fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri
di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri,
Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo
Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al
paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”,
Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della
filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e
Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento
italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura
medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica
e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita
in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il
naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma, Universitarie; “L'alessandrinismo nel
Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico, I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica”
La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della
filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del
commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della
verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale”
(Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano,
Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di
Simplicio al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il
carattere morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere
inedite di Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le
meditazioni di Cartesio, Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”,
Roma, Pomponazzi e la cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della
filosofia italiana” Il dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T.
Gregory, “La Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a
Leibniz, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora
qualche notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia
italiana, Marcantonio e Zimara: due filosofi galatinesi, “Archivio storico Pugliese” Un'importante
notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a Padova alla fine del sec. XV,
“Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo alla biografia di
Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura e cultura del
Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze, Sansoni); “Appunti
intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura, Roma);
“Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale. Convegno
di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i Testi di
Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in Studi di
Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la teoria di
Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas vergilana –
(Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in Umanesimo
Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi” (Monnier,
Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti di lezioni
e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di studi sul
Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier,
Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai
tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di
critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del
Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura
veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina
Commedia, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia dantesca,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza
scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA TRADIZIONE ARISTOTELICA NEL VENETO, UNIVERSITÀ DEGLI
STUDI DI PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO PADOVANO. SANSONI, FIRENZE. Il volume di N. è stato pubblicato a cura e sotto gli
auspici del centro per lo studio della tradizione aristotelica nel Veneto e del
Comitato per la storia dell'università di Padova. Stampato in Italia. N. adere
di buon animo a che venissero riuniti in
un volume, per comodo degli studiosi che ne fanno ricerca, alcuni saggi sull'aristotelismo
padovano e particolarmente su quell’interpretazione del pensiero del “LIZIO”
(antica ortografia di “Lyceo”) che prende il nome d’Averrois che 7 gran
commento feo, sparpagliati, come numerosi altri loro confratelli, in varie
riviste ormai non più facilmente
accessibili. Questi saggi abbracciano un periodo assai lungo di ricerche
dal igi2 al ig^ó,
e nel loro insieme offrono un quadro sufficientemente completo, per
monografie che si richiamano fra loro, della filosofìa a Padova dai tempi di
Abano (SCHIAVONE, si veda) a quelli di ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si
veda), quando ormai, a Padova e altrove, il LIZIO comincia a volgere
decisamente al tramonto, per il nascere delle nuove scienze della natura e del
nuovo metodo di ricerca filosofica. Fuori della presente raccolta,
già abbastanza pingue, son rimasti i saggi stille opere inedite di POMPONAZZI
(si veda), meno quello relativo alla miscredenza di VERNIA (si veda), perché
essi potranno essere riuniti a suo tempo in un volume a parte, ed altresì
quello sulla letteratura e cultura veneziana, apparso in La civiltà veneziana pella
Fondazione Cini, che potrà meglio figurare insieme ad altri, che vado
preparando, sulla filosofia veneziana del Rinascimento. Nella formazione del
presente volume non è stato sempre rispettato l'ordine cronologico nel quale i
saggi qui compresi sono apparsi, per il bisogno di contemperarlo con la successione storica degli argomenti trattati.
Ad ogni modo, sono stati sempre indicati in nota la data e il luogo ove
ciascuno ha visto la luce la prima volta. Inoltre, ritengo opportuno avvertire
che tutti sono stati più o meno leggermente ritoccati, e qualcuno in modo assai
notevole. Quello che mi ha guidato in queste non agevoli ricerche, non è stato,
cerne forse taluno potrebbe pensare, il
gusto delle notizie erudite, pur sempre indispensabili alla ricerca storica,
sibbene il bisogno di prospettare le particolari condizioni e circostanze
d'ambiente culturale in cui certi problemi filosofici eran posti dagli
aristotelici padovani, e lo sforzo da questi sostenuto per trovarne una
soluzione e per evadere da abitudini mentali e pregiudizi che alla soluzione di
quei problemi s'opponevano. Su alcuni di
siffatti problemi discussi e ridiscussi mille volte nel corso di quasi quattro
secoli, era naturale che avessi a fermarmi con insistenza e abbondanza di
citazioni, perché chi legge avesse modo di rendersi conto, quasi toccando con
mano, dell'imprecisione e non di rado dell'avventatezza di talune affermazioni
da parte di non pochi storici che la storia delle idee non hanno mai preso sul
serio, contenti troppo spesso di luoghi comuni e vacue generalità: Per oppormi
appunto a questo andazzo e per restituire ai pensatori sui quali mi sono
fermato i lineamenti della loro umana fisionomia, m'è parso non fossero da
sdegnare notizie particolari e perfino aneddoti che rasentano il pettegolezzo,
ma intanto rivelano curiosi tratti del loro carattere morale e aprono uno spiraglio su quell'ambiente
scolastico, per tanti aspetti così diverso di quello d'oggi. La distinzione poi
che s'è preteso di fare tra filosofia e cultura s è rivelata inconsistente, non
solo quando s'è tentato di giustificarla, col definire in termini rigorosamente
logici il concetto di cultura come diverso da quello di filosofia, ma più
ancora quando, in omaggio a quella: pretesa
distinzione, nel tracciare la storia del pensiero d'un epoca, s'è tenuto
conto quasi esclusivamente dei pionieri e si sono disprezzate forme di pensiero
meno avanzate e, diciamo pure, piii umili, come, ad esempio, pel Rinascimento,
le credenze magiche ed astrologiche, condivise da dotti non meno che dal
popolino, e le opinioni intorno al potere delle streghe e al loro commercio
col diavolo, cui davan credito, non meno
del volgo, insigni cherci e letterati grandi e di gran fama, non che giuristi e
teologi i quali s'argomentavano d' estirparne la mala semenza con gli esorcismi
e col rogo. Così del Rinascimento s' è mostrato solo un aspetto, mettiamo pure
il migliore e più, seducente, ma unilaterale e incompleto, per aver relegato
nell'ombra il rovescio della medaglia,
cioè quelle forme di pensiero che persistevano non solo nelle masse
popolari e incolte, ma altresì nei ceti borghesi di media cultura, nella
nobiltà, nelle corti principesche e nel clero. Eppure anche siffatte
convinzioni rappresentano particolari maniere di raffigurarsi la vita e il
mondo e costituiscono anch'esse modi di pensare la realtà, che, per quanto
arretrati, furon condivisi dall'enorme
maggioranza degli uomini nel periodo che si dice del Rinascimento.
Altrettanto si dica della distinzione fra ciò che è vivo e ciò che è morto del
pensiero del passato, quasi che potesse morire quel che non è mai stato vivo, e
che vivere non fosse un correre alla
morte, cioè un continuo rinnovarsi. Singolarmente penosa appare infine
l'ansia che pel concetto, la natura, il metodo, le sorti della storia e pel valore del giudizio
storico dimostrano taluni che, chiusi nella loro specola teoretica, senza
scomodarsi colla ricerca e la critica dei documenti e delle testimonianze,
indispensabili al giudizio storico, pretenderebbero di dedurre a priori gli
eventi della storia universale. Sì, lo sappiamo, per interpretare la lingua dei
documenti e delle testimonianze ci vuol cervello; e per cervello intendo la categoria, cioè la
capacità a inserire il fatto accertato nella trama logica del pensiero. Ma la
categoria è vuota senza l’intuizione, e la mola del pensiero frulla a vuoto se
dalla tramoggia non cala giù il buon grano falciato nei campi arsi dal sole,
battuto vagliato e seccato sull'aia. Sì che a ragione pare a VICO aver mancato per
metà così i filosofi che non accertarono le
loro ragioni coll'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono
d'avverare le loro autorità colla ragione dei filosofi. Il già celebre e oggi
invece quasi sconosciuto filosofo di Padova, SCHIAVONE (si veda), vien
classificato ordinariamente dai rari storici della filosofia che si degnano
consacrargli qualche linea, fra gl’averroisti: da qualcuno è, anzi, presentato
come fondatore dell'averroismo a Padova.
Ma, cosa strana, dell'averroismo di
SCHIAVONE tacciono affatto gl’antichi
storici che pur lo fanno passare come astrologo, mago, eretico, e che a queste
accuse, riguardanti le dottrine di lui, n’aggiungono ben altre riferentisi al
carattere personale, per quanto queste ultime abbiano l'aspetto di favole se
non, spesso, di denigrazioni evidenti. Scorrendo la monografia che gli consacra FERRARI (vedasi),
il sospetto che l'averroismo di SCHIAVONE
non fosse una pretta leggenda, s’accrebbe in me a tal segno che decide
di consultare per conto suo il Conciliator differentiariini philosophormn et
praecipiie medicorum. Sennonché, essendo l'opera relativamente rara e
trovandomi da quattro anni quasi sempre all'estero, non li fu così facile procurarsela; quando, nell'essere a Bonn s'abbattei
in un'edizione senza data, ma che porta in testa questa nota manoscritta:
impressus. Me codex est Venetiis per
Herbart de Selgenstadt,
alemanmmi. Mentre andava trascrivendo i passi più importanti dal punto di vista
filosofico, quasi quasi non sa credere a lui stesso, finché non li ha collazionati
con altre Già apparso nella Riv. di
Filos. Neoscolastica. Solo
qualche lieve ritocco. I tempi, la vita, le dottrine di SCHIAVONE. Saggio
storico-filosofico di Ferrari, Genova.] edizioni e specialmente con quella
di cui, oltre le copie possedute a Padova, a Firenze, a Torino ecc., una
si trova con sua grande sorpresa proprio nella capitolare di Pescia. Dice che non sa credere a lui stesso, perché i passi,
a cui FERRARI (vedasi) rimanda, lungi
dal rivelare le preoccupazioni averroistiche che egli, con critica bizzarra,
crede scoprire ad ogni pie sospinto attraverso le dichiarazioni di SCHIAVONE,
dimostrano, al contrario, che questi aderisce esplcitamente e senza riserve o esitazioni
di sorta ad un'altra teoria intorno all'ANIMA – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL
PSYCHOLOGY --, ch’è l'antitesi
perfetta di quella dell’arabo. Quei
passi sono così chiari che FERRARI (vedasi) stesso si sente imbarazzato e suda
due camicie per interpretarli a rovescio, come fa. Dovrei forse dubitare della
buona fede di lui? Certo, nell'opera erudita di FERRARI (vedasi) si rivela qua
e là un gusto matto di sorprendere nel filosofo da lui studiato atteggiamenti e
pose d'eretico che agl’occhi dell'autore lo
rendono più simpatico. E quando gli fanno difetto i documenti e le
dichiarazioni esplicite, ricorre a stravaganti congetture o a insinuazioni
ridicole. Ma N. ritiene FERRARI (vedasi) un perfetto galantuomo, e per dubitare
della sua completa buona fede non ha motivi sufficienti. Pensa invece che gli
manchi l'esatta conoscenza della filosofia medievale; in maniera che egli non
sa comprendere nel loro giusto
significato certe dottrine, le quali non si possono capire se non in rapporto
ai movimenti d' idee a cui mettono capo. Ora, infatti, sostiene che SCHIAVONE è
accusato di MATERIALISMO. Più tardi, invoca la stessa condanna per dimostrare
che questi non è sincero quando dichiara prava la teoria averroistica
dell'unità dell'intelletto. Ora gongola di gioia perché SCHIAVONE, nel riferire l'opinione dell’arabo,
la lascia passare senza una nota di biasimo. Una pagina, dopo, ti verrà a dire
che la nota di biasimo che SCHIAVONE
quest'altra volta invece ha affibbiato agl’averroisti, va presa per
un'ostentazione a ufficio di scudo! E via di questo passo. FERRARI (vedasi) avrebbe
fatto bene, invece di rimandare alle opere di SCHIAVONE, che il lettore non sa procurarsi con tanta
facilità, d’offrire estesamente citazioni più abbondanti e meno laconiche. Il
pubblico poi che s’occupa di queste materie sa, crede N., fare a meno, e quanto
a lui molto volentieri, della traduzione che FERRARI (vedasi) sostituisce ai
passi citati, i quali nel loro latino scolastico sono molto meno oscuri.
Confesso la verità. Arrivato in fondo a dove
FERRARI (vedasi) parla della psicologia genetica e metafisica, non sono
mai riuscito a raccapezzarmi sulla vera dottrina del filosofo SCHAVIONE. La
quale, pertanto, se si piglia in mano il conciliator, è abbastanza chiara,
nelle sue linee generali, ed è ben diversa da quello che FERRARI (vedasi) va
fantasticando. Ecco qui uno dei passi più importanti e nello stesso tempo
meno ambigui. Alla differentia si
discute la questione se il seme umano è o no animato. E, a proposito di questo
problema, SCHIAVONE espone la sua teoria sullo sviluppo dell'embrione e
sull'origine e natura dell'ANIMA. Egli dice. Rector autem huius tain divini
operis, cioè dello sviluppo embrionale, virtus est dieta informativa ab ANIMA parentis
decisa, per impulsionem coeuntis incitata,
quam Galenus de virtutibus naturalibus,
secundo, ca. 2, appellat summam artem
praesidem et intellectivam sine mente, il LIZIO autem intellectum vocatum sive
intellectivam divinam, ceu ei Haly ascripsit. Nominavit autem eam LIZIO
intellectum vocatum, ad differentiam intellectus potentionalis et agentis pars
existentium ANIMAE intellectivae, ut tertio de anima inquit. Dico autem intellectum quo ANIMA opinatur et sapìt, ad
differentiam intellectus quem ponebat Anaxagoras chaos dieta ex eodem
consimilia sequestrantis. Et ideo apparet hic erroneus intellectus lacobitarum
me persequentium tamquam posuerim ANIMAM intellectivam de potentia educi
materiae; differentia 9; cum aliis
mihi 54 ascriptis erroribus. A quorum
nianibus gratia dei et apostolica
mediante me laudabiliter evasi. Da qua quidem virtute, ló. ANIMALIVM, Avicenna. Virtus informativa
est illa quae DAT VITAM et est proportionalis virtuti super-coelestium. Arrestiamoci
a precisare il significato di questo passo. SCHIAVONE parla qui non dell'anima
umana, ma della virtù informativa, la quale più sotto è così descritta sulla
scorta del DE ANIMALIBVS e di Avicenna. Virtus informativa est illa quae DAT VITAM et est
proportionalis virtuti super-coelestium, et ista virtus facit similia secundum
quid virtutibus super-coelestibus quousque sit possibile illam RECIPERE VITAM,
et est dispersa per universam substantiam corporis sive sit humiduin sive
siccum: et in spermatis substantia est potentia potens recipere hanc virtutem
et est SPRITIVS primus deferens calorem coelestem et ipse est causa omnium
partium spermatis. Estque haec virtus a CORPORE abstracta, cui etiam ab LIZIO
accipiens commentator. j° metaphy i^Comm. ]: LIZIO dixit in libro DE ANIMALIBVS,
quod ipsa sit similis intellectui in hoc, quod non agit per instrumentum CORPORALE
et membrum proprium. La teoria della virtù informativa, qui esposta, è tratta dal DE GENERATIONE
ANIMALIUM del LIZIO e la si ri-trova quasi negli stessi termini presso AQUINO.
Siccome, per altro, i giacchiti di Parigi credeno che SCHIAVONE intende parlare
dell’ANIMA, per questa ragione, com'egli dichiara, l’accusarono dell'errore
d'Alessandro d'Afrodisia e di Galeno, l'ultimo dei quali sostene che L’ANIMA è
la stessa complexio del CORPO
organizzato e il primo che l’intelletto materiale o possibile dove farsi
consistere in una certa virtìt risultante ex universa illa temperatura vel
constitutione propria dell'organismo umano. L’accusano, dunque, dell'errore
opposto all'averroismo e contro il quale l’arabbo aspramente polemizzato a più
riprese. A quest'accusa da certamente motivo l'appellarsi che SCHIAVONE fa a
Galeno e al di lui fidelissimus interpres, Haly ben Rodoam. Questi sa trovare
presso Aristotele, non si sa come, la teoria dell'intellectus vocatus, della
cui provenienza del LIZIO il nostro, con quella sua espressione: ceu ei Haly
ascripsit, sembra tutt'altro che convinto. L'intellectus vocatus è la
traduzione letterale del ó HO KALOUMENOS NOUS xixXoù\j.tvoc, voui; del De generatione animalium. Basandosi
su di essa, Haly sostene che l’intelletto separato del LIZIO, distinto dall'ANIMA
individuale e identico al voij? d'Anassagora, è la stessa virtù informativa,
ossia l'influenza degl’astri la quale per mezzo del seme paterno presiede allo sviluppo
e all'organiz tkxvtwv (xév yùp év
tcò oTuéppiaTi ÈvuTrdcpxei OTTEp TTOiEÌ
yóvifxa elvai xà CTTrép[xaTa
xò xaXou(i,evov -!>£p(i.óv. xoùxo 8'où
TTup, oùSè xotauxY]
SuvafjLit; Icttiv, àXkà
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CTTÉpfxaxi, jcai èv xo)
à9p(óSEi. TTVEUjj'.a xal
rj Èv xw TTVsufAaxt, quando viene a parlare de
electionihus. Egli intanto distingue la ricerca, invero innocente, dell'bora
laudabilis incipiendi aliquod opus, affinché l'opera d’intraprendere ha felice
risultato, pur senza tentare di modificare il corso o l’influenza del cielo,
dai tentativi, per mezzo d' immagini
Ferrari, SCHIAVONE e di scongiuri, di modificare favorevolmente l’influenze
celesti pella buona riuscita dell'opera che s'intraprende. Che la prima ricerca
non ha niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che noi conosciamo, o
di temerario dal punto di vista della
dottrina teologica del tempo, è evidente. Perciò l'autore dello Speculum non
solo la ritiene legittima, ma dichiara ch’è opportuno, come pensa anche SCHIAVONE, conoscer l'ora
favorevole al concepire, al prender medicine e alle operazioni chirurgiche. Per
quel che riguarda invece la costruzion dell’immagini a fine di modificare
l'influsso celeste, egli stima
necessario far molte riserve. Parti electionum dixi supponi imaginum
scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam imagines sunt tribus
modis. Est enim unus modus imaginum abominabilis, qui significatione et
invocatione exigit. Est alius modus aliquantulum minus incommodus, detestabilis
tamen, qui fit per inscriptionem characterum, per quaedam nomina exorcizando. Tertius autem est modus imaginum
astronomicarum, qui eliminat istas spernendas suffumigationes et invocationes,
et non habet neque exorcizationes, neque characterum inscriptiones admittit,
sed virtutem nanciscitur solummodo a figura caelesti. Posta tale distinzione, mentre egli condanna gl’esorcismi,
gl’incatesimi e la necromanzia, pensa di
non potersi arrogare il diritto di
condannare o di negar l'efficacia dell’immagini astronomiche. D'immagini
astronomiche, ammesse dall'autore dello speculum, si parla nella già citata
differenza X e nella CI del conciliator. Ma SCHIAVONE sembra andar più oltre ed
ammettere anche quel genere di pratiche condannate dall'autore dello speculum.
Si tratta per altro d'un equivoco. Egli crede al fascino, all'arte notoria, alla pvaecantatio e alla magia, e
questo deve, senza dubbio, aver contribuito a crear la sua fama di mago e di
necromante; ma intanto spiega i fenomeni e i resultati ottenuti con queste
arti, sforzandosi di trasportarli sul terreno della magia bianca, allora
ritenuta lecita dai teologi. Conciliator, diff. Champier Conciliator, diff.
Champier. Intorno alle interessanti varianti del numero 8
nelle varie edizioni del conciliator, Ferrari, Pella biografia etc. Così egli ammette l'efficacia del
fascino e degl'incantesimi, come l’ammette Avicenna e come l'ammette POMPONAZZI,
ma esclude d’essi ogni carattere sovrannaturale e segnatamente l'intervento di
demoni, pur senza negar l'esistenza d’essi. Per SCHIAVONE, L’ANIMA DI CERTI UOMINI è fornita, per
uno speciale influsso celeste, di virtù
eccezionali, e si comporta, nel modificare l’influenze astrali sulla terra, come l’immagini artificiali costruite
dai sapienti dell' India. La praecantatio è utile al filosofo, come gl’è
necessaria la fiducia da parte dell' infermo. Ma le parole dell'incantesimo
verbale desumono la loro efficacia dalla virtù celeste, come dalle disposizioni
favorevoli delle costellazioni deriva
l'efficacia, secondo Albumasar, della preghiera astronomic. L'efficacia, insomma,
di tutte queste pratiche è desunta dall'astrologia. Samo fuori del dominio
della magia nera. Una censura speciale di Champier riguarda anche una dottrina
la quale non ha niente che fare colle dottrine di carattere prettamente
astrologico ch’abbiamo riferite; ma che, anzi, sotto un certo aspetto, è opposta a quelle. N. intende la
dottrina della produzione delle forme – come il cerchio -- GRICE -- nel mondo
infra-lunare. Essa suona così: Ponentes creationem,
etsi verissimi in lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi, cum
ipsam levem faciant omnino, ac primam quasi causam multiplicibus vexent
laboribus; decorem non minus et ordinem et per consequens perfectionem removentes, secundum LIZIO, ab
universo. Champier pretende che con siffatta dottrina SCHIAVONE viene a
contradirsi, quia simul stare non possunt, quod lege sint verissimi, et tamen
admictendi non sint in philosophia; quia omne verum consonat. Dove non sai s’egli
accusi il filosofo d’aver negato la creazione,
o d’avere ammessa la dottrina averroistica della doppia verità. Ma nell'uno come nell'altro caso, ha
frainteso senz'altro la filosofia di SCHIAVONE Conciliator, diff. Conciliator, diff. Conciliator, diff.
loi Champier realtà, di tutte le dottrine censurate da Champier, tre
appena sono tacciate d’eresia e segnate d’un biasimo speciale, e cioè: quella,
ora accennata, intorno alla creazione; l'avere SCHIAVONE affermato che il
divino non puo operare nel mondo infra-lunare se non per mezzo d'intermediari; e
l'aver ritenuta efficace la prae-cantatio. Ora la prima dottrina è stata semplicemente fraintesa da Champier; la
seconda è esagerata, poiché così come SCHIAVONE l’intende, non suona affatto
eretica ai tempi di lui. Quanto alla terza, egli non s’è accorto come la prae-cantatio
e le altre pratiche affini hanno perduto in
SCHIAVONE quel loro carattere originario derivante dalla magia nera che
le rende singolarmente sospette. Se Champier esamina il conciliaior coll'animo
scevro dai pregiudizi d’una scuola teologica che ha già perduto per sempre il
senso della libertà nel campo scientifico, quel senso di libertà che s’è
così poderosamente affermato; s’egli, dice N.,
studia l'opera del filosofo con quel
senso di tolleranza che rivela il teologo autore dello speculum, e non
colla grettezza sospettosa degl'inquisitori padovani, avrebbe potuto forse
risparmiarsi quasi tutte le sue censure
e castigationes. Notevole, per altro, che nemmeno Champier, che con tanto zelo
si dette la pena di spulciare l'opera ritenuta pericolosa, formula l’accuse ben
altrimenti gravi che, con altro scopo, solleva
contro SCHIAVONE il suo biografo.
Ferrari. Eresie di SCHIAVONE, secondo
Ferrari: Dio e il mondo, Scienza e fede.
L'averroismo di SCHIAVONE secondo
Ferrari. Dottrina della creazione; lo schema platonico; il concetto di creazione mediata. Eternità della
materia Il problema circa
l'eternità del mondo. La pretesa
tendenza al panteismo. Il
miracolo. La doppia verità.
L'ultimo processo alle dottrine filosofiche
di SCHIAVONE è quello intentato ad esse nella voluminosa e farraginosa
biografia scritta intorno al nostro filosofo da Ferrari. Anzi che colla serena
comprensione dello storico, si dice che questo autore s’è accinto allo studio
della filosofia di SCHIAVONE colla stessa parziahtà di Champier e, quasi dice
N., colla stessa mentalità degl'inquisitori
padovani: coll'aggravante d’una minore disposizione a intenderlo,
derivante dalla scarsa conoscenza, che ha Ferrari, d’una filosofia così complessa e ricca di
motivi come quella medievale. La scarsa conoscenza della filosofia medievale, che verremo
documentando, si rivela subito, fin dal primo tentativo col quale Ferrari
caratterizza la dottrina filosofica di SCHIAVONE, ora asserendo che questi inclina e simpatizza pell'avverroismo,
ora sforzandosi d'inquadrarne il pensiero nel movimento d'idee noto sotto il
nome d’averroismo LATINO. All'averroismo più o meno latino inclina il maestro
padovano: pella negazione della creazione dal punto di vista filosofico, per
avere ammessa la materia eterna, la necessità d' intermediari tra la causa
prima e i fenomeni del mondo infra-lunare,
e l'eternità del mondo; per una non ben precisata tendenza al panteismo e per
un certo NATURALISMO – bete noire H. P. GRICE -- che lo porta a negare la
possibilità dei miracoli; per aver
professata la dottrina della doppia verità; e finalmente pella dottrina
dell'intelletto separato. Discuteremo il giudizio di Ferrari sui primi tre
punti. Al quarto punto riserveremo il
paragrafo che segue, giacché ne vale la pena. Alla fine del paragrafo
precedente, abbiamo visto che Champier segnala come errore, et horrendus,
l'affermazione di SCHIAVONE che la dottrina della creazione, pur essendo vera
dal punto di vista teologico, è da
rigettarsi da quello filosofico. L'interpretazione sbagliata che Champier colla
sua censura da d’un passo male inteso, diventa
Un esempio caratteristico dell'incapacità a comprendere e a
giustificare, nel loro genuino significato storico, l’idee del passato, è il
capitolo che Ferrari dedica a SCHIAVONE astrologo.
Egli riassume purchessia le dottrine astrologiche del nostro, ma non le spiega.
Anzi, ad un certo punto non sa far di meglio ch’uscire in questa goffa
esclamazione: Piaccia al nostro lettore che non ci smarriamo in tali labirinti del pensiero
umano che mettono avvilimento e pietà. Pella biografia, etc. L'accusa
d'averroismo, per altro, risale, sebbene non precisata come presso
Ferrari, pello meno a Renan e a Tiraboschi. addirittura una mostruosità
storica sotto la scorrevole penna di Ferrari. Udiamo, infatti, qual concetto
questi si sia fatto della relazione tra
la il divino e il mondo secondo
la mente di SCHIAVONE. L’azioni del mondo superiore sulla terra e su noi
vengono infine dal divino; salvoché l’une producendosi per una serie di
mezzi, sono coordinate a questi e n’hanno
la misura, la costanza, la prevedibilità, oltre che sono relativamente ad essi
inevitabili; onde le possiamo in certo modo ridurre alle qualità degl’elementi,
anche se non vediamo precisamente il
come; l’altre s’esercitano senza movimenti, absque medii alteratione, o dal
divino stesso o dalle stelle imprimenti una speciale virtù, com'è nel caso del
magnete, la cui virtù attrattiva è collegata, lo attesta l'esperienza, col polo
artico. L'opera divina è del resto palese nell'ordine universale e nella
finalità che governa il cosmo. L’ACCADEMIA ripose le cause universali in divinità secondarie, specie di ministri
alla prima, che danno le forme alle cose, onde Averroè dice che l’ACCADEMIA in
un modo alquanto oscuro aveva asserito che il creatore fé' gl’angeli e ordina
poi loro di creare l’altre cose mortali, il che veramente non si dee prendere
alla lettera. Il LIZIO le forme delle cose terrestri volle, secondo che pare
anche a Temistio, sono generate dal sole
e dal suo giro. Alcuni ammisero che le forme sono nella nostra terra latenti,
quali Anassagora, GIRGENTI, Democrito. Altri parlarono di creazione. I primi
traggono le cose dal caos, i secondi
vogliono invece che il divino le produca dal
nulla. E quest'ultima opinione induxit loquentes trium legum, quae hodie
sunt, dicere aliquid fieri ex nihilo adeo quod diciint quod homo cum moveat lapidem expellendo, non est movens, sed
agens illud creai motum. Di tali sentenze possiamo leggere in Giovanni
Filopono. Ma tra le due opinioni opposte e' è luogo per due intermedie, anzi
per tre, che convengono nell'ammettere due tesi: la generazione essere un
tramutarsi delle sostanze, e niente prodursi dal niente. Convengon in ciò, ma
si discostano poi nel 4 L'osservazione
è meravigliosa! Neanche a farlo a
posta, SCHIAVONE cita subito il Timeo, nominando espressamente Platone e
l’ACCADEMIA: Quare, 12. Metaph.
[comm. 44], Commentor: Plato e l’ACCADEMIA suis obscuris
verbis dixit quod creator creavit angelos manu. Del resta alla diff. si
legge. Plato e l’ACCADEMIA namque posuit substantias separatas, quas
ideas appellavit. modo di pensare
l'agente. L'una pone che l'agente crei la forma e la dia alla materia, sia poi
esso congiunto o no con materia: opinione di Temistio e lino a un certo punto di Alf arabi. La seconda nega che
l'agente sia affatto legato alla materia e lo chiama dator delle forme, come
pensarono Algazel ed Averroè. La terza è quella del LIZIO, che l'Afrodisio
giudica non ambigua, e alla quale non si
può non assentire. L'agente non fa se non il composto di materia e forma,
movendo la materia finché n’esca in atto la forma che vi giace in potenza. La
sentenza del LIZIO in qualche cosa somiglia a quella dei creazionisti e in
qualche cosa ne differisce ma è la sola vera, perché sol essa non porta a
conseguenze impossibili, come vi portano l’opinioni dell’ACCADEMIA e d’Anassagora,
che sono dal LIZIO combattute vittoriosamente. Coloro che invocano la
creazione, etsi verissimi lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi. Dopo
questa che vorrebbe essere una parafrasi, invero molto libera, d’un
importantissimo passo del conciliator, Ferrari dice ancora. L'essenza della
materia rende inevitabile l'uso di qualche mezzo o strumento, per certe
produzioni, al divino stesso. In altre parole il divino produce e governa i
cieli, gl’angeli, L’ANIME, ma nulla poi potrebbe fare nei regni inferiori delle
cose corporee senza il loro mezzo, pella troppa distanza tra i due termini. Gl’è
così che per una serie di mediazioni, e con armonia meravigliosa discende alle
infime cose terrestri l'azione divina, passandosi per gradi dalle cose
incorruttibili, anzi dall'imo semplice
ed immobile ag’esseri composti, variabili corruttibili. Parrebbe, dunque, a
sentire Ferrari, che il divino, sorgente prima di tutte l’azioni del mondo celeste
su quello terrestre, avesse di fronte a sé un principio eterno di passività che
sarebbe poi la materia; che questa materia fosse eterna al pari di Dio e non prodotta;
che l'azione divina sul mondo Leggasi Avicenna, e non Averroè, il quale ha sempre combattuta la
teoria del dator formarum. Le edizioni hanno solo un' A., che ovunque è abbreviazione
d'Avicenna. Ferrari un'altra volta legge Aristotele, arruffando tutto il senso di
un passo importantissimo della diff. SCHIAVONE SCHIAVONE. Il luogo del Conciliator
qui parafrasato è stato riportato per esteso sopra, corruttibile non potesse in
nessun modo esercitarsi se non
attraverso una serie di mezzi, che sono i cieli, gl’angeli e le anime. Se gì'inquisitori
parigini e padovani, che se n'intendevano, avessero lette queste cose negli scritti
di SCHIAVONE, non avrebbero aspettato ad arrostire un cadavere, né r imputato sarebbe sfuggito loro dalle mani. Il fatto, invece, è
che il pensiero genuino di lui è ben diverso dall'esposizione che ne fa Ferrari.Vediamo dunque di chiarirlo.
Secondo lo schema accademico d’Alfarabi e Avicenna, riassunto anche da
SCHIAVONE, dalla prima causa, che è motore immobile e quindi idem et stabilis permanet,
non puòderivare ciò che è molteplice e mutevole; ma solum unum immediate, cioè la
prima intelligenza col primo cielo. Da questa è prodotta la seconda intelligenza
col secondo cielo; e così di seguito, di
grado in grado, secondo un ordine d’emanazione discendente, fino all'intelligenza
lunare, la quale produce la così detta intelligenza agente, gubernantem quae sunt
in activorum et passivorum spaerà simplicium et compositorum, cioè tutte le forme
del mondo infrahmare. SCHIAVONE accetta in parte questo schema, ma v'introduce
profonde modificazioni. Egli pone, tra la
causa prima e la materia, una serie d'intermediari che gli servono a spiegare, come ad ALIGHIERI, la contingenza
nel mondo inferiore; ma in nessun luogo afferma che la materia sia eterna, come
vorrebbe farci credere Ferrari, per il quale eterna vuol poi dire non creata. E
sebbene dica, secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil
potest in haec interiora operari absque medio, è evidente
che egli intende parlare, non di una necessità di natura e SCHIAVONE come gli scolastici
del suo tempo mette con Avicenna anche Algazele. In realtà questi scrive un'esposizione
delle dottrine d’Alfarabi e Avicenna, alla quale tene dietro la sua confutazione
fatta dal punto di vista della teologia mussulmana ortodossa. Fino ai tempi di SCHIAVONE solo la prima parte è tradotta in
latino; la Destructio philosophorum si conobbe assai più tardi. Di qui l'abbaglio.
Palacios, Algazel, Zaragoza, igoi. Duhem
tuttavia crede che quando Algazele scrive la prima parte dell'opera, egli accettas
quelle dottrine accademiche che rifiutò poi nella Destructio Duhem, Le système du monde etc,
Paris. Conciliator, diff. loi. Farad.
il saggio di N, ALIGHIERI e SCHIAVONE nei Saggi di filos. dant. Conciliator, diff.
assoluta, ma di una necessità conseguente a quella a perfecta ratio che è poi la
stessa sapienza divina, la quale ha volontariamente stabilito l'ordine mondano;
ordine che è sospeso alla volontà divina la quale è immutabile. Ma se la causa
prima fissa l'ordine cosmico, nel quale gl’eventi del mondo infralunare dipendono dal moto e dalle 'a^iazioni
che accadono nei corpi celesti, intermediari tra i due estremi dell'atto puro e
della pura potenza, non ne segue logicamente che non possa, in quanto è superiore
a quest'ordine da sé stabilito, derogarvi. Anzi troviamo esplicitamente asserito
il contrario: Potest primus sua mera benignitate,
cum sit agens supernaturale, per voluntatem,
absque motu et transmutatione in haec in inferiora operari, quicquid dicat
peripateticus. Ora se SCHIAVONE può pensare ad un intervento diretto, anche se fuori dell'ordine naturale, della causa
prima sul mondo della generazione e corruzione, vuol dire che la necessità degl'intermediari,
affermata da lui sulla scorta di Aristotele e del commentatore, non è la necessità
assoluta dei platonici arabi, per i quali è sempHcemente impossibile, cioè
anche ancilla e jamula della teologia, la filosofia è riconosciuta indipendente
da quella e autonoma entro la propria cerchia di ricerche naturali. Così, non ostante
tutti i tentativi più o meno ingegnosi per unificarle, quella filosofia e quella teologia non rimanevano meno
distinte, se non opposte, per i loro metodi propri di ricerca e per il loro spirito. In questa distinzione,
accettata da tutti i teologi del tempo di SCHIAVONE, era il germe latente dell'eresia
di cui a torto si vorrebbero render responsabili solo i veri o pretesi averroisti.
Una volta proclamata la legittimità della ricerca razionale e filosofica, per mezzo
di metodi propri e diversi da quelli teologici, quale autorità teologica in terra
avrebbe potuto più mettere un freno a coloro
che, intrapreso il cammino della ricerca scientifica, intendeno percorrerlo fino
in fondo. E infatti, s’era appena riconosciuta quella distinzione, che fu subito
avvertito il contrasto tra filosofia e teologia, contrasto che venne sentito più
o meno da tutti i filosofi scolastici, da Brabante come d.Aquino, da SCHIAVONE come
da Duns e d’Alighieri; e tutti cercarono di risolverlo con particolari e diversi
atteggiamenti spirituali. Il contrasto, da prima latente, dove portare, e porta,
al conflitto fra i rappresentanti delle due principali facoltà degl'istituti
universitari, quella dell’arti e quella di teologia. Nella facoltà dell’arti si
leggeno e si commentano i libri d'Aristotele e le trattazioni d’Avicenna, Averroè,
Galeno, Tolomeo e di numerosi altri
autori. E vi rifiorirono così, e s’accrebbero, l'astrologia, la matematica,
la medicina, l'alchimia e la magia, tutte insomma le scienze create o sviluppate
dal genio filosofico. Che queste scienze sono infestate d’inveterati pregiudizi
metafisici, non toglie che il loro sviluppo concorre in larga misura allo sviluppo
del sapere scientifico e al progresso dello spirito umano. Per mezzo d’esse si inaugura nell'occidente il metodo della ricerca
filosofica, s'inizia la libera indagine delle cause naturali dei fenomeni del mondo ter E di
porre un freno si tenta più volte, ordinando, come a Parigi agli scolari della facoltà
dell’arti di astenersi dal determinare contra fidem quando hanno da discutere d’un
problema che /idem videatur attingere simulque
philosophiam. Carthularium Universita
Parisiensis restre. Al pregiudizio teologico si sostituì, è vero, quello astrologico.
Ma l'errore d’aver riposto le cause dei fenomeni naturali in influenze astrologiche,
non è poi così grave e imperdonabile, s’esso significa anzitutto libera ricerca
di cause naturali, affermazione di leggi ed esclusione dell'arbitrario dal mondo
dell'esperienza. E intanto quell'astrologia, quell'alchimia, la vecchia medicina
e la stessa magìa venivano raccogliendo da ogni parte ed accumulando preziose osservazioni
ed esperienze, che, nella Rinascenza, dovevano portare al superamento dei pregiudizi
e concetti metafisici, e contribuire direttamente al rinnovamento della scienza.
Al quale non si sarebbe mai giunti, senza
l'inaugurazione di quel metodo razionale,
la cui legittimità era stata proclamata
all'unanimità dagli stessi teologi scolastici, non solo in teoria ma anche in pratica.
Vediamo infatti Aquino esporre con intera libertà e senza prevenzioni le dottrine
di Aristotele, fino a dichiarare, contro il parere dei teologi, che l'eternità del
mondo non implica contradizione e che la tesi della creazione nel tempo non può
dimostrarsi colla sola ragione. E Alberto di
Colonia insieme al pensiero aristotelico espone quello degh altri peripatetici,
pur notando che non di rado esso cozza coi dommi cristiani. Ora all'esempio di
Colonia si richiamano espressamente o tacitamente SCHIAVONE e Brabante, quando
dichiarano di trattare de naturalibus naturaliter, senza farla da teologi. De naturalibus
naturaliter: ecco il programma di quegli AMBIENTI LAICI, che sono le facoltà dell’arti.
LAICI, s'intende, solo per i metodi dell'indagine scientifica e filosofica in contrapposizione
con quelli della teologia. Di questi ambienti laici SCHIAVONE incarna perfettamente
lo spirito. In questo spirito è la sua vera, la sua unica eresia; un'eresia inconsapevole
che s'era già insinuata nella coscienza di tutti coloro che avevan fatto buon viso
al rinascente pensiero aristotelico, e che
era penetrata fino nelle scuole di teologia. Senza prestargli dottrine eterodosse
che negli scritti a noi noti egli ha il studio di N., La posizione di Colonia di
fronte all'averroismo La filosofia, infatti, questa povera ancella della teologia,
ha il compito di stabilire i praeambida
/idei e dichiarare il contenuto delle formule dommatiche. Le opere teologiche della Scolastica, compresa espressamente riprovate, senza attribuirgli
quel continuo sdoppiamento di coscienza che piace a chi, per il gusto di farne
un eretico, ne farebbe volentieri un ipocrita, pronto ad affermare il contrario
di quello che in cuor suo pensa, per salvare la pelle dal rogo; le sue audacie dottrinali,
dal punto di vista della teologia imperante, sono evidenti: maggiore di tutte quelle intorno ai miracoli e ai fatti meravigliosi.
SCHIAVONE è lo scienziato forse più caratteristico di quel periodo di cui Aquino
è il maggior teologo, e Alighieri il sommo poeta. Pella vasta erudizione, pur senza
essere un rinnovatore e un precursore, rappresenta
la scienza in tutti i suoi molteplici aspetti, in ogni sua tendenza. L'idea
centrale della scienza di lui è un'idea astrologica. E i creatori
della leggenda popolare di un SCHIAVONE mago, sebbene non cogliessero i veri caratteri
della sua magìa, magìa bianca, ben differente dalla necromanzia, ci hanno tramandato
un'immagine dell'uomo, che forse è meno difforme di quel che non si creda, dalla
sua storica personalità. la grande Summa d’AQUINO, son impregnate di razionalismo;
razionalismo che s’afferma nettamente in
Lullo. L'ancella comincia ben presto a farla da padrona! Ili Se SCHIAVONE non è
un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista è invece l'eremitano
Nicoletti, il quale professa a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse
«gli vi portò da Parigi, se pure non v'era già arrivato da BOLOGNA, e che risente della lettura dell'opera di
Sigieri di Brabante, De intellectu ad jratrem
AQUINO, oppure degli scritti di Wilton impugnati
a BOLOGNA Bologna, dal francescano Alnwick. NICOLETTI è andato a studiare a Oxford,
insieme a un suo fratello germano, anch'egli eremitano, e v'era Dal voi. Brabante
nel pensiero del Rinascimento italiano.
Roma, Edizioni Italiane, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. Sigieri di Brab. ecc. Che l'averroismo a PADOVA ha origini
in BOLOGNA è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltre-montana.
Che poi Averroè è tenuto in gran conto a Padova assai prima di NICOLETTI, è provato dagl’affreschi di Menabuoi
nella cappella Cortelieri nella chiesa degl’eremitani, anteriori, e dei quali ci
resta la descrizione di Schedel di Norimberga che è studente a Padova. Giunto raffigura Averroè
insieme agl’eremitani maestro ALBERTO DA PADOVA e al beato GIOVANNI DA BOLOGNA.
Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura,
Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses, Wien, Bettini, Giusto S. M. e l'arte. Padova, P n? NICOLETTI dove ben conoscere quegli affreschi. 2 Maier,
Alnwicks BOLOGNA Quaestionen gegen Averroismus, Gregorianum rimasto almeno
un triennio. Il soggiorno di NICOLETTI a OXFORD non era rimasto ignoto a CITTADINI
(vedasi) da Faenza, che a Ferrara detta un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano,
in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc
libellum in BRITANNIA, ubi olim et dialecticae et PHILOSOPHIAE studia floruerunt,
in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum
hoc extructum fuisse quam NICOLETTI natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur,
quod certuni est NICOLETTI apud Britanos visendorum GYMNASIORUM gratia aliquando
commoratum esse, ac postea in Italiani
revertentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis
penitus erant incogniti. Più tardi soggiorna anche in tlorentissima universitate
Parisina, ove NICOLETTI espone gli ante-praedicamenta
di Aristotele. Egli è lettore nella facoltà dell’arti a Padova, e quivi compone
quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della
Metafisica d'Aristotele, con sobrie discussioni
dei problemi agitati nelle scuole. Notevole in questa summa il trattato concernente
il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fondamentali del De intellectu di
Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico NICOLETTI ci lascia un'assai più ampia
esposizione redatta non di molto posteriore alla Summa naturalium Reg. Re.
mi Barth. Veneti, nell'Archivio della Curia generalizia degl’eremitani in Roma Dd. il studio di N. sulla Letteratura e cultura
veneziana, La civiltà veneziana. Firenze, Sansoni Cod. Urb.
lat. Ghiotta notizia, segnalatami da Pagallo, in una annotazione al Cod.
della Bodleniana di Oxford Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford La data di composizione
della Summa naturalium è fissata dal codice
marciano che ne contiene solo tre parti.
Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, Venezia, Lat. Come
non molto posteriore è 1'Expositio super libros Physieorum Aristotelis necnon super
comento Averois cum dubiis eiusdem Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif.
Revue de philosophie. Montligeon (Orne) Le stesse variazioni che Duhem riAnche in
questa seconda opera l'influsso
esercitato sull'eremitano dal trattato dell'averroista belga contro
AQUINO, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei seguenti brani che
per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo del De anima, Nicoletti
si pone, ad maiorem dictorum evidentiam, alcuni dubia, il secondo dei quali verte
sul problema utrum in eodem animali plures possint esse anime totales, che egli risolve nel modo che segue, non senza
aver prima confutate altre soluzioni: Circa liane materiam, siint plures modi dicendi.
Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet
vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres,
videlicet vegetativam, sensitivam et intellectivam; non tamen simul generantur, sed successive per tempus, ita quod primo generatur vegetativa,
deinde sensitiva, tertio leva – GRICE PIROTOLOGICAL PROGRESSION -- tra quest'opera
e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento
Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità
e maturità di pensiero. Nel commento, a proposito del quesito se gli universali sint in rerum natura, NCOLETTI dichiara
d'averne trattato quanto basta in alio opere et in prologo physicorum. È probabile
che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e metafìsiche dello Stagirita,
Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali
si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli libri della Fisica e proseguendo poi col De caelo, col De generatione et coruptione,
coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica
di NICOLETTI non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che
da parte di Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato
a Padova, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città o
forse l'eremitano s'accinse a commentare
di nuovo il De anima, come ci attesta Ripalta, piacentino, allora studente nello
studio padovano. Questi si procura una copia dell'esposizione completa dell'opera
aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non anda
oltre il capitolo de gustabili, essendo stato colto dalla morte. Valentinelli NICOLETTI, In libros de anima explanatio cimi textu incluso singulis locis,
maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia
impressorum scatebat purgata ac pristine integritati restituta etc. E nel colophon:
Scriptum super librimi de anima ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum.
artium doctorem. D. magistrum Hieronymum
Surianum, filium prestantissimi quondam artium doctoris, Domini magistri lacobi. de Surianis de Arimino Venezia, Eredi
di Scoto, comm. post completarti organizationem membrorum generatur intellectiva Hic modus dicendi est superfluiis. Secundus modus
dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo
in productione animarum, quia FETVS PRIMO VIVIT VITA PIANTE, deinde vita animalis; tamen tales anime simul
non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima,
et in adventu tertie corrumpitur secunda. Iste modus est impossibilis, quia
tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius. Tertius modus dicendi
est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales,
scilicet sensitiva et intellectiva, quarum
prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo,
non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, de
animalibus: intellectus venit deforis. Sed hec opinio includit contradictionem,
quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et
generatur ad generationera corporis
animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis,
quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum
et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo intellectio et volitio
sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes
potentias rationales esse abstractas a corpore,
et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem,
est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam,
compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter,
quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin
ad locum, sed solum motum dilatationis et
constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter
sui imperfectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel
spongia marina eadem anima est sensitiva
et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam,
scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et
Questa teoria è la seconda delle opinioni da
N. elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., ed è ricordata d’ALIGHIERI,
Purg., come quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra in noi s'accenda. Questa dottrina, già accolta
dal francescano RocheUe, fu difesa, com' è noto, d’AQUINO. lo stesso Giorn.
Crii., opinione. Questo tertius modus, che è una teoria intermedia fra quella d’AQUINO
e quella schiettamente averroistica, non è altro che la opinione da N. elencate, professata da Alberto Magno, Peckam
ed ALIGHIERI. Giorn. Crii.; come pure
il voi. Di N., ALIGHIERI e la cultura
medievale, Bari, Laterza Questa è
anche la tesi di Bate; Sigieri, nel pens. nnam sensitivam totaleni, ut equus vel
asinus. HOMO autem, preter partiales
animas, habet duas totales: cogitativam sensitivam, generabilem et corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam perpetuam et eternam, informantem et non
inherentem. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze
a mò di corollari Tertio sequitur quod HOMO non est homo precise per animam cogitativam, nec precise
per animam intellectivam, sed per ambas simili. Cogitativa enim denominat hominem
esse animai, et intellectiva denominat hominem
esse RATIONALEM. Sed HOMO est diffinitive et convertibiliter ANIMAL RATIONALE –
corpi celesti ANIMAL RATIONALE AETERNVM --. Ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem
hominis. Quo dato, oportet concedere quod, sicut genus est prius differentia et
potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum,
ita cogitativa est prior intellectiva in homine et potentialis
Nella Summa philosophie natura! is o naturalium Venezia. Eredi di Scoto, De anima:
conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et
homo generant hominem, physicorum; ergo homo generatur; sed terminus generationis
est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, phisicorum; ergo
aliqua forma hominis generatur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva
generatur. Item, philosophus, coeli: omme genitum aliquando corrumpetur;
ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere
in homine duas animas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum
philosophum, et aliam sensitivam,
generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, de anima, cognitivam
cogitativam. Conclusio: Impossibile
est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam
si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario superflueret,
quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris
perfectionis, et omnes operationes eius exerceret,
ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis
est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa.
In animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva,
supplens vicem anime, que etiam extenditur ad extensionem subiecti; et in animalibus perfectis sunt plures vegetative partiales et una sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem
heterogeneam. Sed IN HOMINIBVS, praeter formas partiales vegetativas, sunt due totales,
scilicet sensitiva multiplicata ad partes heterogeneas, et intellectiva non
multiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia individua
speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus hominibus, iuxta intentionem Aristotelis et determinationem
Commentatoris, de anima. illam sequitur quod
idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia HOMO per animam
cogitativam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei,
quia, secluso intellectu, PER COGITATIVAM HOMO HABET DISCVRSVM QUODAMMODO
RATIONALEM – GRICE PRINCIPLE OF RATIONAL DISCOURSE --, ratione reminiscentie reperte in eo et non in
aho; licet enim memoria reperiatur in liis animalibus, non tamen reminiscentia;
neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative
virtutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in
de meìnoria – GRICE PERSONAL IDENTITY -- et reminiscentia H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia
in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est
primus gradus illius generis, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni,
sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens
duos gradus specificos esse immediatos, quia
species sunt sicut numeri, inetaphysice. Et si concluditur ex eodem fundamento,
quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ratione forme mixti et
forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu
forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis
in materia formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum nec diffinitionem essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens
animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter
esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis
ad illam propter suam imperfectionem. Come è facile vedere, già in questo luogo
dell'esposizione del libro secondo del De
anima, la tesi caratteristica di Sigieri, Anche Sigieri, come sappiamo, afferma
che la cogitativa è ordinata in intellectivam, talché nec potest intellectus informare
materiam non informante cogitativa, nec potest cogitativa informare materiam non
informante intellectu; Sigieri nel pens. Quella parte dove sta memora chiama
l'anima sensitiva anche Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, tutta pervasa
di dottrina averroistica; il mio voi. Dante e la cult, medievale Gli averroisti
negano si la memoria che la reminiscenza
all'intelletto; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura
Altra tipica tesi di Sigieri che
NICOLETTI sviluppa. Allo stesso modo anche nella Summa naturalium Ad secundum dicitur,
quod anima intellectiva non advenit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt
corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore
intellectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis
dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo
est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis
advenit enti in actu ultimato, forma autem
substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia. Ol che r intelletto,
pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce
ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione
dell'uomo, è accennata in modo esplicito. Ma 1'influsso del brabantino sull'udinese
è ancora più evidente nell'esposizione del libro, del pari che nei capitoU della
quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, NICOLETTI tratta anzitutto
della passività o passibilità dell'intelletto umano, formando conclusioni:
Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem,
sed ad quamlibet talem est penitus in potentia. Intellectus non est aliqua una natura
sed solum habet possibilitatem recipiendi
omnes formas materiales. Intellectus possibilis humanus ante intellectionem nullatenus
est actu. Intellectus humanus est immaterialis et
incorporeus et immixtus. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leggera
variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del De anima; ma qui alla conclusione che corrisponde alla seconda della Summa, il maestro padovano ricollega il
problema dell'unità dell'intelletto che nella Summa è discusso. Tanto nella Summa
naturalium conclusio, quanto nell'esposizione del De anima combatte la tesi sostenuta
un tempo a Oxford da Kilwardby e Wilton, e accolta anche da Jandum, che in aliquo
vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicatorum essentialium Della
qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto: Tenentes pluralitatem
formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima
forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et
tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est HOMO,
et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum specierum; et imaginantur isti quod, quantum ad
animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur
hoc genus animai; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et
canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter
distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod
taha predicata invicem essentiahter ordinantur.
Ista opinio est impossibilis. Summa naturai., In libros de anima col. Sul modo di concepire
la passività dell'intelletto possibile e il concorso dell'intelletto agente e del
fantasma ll'atto dell'intendere, l'eremitano
riferisce opinioni, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Opinio est Averroys
intellectui possibili nihil nisi passibilitates assignantis, fantasmati vero activitatem tanquam particulari
agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones
et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus
agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intellectus
agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus autem possibilis solum recipit et nunquam agit.
Da questa opinione NICOLETTI dichiara di dissentire, non per quel che concerne le
prime intellezioni, nelle quali l'intelletto possibile è totalmente in potenza,
e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive,
alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concorrere
attivamente, semper tamen virtute intellectus
agentis. Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante
actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem
eius. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell'intelletto possibile, NICOLETTI
si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto
e il corpo umano, intorno al quale tam
Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit. E prima di tutto ricorda
quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem
mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis,
sed per contactum virtutis alium a contactu corporeo. Il problema fu a lungo discusso
fra le varie scuole nella scolastica della
decadenza, senza che ci si rende
ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia fino
a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una
causa esterna che la produca nel soggetto conoscente Summa naturai Quanto ad Averroè, il nostro eremitano
ne espone il pensiero in questi termini: Secundo notandum ex intentione commentatoris,
ij de anima comm, quod corporalis natura
compatitur secum spiritualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum seu imaginative virtutis, cum sit quid corporale,
intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per
consequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum
materialem; et hoc dico quia intellectus copulatur nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per
intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus existentibus in intellectu
possibili; et ita unitur homini per fantasmata intellecta in actu. Intentiones enim
imaginative, per commentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur,
quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant intellectum
possibilem fiunt una intentio in ipso, quia
non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus
per continuationem intentionis intellecte, quia eadem est intentio informans intellectum
et virtutem imaginativam. Siffatta
interpretazione del pensiero del commentatore arabo anzi che da Sigieri è suggerita
invece da COLONNA, al quale il confratello veneto s'appella esplicitamente nel commento al De anima:
Opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma,
sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum
eum in hoc tertio, iuxta expositionem COLONNA, quod corporalis natura compatitur
secum spiritualem naturam etc.
All'opinione d'Averroè, NICOLETTI aggiunge
quella di Jandun che, al parere di N., egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo
com'egli la riassume: Opinio fuit ianduno
dicentis quod intellectus, secundum commentatorem, unitur corpori humano, non ut
forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur
intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo:
unus qui componitur ex corpore et anima
cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo In libros de anima
COLONNA, Do intell. pass, contra Averr.,
Venezia quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet
universale et particulare; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit;
et sumptus secundo modo intelligit solum universalia. A queste opinioni egli oppone la tesi d'Aristotele, secondo il quale
l'intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare. Ma com'egli
intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium.
Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter:
primo quia ipsa est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima; modo nulla forma
inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur,
ut colligitur a philosopho, de genevatione, et a Commentore, in de substantia orbis.
quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, de anima; sed nulla forma
inheret materie nisi per transmutationem et passionem. quia anima intellectiva est
indivisibilis et impartibilis per carentiam partium integralium; nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones
intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam
forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia
hec est conditio quantitatis, etc. Anima intellectiva unitur homini substantialiter
per informationem, ita quod est forma substantialis corhumani, non solum dans operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse
specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem
sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, metaphysice,
dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie,
sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est rationale;
ergo sumitur a forma humana; sed rationale sumitur ab eo quod est intellectivum;
ergo intellectus vel anima intellectiva est forma corporis humani. Item, rationale
ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius,
ut ponit Porphyrius et Aristoteles; ergo rationale est de essentia hominis; sed
nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti Sigieri Opinio fuit Aristotelis dicentis intellectum esse veram
formam substantialem hominis. Ideo est dicendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris,
quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari..vam;
ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, de anima, convincitur hanc
conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva secundum ipsum est anima; ergo est actus primus
corporis; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem; ergo est forma substantialis;
patet consequentia secundum phylosophum, de anima, eo quod actus primus est forma
substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. Deinde anima intellectiva
est illud quo primo intelligimus; ergo est forma substantialis hominis;
patet consequentia, quia non est alia ratio
ad probandum animam vegetativam esse formam substantialem corporis vegetantis, et
animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo etc. L'anima
intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare
di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre
forme naturali. Su questa differenza NICOLETTI
ritorna anche nel commento al De anima: Intelligenda est differentia inter informare
et inherere: quoniam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectionem
in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectionem; sed inherere
est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectionem in materia et imperfectionem
in forma, quoniam sustantificare dicit
perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam
a subiecto – GRICE SUBSTANTIATION --. Ex isto notabili, sequitur quod anima intellectiva,
licet informet corpus humanum, non tamen
nheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante
illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur,
anima autem intellectiva sit eterna. Ouatuor
rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est
ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret.
Secunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi. Tertia
ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmutabilis; ergo non inheret
materie. Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per
carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio;
ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son
dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costituiscono l'uomo nella
sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite
da un intimo In libros de anima legame talmente
stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione
Nifo, più che due anime le dice due semi-anime costituenti, pella loro
sostanziale unione, una sola anima umana; -- GRICE UN TERTIUM ANIMAE -- che è anche
il pensiero d’ALIGHIERI, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del calor
del sole che si fa vino, giunto all'omor che dalla vite cola. La tesi di
NICOLETTI è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato
in risposta a quello d’AQUINO contro gli averroisti; ma d'accordo col brabantino
il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore
arabo; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum
per se subsistere, et ipsum non uniri materie
ut formam; sed non sui ipsius{sic, leggi: sum ipsius) opinionis. Ma se il nostro
eremitano dissente da Sigieri su questo particolare, non dissente affatto da lui
nel ritenere che, pur essendo forma dell'uomo, l'intelletto possibile è unico per
tutti gli uomini. E nella Summa naturalium ritiene sia questo il pensiero non soltanto
d'Averroè, bensì quello d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo
et tertio de anima, natura nihil facit frustra et non abundat in superfluis,
nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi
unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo
potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur
in una intelligentia, et non species humana;
sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno
individuo, quia anima intellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia
celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime
intellectuales solo numero differentes. tem, intellectus venit de foris,
secundum philosophum, libro de animalibus: aut ergo per creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum
a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis,
aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis
humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assignari,
quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum Sigieri nel pens.Purg. In libros de anima opinari; ergo est
dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective
simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus
hominibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus
non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur:
pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per materiam, per philosophum,
celi, et metaphysice, ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate
solo numero differentes, per hoc medium: quecunque conveniunt in eadem specie et
differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet
ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva
est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima, et non contingit dare multitudinem
infinitam, celi et physicorum, et species sunt eterne, posteriorum et physicorum;
ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet consequentia, quia, si anima intellectiva
mutatur mutatione individuorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptionem,
ut posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat
prime parti antecedentis; aut per multiplicationem finitam animarum recedentium
et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt
oppositum scripsisse Aristotelem; aut per generationem vel creationem et incorruptibilitatem,
ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti antecedentis;
ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem
et intentionem Aristotelis. La stessa
tesi NICOLETTI sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola
variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in tutti gli uomini è detta
sen In libros de anima: Secundo notandum, secundum Commentatorem, eodem commento,
quod Illa natura intellectus non est hoc
aliquid, nec corpus nec virtus in corpore,
quoniam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse
et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent intellecte
in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secundum quod sunt forme,
sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in corporalibus. Intentio commentatoris est, quod
intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus
nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur
intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod
intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus z'altro rispondere
al pensiero d'Aristotele iuxta impositionem Commentatoris; nel commento invece è presentata semplicemente come intentio e opinio
Commentatoris: segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche
dubbio alla mente del maestro padovano.
Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l'
intelletto agente, tanto per Aristotele quanto
per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium, NICOLETTI ritiene: quod intellectus agens et possibilis
non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales,
sed accidentales. Intellectus agens est
coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et
indistantiam. Per altro nella risposta Ad primum argumentum egli accenna anche alla tesi
di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem
esse essentiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavisam, vitaliter
immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens.
Invece, quando scrive l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non
soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma altresì da quello teologico:
Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia
anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones.
Prima fuit Avicenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem
esse substantias invicem separatas loco et
subiecto, ita quod secundum eum sic intellectus possibilis est forma hominis, et
intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra
felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales
et secundum quod sunt diverse. Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent
intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint universales
et depurate a conditionibus materialibus. Tertium inconveniens: quod intellectus
non poneret differentiam inter formas universales et singulares, sive ille forme
corporales sive spirituales. E
dopo aver riferite obiezioni contra commentatorem, comincia la sua risposta con
queste sintomatiche parole: Responsurus
prò opinione Averroys, dico totum universum illuminat, per cuius
illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia
separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt
omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus
factus est in actu nos intelligimus quandocumque volumus, secundum quod posuit supra Commentator
et habetur ad experientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare
supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque
volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens
non est talis intelligentia separata. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci
fa presentire come la pensi NICOLETTI su
quest'argomento: se invece di identificare r intelletto agente colla decima intelligenza
celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse identificato
con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi quandocumque volumus.
Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l'intelletto
agente con un intelletto particolare, anzi
che con un intelletto veramente universale. Dopo di che, NICOLETTI espone e critica
come seconda opinione quella di COLONNA, AQUINO, e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano
l'intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione,
da lui riferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia WycHf,
il cui ricordo dove essere ancora ben vivo
a Oxford, quando vi giunge il nostro
eremitano. Indi prosegue: In libros
de anima La opinione è così riassunta: opinio fuit Eucliph dicentis intellectum
possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse
substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus
sanctus sunt tres persone realiter distincte, non tamen tres substantie nec tria
accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus
possibilis et voluntas sunt tres potentie realiter distincte, non tamen tres substantie,
nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva; et sicut pater
non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius
et spiritus sanctus, ita intellectus agens
non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa
eadem anima intellectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio
ista non est tenenda phylosophice nec theologice etc. Quarta opinio, que tenenda
est, fuit Aristotelis ponentis intellectum agentem et possibilem esse virtutes et
potentias anime non subtantiales nec accidentales, sed intellectum possibilem esse accidens proprium
et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut
materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intellectuin
vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili
non per modum forme informantis nec inherentis, sed per modum forme et habitus presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia,
preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati
prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales
que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective
competere correspondere agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative,
que passive sunt in anima intellectiva,
mediante intellectu possibili. Si enim aliqua intelligentia dependens esset intellectus
agens, per istam non posset intellectus possibilis intelligere primam causam, quia
intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem; modo
nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo
modo agere, ratione independentie suedependentie
et imperfectionis. Et hec opinio non
solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque,
ogni riserva è sciolta, e NICOLETTI giudica
la dottrina che identifica l'intelletto agente colla causa prima, cioè con
Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera
in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno
alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo
animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del brabantino, strettamente
connessa con quella che concerne l'intelletto agente, la teoria cioè della beatitudine
per mezzo del congiungimento della mente umana coli'intelletto divino. Su questo
punto Sigieri aveva fatta sua l'interpretazione
che il Commentatore arabo, nella celebre digressione inserita nel commento del De
anima, dava del Allo stesso modo per Dante, Conv. l'anima in vita tratta per virtù
celestiale dalla potenza del seme, incontanente produtta, riceve da la vertù del
motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte
le forme universali, secondo che sono nel
suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima intelligenza è. Sul
qual passo, N. Dante e la cultura medievale e Giorn. Crit. filos. Hai.. QI
pensiero d'Aristotele. Anche l'eremitano
sa bene come la pensa Averroè: Commentator autem dicit de annna, quod, cum intellectus
possibilis fuerit intellectus adeptus, id est actuatus omnium specierum materialium, intelligit intellectum agentem
per essentiam propriam Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e
postosi il quesito Qualiter intellectus noster intelligit substantias separatas,
lo risolve affermando che l'intelletto umano conosce le sostanze immateriali non
per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Così nella
Summa naturalium. Ma nell'esposizione del
De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema
Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere, fa questa osservazione
che è presa alla lettera dal commento d’AQUINO: Istam questionem non solvit hic
philosophus, dicens se determinaturum alibi, scilicet in libro metaphysice; hec
questio tamen non invenitur soluta per
ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia
nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit.
Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse
da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine
della discussione, egli ci fa sapere quod hec opinio iam non tenetur a theologis vel philosophis, e ripete quod intelligentie
separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe, sed indirecte
et reflexe per cognitionem motus celi. Da quanto precede, mi pare risulti in modo
da non lasciar dubbio, che Nicoletti, quando insegna a Padova, aveva od aveva avuto
tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato d’AQUINO. De
unitale intellechis. Questa e verosimilmente
altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano,
o fu il Summa naturai In libros de anima
AQUINO, De anima. nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi?
Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra supposizione, in mancanza di
dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella letteratura manoscritta concernente i maestri
che professarono a Padova e Bologna potranno gettare qualche luce sulle correnti
d'idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale. Per il momento,
a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegna a Bologna,
e che nel suo commento al De anima accoglie la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones
de anima intellectiva. Ma Taddeo, più che
l'opera del brabantino sembra aver letto le Quaestiones di Jandun, le quali ebbero
in Italia la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni,
discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra
essere stata da NICOLETTI, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva
è forma del corpo, la quale, come già sappiamo
è in sostanza quella di Sigieri, cui espHcitamente accenna. Il bisogno di togliere alla dottrina averroistica
quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser
l'intelletto forma del corpo umano, dove invogliare gl’averroisti italiani a procurarsi
quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni d’AQUINO, e nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico
intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse all'uomo con tale intimo
e sostanziale legame, da potersi dire forma dell'individuo umano cui s'attribuisce
l'atto dell'intendere. L'insegnamento di Nicoletti a Padova è una
inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti.
Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta:
che la dottrina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta
a Padova, senza che chi se ne fa sostenitore incorresse nella taccia d'eretico;
tanto vero che NICOLETTI non sente neppure il bisogno di Vanni Rovighi, Le Quaestiones
de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione. Milano,
Soc. Ed. Vita e pensiero ripetere la solita formale protesta,
che altri averroisti avevano cura di non
omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come
teologi. E forse perché gli averroisti padovani usano senza parsimonia di questa
libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì quovis quaesito
colore le dispute intorno all'unità dell'intelletto. Ma il divieto riguarda la DIOCESI
di Padova, e non, per esempio, Bologna e
Pavia, ove si continua a disputare con grande spregiudicatezza. Non mi stancherò
mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera
e propria dottrina della doppia verità nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai
sostenuta da alcuno. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo d’AQUINO,
posero in rilievo l'opposizione di fatto fra
la teologia e la filosofia, intendendo per filosofia la dottrina della natura
congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il filosofo per eccellenza, e
sviluppata dai suoi commentatori. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito,
di questa opposizione, fu Alberto. Il quale, non solo dichiara apertamente che
theologica cum physicis principiis non conveniunt,
ma giungeva fino a sostenere, non doversi
far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta
di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali. Perciò, egli che s'era
proposto totam Aristotelis scientiam prò viribus explanare, dichiarava di rifuggire
dall'interpretazione che del pensiero aristotelico danno i dottori latini:
quoniam in istarum quaestionum determinatione
omnino Giorn. Crit. di Filos. Ital., e in Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché quanto ne ha
scritto Gilson, Etudes de philos. médiév., Strasbourg;
id., Dante et la philosophie, Paris A. Magno, Metaphys. A. Magno, De gener. et corrupt., la mia
nota La posizione di Alberto di fronte
all'averroismo, Riv. di Storia d. Filos.
abhorremus doctorum latinorum verba; fra i quali è sicuramente il suo confratello italiano, Aquino.
La pretesa teoria della doppia verità non fu dunque una teoria né una dottrina,
ma la semplice constatazione del disaccordo o contrasto fra la filosofia
aristotelica e il pensiero cristiano. Ed era perfettamente logico che gli espositori
del pensiero aristotelico diffidassero dei tentativi concordistici d’AQUINO e d'altri
teologi, e preferissero attenersi
neir interpretazione d'Aristotele ai principii fondamentali della
sua metafisica, senza preoccupazioni teologiche, sia che le conclusioni cui giungevano
s'accordassero o no coi dogmi della fede, avendo per altro cura di dichiarare che
quello che affermavano come filosofi, cioè come interpreti d'Aristotele, non riguarda
né intacca la verità di fede, cui essi protestavano di credere come fa ogni buon cristiano. Dal punto di vista
logico e oggettivo, questo atteggiamento degl’averroisti era perfettamente coerente
e non impHca in sé niente di contradittorio,
e tanto meno costituiva quell'eresia che Aquino e alcuni altri teologi vi scorsero. Il che compresero
bene non pochi altri teologi ai quali il
tentativo d’AQUINO di cristianeggiare la filosofia aristotelica, per ancorare ad essa il dogma, non parve né di buon
gusto né di A. Magno, De anima; La posizione d'A. M. Pomponazzi, che rifugge del pari da questo
fratrizzare, id est miscere diver.-a
brodia Phys. Vili,, Bibl. Nation. di Parigi, cod.
lat., loda anche lui Magno,
perché a differenza degli altri fratres omnes,
cioè di COLONNA, AQUINO,
Scoto e RIMINI, s'è astenuto dal frateggiare, mescolando filosofìa e teologia. Sicché isti
fratres truffadini, dominichini, franceschini vel diabolini habent bene rationem
comburendi Albertum, quia omnes questiones sunt contra fìdem nostram licet dicat
in fine, quod ita dicit quia ut philosophus loquitur, et philosophica non sunt
miscenda cum theologicis; et dicit quod in theologia aliter sentit; et dicit quod
est fatuum miscere eredita cum physicis; me autem vellent comburere {Phys., Vili,
Arezzo, Fraternità de'Laici, m. cod. Parig. il articolo di N., Alberto Magno e AQUINO, Giorn. Crit. d. Filos. Ital., e La posiz. di A.
M., Non va confusa con questa tesi la dottrina, svolta più tardi
da Bruno, e anch'essa d'origine averroistica, la quale attribuisce alle
verità di fede un valore puramente pratico, che il filosofo accetta solo come tale.
Dell'origine e dello sviluppo di questa teoria ho parlato n Giorn. Crit. d. Filos. Ital., buon
augurio. E in particolare lo compresero gì' inquisitori che sorvegliavano
con occhio sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità. A questi ultimi importa
mediocremente di sapere come la pensa Aristotele e Averroè sull'eternità
del mondo o sull'unione dell'intelletto all'uomo: essi invece volevano essere rassicurati sui sentimenti
personali dei commentatori cristiani
d'Aristotele intorno a questi argomenti. E per esserlo, bastaron loro, a
quanto pare, le pubbliche dichiarazioni che, neir insegnamento e nei loro scritti, gli aristoteli
si facevano premura di non dimenticare. Ciò spiega come l'averroismo e l'alessandrismo
abbiano potuto avere una vita abbastanza
florida; e com'essi fossero apertamente professati a Padova, a Bologna ed
altrove senza che per questo corre sangue, come fantastica Orestano. Ch'io sappia,
neppure una goccia ne fu versato, a meno
che non fosse dal naso nell'ardor delle dispute. E nella libera discussione, entro
e fuori le aule universitarie, a Padova e
a Bologna, e non per editti restrittiva, l'aristotelismo nelle sue varie
tendenze esaurì la propria vitalità, quando si comprese che i problemi da
esso posti erano insolubih, per esser
mal posti. Ma, intanto, quella che s'usa
chiamare dottrina della doppia verità, aveva ottimamente compiuto la sua
funzione storica, di assicurare un'assai ampia libertà d'indagine e di critica,
di cui il pensiero del Rinascimento s'è avvantaggiato. A questo punto nasce per
altro un dubbio perfettamente legittimo e
stimolante: erano poi sinceri, averroisti e alessandristi, quando dichiaravano di
limitarsi ad esporre quello che, a loro avviso, era il pensiero d'Aristotele, ossia
la verità filosofica, senza aderirvi, ma anzi ripudiandola, e di credere alla verità
della fede? oppure si beffano in cuor
loro degli inquisitori, mettendosi al riparo, per mezzo di quelle
dichiarazioni, contro le pene canoniche comminate
agli eretici? Un dubbio siffatto solleva problemi delicati, di difficilissima Riesame
della Beatrice svelata, in Studi su Dante,
Milano, Hoepli; il mio voi. Nel mondo
di Dante, Roma. N., Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano.
anche la voce Averroismo ndll’Enciclopedia Cattolica. soluzione. Intanto si deve
constatare che, in generale, gì' inquisitori
si mostraron piuttosto propensi a credere alla sincerità di quelle dichiarazioni
e a lasciare che, nel foro interiore, ognuno s'aggiustasse con Dio come meglio crede. Non tutti, però: che noi
sappiamo della citazione di Sigieri, di maestro Bernieri di Nivelles e di maestro
Gosvino de la Chapelle da parte dell'inquisitore di Francia; del processo intentato
a Biagio PELACANI, maestro a Pavia, dal vescovo
di questa città; e dell'editto emanato dal vescovo di Padova e dall' inquisitore del luogo, col quale si vieta ai maestri e agli scolari ogni pubblica disputa
intorno alla dottrina averroistica dell'intelletto. Quanto al primo caso, sappiamo
tuttavia che Sigieri e i compagni interposero appello alla curia papale avverso
la sentenza dell'inquisitore di Francia,
né risulta che questa fosse confermata. Il processo contro PELACANI dev'essere stato
motivato da espressioni veramente ardite contra fìdem catholicam et sanctam ecclesiam,
come quelle che s' incontrano nelle Quaestiones sul De anima conservateci nel Codice
Chigiano O., e discusse quando Biagio insegna
a Padova. Il maestro si dichiarò male contentus del linguaggio da lui tenuto, e dopo aver chiesto perdono de commissis,
il vescovo di Pavia restituit eum ad lecturam et salarium solita. L'editto invece
di Barozzi, vescovo di Padova, e dell'inquisitore Lendinara merita più lungo
discorso. Insegna allora nello studio padovano, come lettore ordinario di filosofia
naturale Vernia da Chieti, che per la sua piccola statura era chiamato ed egli stesso
si firma Nicoleto, come Pomponazzi, suo alunno, sarà detto, pella stessa ragione,
Pereto -- Nicoletto e Perette son forme italianizzate della schietta forma dialettale
padovana Nicoleto e Pereto. Addottorato in filosofia naturale a Padova, dopo avere studiato la logica a Venezia
sotto Riv. di Storia d. Filos., Maier, Die Vorlàufer Galiìeis, Roma, QQ Paolo dalla Pergola,
occamista, e la filosofia nello studio patavino
sotto Thiene, averroista, conseguì anche la laurea in medicina. Succede a Thiene come ordinario di filosofia naturale.
In suo testamento, pubbUcato da Ragnisco, accade di leggere una dichiarazione,
nella quale il testatore, nell'imminenza della morte che sentiva avvicinarsi, vuol purgarsi dell'accusa che pesa
su di ui, d'aver fatta sua la dottrina
averroistica dell'unità dell'intelletto:
Ego Magister Nicoletus Vernias Theatinus antedictus, publice legens in florentissimo
gymnasio patavino ordinariam philosophiam naturalem sine aliquo concurrente, quam
legi per annos triginta tres elapsos, ac disputavi ac tenui quod opinio unitatis
intellectus Averrois fuerit opinio AristoteHs, et post niultos annos, duni vidissem
et graecos et arabes doctissimos,
repperi non solum dictam opinionem alienam esse a fide nostra et veritate,
sed etiam ab intellectu AristoteHs, prout in quadam mea quaestione intulata Reverendissimo
Dominico Grimani ad plenum declaro; et hoc feci prò removendo nialas opiniones,
qiias /orlasse habnerunt auditores mei; nani
Deum testor quod numquam credidi tali opinioni, et cum sim in aetate decrepita,
et considerans quod oinnes morimur secundum
naturalem cursum, et videns incertitudinem temporis, diei et horae, et deliberans
disponere supra rebus meis, ut possim consequi vitam aeternam in altera vita promissam
bonis iuxta legem nostram, et, prout in supradicta quaestione declaravi, etiam iuxta
opinionem philosophorum hic non potest esse vita beata, sed tantum misera m. Fra
coloro che s'eran formata una cattiva
opinione di VERNIA, oltre ad alcuni suoi scolari, era certamente anche il
vescovo Barozzi. Fine spirito d'umanista e, come molti Documenti inediti e rari intorno alla vita ed agli scritti di Vernia e di Elia del Medigo, Atti e memorie dell'Accad.
di Scienze Lettere ed Arti in Padova, disp. E cosi, a che serviva tutta la sua speculazione
filosofica intorno alla copulatio o continiiatio
dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, in cui avrebbe dovuto consistere
la felicitas dell'Etica Nicomachea in questa vita ? Intorno al quale è da vedere 1'introduzione di
Gaeta, Il Vescovo di Padova Barozzi e il trattato De factionibus extinguendis.
Fondazione Cini, Venezia-Roma. patrizi veneziani suoi contemporanei,
animato di religioso ardore, Barozzi è vescovo di Padova alla sua morte. Pastore di anime e maestro
di vita cristiana in una città dotta, sede d'un rinomato studio al quale affluivano
scolari da tutte le parti d'Italia e d'oltralpe, non potè mostrarsi
indifferente alle rumorose dispute la cui eco si diffonde lontano. Quel battagliare
intorno al vero pensiero d'Aristotele, del suo commentatore arabo e degli interpreti
greci, gli pare che inaridisse le sorgenti della vita e del pensiero cristiano.
Inoltre, l'accanimento che molti dei disputanti mettevano nel sostenere le interpretazioni
d'Aristotele più lontane dal comune modo di pensare dei credenti, dove alimentare
in lui il sospetto, suscitato da voci che correno, che qualche maestro dello studio
patavino, mentre si da l'aria d’essere un semplice espositore della dottrina peripatetica, in realtà ha finito
per farla sua propria fino a negare i premi e le pene nella vita futura.
L'editto episcopale e inquisitoriale, pubblicato nelle scuole di Padova, dopo aver
citato alcuni passi scritturali, prosegue: Et rursum memores eorum que ad Colossenses
magis ad rem de qua in presentiam agimus accomodate scribit Apostolus, dicens: Videte ne quis vos decipiat per philosophiam et inanem fallaciam
secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi et non secundum Christum.
Et scientes sic Inter
disputandum solere animos perturbar!, ut interdum homines quod falsum esse sciebant,
prò vero suscipiant et defendamt. Volentesque ut et hi qui philosophiam discunt,
sic discant ut christianam philosophiam, que longe omnium prestantissima est, non dediscant, et hi qui docent,
dum se philosoplios esse meminerunt, non obliviscantur se etiam christianos existere,
ac venena disputationum malarum iuxta epulas philosophice discipline non ponant.
Et postremo existimantes eos qui DE VNITATE INTELLECTVS disputant ob eam potissimum
causam disputare quod, sublatis ita tum premiis virtutum tum vero supphciis vitiorum, existimant se liberius maxima
queque flagitia posse committere: mandamus ut nullus vestrum, sub pena excomunicationis
late sententie quam si contrafeceritis incurratis, audeat vel presumat DE
VNITATIS INTELLECTVS quovis quesito colore publice disputare. Non si tratta, com'è chiaro, della scomunica lanciata
personalmente contro Vernia, che della dottrina
dell'unità Ragnisco, Documenti, dell'intelletto era, in quel momento a Padova, il piìi risoluto assertore; ma d’un provvedimento
che riguarda lui ed altri, e che sopratutto denuncia una pericolosa moda d'
insincerità e doppiezza che s'anda affermando ed era nociva non meno al costume
morale che alla pietà religiosa. Può darsi che, vietando ogni discussione sull'argomento
dell'unità dell'intelletto, Barozzi e frate Martino spiegano uno zelo eccessivo;
ma la mala opinione che gl’alunni avevano concepito di taluni maestri e le voci
che sul conto di essi correvano, giustificano almeno in parte il severo ammonimento.
Poiché a questo in fondo si riduce l'editto episcopale; né si sa che esso da luogo
a processi, né che alcun maestro è ridotto al silenzio. Anzi è noto, al contrario,
che Trapolino, alunno di VERNIA, continua a professare pubblicamente il suo
moderato averroismo anche dopo la promulgazione dell'editto. E lo stesso fanno altri.
Due soltanto, eh' N. sappia, s'affrettarono a cambiare indirizzo ai loro pensieri
e a recitare la loro palinodia: Nifo da Sessa e Vernia da Chieti, in gara tra loro.
Nifo, com'egli stesso informa, aveva cominciato averroista della
corrente sigieriana; e, prima d’abbandonare
definitivamente questa posizione, deve aver giocato d'astuzia da quell'uomo scaltrissimo
che era. Alla fine del De intelledu e del commento al De animae heatiUidine,
pretende d'aver portato a termine queste due opere a Padova. Ma N.
pensa che su questa affermazione bisogni fare molta tara: poiché nella dedica
del De inielleciu a Badoèr, nell'edizione veneta, che è la più antica
che si conosce, Nifo dice in sostanza d'aver rimaneggiato l'opera, costituita originariamente
d’una Quaestio de intellectu, che gl’avversari gl’avevano impedito di pubblicare,
avendolo accusato d'eresia. Da questa accusa era riuscito a discolparsi, a quanto
pare, pell'intervento di Barozzi stesso, di Badoèr e di teologi e filosofi amici che ne presero le difese. Nella
redazione l'autore non esita a confessare d'essersi indotto a pristinam mutare sententiam;
e questo non soltanto per ciò che concerne la forma primitiva dell'opera,
giacché egli ammette: placuit quaedam tollere, mutare alia. D»
intellectu, Venezia addere plurima, Rabberciato alla meglio il De intellectu
e rifattasi una verginità filosofica, egli tenta, lontano da Padova, quella fortuna che non manca
mai d’arridere agl’uomini della sua prolifica specie. Vernia era noto in tutta Italia,
attraverso i suoi numerosi discepoli, come uno dei più decisi averroisti. Per noi
è un po' ditficile oggi ricostruire, nel suo insieme, la sua dottrina intorno
ai diversi problemi agitati nelle scuole del tempo, perché non sappiamo dove sono
andati a finire i suoi scritti, se dati
alle fiamme da lui stesso prima di morire, oppure se lasciati insieme alla sua
biblioteca al monastero di S. Bartolomeo in Vicenza, ovvero al figlio adottivo Nicoletto
della Scrofa, o ad altri. Nonché le opere scritte di suo pugno, non ci son
pervenute nemmeno le reportationes degli scolari che pur non dovettero mancare.
Ci restano soltanto, eh' io sappia, i seguenti
scritti a stampa elencati da Ragnisco: la Quaestio Dicaveram tibi anno superiori questionem meam
de intellectu. Eamque, ne labores iuventutis
mee perditum irent, imprimendam esse curavissem, nisi emuli affuissent, qui me hereseos
accusassent. Ac malui ad hoc tempus pervenire morando, quam huiuscemodi criminis
culpam subire. lam cessant accusationes: emulorum iniquitas, sic mea fide postulante, in propatulo est. Ergo suo tribuant commodo, si quam utilitatem accepere
qui me insidiis persequuti sunt, discantque interea diligentius legere que volunt
criminari, ut cautius egisse videantur. Sed valeant isti, satisque mihi sit Barotium
episcopum patavinum, christianorum nostre etatis decus et splendorem, te cui
non minus in fide quam in philosophia tribuo, et quamplurimos alios tum theologos
tum philosophos iudices ac censores habuisse, qui semper innocentie mee testes eritis.
Tractaveram hanc nobilissimam materiam et de fontibus omnium antiquorum phylosophorum
exhaustam, recenti stilo, quod omnes fere commendare visi sunt, preter paucos,
quorum precipuus fuit Hieronymus Malclavellus, tunc privatus scholaris, nunc nostre academie diligens ac iustus moderator; qui ut
est rectus ingenio, acer iudicio, splendidus in omnibus atque liber, numquam
ubi de honore ac utilitate amicorum suorum agit, assentari novit. Hic cohortatus
est me, ut universum opus in capitula secarem, asserens antiqua stilo esse antiquo
tractanda. Hac unica huiusce viri ratione persuasus, licet alias adduxerit quarum
illi copia est, pristinam mutavi
sententiam: placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Nihil delevi quod
sit contra fidem catholicam; non enim potest destrui quod factum non invenitur.
Seb. Badoèr morì i Diarii di Sanudo. La dedica
dunque e il rabberciamento dell'opera sono anteriori, e probabilmente dello stesso
periodo nel quale Nifo prepara anche l'edizione dei Collectanea sul De
anima, usciti anch'essi, presso la stessa officina veneziana de Quarengiis.
Sembra pertanto che l'edizione del De intellectu, ricordata e perfino citata da
taluno come uscita a Venezia, non sia mai esistita! an ens mobile sii totitis philophiae
naturalis suhiectum; il prologo alla Fisica col titolo De divisione philosophiae;
la Quaestio an medicina nohilior ac praestantior sii iure civili. la Quaestio an caelum sit animatum, nell'infelice
riportazione d’uno scolaro che forse è Sermoneta; Quaestio an deniur
universalia realia; la Quae Stampata a Padova
nel volume di commenti di COLONNA, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione,
ed anche nell'edizione scotina della stessa opera Venezia. Nell'edizione padovana
precede la dedica a Languardo, vescovo di
Acerenza e Matera. Ragnisco, Documenti; Vernia. Studi storici sulla filosofia padovana,
Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Questa Quaestio e lo
scritto precedente si trovano in principio del volume: Burley, Expositio in libros
de physico auditu Aristotelis stagerite,
emendata per me nicoletum verniam theatinum puhlice et ordinarie legentem Venetiis, La Quaestio è stata ristampata
da Garin, La disputa delle Arti, Ediz. Naz. dei Classici del Pensiero Italiano,
Firenze, Vallecchi. Precede la dedica a Badoèr, censore di Venezia, il quale, come
Vernia, era stato discepolo di Paolo dalla Pergola, ed era un convinto scotista,
qual erasi rivelato a Nicoleto, per averlo questi udito argomentare con vigore in
una pubblica disputa in occasione d'un capitolo
generale di Frati Minori tenuto a Venezia. In questa dedica Vernia accenna
anche ad una amplissima quaestio de INCHOATIONE formarum che avrebbe dovuto trovarsi
nello stesso volume, ma che poi è stata omessa. L'argomento per altro è ripreso
con certa ampiezza nella Quaestio an dentur universalia realia, di cui sotto. Pubblicata
da Ragnisco, Documenti. In principio del
raro volume Urbanits Averoista philosophus sumnius ex almifico Servoritin Divae
Mariae, comentorum omnium Averoys super librum Aristotelis de physico audita expositor
clarissimus. Per probum virum Bernardinum Tridinensem de Monteferrato. Venetiis.Questa
importante opera dell'averroista bolognese dell'Ordine dei Serviti, la quale nel
prologo dell'edizione stampata porta la dat,
era stata ritrovata, coperta di polvere e corrosa dalle tarme, nella biblioteca
bolognese dell'Ordine, dal priore generale dei Serviti, frate Alabanti, che, compresone
il pregio, tanto più che anch'egli si professa averroista, ne scriss a Vernia, come quello che aveva sempre
difeso le parti d'Averroè, onde averne il parere per un'eventuale stampa; e all'uopo
gli mandò lo scritto d'Urbano perché l'esamina:
Ad te igitur libellus noster confugit: tu eum paterno amplectaris amore; et
tandem tua censura maturoque Consilio examinatum censeas si dignus est ut in claram
lucem professoribus perypatheticis ad doctrinamque Averoys aspirantibus emergere
possit, ad nosque rescribere digneris. Quod si feceris, ut speramus et oramus, non
minus tibi et Urbanus noster, operis conditor,
quam Averoys et qui eius doctrinam sequuntur, interstio de gravibus et levihus,
senza data; è la Quaestio, rimasta sconosciuta
a Ragnisco, An celum sit ex materia et forma constitutum vel non, che termina: Et
sic est finis huius questionis compilate per me Nicolettum verniam theatinum Padue
philosophiam publice legentem, e che si trova in principio della rara edizione veneziana, curata dallo stesso
Vernia, del commento d'Averroè alla Fisica, ove occupa ben dodici colonne in-folio.
Tutti questi scritti sono schiettamente averroistici; e sebbene non riguardino alcuno
dei problemi scabrosi pei quali gli averroisti eran tenuti in sospetto, tuttavia
non è difficile qua e là imbattersi in espressioni rivelatrici dello spirito del
loro autore. Si prenda, ad esempio, la prima
quaestio ricordata qui sopra. Dapprima, secondo lo schema familiare al Vernia,
sono addotte le opiniones ab Aristotele et suo commentatore deviantes, e in primo
luogo quella d’AQUINO che egli, nativo di Chieti, si compiace di chiamare suo compatriota,
poiché suddito anche lui dello stato napoletano. AQUINO appunto aveva sostenuto,
in principio del suo commento alla Fisica,
ens mobile et non corpus mobile, contra Albertum merito cognomine magnum, esse totius
philosophiae naturalis subiectum. Poi ricorda le critiche mosse da COLONNA ego quoque
minimus accedo, ingentem immortalemque semper gratiam habebimus. E il maestro padovano
gli risponde, dando dell'opera e dell'autore questo giudizio: Vir ille ut dicam quod sentio cum omnibus bis, qui Averoym ad haec usque
tempora secuti sunt, certare mihi visus est et plurimos etiam vincere. Nemini vero
ut mea quidem fert opinio cedit. Cum enim Averoys verba sensusque per obscuros aperire
illustrareque aggreditur, nihil illius explanatione enodatius, nihil clarius, nihil
denique absolutius dici potest. Quaestiones vero quae in naturali philosophia et plurimae et gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat.
Sed ut est acri iudicio praeditus, ita acute subtiliterque solvit, ut ad rei perfectionem
nihil addi posse videatur. E mentre
approva il disegno della stampa, informa che a Padova nella biblioteca di S. Giovanni
in Verdara, esiste un altro codice dell'opera d'Urbano, attribuito fino allora a
Marcanova, e promette che, per far meglio
conoscere il commento del servita, terrà un corso sulla Fisica. La quaestio
del Vernia sugli universali occupa quattro fogli non numerati, prima del commento
di Urbano, ossia 12 colonne intere e 2 mezze
colonne. Nel voi. Acutissime questiones super libros de physica auscultatione
ab Saxonia edite, Venezia, con dedica al filosofo Bolderio da Verona. alla tesi d’AQUINO, e il giudizio di Jandun su AQUINO, ritenuto melior expositor
inter latinos, unde per excellentiam dicitur expositor, sicut Averrois commentator.
Incappa infine nella tesi degli scotisti Canonico e Andrès, i quali s'eran
permessi di criticare Aristotele. Contro tanta audacia egli insorge ripetendo il
giudizio, comune a tutti gli averroisti, sullo Stagirita: Ad illa respondet Canoniciis,
et similiter Andreas, concedendo Aristotelem male dixisse et insufficienter
ipsum philosophiam tradidisse; philosophus enim tanquam sacrilegus insufficienter
et erronee tradidit nt)bis philosophiam naturalem, ut Antonius inquit. Sed minor
de istis, quod cum tam pauca reverentia centra philosophorum principem loquantur;
ncque unquam invenio Albertum, AQUINO aut doctorem subtilem talia contra Aristotelem dixisse. Unde beatus Hieronymus, de
eo loquens, scribens ad Eustochium, De
vita nionachonim, ait: Absque dubitatione prodigium fuit grandeque miraculum in
tota natura, cui, ut pergit, pene videtur infusum quicquid naturaliter capax est
genus humanum. Cui concordat Averrois, De anima, dicens: Ipse fuit regula in natura
et exemplar quod natura invenit ad ostendendum
ultimam perfectionem possibilem in materiis. Venendo poi alla soluzione del
problema, il filosofo chietinf) sostiene de intentione aristotelis et sui commentatoris
averrois cordubensis fuisse, quod corpus mobile est subiectum in scientia naturali.
Ancora più tipico è il caso della Quaestio aii medicina iiobilior ac praestaiitior
sii iure civili. È notevole, anzi tutto, che egli abbia lasciato in pace i canonisti, strettamente imparentati
coi teologi, gente, gli uni e gli altri, colla quale è prudente non aver briga.
Per dimostrare, dunque, la tesi affermativa, che cioè la medicina è da più del diritto
civile, il nostro si rifa Lo stesso passo
dell'opera pseudo geronimiana m'è accaduto di trovar citato nel De pietate Aristotelis
erga Deiim et ìioinines di Liceto Udine, amico e collega di Galileo a Padova. Costui, al pari di Tostado,
vescovo di Avila, In librum paradoxorum Venetiis, e di Sepulveda, da Cordova Opera,
Madrid, Epist., lettera al teologo Serrano,
pensa, se non proprio a una canonizzazione, che fosse almeno altamente verosimile
la salvezza eterna di Aristotele. Al quale però
Tostado, da buon umanista, unisce le anime di Socrate, di Platone e di siffatti filosofi, che Cristo avrebbe liberato discendendo
al limbo. al concetto, comunemente ammesso, che la medicina nella sua parte teorica
rientra nella filosofia naturale ed è scienza speculativa; il che non può dirsi
dal diritto civile. Ora nella speculazione intorno alla natura Aristotele aveva
fatto consistere il fine ultimo e la perfezione suprema dell'uomo, a cui si giunge
soltanto mediante l'apprendimento delle scienze
speculative, coronato dal congiungimento o copulatio con r intelletto agente. Ex quo sequitur, hominem equivoce
dici de homine rationali et iurista, cum iurista non sit nisi equivoce, cum inrista
ultimo fine hominis sit privatus. Et hoc est quod Averrois dicit in prologo
libri Physicorum, quod homo equivoce dicitur de homine perfecto per scientias speculativas et de homine ignorante eas,
sicut dicitur equivoce de homine vero et picto Ci sarebbe da chiedersi se mastro
Nicoleto non fosse per caso in vena di scherzare, per dar la baia ai colleghi della
facoltà di diritto: ma purtroppo egli non fa che ripetere cosa di cui tutti gli
averroisti erano convintissimi; anzi taluni diessi, come Achillini e Bacilieri pensano
che al raggiungimento della suprema perfezione
e della felicità cui l'uomo aspira, bastassero i libri bene interpretati di Aristotele
e d'Averoè, che quelli ritenevano aver conquistato il più alto grado di felicità
di cui l'uomo è capace in questa vita, non ostante i sorrisi ironici degl’alunni,
e quelli di Pomponazzi Al cospetto della
morte, Nel citato voi. del Burley
sulla Fisica, Venezia. Il passo d'Averroè in
principio al prologo della Fisica, al quale accenna Vernia, è questo: Declaratum
est in scientia considerante in operationibus voluntariis, quod esse hominis secundum
ultimam perfectionem ipsius et substantia eius perfecta est ipsum esse perfectum
per scientiam speculativam; et ista dispositio est sibi felicitas et sempiterna
vita. Et in hac scientia manifestum est, quod praedicatio nominis hominis perfecti
a scientia speclativa, et non perfecti, sive non hahabentis aptidinem quod perfici
possit, est aequivova, sicut nomen hominis quod praedicatur de homine vivo et de
homine mortuo, sive praedicatio hominis de rationali et lapideo. il
mio Sigieri nel pens. Accade spesso
al mantovano di fare dell'ironia sulla copulatio degli averroisti qui continuo prandent
cum deo et qui habent intellectum adeptum
comm. al delle Meteore. Parigi, Bibl.
Nat. cod. lat..
E del Bacilieri riferisce: Ideo Tiberius
iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos, ad hoc ut felicitatem istam pertingat
Comm. alla Metaph., Arezzo, Frat. Laici, ms. Parigi, e. s., cod.
lat.. Questa convinzione abbandona il filosofo chietino, persuaso ormai che
non solo secondo la fede, ma etiam iiixta
opinionem philosophorum, hic non potest esse vita beata, sed tantum misera.
Evidentemente anch'egli, come molti, ignora la manzoniana preghiera allo Spirito
divino: Dona i pensier che il memore ultimo dì non muta. Averroista era Vernia anche nella soluzione
del problema se il cielo è animato, e di quello sul moto dei gravi e leggeri.
Anzi, su quest'ultimo argomento, mentre perfino molti averroisti avevano finito per scostarsi
dalla dottrina d'Aristotele e avevano accolta la teoria nominalistica degli
impetus, Vernia segna un ritorno puro e semplice alla tesi dello Stagirita, seguita
da Averroè, da Sigieri e da pochi altri. La Quaestio an denhir universalia realia
è invece un tentativo di mostrare l'accordo tra Averroè e Alberto sulla
dottrina, convenientemente interpretata,
della inchoatio formarum; poiché gli universali di cui qui si parla, non sono le
intentiones primae et secundae dei
dialettici, ma le idee considerate
come cause della realtà, gli universalia
physica, come li chiama Vernia, ossia le forme delle cose. Nel voi. cit. delle Acutissime
questiones di Sassonia Maier, Zwei Grundproblenie
der scholastichen Philosophie. Roma, Ediz.
di Storia e Letter. Nel voi. di Urbano Averroista, col.: Ex quo patet error
illorum qui dicunt inchoativum secundum commentatorem et Albertum esse potentiam
subiectivam materie, cum, ut visum est, sit potentia formalis distincta a potentia
materie, que est in substantia forma substantialis, imperfecta tamen, cum omnis
potentia materie taUs, quam ponunt, si distincta ab ea et sit accidens Ex quo sequitur dari universalia realia
ad mentem veriorum philosophorum peripatheticorum, tum Grecorum, tum Arabum, TVM
LATINORVM GRICE MINNIO PAULELLO OXFORD;
cum tales essentie sint universalia physica et in re, ut visum. Il primo
di tali universali fisici è per Vernia la forma corporeitatis di Avicenna, coeterna
alla materia. In proposito, abbiamo
questa informazione nel commento di Pomponazzi al De substantia orbis di Averroè Cod. Reg. lat..
Credo quod haec responsio fuerit Nicholeti; quia etiam ipse tenebat ad mentem commentatoris
formas corporales de prae-dicamento substantiae materiae primae esse coaeternas.
Et tunc glosabat ipse commentatorem, hic dum dicit quod materia non habet formam
quae reponat eam in esse specifico et ultimo,
quia si materia prima baberet formam ultimam specificam, tunc non posset ipsa materia
aliam formam recipere, quia, cum ultimo non detur ultimum, ipsa forma esset in actu
completo, nam infra formam ultimam specificam non sunt nisi individua; et in hoc
commentator dissentit ab AviIo8 Anche in questa Quaestio, non mancano accenni alla
dottrina averroistica dell’intelletto; ma
sono accenni più cauti. L'editto episcopale era stato promulgato evidentemente per
qualche cosa. A Colze nel vicentino,
mastro Nicoleto dovette pensare al modo di dissipare i sospetti d'eresia
che gravavano su di lui, e, sebbene affetto da oftalmia, prese la penna e cominciò
a buttar giù una specie di confutazione dell'averroismo. Nasceno così le Quaestiones
de pluralitate intellectus contra
falsani et ah omni ventate remotam opinionem Averroys et de animae felicitate.
L' idea di quest'opera gli fu suggerita non iniussa cano! da frequenti esortazioni
del doge di Venezia, Barbadigo, e dallo stesso Barozzi, che, se da una parte lo
minaccia di scomunica, dall'altra cerca di adescarlo con buone promesse. La composizione
dello scritto non dovette procedere molto
rapida. Poiché soltanto l'opera fu presentata ai revisori ecclesiastici e al vescovo
per la stampa. I revisori, Trombetta, Merlino e Ibernico, prodigarono all'autore
le più ampie lodi, e il vescovo Barozzi se
ne dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche nel dare atto del nuovo atteggiamento
assunto, ricorda le voci che un tempo correno sul conto di lui, e non osa dichiararle infondate; anzi lo stesso paragone
che egli fa del chietino con S. Paolo, il quale di persecutore del nome cristiano
era divenuto un ardente difensore della fede – GRICE HERESY APOSTASY – back to
goold old Paul --, sembrerebbe insinuare il contrario: cenna qui ponebat talem formarti
specificam ultimam; sed commentator dicit, quod talis corporeitas non est forma specifica completa, sed est forma generica imperfecta;
et sic dicebat ipse Nicholetus quod materia prima habet istam formam genericam sibi
coaeternam, et in ipsa etiam formam elementorum.
Così, per esempio, in principio della colonna: Et tu nota hoc prò Averoy, quod anima
intellectiva non dat esse corpori humano; sed hoc quod dicitur est mendatium purum,
ut in De anima declarabo. E più oltre a metà della stessa colonna: Unde
intellectiva anima apud ipsum non creatur, sed est eterna; et in hoc Albertus,
et bene sicut fidelis christianus, ei adversatur, volens ipsam de novo fieri per
creationem, et hoc secundum Aristotelem. La quale apparve nel volume già cit.
delle Acidissime questiones super libros de physica auscuUatione ab Saxonia edite,
Venezia. A. Calcedonio da Pesaro, M. D.2 ra. i Cum prius et disputando et docendo unum
esse in omnibus intellectum sic explicaveris, ut totam pene Italiani errare feceris,
ut aiunt malivoli tui et minuti philosophi, ut in epistula tua ais, etsi istud non
senseris, fuisti forte causa ut alii hoc sentirent. Nunc opusculum composuisti,
quo sentire te contrarium non solum dicis verum etiam probas. Quod cum diligentia vidimus et approbamus. Quo circa,
sive ita senseris sive non, opusculum istud componere precium fuit, ut error pessimus
illius maledicti Averroys extirparetur. Nihil hac mihi re gratius, nihil iis qui
te audiverant utilius, nihil tibi, qui apud miiltos ob eam rem infamiam non mediocreni
excitaveras, honorificentius. Per purgarsi di questa non mediocre infamia e per impedire che si parla di un voltafaccia, mastro
Nicoleto insiste nel dichiarare che la difesa un tempo da lui assunta dell'averroismo
non muoveva da intima adesione alla dottrina dell'unità dell'intelletto, ma era fatta soltanto disputandi
ac acuendi ingenii gratia. Era sincero in questa sua protesta, rinnovata con solennità
anche nel suo testamento? Per il vescovo
e per l'inquisitore questo non aveva
importanza: ad essi basta il fatto che, comunque l'avesse pensata un tempo,
ora il sospettato fa lodevole ammenda del passato col suo ultimo scritto contro
l'averroismo. Ma tra i suoi alunni d'un tempo ve n'era sicuramente qualcuno
che, assistendo ai funerali e alla tumulazione di lui – e suo corpo -- nella chiesa di S. Bartolomeo a Vicenza, e ripensando
al carattere del maestro, dove sorridere di questa commedia e ripensare in cuor
suo alla novella di Ser Ciappelletto. Vernia non era precisamente quello che si
dice un cuor di leone. Nello stesso suo testamento revoca, come giuridicamente
nulla, una donazione de'suoi beni alla moglie, fatta sotto la minaccia di morte
da parte del cognato Pietro de Salvato. Era stato richiamato all'ordine dal Senato,
perché pare facesse i suoi comodi, leggendo
senza concorrente e trascurando di studiare con grande lagnanza degli scolari, Nifo,
già suo alunno, ci narra di lui due episodi che possono servire a lumeggiarne il
carattere. Il primo è meglio Nella dedica a Grimani Ragnisco, Nic. Vernia. Cfr.
qui sotto il saggio successivo. no riferirlo in latino; Cum Nicoletus Theatinus,
praeceptor noster, sua aetate peripateticus
eximius, ludibriis ludificationibusqiie oblectaretur, plurima jecisse multi
norunt. Et inter prima, cum Veronam peteremus, ut baptizaremus puerum cuiusdam communis
discipuli, et post crepusculum ad urbem applicaremus, essetque caupo prohibitus
recipere iudaeos, qui extra urbem hospes erat, nobis hospitium conferentibus dixit:
Te recipere non possum, quia prohibitus sum,
demonstrans Nicoletum; te autem possum, annuens me. Interrogantibus quare
respondit: Quia Iudaeos hospitari prohibitus sum. At praeceptor subiecit: Audi,
amice, a secretis. Et mox penem praeputiumque
ostendit. Quem cum vidisset, hospitatus est nos. Nifo aggiunge che la mattina
dopo, sopraggiunti alcuni della città ad incontrarli e a riverirli, l'oste chiede
umilmente scusa, mentre mastro Nicoleto non
si stanca di raccontare a tutti, uomini e donne, il piccante episodio. L'altro aneddoto
si può raccontare anche in volgare, sebbene sia assai più sconcio del primo, se
è vero. Narra dunque Nifo che, rimasta vacante a Padova una cattedra di diritto,
per la morte del titolare. Barbadigo, che era allora capitanio della città, era
sollecitato dagli studenti a corpirla con un
dottore di diritto canonico siciliano. Barbadigo annunzia che aveva già pronto
l'uomo che fa al caso, e questi era mastro Nicoleto. Ma Nicoleto è un filosofo,
osservano quelli, e di diritto non se
n'intende. Montato su tutte le furie, il magistrato li manda a farsi impiccare,
e chiamato a sé Nicoleto gli propone di legger diritto al mattino, per 300 ducati
d'oro, e di continuare a legger filosolia
nel pomeriggio. Il maestro non si perita di accettare, effondendosi in ringraziamenti.
Se fin qui la faccenda era abbastanza sporca, il peggio vien dopo. Gli studenti
malcontenti andano da Nicoleto a pregarlo di voler far capire lui stesso a Barbarigo
che il diritto non era il fatto suo. Che io vada a fare una dichiarazione del genere
ad un uomo che mi giudica sommo in ogni ramo dello scibile? Gli studenti non si scoraggiarono e lo
tentano per un altro verso: si che non molto dopo, munusculis A. NiPHi, Opuscula moralia et politica cum G. Naudaei de eodem auctore iudicio, Parigi, De re aulica.
III non mediocribus acceptis ab illis studentibus, si presenta a Barbadigo
e con ogni rispetto lo prega di liberarlo d’un carico che pesa troppo sulle sue
spalle. Chi oserebbe insinuare che l'idea
di conferire a lui una seconda cattedra e un secondo stipendio fosse ispirata a
Barbadigo da Vernia stesso? Ma non meno interessante, pella religiosità e l’indole morale di lui, è quel che apprendiamo dalle lezioni di
Pomponazzi, che, al pari di Nifo, del chietino fu alunno e collega e, da ultimo,
successore sulla cattedra di Padova. Il ricordo del maestro padovano e del suo carattere faceto e bizzarro accompagna
il mantovano per tutta la vita. Così nella lezione del commento al De sensu et sensato,
tenuta, tre mesi prima della morte, accennando al modo superficiale col quale SCHIAVONE
tratta un quesito intorno ai sapori –
GRICE TASTE --, dice: eo modo quo dicebat Nicolettus, praeceptor meus, sicut mus super farinam et gatta super carbones. Un'altra volta, a proposito del noi usato spesso
da Averroè, ricorda: Dicebat Nicoletus: advertendus est sermo; loquitur da papa,
ponendo numerum pluralem. Nelle lezioni
sulla Fisica, narra che Vernia spaccia come sua un'opinione che era invece di Thiene,
come si vide dopo la stampa di questo: Magister Nicoletus attribuebat sibi hanc
opinionem. Impresso Gaetano, latro inventus
est. Un'altra volta accennando alla a via nominalium, Pomponazzi aggiunge:
imo merdalium, ut dicebat Nicholetus. In principio del commento alla Fisica,
accenna a un dissidio tra gli scolari sui libri di quest'opera che il maestro avrebbe
dovuto leggere: Unde lepidissinms vir nicholetus qui, curti versaretur discordia
inter scolares sicut modo versatur inter vos, an scilicet primi an ultimi libri physicorum essent legendi, dixit: Non timeatis,
quia ego unica lectione legam omnes
4or primos Bibl. Nation. di Parigi, Cod. lat. Cod. lat., In Metaphys. Arezzo, Bibl. della Fraternità
de' Laici, Ms., Super Physicorum, Ms., Super Phys.1 Bibl. Nat. Parigi. Nello stesso commento,
in una lezione intorno ai sottili accorgimenti di Averroè per salvare Aristotele,
narra del suggerimento dato da Vernia a uno
scolaro ignorante che dove affrontare un esame: Credo ergo quod commentator voluit
dicere hoc; sed sibi accidit ut cuidam scholari patavii, qui volens disputare, et
nihil sciebat, fuit ad Niccoletum, qui eum doceret. Volebat enim iste scolaris
ingredi collegium, et non poterat nisi disputaret. Quare magister Nicoletus dixit: Dabo
tibi unam responsionem ad omne argumentum; distingue enim et dicas: Tuum argumentum
tenet propter quia, et mea conclusio propter quid. Et ita vult dicere Averrois. Tamen possemus dicere ad
omnia illa argumenta. Oportet enim scaramuzare quandoque. Sempre nelle lezioni sulla
Fisica, incontriamo un altro aneddoto, ove
Vernia è alle prese con Nardo, in una disputa di moda, de intentione et remissione
formarum, che concerne la dottrina dei calculatores, particolarmente invisi a Pomponazzi:
Et ubi Aristoteles in hoc loco Phys. fuit
parcus, Entisbery in suo tractatu et Calculator fecerunt de hoc magnos
tractatus. Aristoteles enim dimisit
hec, quia ille compositiones et ille truffe spectant ad matematicum; et calculatores latenter vincunt
ph^dosophos; interponunt enim geometricalia. Sed philosophus, ut phylosophus est,
non se intromittit ad hec. Et isti
calculatores sophiste appellantur; quare non se debent intromittere in philosophia,
sed in geometria. Unde erat magister Franciscus neritonius, erat enim vir doctissimus, et in uno capitulo
fratrum erat etiam Nicholettus, protesto ignorantissimus, et arguebat domino francisco
neritonio in illa disputatione, et in calculatione argumentabatur; et dominus franciscus nesciebat
respondere, quia mathematica ignorabat. In hoc enim argumento erat quater fortassis
totum alphabetum. Dominus tamen franciscus intrepide respondit sibi, quod Nicholetus
fecerat ut contigerat in suo capitulo cuidam fratri, cui prior comiserat ut predicaret de conceptione virginis.
Cum venisset tempus predicandi, dixit ille bonus vir qui debebat predicare illa
die: O domini auditores, ista materia de conceptione est tante difficultatis, quod
non poteritis numquam eam percipere. Itaque, rogo vos, ut loco istius dimittatis
me narrare ystoriam sancti Alexandri, quam Arezzo, ms. Allo stesso episodio Pomponazzi
aveva accennato anche nelle lezioni In de anima nel cod. della Bibl. Nazionale
di Napoli, Ms. Vili, ed ivi fa il nome dello studente somaro, che pare sia un Baldassarre
da Chiusi. promptissime capietis. Sic etiain, dixit dominus franciscus, contigit
domino Nicoleto: qui dum in hac materia quam posuimus disputandam nihil intelligeret,
incepit nobis cum suis argumentis calculatoriis narrare ystoriam beati Alexandri.
Ben più grave è quanto Pomponazzi narra agli scolari, in una lezione sul De caelo,
tenuta a Bologna. Stava esponendo il testo, e poiché taluni dicevano che Dio e le
intelUgenze celesti prima intentione agunt propter se, mentre le cose generabili
e corruttibili prima intentione faciunt propter alia et secundario propter se, ha
il coraggio di dire apertamente che non è vero: Non videtur verum; imo videtur
totum oppositum; quia quicquid homines faciunt, faciunt primo propter se, secundario
vero propter alios. Verbi gratia, homines student: prima intentio eorum est hicrari
scientiam et fieri perfecti et eiusmodi; secundario vero ut illustrent domuin suam
et patrem etc. Unde Aristoteles numquam somniavit, quod deberet fieri bonum ut ireturin paradisum, et evitari malum ne iretur in infernum;
sed bene dicit quod debemus exponere vitam prò patria et eiusmodi, et potius mori
quam committere peccatum, ut acquiramus illarn virtutem, sciHcet fortitudinem. Ergo
quicquid homo facit, prima intentione facit propter se, ut in omnibus discurrere
potestis. Ideo videtur fatuitas philosophorum dicere hoc de generabiUbus, scilicet quod primo agant propter alia, et secundario
propter se. Unde Nicoletus, vir lepidus, qui non credebat, ut ita dicam, dal tecto
in su, cum sepissime audiret beatum Bernardinum de Feltro predicantem et in
suis predicis dicentem: O tu, attende tibi; o tu, attende tibi, mulier luxuriosa,
bonus Nicolettus emebat bonos pullastros, fasianos, et si quis diceret illi: Quid
vis tacere, o Nicholette?, respondebat: Volo
attendere mihi'. Item rapinabat et eiusmodi, et si dicebatur illi: Quid vis facere?,
dicebat: Attendere mihi volo. Omnia ergo faciebat propter se Lo stesso ritratto
morale del buon Nicoleto, Pomponazzi traccia negh stessi termini agli scolari bolognesi
in una lezione sul delle Meteore. Arezzo Bernardino da Feltre predica la quaresima
a Padova Wadding, Annui, e di nuovo vi fu
quando Patavium profectus, in Ecclesia Cathedrali, assumpto i lio trito suo themate
Attende tibi, egregie populum de rebus saluti maxime necessariis instruxit. Parigi,
Bibl. Nat. Erat Padue quidam frater sancii Francisci de observantia, qui dicebatur
frater Bernardinus de Feltro, qui predicabat et in predicatione semper dicebat:
Attende tibi, attende tibi. Unde Nicolettus, qui
legebat Padue, emebat perdices, capones et multa bona. Inde ipse erat malus
homo, et prò uno quadrante perdidisset hominem, et nullum habebat prò amico. Unde,
eundo ad predicam, accepit illud verbum attende tibi suo modo, scilicet: attende
tibi, id est sguazza et triumpha. Ideo emebat
perdices etc. Tale è il ritratto morale del Vernia quale fu conosciuto da
Peretto:miscredente, crapulone, rapinatore,
che per un quattrino avrebbe rovinato un uomo, senza amici. Così giudica Pomponazzi
l'autore delle Quaestiones sulla pluralità degl’intelletti e sull'immortalità dell'anima,
nel quale ai revisori ecclesiastici deputati da Barozzi e a Barozzi stesso era
parso di ravvisare il campione
stesso dalla fede, che aveva debellato definitivamente l'averroismo e l'alessandrismo! Tuttavia non va
dimenticato che Peretto era stato assente da Padova, in seguito a dimissioni dalla
cattedra da lui occupata e sulla quale era stato sostituito da Nifo. Ora è sicuramente
in questi anni che la crisi filosofica e religiosa del Vernia, venne a maturazione,
se vera crisi ci fu in un uomo così lepido e astuto. E la testimonianza di Pomponazzi
non può aver valore pegli anni in cui il
mantovano lo perde di vista. Del resto,
queste oscillazioni tra una spregiudicatezza quasi scettica e il bisogno di conformarsi
all'ambiente religioso e d’accettarne il formalismo, è tutt'altro che alieno dall'indole,
piena di contradizioni, d’un uomo dell'età di papa Borgia Cod. lat. Oliva, Note
sull’insegnamento di Pomponazzi, Giorn. Crit. d. Filos. Ital. Ritengo che questo
ameno e spregiudicato maestro, prima che
a Padova, si recasse a Venezia, in casa del Patrizio Badoèr, nei cui lari era stato
educato il suo conterraneo e parente Manupello da Chieti', che, addottorato in artibus
a Padova, vi s'addottora anche in medicina. Altrimenti non si spiega come, nella
dedica dell'esposizione di Burleo alla fisica
d'Aristotele Venezia, egli potesse dire d'essersi affezionato al Badoèr a teneris annis, e come mostrasse di conoscere
così a fondo la storia leggendaria di questa famiglia. Dal testamento fatto a
Padova e pubblicato da Sambin, si conosce il nome del padre, per esser detto
clarissimus artium et medicine doctor dominus magister Nicolaus filius honorabilis
viri ser Antonii de civitate Theatina. E lo stesso si legge nell'atto di donazione
Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. La nota su Cristoforo da Recanati è inedita. Expositio
excel. mi philosophi Giialterij de burley
anglici in libros de physico anditn Aristotelis stagirite emendata per me nicoletum
verniam theatinimi publice et ordinarie philosophiam in gimnasio pattivino legentem
Venetiis. dedicata a Badoèr, censore del comune di Venezia: Del Manupello si legge
appunto nella dedica: affinis ac conterraneus
meus clarissimus phisicus et mediciis Nicholaus manupellus Theatinus in tuis laribus
fuit educatus. Erotto e Zonta, Ada graduum academicorum Gynnasii Patavini,
Padova Sambin, Intorno a VERNIA, in Rinascimento, docum. de'suoi libri al monastero
di S. Giovanni in Verdara. Dai quali documenti si rileva che il buon Nicoletto si
lascia passare come artium et medicinae doctor,
quando dottore di medicina non era! Nella stessa dedica a Badoèr si legge: cum enim
sub disciplina clarissimi philosophi pauli pergulensis essem, a quo etiam tu eruditus
fuisti, pluries ab eo audivi te summum
philosophum atque theologum evasisse, nullumque esse qui te in docrina francisci
de marronis subtilisque doctoris lohannis scoti antecelleret Orbene: Paolo da Pergola era reggente delle scuole
annesse in Venezia alla chiesa di S. Giovanni Elemosinarlo a Rialto, nel quale anno
egli era anche piovano di questa chiesa; e reggente di queste scuole restò fino
alla sua morte; fu sepolto nella chiesa di cui era piovano, Tanto Badoèr quanto Nicoleto, e, suppongo, anche Manupello, sono stati
sotto la disciplina di Paolo a Venezia.
Questa scuola merita d'esser meglio conosciuta, sia per gì'insigni maestri che,
dopo il pergolese, vi insegnarono, sia perché essa fu una specie di succursale dello
Studio patavino, nella quale molti veneziani cominciavano gli studi di filosofia,
che poi andano a completare a Padova, ove s'addottoravano. Così appunto sappiamo
aver fatto anche il chietino, il quale, da Venezia, forse dopo la morte del pergolese, si reca a Padova, ed ivi, dopo essere stato qualche tempo sotto la
disciplina di Thiene, consegue il dottorato in artihus, primo promotore lo stesso
maestro Gaetano. Dopo questa data, non si hanno di lui altre notizie fino a quando
fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia. Dalla dedica del Vernia docum.Segarizzi,
Atti dell' Istit. Veneto e la breve notizia dello stesso in Nuovo Arch. Veneto. anche il mio studio già cit. Letter. e cultura veneziana, Valsanzibio,
Vita e dottrina di Gaetano di Thiene, Padova,
I stesso a Languardo, arcivescovo d’Acerenza e Matera, del volume di commenti di COLONNA, di Marsilio di Inghen e d'Alberto
di Sassonia al De generatione et corruptione, stampato a Padova, veniamo a sapere
che era stato chiamato ad legendum
philosophiam in locum quondam Gaetani
Thienei philosophi celeberrimi; carriera abbastanza rapida che mal si spiega
senza l'appoggio di potenti patroni ch'egli
aveva a Venezia. L' intervento di questi patroni a suo favore si fa palese, del
resto, con l'edificante episodio che traggo dagli atti del Sacro Collegio dei Filosofi
di Padova, a solazzo dei laudatores
temporis acti, i quali vanno dicendo che certe soperchierie avvengono soltanto
ai nostri giorni. Ecco dunque l'episodio. Ma, prima di narrarlo, bisogna sapere
che al sacro collegio dei filosofi, che aveva un numero limitato di membri, erano
aggregati solo FILOSOFI PADOVANI e veneziani, in numero limitato, dopo aver conseguita
la laurea in artihus, e a seconda della disponibilità
dei posti. Da sapersi è altresì che soltanto ai membri del collegio spetta di farsi
promotori dell'ammissione di coloro che ne fossero degni al tentativum e al privatum examen pel conseguimento del titolo
di dottore in artibus e al primo promotore tocca il privilegio di conferire le insegne
del grado al neo-dottore, previo il giuramento di rito. Coloro che non fossero cittadini
padovani o veneziani, ma fossero MAESTRI nello studio di Padova, sì che non avessero più bisogno di essere
ballotati periodicamente, potevano essere aggregati al collegio in seguito al parere
favorevole dei membri di questo e colle cautele previste dagli statuti. Ora sentite
questa. Un bel giorno il priore del sacro collegio dei filosofi di Padova, che era il dottore in artibus Maestro Cristoforo da
Recanati de rechaneto, udito il parere dei consiglieri, convoca il collegio in assemblea straordinaria e tiene
Arch. ant. dell'Univ. di
Padova, S. Coli, de' Filosof. Su lui, Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, ai convenuti questo discorso: Famosissimi doctores, causa convocationis
excellentiarum vestrarum est ista, quia die heri quidam officialis Magnifici domini
pottestatis padue mihi mandavit, ex parte
prefati magnifici domini pottestatis, quatenus hodie convocare facerem collegium ad instantiam d. M. Nicoleti, et, in
executione literarum serenissimi ducalis
domini dicto d. M. Nicoleto, assignare debere locum in collegio cum conditionibus
prout in dictis literis continentur, et quod unusquisque super hoc dicat apparere
suum. L' intervento della Signoria
veneziana a favore del filosofo
chietino mette in serio imbarazzo il collegio,
geloso dei suoi diritti e privilegi. Forestiero, laureato nell’arti, lettore di
filosofia a Padova, Vernia veniva imposto dall'autorità politica centrale, senza
che il collegio fosse stato nemmeno interpellato prima, e senza una ragione di particolari
benemerenze che gli dessero la precedenza
su altri. Che modo di procedere era questo?
Vero è che anche Maestro Cristoforo da Reeanati era entrato a far parte del collegio,
di cui egli era priore, mentr'era legens ordinarie philosophiam naturalem, per l'intervento e l'imposizione dallo
stesso governo veneziano e senza il gradimento del collegio stesso IO Arch.
Ant. dell'Univ. di Padova, Maestro Cristoforo Rappi secondo
Benedettucci, Biblioteca
recanatese, Recanati da Recanati s'era addottorato in artibus a Padova Arch. della
Curia Vescovile di Padova, Diversovitìu.
Non mi risulta la data esatta del
dottorato, che sicuramente ebbe luogo pochi anni dopo. Ma ebbe dal Senato
veneziano un aumento di stipendio come professore di filosofìa naturale da molti
anni nello studio patavino, allo scopo d’impedire che egli accetta un invito fattogli dal vicedomino di Ferrara; que
res universis scolaribus studii ipsius molestissima est, non sine incomoditate et
iactura nostri domini, quia si recederet, omnes qui illum audiunt, eum sequerentur
Arch. di St. di Venezia, Senato-terra, Reg. Di queste buone disposizioni del Senato a
suo riguardo Recanati non tardò ad approfittare; poiché sotto la data si legge:
In studio nostro paduano, ut notum est, reperitur
Clarissimus doctor magister Christophorus Recanatensis, legens ordinarie philosophiam
naturalem. Qui, ut litere Rectorum
nostrorum et rectoris Universitatis Artistarum padue testantur, neminem in Italia
habet parem. Et qui vehementer optai prò honore suo cooptari
in collegio Artistarum padue, in locum scilicet primi qui deficiet, et multi prestantiorum doctorum ipsius collegii hoc velie
et cupere videantur. Vadit IIQ Ma sentiamo
come l'estensore del verbale continua a riassumere il discorso dell'avveduto priore:
Sed sibi videtur, quod durum. est centra stimulum calcitrare Actiis. Et quod ipse
non vult in hac re nisi quod vult totum collegium, ad quod omnino oportet super
hoc providere: aut quod ipse d. M. Nicolletus
acceptetur in dicto collegio iuxta tenorem literarum, aut quod colligantur
duo experti qui sint doctores dicti collegii, et quod ipsi accedant ad Magnifìcos
dominos pretores sic, 1. rectores padue et etiam ad Serenissimum dominium, ad deffendendum
iura collegi contra dictum M.pars, ut dictus
magister christophorus, quo, hoc gradu honoris auctus, animatior et promptior reddatur
ad perseverandum in sua lectura,
Auctoritate hiiius consilii cooptetur in dicto collegio, in locum scilicet
primi qui quoquo modo deficiet. De parte, ; de non, 12; non sinceri. Ritengo che di parere contrario dove
essere Landò, dottore e milite, non che Sapiens
terre firme, il quale ammoni quod serventur promissiones facte collegio doctorum
artistarum padue, evidentemente col rispettarne i privilegi e gli statuti. Anche allora il collegio
aveva pestato i piedi e masticato amaro, ma poi aveva finito per rassegnarsi. Simili
ingerenze del governo veneziano nelle faccende del collegio non erano una novità:
che anche quando di Quirini, veneziano e doctor artium, pose la sua candidatura
per essere accolto nel Collegio padovano, ove i veneziani avean diritto a un certo
numero di posti, la decisione si
trascinò per oltre un mese, finché la domanda fu respinta con 9 balote contro 8
Arch. Ant. dell' Univ. di Padova, Sacro Coli, degli Artisti. Dopo la morte di Thiene, Recanati
fu chiamato dal Senato veneto con voto unanime Senato-terra, Reg. a
succedergli nella prima lettura ordinaria di filosofia. Morì , sec. Benedettucci e fu sepolto nella chiesa delle
monache di S. Francesco dell'Osservanza,
in vico pontis Altinatis, in un'arca di pietra cum doctoris effigie dormientis,
e un epistaffio che lo raccomanda ai posteri come medico celeberrino et philosophorum
inclyto, quem universae Italiae Gymnasia peripateticae scholae principem luxerunt
lac. Salomonius, Insc. ript. Urbis patav.
Padova Io, purtroppo, non conosco se non
le Quaestiones recollectae super Calciilationes sub magistro Chistophoro de Recaneto,
huius artis principe. Ma il Coxe, Catal. Mss. Bibl. Bodl., Ili,
Oxonii, segnala l'esistenza di
un'esposizione Magistri Christofoli de Reganato super de celo et niundo
ad instantiam Magistri. Yeronimi de Cammarino, e forse anche sul De physico auditu,
nonché di certe pillulae magistri Christophori Rechanatensis. È un po'poco per giudicare delle lodi che gli
tributarono i contemporanei. Ad ogni modo, è inesatto quello che scrive Facciolati,
Fasti Gymnasii Patav., che egli primus averroi auctoritatem in
Gymmasio Patavino conciUasse dicitur, eius commentarla in philosophando unice secutus.
Prima di lui c'erano stati NICOLETTI e Thiene,
di cui il recanatese era stato discepolo. Nicoletum, et petere quod diete littere revocentur, tanquam
impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi, ipso collegio et iuribus
suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus,
prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur
in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem literarum Serenissimi domini, ponat suffragia
sua in pisside rubea; quibus vero placuerit
quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum per expertos dicti
collegi, ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et
balotis, in vente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti,
et balote xv in pisside viride, quod defensentur
iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum.
Cinque contro sedici costituisce un bello
scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si
mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto
al corpo. Lo facevano per simpatia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi
anch'essi che durum est contra stimulum calcitrare? Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano assumersi la difesa dei diritti del collegio al
cospetto dei rettori della città e del governo della Serenissima. Deinde posuit
prior ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet
quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia, d. M. Ioannes Michael de Bredepalea, d. M. lacobus f. q. mag. Gratiadei de Venetis et d. M. Ioannes Petrus de cararis, qui accedant ad Magnificos pretores rectores padue et ad Serenissimum
dominium Venetiarum, ad deffendendum iura et statuta dicti collegi contra d. M.
Nicoletum et literas per ipsum impetratas, ponat balotam suam in pisside
rubra; quibus vero non placet, ponat balotam suam in pisside viride. Et facto scrutinio invente sunt balote xx in pisside rubra,
et balote due in pisside viridi negante.
Et sic fuerunt ellecti. In questo verbale
v'è un piccolo dettaglio che potrebbe facilmente sfuggire. Il messo del podestà
aveva detto, a nome di questo, che fosse riunito il collegio e che ogni membro dicesse la sua intorno alla faccenda: et quod unusquisque super hoc dicat
apparere suum. E l'estensore del verbale ci assicura che furono fatti dai convenuti
molti discorsi e arringhe in proposito e
a sproposito. Gli animi della maggio
Arch. ant. delI'Univ. di Padova v. I
ranza s' infiammarono nel denunciare l'affronto
fatto al sacro collegio e ai suoi statuti, e infiammati si suggestionavano a vicenda
sino a prendere le decisioni che presero. Ma tornato a casa, ognuno di quelli che
avevano gridato piti forte contro la soperchieria che si perpetra da parte
della Serenissima Signoria, si sarà messo a riflettere che anche le mura della chiesa
di S. Urbano, ov'eran raccolti, avevano orecchie, e probabilmente più d'uno si sarà
morsa, un po' tardi, la lingua. Fatto sta che il sacro collegio fu di nuovo
convocato dallo stesso priore, non più nella chiesa di S. Urbano, ma in palatio
Episcopali. Il priore si fa eco delle considerazioni che due giorni di riflessione
avevano maturato nell'animo dei suoi magnanimi colleghi, e parla una lingua più
circospetta. Illico et immediate prefatus prior dixit: famosissimi domini
doctores, vos vidistis Mandatum mihi factum nomine collegij Potestatis, ut accipere
debeamus omnino in collegio, in executione literarum ducalium, d. M. Nicoletum,
prout in literis ducalibus continetur. Mihi videtur, ne videamur esse
inobedientes et rebelles Hteris Serenissimi
domini Venetiarum, quod bonum esset ipsum d. M. Nicoletum acceptare in dicto collegio
ad ultimum locum, cum protestacione quod non intendimus ipsum acceptare in preiudicium
iurium et statutorum nostrorum, et quod reservamus nobis ius prosequendi iura nostra
centra dictum d. M. Nicoletum et petendi revocationem dictarum literarum
tanqviam indebite, collegio nostro inaudito,
concessarum et commissarum dicto d. M. Nicoleto. Et ita satisfaciemus Voluntati
Serenissimi dominij impune et absque alio inconvenienti et schandalo dicti collegij.
E COSÌ fu deciso. Un paio di settimane dopo, Nicoletus comincia a figurare in
coda alle liste dei membri del Collegio; poi, man mano che altri membri entrano
a farne parte, il suo nome dall'ultimo
posto passa al penultimo, e, su su, diventa uno dei primi, e comincia ugualmente
a figurare in quelle dei promotori nei verbali di dottorato. Della protesta e della
riserva cui accenna il priore del Collegio, l'egregio dottore in artihus Maestro
Cristoforo da Recanati, non si parla più, ritenendosi che il fatto ricade sotto
l'impero di quello che i giuristi pisani chiamano 1'ius mengicum seu gengicum de praescriptione, e che
molti filosofi molto filosoficamente ritengono un precipitato storico della giustizia
eterna! Il povero Nicoletto, sano per grazia di nostro Signor Gesù Cristo mente
et sensu, era tuttavia corpore languescens; e pare si tratta di malattia piuttosto
seria, se provvide a far testamento, disponendo dei suoi averi a favore del monastero
di S. Giovanni in Verdara a Padova. Da questo
documento confrontato col testamento pubblicato da Ragnisco appare che egli a Padova
abita in contrata burgi Capellorum e non ancora in contrata S. Lucie, né ancora
in contrata putei Bonelli; risulta parimente che non era ancora cittadino di Vicenza,
che non dispone dei possessi di Colze, e non si sa se ancora avesse avuto a che
fare con la famiglia vicentina Dalla Scrofa.
Questi rapporti sono strettamente connessi coll'acquisto poco chiaro della cittadinanza
vicentina e della villa di Colze, quando i suoi guadagni erano aumentati assai.
Su tutti questi punti potrebbero far luce ricerche negli archivi notarili di
Padova e di Vicenza. Ad ogni modo, pare che le sue fortune cominciassero a
prosperare, scapolato alla morte; ed
anche allora coll'appoggio di autorevoli patroni. Dal primo dei tre
documenti pubblicati da Persiani, si rileva che l'amba Sambin, /. e.
Sui rapporti di Vernia coi canonici Regolari Lateransi del monastero di S. Giovanni in Verdara a Padova getteranno
luce le ricerche dello stesso Sambin sulla biblioteca di questo monastero. Uno studio
sulla tomba del Vernia e sui rapporti di lui con gli stessi Canonici Lateranensi
del monastero di S. Bartolomeo a Vicenza sta per dare in luce negli Atti dell'Accademia vicentina, Pozza, direttore della Bertoliana.
In Atti e Memorie dell'Accad. di Se. Lett.
ed Arti di Padova, disp. Ili
pubblicato dal Sambin, ma in mercoledì. Quindi o è sbagliato
l'anno, oppure il giorno. Ragnisco, /. e
In La
Riv. Abruzzese di Se, Leti, ed Arti, Vili. sciatore napoletano, Dott. Arcamona,
s'adopra presso il Senato veneziano, perché il famoso dottore Maestro Nicoletto
da Chieti, che legge a Padova la filosofia ordinaria cum maxima elegantia et sufficientia
ac contentamento omnium, fosse confermato in detta lettura ita ut non subiaceat de cetero
ulli ballottationi. Era già aggregato al collegio! La domanda fu accolta con 122
voti favorevoli, e uno solo contrario. Molto più importante è il secondo documento
pubblicato dallo stesso Persiani. Da esso si rileva che ser Nicoletto, ottenuta
la stabilità a vita, aveva messo su boria, e sub pretextu quod non habeat ccncurrentem
sibi parem, obtinuit pridem a dominio nostro
litteras, per quas ei concessum fuit ut legere possit bora extraordinaria, quo
fit quod venit eo modo carere concurrente. Quanto al credersi superiore ad ogni
altro professore che fosse a Padova, e magari sotto la cappa del cielo, Vernia
fu buon maestro ad Agostino da Sessa, che si ritene il primo homo dil mondo, com'ebbe a dichiarare al console
veneziano a Napoli, Anselmi. In questo sì
il maestro che lo scolaro eran ben lontani dalla modestia del Peretto mantovano
che preferiva di confessare con Socrate: Hoc unum scio, quod nihil scio. Ed anche
questa volta ser Nicoletto era riuscito ad ottenere r insolito privilegio con lettera
della Signoria veneziana. Ma egU non aveva fatto i conti cogli studenti, che, per
quanto chiassosi, erano anche allora i migliori
giudici della capacità dei loro professori. E gli studenti appunto protestarono
per r immeritato privilegio e pella flagrante violazione degli statuti accademici
da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne i vigili tutori. L' istituto della
concorrenza a Padova esige che per ogni materia professata i lettori ordinari fossero
due, e che leggessero e commentassero gli stessi testi NEGLI STESSI GIORNI E ALLA STESSA ORA. Gli
studenti potevano ascoltare la lezione dell'uno o dell'altro concorrente, scambiandosi
poi gl’appunti e le impressioni, e avviare
discussioni, sollevando obiezioni Sanuto,
Diarii Giorn. Crii. d. Filos. -- alla fine della lezione, e continuando le
discussioni, avviate entro l'aula, al circolo dei filosofi, che più tardi ebbe la
sede sotto il portico del podestà, a pochi
passi dal Bò. L'intento perseguito coll'istituto
della concorrenza è OBBLIGARE A PROFESSORI A TENERSI AL CORRENTE ED A STUDIARE.
Et hoc ut fiant dihgentissimi
coactique sint studere, et ex consequenti satisfacere habeant scolaribus audientibus.
Ora Mastro Nicoletto, ottenuto il privilegio
di LEGGERE SENZA CONCORRENTE, hora
extraordinaria, scelta a suo piacimento, dice il documento pubblicato da
Persiani, minime curat studere, fitque negligens cum magna murmuratione scolarium,
qui, hanc ob causam, relieto studio, venerunt ad presentiam nostri domimi et indolentes
sic, 1. dolentes supplicantur ut forma et continentia ipsorum statutorum superinde
loquentium sibi observetur. Non saprei se fra quei cari studenti v'era anche Pomponazzi, il quale si laurea
in artihus appena qualche mese prima che il senato obbliga il maestro chietino
a rispettare gli statuti sul fatto della concorrenza e a rinunziare al privilegio
abusivamente concessogli. Ultimo aneddoto della vita padovana di Vernia è il suo
dottorato avvenuto un po'alla chetichella. Dopo anni d'insegnamento della filosofia
naturale, in riconoscimento dei suoi meriti,
la signoria veneziana, coll'approvazione di tutto il consiglio, gl’aveva finalmente concesso il raro privilegio
che un tempo era stato concesso, pelle loro benemerenze, a Gaetano da Thiene e a
Maestro Cristoforo da Recanati, di leggere senza concorrente. Pare che ormai
non dove avere altra aspirazione che quella di portare a compimento le Quaestiones de pluralitate intellectus contra falsam et ah
onini ventate remotam opinionem Averroys, per riguadagnarsi la stima del vescovo
di Padova e per ottemperare all'invito del doge Barbarigo, dimostrando falsi e calunniosi
i sospetti che si susurravano in angulis, d’una sua adesione all'averroismo. Eppure
alla distanza di anni dal dottorato in artihus non esita a sottoporsi agli esami per conseguire il titolo di dottore in medicina. Promotori
furono i suoi colleghi Aquilano, Lorenzo
da Noale e Girolamo da Verona; testimoni
i patrizi veneziani Lorenzo Donato e Vincenzo Quirini, e i maestri dello Studio
Pomponazzi e Francanziano. Che cosa l'avrà
spinto a procacciarsi il titolo di
medico? e a che cosa poteva
giovargli? La risposta forse potremo trovarla in questa notizia che si legge nei Diarii di Sanudo, a di
2 zener. Vene li miedigi di collegio di questa terra Venezia, exponendo, conzò sia
che a tempo di le vachation maestro Zuan dell'Aquila, maestro Nicoleto, maestro
Hironimo da Verona et maestro Zerbi legeno a Padoa, venissero a miedegar in questa
terra; per tanto chiedeno, nel tempo stevano dicti medici qui, facessero l’angarie
come Ihoro, sì da pagar il medico in armada
etc. E li fu concesso, et cussi per la Signoria, consulente collegio, fo terminato in scriptura. Ecco a che cosa dove
servire la laurea in medicina: ad andare a miedegar a Venezia durante le vacanze,
facendo concorrenza ai medici del luogo, sia col fatto di essere maestri di medicina
dello Studio patavino, sia perché questi padovani non facevano le angarie che
dovevano fare i medici veneziani sì da pagar il medico in armada. Lo stipendio
di 180 fiorini non pare abbastanza al filosofo chietino, che, al dire di Pomponazzi,
prò uno quadrante perdidisset hominem, e dove invidiare i guadagni che i colleghi
medici traevano, nel periodo delle vacanze, a Venezia, dall'esercizio della loro
arte. Due di essi, Aquilano e il veronese Torre, erano stati suoi promotori, ed
entrambi godevano di onorata nominanza a Padova e altrove per la loro perizia
nel miedegar, sì che la loro opera era molto ricercata. Ma di gran lunga più celebre
era Zerbi, anch'esso veronese, avversario di Iacopo Berengario da Carpi, che gli
muove gravissime accuse, forse infondate o almeno esagerate. Appena sei anni più
tardi morì di morte efferata, nel viaggio
di ritorno dalla Turchia, ove la sua fama era giunta, recatavi dai veneziani. Padova,
Arch. d. Curia Vesc, Acta graduum Coiraiuto
compiacente di questi e altri colleghi, il filosofo chietino ebbe dunque le insegne
di dottore in medicina, conferitegli da Aquilano, e quattro anni dopo lo troviamo
a Venezia a miedegar, in sieme a Aquilano, a Gerolamo da Verona e Zerbi, ai quali la piacevole compagnia del faceto filosofo
non dove riuscire ingrata. Ma bel gioco dura poco. Ed il primo ad abbandonare
il quartetto fu proprio maestro Nicoletto, il quale fece appena in tempo a preparare
per la stampa il libro che lo fa tornare nelle buone grazie del Barozzi. A Vicenza
detta le sue ultime volontà, e due mesi dopo
trova pace nella tomba presso i Canonici Regolari Lateranensi della stessa città. Sotto al bel
monumento sepolcrale che ora trovasi nella cappella dell'Ospedale Civile di Vicenza,
e già da N. riprodotto in Giorn. Crit. d. Filos. Ital., si legge questa iscrizione,
in cui è fatta speciale menzione della sua ultima opera: Nicoletus, Philosophus
Clarissimus, De animi pluralitate ac felicitate edito libro, Patavina in Accademia
floruit. Obiit Comunemente, quando si parla oggi d'averroismo, vien fatto di pensare
alla dottrina dell'unità dell’intelletto possibile per tutta la specie umana; la
quale dottrina vien designata, con un vocabolo moderno che si direbbe coniato apposta
per accrescere la confusione, pampsichismo. – GRICE THOSE SPOTS MEAN MENTE
MEASLES -- Ma rari sono coloro che dell'averroismo mettono in
evidenza quella tipica dottrina mistica che fu uno degl’argomenti maggiormente
discussi fra gli’averroisti e i loro avversari. E, ciò che è più strano, ne tacciono
sia Mandonnet che Steenberghen nelle loro massicce diffuse monografìe dedicate a
Sigieri di Brabante. Eppure la mistica averroistica era stata fatta oggetto di
ampia discussione da parte di Alberto COLONIA, d’AQUINO e di Sigieri. Sebbene non fosse stato
ancora tradotto in latino il trattatello De animae beatitudine, essi conoscevano
bene il commento e l'ampia disgressione d'Averroè sul De anima, assai più importante
di quel piccolo trattato, e per chiarezza e per compiutezza. In questo testo del De anima, s'accenna al problema
se è possibile che l'intelletto unito al corpo arrivi a conoscere le sostanze separate. Ivi
Aristotele promette che questo argomento sarà discusso più tardi; a noi per
altro non è giunto alcuno scritto dello Stagirita nel quale il problema ora accennato
sia risolto. AQUINO, dopo aver dubitato che Aristotele, sorpreso dalla morte, fosse
mai pervenuto a trat Dal volume Umanesimo e MACHIAVELLI Machiavellismo dell'Archivio
di Filosofia, Padova, Editoria Liviana.
I Arist., De Anima tare delle sostanze separate, finì per credere
che il problema è risolto dallo Stagirita in un'opera non ancora tradotta in latino
che gl’era stata mostrata Anche Alberto,
che a questo problema dedica il suo De intellectu et intelligibili, ritiene che quest'opera, rimasta sconosciuta a
lui, era ben nota a molti dei discepoli d'Aristotele,
i quali si sarebbero ispirati ad essa in
quei numerosi scritti che Alberto ben conosce e nei quali crede di trovare il fior
fiore dell'insegnamento aristotelico. Neil'intento di chiarire il pensiero di Aristotele
su questo punto, commentatori greci come Alessandro d'Afrodisia e Temistio, o arabi
come Alfarabi, Avicenna ed AbuBaker Avenpace,
cercano negli scritti dello Stagirita
quale, a loro avviso, dove essere la
soluzione di quel problema, conforme ai principi della filosofia peripatetica.
Averroè, venuto dopo costoro, intraprende nel commento al De anima, una vivace critica delle loro teorie, in
parte rigettandole e in parte sforzandosi di correggerle. Afrodisia ritene che l'uomo
potesse arrivare alla conoscenza del mondo immateriale mediante la copulatio dell'intelletto
potenziale coll’intelletto agente. L'intelletto
potenziale è, per l'Afrodisio, una semplice preparazione o disposizione dell'organismo
vivente di vita sensibile. L'intelletto agente invece è la causa prima di tutte
le cose, la quale, irraggiando la luce dell'intelligibilità sulla materia, la plasma
e trae dalla potenzialità di essa tutti gli esseri del mondo corporeo. Questi imprimono
le loro qualità dapprima sui sensi esterni; e per mezzo di queste prime impressioni
suscitano l'attività dei sensi interni e particolarmente dell'immaginativa. L’ATTIVITÀ
CONOSCITIVA DEGL’ANIMALI INFERIORI ALL’UOMO S’ARRESTA QUI. Ma l'organismo umano,
sviluppatosi sotto l'azione dell'intelletto agente, è dotato d'un principio
vitale più perfetto che tende più su. V’è in esso una capacità o disposizione che, per quanto legata all'organismo vivente, lo porta
ad aprirsi una veduta sul AQUINO, De
anima, lez. AQUINO, De imitate
intellectus cantra averr., ed. Keeler, Roma, Pontificia Univ. Gregoriana, Alb. Magno,
De intellectu ed intelligibili, I tr. i, e. i
mondo intelligibile. Questa capacità o disposizione è ciò che Aristotelechiamato
l'intelletto in potenza. Soltanto la luce inteUigibile dell'intelletto agente, la quale avvolge € vivifica
tutta la natura, può trarre all'atto questa pura potenziaHtà. Ma la luce divina
dell'intelletto agente attua r intelletto potenziale per gradi: prima per mezzo
degl'intelligibili astratti dai fantasmi dell'immaginativa; poi per mezzo delle
scienze speculative; finalmente, quando l'intelletto umano è intelletto in atto
o in abito, l'intelletto agente, cioè la
luce divina, lo riempie di sé, lo informa e lo rende capace di contemplare in se
stesso il mondo divino dei puri spiriti. Siccome in questo stato l'intelletto contempla
il divino per mezzo del divino stesso, esso
è detto intelletto acquisito. La teoria dell’Afrodisio, con la sua graduale ascesa
della mente umana al divio, che nell'ultimo grado della sua elevazione finisce per
essere deificata, sembra aver sedotto Averroè.
Il quale, per altro, ne scorge acutamente le difficoltà. Se il punto di partenza
di questa ascesa verso il divino è l'intelletto in potenza, e se questo è semplice
attitudine dell'anima sensitiva essenzialmente legata all'organismo del quale subisce
le vicende, bisogna ammettere che una virtù organica, generabile e corruttibile,
vincolata cioè dalle condizioni dello spazio
e del tempo – GRICE PERSONA VERSUS UMANO --, fosse capace d'elevarsi alla
conoscenza di ciò che è universale, libero cioè dallo spazio e dal tempo, ossia
dalle condizioni della sensibilità o, come si dice nel medio evo, della materia – GRICE MATERIALISMO BETE
NOIRE --. Si può bene intendere, fino ad
un certo punto, che la causa prima operi,
come causa agente, sul mondo materiale e sull'intelletto potenziale; ma non
si riesce a capire in che modo l'intelletto agente possa farsi forma d'una virtù
organica e renderla simile a sé. L'intelletto acquisito è concetto che non è punto
chiaro. In quanto acquisito parrebbe qualcosa di diverso dal soggetto che lo
acquista; ma non si vede come un soggetto corruttibile possa acquistare e far suo l'eterno. Per queste ragioni parve ad Averroè
che l'intelletto potenziale NON dove essere ncque corpus ncque virtus in corpore;
in altri termini, la natura di siffatto intelletto vuol essere sciolta da ogni intrinseco
legame colla materia. Sostanza separata esso stesso, l'intelletto possibile diviene
capace di quella ascesa al mondo delle sostanze separate, mediante la copulatio
coir intelletto agente. Anche Abu Nasar Alfarabi
s'era fermato a meditare sul problema posto da Aristotele e sulla soluzione che
ne aveva dato Alessandro. E nella sua opera intorno all'Etica Nicomachea –
HARDIE GRICE --, avendo accettata la dottrina del commentatore greco suir intelletto
possibile, s'era limitato a considerare l'intelletto agente come causa attiva del
passaggio di quello dalla potenza all'atto, e non come forma che s'unisce ad esso.
Invece, nel De intellectu et intelligibili, Alfarabi ammise che r intelletto possibile,
già pienamente attuato dagl'intelligibili tratti del mondo sensibile, diventa soggetto
d'una più intima unione coli' intelletto agente, dal quale riceve una più
copiosa illuminazione che gli dischiude la vista del mondo sovrasensibile. In questa
unione coli' intelletto agente, cui
serve di preparazione l'acquisto delle scienze speculative, e che anche Abu Nasar
chiama intelletto acquisito, intellectus adeptus, consiste la suprema perfezione
della mente umana e la beatitudine finale dell'uomo. Ma Averroè informa, nel De
animae beatitudine, che il povero Abu Nasar, giunto al fine de'suoi giorni colla
ferma convinzione di potere arrivare a questo
alto grado di perfezione, cui s'era apparecchiato procacciandosi tutto il sapere
a lui accessibile, come s'accorse che non c'era arrivato, ha a dichiarare impossibile
e vana l'aspirazione a congiungersi colle
sostanze separate, ritenendo ormai favole da vecchierelle le descrizioni
puramente immaginarie che taluni fanno dell'uomo pervenuto a tale sovrumana altezza
– GRICE IN OUR BETTER MOMENTS OF COURSE. Quest'umile riconoscimento della limitatezza
del sapere umano fatto d’Alfarabi, ormai sul passo estremo, non ha per altro scoraggiato
AbuBaker Avenpace. Il quale, dice Averroè, s'adopera a lungo a risolvere l'arduo
problema, senza perderlo di vista un batter d'occhio. Oltre che nel suo
commento al De anima, Avenpace tratta di questo
argomento in molti altri suoi libri,
di due dei quali conosciamo i titoli: Alpharabii, De intellectu, nell'edizione di Avicenna, Opera per
canonicos emendata. Venezia, eredi di Scoto.
Il trattatello è stato ristampato nella traduzione latina da GiLSON,
Archives d'hist. doctr. et litt. au
moyen 8ge. N., introduzione ad Aquino, Trattato sull'unità dell'intelletto
contro gli averroisti, Firenze,
Sansoni, Nifo, In Averrois de animae beatitudine, Venezia, eredi dì O. Scoto
Avere., De Anima, comm., digress. r
Epistula de perfectione, e il Tractatus de copulatione. Anche la teoria di
questo pensatore si ricollega strettamente a quella di Alessandro e d'Alfarabi,
per quanto concerne la natura dell'intelletto potenziale e nel ritenere che alla
conoscenza delle sostanze separate si possa
giungere per mezzo del sapere speculativo, ossia della progressiva attuazione
dell'intelletto, in potenza. L'atto col quale l'intelletto umano dal sapere
scientifico s'eleva alla conoscenza dei puri intelligibili separati, potrebbe dirsi
un atto di superastrazione, col quale dai concetti astratti – GRICE ABSTRACT
ENTITIES --, ricavati dalla realtà sensibile, s’astrae quella pura essenza intelligibile che è semplice e identica per tutte
le menti: Et cum philosophus ascenderit alia ascensione, considerando in intellecto
inquantum intellectum, tunc intelliget substantiam abstractam. Sembra, per altro,
che Abu Baker si mostra alquanto perplesso in merito a questa suprema ascesa, che
dove coronare gli sforzi di chiunque è giunto in possesso di tutto lo scibile filosofico;
e che
egli, nell'Epistola de perfectione, la ritene possibile non tanto pello sforzo
della natura umana, quanto piuttosto per un aiuto divino: intellectio istius intellectus
est de possibilitate divina, non de possibilitate naturae. Ad ogni modo, la maggiore
difficoltà, che travaglia anche la teoria di Alf arabi e d'Avenpace, consiste nel
punto di partenza, cioè nell'aver considerato
l' intelletto potenziale generabile e corruttibile,
come l'aveva ritenuto Alessandro d'Afrodisia. Non così possiamo dire di Temistio.
Per questo parafraste bizantino d'Aristotele, com'è stato inteso da Averroè, l'intelletto
potenziale è immateriale – GRICE METHOD PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY FUNCTIONALISM
MULTIPLE REALISABILITY --, uno ed eterno, al pari dell'intelletto agente che n'è
la forma. Il problema che concerne Temistio, è un altro. Se l'intelletto potenziale
è uno e ingenerabile, ed uno e ingenerabile è l'intelletto agente; e se il
primo è tratto dalla potenza all'atto e diventa
intelletto speculativo per r informazione del secondo, non si riesce a vedere
come il concorrere di due cause eterne possa dar luogo ad un effetto generabile
e corruttibile, qual' è il mio
individuale atto d' intendere, susseguente, in particolari contingenze di 8
MuNK, Mélanges de philosophie, Parigi AvERR., /.
e, p '0 AVERR. tempo e d'ambiente,
al non intendere, e diverso dall'atto col quale altri intende quel che non intendo
io. Nel pieno congiungimento dell'intelletto potenziale con l'intelletto agente
consiste anche per Temistio il più alto grado di perfezione raggiungibile dall'uomo;
ma il bizantino non spiega perché questo congiungimento avvenga soltanto alla fine
e non al principio dello sviluppo intellettuale dell'uomo; egli cioè non spiega
perché l'intelletto agente, fin dal primo momento della sua unione all'intelletto
possibile, non attua tutta intera la potenzialità di quest'ultimo, se è vero che
gì'intelligibili, come pensa Temistio con
Platone, anzi che tratti dalle immagini sensibili – GRICE CIRCLE
SUBLUNARY CIRCLE --, sono irraggianti dall'intelletto agente su quello
potenziale. A risolvere le difiìcoltà contro le quali urta d’un lato la teoria d'Alessandro
e dall'altro quella di Temistio, il commentatore arabo pone questi fondamenti. Anzi
tutto, l'intelletto che è soggetto del pensare, in quanto questa funzione
conoscitiva si differenzia dal sentire – GRICE POTCH AND COTCH --, non può essere
e quindi al privatum examen per ottenere il dottorato in medicina. Ecco il verbale
di quest'ultimo atto, rimasto ignoto a Ragnisco il quale, confondendo col Vernia
Nicolò Manupello, egli pure da Chieti e parente
del Vernia, ritene che questi si fosse laureato in filosofìa: A nativitate
Domini nostri Jesu Christi sic. Indictione,
in loco solito examinum. Privatum
examen et Doctoratus in facilitate
Medicinae Clarissimi Artium doctoris Domini
Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae legentis absque concurrente,
examinati per Sacrum collegium artium doctorum, corani venerabili Domino presbytero
Antonio de Malgarinis, cathedralis ecclesiae paduanae Mansionario, in hac parte
Vicario, in assistentia spectabihs domini
Butironi, Rectoris, approbati unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante,
sub promotoribus Domino Joanne Aquilano qui de dit insignia prò se ac Dominis Laurentio
de Noali et Hieronymo de Verona. Testes. D. Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius
Quirino, artium scholaris. D. M. Petrus de Mantua D. M. Antonius Trachantianus In questo atto da me veduto Arch. d. Curia Vesc,
e gentilmente trascrittomi da Barzon, il dottorato di Maestro Nicoletto è
fissato. Ma che si tratti d'un semplice lapsus dell'estensore è provato dal fatto
che l'atto immediatamente precedente porta altra data. Inoltre, cade in giovedì,
e non martedì. Infine, Pomponazzi non pcteva fare da testimone, perché lascia
Padova, e vi fa ritorno solo dopo la
morte di Vernia. Ma forse non si tratta d’errore, bensì dell'aver computato il principio
a nativitate Domini. Notevole nell'atto riferito è poi la presenza,
fra i testimoni, di Donato e Quirini. Il primo era un patrizioveneziano, e a lui,
questore a Padova, Nifo, alunno di Vernia, dedica il prologo d'Averroè alla fisica,
stampato in fine del commento dello stesso Nifo alla destructio destructionum dello stesso Averroè. Del secondo,
al quale Nifo a Padova e da Salerno ostenta il suo particolare e interessato attaccamento,
faremo cenno piìi giti. Ma potrebbe anche darsi che il motivo che spinge il filosofo
chietino ad ddottorarsi fosse un altro. Leggiamo
infatti nel Sanudo che i veneziani si lagnarono in collegio perché Aquilano, maistro Nicoleto, Girolamo da Verona e Zerbo,
che leggevano a Padova, durante le vacanze andao a miedigar in questa terra, cioè,
a Venezia, e non applicano ai clienti le angarie di legge che dovevano far pagare
i medici di Venezia, a prò del medico dell'armata. Pare che a quei tempi l'esercizio
della filosofia desse guadagni più vistosi della teologia; e a maistro Nicoleto
dovevano far gola. Ma comincia pella filosofia
padovana un periodo di crisi che coincide colla partenza di POMPONAZZI. Questi,
messo a dura prova dalla concorrenza di Nifo, dove sentirsi spronato ad accogliere
un invito che gl’era fatto d’andare a stabilirsi alla corte di Alberto Pio a Carpi.
E egli rinunzia alla cattedra e chiede licenza d'andarsene, adducendo a motivo i
suoi personali interessi. Questo risulta dal decreto del Senato veneziano Venezia, Arch. di Stato, Senato terra, Reg.: Renuntiavit niiper eximius doctor D. Petrus
de mantua lecturae ordinariae philosophiae gymnasij nostri patavini, cuius retinebat
primum locum; et hoc impulsus privatis suis negotijs. Sicché i sapienti del Consiglio
e della Terra ferma, nella necessità di provvedere alla cattedra rimasta vacante,
nominarono a succedergli Agostino Nifo, qui erat concurrens ipsius. D. Petri de
mantua secundo loco, promovendolo al primo,
col salario di 90 fiorini, e dandogli come concorrente, ad secundum locum,
il famoso e a tutti gratissimo dottore Fracanzano, vicentino, de cuius sufficientia
et doctrina litterae Rectorum nostrorum Paduae dant amplum testimonium, coll'annuo
salario di 80 fiorini. Ma Nifo non valeva il
Pomponazzi, e d'altra parte risulta
che non sappiamo per quali ragioni, se per motivi di stipendio o per attriti col
Fracanzano, ad un certo momento taglia la corda. Sì che il Senato veneziano, in
seguito a rapporto del rettore degl’artisti di Padova, considerando che maestro
Nicoletto ob suam ingravescentem etatem continue non potest legere, quamvis ob eius
sufficientiam est valde gratus omnibus scolaribus,
et quoniam illam lectionem alias legebat
D. Augustinus de sessa cum florenis
90 in anno, vir apprime sufficiens et gratus illis scolaribus, qui libenter
veniret ad legendum, decide che Nifo sia condotto di nuovo con fiorini 120, ed abbia
a concorrente lo stesso Fracanzano (Reg.).
Questi s'era addottorato in artibus, era stato assunto alla lettura della logica,
e questa cattedra occupa ancora Padova,
Arch. della Curia, Acta grad.); aveva
conseguito la laurea, e quindi assunto alla
cattedra straordinaria di filosofia che occupa (Arch. d. Curia). Fu promosso alla cattedra ordinaria secundo
loco. Ben poco ci è noto anche del suo indirizzo filosofico. Di scritti di lui a
stampa N, non conosce che le Quesiiones in consecutiones Stradi ac de sensu composito et diviso, pubblicate nel volume del
faentino Vittori, In Tysberum DE SENSV composito
ac diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones NICOLETTI. Nec non Tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini
Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum.
Item qiiestiones Frachanciani Vicentini in consecittiones etc. Venetiis,
impensa heredum q. Oct. Scoti, e dedicate
a Sermoneta. Esse appartengono senza dubbio al periodo nel quale Fracanzano fu lettore
di logica. Di opere manoscritte N. ne conosce invece due. Una è nel cod. Ashburn
nella laurenziana di Firenze con titolo:
Excellentissimi Doctoris Domini fracantiani Vicentini de casu et fortuna fatoque
quaestiones incipiunt. L'altra è nel codice Vat. lat., e porta
questa intestazione: Tractatus proportionalitatum Domini fracantiani Vicentini
di ff. io. È scritta di mano d'un allievo, che probabilmente è Accorumboni o Accoramboni
da Gubbio. Ecco quanto scrive questo alunno: Finis Tractatus proportionum
Fracantiani, praeceptoris mei, qui legit patavii ordinariam philosophiae. Ego vero
eram tum bacchalarius ordinarius in studio patavino. Pontifex erat prope bononiam cum exercitu, ut dominum iohannem
expelleret. Niente son riuscito a sapere del commento
inedito In Physicorum di cui parlano i Memorabili di Schio nella Bibl. Bertoliana
di Vicenza, e che era posseduto da Querengo.
Interessante è quanto riferisce Sanuto,
come furon ricevuti a Venezia in collegio maestro de Starniti teatino et maestro Zerbo, doctori, lezeno a Padoa in philosophia, insieme col retòr di scolari
artista, con commission dil collegio di doctori; et forno alditi in contraditorio
con maestro Fraganzan, dotor vicentin, leze
in philosophia, qual non voria aver concorente inferior a lui, né vorìa essi doctori
esso in nel collegio di doctori. Or fo gran parole, e scrito ai retòri di Padoa,
dagi Information. N. non conosce l'esito di
questa bega; ma è certo che l'insegnamento della filosofia a Padova versa
in gravi condizioni. Nifo se n'era andato, e non fa più ritorno a Padova, ove non
gli mancano gl’appoggi di potenti amici, ma dove aveva dovuto cozzare altresì contro
l'avversione di maestri e scolari. Poi era morto maestro Nicoletto, che a Vicenza fa l'ultimo suo testamento, e con
lui spariva dalla scena padovana la figura
forse più nota fra gli studenti di filosofia e più popolare pelle sue bizzarrie.
Nessun maestro di qualche rilievo occupa più le cattedre di filosofia. Di ciò
ha a preoccuparsi il senato veneziano nella
seduta Senato terra, Reg.. A succedere
a Vernia fu perciò richiamato Magister Peretus de Mantua, vir singulari doctrina
preditus et studentibus gratus, con 180 fiorini di salario; per concorrente gli fu assegnato Fracanzano, vir doctissimus,
qui legit, quando fu nominato lettore di
logica; e poiché il vicentino ricusa l'ufficio di concorrente col salario di 80
fiorini, fu deciso di portarlo a 130, onde possit legere contentus et facere bonam
concurrentiam. Alla cattedra straordinaria di filosofia fu accettato il bolognese
Bacilieri, discepolo, amico e collega di Achillini, del quale porta a Padova le dottrine. Egli aveva dovuto
lasciare la città natale, in seguito alla sospensione per un quinquennio inflittagli
da quel Collegio dei filosofi. E forse Bacilieri dove fare da concorrente al Peretto,
quando Fracanzano entra al seguito di Corner, che, elevato alla sacra porpora, ha
ancora bisogno d'andare a Padoa a studia Sanuto. Ma ritornato sulla sua cattedra
il Fracanzano, e ripreso il suo posto di
concorrente di Pomponazzi, Bacilieri lascia Padova per Pavia N. Sig. di Brah. nel pens. del Rinasc. ital..
Nella stessa delibera si trova ancora: Demum legit in dicto gymnasio iam annos sexdecim dunque dall'anno scolastico quando Trapolin salì sulla cattedra
di filosofia quale straordinario Magister Petrus trapolino, qui est onustus
ingenti numero filiorum, et habet florenos 250 de salario in
anno, quod exiguum est respectu laborum quos sustinet in legende. Ideo captum sit
quod dicto magistro Petro addantur floreni quinquaginta, ita quod habeat de salario
trecentos in anno et ratione anni, attento presertim quod eius concurrens che era
Zerbo habet fiorenos sexcentos de salario in anno. Con questa delibera del consiglio
veneziano che vigila sulle sorti dello studio
patavino la crisi della filosofia padovana era avviata a una felice soluzione.
Intanto venivan su ottimi elementi, alunni dei maestri, che, appena addottorati
e taluno anche prima, salivano sulla cattedra. Così s'addottora in artihus Molino,
da Rovigo, alunno di Pomponazzi e di Trapolin che al dottore confere le insegne, e nel verbale di dottorato troviamo annotato che egli era già stato deputato ad lecturam
dialecticae Arch. d. Curia Vesc. S'era addottorato in artihus il veronese Burana,
e un anno dopo lo troviamo ordinario di logica. Il veronese Plumazio, già
alunno del Nifo, fu chiamato ad extraordinariam philosophiae lecturam. Anche Trapohn,
al quale conferì le insegne di dottore in artibus il padre, troviamo che electus
est ad lecturam publicam logice. Fu promosso
straordinario di filosofia naturale. E dopo la laurea, anche questa volta promotore. D. Petro Trapolino GENITORE suo qui
dedit insignia e fra i testimoni era Contarini,
passò alla scuola, collega del padre e, come questo, collegiato. S’addottorò in
artibns delle Pelli Negre da Troia in Puglia, promotore Trapolin, ed anche egli
era già stato eletto ad MORALEM PHILOSOPHIAM – GRICE AND THE WHITE CHAIR OF
MORAL PHILOSOPHY AT OXFORD --- publice legendam. S'addottorò Bagolino di cui abbiamo
udito l'elogio fatto da Avanzo e del quale è ben nota la carriera scolastica. S’addottorò
in artihus Zimara, promotore ancora Trapolin,
e comincia a insegnare prima logica, poi
filosofia. Conseguì il dottorato in artihus Fracastoro, anch'egli già ad lecturam
logice deputatus. Proprio in questi anni, affluiscono a studiar filosofia a Padova
membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane. Primi fra tutti Quirini,
Gradenigo, Taiapietra, Moro, Marcello, Contarini, Tiepolo, Surian, Contarini, e
Venier. Quirini, ancora artium scholaris, figura in vari atti di dottorato come
testimone; ma recatosi a Roma, vi sostenne
le conclusion nella chiesa dei Santi Apostoli, presenti Bembo e l'oratore veneziano
Zorzi, e fu addottorato in artihus da Alessandro. Il suo esempio seguirono anche
Taiapietra e Tiepolo, addottorati essi pure a Roma, dopo avervi disputato le loro
brave conclusion da Giulio II, Sanudo; Bembo, Opp., Venezia. Invece Marcello, ch
aveva sostenute ai Frari, a Venezia,
alcune conclusion Sanudo, s'addottorò in artihus a Padova, promotore Trapolin,
e gli fecero da testimoni Foscarini,
vescovo di Città Nova e
ancora studente di diritto, Barbarigo, primicerio di S. Marco, e Pomponazzi Arch. di Curia Vesc. Del dottorato in
artihus di Mocenigo, discepolo di Pomponazzi,
N. trova questo verbale, indictione. Privatum examen in artibus, in loco solito examinum,
per venerandum collegium artium doctorum, et comprobatio unanimiter et
concorditer ac nemine penitus discrepante, in assistentia Spectabilis. D. Pauli Zerbo Rectoris,
coram Reverendo d. Ludovico de rugerijs vicario. Et deinde in
medio cathedralis ecclesiae, assistentibus Mocenigo praetore, patruo, et Paulo Trivisano
equiti, praefecto urbis, avunculo, et aliorum
praestantissimorum doctorum scholarium civium et praelatorum corona, per
R.mum D. Episcopum, eius domino Vicario recitante, pronuntiatus fuit Doctor in Artibus
M. cus et doctissimus vir. Mocenigo, natus mi D. Leonardi, fili olim Serenissimi
principis Venetiarum Mocenici, post longas lucubrationes et scholasticos
labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Cui tradita fuerunt
insignia per Excell.mum artium et medicinae doctorem, D. Magistrum Petrum trapolinum
prò se ac Dominis Magistris Ioanne de Aquila, Symone Estensi, Hieronymo de foelicibus
ac Bernardino Spirono. Testes: D. Laurentius Venerio, D. Suriano, Contareno,
artium scholares. È notevole che anche qui s'accenni a pubbliche dispute, tenute verosimilmente a Padova e a Venezia, delle solite
conclusion. S'addottora in artibus Gradenigo, ed ebbe a testimoni il
Magnifico G. Batt. Memo, suo zio e podestà
di Padova. S'addottorò in artibus Foscarini, promotore Montagnana; fu eletto lettore
di filosofia nelle scuole di Rialto a Venezia, al posto di Giustinian nominato ambasciatore
(Sanudo). S'addottorò parimente in artibus
Venier, el Gobeto, del quondam Marino procurator di S. Marco, e gli furon
testimoni Corner, padre del Cardinale e
podestà di Padova, Trevisan, capitanio, Surian e Polani
Arch. Cur. vesc. Prima del dottorato a Padova, egli aveva tenuto le sue conclusion
ai Frari in Venezia, disputando per più giorni con Bragadin, lettore di filosofia,
con Badoèr, dottore e cavaliere, con Zorzi,
anch'egli dottore, e con alcuni frati
Sanudo. Fu la volta di Moro di Marino, che ebbe a testimoni Molin, podestà di Padova,
Trevisan, capitanio, i due celebri scotisti francescani Trombeta e Ibernico, lettori
nelle scuole del Santo, e Pomponazzi Arch. Cur. Vesc. Anch'egli aveva tenuto le
conclusion ai Frari, qual'è impresse Sanudo.
E finalmente Surian, nipote del patriarca dello stesso nome, dopo una disputa pubblica di due giorni a
Padova e di un giorno ai Frari a Venezia
Giorn. Crii. d. Filos. Hai., ebbe le insegne di dottore in artibus da Speroni, prò
se ac Dominis Magistris Ioane de Aquila, Benedicto de Odis, Trapolino, Maripetro,
Antonio de Faenza, Francisco ab Equis, Petro de Mantua, Carrano et Carolo de lanua compromotoribus suis
Arch. Cur. Vesc. Dal qual verbale appare
che Pomponazzi, forestiero, era stato aggregato al collegio dei filosofi di Padova,
Dallo stesso Archivio della Curia Vescovilesi
rileva che xA.ntonio D. Petri Trapolini ricevve la prima tonsura dalle mani
del vescovo Barozzi, il quale venne a
morte di lì a poco. Questo figlio del Trapolino fu avviato allo studio del
diritto, e, dopo alcuni anni di vita dissipata, rimessosi sulla buona strada, professa Decretali e diritto civile a Padova. Ma morì se sono esatte le notizie raccolte da Facciolati
Fasti Gymnasii Patavini. Divenuto un fiorente centro d’intesa vita intellettuale,
lo studio di Padova attira, oltre la nobiltà veneziana e studenti di molte parti
d'Italia, molti studenti d'oltralpe. Fra coloro che vi sostarono è da ricordar Copernico, che, già studente di diritto e quasi certamente anche dell’arti a Bologna, a
Padova fu studente e a Padova certo non può aver trascurato lo studio
della matematica e dell'astronomia. A Padova
avevano insegnato queste scienze Peurbach e Regiomontano, ossia Muller di Kònigsberg,
e dipoi Capuano di Manfredonia, i quali avevano discusso le osservazioni di Tolomeo
e quelle di Albategni in rapporto ad una
revisione, che si rende ogni giorno più necessaria, delle tavole alfonsine.
Si parla anche della fama di profondo matematico goduta da Trapolin, considerato
nientemeno che il primo matematico del suo tempo, sì che per questa sua fama accorrevano
a Padova, avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni
nazione Vedova, Biogr. d. Scrittori
Padovani. Alunno di Trapolin e Pomponazzi era stato il mantovano Tiriaca che s'addottorò in artihus,
promotore Trapolin che gli conferì le insegne, e testimone il Peretto suo concittadino.
Egli tenne la cattedra di matematica e astronomia con tanto plauso che, avendo dato
le dimissioni, bandito il concorso per dargli un successore, quando gli studenti
seppero i nomi degli aspiranti a quella lettura presero ad agitarsi e chiesero che
Tiriaca fosse richiamato sulla cattedra,
come fu fatto con deliberazione del Senato veneziano. È arduo pensare che Copernico
non l'abbia avvicinato e si sia disinteressato dell'insegnamento del maestro.
Un confronto dei ritratti di Copernico, e specialmente dell'autoritratto, col matematico
seduto e intento a tracciare un disegno nel quadro del Giorgione i tre filosofi
, l'ha indotto a credere a N. che questo sia proprio Copernico, studente a Padova.
Volgendo le spalle a Tolomeo e all'arabo Albategni, egli è rappresentato dal pittore
di Castelfranco Veneto, al centro ideale e prospettico del quadro, nell'atto di
scrutare la natura che ha dinanzi e di volgere le spalle ad un sapere che sta per
tramontare. Trapolin era a Venezia, presente alle solenni esequie fatte a Sabellico
nella chiesa di S. Stefano. Egnazio fece l'orazione funebre dell'amico umanista deceduto, Sanuto, Vili. Pomponazzi, circondato dalla stima e dall'affetto
dei suoi alunni e dei colleghi rinnova l' ingaggio de firmo et unum de respectu;
e in quell'occasione il Senato gli aveva
portato lo stipendio dai 180 ai 250 fiorini, motivando l'aumento colla singolare
dottrina del filosofo e coi bisogni della
numerosa famiglia da À mantenere Venezia, Arch. di Stato, Sen. terra, Reg.
Quanto alla numerosa famiglia, sappiamo che sotto Natale egli si sposa con Cornelia di Francesco Dondi dell' Orologio, dalla quale
aveva avuto una o forse già due figliolette. Per parlare di numerosa famiglia
bisogna pensare che egli avesse a carico altri
parenti. Tanto più che lo stesso motivo del bisogno in cui versa pella famiglia numerosa sarà addotto
da Peretto per chiedere un nuovo aumento in occasione del rinnovo dell'ingaggio.
Lo stipendio questa volta gli fu portato a
370 fiorini. Le cose dello studio
patavino procedevano dunque a gontie vele, e quando, ad Achillini costretto a fuggire
da Bologna pella caduta dei Bentivoglio dei quali era fautore, fu offerta la cattedra
di filosofia naturale, secundo loco, che
era stata del Fracanzano, morto; si che il bolognese si trova ad essere concorrente
di Pomponazzi. E in disputa tra loro al circolo
dei filosofi, al portico pretorio, fra il palazzo della ragione e il Bò, li ritrasse
ambedue al vivo Giovio, il quale era alunno del Peretto, e a Padova rimase fino
a quando fece ritorno a Pavia. Ma la serenità che Bologna invidia a Padova non dura a lungo e un violento uragano s’abbatté su questa,
quando, pel furore totius fere Europae virium in Rem Venetam conspirantium, come
con bella frase si legge sulla tomba del doge Loredan nella chiesa di San Zane e Polo, Venezia corse pericolo mortale e
le milizie imperiali occupano Padova. Sembra che proprio lo stesso giorno
dell'entrata dei tedeschi in Padova, morisse,
non saprei in quali circostanze, Trapolin. E fu certo ventura per lui che, giacendo
nella pace del chiostro di S. Francesco, ov'era la tomba della famiglia Trapohna nella
stessa chiesa riposa Roccabonella, non ebbe a vedere lo scempio della città, il
saccheggio della sua casa e la sciagura dei suoi congiunti ed amici. All'avvicinarsi del nemico i rettori della città e il consiglio cittadino, formato di 16 deputati, discussero
a lungo s’arrendersi o resistere. E parlò Trapolin, che si voleno tenir pella Signoria,
e non si dar al re di romani, si non vedono mazor exercito eh'1 nostro a preso Padoa,
ben non voleno danno, ni el nostro campo entri in Padoa, dice Sanuto. Vili. Ma le
difese veneziane eran deboli, e Padova cade. Vi
fu un principio di saccheggio, ma una
grida rassicur i cittadini; fu formato un governo provvisorio di notabili
padovani, e l'ordine fu ristabilito Sanudo,
Vili. Di questo governo fa parte anche Trapolin, Bagaroto, lettore di diritto
e Conte. Qualche settimana dopo insieme ai predetti fa parte di questo governo provvisorio
anche un altro dottore padovano, Lion Sanudo. L'ordine relativo che regna in Padova consentì
che i professori dello studio continuassero a svolgere i loro corsi e a fare esami.
Così mi risulta che Pomponazzi era promotore nel dottorato di Alvise da Brescia Arch. ant.
dell'Univ., Sacro Collegio dei filosofi.
Ed altri esami si tennero anche nei giorni successivi. Ma i veneziani mal si rassegnano
alla perdita di Padova, anche perché sapevano che non pochi padovani non se la prendevano poi tanto
calda per Venezia, e ricordavano che nel tentativo di Marsilio da Carrara non pochi
l'avevano favorito, e la Signoria per dare un esempio memorabile, FA IMPLICCARE
UNA SESSANTINA DI PERSONE, fra le quali l'avo di Alberto e di Pietro Trapolin. Perciò
s’affrettarono a ricuperare la città, affidando l' impresa a Gritti. Entrate in
Padova, le milizie veneziane si dettero
a saccheggiare le case dei fratelli Trapolin e di altri padovani, compromessi
o sospetti, mentre Alberto, col fratello Roberto e con Conte, s'asserraglia nel
palazzo del Capitanio, ove fatto prigione fu mandato a Venezia, coi suoi compagni,
per render conto del suo contegno verso la Signoria. È appunto col ritorno dei veneziani
che cominciarono i maggiori guai per Padova. Nell'elenco delle case saccheggiate
che menziona Sanudo Vili, figurano quelle dei fratelli Alberto, Roberto e Nicolò
Trapolin, e quella di Francesco loro nipote, e figlio del u quon
m dam maistro Pietro. La stessa casa di maestro Pietro, ove vive la vedova Maria,
coi figli Giulio, Alessandro ed Alba, non fu risparmiata, e pare che in questo saccheggio
andassero distrutti per intero le opere
manoscritte e i corsi di lezioni da lui tenute. Sanudo poi informa che anche
Julio Trapolin, fo fiol di missier Piero, fu fatto prigioniero e dal capitanio di
Padova spedito a Venezia con altri compagni per esser giudicato. Ma anche ripresa
dai veneziani, Padova rimane sotto la minaccia degl’imperiali che ne occupano i
dintorni immediati e tentarono di fare di nuovo irruzione in città. Soltanto i tedeschi levarnoo il campo.
Intanto l'università riceve un fiero colpo: maestri e studenti cominciarono a prendere
il largo, e taluni non vi ritornarono piìi, altri soltanto più tardi. Fra quelli che NON ritornarono, è POMPONAZZI.
A dir il vero, gli era morta la moglie ed era rimasto con due bimbette ancora in
tenera età. Forse dopo essersi in fretta riammogliato con Ludovica del nobile Pietro da Montagnana, cittadino padovano
che ritengo abitasse nella contrada di S. Lucia, lascia Padova colla famiglia, forse per riparare
a Mantova, portando con sé il ricordo dello studio patavino, delle battaglie
chev'aveva combattuto, degl’alunni che a lungo gl’attestarono la loro devozione,
primi fra tutti Bonamico da
Bassano, Gaspare e Marcantonio Contarini, e dei colleghi, e in particolare di quello che era stato
suo maestro e poi caro amico, Trapolin. Invece Zimara da S. Pietro in Galatina già ALUNNO E POI FIERO
AVVERSARIO – GRICE STRAWSON – di Pomponazzi, dopo aver girovagato in patria, a Salerno
e a Napoli, vi fa ritorno. Non è esatto per altro che lo studio venisse chiuso,
poiché dagli Ada graduimi dell'Archivio della Curia Vescovile risulta che, per esempio, fa il dottorato
in artibiis Binno de'Tomasi figlio di Maesto Jacopo veneziano, ed ha le insegne
da Genua; s'addottora ugualmente in
artibus Oldoino, e fra i testimoni era
Genua figlio del dottore
Nicolò; ebbe le insegne di dottore pure in artibus il Magnifico e generoso Francesco del fu Chiarissimo
Morosini, promotore lo stesso Genua, e testimoni i Magnifici Spinelli partenopeo, dottore cavaliere, conte di Cariato
e oratore massimo di Sua Maestà Cattolica, Pietro Duodo, podestà di Padova, Alvise
Emo, Capitanio, nonché i Reverendi Contarini, dottore in artibus, in teologia e
in decreti, e Giustinian, canonico patavino. Ed altri dottorati ebbero luogo,
come può vedersi negli stessi Ada della Curia Vescovile e in quelli più volte ricordati dell'Archivio antico dell'Università,
per quanto lacunosi. Certo è, per altro, che la attività dello Studio, sia per il
minor numero degl’alunni, sia per scarsità di maestri, fu assai ridotta fino alla
ripresa. Nel quale anno, troviamo il dottorato in artibus di Speronello figlio dello
Spettabile ed esimio dottore Bernardino
Speroni, nobile padovano,
presenti come testimoni
i Magnifici Donato, podestà, e Loredan,
degnissimo capitanio, non che i nobili veneziani Almorò Donato, Venier, e Giacomo
Loredan. Dopo la deportazione a Venezia dei
fratelli Alberto e Roberto Trapolin, del loro nipote Giulio, lìglio di Pietro, e degli altri che s'erano
compromessi nei fatti di Padova, più di 100 per sospetto, oltra li ritenuti (Sanudo),
fu fatto il processo a carico di Trapolin fratello di misier Piero dotor excellentissimo,
el qual Alberto era di XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et
anche suo avo fo apicato a Padoa a tempo di la novità di misier Marsilio di
Carrara, di Conte, fato cavalier per r
imperator presente novitev, di Bertuzi Bagaroto, dotor,
qual lezeva publice in iure a Padova et havia 300 ducati all'anno della
Signoria, era richo e famoso, e di Giacomo da Lion dotor, el qual fé' la oration
a l' imperator l'orazione è riportata
da Sanudo, Vili quando se deteno padoani, ne la qual dice gran mal de'venitiani.
Il Consiglio dei X con la Zonta fu implacabile con questi padovani, che vennero
impiccati. Sanudo, che ci dà alcuni particolari della loro impiccagione, e' informa
anche che i loro beni furono confiscati, e aggiunge: Restane a spazar li altri padoani
Della fine di Trapolin e dei suoi compagni parla anche il vicentino Porto, che assistè
al supplizio Lettere storiche per cura di Bressan. Firenze, Le Monnier, lettera a Savorgnan. Di Trapolin
dice che era profondissimo filosofo e teneva alquanto dell'epicureo, sì che pare
che non accetta con tanta riverenza, né con tanto desìo le cose sante dette da'religiosi
con quanto gli altri fanno; ma taciturno, ovvero dicendo alcuna fiera parola contro
i Viniziani, aspetta l'ora del fine suo. E dinanzi alle forche, voltato messer Bertucci a Trapelino disse: Ecco
il legno della nostra croce. Ecco risponde
egli il luogo dove la nostra innocente vita d’una ingiusta morte sarà terminata.
Pare invece che Roberto e Nicolò, altri fratelli di Pietro, e il figlio di questo,
Giulio, se la cavassero a buon mercato. Poiché di Nicolò ci vien narrato Papadopoli, Hist. gymnasii patav. che anda in Germania al seguito dell'Imperatore Massimiliano, da cui ebbe onori,
e quindi si mise al servizio di Carlo V,
prese parte all'espugnazione di Tunisi, della quale scrisse la storia; infine
si riconcilia con Venezia, e potè ritornare
a Padova, ove morì. Di Roberto Trapolin consta Padova, Arch. di Stato, Estimo, Polizze della Città, Polizza che si trova
ad bavere 5 fioli, 4 menori, de li quali tre fiole da maridare e che egli era confinato
in Venetia, dove sto egli dice um spesa, né posso veder li fatti miei et convegno
pagar uno fator et ogni cosa me va in ruina. Egli era già morto poiché, Trapolin
de'Trapolin suo figlio presenta a nome degl’eredi la prescritta dichiarazione all'ufficio
dell'estimo. Di Giulio consta che, insieme al fratello Alessandro, ebbe procura
dalla madre. Maria del fu Francesco de'RoselH,
nella causa che questa intenta per l'eredità paterna. Gli stessi Giuho e Alessandro
compaiono ancora insieme alla madre nel contratto di nozze della loro sorella Alba
col nobile padovano Gaspare del fu Buzacarini,
abitante nella contrada di S.Agnese Padova, Arch. di Stato, Sez. notar., Not. Bragadin. Ma Giulio
morì l'anno stesso in cui sarebbe morto l'altro fratello, Antonio, secondo Facciolati, e fu sepolto a S.
Francesco, insieme al padre, prima che la tomba di famiglia dei Trapolin divenisse
proprietà dei nobili De Lazzara, figli di Marina Trapolina, che non è detto in quali
relazioni di parentela è col filosofo e i suoi eredi lac. Salomonio, Urbis patav. Inscriptiones, Padova. Alessandro invece era ancora vivo,
quando, insieme a M. Antonio e Pietro, nipoti
del filosofo, provvide a far trasportare nella chiesa dei Carmini le ossa
del padre e della madre e di altri suoi maggiori, in una tomba
che avesse da accogliere lui e tutti i suoi, come si legge nelr iscrizione riportata
dagli storici di Padova PapadopoU,
Hist. gymnasii patav.; anzi, dalla già citata Polizza dell'Estimo
risulta ancor vivo. E Francesco Trapolin, che sull'esempio paterno insegna a Padova prima la logica, indi
la filosofia naturale. I documenti padovani tacciono di lui, dopo il saccheggio
della sua casa. Può darsi ci sia qualcosa di vero nella notizia raccolta anche da
Portenari, Della jelic. di Padova, che egli anda a legger a Firenze. G. Cesare
Scaligero, De subtilitate, dist., pretende di sapere che Francesco Trapolin, precettore
di Pomponazzi, che anche un'altra volta BORDONE
chiama suo precettore, muore per aver mangiato un intingolo ove la domestica mette
della cicuta invece di prezzemolo. Se non che precettore di Pomponazzi non fu Francesco
Trapolin, ma Pietro, il padre. BORDONE, addottorato in artihus a Padova, mostra, anche per questa confusione, di
riferire una voce raccolta per sentito dire. Certo è invece, per l'attestazione
dell'Estimo citato Polizza , che la nobele madonna Maria Trapolina era tutrize et
gubernatrice de i fioli del q. messer Francesco
Trapolin, q. m. piero. A questa data dunque Francesco era
morto. E forse suo figlio, se non di Alessandro o di Giulio, potrebbe essere quel
Pietro Trapolin che figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale dei Carmeni e fa
denuncia dei suoi beni all'ufficio dell'Estimo
Polizza. Costui è sicuramente l'autore delle lettere a Mussato nel Ms. della Biblioteca
del Seminario di Padova. A questo figliuolo Pietro Trapolin aveva trasmesso, col
conferimento delle insegne dottorali in filosofia, il meglio della sua arte, ed
egli avrebbe dovuto custodirne l'eredità spirituale. Invece l'oblio colse il figlio
anche prima del padre. Poiché se di quello
resta appena il nome nelle carte sbiadite della Curia Vescovile e dell'Archivio
dell'Università di Padova, di questo ci son pervenuti almeno i pochi frammenti menzionati
in principio, insieme alla gloria d'essere stato ricordato dal suo grande discepolo
ed amico Pomponazzi come suo precettore Prologo al De incantationihiis: Dicisque
ulterius te quandam responsionem alias a Petro
Therapolino patavo, nostro communi praeceptore, audivisse, quam ipse Alberto
ascribebat. Queste parole sono rivolte a Panizza, cui il Peretto indirizza la sua
opera; sebbene dalle stampe non appaia, è attestato però dal codice Ambrosiano di
essa. Panizza, mantovano, è studente a Padova; e nel voi. più volte citato di quella
Curia Vescovile, c'è anche il verbale del
dottorato in artibus D. M.ri panicia Mantuani, filij D. de panici s, ov'è detto che dell'uno e dell'altro
grado accademico habuit insignia a D.
M.ro Petro trapolino. Fra i testimoni
figura al primo posto Pomponazzi, artium doctor, ordinariam philosophiam legens.
Paniza è autore di tre opere a stampa: di una Qnestio de phlebotomiis fiendis Venetiis,
per Benalium, dedicata al duca Gonzaga, e di un Commentarium de venae sectione per
sex egregios et praeclaros iudices diindicatum, cui si trova aggiunto dello stesso
autore il Lihellus de minoratione ex visceribtts ad Herndem Gonzagam Principem iustissimum
et Cardinalem amplissinitmi Venetiis. Quest'ultimo
volume ha in principio un bel ritratto dell'autore e una tavola raffigurante i filosofi
in atto di giudicare e approvare la sua opera.
Nella Qnestio de phlebotomiis, scritta contro un chiarissimo medico del quale non
è indicato il nome, accade a Panizza di ricordare il maestro che gli aveva
conferite le insegne dottorali. Accennando ad Avicenna che fu il migliore seguace
d'Aristotele, dal quale discorda solo in paucissimis admodum rebus, egli continua:
IdeoTrapolinus, preceptor meiis, sue etatis
philosophorum gloria, autoritate Girardi bolderii Veronensis hanc dicebat
profitentibus arteni: Insequimini Avicennam, primo; insequimini Avicennam, secundo;
insequimini Avicennam, tertio. E un po'più giù, a proposito d'un'argomentazione
subtilissima et tota metaphisicalis, osserva: Ex quo non mirum si medici ista non
intellexere, artifices sensitivi grossique cum sint; stat enim in abstractis a materia. Sed ex sententia perspicui
speculatoris Petri trapolini, artifices huius artis res tales e suis expellere mentibus
tenentur, cum medicina sit de immersis in materia et quandoque feculenta et turpi.
Ma se Paniza ricorda Trapolin come insigne medico, Genua, figlio di Nicolò che del
Trapolin era stato collega, continua a ricordarlo sicuramente l'aveva conosciuto
da ragazzo anche come filosofo di tendenze moderatamente
averroistiche, insieme a Pomponazzi, nel commento al De anima, stampato a Venezia.
Altre notizie su questo maestro, amico e collega del Peretto Mantovano non sono
riuscito a rintracciare, ed ho riunite quelle che ho trovato per chi, come dicevo
e come mi auguro, vorrà intraprendere più ampie ricerche sullo Studio patavino
nel Rinascimento. Intanto son lieto di potere annunziare che altre notizie e documenti
sulla famiglia Trapolin, coinvolta nelle vicende di Padova al momento della guerra
pella lega di Cambrai, il lettore potrà trovare nella A Criticai Edition of the
Lettere Storiche 0/ Porto, a cura di Clough,
Oxford. vili I QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS DI ACHILLINI Se a Padova il decreto episcopale, vieta di disputare quovis quaesito
colore, sotto qualsiasi pretesto, della dottrina averroistica dell'intelletto, meno
che per combatterla, e maestro Nicoletto da Chieti e il suo discepolo Nifo da Sessa
s’affrettano a recitare la loro palinodia, e la penna a impugnare l'averroismo brandiva
anche lo scotista francescano Trombetta,
a Bologna, sotto la liberale signoria dei
Bentivoglio, Achillini potè liberamente discutere
al capitolo generale dei francescani tenuto in questa città sotto il generalato
di Francesco San Dal voi. Sigieri
di Brab. nel
pens. del Rinasc.
Ital. I II
francescano Trombetta, ordinario di Metafìsica invia Scoti a Padova, aveva
scritto, prima del Vernia, un Tvactatiis de humanaruiìi animarmn plurificatioiie
coìitra Averroistas, che sarà poi
pubblicato a Venezia, per Bonetum Locatellum, col quale scende in lizza in
difesa della proibizione del vescovo Barozzi.
Wadding, Scriptoves Ordinis Minornni, Roma, informa che taluni, anzi che col nome
volgare di Trombeta o Trombetta, preferivano cultu quodam latino di chiamarlo con quello di Tubefa; e Tubefa è chiamato anche nell'epitaffio
sepolcrale nella chiesa di S. Antonio a Padova, che Wadding riporta. Sul finire delle Questiones de pliiritate
etc, Vernia scrive: Si quis vero, per resolutionem ad immediata et per divisionem
ad minima, argumentationes contra Averroym, in hoc commento philosophice discipline
depravatorem, videre desiderat, videat, opus contra ipsum reverendi sacre
pagine magistri Antoni] Trombetta,
philosophi integerrimi et theologi
excellentissimi, provincie sancti Antoni] Patavini ministri meritissimi. Nam frustra visum est mihi
tangere que ab eo mihi amicissimo sunt optime declarata. E Trombetta, che è il primo
dei revisori dell'opera di Vernia, rende testimonianza, a sua volta, al sapere del
collega e alla fede di lui, si da procacciargli l'approvazione del sospettoso
Barozzi.] sone presenti forse il Nifo
e Pico, i suoi Quoliheta de intelligentiis,
in difesa della sua interpretazione sigieriana della dottrina averroistica, portata
a Padova dal suo fìdus Achates, Bacilieri, e da lui stesso,
e a Padova professata da Taiapietra e Venier, quando ormai Nifo, che n'era
stato propugnatore fin dai primi anni del suo insegnamento padovano, l'aveva apertamente
ripudiata. In quest'opera Achillini è
sigieriano da principio alla fine, sebbene egli, secondo un costume molto
diffuso, non faccia mai il nome dell'averroista brabantino né d'alcun altro, tranne
si tratti di Aristotele o d'Averroè o d'altra autorità pari a queste. E, cosa notevole,
le opere di Sigieri cui egli attinge, sono quelle stesse dalle quali il Nifo
prende le citazioni che ho riferito nel volume su Sigieri di Brahante nel pensiero
del Rinascimento Italiano: il che si presta a varie congetture. Come sappiamo, le
tesi difese da Sigieri nel suo trattato De intellectu, scritto in risposta al De
imitate intellectiis d’AQUINO, erano queste: r
intelletto possibile è, in sé stesso, l'infima delle sostanze separate, ed
è unico per tutta la specie umana; l'anima intellettiva dell'uomo risulta dall'unione
dell'intelletto possibile, separato ed eterno, colla cogitativa che Achillini bononiensis
de intelligentiis quolibeta in quibus quid
commentator et Aristoteles senserint et in quo a veritate deviaverint continetur.
in capitulo generali minorum edita et impressa Bononie impensis Benedicti Hectoris
Faelli Bononiensis, illustrissimo Ioanne secundo Bentivolo reipublice Bononiensis
habenas felicitar moderante. La seconda
edizione, fatta presso lo stesso editore Faelli, è dedicata al conte Rangoni, che aveva udito Achillini disputare
intorno agli argomenti trattati nel libro ed aveva preso attiva parte alle dispute.
Intorno a Rangoni, TiRABOSCHi, Biblioteca Modenese. Per Venier, allievo del Bacilieri,
è da vedere il volume di Bonet, Metaphys., naturai. Philos., Praedicam., necnon
Theol. natur. Recogn.per magnif. dom. Venerium.Venetiis, Eredi di Scoto, con lettera del Bacilieri a Venier, e dedica di questo al
doge Loredan. Le note marginali di Venier risentono dell'insegnamento del suo maestro bolognese. Nifo, De intellectu; De anime
beatit., comm.; Sigieri ìiel pens. è la più alta delle facoltà di cui sia dotata
l'anima sensitiva dei singoli; in questa unione coi singoli l'intelletto, uno in
sé, acquista un'esistenza individuale e molteplice, pari al numero dei singoli;
mercé questa unione, l'anima intellettiva può dirsi forma sostanziale inerente all'uomo,
e non soltanto forma assistente; sì che da essa l'uomo trae il suo essere specifico
di animale ragionevole; r intelletto possibile è pura potenza priva di ogni atto
sostanziale; soltanto grazie all'azione dell'intelletto agente la sua potenza è gradualmente attuata; r intelletto
agente è Dio; ma esso può dirsi parte della anima umana in quanto concorre all'atto dell'intendere
umano e alla fine dello sviluppo intellettuale dell'uomo s'unisce
all'intelletto possibile come forma r intelletto umano può arrivare a conoscere
le sostanze separate e Dio per unione intenzionale colla loro essenza. Nel libello De felicitate, poi, l'averroista del Brabante aggiunge quest'altre
tesi: nell'atto intellettuale col quale l'intelletto possibile intende nella sua
essenza l’intelletto agente, cioè Dio, consiste formalmente la suprema felicità
dell'uomo in questa vita; al pari dell'intelletto umano, anche le altre intelligenze
separate conseguono la loro beatitudine nell'atto col quale intendono l'essenza
divina ; NiFO, De iutell. De anima, comm. Sigieri NiFO, De intell. De aniima, comm.
Sigieri NiFO, De ititeli. De anima, comm. Sigieri NiFO, De intell. De anima, collect.; Sigieri,
De anima intell. Mandonnet, Sig. de Brabant et l'averr. latin, Louvain, e Qitaestiones
naturales edite da Stegmùller, in Rech. de tìiéol. anc. et méd.. Sigieri Vedasi
anche Giorn. Crit., NiFO, De intell.
Sigieri NiFO, De intell. De anime beatit.,
I, comm. Sigieri NiFO, De intell.; De anime beat., comm. Sigieri NiFO, De intell.;
De anime beatit., comm.; De anima, collect.; Sigieri.] o) sì per r intelletto umano,
sì per le altre intelligenze separate, intellectio qua Deus intelligitur est ipse
Deus. Ora tutte queste tesi son difese d’Achillini nei suoi Qtioliheta de intelligentiis;
anzi la massima parte di quest'opera del maestro bolognese è dedicata alla trattazione
di questi dieci punti svolti negli scritti di Sigieri, dei quali Nifo ci ha rivelato
l'esistenza; il che m'ha recato, quando ho potuto rendermene conto, non poca sorpresa.
La trattazione d’Achillini verte intorno a questo problema fondamentale: Utrum latitudo
intellectuum sit uniformiter difformis. Per intendere l'esatto signiiìcato di questo problema, giova ricordare alcune cose. È noto che Anassagora, a spiegare l'origine del
movimento fisico che separa i semi delle cose dal \ny\La. nel quale eran tutti confusi, e per dar
ragione dell'ordine che s'osserva nella natura, sentì il bisogno di porre una mente
ordinatrice, non mista perché dominasse. Ma parve a Platone e ad Aristotele che,
pur avendo affermato un così operoso
principio, Anassagora non ne traesse tutto il vantaggio che poteva e non
gli attribuisse quella causalità che gli sarebbe spettata nell'ordinamento delle
cose. Perciò, il primo ad ogni specie di cose nel mondo sensibile fa corrispondere
una propria idea nel mondo del pensiero; ed il secondo pone tante menti separate
quanti, a suo modo di vedere, sono i movimenti celesti. Anzi che un solo intelletto, abbiamo così per Aristotele una gerarchia
d'intelhgenze, comprese fra due termini estremi: l'intelletto umano in basso, e
la mente del primo Motore immobile, puro pensiero, al vertice. Come le idee dei
generi e delle specie hanno una maggiore o minore estensione, così questi intelletti
hanno una maggiore o minore capacità d'intendere, in rapporto alla funzione che
ad essi è riservata come motori; poiché non
va mai dimenticato che solo per mezzo del movimento Aristotele, al pari ‘Anassagora,
era giunto ad affermare l'esistenza d'una prima Mente motrice dell'universo e di
altre menti intermedie fra quella e il mondo della generazione, aventi l'ufficio
d’adattare l’impulso che viene dal primo Motore, a particolari fini subordinati
al fine supremo. Perciò la prima Mente è
intelligenza al massimo grado, mentre gli
altri intelletti, giù giù ARisT., De anima, di cielo in cielo, fino all'intelletto
umano, possiedono una capacità d'intendere sempre più limitata. Rappresentandosi
r intelligenza a guisa d'una qualità, per esempio, d'un colore, di cui s'hanno molti
gradi d'intensità, da quello piìi cupo a quello più chiaro, gli scolastici solevano
chiamare latitudo l'estensione compresa fra
la cosa che possiede quella data qualità nel minimo grado, e la cosa che la
possiede nel grado più alto e più intenso: perciò la latitudo dell'intelligenza
non è altro, come dice Achillini, se non la gerarchia stessa degl'intelletti, avente
il grado più basso o più dimesso nell'intelletto umano, e il grado più alto o più
intenso neir intelletto divino. Chiedersi se
la latitudo degl'intelletti sia uniformiter difformis, significa per lui
domandarsi se le varie intelligenze differiscon fra loro per gradi uguali oppure
no Ma per risolvere siffatto problema, è necessario vedere qual'è la natura propria
dei singoli intelletti compresi nella Latitudo intellectuum est ipsi intellectus
ordinati secundum quod ex se sunt ordinabiles. De intelligentiis, quol.in AchilLiNi, Bononiensis, philophi celeberrimi. Opera omnia
in iDium
collecta cum annotationibus excell. doctoris Pamphili Montij, Bononiensis,
scholae Patavinae publici professoris. Venetijs, apud Hieronymum Scotum. A questa
edizione mi riferisco anche nelle citazioni successive, per ragioni di comodità.
In un trattatello De latitudinibus formarum,
più volta stampato sotto il nome di Nicolò d'Oresme, si leggono in principio queste definizioni
che giova tener presenti: Latitudo uniformis est illa que est eiusdem gradus per
totum. Latitudo difformis est
que non est eiusdem gradus per totum. Questa si divide come segue: Latitudo secundum
se totam difformis est cuius nulla pars est uniformis; latitudo non secundum se
totam difformis est illa cuius aliqua pars est uniformis. La latitudo
uniformiter difformis è una sottospecie della latitudo secundum se totam difformis,
ed è precisamente quella cuius est equalis excessus graduum Inter se equaliter distantium
Tractatus de latidinibus formarum secundum Reverendum dodorem magistrum Nicholaum
Horen, Venezia. Sull'autore di questo piccolo trattato, l'eremitano
Iacopo di San Martino, detto anche Iacopo
da Napoli, il quale riassunse e schematizza, non del tutto fedelmente, un
più ampio trattato di Oresme, come sul sommento di PELICANI da Parma che insegna
anche a Padova e Bologna, e in generale sul tentativo di costituire un metodo matematico
pel calcolo dell'intensità delle qualità non solo corporee ma anche spirituah, completa
luce ha fatto Maier, in An der Grenze von
Scholastik iind
Naturwissenschaft. Roma, Ediz. di Storia e Letter., che è uno dei più seri
e documentati contributi allo studio della filosofia della natura, condotto con
rara conoscenza delle fonti manoscritte, e perfetta intelligenza dei problemi trattati.
latitudo di quella perfezione o qualità che dicesi intelligenza: e segnatamente
se il primo e più alto intelletto sia intelligenza infinita. Nel qual caso, è evidente che la latitudo dell'intelligenza
sarebbe infinita. Occorre pertanto chiedersi in primo luogo se il primo Motore,
cioè Dio, muova l'universo con vigore o virtù intensivamente infinita, e sia perciò
di vigore intensivamente infinito. Per intendere il significato del qual problema
è necessario ricordare che l'argomento principale, col quale Aristotele era
salito a Dio, è quello del moto: Dio è essenzialmente
il primo Motore immobile dell'universo, è l'universo è il mosso. Ora l'universo,
per Aristotele come pei Pitagorici, è una sfera di raggio finito, avente per centro
assoluto la terra e per limite esterno il cielo delle stelle fisse. Finito nella
mole, il mondo si muove con moto finito in velocità, e infinito soltanto in durata,
poiché l'universo è eterno. Dall'intensità del moto dell'universo non si può dunque
arguire ad un'infinità intensiva della virtù o vigore con cui Dio muove il mondo.
Ed infatti Averroè dice espressamente in più luoghi, che v'è proporzione tra l'intensità
di vigore nel movente e la velocità del mosso; sì che un'azione d'intensità
infinita e d'infinito vigore non può esser ricevuta in un corpo di grandezza finita.
Se il primo Motore muove il cielo con
virtù intensivamente infinita, questo dove muoversi con velocità infinita in un
solo istante. AQUINO crede di potersi sottrarre alla conclusione cui era giunto
Averroè, concedendo che tutto ciò è vero dei motori naturali che mettono nel muovere
tutta la forza di cui sono capaci; ma non è vero dei motori che agiscono con intelletto
e libera volontà, qual è Dio. Il primo Motore dell'universo, per AQUINO, appunto
perché dotato d'intelligenza e di libero volere, comunica al mondo quel tanto di
movimento che meglio si conviene, in rapporto al fine che si propone di raggiungere
e alla capacità limitata del mosso; ma questo non implica che vi sia una
proporzione necessaria tra la quantità di movimento ricevuta dal mondo e la virtù
del primo Motore, l'infinità della quale
può dimostrarsi per altra via. AvERR., Phys., Vili, comm.; De caelo, comm.; Metaph. De substantia orbis AQUINO, Phys., Una delle proposizione delle condannate
a Parigi suona così: Quod Deus est infinitae virtutis in duratione, non in actione,
quia talis infinitas non est nisi in corpore finito, si esset. E di nuovo la proposizione:
Quod Deus est infinitae virtutis, non quia
facit aliquid de nihilo, sed quia continuat motum infinitum. La condanna di queste
proposizioni è sicura prova che anche su questo punto gli averroisti parigini accettavano
r interpretazione che Averroè da del pensiero d'Aristotele. Era di questo avviso
anche Sigieri De ista quaestione, informa Jandun o credunt magni viri in philosophia, Philosophum
et maxime Commentatorem veritati catholicae
adversari. Che egli alluda ad AQUINO non è possibile, poiché AQUINO scagiona Aristotele
da quest'accusa d'opporsi alla verità della fede su quest'argomento. Dove dunque
trattarsi d'averroisti. Ora vir magnus in philosophia è titolo che troviamo dato
a Sigieri. Pare dunque che Sigieri accetta l' interpretazione averroistica della
dottrina aristotelica in proposito. Il che
è confermato anche dall'ultima citazione che del brabantino abbiamo trovato nel
De primi Moforis infinitate del Nifo. A quanto ci fa sapere il suessano, Sigieri
e Baconthorpe petunt primum Motorem esse universi mobilis celestis formam perficientem
et non constitutam e che esso è prima illius perfectio, sì da potere affermare che,
almeno per accidens, si muove insieme al
cielo. Siccome la quistione concerne direttamente l'onnipotenza di Dio e la sua
trascendenza, s'era accesa in proposito un'appassionata e interminabile controversia,
poiché troppo preme ai teologi aver dalla loro parte Aristotele. Soltanto quando
si comprende che la filosofìa aristotelica non è tutta la filosofia, l'ardore della
controversia comincia a venir meno Denifle e Chatelain, Chart. univ. Paris.
Quaestiones super Averrois sermonem de substantia orbis Sigieri Jandun, oltre che
nelle Quaestiones sul De substantia orbis, discute il problema utrum primum Principium
sit infiniti vigoris Achillini, da quel buon averroista ch'egli è, ci dà del
problema questa soluzione: Primum, mens Philosophi fuit deum esse finiti vigoris.
Secundum, ad oppositum est veritas.
Provata la prima parte della tesi, riferisce le obiezioni centra Philosophum, alle
quali fa seguire la risposta d'Aristotele. Ma nel far questo, che è un procedimento
generale seguito in tutti e cinque i Quolibeta, Achillini si mette al riparo da
ogni accusa d'eresia con questa tipica dichiarazione, fatta una volta per sempre:
Ad haec praemitto quod ubi Philosophum introducam respondentem, non teneo responsionem illam.
Dopo ben cinque fitte colonne di serrate schermaglie dialettiche e di citazioni
di testi, sì da darci l'impressione che egli la pensi proprio come Aristotele e
il suo ottimo commentore, eccolo a dichiararci: Sed quia haec opiiiio in phiribus
errat, ut patet consideranti ea in quibus introducitur Philosophus respondens, ideo,
ea dimissa, pone secundum dictum principale:
Deus est infiniti vigoris in essendo et operando in tempore et actione. Ex quo sequitur
infinitam esse intellectuum latitudinem. E le prove di questa tesi? Nessuna, tranne
quel patet, che non è affatto una prova. Seguono invece obiezioni anche nelle Quaestiones
sulla Metafisica e in quelle sulla Fisica: e tutte e tre le volte con molta ampiezza.
Lo stesso problema è ventilato da Scoto, Qiiodl., da Baconthorpe. In I Seni., dist.,
da Rimini, In I Seni., dist.e più tardi, ma anche con maggior
copia, da Nifo, d’Achillini, da Vio, che nella sua subtilissima quaestio de Dei
gloriosi infinitate intensiva, terminata a Pavia, credo abbia raggiunto il primato
della prolissità è stampata in appendice al commento d’AQUINO della Fisica, Venezia,
si da superare lo stesso Elia del Medigo, detto altresì Helias Cretensis,
il quale tratta di quest'argomento nella sua interminabile De primo Motore acutissima
quaestio in appendice alle Quaestiones di Jandun sulla Fisica, Venezia e nelle Annotationes
in dictis Averrois super libros Physicorum Vedasi
anche Zimara, Theoremata, e Piccolomini,
De caelor. motoribus. Bruno, nel De l'infinito, universo e
mondi in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze, accenna all'importantissimo
argomento, pel quale dice Elpino è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza
infinita intensivamente. La soluzione che del problema affaccia Filoteo, il quale
dall'infinità di Dio deduce r infinità dell'universo, consiste nel cambiarne i termini,
si da mostrarlo definitivamente superato. AcHiLLiNi, De intell., ql. contro quest'asserto, alle quali
il filosofo bolognese fa del suo meglio per rispondere in una mezza colonna, osservando,
alla fine, che rationes philosophorum super dictis ab eis fundantur; ideo non difficile
est eas solvere. Ma intanto non le risolve. A questa che è la quaestio
principale del Quolibetum. tengon dietro duhia, coi quali si tende a precisar meglio
il concetto aristotelico-averroistico del
DIVINO e a porre in evidenza taluni postulati della soluzione data al problema principale.
Il primo di questi dubbi consiste nel chiedersi utrum tantum DIVINVM DIVINVM intelhgat,
cioè se il divino conosce soltanto sé stesso oppure anche le cose inferiori ad esso
e segnatamente quelle del mondo sublunare. Anche su questo punto Achillini è
averroista: Respondeo per duo dieta. Opinio Aristotelis est, quod sic. Illa
opinio non est vera. La prima affermazione è provata con argomenti, la conclusione
dei quali è la seguente: Ex his de mente Philosophi habentur. DIVINVM intelligit
se et non aliud. Et si dixeris: verum est recipiendo, sed aliter non; dicam quod
non potest aliquid intelligere aliud a se, nisi recipiendo; ideo non potens recipere, non potest intelligere aliud. Productio
autem vilium non infert passionem in agente; ideo quamvis DIVINVM non intelligat
vilia, producere tamen potest. Aliae intelligentiae in actu intelligunt se et
perfectius se et nihil vilius eis. Intellectus possibilis Così appunto diceno i
teologi: il divino non intende le altre cose diverse da sé, nel senso che la mente
divina è attuata d’un qualche altro intelligibile
diverso dalla sua stessa essenza, e dinanzi al quale esso è in potenza; il
divino conosce le altre cose conoscendo se stesso, e quindi senza niente ricevere.
La condanna che Tempier fa di le proposizioni averroistiche, e che è il primo sicuro
documento dell'esistenza d'una corrente averroistica a Parigi, colpisce queste proposizioni:
Quod divinum non cognoscit singularia e Quod
divinum non cognoscit alia a se. DeNiFLE e Chatelain. Tuttavia, leggendo attentamente
il commento d'Averroè, Metaph., comm., e la Desfriictio destructionum, disp. dub.,
nasce il sospetto che il suo pensiero non è stato ben compreso. Si veda in proposito,
Baconthorpe, In Sent., dist.; Zimara, Theoremata. intelligit se viliora et nobiliora. Nullus intellectus, nisi forte possibilis, intelligit aliquid extra se. DIVINVM est simpliciter primo notum; sed primum principium
complexum, de quo Metaphysicae, commento, est notissimum nobis. Ai argomenti coi
quali è provata la tesi averroistica, se ne contrappongono altri; ma, mentre i primi
restanoinsoluti, ai secondi è data una soluzione dal punto di vista
averroistico. Dopo di che Achillini s'affretta a concludere: Sed propter multa falsa, quae sequuntur
ad hanc positionem, eam cum auctoritatibus eius dimittamus. Tenemus igitur quod
DIVINVM cognoscit omnia; ex quo sequitur quod non omnis intellectus intelligens
aliud a se patitur ab eo. Sequitur secundo, quod non omnis intellectio, qua materialia
intelliguntur, est collecta ab intellectu agente ex singularibus. Ex his duobus fundamentis solvuntur rationes philosophorum,
quia super oppositis corollariorum fundantur, Il diibium concerne la causalità efficiente
del primo Motore. Aristotele dice che la prima intelligenza muove le intelligenze
preposte al movimento dei singoli cieli, come bene supremo da esse conosciuto e
desiderato, ossia come fine ultimo cui tutte le cose tendono. Il problema che
pone il maestro bolognese, utrum prima forma,
quae est ultimus finis, sit primus Motor, verte non sull'attrattiva che il
divino esercita sugl’esseri in quanto amor che muove il sole e le altre stelle,
bensì sul movimento rotatorio della prima sfera mobile. Secondo un'interpretazione
del pensiero d'Aristotele e del suo commentatore arabo, il divino muove i cieli
soltanto per mezzo d'un motore appropriato, cioè d'un'intelligenza, la quale
è mossa dal desiderio d’assomigliare al primo Motore. Secondo un'altra interpretazione,
invece, il divino muove il primo cielo mobile immediatamente; e poiché il primo
mobile rapisce col suo impeto tutti gl’altri cieli, ne ACHILLINI Metaph.. Jandun, Quaestiones sup. Metaph. Quaest. sup. Phys. ZiMARA, Quaestio de triplici cansalitate intelligentiae in appendice alle Quaestiones di Jandun sulla Metafisica, Venezia; Theoremata
viene che il primo Motore esercita su tutto l'universo una vera e propria azione
di causa efficiente e non soltanto di causa finale. Sigieri, a quanto sappiamo dall'ultima
citazione di Nifo, ritene che il primo Motore è addirittura forma e perfezione
del cielo, a tal segno che si muove per accidens insieme ad esso; nel che egli non fa se non ripetere una dottrina
d'Averroè, il quale in più luoghi insiste sul concetto che il primo Principio è
tale in quanto è fine, forma e motore dell'universo. Achillini risolve il dubbio,
dimostrando con argomenti che il divino imprime al mondo un movimento effettivo
come primo Motore di esso; né questa volta ha bisogno di distinguere tra l'opinione di Aristotele e la verità, poiché Philosophus
in hoc quaesito non recedit a veritate, quanto all'asserto della causalità efficiente;
ma osserva che si discosta dal vero in un particolare: sed bene in circumstantia:
quia dictum est de mente eius, quod Deus est motor immediate et appropriate movens
caelum, et quod nulla alia intelligentia ab ipso movet primum caelum; sed hoc non
est verum etc. Ed infatti la tesi che il
moto del primo cielo deriva immediatamente dal divino si basa sul concetto ch’il
divino è forma del primo cielo. Ora questo concetto è schiettamente averroistico,
ed è uno dei presupposti della teoria che dalla finita grandezza del moto celeste
deduce il vigore finito del primo Motore. Questo necessario reciproco rapporto tra
il divino e il mondo si scorge anche meglio
nella discussione del dubbio, utrum DIVINVM libere moveat caelum. Nell’interpretazione averroistica del
pensiero d'Aristotele, se il divino è necessario a spiegare l'esistenza del moto,
e, diciamo pure, l'esistenza del mondo stesso, è altrettanto vero che, posta l'esistenza
del primo Motore e della prima causa efficiente, questa e quello agiscon come natura
anzi che come libera volontà creatrice. Sigieri
non sembra aver concepito la possibilità d'una vera libertà creatrice, che a lui
pare esclusa tanto dall'immutabilità divina quanto dalla necessità delle speci.
Posto il divino come AvERR., Metaph., comm., comm.; De subst. Orbis AcHiLLiNi Steenberghen,
Les oetivres et la doctrine de Siger de Brabant, Bruxelles; Sig. de Brab. d'après
ses oeuvres inédites, igo.] prima causa motrice del mondo, questo ne risulta necessariamente,
come la conseguenza dalle premesse d'un sillogismo. Aristotele ben ferma la sua
attenzione sugl’eventi che si dicon contingenti e fortuiti; ma anzi che dedurre
la contingenza di tutti gl’esseri creati dall'essenziale libertà del pensiero divino,
impone allo stesso pensiero divino e all'atto creatore – GRICE GENITOR ENGINEER
-- la necessità del suo astratto formalismo logico, e la contingenza e il caso limita
al mondo sublunare, spiegando l'una e l'altro per mezzo del concetto delle cause
impedibili e dell'indisposizione della materia che spesso è sorda a rispondere all'intenzione
dell'arte. Pur trascendente o separato, il primo Motore resta così prima forma
e prima perfezione dell'universo, al quale
è intimamente unito non come forma constituta per subiectum, bensì come
forma constituens subiectum. Per dimostrare la tesi, che secondo Aristotele il
divino muove il cielo per sua natura e non liberamente, sì da poter non muoverlo
o mutarne la velocità e la direzione, l'averroista bolognase argomenta così: tutto
ciò che si muove per un principio essenziale che è in esso, si muove per sua natura; ma questo è il caso del cielo;
dunque esso è mosso naturalmente. Se il primo Motore potesse non muovere oppure
muovere in modo diverso da quel che fa, il mondo potrebbe esser diverso da
quello che è, e anche non essere. Ma tutte queste conseguenze sono impossibili per
Aristotele, che dall'immutabilità del primo Motore deduce la necessità e l'eternità
dell'universo, come d'un effetto connaturale e inseparabile dalla sua causa.
Puro atto senza alcuna potenza, il divino causa dall'eternità Louvain. Tale è il
pensiero di Siglari in tutti gli scritti intestati a lui dai codici. Per attribuirgli con qualche fondamento la tesi
opposta, bisogna supporre che siano sue le Quaestiones sulla Fisica edite da Delhaye
Giorn. Crii.. Ma per farlo manca ogni serio indizio esterno, e le prove interne sono troppo deboli.
Si veda il passo di Nifo riportato in Sigieri. Su questa distinzione ricavata da
diversi luoghi d’Averroè, dello stesso Nifo il commento al De anima, già riferito
in Sigieri, AcHiLLiNi, Quol. dub. Omne quod movetur per principium quod est in eo,
movetur per naturam, Physicorum Intelligo in subiecto maioris: per se primo, et
non secundum accidens; et tunc patet propositum ex diffinitione naturae, secundo
Physicorum. Sed caelum movetur per principium etc, ut vult Commentator Aristotelem
declarasse in Physicorum, etc. mondo con ordine e moto necessario. Dal che sequitur
nullam esse in rebus libertatis contingentiam, ad quas non concurrit homo; poiché
la ragione della contingenza dell'umano arbitrio consiste nel modo di conoscere, essenzialmente discorsivo,
che è proprio dell'uomo; di guisa che la mente umana, procedendo per composizione
e divisione di concetti, potest aftìrmativam vel negativam partem concludere, et
consequenter ad utramque partem possibilis est assensus. Or questo non accade né
nelle altre intelligenze superiori all'umana, né, tanto meno, nella prima intelligenza.
Necessario a render ragione della realtà dell'universo, dei movimenti celesti e
di ogni accadere, il primo Motore d'Aristotele non ha altra realtà, per l'averroista,
all'infuori di questa, né altra ragione d’essere che questa: senza il mondo da esso
causato e mosso, il primo Motore non sarebbe nulla. Perciò il divino e mondo formano
un binomio indissolubile, come amore e cuor gentile nella
canzone guinizelliana, come il sole e il suo risplendere: ch'adesso che fo
il sole sì tosto lo splendore fo lucente, né fo avanti il sole. Contro questa dottrina
del Filosofo, qual'è intesa ed esposta
dal Commentatore arabo, Achillini riferisce
argomenti, avendo però cura di farci sapere che cosa gli averroisti rispondeno.
Dopo di che conclude, secondo il suo costume: His praetermissis, ad veritatem revertamur, et dicamus DIVINVM ad extra
mere libere et contingenter agere. Concedanius insuper quod in divino esse et agere
sunt idem, et tamen non, si necesse est divinum esse, necesse est divinum agere
ad extra. Dicamus tertio quod, licet necessitas
sit melior conditio essendi, non tamen est melior conditio operandi ad extra. Ncque
immutabilitas divina toUit
novitatem in effectu, quia ab aeterno
determinavit divinum agere nunc. Ideo contra philosophos dicamus, quod ab antiqua
vohmtate potest aliquid novi poni in esse, sine mutatione operantis, aut remotione
impedimenti etc. Addo insuper, licet necesse sit divinum esse productivum ad extra,
non tamen necesse est ipsum producere ad extra. Concedo etiam nullam rem quae est
divinum esse contingentem; dimitto naturam
assumptam, et tamen de Dee formabiles
sunt propositiones per
accidens et contingentes, propter connotationem
extrinseci. Neque
propter hoc quod
Deus multa producibilia potest
producere, quorum nullum
producet, concedendum est potentiam
divinam frustrari, quia
reduci potest et in aliquo illius generis reducta est in actum. Con queste
proteste d’attaccamento all'insegnamento teologico, ha termine il qiiolibetum che
tratta dell'intelletto del primo Motore, la cui latitudo è dunque finita com'è
finita la grandezza del mondo e del movimento. L'opposizione fra la tesi averroistica
e quella teologica non è che un aspetto particolare fra la concezione aristotelica del mondo e l'intuizione
cristiana. Per Aristotele, come l'espone Averroè, Dio è principio teleologico e
causa prima efficiente della natura; la natura alla sua volta è effetto necessario
ed eterno dell'attualità divina. Dio è principio
in quanto dà origine a un principiato; esso è l'atto che precede logicamente ogni
potenza. L'ordine cosmico riflette la necessità e l'immutabilità della sua prima causa. Dio insomma è complemento
necessario della natura ed è esso stesso natura: è la stessa natura intellettualizzata,
cioè considerata platonicamente sub specie aeternitatis. Neil'intuizione cristiana
del mondo, invece. Dio è spirito, cioè libera volontà creatrice, infinita potenza,
infinita sapienza, infinito amore. Il mondo e' è, ma potrebbe non esserci, o esser
diverso; e c'è, per un atto di liberalità
divina. La necessità delle leggi di natura non è assoluta, ma relativa al decreto
della volontà divina che liberamente le ha stabilite e può mutarne il corso. Così
la contingenza è alla radice stessa dell'ordine cosmico; il miracolo è affermazione
e prova della contingenza della natura e delle leggi fisiche. Con siffatta dottrina
il cristianesimo libera l'uomo dalla
tirannia del fato cui dovea piegarsi la volontà dello stesso Giove. Al posto
degli inesorabili decreti dell' Ananche si sostituiva la libera e onnipotente
volontà di Dio, che ha dato all'uomo il potere di cooperare ai suoi eterni disegni.
Libero e artefice del proprio destino, l'uomo si sente così simile a Dio. Dopo quello
che Agostino e lo Pseudo Dionigi e Pier Damiani e il Cardinal Cusano avevano speculato intorno alla natura divina,
mentre nel rinnovato platonismo del Rinascimento covano i germi che sarebbero esplosi
nei I dialoghi De la causa e Dell’infinito, la dottrina averroistica su Dio, anzi
che un progresso, dove sembrare la ricaduta in una delle più anguste forme di naturalismo
già da molto tempo sorpassate. Ad un superamento definitivo occorre, per altro,
eliminare quella ristretta visione cosmologica alla quale il concetto di Dio era
legato, e che è merito delle nuove scoperte astronomiche aver per sempre dissipato.
Il qiiolihetum tratta delle intelligenze separate, intermedie fra 1'Intelligenza
divina e l'intelletto possibile, proprio della specie umana. Queste intelhgenze
son sostanze separate preposte ciascuna al moto d'uno dei cieli inferiori alla prima
sfera, che è mossa immediatamente dal primo Motore. Achillini comincia coll'affermare
che, secondo la dottrina d'Aristotele, siffatte intelligenze non sono state prodotte,
e per conseguenza sono eterne; ma che, secondo la verità della fede, è tutto il
contrario. La prima parte della tesi è dimostrata con argomenti; con altrettanti la seconda; colla differenza, che
gli argomenti in favore della prima parte
non hanno risposta, mentre degli argomenti in contrario abbiamo la soluzione. Per quel che concerne la dottrina d'Aristotele,
il lettore poco esercitato potrebbe rilevare una divergenza tra l'averroista
bolognese e Sigieri su questo punto: che, mentre quello dice le intelligenze celesti
non prodotte, questo al contrario le dice tutte causate immediatamente o mediatamente da Dio che dà l'essere a tutte le
cose. In realtà, la divergenza è soltanto nel modo d'esprimersi e non nel pensiero.
Perché le intelligenze celesti non si posson dire prodotte? Perché non sono state
tratte dalla potenza all'atto, quasi che ci fosse una loro potenza ad essere, la
quale precede, anche soltanto logicamente, il loro atto di essere. Esse sono natural
Sigieri di Brab., Impossibilia, I ed. Mandonnet, Sig. de Brab. et l'averr. latin Partie, Louvain; De necess. et conting. caus. Mandonnet; Aletaph. ediz. a cura di Cornelio A. Graiff,
Sig. de Brab. Questions sur la Metaphysiqiie. Texte inédit. Louvain, Édit. de 1'Institut
Super, de Philosophie SteenBERGHEN, S. d.
B. d'après ses oeuvres inédites.] mente e necessariamente, per il fatto stesso che
esiste la prima Causa che le fa essere, a quel modo che l'esserci il sole fa sì
che ci sia lo splendore. Esse son certamente causate dalla prima Intelligenza, ma
non prodotte alla maniera delle cose che possono essere e non essere. L'atto non
s'aggiunge in esse alla potenza, né l'essere sopravviene all'essenza: sono puri
atti per loro natura, ed atti eterni, come eterno e necessario è l'Atto primo che
le causa. Strettamente connesso con questo problema è il duhium utrum ponenda sit
creatio. Anche a questo quesito il maestro bolognese risponde, essere opinione d'Aristotele
che non si dà creazione; ma soggiunge che la tesi dello stagirita non è vera. Secondo
la dottrina aristotelica, la causa agente ha sempre bisogno d'una materia su cui
esercitare la sua azione, e dalla cui potenza trae quello che essa produce. Ora la creazione implica
una produzione dal nulla, senza passaggio dalla potenza all'atto. Allo stesso modo
Sigieri, parlando dell'anima intellettiva
e il discorso vale per tutte le intelligenze e altresì per i corpi celesti,
afferma che, sebbene essa possa dirsi fatta, nel senso che è causata e dipende,
alpari delle intelligenze celesti, dal primo principio d'ogni essere, tuttavia non
può dirsi che è stata fatta dal niente, ma anzi che essa de se est semper ens, ab
alio tamen, poiché in eius ratione seu defìnitione est semper esse, cum careat materia.
Se non che, pur essendo de se, seu de sui ratione, semper ens, non ha questo suo
essere ex se effective, sed ab alio. Per questa ragione, essa è certamente causata
ed essenzialmente dipendente da Dio, sed non est verum eam esse factam ex nihilo.
AcHiLLiNi, Quol.: Orane agens extrahit id quod est in potentia ad actum: sed in
intelligentiis non est potentia extrahibilis ad actum (intelligo de potentia distante
ab actu, et de actu informativo eorum aut potentiali, ex quo et alio fiat una intelligentia:
ergo in eis non est agens. Ratio tota est Commentatoris, Metaph., comm. Ex
hoc sequitur quod
intelligentiae non componuntur
ex esse et essentia,
tamquam ex doubus
principiis intrinsece componentibus
intelligentiam. AcHiLLiNi, Quol, dub. Sigieri, De anima iniellect., ed. Mandonnet. AcHiLLiNi Potentiale non potest esse
sine actu. Est autem deus actus vitalis intelligentiarum et finis, et caeli est
forma et finis, corruptibilibus autem dat esse et conservat movendo. Primo enim Metheororum: Est autem ex necessitate continuus
iste superioribus I Ancor più evidente è l'influenza della dottrina
di Sigieri sulla soluzione del secondo dubbio che l'Achillini si pone: Utrum
intelligentiae inferiores intelHgant superiorem. L'averroista italiano formula in
proposito tre tesi, il significato delle quali ci è chiarito da un luogo dei CoUectanea
del Nilo sul De anima 'i'^, riferito da me altra volta. Colla prima tesi egli si
oppone alla teoria di coloro che, al dire del Nifo, il quale sicuramente
riassume da Sigieri citato un po'più oltre, sostenevano che Deus multiplicat lumen
quod est quoddam accidens spirituale existens in mentibus intelligentiarum, per
quod elevantur intellectus illi ad intelligere primum; la qual teoria Nifo nel commento
al De anime beatitudine attribuisce ad AQUINO e la combatte appoggiandosi a Sigieri. La prima tesi d’Achillini, dunque,
suona come segue: Primum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per
aUquod accidens, ut species, actus, vel habitus etc. Probatur primo, quia in intelligentiis
non est aliquod accidens. Patet quolibeto Secando, omne compositum est novum; sed
in inteUigentiis non est novitas; ergo neque compositio. Maior est
Commentatoris, Metapliysicae, comm., sive
sit compositura substantiale, sive accidentale, sive in intelHgentiis, sive non;
ea enim probat ibi Commentator, quod intellectio non est accidens in deo; coehim
autem, quia subiectum est accidenti, novitatem habet, sciUcet motum, Pliysicoriim,
comm. si sic, cum secunda intelHgentia intelHgat se per essentiam, De anima,
comm., perfectior esset intellectio
secundae de se, quam intellectio secundae de prima, et sic secunda intelligentia
esset felix cognoscendo se, et non primam; vel intelligentia duas intellectiones
habens felicitaretur intellectione imperfectiori. lationibus, ut omnis eius virtus
gubernetur inde. Ideo, primo remoto, omnia destruuntur; ideo Metaphysicae, textu
et commento; Ex tali igitur principio caelum et natura dependet. Et primo Caeli, commento: A primo quidem ente
datum est esse et vivere; bis quidem clarius, bis vero obscurius. Et in De substantia orbis: Ex quo
verificatur, quod dator continuationis motus est dator esse omnibus aliis entibus.
Così anche nelle Qiiestiones sulla
Metaphysica, ed. CTraiff. Invece l'autore delle Quaestiones super Physicorum, edite
da Delhaye come opera di Sigieri. sostiene senza alcuna esitazione la tesi quod
necessarium est aliquid fieri ex nihilo, sebbene ritenga che alcuni esseri non sian
prodotti da Dio immediatamente. È un altro punto sul quale il dissenso dagli scritti
di sicura appartenenza a Sigieri è troppo evidente. Per attribuire queste Quaestiones
al maestro brabantino occorrerebbe una qualche testimonianza sicura che non s'ha,
fino ad oggi, Sigieri nel pens., Sigieri si sic, tunc scientia earuin non
esset scitum; consequens est centra determinata quolibeto De anima, comm. Intellectus in formis abstractis
est idem cum intellecto; et incidentaliter Physicorum, comm.: In abstractis intellectus et intellectum
idem sunt. quia tunc intellectio, qua secunda intelligentia intelligeret primam,
et intellectio qua secunda intelligentia
intelligeret se, essent alterius generis, quia una esset substantia et alia
accidens. Risulta da questa affermazione che l'atto
col quale le intelligenze inferiori conoscono la prima Intelligenza, cioè Dio, è
un atto sostanziale al pari di quello col quale conoscon se stesse. Anche in questo
Achillini è d'accordo con Sigieri, per il quale l'intendere è perfezione essenziale
dell'intelletto possibile, sì che ponere
substantiam esse in actu in genere intellectualis naturae et non intelligentem in
actu, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia. La tesi d’Achillini
consiste nel negare che le intelligenze inferiori conoscano la prima Intelligenza
come loro causa, in quanto avvertono che la loro natura ha essere da quella. Così
appunto pensano taluni filosofi, come riferisce il Nifo: Dixerunt quod intelligentia interior intelligit
superiorem per essentiam inferioris; essentia enim inferioris est causata ab intellectu
superiori, et omne causatum ducit in cognitionem cause; ergo intellectus interior
per essentiam sui intelligit superiorem. Oportet enim imaginari essentiam inferiorem
esse obiectum adequatum sui intellectus; et sic tanquam obiectum adequatum
intelligitur solum a semet. Et quoniam illa essentia est effectus Achillini, Quol. Sigieri, Quaestiones naturales
ed. Stegmùller, Nenaitfgcf. Quaestionen des Sig. v. Br., in Rech. de Théol. ancienne
et médiév.; De anima intell. ed. Mandonnet
Giorn. Crii. d. FU. Ital.. Un'attività accidentale dell' intelletto è invece l'intendere
pel'anonimo autore delle Questiones Arist. de anima ed. Steenberghen, Sig. d. Br.
d'après ses oeurres inédites; ma quanto più il chiaro editore s'affanna a dimostrare
che l'autore di esse è Sigieri, tanto più evidente appare che non lo è. Si noti
poi che nelle Quaestiones naturales edite da Stegmùller, il maestro brabantino insegna
che l'intelletto possibile ha il suo atto primo ed essenziale pell'unione all'intelletto
agente, e che questo e quello son due sostanze
separate; la qual dottrina ha non poca importanza. Achillini superioris, etiam continet
saltem instrumentaliter essentiam superioris; et sic intellectus ille per essentiam
illius secundario intelligit superiorem. Nifo stesso riferisce quattro dei molti
argomenti che Sigieri oppone a siffatta teoria. Gli stessi argomenti quasi alla
lettera oppone alla stessa teoria anche Achillini: Secundum dictum: intelligentia
inferior non intelligit superiorem per essentiam inferioris. Probatur primo, quia
tunc scientia non esset scitum. Patet consequentia, quia tunc secunda esset
scientia ipsi secundae de prima etc. nulla res distincta a perfectiori est sufficienter
repraesentativa perfectioris; sed secunda non est ita perfecta sicut prima; ergo
etc. Tertio, si sic, tunc non dependeret
intelligentia inferior in suo intelligere a prima; et sic secunda esset actus
purus, quia non esset potentialis respectu alicuius perfectivi eius formaliter.
quia tunc intelligentia inferior beatiiìcaretur in se ipsa tanquam in obiecto repraesentativo
omnium intelligibilium ab ea, aut felicitaretur in obiecto secundarie cognito. quia
tunc aliqua cognitio dei dependeret; quia omnis intelligentia inferior dependet; et omnis intelligentia inferior
esset cognitio dei per te quia tunc nulla esset compositio in intelligentiis, nisi
forte ex perfectione et defectu eius; de qua non loquor nunc. quia non salvaretur
efììcientia dei super motu proveniente ab inferioribus intelligentiis. Anche per
quel che concerne la tesi, Achillini ripete alla lettera quello che, secondo Nifo,
si legge in quodam tractatu intelligentiarum et beatitudinis di Sigieri: intelligentia
inferior intelligit superiorem per essentiam superioris. Probatur primo a sufficienti
divisione. quia in abstractis intellectus et intellectum sunt idem. quia intelligentiae
abstractae perficiuntur per se invicem; ergo una est alterius forma, et non nisi
quia una est alterius scientia vel amor. Antecedens patet, Metaph., commento: Perfectio uniuscuiusque moventium unumquemque
orbium perficitur per primum motorem omnium; sed non effective, ncque materialiter,
sed finali perfectione coincidente cum forma necesse est in omni intelligentia intelligente
aliud esse aliquid simile formae et aliquid simile materica; et si non, non esset
multitudo in formis abstractis, De anima, commento; quia, posita
multitudine, una est potentialis alteri.
Est autem secunda simile materiae, ideo recipiens, et prima si Nifo, De anima, Venezia,
coUect. AcHiLLiNi Nifo Sigieri. mile formae, ideo recepta. in intelligentiis est
compositio, et non est alia quani ex intelligente et intellecto, desiderante et
desiderato; ergo etc. Maior patet, Metaph., commento Quod est minoris compositionis
est nobilius in ilio genere, donec deveniatur
ad simplex. Patet minor, Metaph., commento: Tantum illic est causa et causatum,
secundum quod intellectum est causa intelligentis. Sed intellectum non est causa efEectiva intelligentis, ncque materialis,
ncque finalis tantum, sed formalis et finalis simul, vel formalis tantum. Ideo subdit
Commentator, non inconvenire unum esse causam plurium, secundum quod a pluribus intelligitur, perfectius tamen a perfectioribus,
et imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc patet Commentatore, De anima, commento:
Essentia primae formae est quidditas eius; aliae autem formae diversantur in
quidditate et essentia, quoquo modo. Loquitur Commentator de essentia, ut fecerat
De anima, comm.: Pomum est indivisibile subiecto, et divisibile secundum essentiam diversam in eo, secundum quod habet colorem, odorem
et saporem, licet in multis sit differentia etc. Ex hoc patet intelligentiarum compositio,
quae cum aliis est, et earum simplicitas, quia non compositio ex aliis; ideo, De
anima, comin.: Res abstractae sunt simplices, et non compositae. Ex his habetur quod, cum superiores intelligentiae sint
in inferioribus, adhuc potest intelligentia interior intelligere superiorem, non
intelligendo tamen aliquid extra se. Patet etiam quod, cum intelligentia superior
sit intellectio inferiori, quod potest superior principiare motum productum ab inferiori,
eo modo quo intellectio est principium operationis ab intelligentia productae. Achillini
si domanda se una tale teoria non contradica alla verità teologica; e risponde di no, anzi dichiara di trovarla in tutto conforme a quello che la
fede insegna in proposito E veramente anche AQUINO è del parere che, nell'atto della
visione beatifica,l'essenza divina non è soltanto oggetto conosciuto, id quod
intelligitur, ma altresì forma intelligibile per mezzo della quale la stessa essenza
divina è conosciuta, forma qua intelligitur. Questa forma attua bensì l'intelletto
umano reso capace per grazia, ma l'attua
solo idealmente, in intelligendo, non
sostanzialmente, poiché l'intelletto umano ha già un suo atto sostanziale
anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina. Non così per Achillini e per
Sigieri AcHiLLiNi NiFO Sigieri ACHILLINI AQUINO, S. theol., Suppl. Questi non fanno
alcuna distinzione fra l'ordine naturale e lo stato soprannaturale concesso per
grazia, fra la conoscenza che compete alle
intelligenze separate per loro natura e la visione beatifica di cui parlano i teologi.
Inoltre, l'intendere delle intelligenze create, tanto nell'ordine naturale
quanto nell'ordine soprannaturale, è, per Aquino, una operazione accidentale che
s'aggiunge alla loro natura sostanziale già costituita in atto, e il loro stesso intelletto è una potenza
altra dalla loro essenza. Per Achillini e
per Sigieri, invece, l'essenza stessa di qualsiasi intelletto, sì di quello umano
come di quelli celesti consiste in un atto sostanziale d'intendere, dovuto alla
loro vmione coli'intelletto agente che, per essi, è Dio. Fra l'intelletto umano
e le intelligenze celesti v'è solo questa differenza, che r intelletto agente s'unisce
al primo per gradi, e completamente solo al termine del suo sviluppo; alle seconde invece è eternamente
unito come forma che attua tutta insieme la loro capacità. GÌ'intelletti inferiori
a Dio hanno essere soltanto in quanto intendono la prima Intelligenza, che sola
è da sé e per sé. Dio così è il sole del mondo intelhgibile; le altre intelligenze
ne sono lo splendore. In questo eterno raggiare dalla prima Luce intelligibile e
in questo eterno rifletterla per diversi
gradi, consiste l'essere delle menti inferiori alla prima Mente. Per questo nell'intelletto
non v'è MEMORIA GRICE PERSONAL IDENTITY, che è ritorno del passato. Siffatto ritorno
del passato non è concepibile là dove è solo un eterno presente senza mutamento.
I teologi medievali, compreso AQUINO, potevano attribuire agl’ANGELI la memoria,
in quanto attribuivano ad essi un conoscere
puramente naturale e accidentale distinto dal conoscere in Verbo; non gl’averroisti,
pei quali le intelligenze conoscono solo in quanto sono informate dall'essenza divina.
Ed è sicuramente sotto r influenza di questa dottrina averroistica ch’ALIGHIERI
rimprovera ai teologi d’avere attribuito la memoria agl’angel; che è un'altra delle
tante tracce dell'influsso
dell'avveroismo sul pensiero del nostro poeta. AQUINO, S. rheol. Si veda in proposito, N., Nel mondo
di ALIGHIERI, Roma. Il Quolihetum concernente le intelligenze celesti si chiude
con un duhiuni, nel quale l'averroista bolognese
si chiede se le intelligenze intermedie distino dalla prima Intelligenza con certo
ordine, ossia seguendo una qualche proporzione: utrum ordine quodam recedant intelligentiae mediae a
prima. Il problema è risolto da lui coll'affermazione che così è per Aristotele,
non però secondo verità. Anche questo è un problema tipicamente averroistico, e
trae origine da quel passo del commento d'Averroè alla Metafisica, che dice:
Quoniam vero ordinatio istorum moventiiuTi
a primo motore oportet ut sii secundum ordinem stellarum et orbium in loco, manifestum est etiam;
prioritas enim in loco eorum et in magnitudine facit eos priores in nobilitate. Qual fosse il pensiero di Sigieri
su questo argomento non sappiamo. Ma conosciamo quello d'un averroista a lui abbastanza
vicino e che, come il brabantino, insegna a Parigi nella scuola dell’arti; voglio dire Jandun. Questi discute il problema
utrum motores corporum celestium sint
ordinati secundum ordinem corporum celestium in magnitudine et in loco nelle Qiiaestiones
sulla Metafisica, e lo risolve in senso affermativo. La soluzione che del problema ci dà il bolognese, è sostanzialmente
identica a quella dell'averroista di Jandun: posto che v'è tra le intelligenze celesti
un ordine gerarchico fondato sul differente grado di perfezione, egli stabilisce una corrispondenza fra questo
e l'ordine dei cieli, in quanto essi si differenziano per grandezza e velocità:
Primus est ordo secundum gradum perfectionis essentialis earum intelligentiarum
sic quod, quanto una intelligentia est perfectior alia, tanto est primo propinquior,
non tainen secundum proportionem geometricam; patet quolibeto. Hic autem ordo,
qui rationes formales intelligentiarum consequitur,
causa est aliorum ordinum qui sequuntur. Secundus est ordo caelorum secundum magnitudinem
eorum, secundum quam caelum maius continet caelum minus. Perfectiore igitur intelligentia
caelum maius regitur et gubernatur. Oportet enim informabile corre AcHiLLiNi, Quol.
AvERR., Metaph., comm. Ianduno, Quaestìofies
in Metaph. I spendere formae sic, quod altieri caelo altior intelligentia api)ropriatur.
Tertius est ordo velocitatis in motu. Caelum enim maius velociori motu movetur,
distinguendo inter movere et circuire. Huius sententiae fundamentum ponit Commentator,
secando Caeli, commento: super semper eorum intelligentiarum intellectus est fortior
et desiderium est fortius; ideo ab eis motus est velocior. Se il cielo è il soggetto informabile e l'intelligenza è la sua
forma, e se le intelligenze non hanno altra funzione che quella di motori dei diversi
cieli, ne segue che dal numero dei cieli e dei moti celesti si debba dedurre, come
insegnato Aristotele, il numero delle intelligenze. Ora cieli in senso vero e proprio
possono dirsi soltanto quelli in cui brillano una o più stelle. Perciò otto e soltanto
otto sono le intelligenze motrici. La più
alta di esse è Dio, che muove immediatamente il cielo delle stelle fisse, quod secum
rapit alia corpora caelestian. Le altre sette muovono ciascuna uno dei cieli planetari,
nell'ordine stabilito dagl’astronomi. Achillini, come respinge con Averroè la teoria
degl’eccentrici ed epicicH, così sembra rifiutare
il nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità di Tolomeo: Or bis stellatus est finis corporum quae
sunt intra, quoniam extra ipsum nihil est; esso è il primo e più perfetto di tutti
gl’altri cieli; ideo caelum stellatum deo informatur. Se non che i moti planetari
non sono, per Aristotele, m^oti semplici; sibbene la risultante di più movimenti
che richiedono più sfere. Così Aristotele,
a render ragione del moto di ogni pianeta, aveva dovuto, sull'esempio d’Eudosso, scindere ogni cielo planetario
in un gruppo di più sfere, ciascuna delle quali aveva un diverso movimento. Dalla
composizione dei loro moti risulta il moto apparente del pianeta. Una sola
intelligenza, secondo l'avviso d’Achillini, presiede al moto Achillini, Quol. Il
passo d'Averroè nel luogo citato suona cosi: Quod igitur magis propinquum fuerit
primo orbi, habebit maius desiderium, quoniam
propinquitas in loco illic est similis propinquitati essentiarum ad invicem, quae
est propinquitas in scientia et in inteUectu rationali; quanto enim. magis intellectus
primi moti erit fortior, tanto magis desiderium erit perfectius; et quanto
magis desiderium erit perfectius, tanto motus eius erit velocior. Metaph. Achillini Achillini. di Ogni pianeta; ma ognuna delle sfere che formano quel gruppo
planetario è mossa da una sua particolare anima che è causa efficiente di moto,
mentre l'intelligenza che presiede al gruppo è soltanto causa finale a cui le anime
celesti obbediscono. Si hanno così otto intelligenze: la prima è Dio, motore del
cielo stellato e quindi di tutto l'universo: ad essa obbediscono le sette intelligenze
planetarie, più o meno nobili secondoche
sono più o meno vicine al primo Motore. Ciascuna delle sette intelligenze planetarie
presiede a un gruppo d'anime celesti, quanti sono i moti dei quali il moto di ogni
pianeta è la risultante. Tutto questo, pensa il filosofo bolognese, si rica da Aristotele
e dal suo commentatore arabo: ma secondo la verità della fede, fra la prima Intelligenza,
che è infinita, e le intelligenze inferiori, non può stabilirsi alcuna proporzione,
poiché queste, per quanto più o meno perfette, sono tutte ugualmente distanti dall'infinità
della Prima. Ciò non di meno, anche secondo la fede, esiste fra le intelligenze
angeliche un ordine basato sulla loro diversa perfezione. Con questa osservazione, mentre sta per mettere
il piede sulla soglia della teologia, in ianuis theologiae, Achillini pone fine al quolibeto. Ma mentre il
filosofo averroista sente il dovere d’arrestarsi sul limitare della teologia, il
teologo al contrario non sente ritegno di portare l'abito del ragionamento filosofico
sul terreno della verità rivelata e di contaminare, come spesso avveniva, i dogmi
della fede colle lucubrazioni della filosofia. Tale è il caso, fra i molti che si
verificarono della speculazione teologica
intorno agl’angeli. L'angelologia
ebraico-cristiana era solidamente costituita nei suoi capisaldi teorici, come ne'suoi elementi rappresentativi
e fantastici, assai prima del suo incontro colla filosofia aristotelica. Ma poi che, per opera dei filosofi
maomettani ed ebrei l'aristotelismo prende contatto colla rivelazione, e a poco
a poco alla primitiva e rozza cosmologia
biblica si soprappose quella dotta dei greci anche l'angelologia subì un'uguale
contaminazione. Omnes gentes quae concedunt Deum esse, ACHILLINI il molto interessante
e istruttivo studio di Ricciotti, La cosmologia
della Bibbia e la sua trasmissione fino a Dante, Brescia, Morcelliana
conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter
dicuntur Angeli, osserva Averroè; e come lui pensano Avicenna, Isacco Israeli e
Maimonide. Il problema da risolvere, per i teologi cristiani, era quello
di trovare nella gerarchia angelica, fissata dallo pseudo Dionigi Areopagita o
da S. Gregorio Magno, il posto preciso ove collocare le intelligenze motrici
d'Aristotele e dei suoi commentatori. Così, mentre AQUINO assegna la funzione di
intelligenze motrici ad alcuni angeli dell'ordine delle Virtù, il domenicano
Maestro Teodorico di Vriberg fa delle intelligenze di cui parlano i filosofi, un
ordine a parte che precede l'ordine costituito dalle anime dei cieli e quello degli
angeli. Per Dante, le intelligenze motrici dei cieli sono quelle stesse lequali
la volgare gente chiamano angeli; ma non tutti gl’angeli, sibbene quelli che, in ciascuna gerarchia ed ordine, sono stati
deputati alla vita attiva, cioè al governo del mondo, anzi che alla pura vita contemplativa. E secondo la nobiltà dei diversi cieli essi appartengono
a gerarchie e ordini diversi; sì che il poeta, al pari degl’averroisti, può stabilire
un rapporto tra la perfezione dei cieli e quella degli ordini angelici disposti
in cerchi concentrici intorno a Dio: Li
cerchi corporai sono ampi ed arti secondo il più e'1 men della virtute
che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà, vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape, s'elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape l'altro universo seco, corrisponde al cerchio
che più ama e che più sape. Per che, se tu alla virtù circonde la tua misura, non
alla parvenza, delle sustanze che t'appaion
tonde, tu vederai mirabil conseguenza di maggio a più e di minore a meno in ciascun
cielo, a sua intelligenza. De caelo, comm. Baeum ker, Witelo,
Beitr. z. Gesch. d. Philosophie d. Mittelalters Krebs, Meister Dietrich,
in Beitr. z. Gesch. d. Philos. d. Miti.,
Dante, Convivio Par.] Così non ragiona
certamente AQUINO; così ragionano invece
Averroè e gl’averroisti, pei quali le intelligenze motrici son forma delle
rispettive sfere, come forma del cielo stellato è Dio stesso. Il quolibeto tratta
dell'intelletto possibile, che occupa r’inlìmo posto tra gì'intelletti e costituisce
la tertia et ultima pars latitudinis intellectuum. A proposito di esso Achillini
stabilisce questa tesi: Intellectus possibilis est intensissimum materialium et remississimum abstractorum, ossia è la più intensa
delle forme unite alla materia e la meno attiva delle forme separate. Poiché, come
vedremo, l'intelletto umano, per lui, è una sostanza separata, unica per tutta
la specie umana, e, nello stesso tempo, forma sostanziale degl'individui ai quali
è unito per sua natura. Intorno a questa tesi, son discussi dubia, il primo dei
quali concerne la teoria d'Alessandro d'Afrodisia,
esposta e combattuta da Averroè, secondo la quale l'intelletto possibile
sarebbe una virtù organica tratta dalla potenza della materia. L'averroista bolognese
confuta questa dottrina con argomenti tolti dagli scritti del commentatore arabo.
Ma se l’intelletto possibile non è una virtus materialis, al modo delle forme che
hanno essere solo pella materia a cui
sono unite e dalla quale sono individuate, s’esso ha una sua propria realtà
indipendente dalla materia, ne consegue che in se stesso sia unico per tutti gli
uomini. Questa è appunto la tesi che Achillini sostiene d'accordo con Averroè,
discutendo il dubbio utrum unum intellectum possibilem habeat omnis homo. Fra gli
argomenti a sostegno della tesi averroistica vi sono questi, desunti dalla natura della conoscenza intellettuale:
Si sic cioè, si intellectus possibilis esset multiplicatus ad numerum hominum, contingeret
ut res intellecta apud te et apud me sit unum in specie et duo in individuo; ratio
patet supra. Si sic, procederetur in infinitum in conceptibus; quia AcHiLLiNi De
anima, comm., digress. AQUINO, Trattato sull'unità dell'intelletto contro gl’averroisti, Firenze, Sansoni AcHiLLiNi conceptus essent numero
diversi, et ab omni per se intelligibili numeraliter multiplicato abstrahibilis
est conceptus; ideo ab illis conceptibus essent alii conceptus abstrahibiles; patet
supra. Unus est conceptus essentialis
omnium individuorum eiusdem speciei; ergo unus est intellectus possibilis omnium
hominum. Questi argomenti non sono in sostanza che uno solo, cioè quello di cui già fanno uso gl’averroisti,
coi quali polemizza AQUINO nel De unitate intellectus, e a capo dei quali era Sigieri:
Adhuc autem ad munimentum sui erroris aliam rationem inducunt. Quaerunt enim utriim
intellectum in me et in te sit unum penitus, aut duo in numero et unum in specie.
Si unum intellectum, tunc erit unus intellectus. Si duo in numero et unum in specie,
sequitur quod intellecta habebunt rem intellectam: quaecumque enim sunt duo in numero
et unum in specie, sunt unum intellectum, quia est una quidditas per quam intelligitur;
et sic procedetur in infinitum, quod est impossibile. Ergo impossibile est quod
sint duo intellecta in numero in me et in te; est ergo unum tantum, et unus intellectus
numero tantum in omnibus. AQUINO, Traci,
de un. intell. cantra averr.,ed. Keeler, Roma; il commento di N. alla traduzione di questo opuscolo d’AQUINO, Firenze,
Sansoni. L'argomento che deriva d’Averroè De anima, comm., digress., solae quaestionis, è ampliato da COLONNA
(vedasi) nel suo trattato De plur. inteìlectus possibilis, Venezia gira, ed è la sesta delle ragioni colle quali Averroè
positionem suam roborat et vult ostendere
quod intellectus, qui dicitur possibilis, est unus numero, in questo modo: Si potest
estendi quod una et eadem species intelligibilis informat omnes intellectus, tunc
sequitur quod sit unus intellectus in omnibus numero. Unde licet non sequeretur
quod eadem res videretur ab oculo omnium hominum, si unus esset oculus omnium, bene
tamen valeret quod, si una species
informaret oculum cuiuslibet hominis, quod unus esset oculus cuiuslibet hominis.
Ergo a simili: si igitur
una species informat intellectum omnis hominis, omnes homines habent unum intellectum.
Quod autem una species informet intellectum omnis hominis, patet; nam possibile
est quod plures homines intelligant lapidem. Tunc ergo quero: aut est per imam speciem
lapidis, aut per aliam et aliam. Si per unam, habeo intentum; si per aham et aliam,
tunc ille due species oportet quod differant numero, et communicent in forma, cum
ducant in cognitionem unius naturae. Sed quotiescunque aliqua dicunt differentiam
in numero seu in specie, tunc nullum eorum habet intellectum in actu, et habet tantum
intellectum comm.unem; ideo nulla illarum specierum est in intellectu in actu, sed habebunt intellectum communem.
Et tunc quero de ilio intellectu comuni, cum
possit intelligi, utrum intelligatur per eandem speciem vel per aliam; sed non est
abire in infinitum; standum est igitur in primis, quod una species potest informare
intellectum plurium hominum et pari ra[Nel corso della discussione delle obiezioni
contro la tesi dell'unità, Achillini
inserisce addirittura un brano di Sigieri, che noi conosciamo attraverso
una citazione del Nifo e che questi dice preso dal trattato De intellectn, misso
AQUINO in responsione ad illum AQUINO. Giova riportarlo, per un confronto con quanto
scrive il suessano: Ad, haec supponamus quod
iste terminus homo SIGNIFICAT compositum ex corpore et intellectu, et quod homo
est per se unum, directe reponibile in praedicatione substantiae, sub ANIMALI, intrinsece
DENOMINATUM intellectione etc. Secundo, non potest intellectus informare materiam
non informante cogitativa quia non stat materia sine forma constituta in esse per
eam; et non potest intellectus informare sine sua proxima dispositione et ultima,
quae est cogitativa. Et sic patet cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis
cogitativa non sit forma generica. Ex quo patet quare operatio cogitativae et intellectus
possibilis se comitantur, ut tangit Commentator, De anima, comm. Ncque potest cogitativa
informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito
et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa informabile
propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum
intellectum; et sic potest una forma substantialis esse dispositio ad aliain,
dummodo illa forma praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil
mali dictum est. Tertio, praemittendum apud Averroim quod intelligentiae sunt haec
et individuae individuatione non repugnante esse universali, quia esse earum in
anima et extra animam est idem, De anima,
comm. et Metaphysicae, commento: In abstractis non differt quidditas ab eo
cuius est. Est autem intellectus
possibilis de genere intelligentiarum, ideo non repugnat intellectum dare esse hoc,
quamvis etiam sit universalis. Ideo concedo
Sortem habere suum esse hoc ab intellectu. Sed a materia, divisa informabili cogitativa. tione omnium; igitur
omnes homines habent unum intellectum numero.
Appare evidente da questo testo di COLONNA
e da quello d’AQUINO, come si sia ingannato Fiorentino, di solito attento
e accurato, quando ha creduto di ravvisare nel argomento d'Achillini, qui sopra
riportato, due mutazioni sostanziali dell'averroismo {Pomponazzi. Studi storici
sulla scuola bolognese e padovana Firenze. Il conceptus essentialis omnium individuorum eiusdem speciei è l'
intellectum, cioè il votjtÓv
aristotelico, l'universale che è certamente unico per tutti gì'individui d'una stessa specie. Dall'unità
dell'intellectum Averroè e, con lui, Achillini deducono l'unità dell'intellectus
possibilis. Nifo, De intellectu Sigieri Questa frase che nel riassunto del Nifo
manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e mostra che questi ha un testo dinanzi a sé. I 20/ informante mediante dimensionibus, oritur
possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia, secundum
Commentatorem, propter esse universale intellectus, informari possunt ilio et ab
ilio sumere suum esse hoc et unum, et verius unum quam bruta a sensu, quia mediantibus
dimensionibus unitur sensus materiae, sed non
intellectus. Parrebbe dal confronto di questo brano con quanto ci è
fatto sapere dal Nifo, che l'Achillini abbia fatto sua una pagina dello scritto
di Sigieri in risposta al De unitale intellectus d’AQUINO. Come vedremo più oltre,
non è questo l'unico caso da rilevare. Dopo aver sostenuta con sedici argomentazioni
la tesi dell'unità dell'intelletto possibile, attribuita ad Aristotele, ed aver risolto le obiezioni contro di essa, il bolognese
conclude affermando che la tesi d'Aristotele e d'Averroè è falsa, e, contro il metodo
finora seguito, fa vedere che cosa si può rispondere ai argomenti a prò di essa.
Indi passa a discutere un dubbio, e cioè Utrum intellactus possibilis sit pure potentialis.
Il problema era stato posto almeno due volte da Sigieri di Brabante, e tutte e due
le volte risolto allo stesso modo: l'intelletto
possibile, prima dell'atto dell'intendere, non ha alcun atto, né può dirsi sostanza
se non in potenza. Affermare, come facevano Tommaso ed altri, che esso sia una sostanza in atto in genere
intellectualis naturae, prima dell'atto d'intendere, est ponere contraria et impossibilia
vel incompossibilia; per questa ragione appunto Aristotele aveva detto e quod intellectus ante intelligere nullam naturam habet
nisi istam quod possibilis. L' intelletto possibile diviene atto e sostanza in genere
intellectualis naturae, soltanto per l'azione su di esso dell'intelletto agente,
che è una sostanza separata, la quale, come ormai sappiamo, per Sigieri è Dio.
Identica è la soluzione che di questo problema dà Achillini: l’intelletto possibile
è sostanza puramente potenziale in genere
intelligibilium, e quello che lo trae dalla potenza AcHiLLiNi Sigieri, Qiiaestiones
naturales, ed. Stegmùller Sigieri, De anima intellectiva, ed. Mandonnet Giorn. Crii.
d. Filos. Hai. AcHiLLiNi, Quol., dub. I l'atto è l’intelletto agente che, anche
pel1'averroista italiano, come vedremo esaminando il quolibeto, è Dio:
Componitur enim intellectus possibilis agenti; tali tamen compositione quod remanent dnae substantiae
separatae in actu. Ideo, De anima, comm., istae substantiae sunt duae uno modo,
et unum alio modo. Sunt enim duae per diversitatem actionis; et sunt unum, quia
intellectus materialis perficitur per agentem. Et secundo De anima, comm., et De
anima, comm., omnis actio attributa alieni propter aliqua duo existentia in eo,
necesse est ut unum sit materia et aliud
forma; sed nos intelligimus per intellectum agentem et possibilem, De anima,
comm.; et sic aliquo modo intellectus agens est forma nobis, ut patet De anima,
comm.. Se l’intelletto possibile non è un atto prima
d'intendere, ma semplice potenza, ne segue che l'intellezione che attua questa potenza,
sia essa l'atto sostanziale dell'intelletto, poiché la pura potenza non è mai soggetto immediato d'accidenti.
Perciò l'atto d'intendere, del pari che l'abito della scienza, è perfezione essenziale
dell'intelletto possibile e atto che costituisce la sua sostanza quando pensa e
ragiona. Anche in questo egli è perfettamente d'accordo con Sigieri. Unico per tutta
la specie umana, l'intelletto possibile è eternamente congiunto coll’intelletto
agente che ne attua la potenza, e possiede, grazie a questo congiungimento, un atto
di pensiero eterno in cui consiste la sua stessa natura. Di abiti e di atti accidentali
si può parlare non in rapporto all'intelletto in sé, ma solo in rapporto ai fantasmi
sensibili ai quali l'intelletto possibile s'unisce nei singoli individui della specie
umana. Questo, s'intende, dal punto di vista averroistico, in quanto s'ammette un unico intelletto per tutti gl’uomini. Ma ciò non
è più vero, se si rifiuta come falsa la tesi dell'unicità dell’intelletto possibile.
L'ultimo dubbio del quolibeto verte sul problema utrum intellectus possibilis sit
forma dans esse hominem. Zabarella fa le sue meraviglie perché Achillini, dopo aver
sostenuto l'unità dell'intelletto, non avesse visto la contradizione che e'è ad
affermare che lo stesso intelletto, unico
per tutta la specie, è forma ACHILLINI Sigieri, nei luoghi cit. I informante, e
non soltanto assistente, sì da costituire l'uomo nel suo essere di uomo. Ma il filosofo
padovano non sa che anche in questo il bolognese segue da presso il maestro
brabantino. Del quale è appunto la tesi, a quanto e' informa Nifo, che l’intelletto,
pur essendo unico in sé stesso, è forma
costituens hominem et hunc hominem: hominem in esse specifico, et hunc hominem
in esse hoc. Anzi Nifo ci fa sapere che Sigieri, nell'opera della quale il suessano
riferisce alcuni tratti che son riportati alla lettera anche d’Achillini, come abbiamo
visto a proposito del secondo dubbio di questo terzo quolibeto, ritene, al pari
del bolognese, dottrina conforme alla mente d'Averroè quella che afferma esser l'intelletto possibile forma
sostanziale dell'uomo. Come Sigieri, anche l'averroista italiano pone nell'uomo
due forme:la cogitativa tratta dalla potenza della materia, e l'intelletto. Ma la
prima è ordinata al secondo, e questo è complemento e perfezione di quella; sì che
la materia già informata dalla cogitativa è 1'informabile ultimate dispositum ad
recipiendum intellectum, che ne è la forma ultima. Nifo ad esprimere
questo intimo e sostanziale rapporto fra la cogitativa e l’intelletto possibile,
s'era servito del termine di semi-anime o semi-forme. Il termine nell'Achillini
non s' incontra, e non credo s' incontra nemmeno nello scritto di Sigieri al
quale il suessano si riferiva: ma il concetto e' è, sì nell'uno che nell'altro.
Forma sostanziale che dà all'uomo il suo
specifico essere di Zabarellae, Liber
de mente hiimana De rebus naturalibus, Venezia, e nei Commentarii in Arist. de anima, Venezia, dopo il commento
De inteUectu; De anima, comm.; Sigieri nel pens. Anche VIO, nel
suo commento al De anima, stampato a Firenze, lui vivente, nel 15
io, dopo aver detto che Averroè separa l'anima
intellettiva dal corpo, osserva in margine che
questo è contra achiUinum, quolibeto, et subgerium in tractatu ad AQUINO, qui volunt quod intellectus
uniatur secundum esse, apud averroem, et sit unicus. ACHILLINI AcHiLLiNi In Sigieri anzi il concetto s' incontra fin nelle
Quaestiones super de anima del Merton, Oxford; Giornale
Crit. d. Filos. Ital. Lo stesso concetto appare anche nelle Quaestiones de
anima intellettiva, ed. Mandonnet.] uomo,
l’intelletto non è per altro forma constituta in esse per materiam, sì da dipendere
da questa, come accade per le forme che son tratte dalla potenza della materia,
poiché ha un proprio essere di forma separata al pari delle intelligenze
celesti, che pur son forme dei rispettivi cieli. Ed anche in questo concetto l'accordo
d’Achilhni coll'averroista belga è perfetto. Forma e perfezione del primo cielo Dio, forma e perfezione
dei cieli inferiori al primo le intelligenze motrici, forma e perfezione dell'uomo
l' intelletto possibile, che è l'infima delle intelligenze. Resta ora da vedere
come Dio sia forma anche degl'intelletti e ragione di ogni intelligibilità. Il quolibeto
è dedicato all'intelletto agente. Se l’intelletto possibile è pura potenza, l'intelletto
agente è puro atto senz'ombra di potenza; perciò esso possiede, fra tutti gì'intelletti,
il massimo grado d'intensità nell'intendere. Esso dunque è Dio. La identità dell'intelletto
agente con Dio, che Nifo attesta essere stata sostenuta da Sigieri, è dimostrata d’Achillini con questi argomenti: Primo, omnis
felicitas est deus; sed ntellectus agens
est felicitas; ergo etc. Maior et minor in secundo dubio et tertio declarantur. Secundo,
omnis intellectus qui est. omnia facere est deus; sed intellectus agens est
intellectus qui est omnia facere, De anima, textu comm., etc. Patet maior, quia esse omnia
facere est ad omnia receptibilia in intellectu
possibili, ad hoc ut in eo recipiantur, effective concurrere, vel est ad
omnia factibilia effective concurrere, vel omnia facere, id est purus actus; et
quomodocumque intelligatur, soli deo competit. Tertio, illud cuius substantia est
sua operatio omnimode, est deus; sed intellectus agentis substantia est illius operatio
omnimode, De anima, comm.: Et est in sua substantia actio, id est, non est in eo potentia ad aliquid. Quarto, omne quod est
primum educens formam de materia, est deus; patet ex quolibeto primo. Sed intelligentia
agens est primum educens etc, De aniìna, comm. Quinto, omne quod animae nostrae
infundit intellectum, est intellectus agens; sed deus animae nostrae infundit intellectum.
Patet maior, quia intellectum speculativum facit intellectus Achillini, Quol. Ili,
dub. Nifo, De intell. De
anima, comm. Sigieri. I agens esse
in intellectu possibili, faciendo de potentia intellectis actu intellecta. Minor est Aristotelis exemplum, Rhetoy'icorum: Intellectui deus lumen
accendit in anima. Ex hoc patet quare Commentator, De anima, comm., dixit se differre a Themistio, in modo
ponendi intellectum agentera, et convenire cum Alexandre; quia Themistius voluit intellectum agentem non esse
Deum, quia animae nostrae est pars; sed Alexander voluit intellectum agentem esse
deum: patet ex De anima, comm., ubi Commentator, recitando opinionem Alexandri
dixit: Intellectus agens est prima causa agens intellectum materialem. Il primo di questi argomenti è preso da Sigieri. Il secondo
e il terzo son ricavati dal testo aristotelico
del De animai, ov'è detto che è proprio dell'intelletto agente rendere intelligibili
tutte le cose, e che lo stesso intelletto agente è atto per sua natura, senza alcuna
mescolanza, sì che non intende ora sì ed ora no, ma intende sempre, senz’intermissione;
le quali cose son proprie soltanto di Dio. Importante poi è l'osservazione concernente
la dichiarazione d’Averroè, il quale approva
Alessandro d'Afrodisia, per avere identificato l'intelletto agente colla
causa prima che trae dalla potenza all'atto l'intelletto possibile o hylico.
Dopo di che Achillini riporta obiezioni che solevano farsi alla tesi da lui sostenuta;
l'ultima delle quali è questa: Nono, sequitur deum esse partem animae nostre,
quod non videtur etc, giacché Aristotele aveva detto che tanto l’intelletto agente quanto quello possibile bisogna che siano due èv
t-^ ^u/y^... Sia9opaL
Alla quale obiezione il bolognese risponde semplicemente così: Ad nonum, declaratum est supra quomodo deus est pars
animae nostrae, et quomodo non. Ed infatti in un passo del quolibeto, dub., che
abbiamo già riferito altra volta, egli aveva detto che, pur essendo l'intelletto possibile ed agente due
sostanze diverse, s'uniscono nell'atto dell'intendere
di guisa che in qualche modo intellectus agens est forma nobis. AcHiLLiNi, Quol.,
dub. NiFO, De intell., Sigieri De
anima. Ma in che modo Dio s'unisca all' intelletto umano come forma, è detto
più ampiamente nella discussione del secondo dubiuni del quolibeto, ove si pone
lo stesso problema che s'era posto Sigieri nel Libey de felicitate, Utrum felicitas sit deus, e lo risolve allo stesso
modo del brabantino. Dio è il fine supremo d’ogni intelligenza, nel cui conseguimento
consiste la beatitudine, perché Dio è ciò che è simpliciter perfectum quod secundum
se est eligibile semper, è optimum, pulcherrimum, delectabilissimum , è quello che
nullo indiget ed è principium honorum et causa ipsorum. Soltanto Dio, dunque, est felicitas sibi aut aliis intelligentiis aut
homini, quia solum ipse est perfectissimum intelligibile et appetibile propter se,
e solo in lui eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, Si dirà
che la felicità è un atto che è in noi, mentre Dio non è in noi. Achillini risponde
che, come nel quolibeto concede deum esse intellectionem intelligentiarum, nunc
conceditur deum esse intellectionem intellectus
possibilis et hominis. Ma s'obietta ancora: nullum obiectum operationis quae est
felicitas est illa operatio quae est circa illud obiectum; patet ex differentia Inter obiectum operationis et operationem. Sed deus est obiectum
operationis quae est felicitas; patet io Ethicorum, cap. io: Perfecta
felicitas est operatio speculativa optimorum. Ergo etc. A questa obiezione Achillini
risponde negando la maggiore: Ad tertium negatur maior, quia sufficit inter operationem
et obiectum distinctio rationis. Dico igitur quod felicitas non intelligo policam
quae est usus virtutis, septimo Politicorum, sed contemplativam, quae secundum Philosophum,
decimo Ethicorum, est secundum nobilissimum habitum qui est sapientia, et secundum
eundem, septimo Politicorum, est melior
quam politica non est actus qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati: quia
si sic, tunc non tenderent intellectus et voluntas in félicitatem tamquam in ultimum
finem. Secundo, quia ille actus non est perfectissimum. Quia oporteret ponere
¥> NiFO, De
intell. Sigieri duas felicitates: imam formalem et intrinsecam, et aliam
obiectivam et extrinsecam; et sic
Aristotelem et Commentatorem indistincte processisse in aequivoco, cum dixeriint
felicitatem esse ultimum fineni et operationem
animae. Quia ex quolibeto non datur accidens inhaerens intellectui. Concludo
igitur quod tantum una est felicitas, et quod ea omnia vere felicitabilia
felicitantur; et ista est deus. Hanc sententiam ponit Commentator, Etliicoritm,
capite in Deo esse felix est in speculatione
sui, in nobis esse felix est in eo in quo est sibi, prout nobis est possibile.
Allo stesso modo Sigieri sostene che, come Deus Deo per essentiam beatificatur,
così l'intelligenza a lui più vicina essentia Dei ut forma felicitatur, et consequenter
omnes residui intellectus; adeo quod intellectus hominis essentia Dei felicitatur,
quemadmodum Deus essentia Dei»ioo. Sebbene
distinti nella loro natura, l'intelletto causato non potrebbe intendere Dio,
se Dio non lo informasse di sé, giacché, tanto per Achillini quanto per Sigieri,
intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus; l'operazione colla quale Dio è
inteso da parte dell'intelletto causato e l'oggetto inteso formano, nell'atto dell'intendere,
una cosa sola. In quest'atto, Dio, informando di sé gì'intelletti
inferiori, fa ad essi dono di se stesso.
Ex quo patet osserva il bolognese quod felicitas est optimum deorum donum, quia
non est donum excellentius quam donare seipsum, et praesertim si donatum sit perfectissimum
entium. Hinc apparet quam commode potuit Aristoteles, De animalibus, substantiam
hominis divinam appellare. Principio di siffatta beatitudine è, pertanto, il congiungimento
della mente umana con Dio nell'atto dell'intendere.
Perciò la felicità consiste formalmente in un atto d'intelligenza, poiché solo nell'atto
dell'intendere avviene il congiungimento dello spirito causato coli'intelletto primo:
la beatitudine è il più alto grado della vita speculativa, come con Aristotele
aveva detto Averroè. A questo punto giova chiarire qual era il pensiero di Sigieri
intorno ad una questione dibattura specialmente
fra i , NiFo Sigieri AcHiLLiNi Arist., De part. animai., Eth. Xiconi.,
comm. De anima, comm. teologi. Questi
solevano chiedersi se l'esser beato si fonda, come dice Dante, nell'atto che vede
oppure in quel ch'ama; in altri termini, se la heatitudo risieda formalmente in
un atto di conoscenza del quale è soggetto l'intelletto, ovvero in un atto d'amore
che risiede nella volontà. Ed è noto
che, mentre i teologi del vecchio indirizzo agostiniano e i francescani poneno la
beatitudine in un atto di volontà al quale precede la conoscenza, AQUINO e la sua
scuola la fanno consistere essenzialmente in un atto d'intelligenza, d'accordo in
questo cogli averroisti, al quale atto d'intelligenza tien dietro l'atto d'amore
da parte della volontà. Se non che l'una
e l'altra teoria presuppongono una troppo netta distinzione fra l'intelhgenza e
il volere. Sigieri supera il problema, negando la distinzione reale fra queste due
facoltà. Ciò risulta d’un importante luogo del Nifo, che prima m'era sfuggito.
Dopo aver riassunto que ex libello Subgerii excipiuntur, intorno al problema dell'identità
della beatitudine con Dio, Nifo prosegue: Ut igitur positio huius philosophi intelligatur, oportet accipere
quod sicut unum precise est intellectum et volitum sub diversis rationibus, intellectum
quidem ut perficiens intellectum ipsum absolute, volitum ut perficiens illum sub
indifferentia fuga aut consensus; ita una numero est intellectio et volitio, sed
differunt quoniam intellectio est intellectum absolute, volitio est intellectum
ut acceptum vel fugitum; sic unamet res est
voluntas et intellectus: intellectus quidem, ut perficitur ac formatur ab intelligibili
sub ratione forme absolute; voluntas autem ut perficitur ratione fuge vel prosequele,
ut superius diximus. Ergo intellectus et voluntas sunt unamet res simpliciter absolute, licet sint
diverse rationes; et inde videmus Aristotelem et Averroem nuUam facere differentiam
inter ea, nec tractatus diversos, nec capitula
diversa, ut in De anima visum est. Ex quo sequitur, quod unamet felicitas est intellectio
et volitio, ac unainet essentia est intellectum et volitum; est enim in abstractis
intellectio rei idem quod ipsa res, ac volitio rei idem etiam cum re volita. Ergo
si Deus erit felicitas. Deus erit intellectio et volitio insimul; et etiam simul
est volitio quod felicitas, et
intellectio quod volitio et felicitas etc. Amplius sequitur quod ociosa est questio querens utrum fe103
Pa»'., Nifo, De intelL,
Sigieri Così anche Achillini,
Quol. dub. Ad primum, voluntas et intellectus sunt idem re, licet secundum
esse vel rationem differant. Felicitas principalius sit intellectio quam volitio,
an econtra; cum volitio et intellectio non differant nisi nomine vel ratione; nisi questio fiat sub ratione respectiva hoc modo,
scilicet utrum felicitas sit Deus sub ratione qua intellectio, an Deus sub ratione
qua volitio vel amor. A questa felicità, dichiara Achillini, noi tendiamo per natura,
né può darsi che il desiderio naturale resti inappagato in tutta la specie. Perciò,
considerato in rapporto alla specie umana che è eterna, anche l' intelletto umano,
come insegna Averroè, è eternamente felice, perché eternamente congiunto con Dio
e colle intelligenze separate. Ma non felici son tutti gli uomini, singolarmente
presi, poiché non tutti arrivano, in questa vita, a questo segno. Giacché per Achillini,
come per Sigieri, si tratta appunto della felicità alla quale è concesso
all'uomo d'arrivare in questa vita, mediante l'acquisto della scienza: Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt
philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam. Ma può
l'uomo arrivare in questa vita a conoscere le sostanze separate? Tale il problema
che il nostro bolognese si pone subito dopo, col dubbio. Nella soluzione di esso
egli fa uso dell'argomento di Sigieri, riferito da Nifo e Silvestri: Secundo, si
impossibile esset intellectum possibilem
intelligere substantias abstractas, ociose egisset natura, quia fecisset, quod
est in se naturaliter intellectum, non intellectum ab aliquo. Ratio est Averrois,
Metaphysucae, comm. Suppono in hac ratione, quod omnis intellectio conveniens intellectui
possibili convenit homini, sic quod non est possibile quod intellectui
competat, quin homini conveniant: hoc voluit
Aristoteles, De anima, textu commenti,
et hoc proposito negato, clauditur via Commentatori ad ostendendum caelum intelligere.
Ideo, si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili,
possibile est substantias separatas intelligi ab homine. Hoc stante, arguo sic:
Ouandocumque est aliqua forma non apta recipi in maxime receptivo alicuius generis,
illa non est receptibilis in minus reciptivo illius generis; sed intellectus
possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus; patet ex quolibetoio9;
106 Nifo AcHiLLiNi AvERR., De awf/Ma, comm.
ergo, si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, non est
possibile alium intellectum recipere primam formam; et sic iam frustrarentur intelligentiae
mediae ab hoc fine, qui est deum gloriosum
intelligere. Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere
interiora, ut quolibeto dictum est esse de mente Averroismo; sed nulla intelligentia
media potest primam intelligere, ut ex ratione superiori sequitur; ergo nulla intelligentia
potest intelligentiam mediam intelligere; sed ncque deus potest intelligentias medias
intelligere, secundum Averroim, ut patet
quolibeto primo; neque intellectus possibilis potest eas intelligere per te; ergo
intellectum naturaliter in se non est intellectum ab aliquo. Patet consequentia de intelligentiis
mediis: quia non a Deo, qui est supra; non a se ipsis, ut sequitur; neque ab intellectu
possibili, qui est infra, per te intelliguntur; et non est alius intellectus ab
istis. Et sic patet alia ociositas in natura et maxima; et sic patet quod, quamvis non sit homo finis
intelligentiarum, tamen, si non sunt intelligibiles ab homine, frustrantur a suo
fine; et sic ociose sunt intelligibiles etc. Ilaec omnia ex modis intelligendi dei, intelligentiarum
et intellectus possibilis supra declaratis sunt evidentia. Passando ad esporre i
fondamenti filosoiìci sui quali si basa la tesi che attribuisce all'intelletto umano
il potere di elevarsi a conoscere le sostanze
separate, l'averroista bolognese distingue, come aveva già fatto Jandun, la
conoscenza speculativa acquisita per mezzo dello studio delle discipline filosofiche,
dalla conoscenza intuitiva, qua cognoscimus substantias separatas per earum essentias
proprias; e in quest'ultima fa consistere la felicità suprema dell'uomo. Sì che
la beatitudine non è raggiunta
coll'acquisto delle scienze speculative, ma dopo il loro apprendimento. L'acquisto
per altro delle scienze è una condizione indispensabile e sufficiente a rendere
la mente umana preparata e disposta al congiungimento coll’intelletto agente, che
sappiamo ormai esser Dio. Ma, oltre a ciò, è necessario che alla perfetta conoscenza
speculativa tenga dietro la pratica delle
virtù morali: Cum igitur fuerit homo secundum
virtutes morales sufficienter habituatus, sic quod cessaverit discordia inter sensitivum appetitum et intellectivum; sic quod rationi regimen tributum erit AcHiLLiNi, Quol., dub. Questo luogo, nella stampa veneziana,
è evidentemente difettoso. AcHiLLiNi,
Quol., dub. NiFO, De intell.; In Averroys de anime beatitudine, comm.
Sigieri De anima. Metaph. sine intrinseco repugnanti; sic quod veruni erit dominium
rationis super viribns sensitivis, tunc continuabitur intellectus possibilis, secundum
quod est felix, homini et denominabit hominem felicem. Ex quo patet quod quia in habituatione
hominis secundum virtutes et scientias magnum tempus vitae hominis labitur. Unito al corpo umano da un legame intrinseco, l'intelletto
possibile trae dall'esperienza sensibile
le forme immerse nella materia e rese immateriali
per un processo d'astrazione. Quando, attuato da queste forme divenute intelligibili
e dall'abito delle scienze filosofiche, l'intelletto umano si trova congiunto coll’intelletto
agente nell'atto della beatitudine, alla stessa beatitudine parteciperanno in tal
modo le cose del mondo materiale, fatte intelligibili; sì che l'uomo verrà ad essere anello di congiunzione
fra il mondo superiore e il mondo inferiore, nexus superiorum cum inferioribus,
ultra hoc quod forma
hominis sit intelligentia. Anzi, siccome Dio nell'atto della
beatitudine è forma dell'intelletto beato, e questo è forma del corpo umano, ne
segue che anche la stessa materia partecipa alla beatitudine; di guisa che attraverso
l'uomo la beatitudine si diffonde su tutto
il mondo inferiore. Ma poiché l'intelletto agente è la suprema Intelligenza,
cioè Dio, mentre l'intelletto possibile è l'infima, questo non può unirsi immediatamente
alla prima Intelligenza, sibbene mediante le intelligenze intermedie. Sì che nell'atto
stesso e, potremmo dire, coll'atto stesso col quale s'unisce all'uomo l’intelletto
agente come forma, s'uniscono all'intelletto
possibile anche le altre intelligenze ad esso superiori già informate dalla prima
Intelhgenza: Cum intellectus agens sit suprema intelligentia, et intellectus
possibilis sit intima, non potest naturaliter uniri intellectus agens
intellectui possibili immediate, quia aliae intelligentiae naturaliter mediant.
Ideo oportet quod aeque cito, sicut incipit intellectus agens esse forma et intellectio istius hominis, incipiat
quaelibet alia intelligentia media informare hunc hominem. Ex hoc patebunt apud
Aristotelem et Commentatorem novem gradus felicitatis, sicut novem sunt apud eos
intellectus felicitabiles, quorum AcHiLLiNi Per questa teoria della beatitudine,
la mistica averroistica. prinius et maximus dee convenit, nonus vero et intìmus
intellectui possibili, medij vero medijs
intelligenti s aptantur ordinate etc,
quia intellectus cognoscens deuni per plura media remissius cognoscit et imperfectius.
Ideo prima, quae est sua cognitio per essentiam, se perfectissime cognoscit. Secunda
autem intelligentia recipiendo cognoscit primam, licet immediate eam recipiat.
Tertia vero mediante secunda; et sic gradatim descendendo. In questo senso dice Sigieri, come ci attesta Nifo, che l’intelletto
possibile dell'uomo, ut habet esse intentionale, est materia omnium intellectuum
separatorum. Nell'ultimo dubbio di questo quolibeto, Achillini riassume e schematizza
quanto ha detto in questo stesso quodlibeto circa il congiungimento, copulatio,
continuatio, dell'uomo coll’intelletto. I congiungimenti, a dir vero, son tre, e
non uno solo: il primo è quello dell'intelletto
possibile col corpo umano di cui è forma; il secondo è quello dell'intelletto
agente coll’intelletto possibile; il terzo è il congiungimento dell'intelletto agente
coll'uomo. Il primo congiungimento è duplice. Anzi tutto, l'intelletto
possibile s'unisce all'uomo secundum esse, cioè come forma sostanziale che dà all'uomo
il suo essere specifico di uomo, e ciò fin
dal momento in cui l'uomo comincia ad essere uomo. Indi s'unisce a lui secundum
operationem, quando l'uomo comincia a far uso dell'intelligenza. Questo duplice
congiungimento era già esplicitamente distinto da Sigieri, secondo la testimonianza
del Nifo. Anche il congiungimento dell'intelletto agente coll’intelletto
possibile è duplice: dapprima l'intelletto agente s'unisce all'intelletto possibile come causa agente dell'intendere,
concorrendo all'astrazione del concetto dall'immagine o fantasma sensibile, e promovendo
lo sviluppo intellettuale per mezzo delle scienze; indi, al termine dello sviluppo
intellettuale, s'unisce all'intelletto possibile, acconciamente disposto e preparato,
come forma che ne attua tutta la potenzialità e gli dà la beatitudine. Siffatta
distinzione è d'Averroè Nifo, De intelL,
Sigieri AcHiLLiNi De intelL, De anima, comm. Sigieri AcHiLLiNi AvERR., De anima, comm. Ed essa vale anche per il congiungimento
dell'intelletto agente con l'uomo. Giacché dapprima l'intelletto agente,
trovando l'intelletto possibile già unito secundum esse al corpo di quest'uomo particolare,
per esempio, di Socrate, illumina della sua luce i fantasmi della cogitativa di lui, diversi dai fantasmi
di altri uomini, e ne trae quelle specie intelligibili che sono intese in questo
particolare momento da Socrate. Piìi
tardi, quando l'intelletto di Socrate, convenientemente attuato dagl'intelligibili
tratti dalla sua particolare cogitativa, si sarà arricchito di una sempre più varia
e complessa esperienza, l'intelletto agente gli dischiuderà, se n'è degno, il mondo splendente della pura luce che emana
da sé, come da sole d'ogni intelligibilità. Come in Sigieri, così anche nell'Achillini s'avverte lo sforzo per superare la
difficoltà maggiore dell'averroismo, già avvertita dallo stesso arabo, consistente
nel bisogno di conciliare l'universalità del conoscere e il valore della personalità
o PERSONA umana individuale. La grande obiezione che AQUINO fa, dal punto di vista strettamente filosofico,
alla dottrina d'Averroè, è appunto questa: posta l'unità dell'intelletto, come può
esser vera la proposizione: hic homo intelligit? Alla fine del diibimn utrum felicitas
sit deus, Achillini si domanda se l'uomo che in questa vita ha il privilegio
d'arrivare a congiungersi coll’intelletto agente come a sua forma, può perdere volente
o nolente questa sua beatitudine. La sua
risposta è incerta e imbarazzata, anche perché concerne uno dei più scottanti problemi
che, non molti anni dopo, solleva gran clamore di dispute, voglio dire il problema
dell'immortalità PERSONALE. Già AQUINO notato
che, tolta tra gli uomini ogni diversità d'intelletto, ne segue che, dopo la morte,
niente rimanga della coscienza individuale. L'averroista bolognese, pur ritenendo con Sigieri che l’intelletto
possibile è forma del corpo umano, e che nel suo atto d'intendere è essenzialmente
legato ai fantasmi della cogitativa, pensa che all'eternità dell'intendere e della
beatitudine non sia necessario un legame col singolo, bastando il la mia introduzione
a AQUINO, Trattato sull'ìtniià
dell'intellettoTratt. sull'unità dell'intell.] legame colla specie, la quale nella successione dei molteplici
individui dura eterna: Testatur enim Aristoteles, Ethicorum, capite: u Multa
enim et natura existentium scientes et operamur et patimur, quorum nulluni neque
voluntariuni neque involuntarium est, puta senescere vai mori. Conditio enim suae naturae, quam
scit esse mortalem, non patitur nolle, et quia mors non est finis neque bonum, Physicotum,
textu et commento, ideo non vult felix mortem. Neque desiderio naturali permanentiam sempiternam
appetit in individuo, sed in specie, De anima, comm., et Physicoruni, comm. Et propter
hoc in Physicorum dixit Commentator, fortunitatem ultimam esse secundum fatuos vitam
aeternam. Multa autem mala felicitas hominis compatitur, quae felicitati dei
aut intelligentiarum repugnant. Est enim,
inter veros felicitatis gradus, humanus intìmus. Ideo, Ethicorum, capite Sapientem
omnes extimamus fortunas decenter terre. Felicitatem autem in alia vita, quam non
potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam.
Pomponazzi, sebbene abbia dell'intelletto possibile un concetto così diverso da
quello dell'Achillini, sul tema dell'immortalità
personale è perfettamente d'accordo con lui: tranne che per il mantovano solo l'intelletto
agente è veramente immortale per essere una sostanza separata, come volevano
anche Temistio e gli averroisti. Visti quali sono i diversi gradi d'intelligenza,
compresi fra la mente Prima che è puro atto e l'intelletto possibile che in sé è
pura potenza, Achillini affronta il problema
che s'era posto da principio, e cioè utrum latitudo intellectuum sit uniformiter
difformis. Un siffatto problema era nato dal tentativo di applicare a misurare i
gradi d' intensità dell'intelligenza il metodo delle calcidaiiones matematiche,
che s'usa per misurare l'intensità delle quahtà materiali, come la velocità, il
colore, la temperatura e via dicendo. Qualcosa di simile è stato tentato
nella psicologia moderna per misurare l'intensità
della sensazione; e già AcHiLLiNi, Quol. dub. Pomponazzi, De immortai. animae e Oresme aveva esteso il metodo al calcolo
del dolore e del piacere. Appiglio a porsi siffatto problema nei riguardi dell'intelligenza
dev'essere stato quel che si legge nel Liber de causis, che è un estratto della
Elenientatio theologica di Proclo: In primis Intelligeiitiis est virtiis magna,
quoniam sunt vehementioris unitatis, quam Intelligentiae secundae universales
inferiores; et in Intelligentiis secundis inferiores sunt virtules debiles, quoniam
sunt minoris unitatis et pluris multiplicitatis. Quod est quia Intelligentiae quae
sunt propinquae Uni puro, sunt maioris quantitatis et maioris virtutis; et Intelligentiae
quae sunt longinquiores ab ipso, sunt minoris quantitatis et debilioris virtutis.
Et quia Intelligentiae propinquae Uni puro sunt maioris quantitatis, accidit inde
ut formae quae procedunt ex Intelligentiis primis procedant processione universali
unita; et nos quidem abbreviamus et dicimus, quod formae quae veniunt ex
Intelligentiis primis in secundas, sunt debilioris processionis et
vehementioris separationis. Allo stesso modo Alberto magno: Omnes formae ab ipsa
totius universitatis natura largiuntur; quo autem magis ab ea elongantur, eo magis
nobilitatibus suis et bonitatibus privantur; et quo minus recedunt eo magis nobiles
sunt et plures habent bonitatum potestates et virtutes. Siffatto modo d'esprimersi sembra fatto a posta per invogliare
ad applicare il metodo del calcolo
matematico all' intelligenza. E Achillini,
dopo essersi chiesto se la latitudo degl’intellettisia uniformiter difformis, si
pone altresì il quesito utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio attendatur
penes appropinquationem summo. Esula dall'intento che ci siamo proposti in questa
ricerca, il seguirlo nella critica che egli fa della pretesa di stabihre un rapporto
quantitativo fra i vari gradi d'intelligenza,
e perciò ci hmitiamo a segnalare la soluzione negativa che egli dà dei due problemi,
a chi avesse ancora in proposito delle fìsime del genere. Maier, An der Grenze Liber
de causis, prop.; Proclo, Institutio theologica
l'opuscolo era stato tradotto in latino da Moerbeke col titolo di Elenientatio theologica.
Alberto magno, De intellectu et intelligibili, ACHILLINI, Ouol. Dalle pagine che
precedono sembra intanto potersi concludereche solo la prima Intelligenza è fonte
di sapere e di luce intellettuale. AQUINO agl’averriosti che dall'universalità
del conoscere avevano preteso di dedurre l'unità dell' intelletto per tutti gli
uomini, obietta che, se mai, se ne dovrebbe concludere, secondo il loro modo di
vedere, che debba esservi un solo intelletto non soltanto per tutti gli uomini, ma in tutto l'universo;
sì che il nostro intelletto non è soltanto una qualsiasi sostanza separata, ma è
Dio stesso AQUINO ha ragione. Né Sigieri
e Achillini gli danno torto: che per essi Dio è l'intelletto agente che effettua
sì nella mente umana sì nelle intelligenze celesti l'atto dell'intendere e s'unisce
all'una e alle altre come forma, a tal segno da fare in qualche modo una sola sostanza con ciascuna di quelle. Soggetto
assoluto di pensiero e sorgente d'ogni intelligibilità. Dio causa col suo intendere
altri intelletti, nei quali l'atto dell'intender divino si particolarizza per gradi,
fino all'intelletto della specie umana che, informando i vari corpi dotati di sensibilità,
mentre comunica ad essi la sua superiore individualità spirituale, ne assume l'individualità contingente e caduca, per farla partecipe dell'atto
divino del conoscere. Si rileva altresì dalle pagine precedenti che l'interpretazione
sigeriana del pensiero aristotelico dove apparire ad Achillini un'interpretazione
organica, sistematica in tutti i suoi particolari, e sostanzialmente diversa da
quella d’AQUINO ispirata dal bisogno d’abbreviare la distanza fra la filosofia e
la fede, quasi che la fede non avesse in
se stessa una filosofìa che la giustifica appieno. Liberi da questa preoccupazione
apologetica, gli averroisti potevano discutere in piena indipendenza di spirito
e con grande spregiudicatezza intorno a quello che era il genuino pensiero d'Aristotele,
s'accordasse o non s'accordasse colla fede. Giustamente dice Laurent, parlando del
domenicano Spina avversario del
Pomponazzi: Per lui che non ha subito l'influsso del rinnovamento che 1' Umanesimo ha introdotto nella teologia,
affermare che Aristotele nega l’immortalità dell'anima, equivale ad affermare che
tale AQUINO, Traci, de unit. intelL, ed.
Keeler; la traduzione di N. e relative note,
Firenze, Sansoni dimostrazione è filosoficamente
impossibile. Basta leggere alcune pagine del suo lavoro per rendersi conto dei principi che han
diretto le sue critiche. Il vecchio binomio: Aristotele = Verità, è il sottinteso
IMPLICATURA sous-entendue MILL GRICE, starei per dire, d'ogni riga del suo volume.
Non bisogna perciò stupirsi delle invettive che Spina rovescia sui suoi avversari:
i termini più virulenti ricorrono sotto la sua penna. E la stessa osservazione Laurent
ripete a proposito del sequace d’AQUINO,
SILVESTRI (vedasi) da Ferrara. Trasportiamo questa osservazione all'inizio della
polemica averroistico-tomitica, e sarà finalmente chiarito il significato della
così detta teoria della duplice verità, della quale qualche storico della filosofia
s'è scandalizzato anche più di quel che non abbian fatto nel passato gì'inquisitori
dell'eretica pravità, talora, se non sempre,
meno irragionevoli di certi storici della filosofia. Che l'aver rivendicato il diritto
alla libertà della ricerca storica nell'interpretazione del pensiero
aristotehco, prima che all'influsso dell'umanesimo, si deve all'averroismo. E anche
in questo Achillini è buon discepolo di Sigieri, nel tenere cioè costantemente
distinto il pensiero del Filosofo dalla verità della fede. La quale, forse, ha subito maggior danno che non vantaggio
dall'impegno che taluni hanno messo a mostrarne la troppo intima aderenza ad un
particolare sistema filosofico. Laurent, Le Commentaire de VIO sur le De anima,
in principio a VIO Scripta Philosophica: Comment. in De anima Aristotelis, ed. Coquelle, Roma, Angeliciim Intorno al significato
storico della dottrina della doppia verità, si veda quel che ne ha scritto Gilson,
Études de philosophie medievale, Strasbourg;
Dante et la philosophie, Paris; e N., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, nonché 1'introduzione ad AQUINO, Trattato sull'unità dell' intelletto. Quando N. ha ad occuparsi dell'avverroista
bolognese ACHILLINI (si veda), lo fa unicamente
per i suoi Quoliheta de intelligentiis e per le tracce evidenti in essi di dottrine sigieriane. Ma per
il momento non mi detti cura di far
ricerche sul curricolo della sua vita, bastandomi la data di quando i Quoliheta
furono disputati nel capitolo generale dei frati minori tenuto a Bologna e per
l'occasione stampati. Successivamente ho raccolto alcuni dati biografici che crede
utile far conoscere a chi voglia occuparsi a fondo di questo non comune maestro bolognese, tenuto ai suoi tempi
in altissima considerazione, e degno anc'oggi d'esser ricordato sotto diversi aspetti.
Secondo le notizie raccolte da Mazzetti, di solito accurato e preciso, nel suo
repertorio di tutti i professori della famosa università di Bologna Achillini, figlio di Claudio che dicesi
fosse oriundo di Barberino in Val d'Elsa, e coprì più volte cariche pubbliche,
sarebbe nato a Bologna. Questo preso dal Tractatus astrologicus di Gaurico, non
sempre bene informato, dovrebbe però essere anticipata di due anni se Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. N., Sig. di
Brab. nel pensiero del Rinascimento
italiano, Roma Bologna Carrati, Genealogie di famiglie nob. bolognesi, Bologna,
Archiginnasio, Ms. condo la cifra degli anni ch'egli aveva
quando venne a morte, quale si trova nell'elogio che di lui si
legge nel Libro segreto del Collegio delle Arti. Ma la cifra di anni è corretta
su rasura e con altro inchiostro. Inoltre il fratello d’Achillini, nel suo Viridario
ci assicura che ACHILLINI, in quell'anno in cui egli sta scrivendo il poema,
varca d'un lustro il mezzo camin della vita.
Parrebbe dunque che Gaurico avesse ragione. Mazzetti inoltre informa che fu laureato in filosofìa, e che lo
stesso anno comincia a insegnar logica a Bologna. Era stato ritratto da Francia. Insegna filosofìa; passa a
medicina; ma resse entrambe le cattedre,
cosa non comune, spiegabile solo col favore di cui gode presso i colleghi e presso
i Bentivoglio dei quali fu sempre caldo fautore. D'un insegnamento tenuto d’Achillini a Padova, prima
di questo momento, non mi pare dunque si possa parlare.
Gaurico accenna anche ad un soggiorno abbastanza lungo d’Achillini a Parigi, del
quale purtroppo non abbiamo altra testimonianza, e d'altra parte non si riesce a
trovare un periodo della sua vita nel quale collocarlo. A Bologna ebbe sicuramente
ad alunno il bolognese Bacilieri o Bazaleriis, il quale fu approvato in artibus nemine discrepante. Fra i promotori al dottorato era
Achillini che dedit insignia al neo dottore.
Bacilieri fu aggregato in sopranumero ai
col Viridario di ACHILLINI Bolognese. Impresso in Bologna per Hieronymo di
Plato Bolognese. Sotto la f. m. di
N. S. Leone. Dedica al Papa che riguardano Achillini
son riportati più giii II disegno di Francia è posseduto dagl’Uffizi di Firenze.
Fotogr. Alinari, più volte riprodotta. Libro Segreto del Collegio delle Arti Bologna,
Archivio di Stato; Dal libro dei Partiti. (Arch. di Stato), risulta che Bacilieri
riscuoteva già 100 lire bolognesi annue prò
stipendio lecture. 7 Ib.. f. 41 r. legi bolognesi delle arti. Ma non era passato
un anno dalla sua aggregazione, che fu
sospeso per un quinquennio dall'uno e dall'altro collegio, con decisione
confermata, propter nonnulla demerita et facinora facta et commissa. Fra questi
facinora pare fossero anche parole ignominiose e turpi nei riguardi dei suoi colleghi.
La punizione fu inflitta con otto fave bianche contro una nera. Fra i votanti era
anche l'Achillini. Questa la ragione perché Bacilieri proprio in quest'anno
dove lasciar Bologna, e recarsi a Padova, e quindi a Pavia ove rappresenta l'averroismo della corrente sigieriana
che aveva assimilato alla scuola d’Achillini. Scaduto il quinquennio della sospensione,
egli fu riammesso a far parte dell'uno e dell'altro collegio per unanime consenso
senza che ci fosse bisogno di porre ai
voti la proposta Quolibeta de intelligentiis,
preparati per la disputa, rappresentano dunque il pensiero filosofico dell'Achillini
nel primo periodo del suo insegnamento della
filosofia naturale prima che passa all’insegnamento della medicina teorica. In quest'opera,
come ormai sappiamoci, si ritrovano, inserite negli schemi del metodo calcolatorio,
divenuto di moda anche a Bologna come a Padova, tutte le tesi fondamentali
dell'averroismo, concernenti Dio, le altre intelligenze separate, e in particolare
l' intelletto possibile e la copulatio
di questo col1'intelletto agente; tesi tutte, specialmente quelle riguardanti l'intelletto
umano, desunte dai tre scritti di Sigieri, che, secondo l'attestazione di Nifo,
si leggeno. Ma qui accade di doverci porre un piccolo problema. Nessun dubbio sulla
data di pubblicazione dei Qnolibeta d'Achillini, che s’esibiva campione della
dottrina sigieriana in una pubblica
disputa alla quale erano intervenuti dotti di varie tendenze. È per caso
in questa circostanza che Pico e Nifo si trovarono a far viaggio N. Sigieri Libro Segreto.; insieme, diretti a Bologna, disputando
tra loro come l'unità dell'intelletto
potesse conciliarsi coll'individualità e
la SOPPRAVVIVENZA GRICE SURVIVAL dell'anima del singolo. Nifo ci fa apere di essere stato averroista sigieriano prima, e pretende d'aver composto il
Tractatus de intellectu nel quale la dottrina sigieriana è combattuta. Ho già espresso
piìi volte i miei dubbi sulla veridicità di Nifo, il quale aveva troppo interesse
ad acconciare il racconto della sua vita in modo da meritarsi le grazie del
vescovo di Padova, Barozz. Il piccolo problema
che vorrei porre, e che non sono in grado di risolvere, è questo: chi porta a Padova o a Bologna gli scritti
di Sigieri ricordati da Nifo? Fu NICOLETTI che certamente dimora a Oxford e Parigi? Fu Pico? Fu Achillini stesso, se mai fosse vero, come pretende
Gaurico, che anch'egli soggiorna a Parigi? O fu Grice? Del resto, gli scambi fra
le due università italiane e quella parigina sono frequenti, e, come sappiamo di
galli che durante il sono venuti a
studiare a Padova e Bologna, sappiamo del pari che Pietro e Lorenzo Pasqualigo,
patrizi veneziani, erano stati a studio a Parigi, e il primo anzi vi aveva sostenuto,
ben due mila conclusioni. Quando all'insegnamento della medicina teorica aveva riunito
quello della filosofìa naturale, AchilUni fece stampare la sua seconda opera De
orhihus. Qui ritroviamo tutte le grandi tesi
della fisica celeste di Aristotele, nella più rigida interpretazione
averroistica, fino al punto che è ritenuta assurda la teoria tolemaica degl’eccentrici
ed epicicli, che aveva Nifo, In libriim Destvuctio Destructionum Averrois comment.,
I, dub. Hoc secundum opus in quatuor
libros divido. Il che esclude l'esistenza di quel trattato De proportionibiis niotuum,
che secondo Hain, sarebbe stato stampato
a Bologna per Benedictum Hectoris. Questo trattato, composto più tardi, usci postumo.
SÌ il grande merito di salvare le apparenze dei moti planetari assai meglio che
non la teoria delle sfere concentriche, ma che mal si concilia coi principi della
fisica aristotelica. Ed Achillini, come in generale tutti gli averroisti, ci teneva
alla fedeltà ai testi che egli s'era assunto l'impegno di esporre. Nel secondo libro di quest'opera si parla
invece delle intelligenze motrici, cioè di Dio, primo motore immobile, e quindi
dei motori preposti al governo di ciascun cielo. A questo punto il maestro bolognese
si chiede se, oltre alle inteUigenze separate, esistano altresì dei dèmoni. La credenza
nei dèmoni e nelle loro opere prodigiose non era diffusa, soltanto nel popolino,
ma anche nei ceti colti, presso i quali la
demonologia cristiana era rincalzata da quella platonica. Achillini nel suo rigido
averroismo non sa con esattezza ove collocare siffatte nature ibride, di spiriti
imbestiati, e quale funzione propriamente assegnare ad esse. Ammessa per fede, l'esistenza
dei dèmoni è relegata tra le opinioni volgari. E quanto ai fatti meravigliosi che
ad essi vengono attribuiti, il bolognese
è d'avviso si possano spiegare coll'arte umana o per mezzo di cause naturaH, a dir vero, non meno meravigliose, come fa più
tardi Pomponazzi, e come aveva fatto
molto prima SCHIAVONE. Dopo questa
parentesi, egli torna a parlare dell'immutabilità di Dio, ingenerabile, incorruttibile,
inalterabile, non soggetto a movimento locale né a mutamento di pensiero,
poiché tutto atto senza potenza. Di questa divina immutabihtà partecipano anche
le altre intelligenze celesti, sebbene in queste sia qualche potenzialità, in quanto
ogni intelUgenza di sotto subisce l'azione di quella di sopra, sì che questa è
intelletto agente per rapporto a quella che vien dopo, e quella che vien dopo può
dirsi intelletto possibile per rapporto alla precedente, come già sapevamo dai Qiioliheia de intelligentiis.
Primo intelletto agente che immediatamente o mediatamente informa di sé tutte le
intelligenze inferiori, è Dio. Ma le intelUgenze inferiori sono informate da quelle
di sopra senza subire cangiamento nel tempo, bensì con atto eterno, che fa De orbibus,
diib. secondo l'edizione degli Opera omnia, curata da Monti, Venezia, alla
quale per comodità mi richiamo) . dub. Secundo
principaliter, Septimum dictum Qiiol. de intell. dire talora ad Averroè
che esse sono atti puri senza potenza, cioè puro intendere senza mutamento.
Ultima delle intelligenze è l'intelletto umano che propriamente si disse possibile
o potenziale, poiché non ha altra natura che quella di essere in potenza. Questo
intelletto, unico per tutta la specie umana e forma che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo,
non passa dalla potenza all'atto del conoscere se non è coadiuvato dall'esperienza
sensibile. In quanto passa dal non conoscere al conoscere le cose del mondo sensibile,
che sono il suo oggetto proprio, esso è soggetto a mutamento o alterazione. Questa
alterazione era intesa comunemente come modificazione dell'intelletto stesso ad
opera delle specie intelligibili o rappresentazioni in esso delle cose
conosciute. Achillini respinge questa teoria, appoggiandosi a un famoso testo della
fisica aristotelica, che aveva già richiamato l'attenzione d'Averroè, e coglie l'occasione
per ribadire un concetto già da lui affermato alla fine del Qttolib. de iìitelligentiis. Aristotele aveva
detto che nella parte intellettiva dell'anima non si dà né generazione né alterazione vera e propria:
l'atto conoscitivo non importa un mutamento qualitativo intrinseco all'intelletto,
ma una semplice variazione del rapporto fra questo e le forme del mondo sensibile
che la mente conosce in sé stesse senza bisogno che una rappresentazione o specie
intelligibile, distinta dalla realtà conosciuta e dal soggetto conoscente, venga
a inserirsi fra l'una e l'altro. Un mutamento
qualitativo e intrinseco subiscono invece le facoltà sensitive e con esse la
cogitativa, cui l'intelletto s'unisce nell'atto d'apprendere le forme del mondo
sensibile. L'intelletto in sé stesso è immutabile, come i principi logici e come
le forme a priori di Kant; senza di che nessun giudizio certo sarebbe possibile;
il mutamento e l'alterazione sono soltanto nel
contenuto del conoscere, e soltanto per denominazione estrinseca s'attribuiscono
all'intelletto. Perciò Achillini distingue con Sigieri l'intelletto dall'ANIMA
RAZIONALE: quello è unico in sé stesso per tutta la specie umana; questa invece,
risultando dall'unione dell'intelletto colla cogitativa, è individuale al pari di
quest'ultima e diversa in ogni uomo; e a questa, propriamente, e non -Diib. Hic aliquantulum morabimur. a quello, spetta la FUNZIONE
RAZIOCINATIVA E DISCORSIVA, consistente appunto nell'applicazione delle immutabili
forme del pensiero alla mutevole esperienza sensibile. Merito d’Achillini è appunto
questo, che a lui spetta per altro in quanto ha ripreso un motivo di alcuni pensatori
d'aver capito che la dottrina delle specie intelligibili finisce per offuscare la conoscenza della realtà,
ricacciata al di là della rappresentazione che attua il soggetto conoscente. L'atto
conoscitivo è possibile solo in quanto il reale conosciuto è presente per se stesso
al soggetto che l'apprende. Vero è che, pell'Achillini, le cose del mondo fisico
hanno un esse reale fuori del soggetto che le pensa, e non possono essere in questo
se non per il loro esse intentionale; di guisa che lo sdoppiamento fra
realtà in quanto appresa e realtà in sé risorge e rende plausibili le obiezioni
che altri aristotelici e averroisti ebbero a rivolgere al filosofo bolognese. E
primi fra tutti Pomponazzi e Zimara. Pomponazzi si dichiarò contra modernos pedagogos,
qui tenent secundum Averroem quod intellectus possibilis nihil de novo recipit,
mentre commenta a Padova il De anima. I moderni pedagoghi dai
quali dissentiva erano Nifo, Achillini e il suo fido Achate, Bacilieri, che era
diventato collega del mantovano nello studio patavino. Questo è confermato da
una nota in margine al codice napoletano che ci ha tramandato il commento del Peretto:
Nota contra socios Achillinum Tyberiumque
bononienses. Più tardi, mentre commenta a Padova la stessa opera aristotelica,
il maestro mantovano dedica una quaestio speciale a esporre e combattere opinionem
noviter repertam quae tenet nullo pacto dari species intelligibiles. Veramente
questa opinione non era proprio noviter reperta, come Vedasi N., Soggetto e oggetto – GRICE OBBLE
SOBBLE -- del conoscere nella filosofia,
Roma, Edizioni dell'Ateneo,
Bibl. Naz. di Napoli,
mss. La nota nel ms. napoletano parrebbe di mano di Surian che trascrisse
il testo della riportazione, di cui forse è autore quel Marco da Otranto che è Zimara,
il quale ne avrebbe fatto copia a Troiano e questi a Caravegi da Crema, dal quale
l'ebbe Surian. del resto ben sa Pomponazzi; ma nuova poteva sembrare per il modo
come la presentavano e per il vigore col quale la difendevano i due pedagoghi bolognesi. Ma nuova
o no, il Peretto non esita a giudicarla abominevole, fatua e bestiale: Et dico primo
quod opinio ista est abominabilis, fatua et bestialis et nihil boni ab ea potest
capi. Ego enim nihil intelbgo de opinione ista. Isti contra se adducunt duo miUia
auctoritatum et totam ecclesiam doctorum,
ipsosque glosantes totaliter dilaniant et lacerant. Vide in
scriptis suis. Che il mantovano non avesse presa per il suo verso e non avesse capito l'opinione
d'Averroè e d’Achilhni, non è da stupire, dato l'orientamento del suo pensiero quale
dove rivelarsi anche meglio in seguito. Così anche nell'esposizione della Fisica,
fatta a Bologna, giunto al commento del testo sul quale si fondano gli averroisti
della corrente d’Achillini, torna a ripetere: Ista est pars dignissima in qua aut
ego erro aut omnes aiii maxime erraverunt; sed credo quod potius iUi
decipiantur quam ego; sed in hoc constituam vos iudices. In ista ergo parte
commentator ponit unum documentum, ex quo traxit Burleus, quod est de mente commentatoris,
cum anima sit unica in omnibus hominibus, ipsam nihil capere {ins capit) de novo, ncque acquirere [ms aquirit) scientiam per species de novo advenientes, sed scientia
est substantia animae. Et non possum non mirari de istis modernis, qui faciunt se inventores et autores
huius viae, cum videant Burleum ante se de hoc iam expresse loqui. Imo, ante
Burleum Henricus de Gandavo tenuit hoc idem esse de mente commentatoris; et etiam
AQUINO ascribit hoc commentatori, Hcet propter
aham rationem. Non meno aspro, contro
l'interpretazione che Achillini sostene del pensiero d'Averroè è il giudizio di
Mar Infatti nel ms. napoletano si legge: Pro quo, domini, debetis scire quod insurgit
nova philosophia, immo antique; quare Burleum videatis: expresse super textu commenti
2oi septimi physicorum dicit intellectum speculativum esse eternum et non dari species intelligibiles commentatoris; hec etiam tenet
augustinus sessa, Achylinus et multi alii insequentes i tos Ms. napol. In de phys.
auditu, Bibl. Nation. di Parigi, ms. lat. ms. della Biblioteca del Collegio Campana di 9
Osimo] c'antonio Zimara da Otranto, in una sua quaestio Utrum ad mentem
Averroys intellectus possibilis
recipiat species
intelligibiles subiective. Esposta e criticata la dottrina d’Achillini, della quale
vorrebbe far rilevare l’'assurdità dal punto di vista aristotelico ed averroistico,
egli conclude: Et in veritate opinio istius hominis adeo est erronea, ut me
pudeat amplius arguere centra ipsvim. Ipse enim ignorat adhuc quomodo forma materialis
generatur. Item habet fateri quod formae materiales secnndum suum esse formale accipiantur
in sensibus interioribus, quia non est maior ratio quare in intellectu
possibili materiales formae sint secundum esse formale, et non in ipsa cogitativa
et imaginativa. Quantum autem ista sint inconvenientia, non solum sapientibus, sed
etiam vulgaribus sunt novissima notissima. Unde licet mihi dicere de isto homine
quod dixit commentator de Avicenna in Celi
comm. quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus
et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores. A risolvere le obiezioni mosse
alla tesi d'Achillini bisogna tener costantemente presente la distinzione fra ANIMALE
RAZIONALE – RAGIONE e intelletto in sé. L'intelletto possibile, in sé considerato
e in quanto unico per tutta la specie umana, non è modificato d’alcuna rappresentazione
che gli venga dal mondo sensibile. Invece, in quanto unito alla cogitativa individuale di Socrate e di Calila, colla quale
forma L’ANIMA RAZIONALE composta di ciascuno individuo umano, esso è certamente
soggetto a mutazione e ad alterazione, non pel mutare di qualcosa in esso, ma pel
mutare dell'immagine sensibile che è nella cogitativa cui è unito. Che se Achillini
dice l'intelletto possibile pura e nuda potenza senz'atto di sorta, prima dell'atto
d'intendere, questo va inteso per rapporto
all'intelletto Zimara de sancto Petro de Galatinis Terrae Hjdrunti, artium doctoris,
Quaestio qua species intelligibiles ad mentem Averrois defenduntur ad Magnificum
patritium Venetum Surianum; a cura di Storella. La stessa quaestio fu pubblicata
da francescano Girelli, professore di teologia nello studio di Padova, in principio
del suo Tractatus adversus quaestionem Zimarae
de speciebus intelligibilibus ad mentem antiqiioritm Averrois praesertim. Venetiis.
Girelli, che aveva studiato a Padova, ov'era stato alunno del Pomponazzi, cita Achillini,
ma si rifa specialmente a Gand e al carmelitano inglese Baconthorpe, noti avversari delle species
intelligibiles. agente che è tutto atto senza potenza ed è la scienza in atto,
al cui possesso tende l'intelletto possibile. Il De orhihus s'apre col dubbio an
intelligentia sit forma dans esse caelo. Anche su quest'argomento Achillini si sforza
di mantenersi fedele ad Averroè: ogni cielo è composto di materia e di forma; il
corpo sferico di esso è la materia, l'intelligenza motrice è la sua forma. Per questa
unione ciascun cielo è un ANIMALE VIVENTE, non di VITA VEGETATIVA O VITA
SENSITIVA, come pretende Avicenna, ma di vita intellettuale. Le sfere celesti sono
perciò quegli ANIMALI RAZIONALI IMMORTALI – GRICE IMPLICATURA DI ANIMALE –
BRUTO O PIANETTA -- ed eterni di cui parlano
Aristotele nei Topici e Porfirio nella sua Isagoge alle Categorie. Animali viventi
di vita intellettuale, l'atto dell'intendere e del volere si predica dei cieli,
di cui le intelligenze son forme sostanziali, a quel modo che si predica dell'UOMO
di cui è forma sostanziale l'intelletto possibile, che è l'infima delle intelligenze separate.
Sebbene i corpi celesti sono dotati di spazialità e di movimento al pari dei corpi
del mondo inferiore, essi son corpi spirituali, immuni da composizione di materia
e di forma, poiché il loro essere è costituito
dall'unione immediata colla propria intelligenza. Questo concetto averroistico d’una
corporeità spirituale e immateriale, che piacque anche a Ficino, fu oggetto di lunghe
controversie fra gl’averroisti e le altre scuole aristoteliche, e fra gli averroisti
stessi. Dio è la prima delle intelligenze separate; e come ognuna di queste è forma
sostanziale del proprio cielo, ch'essa
avviva di vita intellettuale e a cui imprime movimento, così anche Dio è
forma sostanziale del primo cielo mobile al quale, insieme al primo moto, imprime
la propria perfezione intellettuale. Con ciò il bolognese non fa che sviluppare
un concetto già chiaro nella sua precedente opera, Quol. de intelligentiis. L'idea
di Dio, quale emerge da siffatto modo di vedere, è l’idea di un Dio strettamente legato al mondo finito Arist., Top.
tcov ^cóoiv xà
jjièv 8-VY]Tà xà •^'à-B-àvaTa. Porfirio, Isagoge et
in Arist. Categor. comni. ed. Busse,
nei Commentaria in Arist. graeca, De differentia
Argmn. in Platon. Theol. ad Laurent. Medicen
in Opera, Basilea, Epist. De orbibìts di
Aristotele, come forma e motore non mosso della prima sfera celeste, e anima del
primo corpo spirituale che contiene e
racchiude entro di sé le altre sfere animate e immortali, fino al CIELO LUNARE,
che racchiude nella sua concavità la sphaera
activorum et passivorum, ossia i quattro elementi e quelle cose che, sotto l’influenza
celeste, di lor si fanno. Forma e motore di un mondo finito, è evidente che di siffatto
Dio non si può dimostrare l'infinità né l'onnipotenza né la libera azione creatrice. Del resto, per ciò
che concerne l'animazione dei cieli, v'erano teologi disposti ad ammetterla. Achillini
lo sa bene; ma osserva che da parte dei teologi esistono difficoltà non facilmente
superabili ad accogliere simile teoria. Per essi, infatti. Dio creò le
intelligenze in statu merendi et demerendi; viatrices enim aliquantulum fuerunt,
durante quella morula concessa loro da Dio per potere scegliere liberamente
il bene o il male. Ora che cosa sarebbe accaduto se l'anima del primo
cielo pecca? Il primo cielo sarebbe stato
dannato. Eppure esso avrebbe dovuto accogliere i beati, a meno che Dio non avesse
preparato per sé e pei santi un altro luogo più adatto, o che non vesse predestinato l'intelligenza di quel
cielo alla beatitudine eterna! Ma il maestro
bolognese taglia corto su questo e altri problemi sottili e imbarazzanti: per lui,
secondo la verità della fede, non può ammettersi
che Dio sia unito come forma ad un cielo; ciò ripugna alla sua infinità e al potere
che ha di trarre le cose dal nulla. Tutto questo, per altro, riguarda i teologi
E NON LA FILOSOFIA, se per filosofia s'ha d’intendere, come quasi tutti allora intendeno, il sistema aristotelico della natura,
cosa che non tutti gli storici della filosofia han sempre avvertito. E problema
tutto teologico è quello discusso nel
dubbio intorno alla creazione dal niente e al cominciamento o novitas del
mondo nel tempo. In oltre fittissime e uniformi colonne in folio, interrotte da
appena due capoversi, la dottrina teologica della creazione del mondo nel tempo
è sottoposta ad una serrata e minutissima critica che ne dimostra
l'inconciliabilità coi Dante, Par. De orb.] principi più
Certi della metafisica
aristotelica, per terminare, al solito, dopo tanto sforzo, con questa dichiarazione:
Tenendum est autem deum creasse mundum et non ab aeterno, et ab aeterno ipsum potuisse
creare! Segue il quesito o dubbio, utrum caelum sit finitae magnitudinis in actu
intorno al quale Achillini, fedele ad Aristotele ed Averroè, mostra di non
tenere in alcun conto il tentativo fatto d’alcuni teologi di dedurre la possibilità
d'un universo infinito dalla infinità e onnipotenza di Dio; che anzi dalla limitatezza
dell'universo aristotelico egli è condotto a limitare la potenza divina. Perciò
egli si contenta di osservare: Quod si theologus concedat deum posse lacere corpus infinitum, oportet ipsum dicere
has difiìnitiones quantitatum non esse diffinitiones absolute, sed quantitatum finitarum,
quemadmodum oportet ipsum concedere, quod acquale vel inacquale non est passio quantitatis,
sed est passio propria quantitatis finitae; nel che consentono appieno il Cusano
e BRUNO. Nel quesito col quale si conclude il libro, il maestro bolognese esclude la possibilità d’altri mondi
fuori di quello descritto da Aristotele, che ha per centro la terra e per limite
la convessità della prima sfera di cui è
forma sostanziale Dio stesso. Anche troviamo ribadite le grandi tesi dell'aristotelismo
averroistico intorno alla natura celeste presa nel suo complesso. Sferico è il cielo,
perché corpo perfettissim.o cui non può competere se non la perfettissima delle figure
geometriche, qual è appunto la sferica. Ed è formato di natura luminosa che consegue
alla luce intellettuale dell'intelligenza che l'anima e lo muove, diminuendo d'intensità
giù giù, di grado in grado, FINO ALLA SFERA LUNARE, la cui luminosità propria è
appena percettibile nelle ecclissi di luna. Ampio sviluppo maestro Achillini dà
al quesito concernente l'eternità del moto
celeste, connesso con quello dell'eternità del mondo e dibattutissimo insieme a
questo, nei commenti al ad quartum, stando
in principiis philosophorum, rationes militant; sed negatis eorum principiis, tiinc
cessai disputatio. della Fisica. Circolare ed eterno, il moto delle sfere
celesti riflette l'eterna circolarità del pensiero delle intelligenze motrici: Quia igitur intellectio intelligentiae exit ab
intelligente et revertitur super idem ut intellectum est, ideo intellectio est principium
motus circularis, quoniam in circulo exit corpus ab a, ut a principio, et revertitur
in idem a, ut in terminum, per arcum circuii. L'ultimo quesito del De orèzèiis concerne l' influenza celeste
sul MONDO INFRALUNAR. In nessun'altra trattazione
quanto in questa Achillini appare evidente
come le dottrine astrologiche sull'influenza dei cieli avevano finito per prendere
consistenza metafisica nel sistema aristotelico della natura, nel quale le sfere
celesti, coi loro motori intellettuali, e il mondo elementare, contenuto nel concavo
dell'ORBE LUNARE, son solidali e quasi direi complementari fra loro, legati
come sono da un legame di causalità. Si
caelum staret, ignis in stupam non ageret, quia Deus non esset, suona
una proposizione condannata dal vescovo di
Parigi. E Achillini: se il movimento celeste s'arresta, non soloil fuoco
non s'apprende alla stoppa e allo zolfo, ma addirittura tunc non essent ignis, stupa
aut sulfur; e ciò per la ragione quod in primo instanti quietis caeli resolverentur
omnia inferiora in materiam primam, quia
desineret caelum esse conservans interiora; aut in nihil omnia redirent. Ideo supra
dictum est, quam repugnat naturae vacuum, aut materiam esse sine forma, tam repugnat
caelum quiescere. Ideo Averroes, Mataphysicae,
comm., auctoritate Aristotelis, Meìaph.:
Non est timendum caelum quiescere. Meno male!
Ma nel trattare della causalità che il mondo celeste esercita su tutte le cose del mondo inferiore, il bolognese è indotto
a porsi il problema della libertà umana. Sigieri e Giovanni
di Su questo legame fra il cielo e il mondo inferiore, cfr. Averroè,
De caelo, comm.; Aristotele, Meteor. Denifle e Chatelain, Chart. Univers.
Paris., Giorn. Crit. d. Filos. Ital. De orb. Steenberghen, Sig. de Brab. d'après
ses oeuvres inédites, Siger dans l'hist. de l'Aristotélisme, nella collez. Les philosophes belges, Louvain Jandun se l'eran posto
assai prima, e l'avevan risolto allo
stesso modo. L'influenza dei corpi celesti non s'esercita in modo diretto se non
sui corpi infralunari. Sull'intelletto e la volontà umana questa influenza non s'esercita
se non indirettamente, nella misura che lo spirito umano è legato al corpo. Ma per
se stessa quest'influenza non s'esercita
sull'atto del giudicare e del volere, che può resistere ad ogni influenza
indiretta. Ora la nostra libertà trae origine dal giudizio della ragione, che per
sé è immune da ogni diretto influsso celeste.Al qual proposito Achillini coglie
l'occasione per chiarire l'equivoco che nasce dal confondere la libertà umana colla
contingenza, la quale nela lingua del LIZIO è ben altra cosa. La libertà è propria del giudizio che non è determinato
dall'oggetto appreso; la contingenza deriva invece da indisposizione della materia che a risponder molte volte è sorda;
la prima è propria dell'uomo; la seconda spazia in tutta la natura sublunare, ove
l'impronta del suggello celeste è ostacolata dalla cera mortale. Ma anche in questo
Achillini non dice niente di nuovo. Lo stesso concetto della libertà, più che svolto, è appena accennato.
Poco dopo la pubblicazione del De orbibus a mezzo della stampa, il maestro bolognese
prepara l'edizione di alcuni rari opuscoli pseudo aristotelici insieme ad altre
cose non meno rare, fra le quali egli inserì anche un suo trattatello De universalibus,
la cui composizione è probabile risalga agli anni in cui legge logica. Nacque così
l'Opus septisegmentatum stampato, a spese dell'editore Phys., De orb., Ex potentiali in genere intelligibilium
nascitur libertas, sed ex potentiali in genere sensibilium nascitur contingentia.
Hoc voluit Philosophus, Metaph., textu comm., in translatione graeca: quare materia
erit causa praeterquam ut in pluribus aliter accidentis. Quod igitur dixi in primo
opere, Quolibeto de intelligeutiis primo, dub.: Sequitur secundo nullam esse in rebus contingentiam
ad quas non concurrit homo, passum est ab impressura defectum, non apponendo libertatis
prima di contingentiam. Ma nell'edizione, l'autore ebbe cura di correggere l'errore
bolognese Benedetto d'Ettore Facili. La stampa riuniva insieme queste rarità: Pseudo
Aristotele, De secretis secretorum, De regum regimine, De sanitatis conservatione, De physionomia. De signis
tempestatum – GRICE DARK CLOUDS MEAN RAIN --, ventorum et aquarum, De mineralibus;
poi il fragmento De intellectu di Alessandro d'Afrodisia nella traduzione medievale
di Gerardo da Cremona, il De animae
beatitudine di Averroè, cui tien dietro l'opuscolo De universalihus d’Achillini
stesso; infine l'epistola d'Alessandro il Macedone ad Aristotele, De mirahilihus
Indiae. L'anno seguente deve aver curato, presso lo stesso editore Ijolognese,
l'opuscolo De primo et ultimo instanti di Burley, a spiegazione del quale egli aggiunse
una breve nota: Achillini Bon. Examinatio
huius quadrate figure et addictio oblunge, cui seguono le Proportiones di Alberto
di Sassonia Bononie per Ben. Hectoris. La rara stampa è posseduta dalla Bibl. Nationale di Parigi, Rés.
Cura altresì la stampa del libretto di Trionfo da Ancona, agostiniano. De cognitione
animae et eitis itentiis, cui Achillini aggiunge una quaestio de sensihilibns
noribus di Maestro Prospero da Reggio, egli pure agostiniano, excerpta et sumpta
ex quaestionibus ab eo Parisius J'.putatis supra prologo primi magistri sententiarum
Bologna, presso Giovanni Antonio de'Benedetti; e poco dopo quella della Destructio
in arborem porphyrianam dello stesso Trionfo, presso lo stesso stampatore de'
Benedetti. Nello stesso anno e presso lo stesso editore, da in luce la quaestio
de subiecto physionomiae et chyromantiae, o anche De Chyromantiae principiis et
physionomiae, dedicata a Coclite e premessa all'opera di questo, Chyromantiae ac physionomiae anastasis cum approbatione
magistri Achillini, uscita a Bologna presso il de'Benedetti e dedicata ad Bentivoglio,
figlio del signore di Bologna, Giovanni
IL Due altre quaestiones, una De potestate
syllogismi, l'altra De subiecto medicinae, dedicate all'alunno Porto da Modena,
Achillini stampò a Bologna, presso lo stesso de' Benedetti. Questo Porto era ancora alunno d’Achillini e ne aveva raccolto
le lezioni su quei due argomenti. S’addottora, e nel nuovo anno scolastico comincia
a leggere medicina teorica a Bologna fino a quando passa a medicina pratica; ma
venne a morte. Ecco la dedica affettuosa del
maestro: Achillini Porto Mutinensi, discipulo haud penitendo, foelicitatem.
Nostra quaedam fragmenta ut moris eorum est, mi amantissime, diligentem eorum collectorem adeunt. Tu enim urbanitate et virtutibus et doctrina
is es, quem inter caeteros nobis dilectos elegi, apud quem aptissime reponantur;
te enim semper cognovi nostri nominis studiosum. Logicalia quidem alios docebis;
medicinalia vero exacte ut assoles contemplaberis: ex quibus non minus gloriae,
Alexandre tuo aurigante, te iam comparaturum
existimo, quam hactenus ex poeticis muneris numeris adeptus sis. Haec igitur
nostris aliis, quae apud te sunt, adiungas. Vale, et libenter res nostras perlege.
Presso lo stesso de'Benedetti, uscì il De elementis che si può dire formi, insieme
al De intelligentiis e al De orbibiis, la terza parte d’un'opera complessiva,
la quale abbraccia tutto il sistema aristotelico-averroistico
della natura, ossia tutta intera la sfera cosmica, avente la
terra per centro e per periferia il cielo delle stelle fisse. Consapevole dell'importanza
dell'opera, Achillini dedicò il De elementis all'invittissimo principe e padre della
patria, Giovanni II Bentivoglio, con una lettera che è documento importantissimo
per stabilire i legami che univano il filosofo al signore di Bologna. Nell’explicit
di questa e dell'opera precedente Achillini, anzi che col nome d'Alessandro, comincia
a sottoscriversi il figlio di Claudio Achillini,
arieggiando alla lontana la maniera degl’arabi. A rendere piìi solenne l'edizione del De elementis, Porto fa scattare il suo estro
poetico e detta questo epigramma che si legge sul frontespizio, e in cui il nome di Claudio Achillini
è ricordato nel momento che pella prima volta, per quanto N. sappia, al figlio viene dato l'appellativo di
nuovo Aristotele: Cum modo legisset titulum natura libelli huius, Achillini est
obvia facta seni, 48 Su
di lui, TiRABOSCHi,
Bibl. Moden. atque ait: O nimium foelix
hoc pignore, Claudi, quam melius dici Nicomachus poteras. Un altro epigramma scrive
pella stessa stampa Boccadiferro, che traduce
il suo cognome in quello meno plebeo di Siderostomo. Anch'egii era discepolo d’Achillini,
e più tardi ne continuerà l'insegnamento averroistico a BOLOGNA, ma con assai
minore vigore speculativo. Il De elementis
è diviso in tre libri. Si parla
dei mutamenti e delle vicissitudini che accadono nel mondo sublunare – GRICE CIRCLE
AND CIRCLE -- e della materia che n'è il soggetto. In diibia son discussi tutti
i problemi concernenti l'esistenza della materia prima, la sua natura di soggetto
indeterminato e potenziale del divenire fisico, la sua conoscibilità, i suoi rapporti
colla forma, colle dimensioni, e il concetto
di PRIVAZIONE – GRICE NEGAZIONE E PRIVAZIONE --. Niente di particolarmente notevole,
tranne questi punti. Primo, il dubbio an Sorte non existente, Sortes non sit homo –
GRICE VACUOUS NAMES – If neither Pegasus nor Bellerophon exist, what is the
implicature of the second having ridden the first? --, che richiama l'attenzione
sulla discussione che fa di questo
problema anche Sigieri di Brabante, nella quaestio utrum haec sii vera Homo est
animai, nullo homine existente; secondo, il dubbio ove si nega la tesi che attribuisce
alla materia una forma sostanziale di corporeità d’essa inseparabile. Terzo, il dubbio
ove si sostiene che la materia prima è ingenerabile e incorruttibile e perciò eterna, checché ne pensassero altri con
Avicenna. Si tratta degl’elementi e della loro mescolanza. Al qual proposito il
bolognese riprende in esame l'annoso problema se nei misti restino in atto o soltanto
in potenza le forme elementari, ritorna sulla forma corporeitatis che Avicenna voleva
inseparabile dalla materia, e fa un fugace accenno alla famosa colcodea dello stesso
Avicenna, quae est decimus intellectus in descendendo a deo, et est formarum datrix in concavo lunae assistens
ad regulandam activorum et passivorum sphaeram
et ipsam conservandam. Altro De elementis,
diib. , f. gava. Mandonnet,
Brab. et l'averr. latin testi inediti. Nella coli. Les philos. belges,
Louvain De eleni. Sull’origine e il significato di colcodea, dopo quanto ne aveva
scritto Alfonso Nallino, son ritornato in Giorn. Crit. d. Filos. It.,
per dimostrare che essa entra in circolazione coll’edizione del conciliator
di SCHIAVONE, Venezia. tema è quello, allora di grande attualità, se e come le forme
sostanziali sono capaci d'accrescimento e di diminuzione, di maggiore o minore intensità.
Più importante, sebbene non nuovo, è quello che egli dice della generazione degl’ORGANISMI
VIVENTI – Grice cabbage and king --, e in particolare dell'uomo – GRICE MAN
PARROT HUMAN PERSON --. Tutte le forme degl’esseri corporei, da quelle elementari
a quelle ANIMALI, son tratte dalla potenza della materia. Ma mentre le forme elementari
permangono nei misti, attenuate nelle loro proprietà, come dice Averroè, la forma
mixtionis resta soltanto potenzialmente nel VEGETALE – GRICE CABBAGE --, e come l'anima vegetativa si corrompe all'apparire
dell'anima sensitiva, nella quale rimane potenzialmente o virtualmente. Achillini
in questo non si dilunga molto da AQUINO, sorvivvo, e SCHIAVONE, brucciato. In certi
momenti, anzi, egli sembra accogliere la tipica dottrina d’AQUINO dell'unità della
forma sostanziale. Con due strappi però. Uno, di minore importanza, concerne la permanenza delle forme
elementari nei misti. L'altro, assai maggiore, riguarda l'unione dell'intelletto
col singolo. A rammendare quest'ultimo strappo che compromette l'unità della coscienza
umana, AchilHni s'adopra con ogni accorgimento dialettico, pur mantenendosi fermo
sulla tesi averroistica fondamentale: l'unità dell’intelletto. È interessante
seguirlo nel suo tentativo. Lo sviluppo dell'organismo
umano s’inizia con una fase puramente vegetativa, come dice Aristotele. Principio
delle funzioni vegetative nell'embrione è la così detta ANIMA vegetativa –
Alice: Is mustard an animal? --, all'apparire della quale la precedente forma
mixtionis si corrompe. Così, nella SECONDA fase dello sviluppo embrionale –
GRICE: WHEN BABIES HARDLY MEAN, IF NON-NATURALLY AT ALL --, alla forma vegetativa
subentra quella sensitiva – ANIMA ANIMATIVA SOUNDS CLUMSY – GRICE -- , mentre la
prima si corrompe. Ma qui Achillini si domanda. Allora dovremmo dire che. prima
d'essere animale, l'embrione nella
prima fase è *pianta*, -- GRICE:
OR IS THIS A MERE IMPLICATURE --? No, egli
risponde; perché altro è ESSER PIANTA – cabbage izzing --, altro è vivere
a mo'di – METIER OF -- pianta, come dice appunto Aristotele. L'anima vegetativa d'una pianta – GRICE CABBAGE
-- è termine della nascita di quella pianta, ed è quindi forma determinata e PERFETTA
-- perfetta nella sua specie – Tigers tigerise. La forma vegetativa
nell'animale – TIGERS TIGERISE – SQUARRELS – PIROTS – PIROTOLOGY --, invece, è forma indeterminata e imperfetta –
NON METIER --; più che punto d'arrivo, è
preparazione e AVVIAMENTO ad un GRADO più
alto di VITA – Grice PHILOSOPHY OF LIFE. Questa è in via, direbbe ALIGHIERI, quella è già a riva. In questo concetto
del passaggio dall'indeterminato al determinato parrebbe dovesse cercarsi la chiave per intendere come l’intelletto,
unico in sé, s'unisce all'anima sensitiva a costituire un individuo umano particolare
– LIKE PAUL GRICE, PAUL GRICE. Ed è concetto
aristotelico che mitiga alquanto la crudezza dell'altro concetto, essere le forme
sostanziali come i numeri e come le figure della geometria, di cui non si dà aqcrescimento
o diminuzione senza cambiamento di specie
– GRICE ARISTOTLE LIZIO ANALOGY LIFE WITH NUMBER – ONLY UNDERSTOOD AS SERIES. Aristotele appunto, nel De generatione animalium,
dice che nel processo genetico non nascono insieme l'animale e l'uomo, né l'animale
e il cavallo – it’s an implicature – there is an animal in the backyarrd: my
aunt – URMSON. Dal che parrebbe che l'animale, che precede l'uomo e il cavallo, dove essere NON
UNA FORMA DETERMINATA e specifica, ma una
forma generica e indeterminata, la quale tende là a determinarsi in cavallo, qua in uomo. – qua in TIGRE, qua in SQUARREL,
qua in PIROT, qua in cat --.Venendo a parlare appunto del processo genetico umano,
il maestro bolognese si chiede an in ipso homine animam intellectivam expectet sentitiva. E per risolverlo,
ricorda anzitutto quali, a suo modo di vedere, ne sono i due presupposti. Unum,
quod intellectus -- GRICE RATIO -- sit forma
informans materiam, dans esse hominem – PERSONAM GRICE. Aliud, quod prius
tempore sit anima sensitiva in materia, quam intellectus possibilis. Quorum primum in De intelligentiis
declaravi, et etiam in De orbihus, quaestione de motu intellectus. Quibus addo, quod ambo illa asseruntur ab Aristotele,
De genevatione animalium, dicente. Sed quamobrem talem animam prius
haberi necesse sit, ex his quae De anima disservimus apertum est. Sensualem autem,
qua animai est, tempore procedente, recipi et RATIONALEM, qua homo est, certum est.
Quest' anima sensitiva che precede l'apparire dell'intelligenza O RAGIONE –
GRICE HOLLOWAY --, è una forma generica e INDETERMINATA – Timothy -- che prepara
l'avvento d’un'altra forma più determinata, pella quale l'uomo comincia già a distinguersi
dal cavallo – o del CHIMP – read chimp lit. GRICE -- e dagl’altri animali; e questa è la cogitativa.
La cogitativa è nell'uomo Purg. Arist.,
De gen. animai. De elem. quello che negl’altri animali – GRICE TIGER
SQUARREL CAT -- si dice estimativa, ed è, insieme all’immaginativa, alla memorativa e al sensus communis, uno dei così
detti sensi interni. Come l'estimativa negli
animali – NON UMANI GRICE DISIMPLICATURA --, anche la cogitativa, che talora
è chiamata essa pure ESTIMATIVA – GRICE I LIKE THAT, SINCE ONE IS AWARE OF DISIMPLICATURE
-- ha la funzione di distinguere e giudicare sensibilmente le percezioni –
GRICE POTCH COTCH -- particolari e quello che v'è nelle cose apprese d’utile e di
dannoso – PER L’UOMO NON IL CHIMP. Per questo
essa è chiamata anche ratio particularis – o PARTICOLARIGGIATA GRICE; ma è facoltà
sensibile, legata all'organismo, tanto
che i medici e anatomisti antichi e medievali l’assegnano come organo il
ventricolo medio del cervello, mentre all'immaginativa assegnano quello ventricolo
anteriore del cervello, e alla memorativa – GRICE PERSONAL IDENTITY --- quello ventricolo
posteriore del cervllo. Ma oltre alla funzione ora accennata, la cogitativa umana
ne ha un'altra, pella quale si distingue SOSTANZIALMENTE dall'estimativa degl’altr’animali
– who cannot but potch, never cotch or MEAN, M-INTEND --: essa è ordinata a preparare
quelle immagini sensibili, o fantasmi, quasi riassunto di tutto il mondo dell'esperienza
sensibile, che l’intelletto o RATIO fa oggetto
d’elaborazione mentale, scientifica – fa scienza, scire --, traendo fuori dalle
rappresentazioni particolari il concetto
universale – GENERALIZZATA. Mentre nell'animale inferiore all'uomo l'anima
sensitiva, per mezzo dell'estimativa, si può dire sia giunta a riva, ed abbia raggiunta
la più alta perfezione di cui è capace, non così è della cogitativa UMANA, la quale,
per quest'ultima sua funzione O METIER preparatoria all'atto dell'intendere O
RAGIONARE, è ordinata per sua natura
RATIO ESSENDI a congiungersi coll'intelletto possibile. Questo alla sua volta, nella gerarchia dell’intelligenze separate, è quello
che tiene l'infimo grado, perché, pura potenza d' intendere, è ordinato, per iniziare
il suo passaggio all'atto, ossia per divenire intelletto in atto, all'apprensione
intelligibile delle forme del mondo sensibile, di cui la cogitativa gli somministra le rappresentazioni particolari. Perciò non si può dire che la cogitativa
sia la vera forma dell'uomo, come pure diceno
molti averroisti, e che per essa l'uomo si distingue dagl’altr’animali. O se vogliamo,
essa è forma, sì, ma incompleta. E questo perché la cogitativa umana Fondandosi su un famoso detto d'Averroè, De
anitna, comm. Et per istum intellectum queni vocat Aristoteles passibilem, e che
Averroè denomina cogitativa differt homo ab aliis animalibus. Al qual detto gli’averroisti
sigieriani n’opponeno però un altro, tratto
d’un commento allo stesso De aniìiia: Cum
per hanc VIRTVTEM RATIONALEM difterat homo ab aliis animalibus. non è ancora giunta
a riva; a riva essa giunge quando è unita all'intelletto possibile, che, alla sua
volta, è ordinato per sua natura ad
essere eternamente unito alla cogitativa umana, negl'infiniti individui della
specie. V’è insomma tra la cogitativa umana e l'intelletto possibile un vincolo
sostanziale, per cui l'una è ordinata per natura all'altro, e reciprocamente,
ed entrambi si completano a vicenda. Forma completa dell'uomo, sia in universale,
quanto alla specie, sia in particolare, quanto ai singoli, è dunque l'intelletto possibile unito alla cogitativa; e non solo forma
assistente, ma vera forma informante che dà all'uomo L’ESSERE – GRICE IZZING
HAZZING – d’uomo e ne fa il soggetto dell'intendere. A prima vista potrebbe parere,
e certe espressioni potrebbero indiirci a crederlo, che l'anima cogitativa, tratta
dalla potenza della materia, e l'intelletto possibile, venuto dal di fuori,
fossero due nature, due quiddità diverse,
due forme, anzi due anime. Ed effettivamente esse stanno nell'uomo a rappresentare
due modi di conoscenza che Achillini, come a LIZIO E ACCADEMIA, son parse irriducibili.
Duo igitur svint principia cognoscendi in ncibis reperta: unum universaliter, et
est intellectus, et est incorporeus, inorganicus, incorruptibilis; aliud vero singulariter,
et est sensus, et est virtus in corpore et
organica et corruptibilis, et est anima cogitativa, Ma poiché la cogitativa è forma
incompleta ed è ordinata ad unirsi all'intelletto, e questo alla sua volta è complemento
di quella, possiamo ben dire che dalla loro unione risulta un'anima composta, come
dice Sigieri, la quale è tutta intera forma dell'uomo. GRICE THE POWER
STRUCTURE OF THE SOUL – executive legislative judiciary INTENZIONE --.Tuttavia,
poiché la cogitativa è forma incompleta che riceve il suo ultimo complemento dall'unione
coll’intelletto, possiamo dire ugualmente che 1'intelletto termina il processo della
generazione umana, e che esso ha da ritenersi forma dell'uomo a più forte ragione
che non l'anima cogitativa: Quamvis in homine duae species colligentur, ibi est tantum intellectus, qui est ultima forma,
qua homo est homo. Cogitativa igitur forma non est ultima, sed ordinatur in intellectum.
Non tamen est homo unus per simplicem formam, sed per composi De ehm. tissimam; nullum enim est mixtiim homine
compositius. Habet igitur homo duo esse: unum est esse inateriale a cogitativa;
reliquum vero est esse divinum PERSONA GRICE -- ab intellectu possibili. Perciò Achillini nei QuoUbeta
de intelligentns, ai quali più volte si riferisce nel De elementis, dice: Non potest
intellcctus informare materiam, non informante cogitativa, quia non stat materia
sine forma constituta in esse per eam. Neque potest cogitativa informare, non informante
intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio.
Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum
ad recipiendum inteilectum. Le quali parole, secondo la testimonianza di Nife, son
tolte alla lettera dall'opera di Sigieri, De intellectu ad AQUINO. De elementis
abbraccia quaestiones intorno alle proprietà degl’elementi, e cioè alla quantità
e alle loro qualità, al movimento, alla
gravità, alla figura e al luogo proprio di ciascuno. E poiché le teorie
di Heytesbury, o Heutisbery, come lo chiamano,
e quelle di Suisset, o meglio Swineshead,
sono venute a scompigliare le idee dei maestri bolognesi non meno che di
quelli padovani, anche Achillini s' impegna in una prolissa discussione del problema
di moda, se di ogni cosa naturale si da un massimo e un minimo – GRICE MAXIMIN
--, sul quale nel corso delle sue lezioni
e in trattati speciali ha a soffermarsi più volte anche Pomponazzi, imprecando
ai CALCULATORES FORESTIERI DI MERTON GRICE -- e
nostrani. A questo problema tien dietro una non meno prolissa discus De elem. NiFO, De intellectu et daemonibus Sigieri
De elem. Pomponazzi, De maxima et
minimo ad Laurentium
Molinum, Ms. Ambrosiano R.; In Phys., Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo,
Bibl. Frat. de'Laici, ms. Pomponazzi prende di mira particolarmente il suo concittadino Pietro da Mantova (VEDASI), nonché
le due opere a stampa De reactione
e Tractatus penes quid intensio et re-missio
formarum attendatur. sione sul quesito utrum aliquid moveat se. E sebbene
l'autore dichiara di voler trattare di ogni
specie di movimento, celeste o elementare, animato o inanimato, sostanziale o
accidentale, corporale o spirituale – GRICE I’LL MOVE MY ARM TO SCRATCH MY
ITCHING HEAD --, egli s'intrattiene più a lungo intorno al moto naturale degl’elementi
e dei misti e specialmente alla gravità ROMANA di NEWTON e leggerezza, ritenute
con Aristotele e Averroè forme sostanziali
dei corpi, all'azione del cielo, del luogo naturale, del generante e di ciò che
rimuove l’impedimento al cadere – GRICE FREE FALL -- o all'elevarsi d’un corpo.
Le stesse idee averroistiche che Achillini sostene a Bologna, aveva sostenuto a
Padova Pomponazzi, commentando la Fisica. Ad un certo momento il maestro bolognese
accenna anche al moto violento dei proiettili.
E come Pomponazzi, sostiene egli pure che il proiettile lanciato movetur a medio e combatte la tesi dell'impetus difesa dai parisienses
cioè da Buridano, Oresme, Albertuccio o
Alberto junior di Sassonia, per non condonderlo con Alberto Magno, e altresì da
Inghen, e portata a Bologna da maestro Biagio PELACANI (vedasi) da Parma che di Sassonia era stato alunno a Parigi. Seguono altri quesiti intorno ai quattro
elementi e alle loro qualità sostanziali. La soluzione di essi è quella
averroistica. Ma l'ultimo ha un'importanza speciale per il tempo in cui è posto:
Dubitatur utrum terra sit ubique habitabilis. Il problema se l'era già posto SCHIAVONE, in una diff. del suo
Conciliator, e l'aveva discusso con ampiezza, ricordando i viaggi di Polo
e la relazione di frate Giovanni
cordigliere, cioè del francescano Giovanni
del Pian del Car
De eleni. e specialmente sulla gravità
e nerezza Bibl. Naz. di Napoli, ms. Questio
Magistri Petri Pomponatii de motu gravium
et leviiim, quam fecit Magister Petrus dum legeret Physicoriun. Sullo stesso argomento
il mantovano ritorna nel commento alla Fisica,
Arezzo, Bibl. Frat. de'Laici, ms., ove combatte la solutio de impulsu que communiter
tenetur a parisiensibus De elem. Secunda est opinio Parisiensium. Maier, Zwei Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie:
das Problem der intensiven Grosse; die Impetustheorie. Roma, e per Biagio PELACANI da Parma in particolare] pine. Achillini conosce e cita il Conciliator, ma di mala voglia e senza
entusiasmo: Quod autem sub aequinoctiali continue habeantur ficus, aut quod aer
sit ibi temperatissimae dispositionis, aut quod aninialia ibi habitantia temperatam
habeant complexionem, aut quod paradisus terrestris ibi sit: sunt res quas experientia
naturalis nobis NON ostendit. Il che è ben detto pel paradiso terrestre, ma non
pell’altre cose ricordate, delle quali 1'experientia naturalis di arditi viaggiatori e missionari era cominciata d’un pezzo.
Il filosofo bolognese, che pur sa qualcosa di ciò che costoro narrano d’aver visto
e toccato con mano, senza avere il coraggio di negarlo, si contenta di dire che
è cosa che non riguarda i filosofi intenti alla ricerca del perché, bensì gli storiografi
cui spetta d' indagare se un fatto è o non è: Pro malori parte veritas illarum causarum
ex historia quia est dante, petenda est;
ideo haec historiographis relinquantur, et praesertim de Marco Veneto POLO aut dominico
indiano loquentibus. Chi sia questo
Domenico Indiano N. non sa dire. Ma
coloro che parlano e scriveo dell'India e delle terre australi sono più d'uno. Negli
anni stessi in cui Achillini compone il De
elementis, s'aggira pell’India e le terre australi Ludovico de Varthema, che pare, e non senza buon fondamento,
fosse oriundo bolognes. Usce per Benedictum Hectoris Bibliopolam Bononiensem l’edizione dei Quoliheta de intelligentiis, cui
l'autore premise dubia sollevati dal conte Rangoni, al quale l'edizione era dedicata,
insieme con le soluzioni di essi. Questi
dubia nelle edizioni successive sono stati rimandati in fine dell'opera. Tutti questi scritti hanno, in complesso, carattere stretta Che cordelarius in francese cordelier significhi francescano o
cordigliere, è sfuggito a Sante Ferrari, in quel suo volumaccio, pieno di
tanti spropositi, I tempi, la vita, le opere di SCHIAVONE, del quale N. parla a
lungoi, e il ove cordelarius è diventato un cognome, Cordellari! De eleni. mente
filosofico, se per filosofia s'intende, come s'intende allora, la teoria della natura
completata dalla metafisica. Le stesse questioni De suhiecto physiononiiae et chiromantiae e De
suhiecto medicinae, ben poco hanno che riguardi da vicino la medicina propriamente
detta. Tuttavia dalle Anotomicae annotationes, pubblicate postume dal fratello si
può ricavare che maestro ACHILLINI, il
quale regge una delle cattedre di Medicina Teorica, fu condotto a discutere di anatomia e
di FISIOLOGIA – theoria della natura GRICE.
In queste Annotationes infatti egli accenna più volte ad osservazioni da
lui fatte. Lo studio bolognese, da quando Achillini assunse l'insegnamento
della Medicina Teorica ha quasi sempre tre maestri deputati ad lecturam chyrurgiae,
che di solito aveva per testo fondamentale l’Anatomia del Mondino, sulla guida del quale si conducevano
le dissezioni dei cadaveri o anotomie, che si facevano con speciale messa in scena,
pari a quella non meno solenne pella confezione della Triaca. A queste anotomie
assistevano maestri e scolari e pell'occasione si sospendevano per otto o dieci
giorni le lezioni. Siccome Achillini non fu mai deputato ad lecturam chyrurgiae,
è verosimile che egli, come maestro di Teorica,
abbia preso parte a qualcuna delle abbastanza frequenti anotomie tenute negli anni
da lui stesso indicati e in altri ancora. Fra i maestri deputati a leggere Pazzini,
La scoperta della membrana timpanica, nella
rivista Valsalva scrive. Achillini lesse anatomia a Bologna, ma per breve
tempo. Riprende la cattedra. La notizia è inesatta per più versi. Una cattedra d'anatomia a Bologna allora non esiste.
Di anatomia si occupano il professore di Teorica, quando fa lezione su un testo
di anatomia, per es. su talune parti del Canon di Avicenna o su alcuni trattati
di Galeno ecc., e il professore di chirurgia. Achillini fu sempre professore di
Teorica. Oltre a queste anotomie pubbliche,
ve n'erano del resto anche di private che i maestri facevano per proprio conto, quando ne avevano la possibilità,
a scopo d'indagine scientifica. Martinotti, L' insegnamento dell'anatomia a Bologna,
Studi e memorie pella Storia dell'univ. di
Bologna, Bologna. Ma l'autore non dà esempi pel periodo d’Achillini né dice
che fossero frequenti. Chirurgia, insieme
a Domenico della Lana, che già insegnava da vari anni, e a Biagio de'Mercuri, ucciso, compare nello studio bolognese la figura
di Jacopo o Berengario da Carpi, detto semplicemente il Carpo. Questo illustre
maestro, che gode della protezione d'Alberto Pio, signore di Carpi, commentando il Mondino, ha a correggerlo su molti punti, e domina la chirurgia bolognese del suo tempo, cui apre nuove vie, fino
alla sua partenza per Ferrara. A proposito della scoperta del martello e dell'incudine nell'orecchio medio,
gli storici della medicina sono incerti s’attribuirla ad Achillini o al Carpo, e
sembrano quasi insinuare che vi fosse rivalità
fra i due colleghi bolognesi. Il certo è che Achillini nelle Annotationes
non ne fa cenno; e d'altra parte Carpo, nei Commentaria cum amplissimis additionihus
super anatomia Mundini, stampato a Bologna, per Hieronymum de Benedictis. Pridie
Nonas Martii, QUANDO IL COLLEGA ERA MORTO DI QUASI NOVE ANNI, trattando nel comm.
di questi due ossicini, lungi dall'attribuirsene la scoperta, e informa che sunt
aliqui qui volunt quod illa ossicula moveant aerem intra stantem et panniculum praedictum.
E anche nelle Isagogae breves et exactissimae in anatomiam humani corporis, lo stesso
Carpo torna a parlare dei duo ossicula e delle varie opinioni per intenderne la
funzione. Se se ne discute, ed altri avevano opinioni diverse da quella di maestro
Jacopo, è segno che questi duo ossicula sono notati da qualche tempo. Forse in qualcuna
delle anotomie tenute dallo stesso chirurgo, e alle quali un maestro di teorica,
qual è Achillini, non puo rimanere estraneo Giacché è ri-saputo come nel corso appunto
di queste anotomie e nelle discussioni inevitabili a cui danno occasione, sono notate
discordanze, le quali ogni giorno crescevan
di numero, fra l'esperienza e le trattazioni anatomiche di Galeno, di Avicenna,
di MONDINO (vedasi) o di Ugo da SIENA (vedasi), e si venne rinnovando la scienza
anatomica. Achillini gode dunque a Bologna della più alta considerazione COME
FILOSOFO e come medico e Del resto l'attribuzione di questa scoperta ad Achillini
si fa risalire a ciò che ne dicono Eustachio
Rudio e Giulio Casserio piacentino. Pasquali Alidosi, I dottori bolognesi
di filos., Bologna, del favore dei Bentivoglio che gareggiavano coi signori di
Ferrara e Urbino e coi Medici nel proteggere gli studi, le arti e i begli ingegni,
Il fratello d’Achillini porta a termine il suo enfatico e strampalato
poema intitolato Viridario, stampato a
Bologna per Hieronymo di Plato Bolognese, e dedicato a de Medici Cardinale, bora Leone sommo
Pontifice. Il fratello d’Achillini tesse le lodi di Bologna. Prima delle donne e
dei gentiluomini illustri, poi degli studi che dan fama a Felsina. Fra i dotti bolognesi
due ne indica in particolare. L’uno è Campeggi, giurista di gran fama, che dopo
insegnare il diritto a Pavia e Padova, s'era fermato definitivamente a Bologna,
a meno che il fratello d’ACHILLINI non intenda
del figlio di lui, Lorenzo, che, insieme al padre, tene la cattedra straordinaria
di diritto civile, egli pure giurista di grido e futuro cardinale, cui saranno
affidate importanti e delicate missioni diplomatiche. L’altro è Achillini, che il
poeta, suo fratello minore, esalta con orgoglio e ammirazione: Dui lumi chiari,
ciascaduii divino: lune Campeggio, l’altro ACHILLINI. Di l’una legge e l’altra quel
Campeggio, si come e voce e ver, porta corona. Negl’altri studii ACHILLINI veggio, che theologia sparge in ogni
zona. l’alta PHILOSOPHIA laudar non deggio, che fama, e dell’altre arti, il mondo
introna. Me glorio, godo, e laudo il creatore che a questo unico son fratel minore.
Chi legge e intende l’opre sue superne, dove e insudato, gli da laudi gloriose e eterne. Hor pensi le lucubration, calami e lucerne scranno al letto
ed al lettor salute. D’un lustro a punto il mezzo camin varca, sei debito farà l’orrenda
parca che maestro ACHILLINI è DOTTISSIMO IN FILOSOFIA e nell’altr’arti lo
sapevamo; ma ch’egli s’è addentrato anche fu anche del consiglio degli Anziani.
Catalogus omnium doctoriini collegiatorum in artibus liberalibus, Bologna, un campo così diverso come
quello degli studi di teologia, ci sarebbe facilmente sfuggito, s’il fratello poeta
non richiama l'attenzione su questo aspetto della sua cultura. A dir vero, più volte,
leggendo taluni dei suoi scritti, N. s’è accaduto d' imbattersi, senza farci troppo
caso, in brani che, ben considerati, attestano nell'autore buona conoscenza
delle cose teologiche – INDEED EXACTLY AS IN GRICE, WHEN HE SAYS, “I surely can
commit to the 39 Articles without ever having read them” --, pari certamente a quella
di Bacilieri, il quale, averroista alla maniera
d'Achillini, non esita a dichiararsi pronto, s’il papa l'avesse gradito, a interrompere
l'esposizione d'Aristotele e, re-lieto lumine naturali, propositiones creditas magna
cum facilitate et brevitate resolutissimas
reddere. Achillini avrebbe dovuto essere presente come compromotore all'esame di
dottorato che quel giorno doveno subire maestro Spinola da Modena, che per un biennio
era già stato rettore dello studio et optime se habuerat in officio, e maestro Guido
da Pesaro. Dove invece farsi rappresentare d’un collega, perché tunc temporis iverat
Romam, ut interesset disputationibus
fìendis in capitulo generali fratrum minorum tam observantinorum quam conventualium,
grafia sui honoris, studiique nostri ac almae civitatis bononiae. N. dirà quanto
basta di questa disputa avvenuta in casa e sotto la protezione di Grimani. Il patrizio
veneziano Taiapietra protagonista di questa disputa, al capitolo generale dei frati
minori tenuto a Roma, giostra in difesa di quell'averroismo sigieriano che Achillini
difende durante un altro capitolo generale di francescani a Bologna. L' invito deve
essere stato rivolto ad Achillini Nella dedicatoria a Giulio II della lectura de
anima di Bacilieri, Pavia, N. Sig. d. Brab. nel pensiero
ecc.. A convincerci della buona conoscenza che ad Achillini non dove
mancare delle cose teologiche, oltre ai molti
luoghi nei quali egli mette in rilievo, su vari argomenti, il dissenso irriducibile
tra filosofi e teologi, basta ricordare i accenni alla libertà degl’angeli De orò., dub., alla grazia infusa {dub.), alla duplice natura in
Cristo [De eleni., art.), al peccato originale e alla giustificazione
{art.), alla transustanziazione – GRICE TRANS-SUBSTANTIATION -- e all'identità del
corpo di Cristo – GRICE ALMA MATER CORPUS CHRISI -- nel sepolcro e simili. Libro
segreto del collegio Mùnster, Achillini, Riv. di Storia delle Scienze Naturali]
da Grimani, per desiderio di Taiapietra stesso,
cui dove stare a cuore d'avere al suo fianco, nel pubblico cimento, un maestro
di tanta autorità, del quale condivide il pensiero. Però fu un peccato che maestro
ACHILINI è assente da Bologna quel giorno,
poiché maestro Bombaxia, priore del collegio di medicina, annota di suo pugno nel Libro Segreto del Collegio stesso:
Et eadem die habuimus opulentam colationem a doctoratis; usanza non del tutto infrequente,
e fatta oggetto, a quanto N. consta, anche di speciali norme regolamentari. Achillini,
che era priore del collegio, carica già da lui coperta altre volte, dove provvedere alla sua incolumità personale,
all'appressarsi delle milizie papali: Erat enim tunc temporis universa urbs in
sagis ob terorem summi pontificis, qui magnis et GALLORVM ET ITALORVM copiis ad
eam approperabat, ut urbem suam liberam in liberiorem redigeret; quod sibi sviccessit
fuga optimatum bentivolorum, qui tunc ei preerant, suscepta. Come fautore dei Bentiviglio, egli era fuggito a Padova, mentre nella carica
di priore gli era successo maestro de'Genuli. Giulio II fa il suo ingresso in Bologna,
e i maestri dello studio andano a rendergli omaggio: Beatissimus sumnius pontifex
Iullius papa secundus honorificentissime ingressus est praetorium fori bononiensis,
tanquam Dominus benemeritissimus; et nostra collegia iverunt obviani ei pedestres
usque ad mansionem prope positam strale maioris,
cum vestibus et biretis rosaceis et banale de variis, et beatitudinem suam associavimus
usque ad sanctum petrum. Sic enim consue visse alios collegiatos factitare, a Domino
Paris de grassis, Magistro ceremoniarum, accepimus. Fuggito da Bologna, Achillini
era accolto come maestro nella seconda cattedra ordinaria di FILOSOFIA NATURALE,
a Padova. Ivi appunto lo troviamo come concorrente del Pompo Libro segreto Mùnster Libro segreto nazzi che occupa la prima cattedra, come
risulta dal titolo dalla reportatio del corso di lezioni che il Peretto Mantovano
tenne sul De substantia orbis di Averroè: Expositio libelli de substantia orbis
ex. mi ac tempestate nostra naturalis philosophiae luminis Magistri petri pomponacci Mantuani. Patavij. dum primum locum ordinariae philosophiae, ad
concurentiam ex. mi ACHILLINI bononiensis, publice profìteretur. Sebbene Facciolati
pretende di sapere che maestro ACHILLINI era stato professore a Padova, e che ha
per antagonista – GRICE WARNOCK GRICE STRAWSON GRICE PEARS GROCE THOMSON GRICE
AUSTN JOINT SEMINARS GRICE QUINTON Pomponazzi, la notizia è smentita dai rotuli
bolognesi e dagl’altri documenti del COLLEGIO DELL’ARTI che danno presente a Bologna
Achillini ininterrottamente. Invece è certo che il mantovano ha a concorrente,
quando ritorna a Padova, l'alunno e socio – GRICE STRAWSON
PUPIL COLLEAGUE COLLABORATOR – d’Achillini, Bacilieri,
lino alla partenza di lui per Pavia, e, partito questo,
Fracanziano. Prima dunque che con Achillini, Pomponazzi s'era scontrato col
di lui fido Achate, che del suo Enea non era per altro che una pallida e sbiadita
ombra. Soltanto dunque Peretto si trova ad
avere per concorrente Achillini, del quale già conosce il pensiero. Ma a
giudicarne dal contenuto dell' Expositio libelli de substantia orbis, i dissensi fra i due, per quanto senza
dubbio notevoli, non paion tali da dover degenerare in risse. Anzi, non ostante
i dissensi, vi sono nell'esposizione pomponaziana molte pagine che il bolognese
avrebbe potuto sottoscrivere a piene mani. Così, per esempio, quando il mantovano
combatte la teoria avicenniana della forma corporeitatis coeterna alla materia;
o quando tratta della dottrina averroistica
delle dimensiones interminatae anteriori ad ogni forma corporea; o quando nega con
Averroè che le sfere celesti siano animate d’un'anima sensitiva, distinta dall'intelligenza
motrice, come pretende ugualmente Avicenna. Anche sul Cod. Vat.
Regin. lat. grosso problema An caeluni sit compositum ex materia et forma,
Pomponazzi si sforza di mostrare come le
varie opinioni in contrasto si possan difendere e come si possan
risolvere gl’argomenti che ad ognuna s’obiettano. Il suo aristotelismo e il suo averroismo insomma non
hanno la rigidità intransigente del pensiero d’Achillini. Col quale il mantovano
era in sostanza d'accordo anche nel dubitare della dipendenza delle intelligenze
e dei corpi celesti dalla causalità efficiente del primo motore, e altresì della infinità intensiva del
vigore col quale questo muove l'universo. La vera e profonda differenza fra l'uno
e l'altro maestro, trovatisi di fronte a Padova, è questa. Achillini accetta
integralmente l'interpretazione averroistica d'Aristotele, anche là dove altri aveva
visto discordanze fra il testo e il commento e nel pensiero stesso d'Averroè nota
non poche contradizioni, onde le molte opinioni
sul vero pensiero dello stagirita e le diatribe fra gli stessi averroisti, ciascuno
dei quali aveva in serbo il suo modo di risolvere quelle discordanze e contradizioni.
Quello del bolognese rappresenta uno dei sistemi più coerenti d'interpretazione
del pensiero d'Aristotele, dal punto di vista rigidamente averroistico. Per mezzo
di sapienti accorgimenti logici, suggeriti
dalla più scaltrita arte dialettica, per via d’impensati ravvicinamenti di
testi e di sottili distinzioni, le contradizioni spariscono, i contrasti sono conciliati,
le obiezioni mosse dai dissenzienti risolte, le dubbiezze dissipate. Di guisa che
il sistema aristotelico- averroistico, costruito con procedimenti deduttivi che
mentre scimmiottano quelli della geometria in realtà si risolvono in una caricatura del metodo matematico, ostenta una
compattezza in tutte le sue parti, sì da dare l'illusione della raggiunta
certezza, in cui l'animo si quieta e non sente più l'acre puntura del dubbio. In
questa superba convinzione d’essere ormai arrivato al segno che si tien gran miracol
di natura, e prossimo alla copulatio coll'intelletto agente, Achillini non
aspira orm.ai ad altro che ad
assomigliare ad Aristotele, del quale dice con Averroè: qui divinus potius
quam humanus; quoniam a M. D. annis cifra non est inventus error in eius
dictis alicuius momenti; naturae enim consiliarius extitit', De phys. auditu. A
Pomponazzi, al contrario, questa balda sicurezza dell'infallibilità d'Aristotele
e d'Averroè era venuta meno. Egli non soltanto afferma quod Aristoteles non fuit deus et ipse non novit omnia, ed ugualmente quod
Commentator erravit neque ipse est deus, ma spesso dichiara di non riuscire a intenderli,
che preferirebbe esser discepolo che non maestro, talvolta anzi non esita a qualificare
pazzesche, dal punto di vista della stessa ragione umana, le loro dottrine. Ma il
più spesso, da quell'uomo faceto che
era, più che incaponirsi a dissolvere gli argomenti dei suoi avversari, cosa non facile
senza accettarne taluni presupposti, il che l'avrebbe condotto ad invischiarsi in
un perpetuo circolo vizioso, senza via d'uscita, preferiva motteggiare con essi
e svignarsela con qualche piacevole e magari salace barzelletta. Esempi: stava esponendo
il De cado, e precisamente il commento averroistico al testo, là dove si pretende di poter dimostrare con arzigogoli sillogistici che il
mondo non potuisset esse nec maior nec minor, secundum philosophos, perché esso
ha d’esser proporzionato alle dimensioni dell'uomo, cum mundus sit propter hominem.
Questo modo d’argomentare stuzzica LA VENA UMORISTICA ldel Peretto: Modo, si mundus
esset maior, homo non posset vivere; nam si haberetis thalamum maximum, non possetis vivere, quia ibi esset nimis frigus.
Unde si Sanctus Petronius esset in decuplo maior, organum, quod nunc habetur, non
posset sentiri per totum. Similiter, si mundus esset maior, sol esset nimis parvus,
et sic non posset calefacere, et sic corrumperetur homo. Similiter, si esset minor,
nimis sol calefaceret, et ita non possent esse plures celi. Mundus ergo non potest
esse maior neque minor; et est sicut
dicebat illa bona mulier, quod virga bene manebat in vulva sua, et quod virga non
oportebat quod fuisset nec maior nec minor, nec grossior nec subtilior, nec curtior
nec longior; ita quod era, ut dicitur, a punto. Et hoc respondent fatui philosophi ad istam
dubitationem. E perché, mentre il moto violento dei proietti è più intenso da principio
e poi va rallentando, il moto naturale dei
gravi e dei leggieri est in fine velocior? La ragione ve la dà Averroè Arezzo, Bibl.
Laici Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo, ms. Parigi, ms. lat. Parigi ms. lat.
Et ponit conimentator huius rationem: v. gr., grave descendens in fine velocius
est quam in principio, quia confortatur ex desiderio finis et termini; ideo intenditur
desiderium, et intento desiderio intenditur
virtus motiva et motus. Exemplum do vobis: quando vos itis ad amicam et appropinquatis
illi, antequam figatis priapum, vos mandate fuor el seme in sulle cosce. Similiter,
quando aliquis est clericus, non desiderat papatum; sed quando incipit liabere sacerdotia
magna, incipit desiderare episcopatum, postea cardinalatum, et tunc, quando est
cardinalis, magnopere papatum desiderat,
quia illi est propinquus. Et ita dicit commentator. Commenta il primo
delle Meteore, e precisamente il capitolo della
pioggia, della rugiada, della grandine, della neve e della brina. Seguendo
passo passo il testo aristotelico e prendendo in esame le varie opinioni così poco
convincenti intorno alle cause del riscaldamento e raffreddamento, della siccità
e dell'umidità, esce in queste
dichiarazioni: Ego multos annos consideravi ista, et ex toto mihi non satisfacio,
et volo addiscere 2as dubitationes quas nescio solvere, et solutionem relinquo istis
meis sociis qui cenant cum deo et omnia sciunt. Domini, ego dico vobis sicut dicebat
Petrarca: Così ben io potessi con lingua exprimere quaelibet mente concipio. Domini
et filij mei, dicam vobis veruni: certe quo ad nostrum saeculum, multum laudo fratres
sancti Hieronymi, id est li lesuati, quoniam non student et nihil faciunt nisi dicant
Pater noster et Ave Maria. Et ita contenti vivunt et sine molestia. Et quantum ad alium saeculum, magis laudo, et mallem
habere conditiones Socratis, qui ad hoc devenit et dixit hoc: Unum scio quod
nihil scio, quam conditiones Aristotelis, quem credo quod multa finxerat se scire, quae tamen ipse ignoraret. Dico vobis
quod ista nescio solvere. Solvant qui continuo prandent cum deo qui habent intellectum
adeptum. I soci che pranzano e cenan con Dio e san
tutto, sono evidentemente quegl’averroisti che, come Achillini e Bacilieri, ritenevano
fosse concesso al filosofo di giungere, in questa vita, al termine dello sviluppo
filosofico e al congiungimento coll’inteletto agente, nel quale consiste il pieno
appagamento del desiderio umano di sapere. Giovio si trovava a Padova discepolo
del Peretto, quando questi ebbe per concorrente Achil Parigi, ms. lat. lini fuggito da Bologna; sì che quello che egli racconta
dell'uno e dell'altro è testimonianza di quanto ebbe ad osservare. Al grande cacciatore
d’aneddoti non pare vero di tramandarci qualche fugace impressione, colta a volo,
intorno ai personaggi del tempo, nei quali s'era imbattuto. Egli infatti niente
ci dice dell'insegnamento d’Achillini a Bologna. Ce lo rappresenta a Padova, averroista
che gode fama di solido e ben digesto sapere, mentre Pomponazzi, astioso rivale,
mosso d’ambizione, gli vuota la scuola. Un po'trasandato nel vestire e nel portamento,
ma con fronte sempre raggiante, sicuro
di sé, eccolo là al portico pretorio, nel circolo dei dotti, mentre nel rozzo gergo
scolastico affronta l'avversario e cerca d' irretirlo entro le maglie dei suoi bifronti
e cornuti entimemi. E talora sembra averlo abbattuto col vigore delle sue
stoccate. Ma il più delle volte quello sfugge alla presa del’armi dialettiche, l'impeto
dei colpi vibrati cade nel vuoto,, stornato d’una facezia o d’un motto salace, salsa
dicacitate, che suscita, in chi assisteva a quelle giostre di sillogismi, le più
scroscianti RISATE – GRICE IF I FEEL I NEED VALUE I HAVE VALUE --. Laughter in
philosophy, not at philosophy. Negli anni del soggiorno padovano Achillini attese
a riunire in un sol volume le opere che aveva stampate separatamente a Bologna e
che abbiamo elencate fin qui. La prima edizione
degli Opera omnia fu fatta a Venezia a spese degli eredi di Scoto. Essa comprende
i Quolibeta de intelligentns, il De orbibus, il De universalibus,.il De elementis
e le questioni De principiis chiromantiae et physionomiae, De potestate syìlogismi e De subiecto medicinae
Capparoni, Profili bio-bibliografici di medici e naturalisti celebri italiani Roma, dice
addirittura che a Padova Achillini ha a soffrire l'invidia di Pomponazzi
col quale sostenne non lievi dispute, avendolo ad avversario poco cortese e corretto.
Tutto questo mi pare che aggravi un po'troppo il racconto di Giovio Giovio, Elogia virorum literis illustrium. Basilea. In
questa edizione dell'opera di Giovio si trova quel ritratto d’Achillini che Mlinster
riproduce di seconda mano, dichiarando di non sapere donde provenga. Un ritratto
del filosofo bolognese Giovio possede nel suo museo a Como. Una copia d’esso, se
non proprio l'originale, si trova nel ballatoio della sala Fagnani presso la bibl.
Ambrosiana di Milano, somigliante all'immagine
degl’Elogia. Altro ritratto d’Achillini è posseduto dal museo dell'università di
Bologna. La dedica al Bentivoglio naturalmente
fu omessa. La partenza di questo insigne maestro lascia un gran vuoto nello studio
bolognese, e l’autorità accademiche, che non riuscivano a colmarlo, lo sollecitarono
a ritornare sulla sua cattedra, minacciandolo dell'ammenda di cinquecento
ducati d'oro e di pene anche più gravi, ove non avesse ottemperato all'ordine Così
egli fa ritorno in patria, ove riprese
la sua attività normale di dottore
del collegio dell’arti, e l’insegnamento della
filosofia naturale; tanto poco il
nuovo regime papale si preoccupa dell'opposizione che avrebbe potuto venirgli
dalla filosofia. Al periodo del ritorno a Bologna appartiene il De distinctionibus,
edito quivi, per Ioannem Antonium de Benedictis L'opera concerne i concetti trascendentali
di ente – GRICE MULTIPLICITY OF BEING -- , uno, vero – GRICE TRUTH -- , buono –
GRICE GOOD PROLEGOMENA, e quelli di
essenza – GRICE IZZING HAZZING,
di cosa, di identico – GRICE RELATIVE IDENTITY --e distinto,
della distinzione reale e della distinzione concettuale, delle formalità scotistiche, della
relazione e dei suoi fondamenti,
dell'analogia – GRICE POMPONAZZI VIRGA IN VULVA MAGNITUTE MONDI -- e dell'uso di questi concetti; di guisa che la trattazione
ci dà, di scorcio, un sommario di tutto il pensiero metafisico d’Achillini intento
a salvare e a conciliare la dottrina d'Averroè con quella dei maggiori – NON MINORI
GRICE BOSANQUET WOLLASTON -- maestri. Come
Da una lettera dei Quaranta riformatori
dello studio bolognese, pubblicata da Podestà, Di alcuni docum. ined.
riguardanti Pomponazzi, Atti e Mem. della R. Deput. di Storia Patria pelle
provincie di Romagna, Bologna, appare che i riformatori avevano già prima fatte
le loro rimostranze, perché s'era assentato senza licenza. Achillini s'era scusato
cum dire che ne fu concessa hcentia dal
M. co Sr. Confaloniero d' Justitia e che senza
di ciò non sarebbe mai partito. Ma i Quaranta repUcarono che la licenza non era
stata né richiesta né concessa nella forma valida. Perciò s'affrettasse a far ritorno,
se non voleva esser multato di 500 ducati
d'oro o colpito con altre gravissime pene nelle quali incorrono li nostri
doctori che partono da Bologna SENZA LICENTIA per andare a legere fora nelli externi
studi. Tuttavia l'AchiUini
non ritornò che un
anno dopo. Nel
Lib. Partitorutn (Arch.
di Stato di
Bologna, si trova
che con 19 su 19
fave bianche I conduxerunt Ex.m Artium
Doctorem, D. M.m Achilinis ad legendum in STUDIO BONONIE col salario di 900
lire bolognesi, integre e privilegiate, e alla condizione di leggere teorica
ordinaria al mattino e FILOSOFIA ORDINARIA la sera. La formula conduxerunt vuol
dire che si tratta di un nuovo ingaggio. maestro di teorica, commenta la
prima fen del
IV libro del Canon
d’Avicenna. Ripreso il corso delle lezioni, egli si dette a esporre il De physico auditu di Aristotele.
Ma l'esposizione è interrotta dagli eventi bellici. È noto come il grande
capitano Trivulzio, al servizio del re di Francia, riprende BOLOGNA al papa e come
ri-apre le porte al ritorno dei Bentivoglio. Ma Giulio II,
fatta lega, non tarda a usare dei servigi delle truppe PER FAR
BOMBARDARE BOLOGNA e ridurla all'obbedienza della chiesa. Sorpreso dagl’avvenimenti,
il maestro continua a far lezione finché gl’alunni, per fuggire all'assedio,
non disertarono lo studio. Penetrato di sorpresa in città Foix obbliga a SBLOCCARE
BOLOGNA. Ma dopo la battaglia di Ravenna, PERDUTO L’APOGGIO FRANCESE, i Bentivoglio
dovettero di nuovo prendere il largo.
Com'era suo costume, Achillini fa volentieri a meno di pubblicare questo frammento
d’esposizione del De physico auditu. Ed infatti egli non mai pubblica nessun commento
a scritti d'Aristotele o d'altri, bensì trattazioni originali sebbene ispirate al
pensiero d'Aristotele e d'Averroè. Perciò sorprende N. assai quello che Miinster
scrive degli Opera omnia
nell'edizione curata dall'autore
stesso: Si tratta in gran parte d’opere d'Aristotele, d’Alessandro Afrodisiaco,
d'Averroè ecc. provviste di commenti d’Achillini. Ma ch'egli, non che scorsa, non
ha mai visto in faccia questa edizione, è provato dal fatto Nel cod. Latino, BOLOGNA, si trova, tra
altre cose d’Achillini, una expositio supra prima Avicennae Frati, Indice dei codici
latini conservati nella R. Bibl.
Univers. di Boi., Firenze Fantuzzi, Notizie dei bolognesi, dice, senza
per altro citare la fonte, come tenendosi una radunanza di teologi, di dottori legisti
e d'altri uomini insigni, per consultare se si dovea ricevere il legato proposto
a BOLOGNA dal conciliabolo di Pisa, cioè
il Cardinale San Severino, fatto legato di quella radunanza e governatore
di BOLOGNA, gl’aderenti a' Bentivoglio sostenevano l'affermativa, e fra essi Achillini
piià d'ogni altro aringo con grande arte ed impegno per sostenerla. E se non potè
ottenere l' intento, ne venne però, che fu determinato di non ricevere né questo
né quello destinato allora da Giulio. Riv. di
St. delle Se. Med. e Naturah che fra le opere incluse in questa edizione
pone il De physico auditu, e il De niotimm proportione. Achillini, dunque, per sua esplicita dichiarazione, non
pensa affatto a dar in luce una nuova esposizione dell'opera aristotelica, parendogli
che bastano quelle latine che correvan pelle mani di tutti. In ciò fu imitato
da Pomponazzi, che non pensa mai a dare alle stampe alcuno dei numerosi commenti
ad Aristotele, lasciati inediti nelle riportazioni dei suoi alunni. Quello che decide
il bolognese a desistere dal suo proposito, è quanto egli stesso scrive in
principio del frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis Aristotelis librorum
interpretationes notis mandare, quoniam expositores Latini evolvere ipsos cupientibus
textum AristoteUs piane aperuerunt. Difficultates autem circa sententias
Aristotelis et Averrois contingentes, ex libris a me editis non difficile
erat comprehendere. Sed quia varii auditores
varia fragmenta philosophica, me legente, varie collegerant, et me inscio meo
nomine publicaverant, non passus sum ut, quae nostra non erant, prò nostris haberentur.
Ideo coactus sum haec scripta, tum apponendo
tum variando tum rescindendo, diligentius repurgare, ut ipsa, manu propria elaborata,
proprium auctorem recognoscerent. E alla
fine dell'opera: Hucusque nos prosecuti sunt audientes. Quod si amplius durassent,
noster labor longior fuisset. Et haec nostra recognoscens, fragmenta esse voluissem,
sed fractionum fragmenta sunt, quoniam eis comminutiva fractio supervenit, BONOMIAM armis impetentibvis et moenia machinis
deicientibus. Per giocondità del lettore N. aggiunge che nel volume della Storia dell'università di BOLOGNA di SIMEONI
(vedasi), Zanichelli, Bologna, si legge che Achilhni, Achillini, Expositio primi
Physicoriitn. E infine: Expli ciiint fragmentorum fractiones physicales ab Alex.
ACHILINI BOLOGNA ordinariam theorice de mane publice docente. Impresse per Hieron. de
Benedictis civem BOLOGNA. Questa avvertenza è stata omessa nell'edizione degli Opera omnia curata da Monti, e nell'edizione di
Monti, se non scopritore, è almeno il primo descrittore degl’ossicini dell'orecchio
nel suo De physico auditu. Con che Simeoni pare credere che in questa opera Achillini
S’OCCUPA DELL’ANATOMIA DELL’ORECCHIO! E questa dove essere un'opinione ben radicata
in SIMEONI, se anche poche pagine dopo scrive che il bolognese è celebre tanto COME DIALETTICO quanto come anatomico
e medico, e che le opere che d’ACHILLINI possediano che trattano tanto De universalibus
come De physico auditu, mostrano questo doppio
carattere. Ora nel De physico auditu non si parla affatto di cose attinenti
all'ANATOMIA – GRICE THE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION --, bensì di quello di cui
Aristotele parla in quest'opera e, fra l'altro,
anche degl’universali, ma dell'organo dell'udito proprio no. Un'altra opera composta
d’Achillini lasciata inedita è il De proportione motuum. L'argomento riguarda il
rapporto che Aristotele nella fisica stabilisce tra la forza, la resistenza e la
velocità del movimento, e il tentativo da parte di Bradwardine, Oresme ed altri
calculatores – GRICE MERTON -- di
tradurlo in un rapporto matematico o SIMBOLICO – AUSTIN SYMBOLO. Le dottrine di costoro, portate in Italia da
PELACANI (vedasi) da Parma, Parisius doctoratus, suscitano vive controversie tra coloro
che accettano la novità delle calculationes e gl’averroisti che alle nuove dottrine
sono piuttosto ostili. Achillini si mostra pienamente informato dello stato della
questione, allora dibattutissima anche a Padova e Bologna. Conosce e cita il commento
di Campano alla geometria d’Euclide, l'arimmetica di Nemore, i trattati calcolatori
di Bradwardine, Swineshead, Heytesbury, Oresme, Alberto di Sassonia, NICOLETTI, Marliani in sua quaestione subtili de proportionibus,
insomma tutta la letteratura dell'argomento, che noi oggi ben conosciamo attraverso le dotte e dihgenti ricerche di Maier. Intento
del maestro bolognese è quello di salvare le regole delle proporzioni formulate
d’Aristotele ed Averroè nella fisica e d’accordarle
colle teorie calcolatorie, a differenza di quello Die Vorlàufer BONAITUO
GALILEO GALILEI Roma; An der Grenze von Scholastik
u. Naturwissenschaft, Roma che pensa potesse farsi, pochi anni dopo la morte di lui, Pomponazzi. L'opera non potè essere
pubblicata dal filosofo bolognese perché prevenuto dall'improvvisa morte. Hain registra
quest'opera d’Achillini col titolo De distyibiitionihus ac proportione motuum, e
la dà stampata a Bologna, per Benedictum Hectoris. Ma il gesamtkatalog dichiara
l'esistenza di questa edizione zweifelhaft. N. la direi semphcemente INVENTATA.
Per due ragioni. Primo, perché nell'opera sono citati il De orbibtis e il De elementis,
sicuramente posteriori. Secondo, perché il fratello Filoteo che ne cura l'edizione
postuma, la dà come inedita, nella dedica a Leone. Itaque ACHILLINI ipsius
auctoris nomine quando ipse funere praeventus acerbo non potuit ea sanctitati tuae
nuncupatim dico. Ma, coll'animo profondamente amareggiato per gl’avvenimenti che
turbano la serenità dello Aliqui ergo ducti inani gloria voluerunt salvare Aristotelem;
Inter quos fuit Marilianus, qui construxit tractatum in quo intendebat salvare Aristotelem;
et aliqui fecerunt tractatum centra Marilianum. Et totus mundus apud me non
salvaret Aristotelem, et Aristoteles sibimet contradicit, et videbitur aperte errasse,
et una regula alteri contradicit. Fortassis enim quod decipior; sed iudicabitis vos per
dieta Aristotelis, quod non potest salvari. Aristoteles etiam fuit homo et decipi
potuit, sicut etiam possibile est me decipi. Pomponazzi, In
ynm. Phys., ms. aretino, Bibl. de' Laici. Giunto alla fine della sua riportazione,
l'alunno, che dal cod. della Kungl. Biblioteket di Stoccolma Giom. Crit. Filos.
It. appare essere quel Magister
Hieronymus Bonus o de Bono, da Bologna, laureato in Artibus et Medicina Libro Segreto
del Collegio, annota: P ribadire la
scoperta di Mondini, che l’altre pretese opere anatomiche non erano che una sola,
pubblicata con titoli diversi nelle varie edizioni, e per correggere l'errore accolto
anche da Renzi, pur così informato. Tuttavia, N. non ha voluto prestar fede neanche al Mondini e a Medici, e ha voluto rer.
L. e, Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia Fantuzzi dersi
conto de visti della curiosa vicenda. N. così constata che la prima edizione è quella
che vide la luce a Bologna, a cura del figlio d’ACHILLINI, col titolo d’Anotomicae
annotationes, nella stamperia di Benedetti, con dedica a Monti, che di maestro ACHILLINI
era stato alunno, ed ora tene la
cattedra ordinaria di medicina teorica, BONONIENSIS GYMNASII splendor immortalis,
nientemeno! Questa dedica ha nel frontispizio la ben nota xilografia, sormontata
dal nome ACHILLINI; sotto il ritratto d’ACHILLINI,
tre distici di Camillo da Correggio, artium discipulus. La dedica pare escludere
che vi fossero edizioni anteriori. La stessa opera, col titolo De humanis corporis anatomia, usce a Venezia,
per Io. Ant., et fratres de Sabio, colla stessa dedica del figlio d’ACHILLINI
a Monti. Terza stampa della stessa opera
è quella che apparve nel FascicuUts medicinae di de Ketam,
ediz. veneziana per Caesarem Arrivabenum. In questa edizione l'opera d’Achilhni
forma un trattato della raccolta, subito
dopo l’anatomia di Mondino, e porta questo titolo: Annotationes anathomie ACHILLINI honon.; ed anch'essa
ha la dedica a Monti. Dell'edizione di Venezia, in
fol. secondo Capparoni, in
4° secondo Hirsch, nessuna
traccia, sebbene altri la ricordino per sentita dire. Delle edizioni posteriori
N. non si occupa. Il colmo in questo pasticcio pseudo erudito è raggiunto da
Miinster il quale, dopo parlare della prima e della seconda opera secondo l'ordine di Capparoni e di Hirsch,
aggiunge di suo che le annotai, anatomicae pare non siano un nuovo trattato, bensì
l'unione delle due precedenti! Esempio tipico N. non sa se di disinvoltura o d'improntitudine
letteraria, da parte di troppi filosofi, avvezzi a copiacchiare come scolaretti
e a spacciare per certo quello che hanno appreso soltanto per sentito dire. Curioso
è il caso di Pazzini. Nello studio già segnalato,
sebbene parla di scritti anatomici, egli con questa espressione parrebbe tuttavia
intendere le sole Adnotationes anatomicae che nel Fascicuhis medicinae di Ketam
sarebbero state pubblicate, dice PAZZINI (vedasi), col titolo in Mundini Anatomiam adnotationes.
Invece nella storia della medicina, Soc. Editr. Libr., Milano, Queste Anotomicae annotationes che il maestro bolognese lascia tra
le sue carte, non costituiscono propriamente un'opera d’anatomia umana da dare alle
stampe, ma lo schema forse d'un'opera che egli anda preparando e pella quale raccoglie
osservazioni che gl’era accaduto di fare nel corso di diverse dissezioni anatomiche
predisposte da lui stesso o insieme ad altri colleghi. Queste dissezioni avevano
lo scopo di riconoscere nell'organismo umano
quello che si legge in Galeno o in Avicenna,
in Mondino o in Ugo da Siena. Nel corso di queste ricognizioni accade talora
ad Achillini di notare errori commessi dagl’anatomisti precedenti, e discordanze
fra quello che legge negli scritti di costoro e quello che gli rivela l'esperienza.
Spesso egli ha cura di descriverci il procedimento col quale egli conduce la dissezione, e di suggerire il
modo più adatto per mettere a nudo, senza lederlo, quell'organo o tessuto che si
ha in animo di studiare. L'opera è semphcemente abbozzata. Ma anche in questo stato, essa costituisce un notevole documento
di quello che s'anda maturando nelle scuole di chirurgia. Mentre le rumorose dispute
intorno al modo d'intendere i testi classici
dell'anatomia recano assai scarsa luce per una esatta rappresentazione della
struttura dell'organismo umano, gì'impetuosi torrenti di parole s'arrestano, le
ire si placano, quando gl’occhi dell'anatomista e di coloro che gli facevan corona
nell'anfiteatro, si fissano su quello che il coltello mette a nudo, e la luce dell'esperienza
rivela qualcosa di nuovo e d' insospettato. Il che del resto avvenne, non solo nel campo del coltello e dell'anatomia,
ma nel campo del telescopio, e del microscopio, e in tutte le ricerche concernenti
la natura, e non per influsso dell'umanesimo e del platonismo dell’ACCADEMIA, ma
per un processo di critica interna, quasi dirai N. di autocombustione, in seno
alle scuole darivate dal LIZIO. BONAIUTI
Galileo GALILEI stesso vien dall'aristotelismo e del LIZIO in via di dissoluzione.
Il ri-nascimento è frutto dell'approfondirsi e dell'estendersi dell'esperienza in
tutti i campi del sapere naturale. Com'è
noto, Monti, mentr'era professore vedo che è ritornato all'errore di Capparoni e
Hirsch. S’avesse dato un'occhiata alla memoria di Mondini e all'opera di Medici,
oltre alla correzione di questo errore, v’avrebbe trovato forse qualcosa che
poteva giovargli anche pell'argomento da lui trattato, riguardante la scoperta della
membrana timpanica.] a Padova, raccolse in un volume gli Opera omnia d’Achillini,
cioè tutte l’opere che il maestro bolognese stesso da alle stampe, più il De proportione
motuuni; e il volume, edito da Scoto a Venezia, fu dedicato al patrizio
veneziano e chiarissimo filosofo Foscarini. Perché ne lascia fuori l’Anotomicae
a?inotationes? Non certo perché egli non le ritenesse autentiche; ma verosimilmente
perché gh parvero, come sono, opera frammentaria, piii schema e materia di opera
che opera completamente delineata; o forse anche perché quelle note gli parvero
ormai sorpassate e di scarso valore, dati i rapidi progressi che l'anatomia in quegli anni anda facendo.
Sì che agli occhi dell'alunno editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere presa
ancora in considerazione e tramandata e meditata era opera di filosofo. E questa
sola egli intese tramandarci con l'edizione da lui curata. Con le Annoiationes Monti
trascurò altresì gì'inediti che non dovevano mancare sia tra le carte del maestro,
o dispersi in riportazioni di scolari. Se ora ci chiediamo quale è stato il giudizio complessivo
degli storici sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo constatare,
anzitutto, che troppi son coloro che ne hanno parlato per sentito dire. E questo
tanto tra gh storici della filosofia quanto tra quelli della medicina. Di costoro
evidentemente non è da tener conto. Come non è da tener conto di giudizi
come quello di Munster, il quale da ciò che
dell'Achilhni narra a modo suo Giovio, è indotto a rappresentarcelo come schizzoide!
Il primo che parla dell'averroista bolognese
dopo averne scorse le opere, se non tutte, almeno i Qitoliheta de
intelligentiis, fu, tra gli storici della filosofia, FIORENTINO nel suo POMPONAZZI.
E a quel che ne dice allora l'onesto Fiorentino si rifanno su per giù gli storici posteriori, trascurando però taluni
giudizi di questo e altri esagerandone fino a renderli irriconoscibili. Che Achillini
fosse un averroista, tutti a un di presso s'accorsero; ma 1^4 Tuttavia l’Anotomicae annotationes non furon mai
del tutto dimenticate e il nome d’Achillini vien ricordato d’anatomisti posteriori,
anche quando le sue opere filosofiche sono ormai cadute del tutto in oblio.
L. e, p. se averroista
di più o meno stretta osservanza pare dubbio. La tesi che l'intelletto possibile,
forma immateriale e incorruttibile, infima dell’intelligenze celesti, è unica per
tutta la specie umana, è certamente tesi averroistica. Ma pare a Fiorentino che
il bolognese si discosta dallo schietto averroismo, perché questo ritene 1'intelletto
forma assistente e non informante
dell'uomo, Achillini invece ammette che l’intelletto umano, pur essendo unico
per tutta la specie, è vera forma informante che dà all'uomo il suo essere d’uomo.
Se non che lo storico calabrese non pare s'accorgesse che con questa seconda tesi,
senza rinnegare la prima, la dottrina averroistica non era affatto parzialmente
abbandonata, ma anzi approfondita; e che, grazie a questo approfondimento, venivano a cadere tutte o gran
parte di quelle obiezioni che si facevano alla tesi averroistica, di spezzare l'unità
del soggetto umano cui s'attribuisce l'atto d' intendere. E già prima, Sigieri e
Wilton, NICOLETTI e Pico, coetaneo del bolognese,
interpretano il pensiero d'Averroè alla stessa maniera; e questo non per motivi
di fede, ma per eliminare dalla dottrina
aristoteUco-averroistica un assurdo evidente sul quale speculano gl’avversari
dell'averroismo; tanto vero che l'anima razionale che vien detta informare l'uomo,
resta in sé unica per tutta la specie umana. Non è pertanto esatto l'affermare che
ogni seguace d'Averroè ritene l' intelletto forma assistente dell'uomo e non forma
dans esse. Fiorentino è stato colpito anche d’un passo del De eiementis, ove si parla dell'unione dell'
intelletto coll'anima sensitiva dell'uomo, e dove Achillini torna ad esporre
con nuovi particolari la sua dottrina sigeriana esposta nei Quolibeta de intelligentiis.
Ad un certo momento si domanda: Quomodo stat opinio Aristotelis cum fide? giacché
tanto l'interpretazione che dà del pensiero dello Stagirita Averroè, quanto
quella che ne dà Alessandro d'Afrodisia,
secondo la ragion naturale, discordan dall'insegnamento della fede. E il nostro
averroista risponde: Il fatto ch’entrambe discordin dalla fede significa che tutte
e due son false, e che su questo punto, come su altri non pochi, bisogna che noi
credenti abbandoniamo il filosofo. Ma dovendo scegliere a lume di ragione tra
quelle due interpretazioni, entrambe false, quella che ha I miglior verisimiglianza,
sceglieremo quella d'Averroè, perché, sostenendo questi che l'anima è forma informante
che dà all'uomo l'essere di uomo viene a dire che l'intelletto, nell'atto d’unirsi
all'uomo, termina il processo della generazione umana e quindi ha in qualche modo
un cominciamento nel tempo, come appunto insegna la fede. In tutto questo N.
non vede né incertezza né spossatezza da
parte d’Achillini. Né tanto meno che egli si senta spinto ad accettare l'averroismo
dopo averlo dichiarato falso. L'opposizione tra molte tesi difese d’Aristotele e
la verità cristiana è comunemente ammessa, da quando Alberto Magno proclama che
theologica cum physicis principiis non conveniunt, e che al filosofo che voglia
trattare delle cose naturali secondo i principi
della ragion naturale non deve importare dei miracoli della fede. È vero
che AQUINO, combattendo l'interpretazione averroistica del pensiero
d'Aristotele, s'è adoprato ad accordar questo col pensiero cristiano. Ma questo
concordismo d’AQUINO non è parso né di buon gusto né di buon augurio, non solo ad
averroisti come Sigieri, discepolo in questo d'Alberto Magno, ma nemmeno ad alcuni teologi che si ribellano al tentativo
de Aristotele haeretico facere omnino catholicum. E molti, non solo maestri in artibus,
ma anche teologi e commentatori delle sentenze di Lombardo, ritennero perfettamente fondata sul
testo aristotelico e legittima l'interpretazione averroistica, salvo quando questa
discorda da quella d’altri commentatori autorevolissimi, come Alessandro, Filopono od altri specialmente greci. Ora ai tempi
d’Achillini e Pomponazzi, a BOLOGNA come a Padova, è obbhgo di leggere e discutere
il testo aristotelico E il commento d'Averroè. Averroisti si diceo tutti quelli
che, rifiutando il concordismo d’AQUINO, d' ispirazione avicenniana, mostrano ripugnanza
a miscere diversa brodia, e, per quello che concerne il pensiero aristotelico,
s'attenevano al commento averroistico. Il che non implica Fiorentino Metaphys.,
De gen. et corr. Rivista di Storia d. Filos. affatto che essi dove accettare le
dottrine d'Aristotele quali sono esposte d’Averroè come loro proprio pensiero.
Gl’averroisti potevano quindi con perfetta coerenza dichiarare che la dottrina dell'eternità
del mondo e dell'unità dell'intelletto è dottrina vera e necessaria nel sistema del pensiero aristotelico, ma che
questa dottrina è falsa secondo la fede che s' ispira all’angelo e non ai libri
d'Aristotele. Il che è perfettamente vero anche per noi, dice N. Questo non hanno
ancora compreso taluni storici della filosofia. Uno dei quali, dopo aver detto che
enger an dem averroistischen Aristotehsmus schloss sich ACHILLINI an aus BOLOGNA,
war PROFESSOR der philosophie, zuerst in
Padua (!), in Bologna, wo er starb, aggiunge: So weit Aristoteles von dem christlichen
Glaubensstandpunkt z. B. hinsichtlich der
Schòpfung der Welt abweicht, ist er ini Sinne der Kirchlichen Lehre zu korrigieren.
Il qual giudizio vien trasportato di sana pianta nella massiccia storia della filosofia
d’ABBAGNANO, U.T.E.T. In realtà la
preoccupazione d’Achillini costante è quella di correggere la dottrina aristotelica
nel senso dell'insegnamento
ecclesiastico. Ma egli v'aggiunge qualcosa di suo, che aggrava Ueberweg-Moog, Die Philos. der Neuzeit,
Berlin. E già prima Renan, Averroès et l'averr., Parigi: Tout en reconnaissant
que sur ces deux points, l'unite des àmes et 1'immortalité collective, la doctrine
d' Averroès est conforme à Aristote, ACHILLINI rejette expressement ces théories
comme opposées à la foi. E cita
Ritter, Gesch. der neneren Philos., citato anche da Fiorentino. La stretta
aderenza d’Abbagnano a Moog appare anche da quel che l'uno e l'altro dicono di
ZIMARA. Scrive Moog: Noch
strenger hielt am Averroismus fort ZIMARA aus
Neapel. In ihnen Schriften suchte auch er den Averroismus mit Kirche zu vereinen. Die Einheit
des menschlichen Intellektes wird von ihm als Einheit der allgemeinen Erkenntnisprinzipien
gedeutet. E ABBAGNANO
SU ZIMARA: E lo stesso, di spogliare l'aristotelismo e l'averroismo dei loro caratteri
originari in omaggio ad una preoccupazione dommatica, accade nelle dottrine del napoletano ZIMARA, ma s’era di S. Pietro in
Galatina presso Otranto, tanto che a Padova lo chiamano l'Otranto o l'Otrantino!,
anch'egli professore a Padova, il quale interpreta l'unità dell'intelletto, sostenuta
dall'averroismo, come l'unità dei principii universali della conoscenza. Dello stesso
avviso pare è anche SAITTA, Il pens. ital. nell'umanesimo e nel Rinasc, Bologna.
Le sue Contradictiones assai l'errore dell'autore tedesco: L'aristotelismo e l'averroismo sono stati qui
spogliati dei loro caratteri originari, in omaggio ad una preoccupazione dommatica.
Preoccupazione che Achillini, al pari degl’altr’averroisti, non mostra mai
d'avere, anche quando, constatata l'opposizione fra Aristotele e il dogma, dice
esser dovere del credente che tale voglia rimanere di ripudiare Aristotele, non
di correggerlo, che vorrebbe dire travisarlo.
In questo i nostri vecchi sono onesti e coerenti. L'ottimo Garin ricorda la breve
preghiera che si legge in principio del De elementis: Luminum clarissima lux, qua
ac solutiones ex dictis Aristotelis et Averrois parlano dell'unità dell'intelletto
di tutti gl’uomini come l'unità dei principii universali del conoscere. Moog ed
Abbagnano non citano alcuna fonte della loro affermazione. Saitta invece cita le Contradictiones di Zimara,
senza però indicare un punto preciso. Ma egli non deve averle lette. Che lo ritengo
troppo intelligente, se l’avesse lette, da lasciarsi scappare simile affermazione.
E allora? Allora Moog, Abbagnano e Saitta
derivano, direttamente o per via indiretta, il loro giudizio da Renan, Averroès
et l'averroisme, ove appunto accade di
leggere. L'unite de l'intellect
est adoptée dans le sens de l'unite des principes communs de l'esprit, mais ouvertement
rejetée en ce sens qu'il n'y aurait qu'un seul principe substantiel de la raison
humaine. E Renan cita le solutiones contradicionum,
Averrois opera, dell'ediz. di Venezia, più semplice e più comodo era citare le stesse
solutiones contrad. super de
anima, contr. Se Moog, Abbagnano e Saitta si fossero presa la briga d’andare a vedere
questo luogo di Zimara, avrebbero potuto constatare, con non poca sorpresa, che Renan quel giorno dove essere febbricitante o
ubriaco o fortemente distratto, giacché
l'averroista otrantino in quel luogo DICE ESATTAMENTE IL CONTRARIO. Ivi Zimara, che s'era proposto di conciliare un'apparente
contradizione fra due affermazioni d'Averroè,
riporta un brano del commento di Temistio al De anima, ove si legge appunto. Unde enim communes illae animi
conceptiones prae-notionesque communes omnibus haberentur? Unde indigentia illa impressaque omnium mentibus primorum
notitia constitisset, natura duce, nulla ratione, nulla doctrina? Unde postremo intelligere mutuo et intelligi vicissim possemus, nisi iiniis singularis intellectus fttisset,
quem communem omnes homines haberemus? Platone,
osserva Zimara, con un simile ragionamento dimostra l'esistenza dell’idee. Temistio
ed Averroè lo usano per dimostrare l'unità dell'intelletto; se no, bisogna ammettere
che la scienza nell'alunno – STRAWSON -- si genera da quella del maestro –
GRICE -- a quel modo che, secondo
Aristotele, il fuoco si genera dal fuoco. Hoc autem sequitur secundum ponentes pluralitatem
inteUectus, ut ipse Averroès opinatur. Niente di più si legge nell'opera di Zimara,
il quale non si chiede affatto se questa
dottrina s'accordi o meno colla fede. A lui basta chiarire il pensiero d'Aristotele
e del suo commentatore, eliminando le contradizioni. L. e.
omnes aliae veritates illiistrantur, me per
umbras materiae tutum ab errore per Filium hominis ducas in te ipsum. E l'accenno
a una breve preghiera è anche in principio del De physico aiiditu: Deus illuminatio
mea [OXFORD] sit. Dominus
illuminatio mea (Latin for 'The Lord is my light') is the incipit (opening
words) of Psalm 27 and is used by the University of Oxford as its motto. It has
been in use there since at least the second half of the sixteenth century, and
it appears in the coat of arms of the university. An article written in
2000 by the Roman Catholic priest and theologian Ivan Illich (1926–2002) may
help to explain this ancient university motto, at a time when scientists were
progressively replacing the concept of vision as a gaze radiating from the
pupil by the concept of vision as the retinal perception of an image formed by
reflected sunlight: To interpret De oculo morali, the relationship of
things to God "who is light" must be understood. This is the century
[i.e., the thirteenth century] suffused by the idea that the world rests in
God's hands, that it is contingent on Him. This means that at every instant
everything derives its existence from his continued creative act. Things
radiate by virtue of their constant dependence on this creative act. They are
alight by the God-derived luminescence of their truth.[1] Other
uses[edit] Dominus illuminatio mea is also the motto of Loyola High School
(Kolkata) in India, founded in 1961.[2] It is one of the two mottos of
Robert College in Istanbul, and it has appeared in the arms of the Robert
College Alumni Association since 1957, next to Veritas.[citation needed]
It is also the motto of Finlandia University, founded as Suomi College in
1896.[citation needed] Additionally, it is the motto of Cair
Paravel-Latin School, a private college-preparatory school in Topeka,
Kansas,[citation needed] and Nazareth Academy in Rochester, New York. It is
also used by St Leo's College, University of Queensland, and by Drew University
in Madison, NJ.[citation needed] It is found in the coat of arms of
Montessori Professional College in Quezon City. Furthermore, it is the
motto of Hallfield Independent School in Birmingham, UK, and Marymount
Secondary School in Hong Kong, as well as Gregorian Public School in Kerala,
India.[citation needed] References[edit] ^ Ivan Illich, "Guarding
the Eye in the Age of Show" (PDF). Online Book, 2001, p. 16-17. ^
"Loyola High School (Kolkata)". Loyola High School Website. Archived
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dubitatur. L'uso di dar principio ad un'opera, ed anche alla lezione, nel nome di
Dio, era un tempo costume di ogni buon cristiano non meno che d’ogni fedele maomettano.
Perciò non pare strano di trovare che
anche Pomponazzi al suo corso di lezioni sul De substantia orhis, premette una oratiuncula
accomodata, della quale però il raccoglitore delle lezioni non riporta il
tenore. Né si creda che questo fosse formalismo o ipocrisia. Nella maggior parte
dei casi, non vi sono serie ragioni per dubitare della sincerità di chi si protesta
buon cristiano, senza per questo rinunziare alla sua libertà d' interprete del pensiero aristotelico;
libertà che, all’avviso di N., non che nuocere ha giovato molto alla fede, non costretta
violentemente negl’artificiosi schemi d'un sistema filosofico ormai in via di
dissoluzione. E così maestro Alessandro, l'averroista Achillini, poteva riposare
tranquillo nella chiesa di S. Martino, a
Bologna, come il Peretto mantovano in quella di S. Francesco nella sua città natale, sotto le grandi ali del
perdono di Dio. Cod. Vat. Regin. lat. Di averroisti della corrente di Sigieri di
Brabante nel Rinascimento italiano m'era accaduto d' incontrare, alcuni anni addietro,
Pico, Achillini, Nifo, Bacilieri e Bernardi. Ma il gruppo dei sigieriani dove
essere più numeroso, e ad esso parrebbe che avesse aderito, in un momento del suo
sviluppo intellettuale, anche Pomponazzi,
come N. dimostra. Ma fu, da parte del Peretto, l'ultimo tentativo di salvare
l'esegesi averroistica d'Aristotele; dopo di che, s'orienta decisamente verso l'alessandrismo.
Invece un altro convinto sigieriano è il patrizio veneziano Taiapietra o Taiapiera.
Costui, figlio del quondam Quintin di Taiapietra, dopo essere stato a studiare a
Padova, richiamato in famiglia per
dedicarsi alla vita pubblica, come si convene ad uno del suo rango sociale, s'accosta a Grimani
del titolo di S. Marco e patriarca
d'Aquileia, non che munifico protettore degli
studi e degli studiosi, per averne appoggio. Fu senza dubbio per
suggerimento di Grimani che Taiapietra si prepara a un pubblico cimento per coronare
col dottorato in filosofia la carriera di studi intrapresa a Padova e terminata colla Dal Giorn. Crit. d. Filos.
Ital. Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma,
Edizioni Italiane Paschini, Grimani
cardinale di S. Marco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura] licentia docendi,
ossia col titolo di magister artium. L'occasione d’una pubblica disputa s'offre
colla convocazione del capitolo generale dell'ordine dei frati minori, del quale Grimani era cardinal protettore. L'uso
di siffatte dispute in occasione di capitoli generali dei vari ordini religiosi era una veneranda usanza, vecchia d'oltre
due secoli. Sollecitato dunque da Grimani, Taiapietra si reca a Roma per dar saggio
del suo sapere. La pubblica discussione ha luogo in una solenne riunione di dotti
tenuta nella residenza abituale del cardinale a Roma. L'indomani mattina, domenica
della Trinità, il dottorando è presentato
a Giulio II perché si degna conferirgli il titolo di dottore in artibus. La cerimonia
è così ricordata nei suoi diari da Grassi, maestro delle cerimonie di Giulio
II. Dopo la messa cantata d’Arboreo e la
creazione da parte da Giulio II d’un milite
aurato, dice Grassi: Creatio doctoris in
artibus per papani in capella. Cum adhuc
papa sederet, superveneruiit Cardinalis de Grimanis et orator venetus qui rogarunt
papam, ut dignaretur quendam dominum magistrum Taiapietra doctorem in artibus creare,
qui, ut testificati sunt, bene se gessit in disputationibus cum fratribus ordinis
minorum qui venerant ad capitulum generale etc. Et sic sua Sanctitas absolute, id
est sine cerimoniis, ipsum genuflexum creavit
doctorem hoc modo, videlicet:
papa ante doctorandum genuflexum hec verba dixit, videlicet: Intelleximus a Cardinali
de Grimanis et ab oratore veneto quod sis in artibus exscellens et doctus, quodque
in disputationibus pridianis que apud edes suas habite fuerunt te laudabiHter exhibueris;
propterea nos, tam ad predictorum relationem, quam etiam ad intuitum tue virtutis
et meritum, creamus te doctorem in artibus,
dantes tibi omnia privilegia que alii in quibuscumque studiis et universitatibus
habere consueverunt, in nomine patris et fìlii et spiritus sancti. Quo facto ipse doctor osculato pede
pape, illi gratias agens, recessit. Et Cardinalis de Grimanis et orator predicti
gratias etiam pape egerunt. Il venerdì
successivo la notizia del fatto era già arrivata a Venezia, poiché Sanudo la registra Fra i presenti alla disputa era Achillini. Cod. Vat. lat. Diarii, con parole che attestano la fedeltà del
cronista: Item, come a dì. Taiapiera, quondam sier Quintino, tene le conclusion
in casa di Grimani. Et el cardinal episcopo d’Urbin disputa contro una, dicendo
l'è eretica. Grimani la mantenne, et vince. Et così a dì il papa lo dotoroe.
Siccome la notizia giunta da Roma non indica
il giorno esatto della discussione e quello del conferimento del titolo
dottorale, l'onesto Sanudo lascia i due spazi
in bianco. In compenso ci trasmette due notizie preziose. Quella dell'IOBJEZIONE
che GABRIELLI, vescovo d’Urbino, ha a fare
a una tesi sostenuta da Taiapietra, perché, a suo parere, l'è eretica, e
quella dell'intervento DI GRIMANI in favore del
suo protetto. Del resto, prima della fine del mese il dottore era già di
ritorno a Venezia; poiché negli stessi diarii di Sanudo si legge Fo gran conscio. Vene uno dotor,
vestito de scarlato, s’ha dotorato a Roma, Taiapiera, quondam sier Ouintin. l'o
fato podestà de Verona, et niun non passa. Da questo momento egli entra nella carriera
amministrativa e politica, e N. non sa se si sia più occupato di filosofìa. Nei Diarii del Sanudo il
suo nome ricorre spesso, ma sempre pelle cariche ricoperte in servigio dello stato
veneziano. Ciò potrebbe spiegare perché il nome di Taiapietra è sfuggito anche al
diligentissimo Ferrari che l'omette sì nel suo grande onomasticon. Né in fondo avrebbe
interessato molto neppur me, se il suo nome non è legato a un suo libro del quale
N. ritiene valga la pena dire qualcosa. Questo libro s'intitola: Sunima divinarum
ac naturalium difficilium quaestionum Romae in capitiilo generali fratrum
minorum per Taiapietra, patritium Venetum, puhlice discussarum. E fu stampato a
Venezia a domino Pincio Mantuano. Il libro fu pubblicato prima della discussione,
che evidentemente era stata preparata per tempo dal cardinal Grimani, cui la Summa è dedicata. Recandosi a
Roma, Taiapietra porta con sé il volume, come programma della pubblica discussione.
Così fa Pico, pubblicando le novecento condusiones pella disputa che si tiene a
Roma. Così fa anche Querini, altro patrizio veneziano, quando s'appresta a discutere,
parimenti in Roma, le sue condusiones, in Ecclesia Sanctorum Apostolorum. L'opera, è dedicata dall'autore a Grimani. Nella dedica
Taiapietra accenna al distacco forzato dallo studio patavino: quum mihi mine redeunduni
esset ad meos, qui me in patriam ex celebratissimo gymnasio patavino, in quo octo
iam perpetuis annis vitam non minus honestam
quam studiosam duxi, centra propriam ferme voluntatem revocabant. A Padova
dunque aveva dovuto recarsi quando v'era
ancora Nifo da Sessa. Costui, alunno di Vernia,
comincia a insegnare a Padova nella seconda
scuola di filosofìa STRAORDINARIA, ove professa la dottrina averroistica di Sigieri
di Brabante. Era stato promosso alla seconda scuola ORDINARIA come concorrente del
Pomponazzi, col quale debbono essere cominciati fin d'allora i litigi. E quando il mantovano si dimise dall'insegnamento,
Nifo fu chiamato a succedergli. In questi anni egli, ambiziosissimo e astuto, mentre
si da da fare per schivare l'accusa d'eresia, combattendo l'averroismo prima da
lui professato per non Nifo, De
intellectu Longo tempore Averroy vacavi et, ut dixi, hanc opinionem di Sigieri
sequebar ad mentem eius; Destr., dub. Peccatum meum longo tempore. Dalle
indicazioni cronologiche fornite da Nifo
stesso in quest'ultimo scritto, Disp., dub., quaestio, parrebbe che ciò vada riferito
al periodo prima. Dalle quali indicazioni
si dove dedurre che egli fosse nato prima,
come nell’arbole de casa Nipho nel voi. ms.
Historia e documenti della famiglia Nifo,
posseduto da Croce) inimicarsi Barozzi, anzi per procacciarsene la benevolenza,
come fa nello stesso tempo quella vecchia volpe di maestro Nicoletto, era riuscito
a circuire molti membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane che
a Padova veneno per fare i loro studi e procacciarsi il titolo di dotor tenuto in
gran conto dal governo della serenissima e quasi direi indispensabile pell'accesso
a talune cariche dello stato. Suoi discepoli erano stati Querini, Bernardo e Giustinian,
l'amicizia dei quali si compiace spesso di ricordare. A Bragadin, patrizio veneto,
dice egli stesso d'aver dedicate certe sue quaesiiones de anima che non mi risulta
fossero mai stampate; a Donato dedica l'edizione
da lui curata del prologo d'Averroè alla fisica; a Sebastiano Tutti e tre son ricordati nei Collectanea
De anima, e nel commento alla Desimciio,
prol. dub, dub. Da quest'ultimo luogo si rileva che tanto Geronimo quanto
il padre sono morti prima di quando il commento alla Destritctio fu stampato.
Nel luogo citato dei Collectanea, oltre che ai tre patrizi veneziani ricordati, raccomanda il suo libro anche a Campesano,
filosofo di Bassano che in quegli anni studia a Padova. Egli è il padre del poeta
di Bassano Campesano Vergi, Notizie intorno alla vita e alle opere degli scritt.
d. città di Bass., e. I, Venezia. Collect.,
prohemium: In questionibus meis libri de anima inscriptis domino Bragadeno patricio
Veneto. Sanuuo, Diarii, ricorda una disputa
avvenuta in Venezia alla presenza del patriarca intorno ad alcune tesi pericolose,
e fra coloro che intervennero ad essa menziona Pisani, Dandolo, Zorzi, Michiel,
Pasqualigo, dottori, Corner, Michiel, Bragadin doctissimi in philosophia. Nota invece
la mancanza di Zustinian, dotor, che leze philosophia. Su Bragadin, v. Zeno, Giorn. di letter. Scrive Garin a proposito dei primi scritti del Nifo {Rinascitnento. Innanzi all'edizione dellafisica,
v'è una lettera di ringraziamento a Donato. In uno degli esemplari esaminati da
GARIN la dedica è sul verso di una carta che sul recto reca una lettera con cui
Nifo presenta pell'approvazione il suo commento alla Destructio destritctionum.
E più oltre: Ad ogni modo esce l'edizione curata da Nifo della fisica col commento
d'Averroè. Dove Garin trova che questa edizione della fisica sia stata curata da
Nifo, N. non sa. N. sa, invece, che la lettera del Nifo, anzi del Niffus de Suessa
a Maestro Grassetto, francescano e inquisitor dell'eretica pravità (vedetelo divotamente
genuflesso ai pie' della Vergine, a Padova, nella chiesa del Santo, di fronte alla
tomba di Trombetta), è sicuramente posteriore alla stampa del Badoèr il De intellectu, sostanzialmente rimaneggiato
e pubblicato pelle stampe quando aveva ormai detto addio a Padova e prima ancora
all'averroismo; per Bernardo compone il De sensu agente, pubblicato quando Bernardo
era morto, e dedicato a Spinelli, patrizio partenopeo; al Giustinian dedica il commento
In Metapysicae composto assai prima su preghiera di Bernardo, il cui nome il Nifo accoppia sempre a quellodel Giustinian; a
Santo Moro, altro patrizio che commenta alla Desiriictio, non solo perché si riferisce
a questa, ma perché è stampata nel recto di un mezzo foglio facente parte dell'ultimo
quinterno di questo volume; l'altra metà contiene due pagine della Destnictio (quinterno q,). Il verso poi del mezzo foglio, al cui recto
è la lettera a Grassetto, reca il
prologo d’Averroè alla fisica e la dedica di questo prologo al pretore Donato,
pella ragione che gl’editori l'avevano omesso. Niente di più. Alla fine del trattato
si legge: Et sic consumatus est liber de intellectu. In Patavino studio. Ora che
Nifo scrive una quaestio de intellectu (la dedica del De intellectu a Badoèr) è
verosimile; ed è verosimile che la scrive in senso sigieriano, tanto che gli emuli poterono accusarlo d'eresia, com'egli
stesso ci fa sapere. Ma che questa quaestio
sia identica col trattato, è difficile crederlo, dopo quel che egli stesso confessa
a Badoèr: Placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Troppo interesse
ha Nifo a voler far credere che fin dal suo primo anno d' insegnamento s'era liberato
dall'averroismo inviso a Barozzi. Vuole Garin un esempio della fede che merita Nifo? Eccoghelo.
Nell'edizione dei Collectanea ch'egli aveva pronta, e che vide la luce pella stampa
col titolo In librum de anima Aristotelis et Averrois commentatio, a Venezia, per
Petrum de Quarengiis Bergomensem. Studio et impensa domini Calcidonij, Pisaurensis,
dedicando l'opera a Miliani, patrizio partenopeo, Nifo vede un segno particolare d'amicizia neU'essersi Calcidonio addossate le
spese della stampa del volume: quod et noster Calcedonius, communis amicus, tui
et mei amoris omni solertia sumptibusque prò his edere instituit. Ebbene, nella
ristampa degli stessissimi Collectanea Suessa, Super libros de anima, Venetiis,
in fine della prefazione che v’appose, questo barabba osa scrivere: Quantum igitur
inique Calcidonius Collectanea nostra publicaverit
quantumve venenose, ex bisce patet. Ego enim publicare illa non destinaveram, nisi
nono pressis anno che e frase oraziana adattissima a imbrogliare anche meglio le
carte. L'opera fu pubblicata, come codicilus al commento della Destructio. Che al
momento della pubblicazione tanto Bernardo che suo padre fossero morti, risulta
dalla frase dello stesso Nifo in fine del
commento alla Destructio: quorum animae in perpetuum gaudeant, confermata dalla
dedica del commento In Metapysicae a Giustinian. avuto alunno a Padova negli ultimi
anni, dedica il commento al De beatitudine animae di Averroè, rimaneggiando un scartafaccio
del periodo averroistico, di mano del suo alunno veronese Plumazioij; al cardinale
Grimani dedica il commento alla Destructio
destnictionum, servendosi, per insinuarsi nell'animo del cardinale, dell'amicizia
d'un tal prete Prosdocimo familiare del Grimani; più tardi gli dedicherà anche il
trattato De primi motoris infinitate; e nello stesso anno dedicherà a Querini
il De diehus cniicis. Ma non ostante tutte queste amicizie e protezioni, non potè
sottrarsi ai latrati, com'egli più volte
si duole, dei suoi colleghi e avversari. Non saprei se per questa o per altra
ragione s’allontanò da Padova. Facciolati per altro informa che revocatus est anno,
stipendio argenteorum CXX; il che lascerebbe supporre che fra le ragioni del malcontento
vi fosse anche quella dello scarso stipendio. Sappiamo di professori che correvano
là dov'erano megUo pagati, e che spesso la
minaccia di andarsene era un buon mezzo per farsi aumentare lo stipendio.
Ma Facciolati ci fa sapere che, non ostante questo aumento, Nifo anno vertente rursus
abiit, in cerca di miglior fortuna, o semplicemente per sposarsi con Angela Laudi
da Sessa. A Padova non torna più, sebbene siamo informati che egli s'adopra per
tornarvi. Vi torna invece, dopo la morte di Vernia, il Peretto mantovano, cioè POMPONAZZI. Anche quest'opera
porta in fine la dichiarazione: Compievi Patavii. Santo Moro si addottora a Padova Sanudo, Diarii. Quando Nifo gli dedica
l'opera, sa che l'antico scolaro di Padova nunc naturae mundique interpretem
gravissimum evasisse. N. non conosce altre edizioni anteriori a quella scotina di
Venezia. Di Bernardo dice (comm.): accepi verba
haec ut iacent in codice meo, quem felix illa Bernardi memoria olim mihi
misit. Vi sono non pochi rimandi al trattato De inteUectii, e non di rado nella
stesura che esso ebbe dopo la revisione Fasti gymn. patav., Sanudo, Diarii. Anzi si legge: k
Item, ave lettere dell'orator nostro in corte, che domino Sexa NIFO, qual è li,
vengi a lezer a Padoa, et li ha dimandato. Par contento venirvi, et è facto più docto di quello era, et ha studiato
in greco. dopo due anni d'assenza, per restarvi ininterrottamente fino
all'assedio della città. V'erano poi maestro Trapolin, averroista moderato, che
dall'insegnamento della filosofia naturale passa a medicina teorica, Trombetta francescano
e Monopoli domenicano, che insegnano in concorrenza la metafisica, l'uno ad mentem
Scoti, l'altro ad mentem AQUINO. Era venuto
a Padova il bolognese Bacilieri, alunno e poi collega d’Achillini del quale condivide
l’idee, forse a sostituire Fracanziano che in seguito ad una lite fra maestri lascia
lo studio padovano e segue a Roma Corner. Ma Fracanziano torna a Padova ad occuparvi
la seconda cattedra di filosofia ordinaria, in concorrenza con Pomponazzi, mentre
maestro Tiberio, che dice mancargli appena
quattro dita per arrivare alla piena e perfetta copulatio coll'intelletto agente,
aveva accolto l’invito di recarsi a Pavia. Sotto la guida di siffatti maestri Taiapietra
fa i suoi studi a Padova; e con lui c'erano negli stessi anni, su per giù, Mocenigo,
figlio di Leonardo e nipote del doge Giovanni; Contarini, il futuro
cardinale; Surian, nipote del patriarca di Venezia dello stesso nome; Santo Moro, e altri rampolli
delle più illustri famiglie patrizie veneziane. Maestri e scolari vivevano uniti
d’uno stesso spirito goliardico non scompagnato da febbrile ansia di sapere. Peretto
POMPONAZZI, che marciava ormai verso la quarantina, pensa bene d’accasarsi con una
gentil donna padovana figlia di Francesco Dondi dell'Orologio. Ed ecco Facciolati, Fasti, 1. e;
C. Oliva, Note sull’insegnamento
di Pomponazzi, Giorn. crit. d. Filos. Ital.
Facciolati. Era presente ai dottorati in artibìts di Zimara e di Oleari, col
titolo di extraordinarius philosophiae Arch.
d. Curia Vesc. di Padova, Acta grad. Franceschetti, La famiglia dei conti Fracanzani
di Verona, Vicenza ed Este con notizie dei loro antenati ecc. Bari, presso la Direz.
del Giorn. Araldico Pomponazzi, In
XII Metaphys. deo Tiberius
iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos ad hoc ut foelicitatem istam
pertingat Arezzo, Bibl. Fraternità de'Laici, Ms.; Cod. Ambros.Mocenigo intonare
pell'occasione nn epitalamio in latino, ove tra molte reminiscenze mitologiche si
leggono questi due distici molto confidenziali rivolti, s'intende, allo sposo;
Ista dies omnes reliquos divellit amores:
paecipit haec soli perpetuoque vaces. Substulit ista dies sectari fornice tetra
scorta suburbano, substulit ista dies. Ma la giocondità della vita studentesca nel
rumoroso e gaio ambiente dello studio patavino non distoglie questi patrizi veneziani dallo scopo
per cui erano venuti sulle rive del Bacchigliene tra le antenoree mura. E Sanudo
ci fa sapere che 1', zorno di Pasqua di mazzo,
da poi disnar, sier Santo Moro di sier Marin, studia a Padova, tene le conclusion
ai Frari, qual è impresse. Arguì molti, videlicet domino Bragadin, leze in philosophia
a Venezia, Pasqualigo dotor, cavalier, Zorzi, dotor, e altri, e poi anda a Padoa
e si dotoroe. Ugualmente Sanudo annota che in questo zorno, in la chiesia di Frari,
fo tenuto le conclusion per Surian,
quondam Michiel, nepote del patriarcha nostro, qual studia a Padoa. Vi fu
il reverendissimo patriarcha, e l'orator di Franza e molti patricii invidati e dotori»-s.
Con -2 Io. Brunatius, POMPONAZZI, nella raccolta
d’opuscoli scient. e filos., Venezia
Diarii Di Pasqualigo riferisce Sanudo, che a Roma tiene conclusion publice
et si ha facto uno honor grandissimo et hora sta dotorado nomine pontificis dal cardinal di San Zorzi. E
Vene da Milan in questa terra Pasqualigo, dotor, patricio veneto, stato e si trova
a Milan al tempo del capitolo general di frati minori dove tene le conclusion publiche.
Vi fu el ducha con li oratori, et fu molto comendato, come si have lettere di Lupomano
orator nostro nel conscio di pregadi.
Questo studia a Paris, et è doctissimo. Il Degli Agostini, Not. storico-critiche intorno la vita
e le opere dei veneziani, Venezia dice che Piero sostenne a Parigi due mila conclusioni.
Anche il fratello Pasqualigo studia a Parigi Sanuco Sanudo, Diarii. La cronaca di questa disputatio è fatta
dallo stesso Surian in una pagina del volume in cui ricopia le lezioni tenute da
Pomponazzi sul De anima Ms. della Bibl. Naz.
di Napoh, Vili. D. descritto da Kristeller in Revue de philosophie
questa pubblica disputa anche il Surian conquista il titolo di dotor, come appare
da quanto Sanudo ricorda. E sarei quasi tentato di credere che, allo scopo di conseguire
il dottorato, anche Querini affronta a Roma
la solenne disputa cui accennavo e alla quale assiste anche Bembo, egli pure patrizio
veneziano, cavalier ma non dotor qual
era invece suo padre. Quello di stampare le conclusiones pella pubblica disputa
non li consta a N. che fosse un obbligo; ma si sa che Pico le stampa,
Querini le stampa, impresse le ha Santo
Moro, e anche Taiapietra si, ed è
importante perché c'introduce nel bel mezzo dell'ambiente scolastico padovano: Que
disputatio a me habita fuit Patavii per biduum. Et prima die argumentatus est dominus Portenarijs, florentinus patritius,
Artistarum rector; secondo loco R. dominus
Marcellus, patritius venetus, proto-notarius apostolicus; 3°
magister Trombeta ordinarius metaphysice, Patavii legens; 4" Dominus magister Monopoli, ordinis AQUINO, ordinariam
metaphysice legens [Quètif-Echard, Scriptores
Ord. Praed.; 5° Dominus magister faventinus ordinariam theorice medicine legens; 6° Dominus
magister Caballis, brixiensis, ordinariam practice medicine legens. Et disputatio
hec habita fuit in aede cathedrali, in choro penes altare maius, coram R.mo domino D. Barocio,
episcopo patavino, et magnificis Griti, pretore, Pisani equite, prefecto Padue, R.mo
D. Barbadico primiI cerio Sancti Marci. Duravit disputatio usque ad 24 horam
satis feliciter die dominico, et fuit dominica
quadragesime quarta. die et fuit habita in
salis magnis, primo argumentatus est Dominus magister Mauricius ordinis minorum
hybernicus, preceptor, ordinariam theologie legens; 2° Dominus magister Gaspar perusinus
ordinis AQUINO QuÈTiF-EcHARD, Ordinariam theologie professus et profitens; 3° Dominus
magister Trapolin, patavinus,, ordinariam theorice medicine legens; 4°
Dominus Petrus POMPONAZZI mantuanus,olim
preceptor; 5" Dominus Fracancianus,
vicentinus, ordinarius philosophie, ambo professi et profìtentes. Et disputatio
fuit mane Venetiis autem, die Jovis, in aede S. Francisci minorum; et interfuit
R.mus Patriarca, patruus meus, R.mus D. D. archiepiscopus spalatensis, D. Zane,
R.mus Foscarenus, episcopus Emonensis cioè di Città Nova in Istria, R.mus D. D. Dominicus episcopus Chisamensis, suffraganeus R.mi
D. Patriarche. Argumentatus est in primis Foscharenus, doctor, legens lecturam
physice Venetiis; 2° loco R.mus D. D. Zane, archiepiscopus Spalatensis; 3° loco Dominus
Mozenigo, doctor; 4" D. magister Cruce ordinis minorum, regens ibi; 5° Dominus Maurus, doctor etc. Et fuit dies
felicissima. Quare Deo semper honor et gloria Sanudo. frettò
a presentarle stampate. Più tardi, so di Bin, le cui conclusiones, dedicate a Michiel,
Procurator di S. Marco, furon discusse a Venezia; e so pure di Ruggiero, discepolo
a Padova di PASSERI Genua, che stampa le
sue positiones, cioè le sue tesi, dedicandole a Gonzaga, pella disputa che dove
aver luogo a Padova nella chiesa di S. Antonio;
e l'esempio suo è seguito d’un altro discepolo di PASSERI, Mocenigo, nipote di Diedo
patriarca di Venezia, pella disputa che ha luogo, come nel caso di Surian, a
Venezia e a Padova. N. non conosce il contenuto delle tesi o conclusion sostenute
da Surian e da Moro; conosce invece quello delle conclusiones di Querini e Bin,
delle positiones di Ruggiero e dei Panidoxa
theoremataque di Mocenigo. Querini, discepolo di Nifo quando questi già abbandona
l'averroismo, si dichiara apertamente CONTRO Averroè come aveva fatto il maestro.
Invece averroista è Bin; e anche Ruggiero e Mocenigo sostengono apertamente la dottrina
averroistica di PASSERI combinata con quella di Simplicio. Allo stesso modo Taiapietra
è un risoluto sostenitore
dell'averroismo della corrente sigieriana, del quale, dopo la partenza di Nifo da
Padova, era stato sostenitore Bacilieri. Ciò appare meglio dall'esame del contenuto
della sua opera. Un'aperta professione d'averroismo accade d' incontrare tìn
sulla soglia del libro, cioè nel proemio intitolato anch'esso a Grimani. Dopo avere
accennato ad Aristotele come regula La rara
stampa veneziana della Casa Tacuino, è posseduta dal British Museum. A Dionisotti
N. è debitore della cortese segnalazione e del microfilm. Positiones hasce de vero et bono Rugerius ad disceptandum
proposuit. In quibus si quid a religione ac summa veritate dissentire lector
animadvertet, id non ex animi sententia, sed ex Aristotelis ac veterum
Philosophorum placitis pronunciatum
sciat. Venetiis, f. yor Finis. Disputabuntur triduo
Patavij in tempio D. Antoni], nella sezione de homine quatenus intelligit et speculatur,
accade d'incontrare tutte le tesi dell'averroismo Simpliciano di PASSERI, coll’idea
della progressio dell'unico intelletto ad secundas vitas nei diversi corpi umani
ecc. in natura secondo il noto concetto d'Averroè 3°, il filosofo veneziano continua:
Post queni prinius floruit Averroes cordubensis,
qui ex graecis expositoribus velut ex optimis quibusdam fontibus philosophiam
non tam hausisse quam expressisse visus est. Eos enim insequi et incessere delectatus
est apprime, unde is solus est qui condigne et recte apud omnes commentatoris nomen
adeptus fuit; tantum enim est ex agro fertili messem tacere. Hinc est, ut qui Averroem
exacte legerit, et suis quaeque locis singulatim singula contulerit, eius doctrinam
facile percipiet ab optimis manasse auctoribus. Quid enim aliud est commentator
Averroes quam Alexander, Themistius, Simplicius, ac demum ipsemet Aristoteles transpositus
Ouamobrem et nos divino beneficio confisi, non vana similiter gloriae cupiditate
impulsi, et absque ulla prorsus invidia, sed
solum utilitatem aliquam studiosis afterre anhelantes, penes horum virorum
sententiam quarumdam diftlcilium quaestionum summam seu compendium ordinare suscepimus:
ea enim benivolentia perypatheticos prosequor omnes, et praesertim summum
Aristotelem eiusque magnum commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere duces,
ut si quid ex illorum disciplinis
deprompserim, quod utile, pulchrum lionestumque putem, id quippe omnibus
communicatum esse velim, quo omnes literati una mecum ipsorum rapiantur amore eosque
digna veneratione prosequantur et colant. Verum nos, divini Platonis De legibus
imitati, ut scilicet ne cuivis liceat, quae aediderit, aut privatim ostendere,
aut in usum publicum concedere, antequam super id publici et idonei constituti iudices ea viderint et probarint
(quod maxime observant venerabiles illi magistri parisienses), opus hoc nostrum
in studiosorum communem usum concedere ullo pacto voluimus, antequam gravssima amplissimi
Venetiarum prothoflaminis censura et lima castigetur; cuius quidem titulis et laudibus
(nisi defraudetur) solum ipsemet accedit religiosissimus antistes Surianus;
simulque nisi prius in clarissimorum virorum conventu et corona opus hoc manutenerem
et tutatus essem. E il prothoflamen di Venezia, cioè il patriarca
Surian, zio di quell'altro Surian, che era stato discepolo a Padova del Pomponazzi
e del Fracanziano, e che del Peretto ci ha tramandato le lezioni sul De anima, contenute
nel codice della Bibl. Naz. di Napoli, studiato da Kristeller, il buon patriarca di Venezia, dicevo, dopo aver letta
l'opera del Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di questa aperta esaltazione
d'Averroè, 3° De anima. comm. che avrebbe fatto fremere il vescovo di Padova, Barozzi,
gli scrive questa candida letterina che si legge in fondo al volume: Filii diarissime,
praeclarum opus tuum, in quo Aristotelis peripatheticorum principis et Averrois
eius fidi et luculentissimi
commentatoris sensum diligenter et ad unguem examinasti, non mediocri gaudio voluptateque
lectitavi, eo quod te philosophum praestantissimum noverim, tum et ortodoxae matri
ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut te quam maximis prosequamur laudibus, magnisque
honoribus te decorandum extollendumque censeamus. Exinde enim persuaves et amenissimos tibi fructus acquires, nec modicam saeculo utilitatem,
patriaeque nostrae gloriam allaturus es. Vale. Eppure l'averroismo dell'opera non
concerne soltanto una o due tesi che vi siano difese quasi di passaggio, ma domina
tutto intero il volume, dalla prima all'ultima pagina; salve sempre, s'intende,
le solite proteste d'obbligo, chiaramente espresse o sottintese, che l'autore cioè
non persegue altro intento che quello di esporre qual è il genuino pensiero d'Aristotele
e del suo fedele commentatore, senz'alcun pregiudizio per la fede e per gl’insegnamenti
della Chiesa. L'opera si divide in due libri: il primo concerne problemi dibattutissimi nelle scuole
di filosofìa, alla soluzione dei quali son dedicati altrettanti trattati, e in ciascuno
di essi un capitolo è consacrato alla esposizione della vera dottrina del Filosofo
e del suo fedelissimo interprete, mentre altri son riservati a combattere più le
obiezioni dei cacoaverroisti, com'egli li chiama, che non quelle degli avversari
dell'averroismo. Nel primo trattato si discute
il problema se unico sia il principio di tutte le cose, o possa esser molteplice;
e nel quinto capitolo philosophi et commentatoris vera positio inducitur cum suis
rationibus et fundamentis. Nel secondo trattato, si parla della immaterialità e
semplicità divina; e nel cap. philosophi et commentatoris vera positio
inducitur. Nel trattato si dimostra la tipica tesi averroistica Deum tantum seipsum,
idest essentiam propriam intelligere ac intueri; e nel cap. vera positio philosophi et commentatoris
in hac materia ponitur. Nel trattato si pone il quesito an primus motus, qui est
diurnus, sit immediate a Deo glorioso, e si critica la tesi dell'averroista Jandun,
il quale sostene che Dio non può muovere il primo mobile se non per mezzo della
prima intelligenza; nel cap. poi è esposta la vera opinione del filosofo
e del SUO commentatore su questo argomento. Nel trattato è presa in esame la vexata
quaestio, se Dio sia causa efficiente delle cose eterne, cioè delle intelligenze
e dei cieli, poiché delle cose corruttibili non v'è dubbio che esse non possono
esser prodotte immediatamente da Dio. È noto che l’agostiniano Rimini ritene che, secondo Aristotele, Dio è causa finale ultima
delle intelligenze e dei cieli, ma non causa efficiente del loro essere. Taiapietra,
d'accordo con Sigieri, è del parere che, pur essendo coeterne a Dio, sì le intelligenze
motrici che i cieli incorruttibili son tratti all'esistenza da lui per via di vera
causalità efficiente, e in proposito intraprende una lunga disquisizione che dura
per diversi capitoli contro l’agostiniano;
giacché è bene si sappia che, per quanto riguarda l' interpretazione del pensiero
d'Aristotele, vi furono teologi che si spinsero anche più in là di taluni averroisti;
è esposta la vera dottrina del filosofo e del commentatore cum suis rationibus et
fundamentis, che è poi la dottrina sigieriana. Nel trattato sesto, è discusso un
altro problema oggetto di lunga contesa,
fin dai tempi di Sigieri, se cioè Dio nel muovere il mondo si palesi di virtù
intensivamente infinita ossia, come soleva dirsi, di infinito vigore. Dopo aver
combattuto l’interpretazione che d'Aristotele danno AQUINO, Alberto Magno e Scoto
e quella di alcuni averroisti che, a suo giudizio, falsano il pensiero d'Aristotele
e d'Averroè, l'autore passa ad esporre la vera positio dell'uno e dell'altro, riaffermando la sua fiducia nel commentatore:
Quum inter tot celebres philosophos, nullus adhiic posteriorum philosophantium aut
priorum, praeter Aristotelem, inventus sit qui commentatori Averroi in rebus naturalibus
aut divinis exponendis equipolleat, unde merito nomen magni et certe maximi
commentatoris est assequutus, ideo, primae philosophiae principiis innitendo, in hoc quesito ad mentem philosophi et commen Lectura in Sent., dist. q.; Baconthorpe, In Sent.,
dist. q.; Jandun, Meiaphys.; Quaestiones sup. De siibst. Orbis Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeiivres inédites, Louvain]
tatoris dicimus infinitum, ut proposito attinet, alias infiniti distinctiones omittendo,
dupliciter intelligi posse: vel secundum tempus et durationem, vel secundum virtutem et vigorem; quorum unum vocant
latini infinitum extensive, et alterum intensive. Pro quo sciendum quod si primum
principium secundum primum modum infinitum intelligatur, hoc utique ad mentem philosophi
et commentatoris concedendum est, quoniam primus motor motu locali uno et continuo
movet per infinitum tempus; et sic etiam, secundum eos, quaelibet intelligentia est infinita; quaelibet enim intelligentia
movet, secundum Aristotelem, orbem proprium motu locali circulari infinito. Potest
et secundo modo intelligi primum principium esse infinitum in qualitate
actionis, scilicet in vigore; et hoc pacto negat philosophus et commentator. Ma
rendendosi conto che un'affermazione sì grave poteva sonare sgradita alle orecchie
dei teologi, il nostro s'affretta a dichiarare:
Sed quamvis isti, philosophus scilicet et commentator, sic dicant, nihilominus tamen
dico secundum fidem et veritatem, quod deus, qui est primum principium, est virtutis
infinitae, scilicet in qualitate actionis, ita quod quantum est de se potest
velocitare motum in infinitum, immo movere in instanti, nec est limitata sua virtus
ad actionem determinatam; et hoc absque
omni ambiguitate verum est, non tamen potest convinci aut comprehendi ex sensatis;
et ideo non est mirum si philosophus ac caeteri antiquorum naturales, sensata tantum
insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum enim deus ipse naturae sit
auctor, potest utique plus facere quam possit natura vel naturaliter comprehendi,
quoniam quemadmodum ipse omnia excedit in infinitum, sic etiam profecto in agendi
potentia. Iccirco iuxta illud quod primo Esaias et postmodum Paulus dixerunt, propter
ista et alia quae oculus non vidit nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit,
sacrosantae ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua haesitatione credendum
est, et absque aliqua demonstratione aut sensuum experientia etc. E la stessa dichiarazione
ripete, come d'uso, tutte le volte che gli
accade di toccare un problema intorno al quale vi sia conflitto fra la filosofìa
e la teologia. Nel trattato si chiede se il numero delle intelUgenze motrici debba
dedursi dal numero dei movimenti e delle sfere celesti, oppure se ve ne siano di
non addette al moto dei cieli; e nel
cap. è esposta al solito l'opinione del filosofo e del commentatore, che
il Taiapietra ancora una volta toglie a difendere.
Inoltre, è esposta la vera opinione del filosofo e del commentatore, che la nobiltà
delle intelligenze va posta in relazione con la maggiore ampiezza e altezza delle
sfere da esse mosse. Nel trattato si dibatte l'annoso problema, se la materia
di cui constano i cieli sia eiusdem rationis cum materia horum inferiorum; e di
nuovo nel cap. viene esposta e difesa come vera la dottrina d'Averroè,
la quale combacia perfettamente con quella del principe dei filosofi, e vi si dice
che la materia dei cieli non è in potenza a diverse forme, ma soltanto a diverse
posizioni locali. Il libro si divide in trattati. Il primo dei quali verte sulla natura
dell'anima umana e precisamente sul problema utrum humana et rationalis anima sit
una vel plures, dans esse homini et immortalis.
Fin dal capitolo, l'autore ci palesa candidamente qual è il suo intento:
anzitutto rigetterà tutte le opinioni che più s'allontanano da Aristotele e da Averroè;
poi riferirà quelle che più si avvicinano al loro pensiero: Demum veram philosophi
et commentatoris addemus sententiam ab ea quascunque amovendo cavillationes, ut
eius veritas clarior appareat. Ed egli
non meno candidamente spera che dalla sua fatica verrà non poco giovamento alla
restaurazione della filosofìa, che al comune giudizio degli averroisti pare in quei
tempi non poco decaduta: Unde speramus laborem hunc nostrum non modo rem peri-patheticam,
id est Averroycam, adiuvaturum esse, verum etiam aucturum, quum forte scriptum hoc
non tantum erit causa declarandi rem obscuram
et latentem multum in philosophia, sed etiam aliis, hoc est bene dispositis, initium
fiet vel occasio Iaborandiin doctrina philosophi et commentatoris, et ad communem
utihtatem quamphira scitu nobilissima scribendi. Et sic forte in Italia reviviscet
philosophia, quae temporibus meis, cum philosophis pessum ivit, adeo ut hac tempestate
pauci vel nulli reperiantur philosophi; sunt
autem in precio triviales, nebulones et sophistae; sperandum est tamen naturam ali-
È un lagno che Averroè aveva fatto dei filosofi del suo tempo, nel famoso prologo
alla Fisica; ed è curioso vedere come gli averroisti lo ripetano. V’insiste in particolare
Pomponazzi, parafrasando sia il prologo alla Fisica sia quello al terzo Cod. lat.
della Bibl. Naz. di Parigi; Arezzo, Fratern. de'Laici, ms., f. igir. Giorn. Crit. d. Filos. Ital. quando nostri
misertam iri, et nobis integram redituram philosophiam et philosophos; natura namque
non deficit in necessariis neque abundat in superfluis. Iccirco laborandum est prò viribus
ut ad nos redeat niater nostra pliilosophia. Con questa speranza nel cuore, che la filosofia aristotelico-
averroistica minacciata da un lato dal concordismo
d’AQUINO che la svisa, e dall'altro dalla RETORICA UMANISTIICA CHE LA DISPREZZA
e dileggia, il nostro averroista s’accinge a difendere quella che era apparsa la
più ostica delle tesi averroistiche, qual'è quella dell'unità dell'intelletto.
Ed anzitutto egli espone e combatte, sulla scorta d'Averroè, la dottrina di Alessandro
d'Afrodisia, intorno alla quale si diffonde
per ben sei lunghi capitoli. Accade d' incontrare questa allusione all'ambiente
filosofico padovano: Conantur quidam alexandrei et acutissimi viri prò Alexandro
ad rationes Averroys et auctoritates Aristotelis respondere. Giusto un anno prima
Pomponazzi, che sta commentando a Padova il del De anima, s'era posto il problema
dell'immortalità dell'anima, e pur dichiarandosi ancora propenso a ritener possibile una soluzione
positiva del problema secondo la ragione,
dimostra in che modo la tesi d'Alessandro avrebbe potuto sostenersi.
Forse alludendo a Pomponazzi, Taiapietra nel rintuzzare le ragioni degli alessandristi
osserva: Etsi Alexandrea opinio lumini tantum innitendo naturali non minus forte
substentabilis sit iuxta fundamenta sua, quam et averroyca,
hoc nihilominus in loco ipsum ad intentionem philosophi minime loquentem
fuisse proculdubio ostendemus. Nel qual passo è quanto mai significativa la distinzione
fra ciò che è sostenibile lumini tantum innitendo naturali, e ciò che è
sostenibile ad intentionem philosophi. A prescindere dai francescani che di questa
distinzione fanno largo uso, essa è una novità nella storia dell'aristotelismo; Aristotele non ha visto tutto
quanto si può vedere col lume di ragione; la ragione umana può spaziare forse oltre
i confini del mondo ari Come appunto dice
Pomponazzi, commentando il De anima Kristeller,
Two impubi. Questions on the Soul of Pomponazzi,
Medievalia et Humanistica, quando Taiapietra era ancora studente a Padova.]stotelico:
è un'idea sulla quale insiste più volte Pomponazzi
e che dove ferire a morte l'autorità di cui Aristotele, maestro e duca dell'umana
ragione, aveva finora goduto. Dopo la critica della tesi alessandrista, il nostro
espone e confuta la dottrina di Abubacher, Averroys socius, di Avenpace, eius magister,
quasi fossero due persone diverse, di Avicenna e di Alfarabi; e qui eccolo, in
quo Aristotelis et Averroys vera positio
ponitur in hac materia cum suis motivis, ad esporci l' interpretazione sigieriana
del pensiero di questi due filosofi: Clini binas hiicusqne illustrivim peripatheticorum
opiniones ostenderimus, qiias tamqnam impossibiles omnino ad, mentem philosophi
reliquimus, superest videre et de tertia, quae est Averroys se unicum ad intentionem
Aristotelis loqui pollicentis. Aliorum
autem sapientum opiniones hoc in tractatu non indagamur. Item quia intentio
nostra in praesentiarum non est de omnibus loqui, sed tantum manifestare quae fuit
opinio commentatoris, et quorundam errorem refellere, qui temporibus nostris
nonnulla monstra in hac materia ut finxerunt de intentione Averroys enixi sunt.
Tum etiam, ut sententia est philosophi, topicorum primo, capite, quolibet proferente contraria opinionibus sapientum
sollicitum esse stultum est. De anima igitur disceptantes quadrifariam circa ipsius
incoeptionem loqui poterant: primo, quod quandoque producta fuit in materia, quandoque
corrupta: quem modum sequutus est Alexander aphrodiseus, ut disputavimus in pracedentibus
abunde satis, in quo quidem tamquam demonstratum nobis palam est, rationalem animam non a corpore incipere,
neque in corpus desinerei illam quoque prò parte insequi visi sunt arabum
sapientes, ut supra piane constat. Secundo, quod novum acceperit esse, quod nunquam perditura sit:
et hic dicendi modus Platonis est, cui contradicit philosophus et commentator, Divinorum,
tex. co.; et primo Coeli, tex. co; alioquin natura possibilis verteretur in necessariam; nullum enim novum est perpetuum.
Tertio, quod nullum eius fuerit initium, sed dissipanda quandoque foret: et is quoque
modus impossibilis est; omne namque aeternum a parte ante est etiam aeternum a parte
post, et econtra, ut sententia est philosophi et commentatoris, ibidem, primo Coeli
et mundi; nec aliquis hominum dudum id percepit, quod quum perscrutata non sit dignum, absque auctore Dante,
Conv. IO A questo principio del De
coelo fa appello Bessarione, In calimin. Platonis, sostendo che, per Aristotele,
se l'anima è immortale ed eterna a parte post, deve esserlo anche a parte ante,
con tutti gl’assurdi che dal punto di vista aristotelico ne seguirebbero, se l'anima
intellettiva fosse dimissum fuit. Quarto, quod, ncque quandoque cadet, nec exordium ulluni aliquando acceperit: si igitur
rationalis anima nec ncepit cum corpore, nec in corpus desinet, sed semper fuit
et aniplius semper erit immortalis ac substantia semper existens simplex et immixta,
humano orbi secundum esse unita, non tamen corruptibilis nec alterabilis secundum
eius substantiam, opinio redditur Aristotelis scilicet et Averroys et multorum tam
antiquorum quam modernorum peripatheticorum, ut Themistii, Theophrasti, Pythagorae
et caeterorum eiusdem sectae. Id igitur in quo veriores scilicet peripathetici concurrunt,
est rationalem animam nec incipere cum corpore, nec etiam incipere ab aliquo
corporis, nec desinere in potentiam corporis, nec in corpus ipsum, sed esse semper
qviid immortale divinum et impatibile. Verum id in quo discreti et differentes sunt isti viri, hoc porro
loco a me perscrutandum non expectetur: tum quia prò nunc tantum philosophi et commentatoris
opinionem venamur, ex qua ad caeteras quascumque discrimen colligere poterimus;
tum quia praeter opinionem opus nostrum multum excresceret. Hanc sententiam comprobant
Aristotelis auctoritates multae; quarimi quae adversus Alexandrum iam adductae sunt nobis sufficiant. Motiva autem
philosophorum sunt multa, et primum quod ad hoc movit Averroym, fuit ratio fortis
quae ex De substantia orbis piane colligitur, quoniam nulla forma inducta in materia
non mediantibus interminatis dimensionibus et non per dispositiones qualitativas
et quantitativas praecedentes, simul accipit esse cum toto. Sed rationalis anima hominis
huiusmodi est. Ergo etc. Amplius amne quod est dominus suorum actuum est abstractum
et immortale. Sed anima humana intellectiva talis est. Ergo etc. Maior utique evidens
est ex se: quod enim non habet dominium suorum actuum, ad unam tantum partem determinatur;
quemadmodum ad delectabile appetitus sensitivus; et talis proculdubio est materiae
immersus. Minoris autem veritas inductive declaratur: nam si uni vero
philosopho vel religioso offeratur
inoltre moltiplicata col numero degli uomini. Si che Bessarione ne aveva concluso:
Igitur alterum de his duobus dicat necesse est: aut enim unum eundemque intellectum
omnibus esse, aut una cum corpore animam interire. E se egli poteva ritenere che
nessuno era riuscito finora a dimostrare la falsità della tesi averroistica dell'unità dell'intelletto,
secondo i principi della filosofia aristotelica, Pomponazzi, che, pur ritenendo
perfettamente aristotelica questa dottrina, la considera stoltezza, fatuitas, Kristeller,
il ms. napol., tronca le sue precedenti esitazioni,
e prese a sostenere con risolutezza la tesi che, pur essendo quello dell'immortalità
dell'anima un problema neutrum, tutti i principi formulati da Aristotele, e segnatamente
quello stabilito in questo luogo del De caelo, sembrano concludere alla MORTALITÀ
dell'anima. Pochi mesi dopo scrisse D’immortalitate aniniae. Ma sullo sviluppo del
pensiero del Perette intorno a questo argomento, Giorn. Crit. puella, appetitus tunc tendit
in fornicationem, quia delectabile; intellectus autein reicit et fugit, quia malum
et propter offensionem dei proximique. Ecce
igitur qualiter hominis intellectiva anima domina est suorum actuum, quia scilicet
potest delectabile fugere vel persequi; non sic autem appetitus ipse. Et haec fuit
ratio divini Platonis in Phaedone, ibi inter omnes efficacior, quam olim ab eo accepit
platonicus Plotinus, in tractatu de immortalitate animae, quam etiam adducit
divus Albertus in De origine animae. Et fuit haec ratio apud aliquos tantae
effìcaciae et auctoritatis, ut palam dixerint,
quod qui conatur hanc solvere rationem fatuus est. Rursum, quod intelligit
omnia tam materialia quam immaterialia est iinmateriale, et per consequens immortale;
haecenim se consequuntur, ut constat in intelligentiis; sed intellectiva
hominis anima omnia comprehendit, tam scilicet
materialia quam etiam iinmaterialia; igitur immaterialis est, et ex consequenti
immortalis. Maioris primam partem innuit philosophus, De anima, tex. co., quum dixit,
quod omne recipiens debet esse denudatimi a natura rei receptae. Secunda etiam pars
patet; alioquin rationalis anima esset organica, et sic determinata ad unum, cuius
tamen oppositum in nobis metipsis comprehendimus. Minorem vero in nobis proculdubio
quottidie experimur. Quare etc. Et confirmatur, nam anima nostra intellectiva universaliter et abstracte
intelligit; ergo et ipsa est abstracta et immortalis; secus ipsa esset aut aliquis
quinque sensuum – URMSON THE OBJECT OF THE FIVE SENSES -- , aut sextus sensus,
et sic per consequens non iniiversaliter intelligeret; quod apud perypatheticos
est valde absurdum et manifeste falsum. Adhuc, si ista rationalis anima non est
abstracta et immortalis, tunc aut est complexio,
aut forma superaddita complexioni; sed non primum, quia tunc esset accidens, quod
nullus sanae mentis fateretur; minus etiam secundum; sequeretur enim ipsam esse
organicam et extensam, et sic fìeret determinata ad unum quemadmodum et caeteri
sensus, cuius tamen oppositum in nobis manifeste percipimus omnia et universaliter
percipientes. His ita prealibatis, inquiunt veriores perypathetici hunc intellectum
materialem esse formam perpetuam ex utroque latere, loquendo praecipue ad intentionem
philosophi et commentatoris, unicamque omnibus hominibus inesse, ac minime generabilem
aut corruptibilem nec eductam de potentia materiae. Amplius opinantur ipsam facere
per se unum cum homine constituto in esse per
cogitativam; et ponunt quod intellectus ipse non potest informare
materiam non informante cogitativa; non enim stat materia absque forma constituta
in esse per eam; nec potest intellectus informare sine sua proxima et ultima dispositione,
quae quidem est cogitativa respectu intellectus; unde, esto quod cogitativa ipsa
non sit forma generica, ordinatur
nihilominus in intellectum propter
ipsius essentialem ordinem ad ipsum. Nec econverso potest cogitativa informare materiam et
ipso quoque non informante intellectu; positis enim informabili ultimate
disposito et ipso informativo, necessario et ipsa insurgit inforniatio. Est autem
materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad humanum
recipiendum intellectum; et sic potest una formia substantialis ad aliam esse dispositio, dummodo
forma illa praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post haec hunc
eumdem intellectum primo et adequate informare totum orbem humanum; secundario vero
illius partes, ut scilicet sunt individua hominis. Nec intellectui humano,
quamvis sit unicus et individuus, pluribus dare esse aeque primo hominibus, utputa
Socrati, Platoni, CICERONI CICERONE – L’ANIMA
DI CICERONE -- et sic de aliis, repugnat; in via namque philosophi et commentatoris
constat intelligentias esse individua, ut Primae Pìiilosophiae et in De coelo; et
illa eadem esse cum suismet quidditatibus; unde intellectus materialis, quum sententia
commentatoris, secundo Physice auscultationis, infima sit intelligentiarum, erit
et ipsa individuum et sua quidditas; enim
Methaphysica, comm. De anima, comm., in abstractis
a materia non differt quidditas ab eo cuius est. Intellectus igitur materialis
individuum erit et singularis; ob id tamen nihil prohibet, licet intellectus ipse
sit etiam quidditas universalis, dare esse hoc et singulare homini, ut iam dictum
est. Et sic apparet quomodo esse hominis, in eo quod homo, est ultimo per hunc intellectum, et quomodo difterentia
hominis, in eo quod homo, sumitur ultimate ab hoc eodem intellectu; et sic quoque
individuum ipsum humanum, idest constitutum ex cogitativa tanquam ex materiali,
et ex ipso intellectu tanquam ex formali, utputa Sortes vel Plato, habent esse hoc
ad ipso intellectu ultimate. A materia autem divisa informabili cogitativa dimensionibus mediantibus informante, nascitur possibilitas
multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia propter esse universale
ipsius intellectus informari possunt ab ilio, et ab eodem sumere esse suum verum
hoc et unum. Et breviter autumant intellectum ipsum primo esse formam adequatam
totius suae sphaerae humanae; secundario vero partium sphaerae, ut particularium hominum, hoc scilicet pacto quod, inquantum quidditas,
partiri possit per materias informatas dimensionibus et cogitativis, inquantum autem
individuum, est id esse per quod individuum
hominis est hoc ultimate. Dicuntque praeterea opinionem esse Averroys, ut intellectus
uniatur homini non tantum ut ars et motor instrumento et organo, sed etiam secundum
operationem et esse. Yocant autem aliquid
alteri vmiri secundum esse, quando illud habet esse et nomen ab eo; non autem audiunt
esse prò operatione, iuxta illud vivere viventibus est esse, nec prò esse
educto de po Questa tesi si trova alla lettera nei quolibeta de intelligentiis
d’Achillini, e NiFO, De intellectu, la dice tolta dal trattato De intellectu di
Sigieri. N. Brab. nel pens. ecc. tentia niateriae; sed per esse intelligunt
informationem quam corpori tribuit intellectus. Dicunt etiam quod, quando aliqua
forma unitur alicui materiae, duo debemus considerare: primum, prout ipsa forma
materiam constituit in esse, scilicet prout forma materiam informat eique nomen
et difììnitionem concedit simul, prout ipsa forma a materia sustinetur ac ab ea
dependet in esse et conservari secundum
suum genus causae, ac etiam ab ea in operari dependet; secundum autem prout
aliqua forma aliquod subiectum sive materiam in esse constituit, ipsa tamen per
subiectum vel materiam in esse non constituitur, sicut se habet intelligentia et
orbis; et huiusmodi asserunt se habere rationalem animam ad hominem, sive ad orbem
humanum et suas partes. Dat ante intelligere hanc distinctionem Averroys, Physicorum primo, comm. ubi ait: Et quia coelum caret hoc subiecto, ideo caret
forma quae substentetur per hoc subiectum, et fuit necesse ut forma eius sit liberata
ab hoc subiecto, et non habet constitutionem per corpus codeste, sed corpus codeste
constituitur per illam, ut scies alibi etc. Ex quibus apparet aliquam esse formam
subiectum suum tantum constituens, non autem per illud constituta, sicut est de
forma codi et de anima intellectiva in proposito nostro; alia vero est forma constituens
subiectum suum in esse, ac per illud ipsa quoque in esse constituta Hoc idem dicitur
in Physicae auscultationis, ex comm. Illud idem etiam et in capite De substantia orbis. Hanc eandem
sententiam possumus sumere a commentatore De anima comm. et comm. non minus quam a Themistio, ibidem in paraphrasi sua
de anima. Caeterum quod ista sit opinio commentatoris Averroys, ex verbis suis intdligi potest. Ait enim. Taiapietra riferisce l’obiezioni che a lui fanno gl’altri
averroisti, i quali riteneno che per Averroè l’intelletto è separato dall'uomo,
sì che intentio fuit commentatoris, quod intellectus possibilis, licet sit unicus
in omnibus hominibus, non tamen proprie dat
esse, sed operationem, eo modo quo dicunt aliqui intelligentiam uniti coelo, non
dando ei perfectiones primas, sed tantum secundas, et hoc modo anima ipsa intellectiva
unitur homini, secundum commentatorem, mediantibus scilicet fantasmatibus. Ed anzi
tutto riferisce cinque obiezioni ricavate dalle opere dei averroisti. A queste n’aggiunge
ben ventisette che gli movevanoi contemporanei,
irritati dal vedere la dottrina d' Averroè interpretata in modo così diverso dal
consueto: ex modernis autem inveniuntur quos adeo positio nostra in via commentatoris
fastidit, quod, ut eam penitus delerent, omne quasi possibile induci contra illam
attulere, Nel riferire questi argomenti, egli usa sempre il plurale dicunt, volunt
etc. Ma giunto alla fine del capitolo, abbandona
il plurale e addita un certo dottore contemporaneo di cui però non fa il nome: Ex
his potissime vult iste doctor colligere positionem hanc contradicere fundamentis
Averroys expresse. Et fortius et uberius instetit iste homo in hac materia, quam
aliquis alter quem ego unquam viderim. Et iudicio meo multum laboravit hic vir,
sed frustra. E nel capitolo successivo, rispondendo a queste obiezioni, torna ad
accennare a costui ad vigesimum septimum: Et certe sum admiratus de isto homine
qui aliquas tam frivolas rationes aduxerit. Quasi con certezza si può ritenere che
questo dottore averroista che inveiva contro quello che egli ritene un travisamento
del pensiero d'Averroè, fosse Zimara. Ad ogni modo è indubbio che la controversia
non era tra averroisti e antiaverroisti,
ma tra averroisti e averroisti, cioè tra primi cugini, se non proprio tra fratelli
carnali. Ed erano maestri dello studio patavino: Sed post hos invenio aliquos qui
in GYMNASIO PUBLICO patavino se magnos philosophos faciunt, voluntque per urbem
digito ostendi ac ab omnibus observari; sed quo iure non video Alla spocchia di
questi chacoaverroyci expositores Taiapietra
oppone la sua superba Zimara, che dedica a Mocenigo, discepolo di Pomponazzi la
quaestio de principio individuationis, l’Annotationes in Gandavenseni super quaestionibits metaphysicae
e la quaestio de triplici causalitate intelligentiae in appendice alle quaesiiones
di Jandun sulla metafisica, Venezia, era quello che meglio rappresenta l'averroista
combattuto da Taiapietra. Non è tuttavia
d’escludere che egli si riferisse direttamente a Pomponazzi, che, discutendo dell'immortalità
dell'anima combatte la dottrina sigieriana in questi termini, Kristeller. Alia est
opinio quorundam se averroistas existimantium qui dicunt quod anima ita se habet
ad corpus sicut forma ad materiam. Vult autem opinio ista quod fuerit de intentione
Averrois, animam intellectivam esse formam
dantem esse ipsi corpori. Formarum autem dantium esse aliquae sunt constitutae in
esse per subiectum et eductae de potentia subiecti et insunt ex mutua dependentia
ei; aliae vero sunt quae nec sunt constitutae in esse per subiectum, nec sunt eductae
de potentia subiecti, nec insunt ei ex mutua dependentia, tamen dant esse ipsi subiecto.
Et talis forma praesupponit
corpus organizatum actu existens, et non
inducitur absque disposinone praevia, sed praesupponit omnes conditiones requisitas.
Le stesse cose nel ms. napol. Giorn. Crit.
Filos. Ital. certezza di essere nel vero: Et haec et tanta dixi, quia hanc viam
ad mentem commentatoris caeteris subtiliorem et probabiliorem esse existimo, ac
ab omni contradictione remotiorem. E più oltre: Et ista est resoluta doctrina philosophi, et panis non est tradendus
canibus Nel studio di N. sulla diffusione del commento di Simplicio al De anima
e sulle ripercussioni ch'esso ebbe nelle controversie, dimostra che i primi a trarne
profìtto sono Pico e Nifo, e come l'uno e l'altro, ma specialmente il secondo, trovano in Simplicio una conferma del loro averroismo
di marca sigieriana La quale opinione è
condivisa dal nostro, che così scrive: Post haec omnia invenitur una alia
opinio quae Simplicio ascribitur, qui ex intellectu et cogitativa aggregai animam
rationalem, quasi ex istis compositam, quae, si recte intelligatur, ad niostram
opinionem reducitur. Puto enim quod, quum ipse fuerit unus ex bonis Aristotelis
expositoribus ut omnes graeci latinique philosophi de ipso testantur, voluerit cogitativam realiter distingui ab intellectu;
verum quoquo modo rationalis anima ex cogitativa et intellectu componi dicitur,
prò quanto cogitativa omnino habet introitum in essendo animam hominis licet non
ultimate, et distinguendo ipsum, ac ipsum in specie non ultimate reponendo. Et confirmatur
hoc, quia quae ad invicem quoquo modo vel vere componuntur, ad invicem et distinguuntur. Non autem credo Simplicium tenere
cogitativam et intellectum esse idem realiter, secundum tamen gradus distinctos,
quoniam tunc realiter essent plures intellectus generabiles et corruptibiles, sicut
de cogitativis evenit. Et hanc sententiam confirmat Averroys, Methaphysicae
comm. ubi ait: Et ex hoc quidem apparet bene quod Aristoteles opinatur, quod forma
hominum, in eo quod sunt homines, non est
nisi per continuationem eorum cum intellectu qui declaratur in libro de anima.
Unde patet quod Averroys vult quod differentia hominis, inquantum homo, ultimate
sit ab intellectu. Hoc idem sentit Averroys in destruc. desiruc, disp., in solutione
dubii ibidem. Quare etc. Et sic etiam verificatur
quod intellectus is non est actus corporis, id est non est forma educta de potentia materiae ab agente scilicet naturali, ut testatur philosophus; ob id tamen
nihil prohibet quod intellectus ipse sit actus corporis, id est forma informans
corpus et dans esse corpori. Et ex
his habetur haec Simplicii positio in via peripatheticorum optime tirmata. Indi
il maestro, dopo aver fatto vedere in che la tesi d'Averroè sull'intelletto
possibile differisca dalla dottrina di Temistio
e di Plotino, e dopo aver risolte l’obiezioni degl’altri averroisti e degl’avversari
dell'averroismo, torna ad insistere che la sua maniera d' intendere il pensiero
d'Averroè concorda in tutto e per tutto con quanto asserisce il commentatore arabo
e, con lui, pensano i migliori averroisti, a capo dei quali è Sigieri: Ecce ergo
qvio modo vult ipse Avwroes intellectum,
inquantum quidditas, partiri per materias informatas dimensionibus et cogitativis;
inquantum vero est individuum, esse id per quod individuum hominis est hoc. Intellectus
ergo, ut habet esse reale, est forma suo orbi; ut autem habet esse intentionale
et universale, est materia omnium intellectuum separatorum. Et ista videtur esse
plana sententia Averroys in hoc quaesito, ut de mente eius tenent praeclarissimi
viri et maxime inter alios Subgerius, praecipuvis averroysta. Et iste fuit discipulus
Alberti et contemporaneus AQUINO, et qui, in quodam suo tractatu De intellecttt
adversus AQUINO, opinatur, in via Averro^'S et philosophi, intellectum
materialem esse formam perpetuam ex utroque latere. Dal modo come si parla qui di
Sigieri, è evidente che Taiapietra aveva presente il trattato De intellectu del
Nifo che era stato stampato a Venezia. Ma mentre questi s'era già separato dell'averroismo
professato a Padova nei suoi anni d' insegnamento, il filosofo veneziano è ancora
perfettamente averroista, e si direbbe che dalle opere del Nifo abbia attinto soltanto
quel che gli serviva per conoscere il pensiero dell'averroista brabantino, del quale
si fa difensore e propugnatore dinanzi al
capitolo generale dei frati minori a Roma, contro l’argomentazioni del Nifo
stesso ch'egli rintuzza. Il trattato ha per oggetto 1'ultima
prosperitas et beatitudo, ossia 1'
£ÙSai!J.o via aristotelica, intorno alla quale dissertarono a lungo gl’averroisti.
Sigieri, a quanto riferisce Nifo, n’aveva parlato in DE FELICITATE – GRICE ON
HAPPINESS ACKRILL EUDAEMONIA--, ed sostene in proposito forse le sue più ardite
tesi. Per Aristotele il fine – GRICE METIER -- supremo dell'uomo, in quanto
uomo, consiste nel pieno appagamento del desiderio che la 40 Nifo, De
intellectu; De beatitudine animae, commento. N., Sigieri. mente ha di sapere, cioè di conoscere
la realtà, non solo nelle sue manifestazioni contingenti, ma nelle sue cause e ragioni eterne. Occorre quindi
che la mente risalga, al di là del mondo sensibile e di quel che nasce e muore,
all'eterno e immutabile, al mondo metafisico, al cui centro è il principio di ogni
intelligibilità e il fine ultimo cui le cose tutte tendono. Ma può l’intelligenza
umana, legata com'è alla sfera della sensibilità, giungere a conoscere in se stessa
la pura realtà ideale di Dio e dell’intelligenze
motrici intorno a lui? Aristotele non dà una soluzione chiara di questo problema
– GRICE: KANT DOES: COUNSELS OF PRUDENCE AS HAVING A FIXED PROTASIS: IF THOU
WILLEST THAT THOU ART HAPPY --; e perciò i suoi commentatori greci, romani, ed arabi
l'avevano cercata nel pensiero platonico e neoplatonico, elaborando quella tipica dottrina della copulatio della mente umana coll'intelletto
agente, della quale si fa un necessario complemento dell'etica aristotelica –
GRICE HARDIE ARISTOTLE’S MORALS --. Se l’intelletto umano non fosse capace d'
innalzarsi a conoscere in se stesse le sostanze separate, dice Averroè nel commento
alla metafisica, il desiderio umano di conoscere la verità sarebbe vano, ed inutile sarebbe l'esistenza di tali sostanze che
noi non potremmo mai arrivare a conoscere nella loro vera natura – HARE L’UCCELLO
DELLA FELICITA FELIX ILLE. È certo interessante
veder posto il desiderio umano di conoscere a fondamento dei nostri giudizi intorno
alla realtà. Ma a ciò non badarono i filosofi medievali. I quali si sforzarono piuttosto
d'intendere come la conseguenza fosse dedotta
dalle premesse, contro AQUINO che nega la legittimità di questa deduzione. In che
modo giustificasse la legittimità della deduzione Sigieri, è fatto conoscere da
Nifo, al quale s' ispira anche questa volta il patrizio veneziano nel
riecheggiare che fa la dottrina sigieriana: Onod si foret hominibus omnino impossibile
conoscere in se stesse le sostanze separate e Dio, tane natura ociose egisset; fecisset enim id, qnod
est in se naturaliter intellectum, non comprehensum ab aliquo, et sic esset frustra,
quemadmodum si fecisset solem non comprehensum ab aliquo visu. Hanc sequellam
diversi diversimode deducunt; quidam enim eam sic deducere consueverant. Supposito
primo quod omnis intellectio, conveniens intellectui possibili, non conveniat quin
etiam homini competat, hoc expresse sensit
philosophus, De anima, quicquid dicant alii;
hoc quippe supposito negato, aufertur omnis via commentatori ad probandum coelum
intelligere; quare AQUINO In metaphys. lect. si possibile est substantias separatas
intelligi ab intellectu possibili, possibile est quoque substantias separatas intelligi
ab hoc homine. Quo stante, tunc arguunt sic.
Quandocumque aliqua reperitur forma apta non recipi in maximo receptivo alicuius
generis, illa eadem non est receptibilis in minus receptivo eivisdem generis. Sed
intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus, ut constat De
anima Igitur si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere,
ncque etiam est possibile alium intellectum primam ipsam recipere formam. Unde omnes frustrarentur intelligentiae
mediae ab hoc scilicet line, qui est deum gloriosum et sublimem intelligere. Verum quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere
superiora, ipse non potest intelligere inferiora; sed nulla intelligentia media
potest primam intelligere; igitur nulla intelligentia media potest et intelligentiam
mediam intelligere; sed neque deus potest
intelligentias medias intelligere, ut Divinovum de mente Averroys concluditur. Et neque intellectus noster possibilis,
ut fatentur adversarii, eas intelligere potest. Igitur intellectus possibilis, naturaliter
in se intelligibilis, non est ab aliquo comprehensus; sic patet ociositas
maxima in natura. Ex quo habetur quod, nisi abstracta intelligerentur
a nobis, essent utique ociosa. Et haec fuit
deductio Subgerii, viri in familia averroyca non obscuri Ma Taiapietra sa che non tutti gl’averroisti convengono nel
modo d’argomentare di Sigieri; dal quale dissente in particolare Jandun: Alii autem,
ut Gandavensis in quaestionihus suis de anima, quaestione, aliter deducunt. Et ipsi
accipiunt primo quod substantiae separatae comparantur ad intellectum
nostrum ut formae natae intelligi;
intellectus vero noster comparatur eis ut subiectum natum recipere illas comprehensive
et spiritu aliter; quod ex verbis Averro3^s multis viis probari potest. Primo, namque
intellectus possibilis ultimus est abstractorum; sed semper infìmus intellectus
est materia superioris, infima enim intelligentia perficitur a superiori sicut materia
perficitur a forma, ut dicunt
philosophi. Et confirmatur: quoniam vilius est potentia respectu nobilis,
et nobile est tanquam actus respectu vilis; igitur, quemadmodum substantiae separatae
sunt natae ntelligi secundum earum naturas, ita noster intellectus est natus Arist.,
De anima Poiché secondo Averroè, Metaphys. comm., Dio conosce soltanto se stesso
e non le cose inferiori a sé. NiFO, De intell.;
De beat, an., I, comm. Ma anche questa svista è in Nifo, De intell.
perfici ab eis secundum suam naturam. Amplius, intellectus possibilis est materia
omnium abstractorum et omnium intelligibilium; sed materia non corruptibilis ab
ipsis formis est apta et potens suscipere omnes formas; intellectus igitur noster
potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur prò constanti, quod intelligentiae sint potentes intelligi ab intellectu nostro
potentia quidem naturali; et similiter intellectus noster potest intelligere illas
potentia naturali, sicut et ipsa materia potentia naturali potest omnes suscipere
formas. Quo stante, arguit modo Ioannessic: intellectus possibilis, corpori continuus,
est receptivus et passivus intellectionis abstractarum intelligentiarum; ergo
habet naturalem potentiam recipiendi intellectiones earum, per earum scilicet essentias; ergo, si aliquando per cognitionem
non attinget eas, tunc natura egisset ociose, quoniam fecisset illam potentiam
naturalem intellectus nostri ad illas capessendas, quae tamen in actum nunquam adduceretur.
Et quod haec sit Averroys
ratio, declarat ibidem Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo Ioannes deducit
illam sequellam, exponendo totam
potentiam intelligendi ex parte nostri intellectus, et non ex parte
intelligentiarum, ut fecit Subgerius, qui totam intelligendi potentiam ad substantias separatas convertit. La stretta dipendenza dell'averroista veneziano dal
Nifo, si rivela oltre che dai testi citati, anche d’un particolare
caratteristico, là dove s'accenna a
quell'esposizione del pensiero averroistico che veriores averroyci exceperunt a filio Averroys in
tractatu suo De intellectu. Ma comunque
interpretata, la dottrina averroistica sulla copulatio e sulla felicitas
Averroistarum, di cui era solito beffarsi il Perette, è evidentemente contraria
all'insegnamento teologico. Perciò Taiapietra s'affretta ad aggiungere :Verum
quicquid dicatur principiis innitendo naturalibus ad mentem philosophi et
commentatoris, nihilominus secundum veram theologorum sententiam dicimus nullam generi humano in
hac vita contingere posse foelicitatem et beatitudinem, sed illam ei servari
post mortem in alio statu. Viatori enim non potest NiFO De intell. Amplius, filius Averroys in tractatu
de intellectu Declaravit has tres demonstrationes filius Averroys in tractatu
de intellectu anche nei Collectanea: et hanc domonstrationem dedit Alpheeh
Averroys filius in tractatu quem edidit
ad instantiam patris, et eam multum laudavit; e più oltre: et si inspicies
librum Alpheeh Averrois filij; e ancora più giù: Et in commentariis, quos
scripsi in libro felicitatis Averroys et eius filii. inesse foelicitas nisi in
patria, nec etiam abstracta ab eo cognosci possunt cognitione matutina sed
tantum vespertina ut sacri nostri recte sentiunt theologi. Con siffatta dichiarazione, egli ha ottenuto il duplice
scopo, di rassicurare i teologi sulle proprie intenzioni, e di poter discutere
con tutta libertà intorno al vero pensiero del filosofo e del commentatore. E
di questa libertà, procacciata a prezzo di quella dichiarazione, approfitta nel
modo piìi ampio, attenendosi al famoso commento del De anima. Anzi tutto,
coll'esporre e criticare la dottrina di
Alessandro intorno al modo come l' intelletto umano giunge ad unirsi coll’intelletto
agente, che per Afrodisio è Dio, e quella di Avenpace e di Temistio; poi collo
spiegare e difendere la tesi che ad essi oppone Averroè, qui inter omnes
philosophos post Aristotelem perfectior fuit et subtilior. Taiapietra combatte l’interpretazione
che del pensiero d'Averroè da Jandun, il quale opinatus est quod foelicitas nostra consistat in actu
sapientiali, et sit sapientia quae habetur Divinormn xii, a textu commenti xxix
usque in finem. Come si vede la felcità – GRICE HARDIE ACKRILL AUSTIN SOME
REMARKS ON HAPPINESS -- in siffatta teoria era a portata di mano: per quanto
astrusa, la metafisica aristotelica non è poi inintelligibile, e sopra tutto
abbastanza facile a capire è la parte
che parla appunto delle sostanze separate che muovono i cieli, e della pura
mente di Dio. Ma il possesso delle scienze speculative non basta alla suprema
felicità dell'intelletto umano, occorre l'inerenza formale del primo vero nella
mente umana, la cui potenza resti così tutta attuata. Il possesso delle scienze
speculative è condizione per giungere a questa beatitudine dell'intelletto, non
il fine ultimo cui aspira la mente umana, che riposa solo nel possesso del vero
eterno --- citta dell’eterna verita GRICE -- fuor del qual nessun vero si
spazia. Ora a questo possesso s'arriva soltanto colla copulatio o continuatio
dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, sì che la potenzialità del
primo sia tutta sommersa e assorbita nell'attualità del secondo: Ipse (commentator), commento (De anima) totiens allegato, inquit quod in
adeptione illa nos intelligimus omnia et sumus sicut dii, et quod ille modus
intelligendi non currit cursu scientiarum cogitativarum, quae habentur per discursum, sed est per
substantiam intellectus agentis, in quo omnia intuitive cognoscimus.
Convincitur ergo ad intentionem commentatoris, quod ea in cognitione intuitiva
nos utique foelicitamur; non autem in illa quae in metaphysica per
demonstrationem habetur. Del tutto aderente all'interpretazione sigieriana del
pensiero d'Averroè, quale ci è nota pell'esposizione che ne fa Nifo e che
concorda con quanto pensa Achillini, è anche l'interpretazione che della vera
dottrina del commentatore ci dà Taiapietra: Superest modo circa
ambiguitatem hanc magni commentatoris afferre
sententiam, quam omnes viri sublimes in philosophia ac in secta averroyca
primarii nobiscum integre et perfecte sentiunt. Opinamur enim itaque
foelicitatem esse deum. Nam assumpta foelicitatis diffinitione prò maiori, tunc
si addatur haec minor, videlicet: sed deus est ultimus finis, optimus, propter
se eligibilis, ad nullum aliud ordinabilis, cuius gratia omnia eliguntur, bonus et perfectus,
pulcherrimus, delectabilissimus, per se sufficiens, honorabilis, principium et
causa omnium bonorum; ex his ergo optime convincitur, quod deus est foelicitas.
Foelicitas enim, quia rationem totius boni amplectitur, omnem quietat
voluntatem; quia vero rationem totius entis continet, universum saciat
intellectum. Sed in nullo nisi in deo verius
reperiuntur ratio totius boni et totius entis. Ergo etc Et hoc forte, et sine
forte, balbutiendo intellexerunt vetustiores; nec valet quod dicunt quidam
moderniores, quod bene concluditur deum esse foelicitatem simpliciter, sed non
homini propriam. Sed profecto hoc nihil est, ut piane ostendimus in superiori
capite: hanc enim conclusionem habent Averroes et Aristoteles expresse, x. Nichomachiae,
capite, scilicet quod deus est foelicitas sibi et aliis intelligentiis
et etiam homini. Solum enim ipse est perfectissiinum intelligibile et
appetibile propter se; in eo enim eminenter reperitur ratio obiecti intellectus
et voluntatis, immo solum ipse est eminenter omnia bona continens. Et
confirmatur, quoniam id quo foelicitantur dii omnes est suprema hominis et
omnium foelicitas; sed deus est quo
omnes foelicitantur; omnes enim intellectus foelicitantur intelligendo deum;
sed intellectio qua ipse deus intelligitur est ipse deus; igitur omnia deo
foelicitantur. Et haec ratio tota est philosophi, Nichomachiae. Quare
concluditur quod deus, ipse formaliter est foelicitas. Amplius, quo foe Sigieri Alla lettera da Nifo, De
intellectu Allude forse al passo àeWEtìi.
Nicom.. licitatur
deus, foelicitantur et alii omnes intellectus, ut expressa est sententia
philosophi, Divinorum, et praecipue commentatoris, ibi,
comm. Sed deus non foelicitatur nisi dee, ut inquit Politicoruni: deus foelix quidem est et beatus, propter
nullum autem extrinsecorum bonorum, sed propter seipsum ipse. Deo, ergo, nedum homo, sed omnia foelicitantur. Sed
nihil foelicitatur nisi foelicitate.
Deus igitur ipsa est foelicitas. Et ex hiis verifìcantur omnia verba
Aristotelis in toto libro Ethicoriim, ubi de foelicitate sermonem habet. Giunto
alla fine trattato, il filosofo,
rendendosi ben conto che siffatta
felicità è irraggiungibile all'uomo in questa vita, torna ad avvertire
il lettore che tutto quello che abbiamo udito da lui su questo argomento, ad
altro non mira se non a chiarire qual è
in proposito il vero pensiero d'Aristotele e Averroè: Hoc enim, in explanandis
auctoribus, expositoris officium esse consuevit, ita quod, quid ipse velit
auctor, et determinet et ad verbum interpretetur, etiam si illud falsum sit, ut
auctorum integrae et non manchae, fideles et non depravatae sententiae circa
quaeque apud omnes recipiantur. His
autem sacri nostri Poi. ediz. Immisch.
Leipzig, Teubner, Così anche Nifo nella
lettera all'inquisitore Grassetto, della quale è stato fatto cenno sopra: in
exponendis enim auctoribus, commentatoris officium solet esse, quid ipse auctor
velit ac sentiat, etiam si id interdum minime verum sit, interpretari. Di
questo che è non solo diritto ma dovere di ogni interprete onesto, si valsero
tutti gl’averroisti per esporre con la
massima libertà il pensiero d'Aristotele e dei suoi interpreti. Ma Nifo, per
entrare nelle buone grazie dell'inquisitore, aggiunge. Itaque ut in illis quae
ad philosophiam pertinebant, philosophi ac interpretis munere functi, ipsum
auctorem exposuimus; ita in his quae fidei catholicae contraria erant, ultra
expositoris terminos evagati quemadmodum hominem christianum decebat, ipsi auctori contradicimus eiusque OPINIONES –
GRICE PREJUDICES AND PREDILECTIONS, WHICH BECOME THE LIFE AND OPINIONS OF H. P.
GRICE -- ac dieta omnia theologorum nostrorum auxilio confutavimus -- quello
che Taiapietra e in generale gl’averroisti non fanno. Del che l'inquisitore gli dà atto: placetque mihi quod in philosophia,
christianae fidei non immemor, in
plurimis philosophos redargueris, nihilque in toto opere invenerim quod castigatione dignum censeam --
in fine del volume che contiene il commento di Nifo alla Desfritctio e il De
sensu agente nell'ediz. veneziana. Di
questo zelo nel redarguire e confutare le dottrine dei filosofi ancora di più
che nel commento alla Destriictio, Nifo fa mostra nel De intellectit, riveduto
e corretto pell'edizione, ove è evidente
il proposito di rifarsi una verginità filosofica anti-averroistica, adoprandosi
a far credere che il suo distacco dall'averroismo risalga e preceda quello del
suo maestro Vernia. Hec sunt que preceptor defendit ad mentem Platonis et
Aristotelis theologi iuxta christianam nostrani religionem multa addunt, quae
nos ex testimonio prophetarum credimus;
et ideo ea tantum asserta esse volumus, non quaerentes ad liaec aliquam
rationem, sed quantum ortodoxa ecclesia praecipit, procul dubio asseveramus.
Itaque, ut philosophum decet ac peripatheticum hoc in tractatu quae ad
philosophiam pertinebant, more phisici interpretis, declaravimus, ubi non parum
boni fecisse arbitramur, quum multa in naturali philosophia obscura et
latentia iuxta sententiam philosophi et
eius magni commentatoris Averroys in lucem ediderimus et ea bene dispositis
aperte propalavimus. A questo trattato ne seguono altri, concernenti argomenti
di filosofia naturale fieramente controversi tra gl’aristotelici delle varie
tendenze, e cioè Utrum nec ne apud
philosophum plures substantiales formae ad invicem realiter distinctae in
substantiali composito sint ponendae Utrum ad intentionem philosophi
dementa remaneant formaliter in mixto Utrum simplex elementum alterari possit
et a se De quorumcunque simplicium sive
mixtorum primo ac proprie dicto elemento e su tutti questi argomenti Taiapietra
difende con risolutezza ed energia la dottrina d'Averroè come quella che
combacia perfettamente coll’insegnamento di
quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti,
come pensa ALIGHIERI. Ma di siffatti argomenti il nostro palato, che ha
assaporato Hume e Kant – E KANTOTLE ARISKANT PLATHEGEL --, non ha più il gusto, che non hanno perduto
invece i sequaci d’AQUINO, ai quali è giusto che queste pagine siano segnalate.
Tale il programma che l'allievo dei maestri
padovani prepara pella solenne disputa romana. A parte l'accenno
abbastanza vago che Sanudo fa dell'obiezione di Gabrielli ad una delle tesi
sostenute dal dottorando, perché l'è ereticha, non sappiamo a quali altri
assalti dove tener testa l’averroista veneziano. Sappiamo soltanto che egli
giostra da bravo e che il giorno
appresso il papa lo dotoroe. O tempora! – IT IS A GOOD THING I NEVER TRIED TO EXPLORE QUA HAMSWORTH
SCHOLAR THE 39 ARTICLES – GRICE -- in eo libello quem inscripsit De animorum
pluralitate, quem confecit compluribus annis post nostrum De intellectti librum Nifo, De anima, comm. Eppure Nifo sa bene che Vernia, nella dedica
dell'opera a Grimani, dichiara d’avere scritto anch'egli il suo trattato Conv.,
Nel volume su Brabante nel pensiero del Rinascimento
italiano, N. ha a riunire alcune importanti testimonianze intorno a due e forse
tre scritti dell'averroista brabantino, che si leggeno ancora a Bologna e a
Padova. Queste testimonianze si trovano pella massima parte nel De intellectn
et daemonibiis di Nifo, il quale pretende d'avere scritto quest'opera a Padova,
quando già s'era distaccato
dall'averroismo sigieriano cui egli aveva prima aderito. E pare che in
quegli anni egli scrive davvero una quaestio de intellectu in senso sigieriano, e che in seguito, per
evitare la taccia d’eresia e guai maggiori, ri-elaborasse quella quaestio, sino
a farne il trattato De intellectu,
dedicato a Badoèr: che d’edizioni
anteriori non esistono tracce. In tal
modo Nifo cerca di far credere che egli
aveva preceduto il suo maestro Vernia nell'abbandono dell'averroismo.
Nel De intellectu e nel commento al De
animae beatitudine di Averroè, Nifo si riferiva a due opere di Sigieri o, com'egli scrive, Sugerius, Suggerius,
Subgerius, vir gravis, secte
Averro3stice fautor, etate Expositoris, cioè d’AQUINO, discipulus
Alberti, Subgerius contemporaneus AQUINO. Queste due opere sono un tractatus de intellectu, Dal Giorh.
Crit. d. Filos. Ital. tertio loco inscriptus, qui fuit missus AQUINO, prò responsione ad tractatum suum contra
Averroim, e un liber de felicitate che
pare identico col tractatus intelligentiarum et beatitudinis, ricordato dallo
stesso Nifo nei suoi Colledanea sul De
anima, nell'edizione veneziana e in
quella, nelle quali Subgerius è diventato
Subiegius. Ma nel suo trattatello De primi motoris infinitate, portato a
termine quando aveva lasciato Padova, Nifo sembra attribuire a Sigieri un terzo
trattato de motore primo et materia celi. L'espressione in tractatu suo de
intellectu, tertio loco inscripto potrebbe intendersi di un volume di scritti
sigieriani, ove il tractatus de intellectu si trovasse trascritto al terzo
posto fra altre opere
dell'averroista belga. Delle
varie dottrine attribuite a questo Sugerius o Subgerius da Nifo, due giova qui
ricordare: quella che tende a mettere in evidenza il procedimento deduttivo
onde Averroè aveva concluso che se l'intelletto umano non potesse intendere le
ostanze separate queste sarebbero inutili, ociosae; e l'altra che afferma che
ogni intelligenza inferiore intelligit sviperiorem per essentiam superioris, ossia in quanto
l'intelligenza superiore l'informa di sé intenzionalmente e s'unisce ad essa.
Orbene: quanto alla prima di queste due tesi, sappiamo che il
domenicano Silvestri da Ferrara, nel suo commento alla somma Contra
gentiles, l'attribuisce a Rugerius in tractatu
suo de intellectu, misso Beato AQUINO prò responsione ad tractatum suum contra
averroistas. In un primo momento, N. pensa
che Silvestri dipende da Nifo e che
Rugerius fosse un errore di stampa per Sugerius. Però avevo aggiunto: ma può darsi che egli citi d’un manoscritto
in cui il nome di Sugerus. era già stato mutato in Rtigerius. Qualche luce
viene ora a gettare su questa, che non è affatto una quisquiglia, l'importante
notizia nella quale mi sono imbattuto scorrendo il codice marciano Lat., che contiene le
Annotationes in jo UJjro de anima, die
vero iovis quae fuit ah excellentissimo ac celeberrimo domifio Mofìtedocha,
unum trium sui temporis philosophoriim peritissimo, trascritte dal padovano
Tedoldi, dottore nelle arti, ad laudem ei, dic'egli, et meae amicae quam maxime
amo! Montesdoch studia a Bologna e nello studio bolognese insegna filosofia naturale in concorrenza con
Pomponazzi, e per alcuni anni legge anche la metafisica. Ma in seguito a
contrasti che N. ritiene egli ha con
Pomponazzi, lascia Bologna e anda a insegnare a Roma. Da Roma appunto, per un ingaggio vantaggioso
propostogli dall'ambasciatore veneto Minio, passa a insegnare filosofia
naturale a Padova, iniziando il corso delle lezioni colla lettura del commento averroistico al De anima. Nella
lez., egli venne a porsi appunto il dibattuto problema, come un'intelligenza
inferiore conosca l’intelligenze superiori ad essa. Dopo aver riferite varie
opinioni, egli accenna a quella moderna sostenuta d’Achillini,
che l'intelligenza inferiore conosce quella superiore per essentiam superioris.
Siffatta tesi, osserva Montesdoch, può dirsi
moderna solo in quanto alcuni moderni, come Achillini, se la sono
appropriata. Ma prima di loro e' è stato
Ruggiero. Cosi anche nel Marciano lat.
che contiene le lezioni dello stesso Montesdoch sulla Fisica, Tedoldi che le
stava trascrivendo, interrompe la lez. con questa informazione autobiografica:
Et sic sit finis huius lecturae nostrae prò praesenti, quae fuit die
mercuri 8 mensis augusti et hora ii ad
laudem dei et beatae mariae atque amicae meae quam maxime amo, quia hodie hora habui eam in brachiis meis. Le
parole tra parentesi quadrate son coperte d'inchiostro e solo alcune appena
leggibili. Sotto è un quadrato che dove contenere un motto o un piccolo
disegno. Ma anch'esso è stato coperto d'inchiostro nero. E alla fine della
lezione sul De caelo, commentato da
Montesdoch, cod. marciano lat., Tedoldi, che la sta copiando, annota: Sed quia
hora est nimis tarda, et quia maxime crucior amore meae amicae, ideo valde fessus
cogor non amplius scribere. Tanto che, lasciata Bologna d’un pezzo, Montesdoch
conserva ancora del Peretto un ricordo disgustoso. Nel commento infatti alla Fisica
fa menzione di lui come nimis monstruosus,
e troppo grossolani ne dichiara i ragionamenti: dicit rationes nimis
grossas Alia positio et opinio est quae est opinio non moderna, dato quod
moderni eam sibi tribuant. Sed ante eos fuit Rogerius; fuit magnus vir, cuius
opera non habentur impressa, nec vidi ea nisi in bibliotheca sanati dominici de
bononia, et ea etiam vidi romae in sanato Ioanne de viridario. Fuit etiam
opinio Ioannis de RIPA; tamen Achillinus sibi eam tribuit, quomodo seconda intelligentia
intelligat primam, ms. Marciano. Che questo Rogerius sia il Sugerius o
Subgerius di cui parla Nifo non v'è dubbio. Ma l'importanza di questa
informazione di Montesdoch consiste nell' averci egli indicato dove aveva visto
l’opere di questo Rogerius sostenitore della dottrina che Achillini spaccia per
sua. Queste opere non ancora stampate,
bensì manoscritte, erano state viste da
lui a Bologna, nella biblioteca del convento domenicano di S. Domenico, e dipoi
a Padova, nella biblioteca del monastero di S. Giovanni in Verdara dei Canonici
Lateranensi. Veramente nel ms. Marciano si legge: et ea etiam vidi romae in
sancto Ioanne de viridario; ma è evidente che al posto di romae deve
leggersi paduae supponendo che il nome
di Padova fosse scritto con l'iniziale maiuscola, l'errore di lettura si spiega
facilmente; a meno che non debba leggersi romae et in sancto Ioanne de
viridario. Quanto al codice veduto a S. Domenico di Bologna, parrebbe trattarsi
di quello usato da Silvestri che, come abbiamo visto, ne ritenne autore,
anch'egli, Rogerius, che si ha ragione di ritenere identico a Sugerius. Questo codice non figura
affatto nei cataloghi di S. Domenico pubblicati da Laurent Vigili et les
hibliothèques de Bologne au début du xvie siede d'après le ms. Barb. latin E nella lez lo stesso Montesdoch dice. Una
est opinio Ioannis de RIPA, cuius opera sunt bononiae in conventu sancti
lacobi, qui est fratrum Eremitarum. Et ipse bene intellexit opinionem
averrois in hoc loco, sicut aliquis alius. Omnia autem ab Ioanne de RIPA accepit
Achilinus. Come risulta dall'opera di Laurent, citata più oltre, il commento alle
Sentenze, cui qui si allude, era posseduto non solo dalla biblioteca del
convento di S. Giacomo, ma altresì da quella di S. Domenico e da quella di S.
Francesco. In questo scritto o questione non
solo Giovanni da Ripatransone si dilunga in ben quattro articoli sul
tema qui accennato, ma ci offre un'ampia esposizione del suo modo d' intendere
la dottrina averroistica sulle intelligenze separate e sull’intelletto umano,
molto vicina e spesso identica a quella di Sigieri. in Studi e Testi, Vaticano.
Dove è andato a finire e come è scomparso? Siccome esso fu visto da Silvestri,
che, proprio a Bologna nel convento di S. Domenico, aveva portato a termine il suo commento alla
somma Contra gentiles, e da Montesdoch, si può pensare che esso sia stato fatto
sparire come opera d'averroista inviso ai domenicani, che l'averroismo
ritenevano una pericolosa eresia, a differenza di altri, per esempio degh
eremitani e dei carmelitani, assai meno ligi ad AQUINO. Tanto più che
Achillini, come ricorda Montesdoch, aveva
fatte sue le dottrine dell'averroista brabantino, pur evitando di nominarlo,
nella pubblica disputa tenuta al capitolo generale dei frati minori. Quanto
all'esemplare che Montesdoch dichiara d'aver visto nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, N. ha il
sospetto che esso potesse essere una copia di quello di Bologna, ordinata da
Marcanova, negli anni che questi insegna a
Bologna, e quindi passata al monastero di Verdara insieme alla
biblioteca di lui. Ma dallo studio di Sighinolfi, che della biblioteca del
Marcanova ha pubblicato l’inventario nei Collectanea variae doctrinae in onore
di Olschki, Monaco di Baviera, non risulta. Questo per altro non vorrebbe dir
molto, perché spesso l’inventario è assai generico e contiene non pochi numeri
d’opere anonime, fra le quali potevano ben trovarsi incastrate quelle di
Sigieri. Al notaio premeva più d’elencare il numero dei volumi che non il loro effettivo contenuto,
contentandosi d'un'ispezione molto superficiale, che spesso rende difficile
riconoscere l'esatta natura d’opere appena accennate con titoli piuttosto vaghi,
anche senza contare i non pochi errori di trascrizione commessi da Sighinolfi.
Si potrebbe pensare, è vero, che gli scritti di Sigieri fossero entrati per
altra via che non fosse quella del legato
testamentario del Marcanova. Ma è sicuro che essi non figurano
nell'elenco che Tomasini redasse dei manoscritti di Verdara nelle Bibliothecae
Patavinae maniiscriptae puhlicae et privatae Ma potrebbe anche darsi che
l'opera di Sigieri restasse sconosciuta o fosse dimenticata da Vigili, poiché
il suo catalogo è lungi dall'essere completo. Udine, nemmeno in quello
manoscritto della Marciana (Ital.); sì
che bisogna rassegnarsi a pensare che, già prima, gli scritti di Sigieri
fossero ormai spariti anche dalla biblioteca dei canonici regolari lateranensi
di Padova. In questa biblioteca, ch'era assai ricca, non mancavano commenti ad
Aristotele e trattazioni concepiti, queste e quelli, secondo lo spirito averroistico. V'era, fra l'altro, l'ampia
esposizione del servita Urbano
Averroista sul commento d'Averroè alla Fisica, che Marcano va aveva
fatto copiare a sue spese a Bologna in due grossi volumi corretti e postillati
di sua mano. Quando a Venezia, l'opera
d'Urbano fu data alle stampe su un vecchio codice bolognese per volontà del
priore generale dei Serviti, Alabanti, dietro suggerimento di Vernia, questi
s'accorse e fa notare che il codice trovato d’'Alabanti contene la stessa
esposizione alla Fisica, che nella copia di S. Giovanni in Verdara era
attribuita a Marcanova. Ma l'osservazione di Vernia passa inosservata; e anche
quando dal monastero padovano il codice passa alla Marciana, nei cataloghi di
questa l'opera d' Urbano resta attribuita a Marcanova, sebbene nell’explicit
sia detto (Lat., CI.) che il nome dell'autore non si conosce: cuius nomen non habetur. Ed alla
stessa biblioteca di S. Giovanni in Verdara e ai Canonici regolari Lateranensi,
che abitano quel monastero, era particolarmente affezionato l'averroista
maestro Vernia, il quale, gravemente ammalato, fa testamento a loro favore e,
qualche anno dopo, fa ad essi donazione dei suoi libri. Per quella volta la
negra parca lo risparmiò, lasciandogli ancora più d'un ventennio, per il
piacere dei suoi colleghi ed alunni, pelle sue filosofiche speculazioni e per
diverse marachelle non precisamente filosofiche. Ma quando sentì A proposito
dell'opera d' Urbano, che nel prologo dell'edizione si dice cominciata prima,
giove avvertire che il p. R. M. Taucci, de' Serviti, / maestri della fac.
teolog. di Bologna, in Studi stor. sull'Ord. dei Servi di Maria osservando che l'unico maestro
servita di nome Urbano fiorì prima, propone di correggere la data che la morte
sta ormai per ghermirlo, detta le sue ultime volontà, in Vicenza, lasciando
ancora tutti i suoi libri, omnes libros graecos et latinos, ai Canonici
regolari Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo di quella città, perché
fossero posti nella loro biblioteca, e chiede altresì d'esser sepolto nella loro chiesa. Nella
biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, pare dunque che Nifo, discepolo
di Vernia, legge le tre opere da lui
citate e attribuite al grande averroista Sugerius o Subgerius, ov'egli dichiara
d'avere attinta la dottrina, un tempo da
lui seguita, sul modo come l'intelletto possibile, unico per tutti gli uomini,
s'unisce ai singoli e può dirsi vera forma
dans esse homini. Lo stesso Nifo, nel commento alla Destructio
destructionum, apparso pella stampa accenna ad una discussione avuta col conte
della Mirandola, mentre in corbula si recavano a Bologna. Per la Pentecoste, in
occasione del capitolo generale dei frati predicatori tenuto a Ferrara, c'era
stata una solenne disputa pubblica alla presenza del duca Ercole, e il
domenicano VIO, venuto apposta da Padova
ove insegna metafisica, s'era trovato di fronte Pico, il quale gli aveva mosso
niente meno che cento obiezioni. Mortier, Histoire des Maitres Généraux de l'ordre des fr.
Precheurs. Pochi giorni dopo, anche i frati minori
adunarono a Bologna il loro capitolo generale e, secondo il costume, diramarono
inviti ai maestri e ai dotti delle città vicine che avessero desiderato partecipare alla disputa pubblica
che si sarebbe tenuta, more solito, in quell'occasione. A Bologna sarebbe sceso
in lizza uno dei maestri dello studio che già comincia a far parlare di sé pella
sua serrata dialettica e per certa nuova maniera d'intendere l'averroismo. L'
invito doveva solleticare il battagliero conte della Mirandola e Nifo, che
verosimilmente era accorso da Padova
alla disputa nella quale era campione un suo collega. E penso che tutti
e due insieme sian partiti da Ferrara per trovarsi alla disputa che il jo
giugno, seconda domenica dopo Pentecoste, Achillini avrebbe tenuto a S. Francesco in Bologna. E quale non
dev'essere stata la sua sorpresa nel sentire che maestro Achillini discetta
intorno alle Intelligenze, da quella del Primo Motore che è puro atto, giù giù fino air intelletto possibile
umano che è pura potenza, e con grande risolutezza e abilità dialettica fa sua
la dottrina averroistica di quel Sugerius, del quale anch'egli aveva letto gli
scritti che a Padova si conservavano in S. Giovanni di Verdara, ove ritengo li
avesse visti e letti anche il Signore della Mirandola. Questa risolutezza del
collega bolognese deve averlo tanto più
meravigliato, che a Padova il decreto vescovile aveva assai limitato la libertà
di giostrare sull'unità dell'intelletto umano, ed egli e Vernia si vedevan
costretti a dissipare i sospetti che si nutrivano su loro come averroisti. Nel
trattato De intellectii, scritto da Nifo col proposito fin troppo palese di
rifarsi una verginità antiaverroistica, in gara con maestro Nicoletto, si
direbbe ch'egli prendesse di mira i quolibeta
de inielligentiis, pur senza nominare l'autore d’essi, delle cui dottrine svela
la fonte negli scritti di Sigieri, d'Achillini taciuta. Il nome di Zimara, largamente diffuso, è strettamente legato alla storia
dell'aristotelismo, e in particolare di quella corrente che fu l'averroismo,
anzi di uno speciale indirizzo di questo in contrasto con altri indirizzi che
si reclamavano ugualmente d’Averroè, il commentatore
per eccellenza d'Aristotele, l'arabo Averrois che il gran commento feo. Invece
il nome del figlio di lui, Teofilo, è
rimasto presso che sconosciuto, fra gli storici della filosofia italiana.
Peggio: uno di questi che di recente ha dedicato al pensiero italiano del
Rinascimento tre grossi volumi, Saitta, essendogli accaduto di metter la mano,
senza volerlo, sul massiccio e diffuso
commento di Zimara, Marci
Antonii F., al De anima, ha
attribuito quest'opera al padre, ignorando l'esistenza del figlio. E fin qui
poco male. Ma egli s’è spinto assai più in là; che non pare si sia reso conto
che, mentre Marcantonio è un averroista schietto e tutto d'un pezzo, il figlio al contrario combatte
apertamente l'averroismo e propugna un
platonismo cristianeggiato, che,
divenuto di moda tra gli umanisti dopo Ficino, si propone di conciliare
Aristotele, liberato dall'esegesi averroistica, con Platone, con Plotino, con Proclo e con Simplicio. E questo
è il male peggiore che puo capitare a Teofilo, che cioè il grosso volume
dedicato a Sirleto, e dal quale s'attende qualche fama, non solo gli fosse
tolto, ma ne fosse travisato il pensiero,
col ravvicinarlo all'averroismo. Atti del Congresso Storico Pugliese, Archivio Storico
Pugliese. Sono stati apportati alcuni notevoli ritocchi. Ma anche
intorno a Zimara accade di leggere nei libri di storia della filosofia grossi
spropositi, che N. si propone di correggere, raccogliendo quello che di certo
si sa intorno a lui e al figlio e intorno alle loro opere. Ben inteso, non si
tratta di richiamare l'attenzione dello
storico su due astri di prima grandezza o, come si direbbe oggi, su due figure
di primo piano nel complesso panorama del nostro Rinascimento: si tratta
soltanto di mettere nella giusta luce due onesti pensatori che, pur senza
elevarsi gran che sulla coltura del loro tempo, meritano di non esser
dimenticati, perché di quella coltura sono eminentemente rappresentativi. I. Zimara. Di lui sappiamo
con certezza che sostene a Padova la
discussione preliminare al dottorato in artibus, ossia fa il tentativum nella chiesa di S. Urbano,
ove d’un cinquantennio sole riunirsi il sacro collegio degl’artisti; e che una
settimana dopo nell'aula solita d'esami in vescovato, sostenne il privatum
examen e consegue il grado di dottore in artibus. Il filosofo Trapolin gli conferì le insegne del grado a
nome del sacro collegio. Tutto questo è perfettamente documentato dagl’atti del
collegio stesso, nell'archivio dell'università di Padova, e dagli Ada graduum
presso l'archivio di quella curia vescovile. Da notare: presenti come testimoni
al giuramento e al dottorato sono Pomponazzi e Bacilieri; il primo ritornato da
poco a Padova, ove insegna filosofia naturale come ordinario primo loco, il
secondo venuto via da Bologna per contrasti coi colleghi, e straordinario della
stessa materia. In questi atti. Marcantonio è detto figlio quondam Zimara de Sanctopetro de Galatina terre
Hydrunti. Altra cosa certa è ch'egli potè fare gli studi di filosofia a Padova
grazie all'aiuto dello zio Bonuso, prelato della chiesa di S. Pietro in Galatina, al quale dedica l'edizione dei
Subtilissima Hervei Natalis Britonis
Quodlibeta undecim cum odo ipsius
profundissimis tradatibus, da lui curata
pell'editore veneziano Arrivabene. Anche nella dedica della quaestio de primo
cognito, Venezia, a Contarini, accenna espressamente a questo zio. Bonusio,
propresuli, avunculo, qui me semper eque ac filium carum habuit fovitque,
cuique non minus quam parenti mee animam
hanc debere me libens profiteor. Papadia lo dice nato da povera e oscura gente:
e cita in proposito un'epistola ms. di Vernaleone, che esiste a suo tempo
presso i signori Caroti. Sulla scorta della quaestio de regressu
Excellenfissimi Domini Marci Antonii
Zimarea nell'Ambrosiana di Milano, Cod. S. Q., fui indotto, nella prima
edizione di questo saggio, a supporre un
primo soggiorno padovano, anteriore, perché l'autore di quella quaestio accenna
più volte a discussioni avute con Maestro frate Francesco da NARDO, che insegna
Metafisica a Padova in via AQUINO, mentre frate Antonio Trombeta insegna la
stessa disciplina in via Scoti Erotto e
Zonta, La facoltà teologica di Padova.
Padova: Ad argumenta praeceptoris
magistri Francisci de NARDO, dico; sed advertatis quod praeceptor meus
antequam ingrederetur ad scolas ad legendum, allocutus fui eum supra hoc, et
dixit mihi. Ma pili tardi, visto il codice della Nazionale di Napoli, che
contiene il commento del Pomponazzi ai primi due libri del De anima e il
commento dello stesso Peretto al terzo libro, m'accorsi con mia sorpresa che
quella quaestio, attribuita a Zimara nel codice ambrosiano, non è affatto di
questo, sibbene del suo maestro, il mantovano Pomponazzi, che più volte ricorda
d'essere stato discepolo del sequace d’AQUINO
Nardo. Quindi cade l' ipotesi di un soggiorno di Zimara a Padova, prima
di quello indicato da Papadia, il quale dice che lo zio, Bonuso, l’inviò a
Padova. Se a Padova giunge quando
erano già morti Nardo e Roccabonella, vi trova tuttavia maestri provetti che godevano
già di gran fama o quelli che erano
sulla via di procurarsela: il faceto
Vernia, Memorie storiche della città di Galatina, Napoli averroista spregiudicato, finché il
vescovo di Padova, Barozzi, col decreto
non l'obbligò a ravvedersi, Trapolin, anch'egli averroista, ma ben più moderato
e guardingo, gli scotisti Trombeta e Ibernico, il Peretto Mantovano che
rivelava una spiccata tendenza a ribellarsi all'averroismo di moda, il
vicentino Fracanziano, concorrente del Pomponazzi, Bacilieri che a Padova
professa l'averroismo di marca sigieriana del quale a Bologna era acerrimo
propugnatore Achillini. Nifo lascia con gran disdegno lo Studio patavino, non
sappiamo se malcontento dello stipendio
o per dissensi coi colleghi. E
Vernia muore, e la sua cattedra venne appunto coperta col richiamo del Peretto,
cui fu dato a concorrente Fracanziano. Di questi maestri, Trapolin fu primo
promotore del dottorato in artihus del Sanpetrinate, come Zimara ama chiamarsi;
ma di lui N. non ha trovato cenno, né in bene né in male, nelle opere
dell'alunno. Del Pomponazzi invece parla spesso; sebbene il rispetto pel precettore non gl’impedisca
di combatterlo su varie dottrine – GRICE: UNLIKE STRAWSON, WHO’D NEVER DARE --, e di pigliarlo di mira più volte in modo
assai vivace nella Tabula dihicidationum in dictis Aristotelis et Averrois, e
particolarmente nella quaestio d’immortalitate animae. Del Bacilieri combatte
la tesi che identifica l'intelletto agente con
Dio, che egli attribuisce, come fa anche Pomponazzi, ai bononienses. A
Trombeta accenna anche alla fine dell’annotiones sulla Metafìsica di Jandun: in
his omnibus subtilissime repraehenditur Ioannes a praeceptore meo Magistro Trombeta
nostre aetatis in metaphysicae speculationibus viro emeritissimo; nei theoremata:
Trombeta excellens in scientia divina et preceptor meus venerandus; e nella quaestio an gravia et
levia etc. del ms. Magliabechiano,
segnalatomi dall'amico Garin: quantumcumque, ut dicebat magister meus Trombeta,
Franciscus de Neritono NARDO dixerit. Che egli poi avesse a maestro anche Ibernico
è attestato dal francescano Girelli sulla fine del suo trattato de speciebus
intelligibilibus diretto contro Zimara: Ipse 3
Su di lui, V. sopra, il saggio
autem forte erravit propter amorem magistri sui, qui fuit Hibernicus. Non
sappiamo con certezza quand'egli comincia a insegnare come lettore pubblico;
poiché le lezioni In primuni Posteriorum del Cod. Ambros. D. log inf.,
potrebbero essere state tenute privatamente o anche pubblicamente in anni
precedenti al dottorato in filosofia, come mi risulta essere intervenuto a
Padova per il mantovano Triaca, per
Molino di Rovigo e per Trapolin. In fine
d’una lezione sul primo libro degl’analitici
posteriori accade di leggere questo curioso invito in versi: Scire volunt
onines, niercedem solvere nemo: hoc
dixit noster qui claret in orbe Zimarra. In catedra manens, dixit prò omnibus
una: solvite, precor, omnes, si vultis doceri. In domino testor, magnum
sumpsisse laborem; hac prò doctrina,
propriam vendidisse casellam. E in margine: Quare vobis dico: si librum
Posteriorum vultis ut aperiam, solvite, praecor, omnes. Ma non dovette passar
molto dalla laurea, che fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia
naturale. Intanto, per procacciarsi da vivere e poter continuare gli studi, cura
per gl’eredi di Scoto l'edizione delle quaestiones
in duodecim II. metaphysicae di Jandum, arricchendola di
citazioni e note marginali. L'edizione
scotina, licenziata, oltre alle note marginali, reca in appendice alcune
opere originali che possiamo considerare tra le prime del nostro. La prima è
una diffusa quaestio de principio individuationis ad intentionem Averrois et Aristotelis, di ben venti
colonne. Essa è dedicata Magnifico ac excellenti artium
Doctori domino Mocionigo patricio veneto. Questo M.cus et doctissimus
vir, D. Mocenico, Leonardi, filli
olim serenissimi principis venetiarum
Mocenici, era stato proclamato dottore in
artihus nella cattedrale di
Padova, con grande solennità,
come s'addice al suo alto rango, assistentibus
M.cis et Cl.mis
dominis Thoma Mocenigo praetore,
patruo, et Trivisano equite praefecto urbis Paduae,
avunculo, et aliorum praestantissimorum doctorum, scholarium, civiiim et
praelatorum corona, per Rev.um D.
Episcopum il bellunese Barozzi, eius domino vicario recitante. E ciò dopo
essere stato esaminato per Venerandum Collegium artium et medicinae Doctorum, e
post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac
varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Primo promotore del dottorato era stato Trapolin, che anche
questa volta conferì al neo dottore le insegne del grado. Nella dedica Zimara
parla del nodo d' indissolubile amicizia che lo lega al Mocenigo. In realtà
erano stati ambedue alunni del Trapolin e del Pomponazzi, insieme al gobeto
Venier, a Surian e a Contarini, artium
scholares, i quali nel verbale del dottorato del Mocenigo
figurano da testimoni. Nella
stessa dedica il nostro accenna al turbamento del suo animo pelle notizie che
gli giungevano da S. Pietro in Galatina, saccheggiata dal ritorno delle milizie
per cacciarne le galli. Pluribus profecto quam promiseram magnifìcientiam
vestram speculationibus donassem, nisi iniqua fortuna PATRIAM MEAM Sanctum
Petrum de Galatinis, militibus populationi dedisset. Alla quaestio de principio
individuationis tengon dietro l’annotationes in Gandavensem super quaestionihus metaphysicae eleganter discussae in via LIZIO et sui magni
commentatoris Averrois, anch'esse dedicate ad Mocionigum. Su molti punti Zimara
riprende con semplici note marginali il modo come Jandun espone il pensiero
d'Averroè. Ma su altri punti le sue riserve esigevano maggiore spazio che non
fosse quello d'una breve nota; perciò aggiunse al volume questa seconda
appendice, ove espone con ben maggiore ampiezza le ragioni del suo dissenso dall'averroista
di Jandun, la cui interpretazione della dottrina averroistica aveva suscitato
aspre critiche da parte degl’averroisti padovani e bolognesi, tanto che Pico
giudica che egli, ferme in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam Averrois
corrupit omnino et depravavit Conclus. secundum
Avenroem. Intento di quest’annotationes è dunque quello di stabilire
qual è il vero pensiero del commentatore arabbo. Ma nel far ciò, il filosofo di
Galatina si diffonde talora sino a ri-esaminare a fondo l'argomento discusso e a scrivere un
vero e proprio trattato, come fa a proposito della questione del libro, in una disquisizione di ben oltre
26 colonne. Una terza appendice è formata dalla quaestio de triplici
causalitate intelligentiae, concernente la natura, la dipendenza e la finalità
dell’intelligenze celesti secundum Aristotelis et sui Commentatoris Averrois sententiam,
problema dibattutissimo, intorno al quale Zimara, come già Brabante, difende la
causalità efficiente di Dio contro quegl’averroisti
che, come l'eremitano Rimini, la negano. Una frase in principio: vidi plures
tempore meo, philosophantes, parrebbe indicare che la quaestio fu
scritta anteriormente. Con questo volume, che si diffuse rapidamente in tutta Europa,
Zimara di San Pietro in Galatina in terra di Otranto si presenta agli studiosi
di filosofia come un interprete agguerrito e acuto del pensiero d'Aristotele e
del suo grande e fedele commentatore Averroè, in un momento quando il suo
maestro e dipoi avversario, il mantovano Pomponazzi, non aveva ancora stampato
una sola riga. Non tutti accettarono, si capisce, l'esegesi dell'Otrantino, com'era
chiamato a Padova, anzi molti presero a impugnarla, su questo o quell'argomento; ma a nessuno era
consentito ignorarla. Nello stesso anno
in cui cura l'edizione della metafisica dell'averroista di Jandun, ne prepara
altresì quella delle quaestiones super parvis naturalibus, pello stesso
editore veneziano, dedicandola a
Montagnana, professore di medicina nello Studio patavino e appartenente
a una celebre famiglia di medici padovani. La qual dedica m' indurrebbe quasi a
sospettare che egli si sta preparando al
dottorato, adulando con lodi sperticate, come era d'uso, un membro del
Sacro Collegio degli Artisti e Medici, che aveva il diritto di farsi promotore
della grazia, del tentativo e infine dell'esame
privato, nonché quello di conferire le insegne dottorali al candidato.
In appendice a questo volume, Zimara
stampa la quaestio de
moventis identitate et moti ad
intentionem LIZIO subtiliter et resolute
Patavii discussa, e la dedica a Capitani, figlio del chiarissimo medico, per
riconoscenza dell'appoggio che ne aveva avuto: cui denique quicquid dignitatis
in patavino GYMNASIO nuper assecutus sum, uni acceptum refero. Dello stesso
periodo, perché ricordata nelle solutiones Super de anima, Contr. sul comm.
è anche la quaestio qua species
intelligihiles ad mentem Averrois
defenduntur ad magnificum patritium Venetum Anfonium Surianum, pubblicata da Storcila e incorporata nel tractatus
adversus quaestionem M.
Ant. Zimarae de speciehus intelligibilihus,
Venezia, del francescano Girelli, alunno
di Pomponazzi. Zimara prende risolutamente posizione contro Achillini, il quale
nega le famose specie intelligibili, d'accordo in ciò col carmelitano Baconthorpe e Gand. D'Achillini
dice anzi quel che Averroè, De caelo, comm., aveva detto d'Avicenna, quod
videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona
confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores. L'argomento
era stato discussoa Padova da
Pomponazzi, il quale non si mostrò meno aspro contro Achillini; e proprio
Surian ce ne ha tramandata la quaestio
nel codice della Bibl. di Napoli. Un'altra e piu ampia riportazione si trova in
altro ms. della stessa biblioteca. Dalle controversie tra i
vari interpreti d'Averroè, trassero vantaggio gl’avversari
dell'averroismo, per insinuare che il gran commento formicola di contradizioni,
e che neppure Aristotele ne era immune. Sebbene Pomponazzi non rifuggisse dal
dirsi talora averroista o commentista,
nel senso che egli, seguendo una consuetudine di Padova e di Bologna, legge il
testo del LIZIO e il commento d'Averroè che l’accompagna, e sulla parafrasi e discussione dell'uno e dell'altro
conduce la lezione, non di meno, con tutto il rispetto pell'uno e pell'altro, non esita a mettere in evidenza le
incertezze e le contradizioni del commentatore arabbo, al quale non risparmia le sue critiche e i
suoi sarcasmi. Discepolo del Peretto
mantovano, Zimara, che per diversi anni ne segue le lezioni, si propone
di scolpare tanto Averroè quanto il LIZIO dalle contradizioni ad essi
attribuite e di mostrare ch’esse potevano, con qualche sottile distinzione –
GRICE IMPLICATURA --, risolversi nel modo più plausibile. Nascemp così le solutiones contradictionum in dictis Averrois che nella
prima redazione uscirono, precedute dalla quaestio de primo cognito, a Venezia,
con dedica al patrizio veneziano, magnifico Contareno magnifici domini Caroli
filio, al quale Pomponazzi dedica il De immortalitate animae, e che era
versatissimo negli studi della filosofia del LIZIO. Pochi giorni prima gh aveva
dedicato i trattati logici di Aristotele
col commento d'Averroè, da lui curati per gl’eredi di Scoto a Venezia. La quaestio de primo cognito si riallaccia alle
lezioni di Zimara sul prologo della fisica del LIZIO. L'autore d’essa discute
ampiamente e critica l’interpretazioni che del testo del LIZIO dano Burleo e
Rimini, dalla parte dei nominale, poi quelle di Scoto ed AQUINO, e infine
oppone ad esse quella che giudica più
conforme al commento d'Averroè. Le solutiones sono opera composta a tavolino,
succisivis horis ac tumultuarie. Ma che Zimara
prende di mira in particolare il Peretto, del quale si tace il nome, è
messo in evidenza dalla lettera, stampata del volume, coll’intestazione Sylvius
Laurentius a portu caballensis clarissimo artium et medicine doctori Marco
Antonio sanctipetrinati et hidruntino,
ere publico in GYMNASIO PATAVINO philosophiam profitenti, la quale porta la
data ex patavio. Questo ammiratore e forse discepolo dell'otrantino ricorda
appunto, che Petrus mantuanus noster philosophantium nunc primi fere nominis,
publico auditorio profiteri solet, hoc Averroi esse genuinum, ut, cum IMPLICITA
omnibus viribus nervisque EXPLICARE contendit et adnititur, maxime IMPLICAT,
eoque fertur, diffidente conscientia, quo denique ipsum impetus errabunde
opinionis impellit. Del che egli pensa fossero d’incolpare gl’amanuensi e gli
stampatori del commento averroistico, per incuria dei quali circola nelle
scuole pieno d’errori— GRICE INDICATIVE CONDITIONALS --. Ma non soltanto a Pomponazzi
intende opporsi Zimara, sì anche a Jandun, Rimini, Burleo, Achillini, e
Bacilieri, che, a suo avviso, con errate interpretazioni, fanno cadere in
contradizione il commentatore arabo. Pomponazzi, che
non condivideva con Zimara ed Achillini la fiducia nell'infallibilità
d'Averroè, scrolla le spalle ed osa negare la stessa fiducia perfino al LIZIO,
pur ritenuto d’ALIGHIERI maestro e duca
dell'umana ragione, e dagl’averroisti regula in natura et exemplar quod natura
invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam. Le contradizioni d’Averroè
hanno il loro fondamento in non poche contradizioni del testo aristotelico, che
si fanno sempre più palesi colle nuove traduzioni del periodo umanistico.
Perciò Zimara riprende in mano il libretto, e ne prepar un'edizione più
completa, con l'aggiunta di nuove
contradizioni ch'egli s'adopra a risolvere, associando nel titolo alle contradizioni del commentatore
quelle del filosofo: solutiones contradictionum in dictis LIZIO et Averrois.
Dalla lettera di Silvio Lorenzo da Porto appare che Zimara, dottore in artibus,
professa pubblicamente filosofia naturale nello studio patavino, occupando
evidentemente una delle due letture
straordinarie col modico stipendio di 47 ducati d'argento, secondo
Facciolati, Fasti gymn. patav., ed è naturale che aspira ad esser
promosso alla lettura ORDINARIA – GRICE ORDINARY AND EXTRA-ORDINARY LANGUAGE
--. Ora era rimasta vacante la lettura ORDINARIA secundo loco che aveva tenuto
Achillini, richiamato sulla sua cattedra a Bologna. Se la cattedra vacante fosse stata assegnata al sanpetrinate, questi sarebbe venuto ad essere
il concorrente diretto, cioè l'antagonista, di Pomponazzi, che occupa la
cattedra ORDINARIA primo loco, e sebbene
non è cittadino padovano, è stato aggregato al sacro collegio degl’artisti
della città. Ma per riuscire ad avere il posto ambito Zimara avrebbe dovuto
vincere l’ostilità che s’era creato colle
polemiche ingaggiate contro il Peretto, il quale gode di grande stima
nello studio patavino, e contro Achillini, del quale era ben vivo il ricordo.
Provvedere a coprire la cattedra ORDINARIA rimasta vacante era compito del senato
veneziano; e gl’aspiranti s'eran dati da fare per procacciarsi autorevoli
appoggi fra i membri di questo, che ne discusse nella riunione. Le proposte
fatte furon tre o quattro. Zorzi propone
Torre, fiol dil quondam missier maistro Hironimo da Verona, qual à leto e leze
in philosophia. Pixani, savio a terra ferma, mette di condur missier Marco d’Otranto,
che etiam leze in philosophia extraordinarie. Emo propone Sexa che è a Napoli, o ver Carensio,
padovano, ma che insegna filosofia a Ferrara, e che ritornerà in patria a
ricoprire una delle cattedre. È
interessante vedere che fra gl’aspiranti era anche Sexa, Nifo -- da
Sessa -- il quale aveva già
coperto la cattedra ORDINARIA di filosofia PRIMO loco a Padova, e n'era partito, a quanto pare, per
litigi coi colleghi. Ora egli non cessa di brigare per tornarvi, ma pretende uno
stipendio che il senato veneziano non era disposto a pagargli. Anselmi, console
di Venezia a Napoli, informa di lì a poco, che il Sexa voj vegnir a
Padova a lezer im philosophia. El qual dice voi ducati 500 e non mancho,
perché dice è il primo homo dil mondo, e a Napoli leze et medica; sì che non
avendo ditti danari, non voi vegnir. Sanudo. Ma appena qualche giorno dopo si
dichiara disposto a venire per 400 ducati all'anno, con ferma di tre anni.
Queste manovre di Nifo dovettero esser
note a Pomponazzi, che nel già citato commento al De anima prende ad attaccarlo
con rinnovata virulenza. Dopo Emo, parla Pisani. Vista la difficoltà d’addivenire
a un accordo e di far prevalere il suo candidato, Pisani ri-piega sulla
proposta d’indusiar, e così è presa l’indusia di 8 ballote. Sanudo, Diarii, e
Zimara dove rassegnarsi a rimanere alla lettura straordinaria. Né mi
consta che egli fosse promosso nel
quinquennio immediatamente successivo. La guerra contro la lega di Cambra ebbe
gravi conseguenze per lo studio padovano. Le truppe imperiali al comando di
Trissino entrano in città, e lo stesso giorno viene a morte Trapolin. Per il
momento, cioè per qualche mese, il turbamento dell'ordine pubblico non fu
grande; si tennero ancora esami, e Pomponazzi,
per esempio, figura ancora come
promotore in un dottorato. Il peggio venne dopo, quando i veneziani ri-occuparono
il castello, e cominciarono i saccheggi e le vendette contro coloro che di buon
animo o contro voglia s'eran compromessi coi tedeschi. Una delle famiglie
maggiormente colpite fu quella dei Trapolin. Alberto e Roberto, fratelli del
filosofo, sono presi prigionieri nella
ri-conquista del castello. Ma già due giorni prima le loro case e quella
d’un altro loro fratello, Nicolò, sono saccheggiate. Ed anche la casa di
Pietro, che era nella contrada di san Leonardo, non lontano dai Carmini, non fu
risparmiata, I SUOI SCRITTI DISPERSI, e il figlio Giulio fatto prigioniero e
spedito a Venezia con altri compagni. Il governo veneziano fu abbastanza
clemente con molti di coloro che s'erano
sottomessi al dominio imperiale su Padova; ma fu implacabile con quattro dei
maggiori responsabili di favoreggiamento, che manda al capestro. Primo era
Alberto Trapolin, fo fradello di misser Pietro dotor excellentissimo, el qual
Alberto era di XVI al governo di Padoa,
homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apichato a Padoa a tempo della novità
di misier Marsilio di Carrara. Il
secondo era Lodovico Conte. Il terzo Bertuzi
Bagaroto, dotor, qual lezeva puhlice in iure canonico. Il quarto, Jacomo da
Lion, dotor, el quale fé' la oration all' imperator, quando se deteno i
padoani, nella qual dice gran mal
de'veneziani. Sanudo. Fu in questo periodo di rappresaglie e
specialmente quando le truppe imperiali
tornano ad assediare la città,
che molti cittadini s’allontano da Padova e insieme ad essi molti
maestri dello studio. Fra questi certamente anche Pomponazzi, il quale sulla
sua cattedra di Padova non fa più ritorno. E Zimara? Si dice d’alcuni che lo studio rimane CHIUSO per
anni. Ciò non è del tutto esatto. Dagl’ada graduum presso l'archivio esistente della curia vescovile di
Padova, risulta, per esempio, in modo
indubbio, che Tomasis, figlio del
chirurgo, fa il dottorato in artibus, che fa il dottorato Marco Mantova,
che Oldoini fa anch'egli il dottorato in artihus, e che s'addottora in artihus
il magnifico Francesco del fu Morosini. Sappiamo
ugualmente d’altri conferimenti di LAUREA in
arti. Lo studio patavino, dunque, anche negl’anni successivi e ai fatti
accennati, continua a funzionare; ma
evidentemente in modo ridotto, e meno intensa fu la sua vita. Ciò si
constata in modo palpabile esaminando gli stessi Ada gradimm, e più ancora gl’atti
del sacro collegio degl’artisti, arch. dell’univ. di Padova, presso quel rettorato,
ove è un salto. Di Zimara nessuna traccia in questi atti, se ha N. ben veduto. Pare, dunque, che anche
lui se ne fosse andato. Dove? L'edizione dei quodliheta dell'Hervaeus che usce a Venezia, per
Arrivabenum, ed è curata e postillata da Zimara, fa pensare che questi fosse a
Venezia. Ma la lettera colla quale dedica la sua fatica allo zio Pietro Bonuso
induce N. a dubitarne. Dice infatti in essa che già d’anni è lontano dalla patria. E aggiunge. Ego enim, postquam
Patavium, bonarum artium fontem, applicui, ita impensam die noctuque
philosophie studio operam navavi, ut hinc recesserim nunquam. Anno tamen elapso
sarcinulas collegeram, accinxeram me itineri ad te advolaturus, quando, preter
spem, accademia nostra ad dignissimam me philosophie lectionem totis cervicibus
succollavit. Ora s’egli si laurea in
artibus, bisogna pensare che a Padova fosse andato almeno un quattro anni prima, cioè al più tardi. La
lettera dovrebbe quindi essere. E i conti infatti tornano: anno elapso,
cioè egli dovette essere chiamato, preter spem, alla lettura straordinaria di
filosofia naturale. Sebbene dunque l'edizione dei qiiodlibeta d’Hervaeus usce
alla luce, essa era già stata preparata e consegnata all'editore veneziano. Alla
guerra contro la lega di Cambrai tenne dietro quella della lega sacra, e la
Lombardia, la Romagna e 1'Emilia furon
corse da milizie galle, e papali. Lasciata Padova, ove aveva nutrito la
speranza di farsi strada e d’accrescere lo splendore della sua famiglia, non fu
facile al povero filosofo trovarsi un'altra cattedra a Ferrara o a Bologna,
com'era stato facile al Peretto mantovano. Perciò egli dove decidersi a
ritornare fra i suoi a S. Pietro in Galatina, ove effettivamente lo troviamo sindaco e già ammogliato con una tal
Porzia, secondo le notizie raccolte d’Arcudi e Papadia, i quali prendono queste
notizie dalla cronaca di S. Pietro in Galatina lasciata manoscritta dal
filosofo Arcudi. Prima di ri-metter piede nella terra natale, o appena vi fu
arrivato, egli dove pensare a propiziarsi Castrioto, duca di Ferrandina, sotto
la cui giurisdizione si trova S. Pietro in Galatina. A quest'uopo mette insieme
il curioso trattatello dei problemata e lo dedica al principe. Non consta a N.
che lo fa stampare; N. ne conosce solo l'edizione che ne fu fatta a Venezia ed
altre posteriori. Nella dedica appunto al duca di Ferrandina egli dice d’ammirare
in lui sopratutto charitatem qua literatos amplecteris, hac tempestate qua oh
bellorum importunitates pax una cum
litteris inferire visa est. Siamo dunque negl’anni che tengon. E poiché
Castrioto muore, il libretto è certamente anterior. Sindaco della piccola sua
città natale. Marcantonio si trova a
rappresentare quella comunità nella cauta ma energica difesa delle istituzioni
e dei privilegi d’essa contro le soperchierie di Castrioto, successo a
Giovanni. Intanto gli nasce il figlio Teofilo, del quale diremo fra poco. Arcudi parla anche d'un
altro figlio avuto prima, Nicolò, il quale è dottore in leggi a Roma, ove testa.
Altri due figli dovettero nascergli più
tardi. Ma le cure familiari e quelle pubbliche non lo distolsero del
tutto dagli studi. Usceno a Venezia, curate da lui, pegl’eredi di Scoto, le
seguenti opere d’Alberto Magno in via LIZIO
philosophi theologique profundissimi:
naturalia ac supernaturalia, cioè la fisica, il De generatione et corruptione,
il De metheoris, il De mineralihus, il DE ANIMA, il De intellectu et
intelligibili – GRICE AUSTIN WARNOCK DE SENSV ET SENSIBILI – DE INTELLECTU ET
INTELLIGIBILI -- e la metafisica, accompagnati da molte annotazioni marginali;
i parva naturalia e gl’opuscula nella dedica a Venier del fu
Cristoforo, Zimara pare
Galatina letterata, Genova. dichiarare che le sue castigationes
et lucubrationes si limitano al De causis, ma verosimilmente sue sono anche
quelle apposte al De natura locorum; e le Due partes Summe de quatuor coèvis.
Nell'edizione di quest'ultima opera, Zimara è detto philosophiam Padue publice
profitentem, espressione che forse va
intesa così dum philosophiam Padue
publice profitebatur. Poiché sembra poco probabile che in quegli anni egli
fosse tornato a Padova. Dov'è, dunque? Quasi certamente a Salerno, chiamatovi
da quel principe Sanseverino che ama circondarsi di uomini dotti e da impulso
al ri-fiorire degli studi nella sua città. Infatti nella dedica allo stesso
Sanseverino dei theoremata compiuti e pubblicati a Napoli, egli dice. Animadverti hoc ipsum superioribus
annis dum philosophiam theoricamque medicinae publice in tua Salerno
profiterer. A Salerno insegna anche Nifo, dopo che lascia Padova. Zimara
accenna ad un insegnamento di più anni in questa città, e ci fa sapere che,
oltre alla filosofìa, vi professa anche la medicina teorica. Tuttavia il suo
animo è rivolto a Padova. Dopo i fatti
dei quali abbiamo fatto cenno, lo studio padovano conduce per più anni una vita
stentata. Gli scolari sono molto diminuiti, non essendo attratti da maestri di
grande rinomanza. La città, che dall'affluenza della popolazione scolastica
traeva lustro e vantaggio, reclama a gran voce che si provvede sollecitamente
al bisogno, pel ri-fiorire dell'università, perché sia ritorna il studio come è
prima. Sanudo. E agl’oratori padovani
che questo chiedano con insistenza è risposto dal PRINCIPE: sono
contenti, e si pratichi di condur li dotori, perché nostra inten6 Però
riferisce Sanudo, che Loredan, capitanio a Padova, venuto in collegio a
Venezia, informa come nello studio di Padova sono a quel momento 22 dotori che leze artisti e 26 giuristi, e porta una letera per certo
dotor verìa a lezer. Scrive ha fato perteghe
21 mila 800. Se per avventura
questo dotor è Zimara, bisogna pensare che egli s’è sobbarcato al lungo viaggio
a Venezia, sia per sorvegliare la stampa d’Alberto Magno, sia per condurre in
porto le trattative pella lettura a Padova. zion è di ritornar il studio; la
quale assicurazione è rinnovata. Anzi, narra Sanudo che, dovendosi comenzar il studio
a Padoa, fo eletti tre doctori, quali
dovessero praticar condur li doctori a lezer che fusseno excelienti. I
quali doctori sono questi: sier Zorzi Pixani, sier Marin Zorzi, et sier Antonio
Zustinian. Sono ballotati in collegio i rotuli dei maestri chiamati a leggere –
GRICE, UNIVERSITY LECTURER -- sia nella
facoltà di legge come in quella delle arti e medicina. Pare ormai che le cose
si metteno bene. Pella filosofia al
secondo loco, è chiamato da
Ferrara PRISCIANO (vedasi) ed è promosso il veronese BAGOLINO (vedasi). Ma il
duca estense sollecita Prisciano a tornare a lezer a Ferrara; se non che il
maestro di lì a poco muore, ed è necessario provvedere alla sua successione. Riferisce
Sanudo, fo scrito a Roma all’orator nostro, come de lì si ritrova Montesdoch,
qual leze l'ordinaria di philosophia, il
qual alias desidera venir a lezer a Padoa al primo loco: per tanto, avendo
optima fama, vedi si'il persevera in voler venir, et concludi con più avantazo
el poi etc. Questo maestro, ancor poco
conosciuto, è collega d’Achillini e più tardi di Pomponazzi a Bologna, ma
abbandona quella città. N. non sa dove è andato. Sanudo ora ci fa sapere ch’è andato
LETTORE DI FILOSOFIA – GRICE UNIVERSITY LECTURER -- lettore di filosofia a
Roma, non essendo stato accolto a Padova. Mentre si cerca d’avviar pratiche
per condurre Montedosch, pare si fosse
pensato anche al mantoan, cioè a POMPONAZZI ch’è a BOLOGNA; e il consigliere Minio
suggerisce il nome di PORRO, che legge filosofia a Pavia, ov'era stato alunno
di Bacilieri. Sanudo. Ma li studenti,
nell'incertezza di’avere valenti
maestri, abbandonano Padova e anche quelli che s'apparecchiano al
dottorato andano a conventar altrove, in barba alla legge, quando sono sudditi
della serenissima. Sicché i rettori di Padova, Zorzi, podestà, e Contarini,
capitanio, scriveno il studio va in mina, per non v’esser doctori che lezano, e
li scolari vanno via, e li nostri subditi, non stimando le leze, non voleno più star, non avendo doctori
dai quali possano udir. L'allarme induce i savi del consiglio e terra ferma a
prendere una decisione sulla proposta di condurre a lezer nil studio di Padoa domino
Montesdocha, leze a Roma, alla lettura
dil primo locho di philosophia, cum salario fiorini 600 all'anno. E domino Zimara,
San Petrinas, di terra d’Otranto, leze a
Salerno alla ordinaria di teorica overo
pratica di medicina, con salario fiorini 300 all'anno. Presa la decisione, le
trattative con Montesdoch sono portate sollecitamente a termine. Quelle invece
con Zimara andaron pelle lunghe. Coll'andata a Padova di Montedosch, che gode di
meritata fama, lo studio parve ri-fiorire.
Il che fa piacere al governo veneziano,
che s'affretta ad informare i due rettori di
Padova come li riformatori dil studio, che sono allora Pisani, Bragadin,
Justinian, par habino auto aviso domino Marco d’Otranto è per venir,
però a visi li scolari. Se non che, a questo punto, debbo segnalare
un'indicazione che N. trova nel già citato cod. Ambros. S. Q., e che presenta
qualche difficoltà per accordarsi coll’indicazioni precedenti. In questo
codice, prima della Quaestio de
regressu, attribuita a Zimara, ma che invece è di Pomponazzi, come ho detto,
v'è anche una quaestio d’immortalitate animae domini ZIMARA venetiis discussa corani duce et senatoribus, la quale è cosa diversa dalla quaestio
sullo stesso argomento nel cod. parigino, Bibl. Nationale, ms. lat., di cui N. dice
più giù. La quaestio ambrosiana è assai più succinta. In essa son ricordati
il cardinale di S. Domenico, cioè il Gaetano, et praeceptor
meus, che è Pomponazzi. Alla fine si legge. Gratias itaque ago dominationibus
vestris quae dignatae sunt nostrae lectioni adesse. Haec dieta sufficiant de
ista difficillima quaestione, et fuit punctus Pascatis domini nostri Iesu
christi. finis. Orbene la Pasqua cadde non il 31 marzo, ma 1'8 aprile. Invece
l'anno successivo la pasqua cadde proprio 22 l'ultimo di marzo. Dunque
nel manoscritto ambrosiano che è una copia di mano di fra Zaccaria da Milano, v'è certamente un errore di trascrizione. Supponendo che pella pasqua
Zimara è venuto da Salerno a Venezia, per saggiare il terreno, egli potrebbe
avere avuto abboccamenti coi riformatori dello studio, onde conoscere meglio le
condizioni ch’il consiglio è disposto a
fargh, parendogli pochi 300 fiorini; e quindi, ri-partito per Salerno, in
maggio avrebbe fatto sapere d’esser disposto ad accettarle e ad assumere l'
insegnamento a Padova. Tutto questo, ben inteso, presupponendo che la quaestio
veneziana d’immortalitate animae sia davvero di Zimara, Ma ormai era tardi,
poiché, mentre al primo luogo legge l'ordinaria di filosofìa Montesdoch,
al secondo luogo era stato chiamato da
Pavia Porro. Per il momento
Zimara dove rinunziare a Padova e re-starsene
a Salerno. Ma lo troviamo lettore di metafisica nelle scuole pubbliche di S.
Lorenzo a Napoli, Ciò appare dalla expiicit dei theoremata usciti a Napoli a
questa data, con un epigramma di Gravina. Compievi hoc opus Neapoli, dum
scientiam divinam publico stipendio
legerem apud sanctum Laurentium, sub regimine Reverendi patris Fratris
Antonini d’Antorosa de Neapoli cui ego plurimum debeo. A Napoli forse egli era
già l'anno precedente, quando, secondo Arcudi e
Papadia, il filosofo e il suo conterraneo, il giurista Vernaleone,
sarebbero stati inviati dalla comunità di Galatina, per protestare presso il
vice-re contro i soprusi di Castrioto, e per
chiedere che fossero rispettati i suoi privilegi. Arcudi anzi riferisce una lettera di Zimara. Nobilibus
magnificisque viris sindico et regimini universitatis S. Petri in Galatina, per
esortare i suoi concittadini a mantenersi calmi ed attendere con fiducia. Ma
anche da Napoli il suo pensiero dove esser rivolto a Padova; e l'occasione di
tornarvi si presenta quando Montesdoch chiede al senato veneziana licenza d’andarsene, e questo glie
l'accordò. Bembo in due lettere a Rannusio ci fa sapere, non senza amarezza,
come le cose andarono. Montesdoch a Padova è tenuto in grande considerazione ed
era riuscito a farsi un nome, secondo la testimonianza di Bembo, quale non
aveva avuto prima. Ma non debbono essergli mancate accuse pella sua
spregiudicatezza nell’interpretare il
LIZIO, sì da parte degl’averroisti sì da parte dei teologi, se è vero quanto
egli stesso ci fa sapere in una lezione sul De
anima, Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Cum isti fratres vident
philosophum, dicunt: haereticus est; ut mihi olim accidit, dum disputarem in
capitulo generali fratrum S. Dominici; et quia eos male tractabam, dixerunt die,
me esse haereticum. Non so se per queste ragioni, oppure, come insinua o IMPLICA Bembo, nella
lettera a Rannusio, per ottenere l'offerta d'un aumento di stipendio, senza
farne aperta richiesta, il maestro chiede licenza d'andarsene altrove. Bembo,
che pure era informato dei maneggi per condurre Montesdoch a Pisa, ove poi
effettivamente anda collo stipendio di 800 fiorini, spera che coll'offerta di
cento ducati d'aumento lo si potesse trattenere con vantaggio dello Studio
padovano, poiché dopo la morte di Pomponazzi si prevede uno spopolamento dello studio
bolognese. Se Montedosch resta, questo anno averemo qui la maggior parte degl’artisti
dello studio di Bologna. E già Gonzaga, fratello del Marchese, che è stato
forse tre anni o più a Bologna per udire Perette, fa cercar casa qui, per venir
ad udir costui. Ma le cose non andarono
secondo il suggerimento e il desiderio del prelato, che arriva a cose fatte;
poiché Sanudo ci fa sapere che era già stato posto, per li ditti, Savii del
Conscio e Savii di terra ferma, condur a
lezer in ditto Studio di Padoa in philosophia domino Marco di Otranto, qual ha
lecto in molti Studi, videlicet nella lectione de philosophia, per do anni di
fermo et uno de rispetto in libertà della
Signoria nostra con salario di fiorini 450 all'anno. La decisione rimasta
segreta dove divulgarsi alla fine opere,
Venezia, e Rannusio non tarda a informarne l'amico. Il quale gli risponde da
Padova esprimendogli il suo disappunto. Da questa lettera si rileva che
responsabili del negato aumento a Montesdoch e della chiamata di Zimara sono i
due patrizi veneziani Zorzi e Bragadin,
riformatori dello studio di Padova, i quali s’avvicendano per molti anni in
questo ufficio con altri patrizi che fanno gli studi a Padova e v’hanno
conseguito il titolo di dotor. E il risentimento di Bembo si rivolge
specialmente contro il primo dei due riformatori. Marino ha voluto guastar
questo bello ed onorato studio, di cui egli è guardiano; e gli è molto ben
venuto fatto il pensiero. Se le altre
sue imprese così bene gli succederanno, sarà felicissimo. Non parlo di M.
Francesco, percioché io intendo da ogni lato, che il voler condur qui codesto
Otranto è solo invenzion di Marino, e non di lui. Il quale Otranto è già da ora
tanto in odio di questi scolari tutti dall'un capo all'altro, che se ne ridono
con isdegno. Perciocché dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, ed è
semplice averroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte dai
buoni dottori ed attendesi alle sposizioni de' commenti Greci, ed a far
progresso ne'testi. E costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella
feccia di dottrina, che ora si fugge, come la mala ventura. Siate sicuro che
questo povero studio quest'anno, quanto alle arti non avrà quattro scolari
oltrequelli del nostro dominio, che ci
staranno mal lor grado, e sarà l'ultimo di tutti gli studi. E più giù: Questi
sono i governi e giudicii di M. Marin Giorgio, che pare appunto, che porti odio
a tutti quelli, che sanno le belle e buone lettere, o che le vogliano apparare
e sapere. Anche di Foscarini, che più volte coprì la carica di riformatore
dello Studio padovano e dimostrò rara dottrina nello esporre a Venezia, nelle scuole di Rialto, le cose
diffìcili del LIZIO e d’Averrois il gran commentatore, Bembo pronunzia, in una
lettera allo stesso Rannusio, un giudizio analogo: il qual Foscarini non so
come par che sempre abbia avuto in odio tutte le buone lettere in ogni facoltà. ZhNO,
Giorn. de' Letterati d'Italia. Opere. Bisogna però riconoscere che,
l'una e l'altra volta, Bembo scrive con
l'animo irritato, pelle difficoltà che, tanto Zorzi quanto Foscarini,
opponeno a due suoi raccomandati. A questo s'aggiunga ch’il patriziato
veneziano è stato in gran parte EDUCATO, PER QUANTO CONCERNE LA FILOSOFIA, alla
tradizione del LIZIO averroistica, e che a questa si mostra assai attaccato,
come provano numerosi documenti. Bembo, invece, viene dalla scuola di retorica ed è insomma un umanista, e
piuttosto che sobbarcarsi allo studio della filosofia de LIZIO averroistica, rinunzia al titolo di dottore in artihus, del
quale invece s'adorna suo padre,
Bernardo, dotor e cavalier. In lui l'avversione pel LIZIO e l'averroismo, ereditata da Petrarca, è, potremmo
dire, congenita. Come gran parte degl’umanisti, egli non ha mai il gusto per i
problemi della filosofia e della scienza
che appassionano i maestri e gli scolari della facoltà dell’arti. Il suo aspro
giudizio su codesto Otranto è espressione d’un conflitto più vasto, non ancora
risolto, nel pensiero del ri-nascimento, che vide co-abitare tra le mura della
stessa città Bembo e Zimara. Titolare della lettura ordinaria di filosofia [i.a
poTrf) nxXq Seuxépac?
yoù acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig) è
detta uscire fuori di sé {slq tÒ e^co
Trpotcóv), con frase che curiosamente ricorda un'analoga espressione di
Hegel. La mente che permane in se stessa, in un atto contemplativo che dura
eterno, è identificata da Simplicio con quello che fu detto 1'intelletto agente che è atto
sostanziale per sua natura e non intende ora sì ora no, come s'esprime il LIZIO; invece la mente in quanto esce fuori – GARIN (vedasi), PICO (vedasi). Vita e dottrina, R. università
degli studi di Firenze, facoltà di filosofia;
Firenze; N., Brabante nel
pensiero del ri-nascimento
italiano. Roma, Edizioni Italiane; Individualità e immortalità nell'averroismo
e AQUINO, Archivio di filosofia. Organo dell' Istituto di studi filosofici, vol.
dedicato al problema dell'immortalità,
Roma. Brab. Simplicio. LIZIO De anima, di sé s'identifica coll'intelletto in
potenza o intelletto possibile o passivo. Il conoscere umano comincia
dall'esperienza sensibile, e consiste in una liberazione progressiva dalla
passività e nel ritorno, àvaSpo^xv, alla pura contemplazione del mondo ideale. Questo
concetto d’un intelletto che permane in se stesso, e, uscendo da sé, s'unisce
al mondo della sensibilità per ritornare
a sé, in un circolo eterno, seduce il signore della Mirandola, intento a
risolvere il problema averroistico della copulatio, ossia del congiungimento
dell'unico intelletto coll’individuo, che era stato il problema di Sigieri,
anzi dello stesso Averroè. Questo problema dove essere assillante nel suo
animo. Nifo narra a questo proposito l'episodio d'un incontro con lui e d’una discussione. Il Suessano, che
professa filosofia a Padova, aveva avuto dal suo alunno Bernardo, di famiglia
patrizia veneziana, un esemplare della Destrttctio destructionum – SPERANZA
GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSCYCHOLOGY SEMINARIO -- Algazelis d’Averroè, che pochi conoscevano, e
sta preparandone un commento che è stampato a Venezia. Un passo d’Algazele ferma
a.lungo l'attenzione di lui. Dice il filosofo arabo. Forte aliquis diceret,
quod opinio Platonis est vera, videlicet quod anima est una et antiqua, et
dividitiir divisione corponim, et in corporea separatione redit ad suam radicem
et unitur. Due cose sono notevoli in questo passo d'Algazele: anzitutto, che la
dottrina dell'unità dell'intelletto venga attribuita a Platone; indi, che vi s'accenni alla possibilità,
intravista da alcuni, di conciliare la tesi dell'unità con quella della
molteplicità numerica e individuale delle anime. Ora Nifo racconta com'egli,
abbattutosi nel conte della Mirandola, che insieme a lui era diretto in
dihgenza alla volta di Bologna, ebbe a palesargli i suoi dubbi su quest'argomento. E il Mirandolano,
che evidentemente la pensa come di
Platone riferisce Algazele, cerca di far capire il suo pensiero al com Simplicio, N., Introduzione ad Aquino, trattato sull'unità
dell'intelletto contro gl’averroisti. Firenze,
Sansoni] pagno di viaggio con questo curioso paragone. Come per
costruire una volta o un arco fa mestieri di quella impalcatura di legno che li
sostenga e che dicesi centina; ma poi, quando son costruiti, la volta e l'arco si reggon da sé, senz'armatura; così
una sola idea di tutte l’anime sorregge ed aiuta ognuna d’esse a venire
all'esistenza, via via che per virtù di generazione si formano i loro corpi;
quando poi IL CORPO VIVENTE è già formato, rimane in esso un'ombra o vestigio
che dicesi anima. Alla morte del corpo, l’anime singole ritornano al loro
semenzaio, che è quell'unica idea della
quale, nella loro individualità particolare, sono ombra, vestigio e
riflesso. Per Platone dunque, quale era inteso d’alcuni prima d'Averroè, e
quale piace a Pico d' intenderlo, tutte le anime singole sono un'anima sola
nella loro radice; sono invece molte, in quanto suoi germogli nei corpi, ossia
in quanto l'anima che è una in sé si comunica e si propaga negl'individui della
specie umana, uscendo, come dice
Simplicio, fuori di sé. Anche a fare un po' di tara sui particolari' del
racconto di Nifo, la sostanza del racconto sembra conforme allo spirito della
filosofia pichiana, nel momento in cui il Mirandolano, senza rinnegare il suo
averroismo del periodo padovano, s' industria di svolgerlo in senso platonico.
Non saprei se da Pico o d’altri il
Suessano ha notizia del commento di Simplicio al De anima. Certo è
che egli ricorda più volte l'interpretazione simpliciana della dottrina
aristotelica in opere composte a Padova. Una di queste sono i Collectanea super
lihros de anima, che Nifo appronta pella pubblicazione e mandato a Miliani,
patrizio partenopeo, coll’intento che n’accogliesse la dedica, e all'abate
Salinatore, suo concittadino, per averne il
giudizio Essi sono pubblicati,
con dedica di Nifo a Mihani, dall'editore veneziano Calcidonio, mentre
l'autore, se la sua asserzione merita fede, aveva Nifo, In librum Destructio
destructionum Averrois commentari!, disp., dub. Collectanea sono stampati da
Nifo una prima volta, e di nuovo insieme al suo commento. L'ultimo dei collectanea,
assai prolisso, ma ricco d'importanti notizie,
riguarda il famoso De anima, e la non meno famosa digressione d'Averroè
intorno a questo testo stabilito di non darli alla luce prima che fossero
trascorsi i anni oraziani dalla loro composizione; sì che si può pensare che
essi siano una delle prime fatiche del suessano. Ora in principio di questi
Collectanea, Nifo accenna alla questione dibattuta fra gl’espositori, cui si
riferisce la seconda delle conclusiones
di Pico secundum Simplicium, di quale intelletto Aristotele intenda parlare
in questa parte della sua opera. Verum
circa intentionem huius tertii apud expositores fuit difficultas non parva. Primi
enim expositores, quos impugnare videtur lamblicus, sentire videntur
intentionem huius esse de intellectu imparticipabili, qui actu est summus ac VITA
essentialiter optima et per se ab ANIMA
separabihs. Ad quos obiicit lamblicus
et inquit. Quidnam et qualis separabilis ab ANIMA intellectus, et quod prima
substantia et impartibilis et optima VITA et summus actus et idem intellegibile
et intellectio et intellectus et eternitas et perfectio et quies et terminus et
causa omnium, Metaphysice dictum est. Non ergo et hic de Deo pertractandum. Sed
hoc lamblici argumentum pace sua nihil
est. Ideo et aliter lamblicus inquit. Magis vero nunc qualis quis A NOSTRA
ANIMA participatus intellectus dicendum. Sed quid velit lamblicus, SimpHcius
laborat exponere. Ubi debes scire, quod duplex est intellectus: participatus et
imparticipatus. Omnis enim forma, scilicet quae idea dicitur, indivisibilis est
et terminus seipso; anima autem est
divisibilis, ut reflexa ipsius denotat
actio: erit ergo ANIMA hominis VITA secundum se partibilis ac divisibilis.
Verum, prout intellectu participat, in impartibilitatem cadit ac in terminum et
indivisionem. Erit ergo ANIMA hominis VITA hominis, cuius intellectus est
forma. ANIMA enim ipsa in-dividua est in CORPORE,
ut IL PORTICO inquiunt. Ut vero particeps est intellectus, impartibilis ac indivisibilis redditur partitione et
reditione. Differt vero intellectus participatus ab imparticipato: ille enim
non manet in se, sed alterius anime est forma; imparticipatus autem in se manet,
ac per se separatus est et terminus. Et
sic imaginatur aliud esse animam, et aliud intellectum, Iamblicus; ANIMA
enim VITA est animalis humani; intellectus vero forma erit anime. Sed quoniam Iamblicus
non videtur differre a Plotino, ideo, ut melius Iamblici opinio clarescat,
Plotini sententiam expedit enarrare. Erit ergo ordo: deus forma est
intellectus; intellectus Ciò è dichiarato da Nifo alla fine della prefazione
premessa all'edizione Simplicio Simplicio, vero anime; ANIMA RATIONALIS VIVI
HUMANI. Erit ergo intentio, apud Iamblicum, huius libri de intellectu participato, qui forma est anime rationalis,
que homo est, platonice loquendo – ACCADEMIC
WAY OF SPEAKING MANNER OF SPEECH CODE GRICE --. Alitar et post hunc Simplicius. Intentionem
enim huius libri de anima rationali dicit esse. Imaginatur enim aliud esse VITAM
HOMINIS, et aliud rationalem animam, et aliud animam totam ipsius. VITAM enim
appellat ipse cum prioribus intentionem
hominis, scilicet animalis humani, que est actus et perfectio specilìcans
hominem; rationalis vero anima est actus huius anime, sicut lumen diaphani; ex
quibus duobus resultat tota anima hominis. Erunt ergo anime humane partes due,
scilicet rationalis anima et VITA ipsa, qxie simul totam hominis animam
constituunt. Est autem apud ipsum duplex intellectus, scilicet quo ad divina
copulatur anima, et hic forte agens est intellectus; alter quo ad materialia,
et hic quandoque potestate et imperfectus existit, non quia in se non
intelligit, sed quoniam ab alio scientiam habet, ut a primo, et respectu
hominis quandoque et perfectus est et completus, et hoc quando perfecte toti
homini unitur. Erit ergo intentio huius
libri loqui de parte, id est de ANIMA RATIONALI, qua anima scilicet hominis
intelligit et sapit; id est, de rationali anima, que PARS est anime hominis,
scrutandum. In questo passo dei Collecianea, a parte
l'interpretazione più o meno esatta che Nifo ci dà del pensiero di Simplicio, è
certo che vi sono frasi prese alla lettera dal commento di questo. Ora, nel commento che il Suessano reca a termine,
maestro a Pisa, avendo egli modificato il suo modo d'intendere, ci fa questa
confessione. Animadverte, tamen in Collectaneis nos dixisse, de mente
Simplicii, intentionem LIZIO hic esse de ANIMA RATIONALI que est PARS ANIME
HUMANAE, cum in greco eum non viderim tunc. At postquam eum legi in proprio
fonte, reperi eum opinari ut dictum est,
et non ut in Collectaneis dixi. E non di meno il commento di Simplicio è
ricordato e discusso parecchie volte negli stessi Collecianea, con espressioni le quali non
lasciano dubbio che l'opera del commentatore greco è familiare a Nifo. Se
questi pertanto non la possede in greco, vuol dire che la possede tradotta.
Questa traduzione, anteriore a quella di FASOLO, l’è sconosciuta a N.. Essa 40 Nifo, De anima, Venezia, Collect. ad t. e. i. Nifo, comm. ad t. e. i. ad ogni modo dove essere
molto imperfetta, sì d’accrescere l’oscurità che sono già nel testo greco. Nifo
poi dove affrontare la lettura di Simplicio coll'animo di trovarvi una conferma
alle proprie idee sigieriane. Egli stesso confessa d’avere per lungo tempo
aderito alla dottrina d’Averroè
nell'interpretazione che di questa da Sigieri nel Tractatus de
intellectu scritto in risposta al tractatus de unitate intellectus d’AQUINO. I
capisaldi d questa dottrina, che Nifo dichiara d'avere attinto al trattato di
Sigieri, sono i seguenti. L'intelletto possibile è unico per tutta la specie
umana; esso, per attuare tutta la sua potenza, ha bisogno di trovarsi unito in
ogni momento a una moltitudine d'individui umani che gli forniscono le specie
sensibili, senza delle quali esso niente può intendere; l'unione tra l’intelletto
possibile e LA FACOLTÀ COGITATIVA, che è la più alta facoltà dell'ANIMA sensitiva,
è un'unione sostanziale, e non semplicemente accidentale, come pensano altr’averroisti,
sì che può dirsi che l'uno e l'altra son parti ond'è costituita L’ANIMA
RAZIONALE dell'uomo; l'anima razionale,
costituita dall'unione della facoltà cogitativa dell’anima sensitiva coll’intelletto,
che in sé è unico, può dirsi veramente forma
informante, e non soltanto assistente dell'uomo, tale cioè che dà a
questo il suo essere – GRICE IZZING AND HAZZING -- di animale ragionevole,
contrariamente a quanto asserivano altr’averroisti, i quali sosteneno che
l'anima intellettiva è soltanto forma
assistente. Questa dottrina sigieriana è presentata da Nifo come schietta farina
del sacco averroistico, senza che sia fatto il nome di Sigieri né quello di
Simplicio, nel commento che il suessano scrive a Padova sulla metafìsica
nell'esposizione della Destructio destructionum
disp. dub. quaestio. Invece nel
De intellectu essa è esposta due volte è presentata come dottrina di Simplicio, e come dottrina
di Sigieri tendente a trovare una via di mezzo inter latinos et averroycos.
Siccome m'è già accaduto di richiamare l'attenzione sulla dottrina che Nifo
attribuisce a Sigieri, non è forse inutile che con essa si raffronti questo
riassunto che nella stessa opera il suessano N., Brab. I luoghi di Nifo sono
riuniti nel volume di N. ora citato. ci ammannisce, ancora una volta, del pensiero di Simplicio,
prima d’averne conosciuto il commento in
proprio fonte. Si RATIONALES ANIMAE
erunt plures et intellectus unus, sic Simplicii erit positio. Imaginatur enim
Simplicius, ex intellectu et omnibus praecedentibus formis, in corpore humano
praeviis, constitui rationalem animam, quae quidam est totum quoddam
constituens in esse hominem. Et quoniam cogitativa
seu SENSITIVA ANIMA praecedens est multiplicata, procul dubio rationalis
anima est numerata per corpora. Quemadmodum enim materia est una privatione
formarum in se, et tamen per formas partitur et fit altera alteraque, sicut
altera atque altera est forma; sic intellectus unus potentiae fit alius atque
alius, prout alteri atque alteri sensitivae unitur secundum esse; et sic fiunt plures animae
rationales secundum corpora, licet intellectus
sit unus. Et si dicas: Ergo
rationalis anima est corruptibilis, concedunt rationalem animam esse
corruptibilem totam ratione partis, quae est totum praecedens eam in corpore
humano; tamen intellectus in se incorruptibilis est. Est enim una anima numero
unius hominis: cuius una pars est intellectus incorruptibilis, et altera pars est totum quod praecedit,
scilicet sensitiva et vegetativa, quae est unum faciens cum intellectu. Et sic
totum id est corruptibile ratione praecedentis partis; intellectus autem
sempiternus. Et hoc sentire videtur LIZIO. Divmornm dicens. In quibusdam enim
nihil prohibet; ut si est anima tale; non omnis, idest tota, sed intellectus;
omnem namque impossibile est forsan. Ecce quo pacto LIZIO dicit totam animam esse corruptibilem,
sed intellectus permanet. Et si dicis: Quando corrumpitur totum, ubi remanet
intellectus? dicunt quidam quod remanet in se, sicut materia: quando enim
generatur homo, statim accipit intellectum tanquam partem animae suae; et
quando corrumpitur, perdit animam, licet intellectus remaneat. Et apud
Simplicium salvatur multitudo
rationalium animarum, et quomodo rationalis anima dat esse homini, et
salvatur sempiternitas intellectus liane positionem multi credunt esse mentem ACCADEMIA,
quemadmodum Algazel. Inquit enim. Et forte aliquis diceret, quod opinio accademia
est vera, quod anima est una et antiqua, et dividitur divisione corporum; et in
corporea separatione redit ad suam radicem et unitur. Haec ille in Destructio destructionuììi,
dubio octavo primae disputationis. Ubi Averroes, in solutione illius dubii, inquit. Et ideo anima Petri et anima
Gui- LIZIO, Metaph. Allo stesso modo
intende questo luogo del LIZIO Nifo, In
duodecinmm Metaphysices LIZIO et Aver.
ad Antoniiim lustinianum Patritium Venetiim
Venetiis; ma la prima edizione a
spese di Al. Calcidonio è). In quest'opera degl’ultimi anni del suo soggiorno
padovano, Nifo è ancora s sieriano,
ma non cita Simplicio. lelmi quodammodo
possunt dici una et eadem, ut puta ex parte formae, et sunt multae alio modo,
videlicet respectu subiectorum. Et ibidem, in solutione dubii ait. Omnes
communiter opinati sunt, quod ANIMAE innovatio est relativa, scilicet quod haec
innovatio est eius adiunctio cum CORPOREIS
possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo modo quo praeparationes et
potestates speculorum recipiunt adiunctionem solis radiorum. Ergo ex mente
Averrois positio haec videtur esse, et non tantum Simplicii. Idem etiam sentire
videtur Averroes comm. duo-decimi divinorum.
Inquit enim. Et ex hoc quidem apparet bene, quod LIZIO opinatur quod forma hominum, in eo quod sunt homines,
non est nisi per continuationem eorum cum intellectu, quod declaratur in libro
De anima. Ecce quo pacto piane positionem hanc Simplicii sentit Averroes,
occasione horum verborum et multorum aliorum. Aliqui credunt positionem hanc
esse intentione in Averrois, scilicet quod RATIONALIS ANIMA sit composita ex
intellectu potentiae et toto
praecedente, scilicet VEGETATIVO SENSITIVOque: ex quibus terminatur ac
conficitur forma quaedam simplex, quae actu est VEGETATIVA, SENSITIVA, AC
RATIONALIS; quae forma sit hominis, secundum esse multiplicata per homines ac
numerata, licet intellectus sit unus in se, ut diximus. Questo Nifo scrive
prima di conoscere il testo greco di Simplicio; ma anche quando ha tra mano l'esposizione simpliciana
del De anima nella lingua originale, e ne trasse vantaggio per recare a termine, insegnante a Pisa, il suo
commento sull'opera del LIZIO, stampato
insieme ai Collectanea, corresse, sì, molti errori e inesattezze in cui era
incorso nelle opere giovanili, ma per quel che si riferisce all'interpretazione
della dottrina di Simplicio intorno all'unità dell'intelletto possibile e al
modo di unirsi di questo coll'anima sensitiva, rimane fermo nell'opinione che
la tesi del commentatore greco è sostanzialmente identica con quella d'Averroè.
E sebbene fosse ormai trascorso un ventennio da che lascia lo studio padovano, il
ricordo di quegli anni lontani, in cui gli pareva d'aver trovato nella dottrina
di Sigieri un modo plausibile di risolvere gl’argomenti d’AQUINO, e di Sigieri
discute con PICO, sembra ad un tratto ridestarsi, sebbene in modo molto
confuso, nella sua mente. Simplicius arbitratus est omnium hominum intellectum
unum numero esse; rationales vero animas prò hominum numero N., Sigieri
di Brab. IL COMMENTO DI SIMPLICIO
AL DE ANIMA multiplicari. Non desunt qui positionem hanc Avverei tribuant, ut
Rogerius et Suggerius uterque
Bacconitanus, AQUINO-que coetanei. Hi enim in eorum libellis, quos adversus AQUINO
scripserunt prò defensione Averrois, non modo positionem hanc Averroi, sed
omnibus graecis expositoribus attribuerunt. Questo inestricabile garbuglio di
nomi e d’idee è tutto quello che Nifo, divenuto ormai sequace d’AQUINO a modo
suo e conte palatino, col privilegio di fregiarsi del titolo di Medices,
conferitogli da Leone ricorda del suo insegnamento a Padova. Ma è un ricordo
che diventa di giorno in giorno più sbiadito e confuso nel suo spirito
abbagliato dallo sfarzo dell’aule principesche e tutto preso dalla brama di
procacciarsi privilegi ed onori, senza celare le tardive fiammelle che accende
nel suo cuore il seducente aspetto di
qualche bella cortigiana. Anche quando Nifo ne è partito, a Padova si continua
per molto tempo a studiare il commento di Simplicio al De anima e ad
interpretarne il pensiero in senso averroistico. CASTELLANI (vedasi) da Faenza,
che a Ferrara ha per maestro il bresciano MAGGI (vedasi) o Madio,
alessandrista, narra com'egli trova il commento di Simplicio oscuro ed involuto nella maniera d'esprimersi, e che
anche dopo la seconda e la terza lettura gli rimanevano parecchi dubbi. Ma
avendo occasione di recarsi a Padova, trova in questo studio uomini eminenti nello
studio della filosofia, che gli chiarirono appieno le sue dubbiezze: e Ita sane
complura Simplicii tenebricosa dieta illustrarunt claraque et apertissima
reddiderunt. Quale idea CASTELLANI (vedasi)
si è fatta della dottrina di Simplicio intorno all’ANIMA umana, dopo
averne discusso coi dotti padovani, si può capire da questa esposizione
che egli luLii Castellanii, Faventini, In libros LIZIO de humano intellectii
disputationes sive lucidissimi commentarii ex doctrina christianorum auciorum
ac philosophorum antiquoriim descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum ac Senensiuni ducem. Venetiis, ne fa e che
giova conoscere. Simplicius igitur, atque ii qui illuni praecipue sectantur et
eius sententiam explicant, humanam mentem unani tantum numero esse dicunt,
istamque in intelligentiarum ordinem collocant; tametsi eam longe omnium
infimam et humano orbi assistere arbitrantur. Quam etiam homini nequaquam dare
esse affirmant ita loquuntur philosophi,
et saepe eorum verbis facilioris doctrinae gratia uti nos oportebit; sed aliud
statuunt genus ANIMAE, quam COGITATIVAM [GRICE POTCH AND COTCH] vocant, a quo
informatur homo. Ex ANIMA COGITATIVA enim et CORPORE organico, tanquam ex
materia et forma, conflatur homo; ex mente et homine, tanquam ex nauta – GRICE
THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- et navi, nobilius quoddam atque divinum compositum oritur, quippe quod
intellectus nobilissimam ac divinam tantum homini operationem praebet. Come già
Nifo, dunque, anche questi maestri padovani del tempo di CASTELLANI (vedasi),
fanno risalire a Simplicio la tesi averroistica dell'unità dell'intelletto. Ma
mentre il suessano attribuiva a Simplicio la tesi sigieriana, un tempo difesa da NICOLETTI e, piu tardi, d’Achillini, BACILIERI (vedasi) e TAIAPIETRA
(vedasi), secondo la quale l’intelletto unico s'unisce all’ANIMA COGITATIVA in
modo da formare con questa una sola anima individuale e razionale che, tutta
intera, è forma dell'uomo e dà a questo il suo essere d’uomo, i padovani cui
accenna il faentino riteneno, al contrario,
che l'intelletto s'unisce all’ANIMA COGNITATIVA soltanto come forma
assistente e non come forma informante, ossia, secondo l'espressione del LIZIO,
sicut nauta -- GRICE THE POWER STRUCTURE
OF THE SOUL – navi. Continua poi Castellani, sviluppando concetti accennati
anche in alcune delle stampata a Parigi, in Officina Christiani Wecheli,
ispirandosi al Bessarione, osserva molto
giustamente che coloro che hanno bisogno di confermare la loro fede coll’autorità
del LIZIO non sembrano aver molta fiducia nella parola di Cristo. E un altro italiano
sequace del LIZIO, ma non averroista, bensì alessandrista, Giulio CASTELLANI (vedasi) da Faenza, dice
che coloro ch’esitano a prender posizione e a dichiarare il loro pensiero per
ciò che riguarda i problemi dello
spirito umano, per paura di trovarsi in contrasto colla fede, profecto huiusmodi homines ignorare videntur,
quam christiana fìdes et charitas a philosophandi ratione distet, et quam
nullius sint ponderis LIZIO inventa et argumentationes ad sanctissimae
religionis nostrae decreta labefactanda. E conclude con una lingua da gran
galantuomo, senza falsi pudori. Audacter
igitur etiam possumus DE ANIMI nostri
substantia ac perpetuitate disserere, perpendereque diligenter quid de eo
discernendum voluerit LIZIO. Si quideni cum nos philosophamus, ex aliorum
sententia loquimur, semperque, ut christiani, sacrarum – GRICE NON HUMANIORES
-- litterarum preciosissima monumenta pie colenda et observanda supponimus.
Ecco dunque a che cosa si riduce la così
detta dottrina della doppia verità, della quale si sono scandalizzati gli
storici della filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece gl'inquisitori
dell'eretica pravità; ai quali interessa
mediocremente di sapere come la pensa LIZIO. Ad essi basta di sapere che sia gl’averroisti
che gl’alessandristi non ponevano in discussione le verità rivelate, bensì la
dottrina del LIZIO. Che se poi il LIZIO
non s'accorda alla fede di Cristo, tanto peggio per lui; e tanto peggio per chi
lasciava Cristo pel LIZIO. S'oda, per esempio, quest'avvertenza che Loredan,
patrizio veneziano, rivolge al lettore nell'atto di congedare pella stampa il
suo commento al De anima condotto secondo lo spirito alessandrista di
POMPONAZZI, di PORZIO, e di CASTELLANI, e dedicato al serenissimo duca d'Urbino, Montefeltro. Pie
lector, haec mea commentarla pie legito, et tantum mentem philosophi hic
interpretari scito; et me interpretem
christianum et sanctae romanae ecclesiae filium esse advertito, et prò domino
nostro Iesu et ecclesia mori paratum habeto; LIZIO christianum non extitisse
notato, nec ipsum christiane scripsisse nec christiane expositum
observato. Fidem christi dei et dei
filli tot tantisque miraculis firmatam inspicito, auctoritate LIZIO non
indigeto, et si quae veritatem catholicam turbantia legeris, tamquam falsa et
ab LIZIO impio prolata prò firmo et indubitato habeto tenetoque. Vale. Perciò l’autorità
ecclesiastiche hanno finito per acquetarsi a siffatte dichiarazioni, e
lasciarono sia agl’averroisti che agl’alessandristi la più ampia libertà di discussione e di critica. Le
difficoltà che i studiosi d’ALIGHIERI trovano ad intendere come ALIGHIERI mette
nel suo paradiso, a fianco d’AQUINO, un
averroista qual è Brabante, e farne l'elogio ch’ALIGHIERI fa pronunciare allo
stesso Aquino, derivano da due cose. Primo, dal non aver capito la particolare
natura della filosofia d’ALIGHIERI. Secondo, dal non aver capito che cosa è l'averroismo. Questi
commentatori d’ALIGHIERI, invece di guardare alla figurazione d’ALIGHIERI in se
stessa e in rapporto alla filosofia del poeta che pone Averrois che'1 gran
commento feo tra gli spiriti magni del nobile castello, si son lasciati
forviare dalle raffigurazioni cui accennavo in principio, e nelle quali Averroè
è prostrato nella polvere ai piedi d’AQUINO. A queste figurazioni d'ispirazione
domenicana e dei sequaci d’AQUINO pare opporsi invece quella d'ispirazione agostiniana che Giusto dipinge nella cappella
dei cortelieri annessa alla chiesa degl’eremitani a Padova, ove insegna RIMINI.
Dalle descrizioni che ne lascia Schedel, in questo affresco di Menabuoi Averroè
è dipinto a fianco di Maestro Alberto da Padova, teologo eremitano, e del beato Giovanni della LANA (vedasi)
da Bologna, filosofo anch'esso
eremitano. Questo affresco deve avere impressionato l’eremitano NICOLETTI che reduce
anch'egli, al pari di RIMINI, dalle scuole di Oxford e Parigi, e salito sulla
cattedra di filosofia nelle scuole annesse al convento agostiniano di Padova,
ispira il suo insegnamento alla dottrina sigeriana, sforzandosi di dimostrare in che modo l'intelletto, unico
per tutta la specie umana, riesce ad individualizzarsi nei singoli. Alla stessa
dottrina sigeriana s'ispirano PICO (vedasi), ACHILLINI, NIFO (si veda), BACILIERI
(vedasi) e altri. L'averroismo che ormai pare avere esaurita la sua vitalità a
Parigi ed a Oxford, sopraffatto dallo scotismo e dall'occamismo, s'è ridotto
ormai nelle sue due ultime fortezze di
Padova e di BOLOGNA. Accade ancora di trovare qualche altro averroista altrove,
come PRASSICIO (vedasi) a Napoli, che intervenne nella polemica fra Pomponazzi
e Nifo. Ma nel suo rigido attaccamento al testo averroistico, egli parla una
lingua che si fa di giorno in giorno più incomprensibile. Anche a Bologna, ove
l'averroismo sigeriano trova in ACHILLINI un
difensore ardito e destro, non ha in Boccadiferro un successore degno di
tanto maestro. A Padova invece l'averroismo prende a rinnovarsi, sotto la
spinta dell’accademia. E uscita a Treviso la traduzione che BARBARO fa delle parafrasi
di Temistio. A questo interprete bizantino e a Teofrasto, Averroè stesso fa
risalire la dottrina dell'unità dell'intelletto. Non fa quindi meraviglia che
gli averroisti si poneno a studiare con
particolare interesse la parafrasi temistiana del De anima, nella traduzione di
Barbaro, visto che la traduzione medievale di Moerbeke è diventata estremamente
rara, e del resto è oltremodo ostica all'orecchio degl’umanisti. Ma assai più
della parafrasi di Temistio, contribuisce al rinnovamento dell'averroismo
padovano la conoscenza del commento di
Simplicio al De anima, rimasto sconosciuto ai medievali. Il primo che, a mio parere, conosce
ed usa il commento di Simplicio al De
anima è PICO, il quale n’estrasse ben nove tesi delle 900 preparate pella
disputa da tenere a Roma, che poi non ha luogo. Il commento di Simplicio dove
attirare l'attenzione di Pico, perché pare contenere un elemento che puo essere
prezioso a risolvere il problema
centrale dell'averroismo e che è il problema centrale di tutta la filosofia, e
cioè: in che modo l’intelletto che è un principio di conoscenza universale e
che nella sua natura trascende l'individuo, si comunica a questo,
puntualizzandosi nello spazio e nel tempo. Come N. dimostra più volte, il
significato storico ed il valore filosofico dell'averroismo consiste appunto
nello sforzo di risolvere questo problema,
che, posto dai medievali in termini, se vogliamo, contingenti e per noi
inconsueti, è il problema eterno della filosofia. Il trattato di Brabante, De
intellectu, scritto in risposta al trattato d’AQUINO contro gl’averroisti,
questo trattato di Sigieri che si legge ancora a Padova, suggerisce al signore
della Mirandola, studente a Padova ed averroista, una soluzione della quale s’ha
l'accenno in due delle conclusiones secundum
Averroem. D’un lato, L’ANIMA INTELLETTIVA è una sola in ogni uomo. Dall'altro,
sembra possibile a Pico, d’un punto di vista
strettamente averroistico, che la
MIA anima, così particolarmente MIA da distinguersi dall'anima d’ogni ALTRO uomo,
possa conservare la sua individualità -- anche dopo la morte. L'elemento
prezioso che il commento di Simplicio fornisce a Pico, consiste nell'idea,
derivata da Proclo e Giambhco, d’un intelletto che, uno in sé, è capace di
parteciparsi, uscendo fuori di sé, in una discesa progressiva verso le seconde VITE,
cioè LA VITA VEGETALE e quella ANIMALE o
SENSITIVA, per poi ri-tornare in sé, in un circolo eterno che ricorda, anche
nella curiosa coincidenza
dell'espressione verbale, il processo di HEGEL dell'idea in sé che, uscita
fuori di sé, ritorna a sé come spirito. Non è il caso d'indugiarmi piu oltre;
ma N. non puo non ricordare la curiosa immagine che Pico suggerisce a Nifo,
professore a Padova, durante il viaggio che insieme hanno a fare diretti
entrambi a BOLOGNA. L'unità dell'intelletto umano non è altro che l'unità dell'idea platonica che si comunica ai
singoli rimanendo, in se stessa, una, indivisibile e immoltiplicabile. Ma, nel
comunicarsi ai singoli, essa lascia in questi un'impronta e un vestigio che
permane e costituisce l’individualità dei singoli. E, per rendere il suo concetto,
il mirandolano ricorre a questo paragone. Come per costruire un arco o una
volta è necessaria quell'impalcatura che
chiamano centina. Ma quando l'arco o la volta sono costruiti, si reggono
da sé, senza bisogno di sostegno. Così L’ANIMA individuale è una partecipazione
dell'anima universale, la quale nel CORPO d’ogni individuo umano lascia
un'impronta in cui consiste l'individualità d’ogni uomo. In tal modo il
mirandolano non ripudia affatto il suo averroismo del periodo padovano; ma
anzi l'approfondisce e lo giustifica con
un concetto accademico, sì che il problema, nel quale si dibatteno senza via
d'uscita gl’averroisti, pare avviato alla
soluzione. NIFO (vedasi),
professore a Padova, uomo di vasta erudizione, ma confusionario e
pretenzioso, crede in un primo momento d’aver trovato nel commento di Simplicio
la piena conferma alla tesi sigeriana che egli c’attesta d’aver accolto e poi
con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità chiassosa ed arrogante che Nifo
mette nel difendere le proprie idee e nel combattere l’altrui, contribuisce ad
attirare l'attenzione sul commento di Simplicio, del quale frattanto è preparata
l'edizione in greco che usce a Venezia presso i Manuzio. Colui che pur senza
condividere l’idee di Nifo, anzi combattendole
apertamente, si da con ardore a studiare il commento di Simplicio
al De anima, è PASSERI, professore di
filosofia nello studio di Padova. Di costui ci resta un importante commento al
De anima, pubblicato a Venezia, ad opera di fedeli alievi che si giovano dei
manoscritti lasciati dal maestro. Altre due redazioni dello stesso corso,
tenuto in anni diversi, ci restano manoscritte nella vaticana. Averroista, PASSERI ritene di poter
proclamare il pieno accordo fr’Averroè e il divino Simplicio, sia sulla tesi
dell'unità dell'intelletto, sia su quella che vuole, contro la corrente
sigeriana di Nifo, L’ANIMA RAZIONALE forma assistente e non inerente o
informante del CORPO umano. Inoltre, egli constata l'accordo tra il
commentatore greco e quello arabo anche su altri punti, segnatamente sulla conoscenza. Nel far
ciò, egli s’adoperava a sviluppare alcuni motivi accademici che realmente sono latenti
nel pensiero averroistico. Naturalmente PASSERI è uno dei più risoluti avversari dell'alessandrismo, e
riprende per proprio conto, come altr’averroisti,
la polemica contro POMPONAZZI (si veda) e PORZIO (si veda), i quali, al pari di
MAGGI, di LANDÒ e di CASTELLANI, si sono
dichiarati per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento d’Averroè a Simplicio,
mentre fornisce nuove armi agl’averroisti, sembra per un momento smussare
l'antagonismo tra la filosofìa del LIZIO
e quella dell’ACCADEMIA, la quale ha in Ficino un sagace rinnovatore. La scuola
di PASSERI pare anzi aver trovato nel platonismo la soluzione di quelle
difficoltà, che sono lo scoglio contro il quale l'averroismo dove naufragare.
L'entusiasmo dei discepoli incoraggia ed asseconda l'opera del maestro. Fra
questi merita d’essere segnalato FASOLO (vedasi), professore di lettere umane
nello studio padovano. È allievo di Genua e ben tre volte aveva udito il maestro esporre il De
anima, quando conduce a termine la traduzione in latino del commento di
Simplicio sul trattato del LIZIO, stampata a Venezia. Nella lettera indirizzata
agl’alunni di Genua, e premessa alla traduzione di Simplicio, FASOLO (vedasi),
dopo aver loro ricordato, come il maestro sole a tutti gl’altri commentatori
del LIZIO anteporre Averroè e Simplicio,
afferma che tutto quanto v'è di buono nell'arabo questi 1'ha appreso dal
commentatore greco. E sebbene egli riconosca, che, su alcuni punti, non s'arriva
a capire il LIZIO senza il commento averroistico, tuttavia ne mette in rilievo
lo stile, più che disadorno, irto, oscuro, barbarico, mentre l'esposizione di
Simplicio è piana, senza ambiguità, ed elegante. Forte di questa constatazione, e più ancora dell'esempio del
maestro, che non si stanca di lodare la divina esposizione dell'interprete
greco, FASOLO (vedasi) rivolge una calda esortazione ai suoi condiscepoli,
perché vogliano, ora che il commento di Simplicio è reso facilmente accessibile
a tutti, cessare di logorarsi il cervello sulle pagine scabrose d’Averroè, e
s'affidino invece all'espositore greco. Si
buttino pur via tutti gl’altri commenti, quelli d'Alberto Magno, di
COLONNA, di Burleo, di Suessano e d'altri insieme a quello d'Averroè, e si
studi invece di giorno e di notte soltanto Simphcio: alios negligite; Simplicium
unum vobis die noctuque versandum proponite w. Questo vivace appello rivolto
dall'umanista padovano a cacciar dalle scuole Averroè, è fatto, a dir vero, più
in nome dell'eleganza e del buon gusto
letterario, che non nel nome della filosofìa; e pochi l'accolsero. Sicché
Averroè continu ad essere stampato, letto e discusso in utramque partem nelle scuole
di filosofia. Ma quell'appello, ad ogni modo, è significativo del disgusto che
comincia così apertamente a manifestarsi pell'averroismo ormai prossimo al
tramonto. Chi crede che a questo
tramonto abbiano contribuito lo spirito della contro-riforma e i divieti
ecclesiastici, s' inganna. Chiarito ormai quello che è il significato
dell'averroismo come sistema interpretativo del pensiero del LIZIO, è
riconosciuta tanto agl’averroisti quanto agl’alessandristi la più spregiudicata
libertà di discussione delle loro dottrine filosofiche. Se qualche tentativo è fatto,
da parte di qualche zelante, di limitare siffatta libertà, si tratta di zelo
eccessivo e d’eccezioni sporadiche. L'averroismo volse al tramonto, perché al
tramonto volgeva ormai il LIZIO, del quale l'averroismo pretende d'essere la
più fedele interpretazione. Il LIZIO a sua volta finiva per interna
dissoluzione, sotto i colpi della critica occamistica, la quale, svalutando la
conoscenza astrattiva, mette in evidenza
lo pseudo matematismo dei procedimenti gnoseologici che sono alla base
del sistema del LIZIO della natura, e addita nella conoscenza intuitiva lo
strumento della ricerca scientifica. La stessa opposizione tra ciò che è vero
per fede e quello che è da pensare secondo la filosofia, se pur in qualche modo
giova a rivendicare la libertà della critica entro i confini della
filosofia aristotehca, finì per rendere sempre più estraneo al
cristianesimo l’aristotelismo averroistico, il quale si rivela incapace di
sistemare l'esperienza religiosa che trae impulso dal vangelo. L’ACCADEMIA invece
era parso a Ficino una specie di propedeutica al cristianesimo, sì che sembra
agevole sviluppare in senso cristiano i motivi religiosi che racchiudeva.
S'aggiunga a questo l'asperità d’una
lingua che lacera l’orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia e al
numero della retorica classica. Ma quello che determina il crollo definitivo
dell'aristoterlismo e dell'averroismo, fu il nascere d’una nuova filosofia
della natura, fondata su un nuovo metodo di ricerca scientifica: la logica
dell'esperienza. Mentre i precursori di Copernico, d’Oresme in poi, avevano
rimesso in discussione l'antica ipotesi pitagorica del moto della terra,
l'averroista bolognese ACHILLINI (vedasi) combatte perfino, come troppo ardita,
la dottrina tolemaica degl’eccentrici e degl’epicicli, per ritornare a quella
aristotelica delle sfere concentriche alla terra, considerata il centro
immobile dell'universo. E mentre alcuni scolastici avevano dimostrato la
possibilità d’un universo infinito creato da
Dio, ed avevano preparato la via al Cusano e a BRUNO (si veda), gl’averroisti continuano ancora a sostenere che il mondo
non s’estende al di là dell'ottava sfera o, tutt'al più, del primo mobile, che
Dio stesso, nella sua onnipotenza, non puo creare altri mondi diversi da
questo, e che il moto del primo mobile è un movimento assoluto, come punti di
riferimento assoluti sono, per loro, il
centro della terra e la convessità della prima sfera. Questa angusta concezione
dell'universo fisico crolla come un castello di carte, il giorno in cui, col
dialogo della cena delle ceneri e con quello Dell'universo infinito e mondi, il
concetto dell'infinito fa irruzione nella filosofia della natura e conduce alla
scoperta della relatività di tutte le determinazioni spaziali e temporali.
L'averroismo fu sepolto sotto le rovine
della fisica aristotelica. Ed anche il tentativo di PICO (vedasi) e di Genua di
svolgere taluni motivi del pensiero averroistico in senso platonico, coll'aiuto
del commento di Temistio e di Simplicio e sopratutto col sussidio di Plotino,
non valse a salvare 1'averroismo come sistema. Per ciò che si riferisce al
commento di Simplicio, nel quale avevano riposto le loro speranze Genua ed i suoi padovani, non
passarono molti anni che PICCOLOMINI (si veda), il quale dopo la morte di Genua
ne occupa la cattedra fino al suo ritiro, potè dimostrare, con un accurato
esame dell'opera del commentatore greco, che la dottrina di Simplicio, al pari
di quella di Proclo, di Giamblico e di Prisciano Lido, non s'accorda affatto, come avevano preteso
il Genua e Nifo, colla teoria
averroistica dell'unità dell'intelletto. E se nell'averroismo v'erano
effettivamente quei motivi platonici che ne svolse Pico, ciò che
dell'averroismo sopravisse e, mettiamo pure, sopravive alla dissoluzione del
sistema, ha finito per fondersi col pensiero platonico successivo. Lo stesso
problema del rapporto dell'intelletto coll’individuo, ossia del valore
universale dell'intendere e
dell'individualità dell'atto che intende, che è il problema centrale
dell'avveroismo medievale e del rinascimento, s'è rivelato mal posto, pei
termini nei quali era enunciato, e conveniva mutare i termini per trovarne la
soluzione. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo,
Pomponazzi, Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana
nel secolo d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo
augusteo, pico, abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi
ch’entrate,” The Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il
paradiso filosofico” --.
Luigi Speranza --
Grice e Nasta: la ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio
Calabria, Calabri. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di
Pitagora.” Grice: “Cicerone
argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.
Luigi Speranza -- Grice e Natoli: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo tragico –
origini dell’antropologia romana -- filosofia siciliana – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Patti). Filosofo italiano. Patti, Messina,
Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the
source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source
of it.” Si laurea a Milano, dove
ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia
della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di
Milano. Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà
di scienze della formazione dell'Università degli Studi di
Milano-Bicocca. Attività accademica In particolare, Salvatore Natoli è il
propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco
(in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena,
nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un
ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana. Filosofia
del dolore Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata
condotta da Natoli in diverse sue opere. Il dolore è parte essenziale della
vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità:
«I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele
e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire,
ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si
volge nella gioia e la gioia nel dolore» La natura infatti dava la vita e
nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della
vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi
soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante
per chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si
sente importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è importante
per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte. Secondo Natoli
l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento
in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo
patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè
come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è
interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa
parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece,
è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene
associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa
sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore diverso.
Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore causa. Il dolore
infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il
dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe quello abbia
commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il tentativo di
rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo scopra nuove
forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo
dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo
sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva
sconfitta. Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita
ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece,
ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi
ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando
diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la
fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo
distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra
due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza
del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché
«il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il
corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle
possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.» Sebbene il
dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso
inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la
tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non
annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola
per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune
sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua
singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha
alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita
tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia,
creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza
della morte: «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso
dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del
progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il
peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha
conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è
nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali
modificandone i cicli…» Una soluzione all'inevitabilità del dolore può
essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca
dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo. «Il
cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un
mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si
crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata
da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia
vuole che ci sia.» Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito,
ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il
cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione
della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna
di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos,
che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio
eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole
dell'universale fragilità umana. Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi
su Aristotele e Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio”
(Venezia, Marsilio); “Ermeneutica e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano,
Feltrinelli); “L'esperienza del dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli);
“Gentile” (Torino, Boringhieri); “Vita buona vita felice -- scritti di etica e
politica” (Milano, Feltrinelli); “Teatro filosofico -- gli scenari del sapere
tra linguaggio e storia” (Milano, Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia,
espressione, verità” (Milano, Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria
degli affetti” (Milano, Feltrinelli); “I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario
dei vizi e delle virtù” (Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma,
EL); “Soggetto e fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della
filosofia” (Milano, Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori);
“Natura, poesia, filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche
della modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana);
“La politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza
del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o
della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente”
(Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano,
Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al
mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della
filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco”
(Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana);
“Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana);
“I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano,
Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa,
Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla
felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso”
(Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il
crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione
di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso
del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure
d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia”
(Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli);
“Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I
comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del
corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le
virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli);
“Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore. In L'esperienza del dolore. L'esperienza del dolore nell'età della
tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa, I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Intervista per Il Rasoio di Occam, Video
intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta
minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli.
Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora
di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano
--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Nausito: la ragione conversazionale della
scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia toscana -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di
Pitagora.” He
rescues Eubulo di Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone
argues: Nausito speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.
Luigi Speranza -- Grice e Nearco: la ragione conversazionale della
diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. Taranto, Puglia. A
Pythagorean, he plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures
Taranto from the Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone
refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an
interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nicoletti: la ragione
conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – la scuola
d’Udine -- filosofia friulana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Udine). Filosofo friulano – filosofo italiano.
Udine, Friuli-Venezia Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’
is also brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially
like his squaring the square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius,
this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the
son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit
of Saint Augustine O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s,
where the order of St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught
at Padova, where he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at
the universities of Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the
administration of his order, holding various high offices. He composed
ommentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle. His
name is connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150
manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were
made, His huge sequel, “Logica magna,” is a flop. These Oxford-influenced
tracts contributed to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in
northern Italian universities. Grice: “My favourite of Paul’s tracts is his
“Sophismata aurea”how peaceful for a philosopher to die while commentingon
Aristotle’s “De anima.”!” His nom
de plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da Venezia Nota disambigua.svg
Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo
scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita. Paolo da
Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N.
(Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a Padova ove ebbe
tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la
corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli fu
consentito di tornare a Padova. Seguace di Occam e Brabante e autore di
vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio. Il suo trattato “Logica magna”
e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere
considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo.
Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele” “Expositio in libros
Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super
Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione”
“Lectura super librum De Anima” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones
Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla
logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”;
“Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa
Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi.
Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani,
riferimenti in. Vedi Pergola, Dizionario di Filosofia Treccani. Garin,
Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi
editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del
reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico
Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A
Biographical Introduction to N, Augustiniana. N. Logica, Venetiis,
Imperatore, Imperatore, Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information, Stanford. Filosofia.
DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI
NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO
Informazioni ★ Udine † 15 giugno 1429, Padova
Forma alternativa Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi
di attivi tà Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice,
Siena, Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in cattedra
(Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f.
162v). Come per la maggior parte dei protagonisti della vita
intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come
Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue
origini. Nacque certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto
del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal
1352, quando fece richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il
nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene
da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da
prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio
Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un
Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire,
risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione
con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito
andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad
un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de
Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della
nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono
ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno
al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il
convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima
formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale
dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss.
Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia
della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore
generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da
Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non
dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso
di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni
lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il
compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza
avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti
precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il
triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed
approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico
e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino,
mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”,
probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a
questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica
parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in
25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul
modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere
il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e
fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato
di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe invece una
diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti,
forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti
dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397)
dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si
riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di
filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi,
professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco
di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu
con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo,
impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività
didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la
Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata
prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso
parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie
opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones
Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due
opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento
aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel
1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”.
A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due
opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio
superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano
tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento
universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua
attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di
Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre
nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole
eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che
ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò
Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni
Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre
il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio
da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad
un’intensa attività accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità
all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più
elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto
dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo
nominò vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività
da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al
seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo,
nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII,
rassegnò il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore
provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei
Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello
Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a
Pisa. In breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si
fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a
Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora
diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della
Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale
che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese
ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo
veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania
e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi
incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il
sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da
Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo
studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto.
Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un
momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di
Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di
Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per
stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da
stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa
italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di
manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel
caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a
Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si
trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re
Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima
fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di
fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della
Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal
re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito
che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli
ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la
pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa
diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di
mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di
ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli
traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto
negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole
rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole
esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti
dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico
proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo
periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima,
una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura
super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna
accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il
senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio
Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza
permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da
accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza
espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la
richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello
stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica
di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in
altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi
provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono
l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca
Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva
più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro
l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli
concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio
poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì
a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica
veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora
ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal
capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un
procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in
settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora
avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio
veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere
nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la
sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al
convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di
quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano
fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo
periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua
orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P.
avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa
l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul
rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale
di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Venne designato
reggente dello studio agostiniano di Siena; redasse per la prima volta un
testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli
veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su
licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di
risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto
sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse
quello veneziano di S. Stefano. P. venne assegnato al convento di Bologna, con
licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il
soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava,
valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P.
La sua permanenza a Bologna tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre
1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare
presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato
in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti
agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo
ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super
Praedicamenta Aristotelis. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre
che P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti
come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da
Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi
a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. In occasione
delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere
il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui
toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello
di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire
insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei
Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté
far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per
pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di
Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la
sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò
anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le
Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De
conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione
del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di
Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più
importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed
interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a
fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue
dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una
linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e d’Aquino
nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito
scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un
rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo. CHIUDIAndrea Tabarroni
Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi. F.
MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del
suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine,
Tipografia G.B. Doretti estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine CESSI,
Alcune notizie su N., «Bollettino del Museo civico di Padova GENTILE, Intorno
alla biografia di N., in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, BOTTIN,
Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia
all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste,
LintPERREIAH, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green
State Universiy; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di
Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza della biografia del
Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio,
a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI,
Udine, Campanotto; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in
Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto
storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione
universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane; N.,
Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed.
crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo; N., Logica Parva. First Critical
Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R.
PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis
quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI
HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos
facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro
Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME
YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long
COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti
Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in
animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re
est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam
5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum
tractatibus, Quorum primus summularum
tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens
responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS
in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum sic
diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione
quide. i. II suppositionum declarat
mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir
probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar
artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio.
c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae
iusdem, ut: “homo”,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia
oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i
Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam
est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinquatop.c.
2 cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui
per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,”
“quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda
significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter
si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd
RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD
PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est
re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul.
sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt
greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et
quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui.
ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu.
Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque
effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle
signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã
tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam
cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur
in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac
SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus
nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”,
“nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et
præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua
habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par
bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio
Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis
est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. et pla.
quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est
terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili
termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi.
Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel
propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium,
athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus
in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide
terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo,
deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat
deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE
cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”. In ifta definitione ponitur terminus
lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso:
dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina
apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”, et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad
differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur:
‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis,
cuius partes significant separate mo pyo er.c.c
Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam
secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi
Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et
“animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In
princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus
principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid
significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo,
temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum
apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione
nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę.
Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant
separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca
Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris,
quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non
obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a
boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio
imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d
tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia
INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut:
“doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem
bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati
differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et
extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore,
sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua
verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e
converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non
autem imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans:
propcer tales orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui alia categorica alia hypothetica. Propositio ca
divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam
tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal.
Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud
verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum.
vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in:
sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo
aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut:
“animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum
currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione
hypothetica posterius dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla
particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant
verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub
propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum
predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si
dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt
pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia
affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in
ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio
categorica negativa est illa in qua er: Tertia
bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum
categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue
us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est
verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse
hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1 mo. Cetera autem significate, utte esse
animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et
pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa
est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es
asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium
et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio
contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens –
ut: “Tu es homo”. Et
voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel
falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia
nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est
universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio
universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali
determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti
nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt
ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet,
quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur
terminus comunis igno 4. diui afol.significatum
primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi
infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es
homo.”, diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es
homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis.
Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum
significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi.
usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut:
“Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella larem, nomen proprium aut pronomen
demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B
quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non
est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut
exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis
homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue
laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad
interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel
hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis?
Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad
interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis
indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De
duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią
declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.”
Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut
possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.”
Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7.
tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua
subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est
animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus
discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis
numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.”
Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste
versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego
Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus 1:
Figura de in effe. r e r e .Modi
autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens
verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso et quædam
in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus
mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem
possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua
modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est
necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus
originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de
sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda
cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet
ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne,
subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit, subcontrarie
reasu diuisio Contrarie Nullum
hoie3 possibile est! curtcit . Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de
sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu
diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose
est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie
de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet
ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home minē ñ pole est currere,
sub-contraric Secunda præcise
proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,”
“Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et particularis negativa de consimilibus
subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem
sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo
non currit. Universalis affirmativa et
particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis
affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus.
precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ
primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est
determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De
figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ
PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus po. disiuncti. 15 De praedicabilibus
Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione
norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib
De converfionetibus supponis et de
diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine
tionum De duabus alös diui De
supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de
relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen cinens C fionibus propõnuzs teriali et de
diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de
resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De
obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo.
descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for De gradu pofitiuocô malis De regulis con.
for. q De gradu comparati De regulis
poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly
necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq De gradu superlati -minos pertinentes et De
ly incipit et defi : impertinentes
nir nens. De officialibus pro De
defini libus. po. de reg. eius. inferius
De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas
Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De
infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis
poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De
deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia
Obiectiones contradi milibus
propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui? De exclusivis insolu De insolubili difiun-
ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu
huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones
addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re
propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De
deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili
uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo
et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri
lari vel indefinito mitra. de
predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a
contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con car . las.huius terti las. huius terti
tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta.
tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las.
huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini
Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise
fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai
deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq?
feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon
bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze
iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria
quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil
dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub
bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me
teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp?
praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a
dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est
piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato.
bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin
superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui
generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial
respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz
adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi
generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz
illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu
funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris
Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius
et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi,
qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui,
vetcircaaliquidpitasfigura us trinarius
quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal
Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali
Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale
nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p
potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis
Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi
generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica
dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu
matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua
suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris
spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis
species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger
eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua
funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus.
Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer.
Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft
relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera(
diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum
est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė
paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp dalisinfenfudiuitocillaiä
nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi,
sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere
versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin.
cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16
terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar
rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis
diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé
factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne
damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad
interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito
fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic
gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur
figure. Uifiones duealie decla Quidam
bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie
Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit
Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez
poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie
Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra
Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft.
currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit
fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra
gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis
affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó
currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup
ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu,
eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó
currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft
particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula
particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur
propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp
alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo
ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars
negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö
fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè
tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt
iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo
curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla
eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa.
fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis
negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis
probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se
peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein
figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod
animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė
mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf. L madiuifio eftiftaterminori
vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio,
sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione.
Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya
tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales
aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla
fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo
volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi.
iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla
nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu
gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo .
eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit
doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit
lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi
lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto
isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú
apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f
untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta
fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun,
gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio
physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3
ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft
tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout
firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical
minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter
Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia
verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio
compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz
eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat
diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift
terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i.
réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In
iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris.
Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé
nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó
significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz
ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus
similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est
istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife.
ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit
cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia
ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter
ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter
figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8
significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione
vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo
temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam
nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29
Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia
complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum.
Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero
quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i
nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi
dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria,
madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista
quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat
animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit.
sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe
propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte
catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria
particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi.
grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes
tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula
aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal
fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur
nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo
currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens
quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum
eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus
Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô
animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge
verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De
propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo
capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur
il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes
peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda
oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones
foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft
ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies apaleaffirmat öcbócurrit.
ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica
negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene
primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est
neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens
goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi,
Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni
tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n.
Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi
esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca!
fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie
illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues
'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque
évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu
ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe
Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata
secuidaria comunis figno vniuersalides
gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil
7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla.
Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7
inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen
pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus
quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá
aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari
tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur
terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio
cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia
funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo
eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco
Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal.
Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus
onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis.
Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis
numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut
Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar.
Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé
ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy
Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi,
ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu
turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil
Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst
ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep
sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä
nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz
verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere
versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin.
cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16
terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar
rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio
cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre
quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore
gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze
tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua
particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum
eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones
duealie decla Quidam bó curri Quetz
bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie
Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie
Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft.
Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit.
Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria
Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere
ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne
Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll?
bócurrit. necieptra gulegeneralespriaé
dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit.
neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida
b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét
ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit
ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero'
bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua
tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup.
fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp
alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum
ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě
duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars
negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et
ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis
fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó
albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft
quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui
Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit.
Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti
effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima
ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib
lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci
mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby
alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar
aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė
mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo
contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit
Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ
tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit
definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera
uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui
raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis
bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi
albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria
reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula
quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil;
bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz.
Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l
e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi
Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo
gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo
noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul
tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti
quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega
diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai
plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim
no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci
curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta
nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol
vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal.
Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post
contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere
èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti
uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné
aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica
befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori
qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi
tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano
currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis
ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif,
furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon
cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc.
ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó
firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf,
giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz
velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega
teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto
pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis
negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs
densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens
zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?.
vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta
lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco
plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla.
vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer
velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal uerfo.lzñéita i puersione p accideiis
velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet Iresigitfuntfpesypotheti
Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate
neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia
tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt
localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó
funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis.
Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures
catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi.
tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic
Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego
5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis
cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu
eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue
requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia
affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur
eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE
pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi
vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba
tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd
veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam
f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad
eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati,
matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor
oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente
vifituesbó atucurris. tu sedes. Hec aut
ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur
qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis
welalijs Jhiunctiuaeftillaique Deus
évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica.
gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin?
Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu
alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa
éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur
tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai
quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ
aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés.
lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca
tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes
aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates
difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam
difiunctionis. tropugnante
poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre
quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul
partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez.
eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris.
7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu
temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla
eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed
ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif
qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem
vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft.
tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec
eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó
temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt
de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z.
Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta
siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges,
metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin
ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan
qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa
Mit Saint Erine et filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique
significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens
unum idiom conigat et difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton
Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé
estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers.
viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props
liéefetwimmign ruenhomo neltuesani
bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e
quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi
tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue
ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz.
Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde
Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp
ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde
aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori
tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga
plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen
velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda
minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri
damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit?
Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies.
ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus
Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi
species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde
boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác
Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil
qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla
ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez.
videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd
aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft
specialissimazadå Malterna
Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu
rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina
cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale
vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri
lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt
bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin?
uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe
plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai
piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter
termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero
quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti,
làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe
přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica
paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur
cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno
qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes
respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ
idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica
Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut
dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé
platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise
fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai
deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq?
Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali
q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze
iqua ppuúvelaccñspzedir.
dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi
bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo
Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial.
Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me
teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp
pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial.
pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi
afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato.
bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin
superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis
fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial
respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz
adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis
iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi
cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu
funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis
Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius
et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario
pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca
aliquid pitas figura us trinarius
quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal
Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali
Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal
rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis
p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi
mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus
Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica
dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu
matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto
risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir
calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt
heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis
(pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris
fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra
augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua
funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar
idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo,
camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada.
súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu
altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se
predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu
fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene
tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt.
zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo
fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi
tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis
fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic
gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči.
primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi
generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua
diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener --
b Logica Parva: Critical Edition from
the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill;
Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica
magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan
Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann,
Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et
contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3:
Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4:
Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II,
Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de
significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II,
Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea,
Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis
de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in
duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval
Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in
libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ
Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super
commento Averrois, Venezia; Expositio
super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus,
Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de
universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms.
Paris, BN 6433B in Conti, Sharpe:
Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros
Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is
Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia
Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda),
Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi
sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di
N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature
of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica”
Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco;
Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN:
University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e
PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza
degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma
nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema
degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua:
Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a
Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super
Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze
con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy,
Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il
problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il
sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval
Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del
reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni
dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”,
Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas
and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale;
Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente,
Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki;
Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s
Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale;
N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin
Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima
e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The
Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill;
Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the
Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La
supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda),
Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval
logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy;
Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e
scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De
anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez
Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco,
Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies
in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e
l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI,
Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval
Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland;
Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari,
Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla
Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si
veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the
Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale;
Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A
Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center.
Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, 4 vols., Leipzig: S. Hirzel, Graz:
Akademische Druck- und Verlaganstalt; Ruello, N. thélogien ‘averroiste’?,”
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Strobino, N. and MANTOVA (si veda) on Obligations,” in Musco; Van Der Lecq, N. on Composite and Divided Sense, Maierù,
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Explanation, Ann Arbor: University of Michigan. Nicoletti. Keywords. Refs.: H. P. Grice,
“Paolo da Harborne, and Paolo da
Venezia,” lecture for the Club Griceiano Anglo-Italiano, Bordighera. Luigi
Speranza, “Grice e Nicoletti: quadratura ed implicatura” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza --
Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Filosofo italiano. Mercato, Napoli,
Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a Napoli
prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro
Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.
L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è
concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo
poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile
educatore.” Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo
hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni
hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come
“La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.” A queste traduzioni si
aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e
sociologico. Ha ricevuto il Premio San Gerolamo. A N. si deve
anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana,
come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola. La sua carriera lo ha
visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti
università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università
degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico
universitario. Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato
impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle
più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il
«Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I
Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle»,
«L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic
Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il
giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e
«il Giornale». Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per
la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam
(«Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani
(«La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione»
della Armando Editore. Gli è stato assegnato, a Palermo,
dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da
Fallica, il «Premio Nietzsche». Saggista sempre molto prolifico, ha
continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti
ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il
De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e
molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia
dell'integralità, Edizioni di Ethica, Forlì. Collegamenti esterni N.,
la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno fa di un utente
anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico Sciacca filosofo
italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia nella
prima metà del XX secolo. Antimo Negri. Parole chiave: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Negri,” The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Negri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova
-- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo Padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano.
Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on
Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if
he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’.
He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify
Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!”
Tra gli anni sessanta e gli anni
settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni
ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch
Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua
riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri
molto influenti nella Teoria politica contemporanea. Accanto alla sua
attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come
co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra
extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua
attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7
aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione
armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire
condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale
nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica
della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano,
Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari,
Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano
e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di
Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano); “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole
ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia
Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano,
Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio
contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione
operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia
operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della
strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo
editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica
della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e
sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio
e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano,
Feltrinelli, “Manifattura, società
borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma,
Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui
Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo,
Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di
classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri,
“Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e
potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi,
liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da
Rebibbia, Torino, Einaudi, Boutang, Diario
di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma,
Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine,
paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo
ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta
ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto
per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il
lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano,
Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno,
Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso,
o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri); L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione
negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito
operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione
materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e liberazione
comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene: S
Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni. Politica
e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La
sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni
impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo
al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto,
Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli, Europa politica. [Ragioni di una necessità],
a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo
ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma,
Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente,
Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il
ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni”
(Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano,
Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero.
Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma,
Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma,
Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica,
Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews, Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre
Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti
della governance” (Verona, Ombre Corte, Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice:
“Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli, Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il
comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo
non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine,
Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e
multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle
Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea,
Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano,
Ponte alle Grazie. Che l'Europa
politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno
determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le
nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune
determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra
evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente
statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La
necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato
globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta
realizzandosi. Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta
(un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti
di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale,
sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la
decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione
politica. Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità
culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)
sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo
spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero.
Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato,
non c'è più democrazia per l'Europa. Se queste sono le condizioni nelle
quali dobbiamo muoverci, interroghiamoci qui di seguito. È
possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un
soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si
confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una
unione politica che ne valza la pena? A noi non sembra che si possa dare
risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi
sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni
appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico
sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si
pongono fra gli estremi di questa alternativa: 1,1 La Comunità curopes
come pura area di mercato e regolazione di questa: 12 la Cawumira euroyea
cme Confederazione ti Stati-nazio- È chiaro che in eninambi questi casi
la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come
una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso
l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività
all'interno dell'Impero. Si obierta tuttavis, da qualche voce, che
assumendo la «deter- minante mititares come pil importante di quelia
cconomica si potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui
l'Impero la destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione,
manifesta- mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi,
nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente
la determinazione militare è separata, gestita dai singoli Sti-narione.
Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter- munante
militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario ne o ruelo
decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare
forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione
nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione
verrebbe del tutto meno. Un'altra altemativa si disegna quando si
considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione: L'Unione
politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata come un
Super Stato giuridico-amministrativo (msomna, un Impera nell
Impero); 22 in altra foma l'Unione europea può anche enere
immaginata (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una
Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da
numerosi Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro
sovrano. Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale
sparia orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono,
queste ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico
pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura
buroeritica che produce le istituzioni come con- seguenza di una dinamica
fonzionalista. In 22 | Unione curopea e consenata a macchinazioni
pelitico-giuridiche piuttosto similt a quelle che reggevano
l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla
combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione
reazionaria del romanticismo. Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si
dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea
esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente»
di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere,
a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le
Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni
europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità
divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit
costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano
credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente,
difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal
deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da
pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali,
americane, russe, ecc. In ogni caso, qualora la discussione politica e
costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma
non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente
subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in
una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di
repressione. A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa
politica che ne valga la pena? Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione
e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono
concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni
dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la
pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla
costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali
potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di
strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel
mondo. Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che
dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la
costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far
uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa
politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione,
lotta, decisione di valori di libertà. Ci sia permessa una breve
parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a
metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e
riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa
decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta
contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca,
di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti
europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre
prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva
la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe
sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un
demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro
questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle
profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni
caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali)
perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente,
eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non
risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non
fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo
negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è
cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione
dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca
pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato,
nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee
guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc.,
ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il
riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà
attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di
opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue,
sarà difficile procedere nel dibattito europeo... Chi ha dunque interesse
all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e
quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello
di impero. Che si propongono come contro-Impero. Insomma, si tratta di
quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per
ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono: uno
statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per
sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la
possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella
produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune
dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti
il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro,
cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si
vuole dunque la libertà. C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal
nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella
postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi -
infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione
capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica
for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed
alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra,
dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a
questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma,
porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana,
un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o
gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente
intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di
potere costituito. Può cominciare attraverso l'Europa una marcia
zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle
Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo
a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero? Vale la
pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma
nella costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico
«biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della
citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la
precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della
libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il
politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che
essere ritenuto fondamentale ed irreversibile. Per concludere
provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire: un soggetto europeo
(e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da
una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e
quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche. Il nuovo
soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce
l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione,
nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come
contropotere rispetto all'egemo- nia capitalistica nell'Impero. Per
ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del
«potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa
come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la
costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra
civile» all'interno dell'Impero. Al fine di dare realistica base a queste
ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna
ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle
nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione.
Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del
capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana
e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non
è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande
metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza
politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale
collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un
tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su
condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo
punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti
non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la
rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni
dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo
voglio- no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative
e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali.
Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale,
presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi
possibilità di nuova libertà per le moltitudini. Ma ritorniamo al centro
politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione
che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa
sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi
qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli
Stati-nazione), si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più
possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito
nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta
nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della
ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi
nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla
costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di
rottura. Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra
(nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo. Sulla
via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire
il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva. All'obiezione che
l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed
una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba
né la capacità di decidere della guerra, ecc.. si deve rispondere che
l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di
materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza
militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica)
che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel
rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la
mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle
forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario
sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa
ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono
tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine
nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di
uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più
reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in
considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che
costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il
prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del Medio Oriente,
contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera
argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica
unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una
«macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai
soggetti dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello
europeo di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella
tradizione e nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione
europea. Per trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto,
ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un modello europeo di
solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat
bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III Republique, si è sempre
caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella forma della subordinazione,
(dal punto di vista economico) nel calcolo del costo di riproduzione della
forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in
funzione della pace sociale e del consolidamento dell'autorità statale - ed è
stato spesso tradotto in solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti
Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre
del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina biopolitica dello
Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional socialismo. Ciò
detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello europeo di Welfare ed il
diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono venuti man mano
registrando i movimenti antagonisti della forza lavo- TO. È sulla
base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del lavoro si sono man
mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni corporative, populiste,
colonialiste, imperialiste che li avevano percorsi. È così che siamo
arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel quale ci siamo illusi che il
modello europeo si fosse liberato dalle sue iniziali condizioni, che dunque
Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del modello europeo di solidarietà
potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire - la democrazia. Non è
stato così... A partire dagli anni 70, le conquiste democratiche del
Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i loro effetti spesso
neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato forze altrimenti
irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del mercato globale,
politicamente riconosciuto come potenza autonoma: D'altra parte
l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai disturbata,
quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché infatti, se il
suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto forza-lavoro
(che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo soggetto (il
sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura istituzionale,
rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di esistenza,
Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato ontologico
(classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto industriale non
esistono più come attore centrale. Che cosa significa più, nel
postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di solidarietà
sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo omogeneità) le
condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi? Che cosa
significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni ormai
definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza lavoro
produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala
continentale? E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa
accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si
dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un
nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare:
ma come è immaginabile oggi un tale disegno? Ad accrescere le difficoltà
di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello
dell'immigrazione. Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo
problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione
(giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario, con-sustanziale
sia dal punto di vista dell'economia industriale (disponibi- lità
indefinita e costo limite zero del lavoro) - sia dal punto di vista delle
politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative,
sociali in genere...) Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme
forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi
scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a
zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai
derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di
lavorare... Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal
problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa
prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico
sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?
E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea) determinare
un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio- politico e la
gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio
Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana,
grammatica politica, assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Neri: l’implicatura
conversazionale dell’aporia della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano.
Milano, Lombardia. Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of
the aporia of the realization, which is intriguing, and considers that
‘objectivism’ started with Galileo, which is realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta
una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei
temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica, studi
estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei
maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato
da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una
lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce
discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio
dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica
marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa
centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a
partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I
suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e
Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica
che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi
su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso
l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di
Milano. Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri
ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla
fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di
stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di
dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca
husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze
europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato
fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di
acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi
delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie
pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e
politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e
l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli
insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi
a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky
(della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio,
e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica. Agli anni di
studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a
Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito,
negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga,
Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che,
in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal
suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e
della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di
Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri
l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza
americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi
inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di
Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di
Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli
scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato
in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale
incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea
filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali
progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie
della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo
realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta,
al maestro Banfi. In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti
dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia.
In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è
decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando
quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della
fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della
vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si
presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si
raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di
riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale
e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in
generale, contro l'impronta culturale del PCI. Neri rientra in questa
nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi
studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un
altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare
i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale
e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a
tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è
seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile
nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti
della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione
di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo
conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue
distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno
del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano. Come si evince
dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di
filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da
una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch.
Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia
e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà
periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi
dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del
libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della
dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza
futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e
della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le
aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la
malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e
al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti,
al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su
Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si
confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini
del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali,
oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica.
Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli
anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria
banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la
svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno
spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei
particolarismi delle filosofie nazionali. L'Archivio N. -- è stato creato
presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano
l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali
inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni
di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista
di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le
riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte.
Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in
corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di
Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal
Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su
alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione
sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo
reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella
società, sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte
alle scosse della storia. Saggi: : “La fenomenologia della prassi (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista
italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli,
Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su
Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della
Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente,
Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut
aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la
Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone,
Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano,
UNICOPLI,. L.Frigerio e E. Mazzolani,
Iin Sistema Università, A. Vigorelli,
Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein, F. Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi.
Fondo librario. Grice: Mussolini
used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the ‘nazione’
– and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile
paziente e bastonato. Grice: “Neri made
a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own
Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan?
Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on
Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he
gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice:
“Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the
commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled,
bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass –
when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when
‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la
sensazione, il Galileo di Husserl. Guido
Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo
dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Nerone: il melodramma di Boito -- Roma – la scuola
d’Anzio -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo
epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to
Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the
doctrines of The Garden. ao ss TN Bo ZA SI gia SE er
ES 7 VIS \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud o, e
RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \ DI Li ‘A DG DI 8 li 7
LALA Ss INI (EL fn ra SI ; CS ‘ pi” x "n ':
lr” t DS Ù Ì N ? Ò FINE Nine {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via Zamboni Imprimé
en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE DELLA TRAGEDIA:
NERONE SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE
CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO SCHIAVO AMMONITORE I
VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle Gaditane - Acclamatori -
Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori di parte frasina - Fautori di parte
azzurra Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre
decurie di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del Tempio di Simon Mago -
Matrone - Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi della fazione verde -
Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI: Una puella
Gaditana L’ Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore di tavole votive
- Un mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’ auriga vinto Un
lanista Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti - Lettigarii - Clienti
Servi Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli - Littori Preconi
Due Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani, Armeni, Egiziani,
Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii,
Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre
Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori,
Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai % VA Il bh
NI E fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a SOR MN LIERE
T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE E MUSICA DI BOITO RicoRDI
PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA PERSONAGGI N. Pertile; SIMON MAGO, Journet
E e Galeffi MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana ME UCINO
n e e Pinza BIRBRIAST: Nessi O i a BERSIDE N. . Sig Mita Vasari
MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini PRIMO VIANDANTE.Tedeschi
SECONDO VIANDANTE Menni LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi MIS
SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE
TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO – CLAUSETTI FORNARINI
FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO Maestro del Coro: VENEZIANI
Maestro della Banda: MORRONE Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE
Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore della messa
in scena: FORZANO Direttore dell’allestimento scenico: CARAMBA Scene,
costumi ed attrezzi su bozzetti di POGLIAGHI Scenografo: MARCHIORO colla
collaborazione di MAGNONI Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci
Primo dei secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch Primo
Violoncello: Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi Primo Flauto;
Tassinari Ottavino: ATrevisan Primo Oboe: Trapani Corno Inglese:
Ghignatti - Primo Clarinetto: Cancellieri Clarone: Capredoni - Primo
Fagotto: Mazzini Paltrinieri Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati - Primo
Corno: Michele Allegri Prima Tromba: Edriondo Botti Primo Trombone;
UVsberto Montanari Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina
Sormani Organo e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini
Xilofono, Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti:
Arancesco Veronesi Timpani: Barilli ispettori del Palcoscenico:
Duma e Cellini Vice ispettore: Rocchi Direttori del macchinario:
Giovanni e Pericle Ansaldo Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa
Attrezzi della Ditta Aancazi et C. di Sormani Tragella et C. Gioielleria
della Ditta Angelo Corbella Parrucchieri: Biffi e Sartorio Piume e
Fiori della Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della Ditta Strumenti
Musicali Bottali La è fa 9.41 TNT Hi PI n RARI T IR d wa È
Lal AVALETCAUIT ATE PAIA RO
i. È un campo situato (per chi va da Roma ad Albano) lungo il lato
destro dell'Appia, alla sesta pietra milliaria. La via segue una linea obliqua
fra questo e gli altri campi che si estendono dall’altro lato. La notte è
nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi che la nascondono.
Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena diradata da un barlume
cinereo che non projetta ombre ; il campo nereggia più cupo. Sul
lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un grande sepolcro che si
prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto, progredendo verso Albano,
una tomba recente su cui sta per estinguersi una lampa funeraria. Tra
questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi segue una pietra sepolcrale
quadrata e, poco discosto da questa, un vasto tumulo erboso che porta sul
suo vertice le vestigia d’un’ara. Altre tombe si schierano sulla fronte
sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti sono sparsi intorno al
grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa- zio che lo divide dalla
tomba recente. Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando
una fossa. È Simon Mago. Sul margine della via un altro uomo guarda,
immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio
della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono
dalla vasta campagna, dalle lontananze dell'Appia; frammenti di canzoni
portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore
Vola col vento, a SIMON MAGO Torna col vento... i? E
lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle
ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima
Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo ancor, là...
verso via Latina. SIMON MAGO Pur ch’ei non l’oda! TIGELLINO
È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte
d’Albano s'è udito un urlo di spavento: Tigellino sbalza sul-
la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e che
porta un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO ‘ accorrendo al
grido Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di
sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO dopo aver osservato È il tuo delirio.
N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face... Poi
la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra
sepolcrale che sta fra il milliario ed il tumulo. Qui
ti posa. TIGELLINO Dove lasciasti il corteggio? N. A
Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano
risuona il canto di "prima : Canto d’amore Vola col
vento, Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte. Volano
per l’aria le parole d’una stro- fa amatoria di Petronio Dolce ridente
Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia.
Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo
epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO sottovoce,
come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni Or dai monti, or
dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi Ancor quel grido! TIGELLINO
È la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N. stringe fra
le braccia. N. No. lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra
nel campo coll’urna fra le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà
fra le tenebre, lentamente. Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon.
Mago dov'è? Nerone depone l’urna sul suolo, presso la fossa.
SIMON MAGO che non s’è mosso dal campo Qui supplicante I Mani
d’Agrippina. VOCI LONTANE trasfondeva col bacio il iabro al
[labro... l’anima errante progenie nova dal ciel... . ave,
anima. Una voce lugubre si sparge nella not- te; s'odono queste parole:
Voce dall'Oriente! Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso
d’una atellana: Torna Onesimo dai campi... e dal grido ferale:
N.-Oreste il matricida N. subitamente, atterrito AN! tu
mi salva! Lava il mio matricidio! Orrenda vita Vivo, pe’ gioghi di Campania
in fuga, Meco traendo il delirio, le Eumenidi Flagellatrici e lo
spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi emanan larve. Pronta è
l’inferie. TIGELLINO Finchè il rito dura, Vigilerò. i Poi
s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da Nerone,
sommessamente gli dice : Spingilo a Roma, incìta L’audacia in lui;
s’ei teme siam perduti. Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la
colonna milliaria. N. prono sulla fossa ed immobile, incomincia
come chi proferisce parole preparate con arte: Queste ad un
lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove stende Roma sue
tombe; Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria.
S’inginocchia. Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso.
Se dei defunti lo spirto penètri Nell’alme nostre, il mio contempla,
madre, Interno orror. quasi senza suono, inorridito e coprendosi il volto
colle mani lo son l’ultimo vivo Di tua tragica stirpe, in me
il Destino Tutte aduna sue forze e le consuma. M’invade il Nume antico! È
l’opra mia L’opra del Fato! ergendosi fieramente E ben dicea
quel grido: Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO E
tua Tauride. N. intuendo con gioja il pensiero di Simon Mago
..è Roma! Passa una famiglia di gladiatori; la precede il
lanista, riconoscibile alla lunga ferula che impugna; gli sta a fianco uno
schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno silenziosi verso Roma.
dall’Appia, sommessamente ma energico Zitti! Vien
gente. sottovoce, ma concitato Presto. N. a Simon Mago,
con ansia T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. N. esita ad
afferrare l’urna. Paventi? N. No. SIMON MAGO Presto.
N. angoscioso M’ajuta. Simon Mago lo ajuta a calar l’
urna nella fossa. grescreazbiapiz indenni DO SIMON MAGO
N. Più profondo. Più profondo ancora. Simon Mago comprime
l’urna nella buca; poi, con la vanga la copre di terra finchè la
fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto? SIMON MAGO È
fatto. N. Nascondi la vanga. Simon Mago va a nascondere
la vanga fra i ruderi, poi ritorna, prende dal- l’acerra alcuni
grani d’incenso, li spar- ge sull’ara thuraria, immerge l’aspersorio
nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende. SIMON MAGO copre la
testa e il viso di N. col velo, insino al petto. Ti copra
l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta L’anima mia! SIMON MAGO
tracciando con l’aspersorio dei segni arcani nell’aria Redimo te!
Ti prostra. Amen rispondi. N. tutto prosteso, toccando con la
fronte la terra, ripete: Amen. Dalla via Latina giungono col
vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide ciglia lo stral
che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due giovani
viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro. Vanno
verso Roma. Ancora dalla via Latina s’odono gli anapesti:
...ed io fremo siccome l’ardente corsier che ritorna alle gare del
Circo. ì H ì s dI ì i i fl È I
ANI IOTTZION LE SIMON MAGO Ti rialza. Lo ajuta a sollevare il
capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso. Spargi i libami. La luna si
fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a Nerone la tazza
libatoria. N. h I E sangue? SIMON MAGO È sangue;
innaffiane la fossa, E nel versar torci il volto. N. Ho
paura. La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a
versare il sangue sulla fossa. SIMON MAGO Versa. Coraggio N.
inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che lo copre,
scorge dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una figura
spettrale sorta da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il collo
avviluppato da serpi come un’Erinni. A quella vista egli balza în piedi
inorridito e corre a ripararsi dietro il tumulo, gettando un
grido: Orror! SIMON MAGO (NANO Dopo un attimo di sorpresa va a
prosternarsi ai piedi dell'apparizione. TIGELLINO che ha udito le
grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde uscì ? UN VIANDANTE
Qual grido? UN ALTRO VIANDANTE Olà! chi grida? TIG ELLINO
Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE Chi è costui ? IL SECONDO
VIANDANTE Chi è costui? IL PRIMO VIANDANTE È Tigellino. N.
come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo guarda:
A sè m'attira. TIGELLINO afferra Nerone al braccio
sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del tumulo. Vieni Il velo, che
copre il capo di N., cade. Appena il volto di N.. si scopre, L’
ERINNI drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina:
N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo per
inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti fra le
tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im- pietrita,
col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati e fissi sul
tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre;
solo la face dell’Erinni sparge un circuito di luce. SIMON MAGO
sempre genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli
sguardi, se il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza,
afferra ai braccio quella figura atteggiata a stupore catalettico e le
dice, calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA) senza scuotersi,
con voce incolore, come irasognata Chi ama la morte Toccar
mi può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad
impedirle la via Non sperar ch’io paventi. L’idre al tuo
collo attorte O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al
sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi e con gesto lento di
minaccia risponde: Sperder potrei la malìa che le assonna E
avventartele. Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la
persona d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a
tinte fosche; ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte
trecce sottiti SIMON MAGO Donna Strana ed
audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa facella
Medusa, Ecate, Sfinge, Fumenide o dimòne. Chi sei? Chi
cerchi? Qual forza ti spinge ? Perchè insegui N.? ASTERIA È
il mio Nume e lo adoro! A notte cupa, Quando negli antri del funereo
suolo Vagolo al pari di piagata lupa Ululando il mio duolo,
lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel Che popola di spettri le
tenèbre, Che scuote sulle plebi infami ed ebre Il sublime flagel.
il mio Nume e lo adoro. Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve
là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO
trattenendola a forza, l’arresta di colpo. Ferma! o il tuo Dio ti sfugge.
ASTERIA dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago Vo’
seguirlo.... pietà! L’orror m’attira Come un amante.... e nell’estasi
vivo De’ violenti sogni.... ebbra di pianto. E son dell’idre
incanto E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge E il petto mi
rinserra E stringe.... e lambe.... bduerra.ra E nell’amplesso
della viva spira Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO
Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA Sulle rive D’Anxur, tre
notti son. SIMON MAGO Ed ei nel viso [ha&scorta”? ASTERIA Oh!
come mi guardava fiso ! Ma il suo corsier impaurito il trasse
Lontan, fuggendo, al lume della luna. Rimane ancora un poco assorta
in ciò che descrisse. Ma tu chi sei che dell’anime lasse Tenti il
facil segreto e il facil pianto? SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo
infranto Del sogno tuo. ASTERIA Tu SIMON MAGO Sì. Nessun mai
sappia Chi sei, nè ciò ch'io dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO
raccoglie l’acerra. S’ asconda Quest’ acerra. ASTERIA
indica a Simon Mago il posto da dov’essa è apparsa: Qui. SIMON MAGO
Dove? Asteria prende la face e conduce Simon Mago fra le due tombe ove i
rottami nascondono un forame del suolo da cui si discende in una
cripta. ASTERIA Qui, sotterra, E un antro oscuro d’ avelli
cristiani Che si riapre dietro a quei delùbri. Dicendo queste
ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo, verso Albano.
Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della cripta, poi va a
raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in cui pone la tazza c
l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere gli oggetti nel
forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON MAGO Dammi la
face. Asteria porge la face a Simon Mago che sta per discendere
nel sot- terraneo. SIMON MAGO Qui sarai domani Col sol morente.
Scende due gradini e s’arresta. Ascondi quei colùbri.
Così dicendo porge il velo nero ad Asteria che lo prende e lo bacia
e se ne avvolge il collo e il petto. Simon Mago, coll'acerra e la face,
è sceso nella cripta fino alla cintola. S’arresta ancora una volta per
dire ad Asteria: Ma pensa al fato che invochi su te. Bada! il tuo
Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor che non uccide Amor non è!
E s’abbandona sulla tomba che le sta dietro; quivi, giacente, rimane.
Simon Mago scende tre gradini della ‘cripta con la face in pugno e
scompare sotterra. Incominciano a diffondersi le prime trasparenze
dell’alba. Il cielo si rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende
su tutta la campagna romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene
dalla parte di Roma, s’arre- sta davanti alla tomba recente, estrae
un’ampolla e la vuota nella lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e
riarde. La donna s’inginocchia, inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani
e, nell’alto \ silenzio che la circonda, prega così: RUBRIA Padre
nostro che sei ne’ cieli, sia Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno
alla tua gente pia, Sia fatto il tuo voler in terra, come Nell’
Empiro immortale. li nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu
ne perdona. Fa ch'io riveda quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA
che giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole
come un sospiro O soave preghiera! RUBRIA si alza,
guarda dalla parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e
spera. ASTERIA lentamente sorgendo O divine parole! RUBRIA
appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam
insiem le rose e le viole Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT
ASTERIA Il dono pio Porgi. E prende, con movenze estatiche da
sogno, i fiori e ne cosparge la tontba, insieme a Rubria, e le zolle
d’intorno; ma, giunta all’ultimo fiore, esita, s’arresta, lotta un
istante contro un impulso interno, poi dice: No.... no.... stuggir
devo gl'incanti Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio ! E fugge
impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla tomba a pregare.
Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede,
s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA solleva il
capo, volge il viso, lo vede e lo nomina: ‘ Fanuél! FANUÈEL Non
t’alzar. Il nostro addio Sia questa prece che sale al Signore Fra i
bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl
continua a guardarla fissamente. RUBRIA levando gli occhi pieni di
lagrime al cielo In te sperai! FANUEL con voce commossa Piangi ? Perchè ?
RUBRIA Ho un peccato nel core. FANUEL Lust? RUBRIA
Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai? FANUÈL Seguo mia stella
verso ignoti porti. guardandola fiso negli occhi Confessa il tuo
peccato. RUBRIA Perdonar mi saprai se tutta dico La
mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che l'apertura del sot-
terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in mano, viene
salendo lentamente dalla cripta. FANUÈL sottovoce, a
Rubria, indicando il posto Un agguato! V’è un uom fra i nostri morti. Fa
qualche passo nel campo per ravvisario. (E Simon di Sebàste. RUBRIA
tutta sgomenta e a bassa voce Il gran Nemico! FANUÈL Corri
dai nostri, va, narra gli avelli Spiati. x RUBRIA guardandolo
con ansia btu ‘ FANUEL Poichè un periglio incombe lo resto
coi fratelli.) Rubria si vela il viso e s’avvia rapidamente dalla
parte di Roma. La luce, mite ancora e senza raggi, a grado a grado discopre le
cose remote, gli edifici sparsi qua e là nel fondo della campagna, gli
archi del doppio acquedotto dell’aqua tepula e Marcia, qualche fastigio
dei monumenti sepolcrali della via Latina. Molto lontano, forse
dall’ottavo milliario, s’odono squillare, nel puro silenzio dell’alba, alcuni
appelli di trombe. Simon Mago, senza accorgersi d’essere osservato, s'è
messo in ascolto, si dirige verso il tumulo, lo sale insino alla cima e
guarda attenta- mente dal lato donde giungono gli squilli. FANUÈL
che ha seguîto collo sguardo ogni passo di Simon Mago, s’inoltra nel
campo e lo chiama: Simon. SIMON MAGO dal tumulo, volgendosi
Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio dall’ alto Di queste tombe!
Vieni e vedi. Fanuèl. esita sorpreso, poi sale anch’ esso sul
tumulo ov’ è Simon Mago. Le trombe continuano a squillare. SIMON MAGO S'
avanza una gran nube Di turbe. Echeggian trionfali tube. È il
matricida, ei vien col suo corteo D' istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto
Del mondo reo, Poi, con un gesto largo che abbraccia tutto
l’orizzonte : Pensa: i Reami, i popoli, le. Glorie, Le corone, gli
scettri, le Vittorie, Tutti i raggi di Roma e di Nerone Non son che
luci moribonde e torbe D’ innanzi al sogno mio, d’innanzi a te: Sui
sette colli un Tempio (o Visione !), Un Tempio eterno che soggioghi l
Orbe, MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re. . Tutto l'incenso che
1’ etere assorbe Vapora, immensa nuvola, al tuo piè! Guarda
quaggiù. Pel sangue che l’inonda L’arca d’oro di Cesare sprofonda,
Furibonda ruìna e precipizio. Plebi nefande confuse nel vizio
Plaudono a Roma che canta e che crolla. Tremano tutti: Cesare, la
folla, Le coorti. Fischiò dagli angiporti Già il greculo rubel.
Cadono i morti Nel Circo e cadon nel triclinio i vivi E i Numi in
ciel! Ma tu su quei captivi Del fango e della porpora distendi Le
tue mani, la tua virtù mi vendi; Due Sovraumani vedrà il mondo allor!
Vendi il miracolo, t’ offro dell’ or. FANUÈL scende dal tumulo e
terribilmente esclama: Anàtema .su te! Maledizione! L’oro tuo piombi teco
in perdizione! saran to” di è ide SIMON MAGO
L’ira tua scagli invan contro il mio scherno, Povero nunziator d’
un Regno eterno Senz’ oro e senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e
forte Or su te confermi il ciel: colla massima veemenza
lo t'estirpo da Israel! SIMON MAGO Fra noi due c’è
guerra a morte! Si sfidano collo sguardo come due fieri nemici prendendo due
vie opposte. Fanuèl ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon
Mago scende dal tumulo e s’allontana dalla parte di Albano.
N. e Tigellino ritornano ‘da un sentiero dei campi e s’arrestano al
tumulo. La toga di Nerone, tutta scomposta, lascia vedere una mi- rabile
tunica oloserica tinta di porpora jacintina e sparsa di palme d’oro. N.
porta al braccio sinistro un’armilla di pelle di serpe chiusa da una
borchia di gemme. Ha, come Tigellino, un focale di seta annodato intorno
al collo, sul petto una collana d’ambra mista a molti amuleti: dalla
cintola gli pende un largo smeraldo ovale attac- i cato ad una catenella
di perle. N. Nessun ci segue? TIGELLINO osserva il
sentiero donde sono venuti. No. Sosta il corteo Lungo i
campi di Persio. N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO
Ebbene ? Sparve. N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro,
cupamente S’ergea fra Roma e me! TIGELLINO Andiam. Che
guardi ? A. Oli ren N. volge gli sguardi inquieti sul posto dove ha
sotterrato l’urna ed È esclama atterrito: Si scorge il labbro
della fossa! Tigellino va a calpestare quelle zolle per disperdere le
tracce del seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla
parte di Roma dei clamori lontani. TIGELLINO prendendo per mano
Nerone Andiamo. N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione
TIGELLINO Fuggir? Dove? N. Non so. Dove migra il
cantor trova una patria E sola gloria è 1° Arte! TIGELLINO E di che
temi? Crede il Senato al tuo messaggio, crede Colta Agrippina
ordendo la tua morte, Poi da sè stessa uccisa. N. Alla menzogna
Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a
chi mi volgo? Al Senato? alla plebe? TIGELLINO che da
qualche istante porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo,
guarda verso Roma e risponde: E luna e l’altro Per te dall’ Urbe
accorrono. N. atterrito e con sùbita ira Qual folgore Sparse a Roma il
clamor del mio [ritorno? TIGELLINO arditamente dal tumulo lo.
N. con maggior ira e minaccia Tu, ribaldo? Violenza porti
Sui dubbii miei? TIGELLINO Si. Per salvarti. Mira! Si slega
dal collo îl focale di seta rossa e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge:
A questo cenno il corteo s’ incammina. Mentre Tigellino sventola
ancora îl focale, s’ode squillare non lontano una chiamata di bùccine
come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i clamori aumentano.
TIGELLINO scendendo dal tumulo Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N.
Da ogni parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE che si
appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il [clamor,
ALTRE VOCI Ecco i Numidici corsieri.. Gioja! Il Popolo
irrompe in scena, restando pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano.
ALTRE ANCORA Ei viene! ei viene! egli è là! egli [è salvo!
Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là! Tre Precursori Mori, a
cavallo, passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti . d’armille e di
falère. Ser IOGE N. invaso da terrore si rannicchia
fra il gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO
avvicinandosi a N erone Ecco le schiere. con grande concitazione
Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le
tombe Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio
della lacerna sugli occhi e s’avvicina alla via, ripartendo la
sua vigilanza ora sul corteo, ora su N. POPOLO È salvo! Gioja!mALTRE
VOCI Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI Largo, la via sgombrate
POPOLO Avanti, olà! ALTRI Corri! là! Corri! là! Vengono gli
Eneatori colle loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI Udite! Udite!
Segue un vasto carro tratto da cavalli, pomposamente ornato, dove stanno
ag- gruppate, gittando fiori e cantando, le Ambubaje cinte il capo
di mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la teoria del corteo
danzando e gettando fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE
Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri [baleni nell’
etere. Apollo torna, e con esso Tutto un esercito in danza.
Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou- trarie. POPOLO Avanti!
Avanti, olà! Apollo torna. Avanti! GOBRIAS Torna Onesimo dai
campi. POPOLO Largo alle schiere, largo! Gioja! Gioja! TIGELLINO
L’exaforo s’appressa, ivi ti crede Il popolo clamante. Odi le
grida, scuotiti. PRETORIANI Largo! Largo! Sgombrate ! Si ristabilisce
l’ordine di marcia del corteo. AMBUBAJE AI colle! al collel
AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi,
olà! ALTRI Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE Largo Largo al corteo !
Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge l’exaforo.
La via sgombrate! ll corteo si rimette în marcia. Preceduto dalle
fanciulle Gaditane, passa un gruppo di Phalangarii. Poriano sulle
spalle un fèrcolo su cui si innalza una statua di rame,
rappresentante una Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS L’orco già da’
piè mi tira. Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE Eilwieny
E giunto là! Avanti! Gioja! nia e N. Mi lascia.
TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco Libero e forte. Andiam! DOSITÈO
É là! B là! S’appressa! Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS Fi
torna, è salvo il Dio del Circo! PLEBE È 1a! È salvo il Dio
dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta l’ordine di marcia del
corieo. Passa una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi, d’Indiani,
di Greci, d’Egiziani. Passa- no alcune schiere di soldati ausiliarii
coi braconi alla barbara e passano dei Rheti e dei Galli. GOBRIAS
Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO Tu snidi il Nilo, fendi
l’Istmo, instauri La terra e il mar. GOBRIAS Trionfator d’ Armenia!
POPOLO Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro.
Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI Ave,
Nerone, voce di Ciel, Beata Roma che t’ode! Canta, Apollo,
Canta l’ode d’amor non prima udita [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode
d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.
TIGELLINO Or su. N. fa per avviarsi ardito verso
l’Appia, s’accorge di passare sulle zolle dov'è sepolta l’urna e
indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO Corri dritto alla mèta.
N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie
Germaniche.Fra le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano
appajate ai soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a
mano da quattro schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro
al carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le
loro vesti teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla
[Bacchica tromba, Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi
ardenti Evion gridano ed Evion Peco [remota ripete. TUTH Evion!
Evion! Evion! Evion! Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I
littori che lo precedono, coi fasci laureati, respingono la folla.
L’exaforo è portato da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo
circonda e una torma di Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E
DIONISIACI Ave, N., tua lieta stella splende. TIGELLINO spinge N.
verso la folla plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori:
V’arrestate. VOCI Chi è là? CATE BELEN e) ANTI GOBRIAS Apri il
velario.ALCUNE VOCI Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA
È Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo! N.
în tunica di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole No!
Fortuna in fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI
Evion! Evion! Ah! Gioja! Gioja! Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.!
i giovinetti Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre
d’intorno a N. piovono fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande, fra
le grida e gli squilli del trionfo. Tutta la scena è irradiata dal
sole. REA REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III
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BIEIIVTICA VARI vi È nica È un tempio
sotterraneo; visto nel senso longitudinale appare diviso in due parti.
Un'ampia cortina, tesa fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco
trasversale, separa il sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro
misteri, dalla ce//a ove pregano i fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni
classe e d’ogni paese: Matrone adorne di ric- chissime vesti, portanti in
capo una preziosa ?24%24/ od altre acconciature sfarzose; schiavi in
rozza tunica, e, fra questi, alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei
fuggitivarii; qualche liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi
artificiali, gli sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni
fazione. Di fianco all’ ingresso un mercante d’idoli ed un venditore di
tavole votive spacciano la loro merce. Un tempiere sta presso al vassojo
delle offerte. DITE DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la
cortina si spalanca e si scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti
coloro che stanno nella cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e
tiara d’argento, col petto scintillante di gemme, sta sulla gradinata
dell’altare e fra le mani, coperte d’un drappo prezioso, tiene alto
levato un calice d’oro. Un raggio fulgidissimo scende dalla volta del
tempio e illumina tutta la persona del Taumaturgo. Due sacerdoti situati
più basso sostengono, sotto il calice, un bacino d’oro. Altri otto
sacerdoti sono scaglionati sugli altri gradini fra le statue policrome, e
la loro immobilità è tale che si confondono con queste. Quattro fiabelliferi
ergono dietro il Mago i loro flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi
reggono, colle braccia alzate al disopra del capo, due urne d’oro da cui
vaporano degli aromati fumanti. Un altro innalza un vaso di bronzo su cui
arde una fiammella turchina, un altro tiene aperto davanti al petto un
dittico dove sono tracciati dei simboli. Ai piedi della gradinata stanno
schierati alcuni giovanetti con delle grandi arpe e delle cetre e dei
sistri. Presso i pilastri dell'arco sono appostati due tempieri, e nel
centro dell’arcata Gobrias. (giovane discepolo di Simon Mago) e Dositèo,
vecchio sacerdote, stanno rivolti verso la folla. Nella cella i devoti
guardano, in atto d’ansiosa aspettazione, il calice raggiante. D’un tratto
un largo fiotto di sangue trabocca spumeggiando dal calice e cade nel
bacino sottoposto. Nello stesso momento sorge dal braciere ardente una
densa colonna di fumo che invade il sacrario e nasconde Simon Mago alla
vista dei credenti. La cortina si chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti
al di là della cortina, sul limitare della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE
AI SPIRI TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI
ERENIITIA È ielialieo e en i PARTA IATA FINTA AADHRED ERO GMAT
IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA NI LATERIZI PE TARGA ZE RAISI ALITO ANA
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I SORIA II TIA DITA terreni: 0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T
TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO) SIMON
MAGO a Gobrias, mentre î fedeli continuano a cantare il loro
salmo. Odi il fedel gregge mugghiar L’incomprensibil càbbala al ciel.
GOBRIAS colla tazza în mano e con piglio ilare appressandosi a Sîimon
Mago Vedi il festin sacro brillar! Sul lettisternio profuso è il vin!
Tempra il falernio succo la neve; Voglio al divin scifo libar.
Corre al desco ove coglie una tazza già piena e poi ritorna nel gruppo.
Dositèo lo segue e lo imita. PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI
IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI
EMPATIA TT R IRE VAT PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA
RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI
(NELLA CELLA) | I FEDELI inginocchiati Stupor Portento GOBRIAS e
DOSITÈO | È compiuto il Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente
Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS i Preci ed offerte. Iltempiere
girafra i fedeli con un piat- ! to per raccogliere le offerte. ALCUNI
FEDELI Proùrche, Bythos, Sigeh, Logos, [ Anthropos, Zoè Noùs
Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel sacrario seguito da
Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo Abisso,
imperscrutata [origine i Degli Enti primi e immenso mar
[degli Esseri; TUTTII Noi t'adoriamo. 2a reo
anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI i
FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA TMTIRET RSI
Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la prima asper-
[gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo irrora Inclina
leggermente il labro della taz- za verso terra în atto di burlesca
devozione e sparge qualche poi ripiglia con Dositèo e Cerinto: occia di
vino, Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar.
Tracanna tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO Zitto!
GOBRIAS Siam ilari, si. beva! Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto
SIMON MAGO Zitto GOBRIAS S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO
S'ode ancor l’inno. cortina. Gobrias è corso a spiare aitraverso la
|SIMON MAGO a Gobrias Che tenti? GOBRIAS RATORI MOIS
NET ZITTA TEA O Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI
Per te preghiam, per te che gemi [e sanguini Nell’ombra eterna,
agitabonda [Prunikos ALCUNI FEDELI In te speriam, in te, Divin
Paràklito, Disceso in terra col celeste Pneuma. TUTTI In te
speriamo. ALCUNI FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel [calice
Cruento che in tua man fervendo [imporpora. TUTTI In te
crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI
ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL
ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà GOBRIAS | Alcuni
fedeli, nella cella, appendono ; degli ex-voto alle ginocchia
dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel piat- to delle
offerte che sarà portato in giro dal tempiere. Un vecchio col capo co-
perto da un palliolum che gli ripara anche le spalle, e sorretto
dauno schiavo, sale sul basamento dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive
[tavole. S’ode un tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole
attendono, vendiam lor favole. GOBRIAS Presso la
statua, sul plinto sacro Del Nume un vecchio parla. I RIZZI
METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON
MAGO IL TEMPIERE Che chiede ? | Date le offerte. rase nes
Miane i SRD GOBRIAS Parla all'orecchio del simulacro. SIMON
MAGO ALCUNI FEDELI Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato
Nume il bronzo o l’è- Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te
cammina, profetizza e palpita. GOBRIAS e CERINTO
Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è
chi spera. | DEI i Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. |
Pregate, stolti! Pregate! Intanto L’àugure ride dietro l’altar.
SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve
presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO alternatamente No, senza riso
non posson gli àuguri Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al
desco e s’incorona comicamente brillo con una ghirlanda di fiori
gialli. CERINTO a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi SIMON MAGO ALCUNI FEDELI
No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo! Pronto a celiar. !
GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber! interrompendosi CERINTO
No, non déi ber! I SACERDOTI Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio
cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è. ALCUNI FEDELI Mo MAGO i
Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè,
Noùs, Ecclesia, eccelsa Og- [doade: SIMON MAGO I SACERDOTI
Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI i brias, tentando
strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo
Cerinto, Simon Mago e Dositèo non | È | fanno parte del gruppo che
assedia\ Il salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche
nel sacrario. | AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO
RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA
CRI To ce een eee Li e ee ene ai arri) VIII SALZA È
PO i LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA AIIEIIZZ IA LEDA
TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg SIMON MAGO a
Gobrias Non cantan più. Tu scaccia quelle genti Pria che giunga N..
Gobrias corre allegramente verso la cortina che divide la cella. A
Dosîtèo Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A Cerinto, indicando il
manto e la tiara Riponi quella spoglia. GOBRIAS
sul limitare della cella, rivolto alla folla Ite, credenti,
e nel varcar la soglia Inchinatevi al Genio dell’Impero. I fedeli
si alzano, s’inchinano davanti la statua di N., alcuni vanno a baciare i piedi
dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la co- lonna del serpente di
bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra. Intanto Dositèo eseguisce
gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi, accende un cero che sparge una
luce verdastra e lo colloca ai piedi della gradinata. SIMON MAGO a
Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro ond’io riempio D’oracoli la cella.
Sovra l’altare, iridescente stella, Scintilli il prisma.
Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a spiare dalla porta del
fondo. Ai citaredi ed ai sistrati E voi dall’ipogeo
Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti costoro escono dalla
porta bassa dell’antrum. GOBRIAS accorrendo nel sacrario Giunge N. Simon
Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un simpulum di vino. Gobrias
ripone il simpulum nel recipiente del vino e sale a salti la gradinata.
RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA LINZ MIE € RATE, SID RITI
SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto e indica a Gobrias il
nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba Smuovi quel
fulcro e tutto si sprofondi L’altar nella sua tomba. Gobrias penetra nel
nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto su Gobrias, poi
ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna subito dopo tenendo
Asteria per mano. La porta laterale della cella si spalanca e discopre
un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino, Terpnos, e dietro d’essi
alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie Germane. N. e Terpnos entrano
nella cella, la cui porta subito si richiude. SIMON MAGO ad Asteria
Su quell’altar tu déi salir. ASTERIA Travolta Son ne’ misteri
tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA
Oh, sogno mio supremo! Oh, so- NERONE [gno mio! accompagnato sulla
cetra da Terpnos, i canta: Un supplicante attende e prega
SIMON MAGO Che il sacro vel per lui si schiuda. Lo ascolta! Ei già
t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè Tu aderger vuoi queste membra
[mortali? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a forza
Asteria riluttante insino all’altare Non indagar. Sali al tuo sogno! Sali!
ASTERIA Pietà SIMON MAGO Sali con me! Sali con
me! ASTERIA Fi m’ha nomata! SIMON MAGO sottovoce Egli la Dea
ti crede Che sulla notte e sui terrori ha [ regno. Bada a te!
Se ti sfugge solo un [segno Di tua mortalità, se scosti il piede
Da quest’ara e dal raggio che t’indìa, Tutto crolla. PRAIA II
ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI
N. Placata alfin Ramnusia, in terra, i Indulga; arrida Asteria in ciel. N.,
con un gesto appena accen- i nato, congeda Terpnos che esce tosto
‘dalla porta d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo
chino, toccando amuleti appesi al petto e applicandoli alla fronte.
ASTERIA Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver
cercato con un gesto di far tacere Asteria, le chiude colla palma la
bocca. Nell’antro ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia,
Ravviva in lui la speme o la paura E tuo schiavo sarà chi ha
schiavo il mondo. Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata
dalle parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. I} î
ge frenate rs È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI
LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER
IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2 Simon Mago schiude un poco la
cortina e passa nella cella. Non ri- mane altra luce che quella del cero
e del braciere ardente; anche la fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO
a N., dopo socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia. N. s’incammina,
arriva sino al limite del sacrario e fa per entrare, ma Simon Mago lo arresta.
SIMON MAGO affrettatamente Erri. Col destro pie’ N. s’arresta
sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora la soglia. T'inchina.
N. s’inchina. Passa. N. varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi
abbassa. Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino, eseguisce tutti i
comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo per mano, davanti allo
specchio magîco. La fioca luce del sacrario non arriva a illuminare
Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in cui rifrange Sua luce
astrale l’infinito Abisso. Solo uno sguardo intensamente fisso
Giunge a discerner la spirtal falange. Qui la vedrai, se tieni gli
occhi intenti, In quel baglior di porpora e d’elettro. Poscia, indicando
lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza di ferro, soggiunge:
E se uno spettro appar che ti spaventi, Batti quel bronzo e
sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed
esce dalla porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente scende
dalla volta del Tempio e illumina Aste- ria la cui immagine si riflette
nello specchio. A N. Ah! sparisci! Atterrito impugna il
maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo, ma subito s’arresta. No
No. Sei del miraglio L’illusion. i Avvicina lo smeraldo all'occhio.
Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina,
con intensa curiosità, allo specchio e lo tocca; abbandona i lo smeraldo.
Ah! qual pallor sul suo volto.... e sul mio! Vediam. Si volge e
vede Asteria sull’altare. Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto
a quello dello specchio e si copre gli occhi colle mani. Non m’accecar!
Porta la mano destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare
d’alzare gli sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo
gradino. Tremenda Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri
Tu promettesti pace a un matricida. La stessa grazia imploro;
inginocchiato su d’un ginocchio solo al par d’Oreste Io non senza cagion
la madre uccisi. Dal suo spettro mi salva ! Ripiomba col volto
sulla gradinata dell’altare.ASTERIA sempre immota, fissandolo, con un
accento languido di sogno Sorgi e spera. N. sollevando la testa e
gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come viene a errar presso il mio
core La voce tua! Al par d’un bronzo echèo Risponde il core.
Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie dal collo il monile
di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria con eguale lentezza:
e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le serpi avvolte e le
lascia cadere nella cista mystica che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE
IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I
TANARRE DETTATI ATTI AES INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL
REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT
PATRIA N. Tu dal sen disnodi La vivente lorica, io surgo e getto
L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul tripode
dell’altare, alla portato deîla iano d’Asteria. Poi, seguendo con lo
sguardo le movenze d’Asteria. prosegue: Ecco; la Dea si china.
Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella Fra i lividi smeraldi
Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta dal ciel cade una
stella Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |! Vago Eòne lunar!
Magica Iddia Dai mille nomi, scendi! Ognun di quelli Sarà un nome
d’amor ! Ma immota resti, Dea degli alti silenzi, al par
dell’astro D’onde tu migri nell’ore incantate. No... nel tuo cor sangue
umano non pulsa Ma il freddo icore de’ Celesti. Guarda lo... rapito dal
senso, amor spirante, T'imploro S'è gettato sui gradini dell’altare
sempre cogli occhi fissi in Asteria e colle braccia tese verso di lei.
Essa rimane immobile presso all’ara, colla testa arrovesciata; come
irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei ! Donna ti voglio
e anelante nei fremiti Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica La
tua Divinità! Già il sacrilegio Portai su Vesta, allor che a forza
avvinsi Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire
un breve grido. Nerone s'è rialzato € prosegue: Ma delitto più nuovo e
assai più forte Consumerò Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per
afferrare Asteria. Scoppia un fragore spaventoso come di bronzo
terribilmente percosso e s'ode dalla bocca spalancata del mostro che
sorge dalla pareie dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO N.-Oreste! N.
Asteria ! È Nello stesso tempo s'è spento il raggio che illuminava
Asteria. Il sa; crario ripiomba nell'oscurità. N. ricade come
fulminato sulla gradinata. Asteria, lentament$ scende qualche gradino,
s’avvicina a N., chinandosi a poco a poco, gli si rannicchia d’accosto,
mezzo prostrata, mezzo seduta; î due corpi si toccano. I loro volti
riverberano, fra le tenebre, la livida luce del cero e il riflesso della
bragia. ASTERIA | N.. i come sognando | lentamente fra le parole di
Asteria i Passa una bieca ora di febbre... un Cieca la salma
nell’orror ripiomba... | [sogno... ) ?
L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo) | Sento..nell’aura cieca..in
fondo i i SI [all’ebbre a le larve SA non | Parvenze il lento
incubo nero. orbe....m’invade il ciel... | [Oscilla: Al par delle
spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti volano. LA VOCE
DELL’ORACOLO N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro il sacrario.
L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror distruggi,
Asteria; Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO N., fuggi N. senza
sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica L’oracol grida invan su me,
non temo. sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando Sotto
i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio Blando... lento... che
muor col sogno e bea L’alma e dissonna il senso O Amore BEI BRASIOA ZI
FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I RATEALE DORIA
TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN VLAN TTT
VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO ETICI
CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA Oh! Amor! Si baciano. LA VOCE
DELL’ ORACOLO sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP PR ESSERE Fuggi,
N.! N. balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente
Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI
DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.! N.,
in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce,
origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi, N.! N.
scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra
il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della fiamma,
nella bocca dell’Oracolo. DOSITEO Aìta! i: N. ridendo È
colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con-
fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore. PIMOPI
LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA
ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE
GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL N. par la vampa! Il
chiostro insidioso Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo
violento spezza la lastra di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo
squarcio della parete si scorge Dositèo, svenuto sul pavimento
dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme. Ah! An! An! È Dositèo
che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con
grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a
destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando:
Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della
Guardia Ger- mana, Terpnos e i servi colle faci. N. strappando le
cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore; Accorrete!
Ecco! Mirate! Squarcia il velo del sacrario. Squarciato è il vel
del Tempio! Ah! AN! si rida! Non vi sfugga Simon, ei là
s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì
dallo squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo
specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano
continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo
contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco!
Vediam che n’esce! Vediam, vediam! E con un colpo di maglio io decapita e
lo atterra. L’idolo cadendo agita le braccia dinoccolate, si rompe e
n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è
uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e barcollante, contempla
con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina
del sacrario, mentre Nerone atterra un’altra statua. GOBRIAS Eh!
son briachi (incespica) i Numi! N. D’onde sbuca costui? d ; sa
wcmerra sana ce iran» — rst Le o RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE
I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE
RIESI n fl s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI rare FIA DERE MA
RE BIDET SR: SAT £ RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO
ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS Da quest’altare, Come il sorcio
ridicolo del monte. NERONE Ebbrioso compar, tu assai mi piaci;
T'ascrivo al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando. GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume!
Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar- die
Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N.
a Simon Mago, deridendolo O Gran Verbo di Dio! al Decurione
Libero ei sia; Costor dai ceppi han gloria. a Simon Mago
O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo Nell’aria.
(ride) Ebben, ah! ah! tu volerai Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON
MAGO sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel
giorno. N. Tutto, purchè tu voli. al Decurione, indicando Asteria
che s’è riavuta: Decurione! Questa, degli angui amor, falsarda
Erinni, Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei serpi! Il
Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA dibattendosi
angosciosamente Invan mi danni E mentre la trascinano fuori dal Tempio
ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia, uccidimi!
lo non son che una povera errabonda Sposa di serpi; alla mia razza
il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte. Liberati da me, perchè, se
vivo, Ti seguirò così, sempre, rapita Dal volo del tuo turbine,
travolta Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei, Perchè t’adoro N.
Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle Guardie Germane
fuori dal Tempio. Il coro la insegue minaccioso. CORO
AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N. piglia la cetra dalle
mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama: Or che 1 Numi son vinti, a
me la cetra, A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona d’alloro
e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i Pretoriani si
schierano davanti all’altare. lo canto. S'atteggia come l’Apollo
Musagete e incomincia a preludiare. PEA RA TTT ALT ERRO FIGATA PIENA
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( IRSA PIL] GRITTI i i i ig Hut [eLt 1% f U PARA | y i I i A,
» = vec saio cen L’orto dove s’adunano i Cristiani,
nel suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi riflessi del tramonto. A
sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto da quattro
colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è
deposta una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo
legno. Dietro alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una
leggera prominenza. Nel fondo s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi
sono due tavole; una di queste ha la forma d’un sigma lunare e porta i
resti d’una cena frugale, l’altra è di quelle che servono ai coronari per
intessere ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I a questa
tavola stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato
alcuni Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del
fonte. Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’
orto. Un’immensa attesa riempie le anime. FANUÈL în atto di chi
continua una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad Salì sul
monte, Le benedisse E disse: Beati i mansueti, Perchè saranno della
terra i Re. LE DONNE CRISTIANE ripetono sommessamente: Beati i
mansueti. FANUÈL Beati quei che piangono, perchè Saranno lieti. LE DONNE
Beati quei che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo,
Perchè li udrà il Signore. GL’UOMINI Beati FANUÈL Beati quelli che
hanno puro il cuore, perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI Beati
FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi,
Perchè per essi È il Reame de’ Cieli. TUTE Beati! Rubriîa
esce dal casolare con una lampa in mano; è seguita da Perside e da
fanciulle che portano in grembo dei fiori sciolti e lì depongono sulla
tavola insieme agli altri. Tutte le donne si radunano intorno ai fiori.
Alcuni uomini vanno accanto alle donne, altri entrano nel caso- lare,
altri si disperdono nell'orto. Fanuèl, appoggiato ad una colonna della
vite, guarda Rubria. Incominciano a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA
Vigiliamo. È la sera. Arde la face. D’intorno ad essa ci aduniamo in
pace. Viene il Signore ma nessun sa quando; Beati quei che troverà
vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a
cantare con essi una canzone. RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE alternatamente A me i
ligustri, A te l’allor. Tuffiam le industri Mani nei fior. A me il
ciclame E l’asfodel, L'’aulente stame E il tenue stel. Avrem
corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi, Ghirlande e serti. A me il
viburno E l’amaranto. Rigira il canto Mutando turno. Sua gioja
espanda La cantilena Viva e serena Come ghirlanda. OR! date a
piene Mani le rose Vigili spose, Lo sposo viene. Spogliate i clivi,
Le valli e gli orti! Fiori sui vivi Fiori sui morti Fiori silvani
Gialli e vermigli OR! date gigli A piene mani! Casto segreto
D’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi Lieto è chi
muore Nel Dio verace. Amore! CISA Fede Amore! Amore! i Speranza! ci
pritaza erica nr srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE
LIV NE PISA POR TINI ESTATI NOIA negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI
LETT IIS CLI IE AMET Li VITI en = PN LATITTE FRS, IAC IONI CREA PIATTO
TODARO LAZ) IT AETE TA ADEN IMEBIIREI LIE Ra STAI TANTI NLITTE PORA ONT
Te ppie LL SIIT FIIEAIOI MIEI OASI METZIZIO EIA DNASIORISI E STIRIA TIZIO EE DO
DIE I ITA MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE
PL ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo Pace. ALCUNI
CRISTIANI sommessamente cTsrEATI e en Risponde il ciel
! (IbEEINDI chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi
dell’uliveto si scorge una figura nera che s’avvicina lentamente. È
Asteria. ALCUNE DONNE Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e
Rubria. Asteria s’avanza come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite
dell’uliveto s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le
sue vesti sono lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora,
gemendo, parole interrotte. ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli
ed essi fuggono. RUBRIA ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la
sorregge pietosamente e la conduce a sedere presso la fonte dicendo:
Sorella, Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi!
ASTERIA vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa.
Dolce Nazzarena SÌ tu se’ quella che il mio duol lenivi Sull’Appia,
orando, un dì, nella quiete Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria
fa cenno a Fanubl, il quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del
fonte e gliela porge. A ORTO Co ee vee te en e ee e ea ASTERIA sorridendo
a Rubria ed estraendo un fiore dal seno Quest'è un tuo fiore. RUBRIA
Bevi. Avvicina la tazza alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente.
Arsa languivi. Mentre Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono
le sue braccia ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA dopo
un lungo sorso, senza por mente all’osservazione di Rubria Oh, il fresco
umor dei rivi! sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl; a
Rubria: Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te
mi svincolai Dall’amplesso dell’idre. mostrando le cicatrici Ecco i
lor baci. Rubria fa per bendare la ferita di Asteria. Non m’ajutar.
con parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente Questi
attimi fugaci Serba per te, te stessa ajuta, fuggi! alzandosi
Fuggite tutti! sulla vostra traccia Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento |!
cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI
FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN
TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti creni
SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ RISO
PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO
TIZIA INIZIATI SEP AIA I Ù s |ASTERIA i I I var
tenanionIE Distruggi Ogni altra speme che non sia la fuga. Tremendo
egli è ! Bene udii la minaccia: Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a
Fanubl, atterrita Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte
dell’uliveto. RUBRIA ad Asteria T'arresta ! ASTERIA con subita
veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi
fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA s’avvicina a Fanuèl
che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso
silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ” Salvati, per pietà! Tu indugi
ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento!
L’infinita Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un
Dio quest’alato FANUÈL fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo
un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore AI solo rammentarne?
Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII
REISER LTT. RUBRIA interrompendolo Ed or te ne
rammenti FANUÈEL A tutte l’ore M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa.
RUBRIA No. Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu
quest’affannata Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel
tenebrore, Vuol la tua morte FANUÈL Tutto ignoro di te, tutto,
anche il nome. Quando t’accolsi nella fe’ novella Non te lo chiesi,
ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva Tu ne
abbandoni; l’orma fuggitiva Ove ten porti? ove? e perchè celarla?
Forse allor corri al tuo peccato ? Parla ! Parla! Consenti alfin
(ti pregai tanto) L’alto abbandon del lagrimato errore ! E
un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal
timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del
charisma Cristian ! RUBRIA inorridita Sàtana è qui! Corre
disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno,
spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl. L'orto è
immerso in una densa penombra. S’intravvedono nel fondo Simon Mago e
Gobrias poveramentie vestiti. Simon Mago ha il capo coperto da una
calàutica î cui lembi sciolti gli mascherano tutto il viso. S'arrestano
là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo,
attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e
risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON
MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON
MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce Fanuèl
che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento,
cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI st avvicinanando
meco. GOBRIAS con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi.
Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio
grido e non ti vuoi Odo un suon di voci arcane, di sin- [salvar !)
SIMON MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a
Gobrias e sottovoce Sigi mi raffigura, S'ei mi
s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed
agitar, coi nostri, la congiura Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto,
L’ultima audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI
FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT
VE UE EIUS LAI RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e
taci? Che pensi? FANUÈL I amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi
ch’io mi scopro È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso
FANUÈL Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon
Mago, Rubria rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON
MAGO a Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian.
FANUÈL terribilmente Così non sia! Mago Simon, cieco e de’
ciechi Duce! dj È Ù \ONTSZE TIIPO LI OPZIONI IONA MUTI ET ATTIMI
EDIZ) MSN LINA PIA III NI DTT Me OI III TOO EA TE DALIA DI TITOLI CPT ART DT î SSN
(AS TEAM EEDE TAI EAZIANTZNGLTT POSTI NI FAZI PORTIERE ITINERE TIE
E AITINA NEI AR NZIMECII AI ATI E PETTO BIO I ZI UT AMI SIDE BIZ SEDI VITE da
TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA LA Ende SERA
ILE STATUE AL SIMON MAGO atterrito si scopre il volto e si getta ai piedi
di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è allontanato
dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco dopo n’esce con alcuni
Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un Centurione. SIMON
MAGO sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che negasti, or
prego. La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte m’attende. Un’opra
ch’ogni uman segno trascende N. m’impone, Non si sfugge a N.! Dove
ch’io mova un Centurion mi spia. Ma tu, Profeta del novello Eòne,
Tu, coi portenti della tua magìa, Tu sol mi puoi salvar. FANUÈL
Così non sia! Si vedono comparire dall’uliveto due decurie di
Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati da
portatori di fiaccole. SIMON MAGO rialzandosi di colpo e indicando Fanuèl
ai Pretoriani A voi l’uom. I CRISTIANI si slanciano contro
Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO chiedendo ajuto alle guardie
Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL
interponendosi, con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto; poi
dice ai Cristiani: Non resistete al malvagio. L’esempio Ne diè il
Signore. Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione Se piace a Dio di
far possente un empio Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl
ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave D'amore, mani
aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave E
l’allegrezza. La giornata è compìta Pel fratel vostro e il suo carco
depone. Voi camminate in novità di vita Ed in pienezza di Benedizione.
Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze,
Unite anche il mio nome alla preghiera, Unite anche il mio nome
alle speranze. trattenendo la commozione V’amai dal dì che il cuor
vostro ho raccolto, Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non
vedrete il mio volto. I CRISTIANI donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL
s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io
tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI
inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO
TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL
entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio
santo. Bacia alcuni uomini ed alcune donne. Seguitemi cantando un
lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie.
RUBRIA mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci
sulla mia pupilla La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le
labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane
in disparte, lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti?
RUBRIA subito, con voce appena sensibile SÌ. FANUÈL rivolto
ai Cristiani che lo accompagnano Cantate a Dio! Le donne hanno
raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di Fanuèl, cantando
e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il
fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i passi di Fanuèl Oh date a
piene Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I
CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E
SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI
AZIONA IATA nr SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO
RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF Ln ara e ST
GPTDT ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È CREARTI IE IEIRRIA
MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE
IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE
Spogliate i clivi, Le valli e gli orti! Fiori sui vivi! I
CRISTIANI allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto
segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi
muore Nel Dio verace. Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è
rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA
dopo aver seguito collo sguardo il i cammino dì Fanuèl Sì,
per salvarti. Ma il mio sogno [è infranto. S’accosta al margine del
fonte e bacia il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende
l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella
lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu Laggiù, lontan, nella canzon
che [muore, L’odo ancor. RUBRIA L’odo ancor e canta:
[amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo
un lungo silenzio, angosciosamente Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma
RIM AA NI VAIO QAVTI MALLINMA
VO: IT RICA OS NT e tane carl ieri ian ] a MITA LIETI }
Ì i tino. 19 a 0; dI iaia DS x LESLIE
TENTA NA LIZ È STATO LANE SAI LZ ATI Si vede l'interno dell’oppidum
fra i suoi grand’archi centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e
quello della f0r/a dompae, a sinistra, che s’apre verso il foro boario. In
questo grande atrio ha sua foce un criptoportico che si prolunga nel fondo
seguendo la lieve curva della fronte del circo; è chiuso, alla diritta di chi
guarda, dal muro delle carceri, e la sua parete a mano manca è popolata di
botteghe e di taverne. Nella stessa parete, leggermente concava, si
scorgono i primi gradini d’una scala interna che ascende alle precinzioni più
alte. Presso all’arco che sbocca nel circo si vede internarsi nel muro,
di prospetto, il primo ramo d’una scala che sale al podin. Un’ ampia
nicchia, fiantheggiante la forfa pompae, accoglie la famosa scultura
Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in atto d’avvincere Dirce alle
corna d’un toro inferocito. La viva luce diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm.
Ai pilastri degli archi è affisso l’editto dei giuochi. Vortici di folla
irrompono da ogni lato. La maggior calca ferve intorno ad una quadriga;
quivi le fazioni del Circo si affrontano levando grida di trionfo e d’ira,
i agitando toghe e cappelli e pezzuole verdi ed azzurre. Parecchi
brandiscono degli stili, altri minacciano colle pugna gli avversarii. L’auriga,
che ritorna vittorioso dalla gara, porta i colori di parte prasiza, ha le
redini attorte dietro la schiena e i cavalli rivolti nella direzione del
criptoportico, impugna un coltello per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O
MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni FELICIA vano cavia nta PO TAZTI ARE
TATE dagl’assalitori. I VERDI Gloria Vittoria GL’AZZURRI Morte
Morte Infamia I VERDI . Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI
Furasti con perfida frode, Furasti con perfida gara La palma
cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria La folla vociferando segue la quadriga e
s’interna nel criptoportico. Simon Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione,
incontra Gobrias che viene dall’arena. GOBRIAS a Simon Mago,
scherzosamente, coll’inflessione particolare di chi parla ridendo I Verdi
han vinto, è salva Roma. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS
sottovoce, dopo essersi appressato a Simon Mago, e rapidamente Siam
pronti. La fune incendiaria acoppierà verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E
chi la scaglia? GOBRIAS Asteria, SIMON MAGO con accento di grandz
sorpresa Asteria? GOBRIAS Sì. Viva la trassi
Dal baratro de’ serpi ed or ti giova. SIMON MAGO M’odia, mi tradirà. TT
RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt ri I i nevi ia ceca mann ast romiiomito
nea ra re ORTO PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE IIN i $ i
GOBRIAS con accento di chi rassicura Ama i Cristiani, Vorrà
salvarli e te salva con essi. SIMON MAGO dopo un momento di riflessione
Sai l’ordine de’ giuochi? GOBRIAS indicando l’editto affisso
ai pilastri della porta pompae ed avviandosi a leggerlo È
là, si legge. Dal fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori
armati per combattere e disposti în ordine di parata; divisi per coppie,
preceduti da quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal
Lanista e da un servo, entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di
Preneste - Passano. Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri
e colla morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO interrompendo A mesi
deve. GOBRIAS continuando la lettura Laurèolo in croce sbranato
dagli orsi. SIMON MAGO È Fanuèl. Continua. GOBRIAS ferminando la
lettura Il volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon
Mago Buon ti sia Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico.
Dal circo giungono grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di
folla entra correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso
una lettiga pomposissima portata da quattro lettigarii. Una puella
Gaditana esce dalla taverna con alcuni suoi corteggiatori e si mette a
danzare in mezzo al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e
lieve, al suono di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un
giovanetto, colla doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino
scendono la scala del podio e s’arrestano presso all’arco del circo. N.
Che vuoi dir? TIGELLINO sommessamente Una congiura. N. Contro me?
TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti Di Simon Mago, per sottrarlo a morte,
pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno
l’Urbe. La puella Gaditana col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si
eclissano nella curva del criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed
interrompendo Tigellino Taci. Le grida del circo giungono nell’oppidum da
varie altezze e distanze, seguite da risate e da urli, frammiste a
squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot,
So E ibiza ea resin det m m m &m et VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI
SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN ALTRE VOCI Basta! Vogliam
le Dirci! MOLTE GRIDA Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino
se ne vale per ripigliare il racconto. TIGELLINO Seguo lor traccia.
N. imperiosamente, interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il
tumulto del circo; s’odono a diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge
Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO I Pretoriani chiedono un cenno mio
per afferrarli. N. ascoltando le grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no
Basta TIGELLINO risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida
lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di Basta Le
Dirci La Tragedia Basta N. in uno scoppio di collera Taci! Non odi la
plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira concitato verso il criptoportico.
Sono entrati dalla taverna Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro
esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la tragedia, Alitùro esce
correndo. A Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E = REIT FE DIET
TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST AT ONTO ET CR ITA
AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna Dal fondo del criptoportico
accorrono moltissimi pantomimi colle maschere sul viso, portando grosse
funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E voi scacciate Quei
gladiatori. Allo spoliario i morti! Date le Dirci al popolo Affaccendato
come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a Terpnos con
grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le rocce del Citerone e i
veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I personaggi d’Anfione e Zeto I
due personaggi si presentano Zeto porta una clava e delle funi, Anfione
una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe una Dirce ed io ne
uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI In scena Tutti
s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da parte Tigellino e gli
dice sommessamente, con calma ironica: Astuto agrigentino, e non t’avvedi
ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel t'opponi.Ciò
ch’io struggo Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun sapea quant’osar
può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un corteo strano ed
atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come la dirce del
marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra le mani
un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii
che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono alcuni
Sagittarii in completo assetto di caccia con archi, faretre e saette. Una
frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon Mago
ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre egli
passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum.
N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio delle
vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI
BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE
LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ
MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT
AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE
Morte Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe Ecco il capo delia
torma Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena.
SIMONIACI Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca
SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE Abbaja A morte
FANUÈL con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani
e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE
Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il
capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è
bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta
all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano
verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE
VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È*
È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI
PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA SORIA
TTD MADAME DE I LI PETER AT SIETE PAD IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR
TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE CE e terribile e nelle
prime parole un po’ ansimante per ira Chi là dov’'io mi son osò parlar di
clemenza? LA VESTALE sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile
Stende Vesta con me la man che riscatta le vite. N. lentamente,
studiando ogni parola, mentre guarda a Vestale velata collo smeraldo Ave,
0 Vergine sacra, scopri il volto, poi giura (Legge è di Numa) che in
questi rei non qui ad arte [t'imbatti. LA VESTALE con voce di
persona atterrita Una Vestale a giurar non s’astringe. N. comuno
scoppio di collera Per Giove! Chi le strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il
littore tenta d’interporsi co’ fasci, ma Simon Mago s’è già slanciato
sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI Sacrilegio ! FANUÈL la
riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed esclama: Sorella! RUBRIA
Fanuè! Sviene fra le braccia di Fanuèl. SIMON MAGO È una cristiana.
Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE È una cristiana, N.
ravvisandola, la nomina Rubria irridendo Ben tu svieni. SIMON MAGO
Morte LA PLEBE A Porta Collina! Muoja! N. Freneticamente
Muoja Nel branco delle Dirci! LA PLEBE Sì. NERONE con un rapido
cenno impone silenzio. Dopo una brevissima sospensio- ne riprende solenne
e tranquillo Dal capo L’insula sacra il flàmine le svelga Il
Flàmine strappa dal capo di Rubria l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani.
FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano su Rubria svenuta, le lacerano
le vesti. Fanuèl è circondato dai sagittarii. La plebe s’accalca intorno,
mentre due bdbestiarii sollevano Rubria sulle teste della folla ruggente e la
trasportano nell’arena dove è spinto anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani
che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI e CRISTIANE Credo in un Dio solo
ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI
DET AT SEA, ILS IN I VIIITUE RI TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA
DE STLTIIIAI ER LA PLEBE A morte Abbaja abbaja Raca Raca Morte N. con
esaltazione Mano alle funi, alle belve, alle donne Tutte un Eroe denudator le
abbranchi, Le avvinca nude in groppa al furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror,
fugate Dai veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i
grembi al sol, nel raggio del concavo smeraldo agonizzanti. N. si avvia
al podio. Tutti i pantomimi sono entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o
E tu non voli? Ah! AN! La plebe sghignazza. N. indicando Simon Mago a
Tigellino e ridendo Dalla torre dell’Oppido sia tosto Slanciato in ciel.
Non voli? Ascendi all’etere, Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla
scaia di legname che sta a sinistra del criptoportico. GOBRIAS,
TIGELLINO, LA PLEBE I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La
guardia germana, afferrato Simon Mago, lo trascina rapidamente I Se
sai volar Icaro, vola! I SIMON MAGO si difende con tutte le sue forze;
vede Gobrias e lo chiama in soccorso: Gobrias! GOBRIAS Va! non temer!
prolunga la difesa. mo Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel
fondo del portico. DELIO NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A
IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO
TIENITI SIMON MAGO implorando ajuto da Tigellino Mi salva TIGELLINO
rigidamente, ai Pretoriani Sguainate l’armi SIMON MAGO al colmo
dello spavento Tregua La guardia germanica colle armi in pugno caccia Simon
Mago, pungendolo e minacciandolo, sui gradini della torre dell’oppidum. N. Icaro,
vola! Vola! Vola al sol! N. ridendo sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo
non cessano i clamori: si odono le grida feroci A morte le Dirci, Vogliamo
la Tragedia, Non vuol morir! Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di
spavento che vengono dal fondo del criptoportico e dalle parti più alte
dell’edificio dove s’incomincia a scorgere qualche cirro di fumo. Le
grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode
Gobrias che grida: L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il
circo divampa Salvate le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le
nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che s’urta, che cade. -
Una fiumana di popolo irruente invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco
della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ
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gf” SIORIT MISOLI E GPIZIEIE BITTE PEZZO DL LO ITA EAT NL A CETONA
TOT UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del circo dove si
depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada a poco a
poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una porta e la rampa
d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad intervalli
uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino. Asteria, con una fiaccola
in mano, discende la scala; giunta alla soglia del sotterraneo s’arresta per
illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme.
Cerchiam fra i morti. FANUÈL Orror di tomba Emana lo spoliario.
S'ode ancor da quest’antro funerario La gran vampa che romba.
ASTERIA Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi lentamente guardando a terra
lungo la parete centrale. Al lume della torcia che tiene in mano
s’intravvede, là dove passa, la struttura irregolare del sotterraneo.
Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la parete di destra.
Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe
FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA vivamente Allor qui giace.
Tardi per lei scoppiò da questa face Il folgore incendiario! Fanuèl
s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al tatto le fasce
crurali d’un auriga. Va oltre. Ecco là dei cadaveri. Indica
un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete sini- stra.
Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti, un trace. ASTERIA atterrita
Simon Mago! FANUÈL Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi,
iv cadavere di Simon Mago gittato un po’ più lontano, in un’insenatura
del muro Là. FANUÈL dopo averlo guardato fissamente Da Dio
fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo
è ingombro d'armi gladiatorie. ASTERIA Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un
letto funebre, giacente come una morta, una donna în veste bianca. FANUÈL
chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A d
ASTERIA accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio,
posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira,
Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato
sinistro del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria,
mentre Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta.
Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta Sanguinar nuda nel nembo
infernale Salvala Cerca cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale
D'un sagittario. aspettando ansiosamente Ebben? ASTERIA guardando
la ferita di Rubria attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL
Muore Non muoja qui non nell’orrore Di quest’antro Fa per sollevarla e
portarla altrove. ASTERIA opponendosi con impeto La getti nella strage divampa
il celio, arde il velabro, è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di
brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia un fragore terribile sulla volta del
sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio
sulla scala d’onde scese e la risale correndo e scompare mentre Rubria
apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto chino ‘presso di lei Non
temer, son con te. RUBRIA trasognata Fanuèl. Dove son? dove fui? Tu
salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel Colta da una reminiscenza
d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il capo. FANUÈL con grande
dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca stola. Riposa. Oblia.
RUBRIA Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi a te. Tenta di
sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA Pietà
l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi
M’ajuta! FANUÈL inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta!
(o [4 sd RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR
ILE TI i i Ì i Ki | Ì i 4 i i
| RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa Fanuèl morirò?
FANUÈL seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote
dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE
SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI sc Vivrai. RUBRIA
dolcemente SI SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia
la mano di Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto.
Così COSÌ.Tu m’insegnasti questa gran dolcezza Di sorrider nel pianto.
M’odi la morte A ogni attimo mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte,
Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed
un silenzio di raccoglimento, soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere
Venìa' coll’ idria del mio tempio... al fonte Dell’orto santo e
dopo le preghiere tornavo all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder
nella stessa vampa l’ara ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia.
Ecco il peccata. Or tutto è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi
sai, sorridimi. Monda e beata or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e
ponendole le mani sulla fronte e baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion
d’ immenso amore accensa sul capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste
netti rie ss n ur si n PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl!
Fanuèl! Estasi immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa
sul petto di Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor
mi giace. RUBRIA Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace. Dormi
quieta. RUBRIA con voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un
vespero strano. Dammi. Fa degli sforzi per continuare a parlare; non può.
FANUÈL Che vuoi? RUBRIA con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la
mano. Narrami ancora, mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda
che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola Laggiù, fra i giunchi di
Genèsareth, oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo
petto. Quella cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi
tranquilla, dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce
Ancòra ancòra. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui
sorgon gl’incanti. RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL
colle mani giunte e gl’occhi rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la
lunare aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria.
Asteria ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a
ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni
scampo di là n'è tolto. Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio
sprangato nella parete sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa
attraverso gli ingombri del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga,
apre. Sei salvo. Ecco una porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero
è il passo sulla soglia d’onde è entrata Accorri, accorri! FANUÈL sul
cadavere di Rubria Morta. Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino
all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI
EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE
FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria, addio. Scompare dalla
porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla morta.
ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che il mio truce iddio ghermì
sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium incomincia ad essere invaso dal
fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso cui tende spasimando il mio, poi,
d’un tratto, con immensa pietà martire santa. S'inginocchia, estrae dol seno il
fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo: Pace, pace, pace.
Si sprofonda una parte della volta. Asteria si salva fuggendo da dove è uscito
Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I HU LA
n PRI ARENA QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id vi NABLAPOTNO DO
MUPh il ti : UA NI N i, DA IRRCUn). i N MLM sti
ci Mg AV [RRIDIV UR UTA dl Mino, VA patria Ir Uli Nati x MI Mu
iva! VIBO TIVI HA |î sit MATICOPO ANASROT TAMARA IMGRNNLI
“n I s Tua Ld r ti RS N f Ii DA 10 LR
ITRIONT IR A IRIOVRARI Va; |ang ; \ DON NT] D) A ONIRI Ù IUSR
(VERSA » Dieta Îl i i aloni RUBA N INIT i fi gue Al< Ù
{UTI: D) dati. DA) y LI î ANITA AMARARA ha] in |glio ti w Mi ii
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TAAZAMIT Mot 4 pl De î MOCCENTUCIV I dle i ate PTT, K
He VARI LIRE) ;) 7107 000! LATO: AI ATC (4
#0 viti ; mg: pi PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio
Domizio Enobarbo. Sepolto a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei
Domizii Ahenobarbi Nerone.
Luigi Speranza -- Grice e Nesi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono
dalle celeste sphere Venere: perche amore inspiro: dagl’elementi fuoco:
perché d’amore accendo da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché
col mio ardore della GRAZIA della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I once had a fight with
Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a moralist; I told
him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di
Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente agli studi
filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti fiorentini
dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola,
ricopre anche diverse cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”;
“Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione
sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo
saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously,
Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in identifying GRAZIA with CHARITA,
‘greco vocabull” – this is an etymological blunder. The charities were indeed
three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they danced mainly to eroticse Mars, or
more frequently Giove and Mars together --. Of course the expression ‘gratia’
is not cognate! – For Davidson, charity is what the Italians refer to ‘carità’,
formed out of ‘carus’ – the spelling with ‘ch’ is a French corruption! So to be
charitable, in Davidson’s interpretation, is to be kind, caro. Not graceful!
--. Grice: “If Davidson doesn’t know his Greek mythology, that’s not my fault
--. Instead of his singular principle of charities, I will take the liberty to
sub-divide it into three maxims – The first maxim refers to the first charity,
Aglae: splendour; thes second maxim refers to the second charity, Eufrosina,
mirth; the third maxim refers to the third charity, Talia, cheer. In Kantian
format, these counsels of prudence become: be splendorous – or try to make your
conversational move one that is splendorous; be merry – or try to make your
conversational move one that will carry mirth to your co-conversationalist; and
‘be cheerful’, try to make your conversational move one as if it was spawned by
Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi. Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle
of charity, Davidson on charity on Grice. Who was the first Englishman to use
‘charity’ as a hermeneutic principle? Butler. Grice speaks of self-love and
benevolence. Benevolence – and charity? Grice is not so much concerned with
Beneficenza or Malificenza, but with Benevolenza, and Malevolenza – where does
charity fit? What was Ciceronian for charity. What is pre-Christian about
charity? Charisma, charitas, folk etymological
confusion here – caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico
conubio” “tre carità”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Nicolao: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma
–filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with
Cleopatra. He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.
Luigi Speranza -- Grice e Nifo: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale ludicra – la scuola di Sessa --
filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I
like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’
second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul
– surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia
Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una
fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo
di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato
con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa,
Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria
visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione
delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova
posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi
di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo
materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa
dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte
dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X
si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri,
ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso,
Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue
dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene
protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia”
(la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il
Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e
conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli
eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca,
della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate
animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro,
infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi
peritia.” Furono poi più volte
ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su
Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et
corruptione liber N. philosopho Suessano interprete et expositore”; “Expositiones
in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros
de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione
animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano
Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros
Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium
metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros
metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica
ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros
Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca
del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et
corruptione interpretationes et commentaria.
G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi
Atellani, Sant'Arpino, C. De Lellis,
Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco,
I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano,
Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G.
Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno,
Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis,
Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis, Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto
Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di
Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s
rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct
perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo –
echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case,
it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like
solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation.
The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some
virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He
relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS,
HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to
find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or
that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo
is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious
influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his
soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica”
is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to
attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course
there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if
not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a
principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual
problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is
not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for.
It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians
were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic
assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for
the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this! PORTET
primum colituere quid Abri materia: nomen Co quid verbum: deinde
quid eji negatio, quidue effirmatio: atque enuntiatio or oratio.
MISSIS ventofis exor- dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult
proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide funt: differunta;
ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero
habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue
materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum,
fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales
dicuntur, fünt nomen et verbum. Prima
vero et prima-riz pecies sunt affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis
est oratio. Hanc igitur intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet
conflituere}hoc eft definire{quid nome et quid verbum,ve integrales par tes
enuntiationis, verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed
conditione. nam fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de
nomine, deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio,
quidue affirmatio? tanquam primaria enuntationis species atque, tertio
quid/enuntiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum,
ac materia: oratio vero vt genus fubicâi. Multa graci, vt Ammonius,
Philoponus: et latini, vt BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt.
circa feriem verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum
accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie- iedle. ctum,materiam ac
intentionem libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius
intentioneficri obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo
Priorum. Obij- ire Dertrum. ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui
subtiles perhi- bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA
CVM INTENTIONE QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA, vel pro voce articulata
prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet
nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec
secundum, quia liberhic non eit de Secunda põ. voce, sed de
intentione voces. Propter ha enuntia- Confutatie. tionem in mente fubiectum
efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum
fipfi chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali,
vel scripta inquirere attinebit? Pro- enie quid. pter hac quod graece
“ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur,
ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali
quidem ve quod, de vocali vel scripta, vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam
veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum, in re vt in caufi, vt
dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua quia
facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia fimbrias
dilatant, circa vero ardua et occulta voces fummittunt. Tu vero a nobis
contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri poteft. Sunt
quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM NOTE. iEt que
feribuntur, corum que in noce. Et рета луна quemadmodum nec littere
omnibus cadem, fie nee noces cedem. diete scriptura med nico
De nomine, de di verbo, chuntiatione, ac oratione. pertractare propofuit,
ante tamen quam de his prole- Cản de veche quatur, quadam communia
de vocibus, scripturis, ac TI ferime ANIMA PASSIONIBVS intercipit,
fed de caufa intercepti babetsr. ambigunt expofitores. Herminius
necesitatem illus ny- Canfa Hervnd modi intercepti fuifleautumat,
vt propofita rei com- modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na
vtilitatis commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in Rhetoricis
tradit. fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius
interpofitz rei Confa Perply caulam propter veterum difienfus circa
vocum figni- ry• ficationes, inquit. nam veterum quida voces,
formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij SENSVS
fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur Ariftoteles de
nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa
impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit.
Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio. partem ad
quamlibet definita, que difturus eft de no mine et verbo, non impedit. Secundo
hac res eit gravis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina præsentis
voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat. Melius igitur cum
Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve
genus Expofitie cane definiendarum rerum colligat. Tum differentiam
có-, Fa) Secunda ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum
ignificent. Tum differentiam difcretiuam, vidclicet, vt nomen fine vero
et falso, enuntiatio, et ora tio cum vero vel falso. Hac enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus,
scripturis, ac PASSIONIBVS preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO
pertractationem conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque
litteras. Oportet autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem
propterfi-nem.fiquidem neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo
petimus horum quatuor, duo effena- tura lefe habentia, vt res
conceptionesá; duo vero po- Prima Petitio. fitione, vt voces et
littera. Veigitur fcias qua horum Secunde. natura fe habeant, quaue
politione, ponit praceptum Preceptum, ciusinodi, e qua aque omnes cadem
funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent.
Huius precepti prima pars co patet, a natura in cunétis niformis est et fimilis.
Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist,
natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione
habentur. Arguitigi- Syllogi frang lit tur, quecung;
funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe habent. VOCES et scripta SVNT NOTA
VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM, cum. Igitur, voces et
scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce
cuiufmodi funt nomina et verba-fearum quin anima palsionum notz, et que
feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que in voce} Hec vt minor quali
concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid graci fen
tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur quemadmodum nec
littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in verbis gracis non est,
sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur pracepti pars perficua,
videlicet, ep ea que in voce, et que icribuntur, politione fe habent. Aliter
intelligi poteft, vt dicemus. Queritur verbum illud,
Dulintio:2• figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait dixiffe igur,
quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine deé; verbo
per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum. Graeci
omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant, quod
mihi conuenien- Secanda dula tius eft. Quarit secundo
Ammonius cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis
primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus, Tertia dubs quicquid
Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in
voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti,
REsPanpb fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum
funt partes orationis. prolatz eft enim oratio prolata totum quoddam
integrale ex nomine &verbo conftitutum.nomen vero et verbum fcripta
partes ora tionis fcripta, et qí partes funt in toto magis quam contra, totum
in partibus, nam continet totum partes, et no econtra. Idcircoinquitffunt
quide igitur ea, qua funt in voce} hoc eft nomé et verbum, que funt in yo
ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN ANIMA PASSIONVM NOTÆ,
&e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum in scripta oratione
{corum quie Confitatio. funtin voce.} Sed hac expolitio ridenda
eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto, elle
in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis, clt
autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone æquivocaret
de eflein. Nam dum dicit ¿corú qua funti n anima} fumit effein. vna
ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui
volunt esse in capi vt inferius continetur in quo fuo fuperiori. Nam
primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero improprie. Quare
melius effe in, in vtrog; codem modo accipiendum est. Nam nomen et verbum
funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re naturali. erit igitur
lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen et verbum, qua in vo
cebarent, vt in materia et fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ IN ANIMA SVNT,
etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem non
aquiuocaffe verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur Arift.
Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio aurem
affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam LIZIO intelligit.
Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO idem Salstio funt,
alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt intelligédi principium, est
ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species, vt intellectum ipsum
perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam pati faltem perfective
confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum graecum naBorar in
latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam constructionem
(entiunt. Quinto quarunt, mul 2uinte duMk
taefiein voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS
[H. P. Grice on STRESS as non-propositional], et id genus. Dicendum
propositionem LIZIO indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt.
vtrum yt ea, quein vo Sexta duba. ce note funt eorum que in anima,
ita ca que feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic, wleeRGie
et tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in vece, earum que in
ánima PASSIONVM note, quem- admodum qua icibuntur, corum qua in voce. Nam verbum illud sa graecum, quod latine
frequentilsi-mein et convertitur. Interdum
Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve proficut, vel
quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret. Huic obijcit Porphyrius.
Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi oportet. Secundo,
quia in tam breui flore. ordine, tamque brevi oratione non est partitio
intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces, ve voces ad ea,
que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES VARIIS vocibus
cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi proprie &ita secundo
modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat
inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES ET PASSIONES. Voces
igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA, voces quidem
conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt omnibus ezdem, ita
scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, PASSIONVM
NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et scripta conveniunt
in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia. Deinde subfcribit
secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus, fieneg; voces
exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit
autem fin ANIMA} quod graece elt psyche, et non in intellectu, quoniam
intellectus etiam ad diuinum refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non
fufcipit, sed de his in libro nostro de intellectu, et de anima. Ea
ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA
AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt. Tune ad obiedta con-
Defryle fle. tra Alexandrum. Ad primum dicendum illum simplicem sensum esse
potentia et virtute amplum et composituim. Similiter si oratio est brevis,
compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no esse in toto similitudinem,
sed in parte efe potelt, vt Alexander fentit. Quorum tamen be note
primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines,
res iam ecdem. Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes
vius enim bec sunt negocif. Capit LIZIO, vt Alexander dicebat,
ponere Cim.j. differentiam inter ca que positione talia sunt, et ca
que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES et resfint natura tales, declarat. Potest autem
textus esse pra-milla, et por esse simplex narratio. Siquidem pramif- f, syllogifnus
erit, que eadem apud oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit,
est vniformis semper. PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur, natura tales
crunt De syllogilmo accepit minorem est in textu. Si vero est narratio
tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti he nota
primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres iam
eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per naturam.
Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum Herminij
contra Alexandrum imbecille est. Noenim Alexã. vult o apud omnes fint
paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel
par- 2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum
Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes
cadem: 8e ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis,
quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no minum ratione conflat. De
a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem
debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT
or ADDRESSEE], ac- Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam
enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam
conformiter animo proferentis Вкуб Нас.
acciperet. Hermenius aliter sermones LIZIO, intelli Nam VOCES SIGNIFICANT
PASSIONES PRIMO ET SECVNDO RES, PASSIONES autem, tantum Crufidatio. res
decernunt. Sed hoc ftare non potest, primo quod Arittote. dixithac, non
igitur lapide efiet hic repetendum. Secundo verbum illud eadem ad quid
adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com munepafsioni- Dubitais: bus
et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander
vuleno mina SIGNIFICARE PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam
hominis existentem, et eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque
primo duo fignificare non poteft, idcirco LIZIO adijcit ¿primo., Nã ea
nomina, qua in voce sunt, PRIMO PASSIONES Cantre Alex. fones SIGNIFICANT,
SECVNDO vero RES. Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta
ordinem conceptionum. Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur,
PRIVS voce significatur. Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS
CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer
thinks is shaggy] il- Difesie Ale lam non significat. Dici
potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis
PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap- Tradraiale prebélions,
res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem
{primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton
legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum
eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz
leri- buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN
ANIMA qua in anima, ea que in re con- A.D,Th. fiftunt. Licet non
fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES
SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res
hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est
autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem intellectus fine vero falsoque,
aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in
noce. Cirea compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas.
Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit, vt nomina et verba efle
in voce et ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt
communem habeat differentiam illorum, cú quibus et ora- tio et enuntiatio
ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et
per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis
conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero et falfo declarat, vt
vide- licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet,
ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et
enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit
multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in telligatur
littere syllogilmus non eft aliter formandus, nifi veiacet.Ideo inquit. Est
autem quemadmodumin Sylingl/was. th anima aliquotiens quidem
intellectus fine vero et fat- fo, aliquotiens autem cui neceffe eft horum
altcrum in- effe, hoc elt aut verum aut falfum, fic et in voce:hac eft
maior. Addit et ipfam minorem dicens, circa
compofi tionem enim et divisioné intellectuales est veritas atque
falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur
in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa
simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem
habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa et verba ab enútiatione
differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, et fic crunt fine vero et fallo,
enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus et
differentiz nominum et verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma graece,
latine est, tum intellectus, cum conceptus, et gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus
-- vt syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione.
Simplicia vero effe abfq; vero et falso. Hac quo ad
verba. cus fità fimili tín, velà fimili et caufa. Refondet expo
fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef Le non tín à fimili,
fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua
vero in voce effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio
non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla- tenus funt aliquid
vocum,nec corum que in vocenec vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt
fecundo aufcul. shafin tationis
phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et voce et vocum veritate. Nec
vtagens, nam ab co gires eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla,
vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt frequenter di- Selotie
proprie ximus verü et falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce
aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in caula. Vis igitur arguendi non
eit demontratiua, fed dialectica à fimili tantum. Multa adijci pollunt,
que ab expositoribus tum graecis, tum latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina
quidem igitur ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione
intellectui – ut: “homo” vel “album” wwFajd quando non additur aliquid;
nam nondum falum aut стт
eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat aliquid quidem sed
nondum verum aliquid ant falsum, mifi esse aut non esse addatur aut simpliciter,
vel secundum tempus, Hac litera poteft introduci vno modo vt fit
conclu fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan verbo illatiuo
igitur, Alio modo poteit inducis vt fit minor syllogifmi, fub
accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in
intellectu funt cum vero et falso, intellectus line compofitione et diuilione
nec font cum vero nec cum fallo, ex quo voluit habere hanc conclufionem,
in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut falso. modo
addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui, qui elt line
compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces fimplices:
fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa itaque
particula illativa igitur, addita elt vt notaretur conclulionem
contine- ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc
nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum
corum, ali- Sigum, qued falfum, aut verum eft. Rem hane
Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi
aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet
hircoceruus. Tunc dat oppofitum confequentis di. cens: fed nondum
verum aliquid aut falfum: nifi elle aut non efle addatur. et hocaut
fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina et verba
feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo.
Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine
compofito, et non entis, Huius caufe poflunt ef- Prima confa
feplures: vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo. quia nomina ciulmodi
videntur potifsimum falfitaté significare: propter partium
incompofsibilitatem. Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia
ad veritatem fignificandam egere verbo, fed etiam noni Tatia naipfa
compofita. Tertio vutur exemplo in filtis, vt innueret veritarem non
folum reperiri in rebus, fed in Secida duba, his qua funt ab intellectu
folo. Secundo quarunt cur ait compolitionem fignificare cum vero vel falso:
et non significare verum vel falsum . Similiter et nomi-na lignificare fine
vero et fallo, et non ait nomina non Significate ch fignincare
verum aut fallum. Dici potelt e difterunt di fignificare verum, et fignificare
cum vero. Nam hoc nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat
falsum. quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant
cum ve- Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio
quarunt quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie
pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens interdum dicit efle simpliciter
vt fubitantiam, ut cum dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics
elt. Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum
tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et
non effe generatim vt funt note extremorum: que abftrahunt ab his.
Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera ut prateritum ac
futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte
non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft tempus fecundü
quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs differentijs. Aliter
Ammonius, quod verbum porcitaccipidu- pliciter. vno modo abfolute, ve
eft, fuit, vel erit,alio Prepria falatie modo cum aduerbijs
temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter.
Secundo modo dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater.
Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi- 2wste detur enim
nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo,
quia AD PLACITVM SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum
idem q deus elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur
nomen vipote A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis”
8e econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero
vel falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum
voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo,
et confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant.
quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt
concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda
pifio enuntiationes. Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, et ita
negant a. efle propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO
vi-detur, et per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo
fignificant, nili addatur effe vel son efle. Sed hac folutio ftare non
potelt: quia vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in do
priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus, quod videlicet. s. vel.a,
possunt, fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe
enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per
modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio
fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio significandi
complexa, criam et modus debebitur. Propter hec videtur Refepreprie. mihi
elle dicendum nomina et verba quo ad primam corum impositionem non fignificare
nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem,
cum fint AD PLACITVM possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen
erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum
verovel fasfo, igitur est propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in
antecedente g significet ex prima impositione, et non ex nova institutione.
Etper hac verba LIZIO et Alexandri rationes poflunt moderari. DE
NOMINE: Quad fit npe usJrparata Cum interpoluit communia
quedam, e quibus de genus et differétias nominis nancifci pollet, núc de
no mineipfo aggreditur. Sed videtur ordinem cuertif- se, nam
in lbro priorum egit de propofitione antequá deter-determino, modo ita fe
habet nomen ad enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem. Secuido,
do- Etrina debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in
physica traditur auscultatione, igitur prius ab enuntiatione, que est totum,
quam è nomine &e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo
prius quam de enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint
veteres graeci, LIZIO in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis
procesit. Nune vero compofitorie, ideo è partibus. Ad fecundum Esculanus
fingit nomen elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia
precedit formam, ideo è nomine. Sed hoeftare non potest: quoniam materia
non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di
tum eft. Igitur èforma ipsa, et con- Saunde An sequenter è verbo
procedendum esset. Ammonius ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere,
verbum Confilatio. vero accidentis. Modo substantia efo prior
accidente. Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem
accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia
facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft.
Significat enim esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm cum
fit absolutum quoddam: intelligi potelt abíque verbo. Quantum autem ad
verba dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco ergo et rationabiliter
profecto, ve videlicetannotaret definitionem ciulmod ex diuifione proxime
factacol lectam effe. Hac enim est regula definitionum inue-niendarü, vt
Sexto Topicorum traditur. et fecundo po Iteriorum, vt poft dinifionem
fiat partium compofitio. vti conclusio. Qua ratione procefsit hic. Diximus enim
voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent:
voces crunt fignificatiur. Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft.
Dechiratum eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est
fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto],
INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum constet nomina significare EX POSITIONE,
iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine
vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e
quius nulla pars se or- ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant,
per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores
addunt, que, quia patent omittimus. Pater In nomine nim, quod et
equiferus: equas ipse nühil mis se refien ac erple mibel fio
per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus Eficant. e
Jerus. Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata
aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis
particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit Ammonius, minus
videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam in hoc nomine, quod est
equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil fignificat: quemadmodum in
hac oratione: “Eqvvs sft ferus”, aut eqvvs ferus. Quantum ad graeca
verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”, à “calos”, quod latina est
“bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”, ve-equiferus,
BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi BOEZIO (si veda) transulit
“ferus” ipsüm nihil per se significat. Graece legitur “equus”, sed non
refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”: potest
legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum enim vült habere quod pars nominis et si significet
feorfuminon ita significat, sicut quan do crat in oratione. In capit autem
particulam definitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac
particula eft vt caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est
intentione primus, de ctiam cognitione. Verum non quemadmodum in simplicibus
nominibus, fie fe habet etiam incompositis. In illis enim millo modo
Neminir coi + liet part frar pars est significativa, in bis nero
unt quidem, sed mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”,
particula “fervs.” Sed dices igirur nomina simplicia et nomina com- Cảm.
8. posita non differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus
nominibus pars nullo modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam: at in compositis videtur quidem ali hil feorfum significat.
Quantum ad graecam litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius
tamen, vt mihi videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex
quo imposita sunt a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum
aliquid significent. Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici,
partes corum feor-fum nec significant, nec significare videntur. Ex
his poteit syllogilmus fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis
compositi pars significatie- separata: omne nomen aut simplex, aut compositum:
igitur nullius nominis pars significat separata. Minor fupponitur. Prima pars
maioris et secunda declarate funt in textu. Sed querit vtrum alicuius
nominis pars significet separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis
separata fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa- дерест. ta. Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus
nominibus vt “eqvifervs,” de id genus. Omnesad quæstionem et
graeci et latini conveniunt partes nominis comparari posse ad totius compositi
intellectum, aut in ter fe. Primo modo nulla significat separata, nif in
oratione homo est bonus. Seorfum enim illud idem partes ha significant, quod in
oratione tota significabant. Et hoc modo intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs”
et “ferus” forfum aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea
inquit Ammonius, nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt,
sed quatenus tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,” syllabarum
vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs
verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed per
accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis, sed quatenus
scorsvm sunt, transeunt in 'vim non num. At in oratione partes feorfum
idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina funt.
Xamine fint Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus natue
Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni, ue qui
ferarum: quorum tamen nullum eit nomen. Nune tertiam explanat
definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa ex his,
que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam vero, quod finetempore
ex definitione verbideclara- bit. reftat igitur vt tertiam exponat.
Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum
verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura
nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine
etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo
tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed
cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt
diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium
perluadet, de inquit. Significant nanque fua natura et illiterati
font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent
naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8
hae ratio valet, fue fit locus à findliun/ contrario, fiue fit locus è simil,
sive aliter. Animinomme son maduerte quod animalium tom dicuntur “agrammatoi”,
hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A NATVRA SIGNIFICANT. Quia
codem modo est in omnibus animalibus. Habet
enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf. Grice
on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare
propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è
natura. Recte igitur diêtum est ad placitum. Mouent qualtionem ex
Alexandro talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt
nomina, conclufso falsa: et non pro maiori, igitur pro minori. Respondet
Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum
fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est, vz VOX. Forma
autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem ad materiam a
natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad materiam est res naturalis, quo ad
formam est res ab ar-teevtigitur non valet, hgnum est à natura, ianua est
lignum; igitur, ianua est à natura. Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si
nomen est ab insttitutione, de non a natura: tunc SIGNVM aptius in nominis
definitione caderet quam vox. Respondet ipse hoc esse
factum: quia in definitione accidentis in concreto debet poni subicectum loco
generis, et accidens pro differentia. At cum nomen accidens sit voci, ideo di
citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen esset
forma artificialis, tunc esset quid additum voci. Hoc autem falsum
elt. Nam aut erit substantia, aut accidens i non substantia vt patet. si
accidens: non absolutum, ve patet. nec relativvm: quia tunc esset relatio
realis. nam fundamentum reale est ve vox ‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius
nomen videtur absttractum. igitur in definitione debet cadere subiectum in
obliquo. Selatio apris, Videtur igitur mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li
VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He
uttered x thereby intenind to mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS
nullo addito sibi: sed quatenus ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox
est nomen nullo addito. Sed quatenus ab
intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen est. Sed si AD
SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen fet vt BOEZIO
(si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam naturaliter nomen
mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum materiam et
formam sic instituta vel sgnums Tunc ad argumentum Alexandri dicerem ibi
elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal, animal cit
dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar. homo est animal, animal est
genus. Igitur, homo est genus. Variatur enim veforticola
fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit formaliter, in fecunda
materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci. nam LIZIO ait
nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum significatio non est
naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO volunt nomina e natura ipsa esse.
Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre motum. Circa hane
dubitationem quidam, vt Ammonius Pelitiones. Narrat, voluerunt
nomina esse simpliciter de omnino ab institutione: et nullatcnus e
natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus Diodorus. Alay diserunt nomina elle simpliciter A NATVRA, quatenus sunt
rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO haredeus: atque
Heraclitus ephesius. Ammonius voluit nomina ipsa esse naturalia
quantim ad etymologiam . nam omne nomen vult esse impositum è proprietate
repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et petra quasi pedetrita.
Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione sunt, Et ficinter hos duos
confultat. Et si dicitur viam rem naturalem plura nomina habere. Respondet,
quia à diversis proprietatibus nomina diversa nancilcitur. Sed
pacchorum hoc ftarenon potest. Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à
calui, nam omne nomen significaret a proprietate rei, et ficcanis esset
analogum, et non æquivocum casu. Secundo vtin natura
accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens, ita et in
arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum
proprietate. Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi
inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem
numero infinita: necef- fe cit igitur plura eandem orationem et vnum
nomen fignificare. Propter quod mihi videtur elie dicen- Solitie
proprie dum in vniuocis et fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint,
«* quineca nen 2 mologia: licer in multis illa nos lateat. In
aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda)
in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio:
casu ve Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His
favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem
trilque nomen imponcretur. Du- fint in mente, bitant forticole :
vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO
definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft
quod nomen prima et fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius in
mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine et verbo. Igitur in
mente funt nomina& verba. al mio fal cendum apud Boetium in
pradicamentis, capite de fubftantia. in mentenon elle orationem, et per
consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi- natur oratio fiue
enuntiatio graceefologus, latine in- terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt - exologus : hoc
eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi.
Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero
oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec
verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus orationes
fiue enun tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus nomina et verba:
et ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed fignificationes,
quibus Nullum oft no hacfubordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen
prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis.
Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente
eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio- nilubordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet,, fed nel neque Nenfe onbi nomen
pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter
in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus ef- fentnomina. Nam his
competit definitio data. Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione
nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni
date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-
Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt
nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et
hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque
nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum. Hec
perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum
duobus con - uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione
propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque enim eft
oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit il- li
nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi
fingere liceat ambiguum: quia vt dicit, et quod eft, et quod non eit in
oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8 hocinquit. Quoniam
fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. Hircocervvs enim
non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca
verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft infinitum.
Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt apeiron. Ambiguum
quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In mente autem nulla est
vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt, intentionis est
in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio constat ex
nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba. al mio fal cendum
apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de subftantia. in mentenon
elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur
oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc eit:
EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et orationi.
Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR RATIO vero
oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem, nec orationem, nec nomina
nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices. Compotitas quidem
quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices vero quibus
nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque verba – SED
SIGNIFICATIONES, quibus Nullum oft no hac subordinantur. Ad
argumenta in contrarium fecie, fa patet solutio i nellam enim est nomen
prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis.
Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente
eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur.
Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque Nenfe onbi nomen
positum ift, quo ipsum appellare opertet. Nes в finE не que
enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter
in quolibet eft, co co quod +/, c co guod non eft. Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod
tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam
his competit definition data. Respondet LIZIO de excludit duo à ratione
nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus. nominum: et lic definitioni
date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-
Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt
nomina. Secundo quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit,
ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum
elt, quo iplum appellare oporteat. hoc est secundum. Hec perordinem
declarat, et primo quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con
- uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter
particulam negatiuam. ideo probans fecundum inquit. Neque enim est
oratio, seque negatio. Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo
nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat
ambiguum: quia vt dicit, et quod est, et quod non eit in oratione rerum
fine difcrimine vllo significat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in
quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft,
Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet
ambiguum graece est aoriston: quod latine non est infinitum. Nomina cim graeca
fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”. Ambiguum quod
indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad id
quod eft et ad id quod non eft: et per hoc differtà nomine communi i quod
licet fit indifferens, non nisi is que funt fub eo indifferens eft.
Differt tamen aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini
predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa
pradicamentalis fimpliciter, vt didum eft. Echa dubitatio.
Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus orationem
fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta- tionem
fubieti aut predicati fue nominis aut ver- Viram aratio bi, motus
fortalle, quia quod parti contingit inef- valea infni fe, toti quoque
accidit: ve quinto Physicorum hafari. betur, vbi enim capiti crifpitudo
inest, et homini inesse necesse eft. Confatatio, Sed hoc fare
non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed omnis finita.
Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari afferit, nullbi
tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur nullam orationemi
nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro iamblico dico
quod omne quod parti inest ne- Oratienen pir cefle est toti inesse. Non
tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft totum ipsum
denominare: nam albedo dentes denominat athiopis, nequa- quam
athiopem. Dubitant et ad huc forticola: quia videtur nomen ambiguum esse
nomen: quia valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori ad suum superius.
Respondendum non valere: ficut non valct, est
homo mortuus: igitur homo . itemque nec valet, eft albus dentes: igitur
albus. Non enim argui - tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum
quid ad fimpliciter. olioul cafir a nomicie rine Ipsum
nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis
casus. ratio autem cius in alits quidem est cadem, quancuam differunt.
Nam est, aut fuit, aut crit addideris, neque verum
neque falsum est. nomen uero ipsum semper, “Philonis” est, aut
non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam, vt PORTICO, casus esse
nomina, et rectum esse casum concedunt. Rectum quidem casum,
quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua vero nomina, quoniam
voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos
è nominis ratione, et inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA
SVN: sed nominis casus – H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of
meaning – woud agree! -- Addir tamen convenientiam inter casus et nomina, et
differentiam: et inquit, ratio quidem cius, hoc est nominis: qua
pauloante generatim AD-SIGNATA est, in aljs quidem eadem est: quasi
dicat, quod ratio generalis nomini, qua proxime AD-SIGNATA est, vna eit
nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant. nam cum ipsis casibus est, aut
fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum eit, nomini vero ipsi, cum supple
addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis” ipf est, aut non est
cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen igitur et casus nominum
conveniunt in ratione nominis generali, differunt autem et quoniam nomen
addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram aut falsam. Ex his
vult habere Definitie LIZIO, hanc esse nominis definitionem. nomen est
pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD PLACITVM, cuius nulla pars significat separata,
determinata, atque recta: per hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per
hac patet solutio ad rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non
propter hoe dicitur casus. dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id
dicitur casus, qui ab alio cadit per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et
Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc generalem
pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter accepit, facile
declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis cafus faciunt
nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem
generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem, vt
generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius
capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus
nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne
autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver
bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta,
nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse
nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: et ita vule
hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen profertur de
potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, et substantia est ens:
verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis et determinatis
fiue finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia sint,
pratereunda elle diludico. Multa quoque de nominis dittinatione Ammonius
addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de
nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius partium alis qua separata significatina
est, ut dicio: sed non ut affirmatio, uelati “homo” significat quidem aliquid,
non autem quoniam fie, aut non fit: sed crit affirmatio aut negatio fi quicquam
fibi adideris ana vero hominis fllaba mullatenus significat, non enim in hac
dictione “sorex”, “rex” significat sed tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat
aliquid sed ut diximus non pro fc. Сет. Illud, vt diximus, quod principal hic
perquiritur, elt enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et
verbum declarata sunt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero,
vt Ammonius dubitat, non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas
licebatur, dictum est. Anima ducrtendumigitur, gno mini et verbo et ofoni
cóia sunt vox, SIGNIFICARE, ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero
catera particula, vt fine t pe, vel cum tpe, an rete et determinate
fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa
est ve dictio, nois vero de verbi non nili per accis, vt diximus, in definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo
ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit
ait illa duo vt q fit vos et fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit
cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam:
qua differt è nomine et verbo. Prime
dubs. Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin- An oratio
fit gulis. Et primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó:
ofo Refonio fer non est una vox sigitur non est vox. Antecedens
arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio
non est una vox. Rident forticula concedédo e oratio elt multa uoces, de
ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una sola uox, quem admodum
plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac vox est una sola
vox, et illa vox est una sola vox. Igitur
hac vox, et illa vox sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces.
Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam
solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li plures voces sunt
una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset plures voces.
Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola vox;
igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola
Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem fuam 9 pradicatum illius
propositionis, plures voces sunt vna sola vox, confunditur propter vim
copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur. n. plares lie, et
illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negant
conversionem, quia variatur suppofitio. In prima illa particula “vox” supponit
confufe; in secunda determinate. Et si dicatur quomodo convertitur, quare ipsos,
quia est extra propositum. Ad fedam dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt,
qí nec illa nec hae. cum quo ti flatg plures voces fint vna sola vox, qí in
hac, iste terminus “vox” stat confusetín, in illa determinate aut diferete: pP
quod ha non contradicunt plures voces sunt vna fola vox, et plures voces nulla
vna sola vox sunt, cum termini non codem modo supponant. Quanquam hac
fint acute dicta, et non possantim probari, fcasno esse LIZIO di (ta, nec
necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem amittunt philosophiam,
et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO igitur dicerent op
oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures voces simplices, na
vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui
dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium
aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua
signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In
graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad
nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio
expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie
dubi. Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit
definitum, cui non competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes
cius significant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam
orationem simplicem, co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam
Alpafium confentire ferüt. Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si
veda): on definitum non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum
oratio sit communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse
communis. Sed hac rônon cogit: dicerent. n. gy licetortio quatenus oratio
sit cois simplici et composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi
simplici perle, quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif
contradico eis: quia LIZIO poftea diuidet oionem in enuntiativa, et non enuntiativa,
et enuntiati uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi
iam ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic
definitam. Secundo oño comper sinato tit vniuoca, simplici, et composita:
igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit
llamsigi turefiet mancus. Alex, vero et Ammonius refpondét
Refienfie.s. p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt
oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic
opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non
vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita
male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij foluunt o dietum philofophi
debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, et no necellario ut affirmatio,
et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre dixerim o LIZIO
dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non
ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát
Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio et non ut aftirmatio, fatis
chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio elt afirmatio.
Repondent quidamiquia LIZIO folitus est nonnunquam dictionem pro
affirmatione accipere: ne igitur ufus impediat, fuppleuit et non ut aftirmatio:
et SIGNANTER ait, et non ur affirmatio, quia negatio addit ad affirmationem,
propterca fi non ut affirmatio fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac
refponlio fic dia, f el alicuius expolitoris graeci, tacco, gán ipli
yerbaverba LIZIO melius intelligút, et verecundú est pugnare contra graecos de
verbis gracis. Hoeti non tace- botg vbig; LIZIO di diftione vocat -
gracce phafim vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me
legitie, no ti nego cataphalim compon ex ca- Nie apria ta et phalis. Ideo
dico et fuppleuit nó vt aftirmatio, ad DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi
posse significare vt af-firmatio: sed LIZIO, vult no licintelligere led
quatenus habent vim dictionis. Hoc.
n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius partes funt affirmationes: sed
non vr affirmationes: sed vt dictiones significant. Viti mo
quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum orationi perfetta? Ridito
foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú:
totum aût et perfectú ide: et cú oratio hie definiatur in relatione ad partes,
videf rationabiliterhie dehnin vt perfecta. Sed contra obijcit BOEZIO
primo: quia omne comositü haber partes, cum aúttam pertecta g impertecta
habeat partes:rationabiliter qualibet crit totú et perfecti. Secundo
tune partes orationis et cu iufg compositi no essent partes nifi in sine
compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur effe copofitú. Mihi
videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter
forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut forma aut materia, aliter
effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes
dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel
verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec eit compositum
nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico, partés non sunt partes
nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in potétia mlngitur
intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum verbo. nô erit adtu totü:
et ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod deducit, Melius igit cótra
illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic definitam fubdiuidit perfectam et
imperfecta: qui rem incogrue egillet, nifi Definitio ena» vtrig;
hãc definitioné elle coem voluiflet. Colligeigi innis abfoluta tur
definitioné oratio vero est VOX SIGNIFICATIVA, cuius partiú aliqua
fignificativa eft feparata: vt di tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione
simplici, non compolita, aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse
dupliciters aur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce
composita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars
co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De
primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut
non est, sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc eit
verbu solu. Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde
declarat secunda, et inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod
probat p exemplú et locú à maiori: et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex”
significat, sed tín vox eit sola, no habens vim significan- Cotra, tu
dices: quia in compositis ve in “hircoceru” sgnificat pars. Ridet in compostis
noibus significat aliquid ipsa pars feorium, sed, vt diximus, non pro se ad
intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec significat
vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio igitur eft vox significativa cuius
partiú propin quarú aliqua est significativa separata per se quidem vt dictio,
non autem semper vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non tamen ut
inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin institutionem.
Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO inferibi Cámag. tur, ofoné
esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum virtutis
interptativa naturaliter nobis ine- xiltétis. Per ipsam.n. SIGNIFICAMVS –
“We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu Pitevais, per instrumentum.
omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft natura: veluti virtutis viGuz
oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA, SED NON INSTITUTIONE
est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et consentit maiori. negat
tá minore.nam virtutis interpreta tiug primü inftrumentú et proprium est
pulmo, guttur, dentes, lingua, et id genus: qua NATVRALIA sunt. ofo vero
est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis et ita minor falsa est.
Inquit. Eft aút ofo ois significati- ua quidé, non tamen ve instrumentú, sed
quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA minor falsa est.
Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult BOEZIO (si veda) esse
pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam
ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat no ve instrumentum.
hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen, hoc eft Pm
inititutione, Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO organon
no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius et Alex.aiunt)
LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio LIZIO non videtur
tuta. ACADEMIA n.quidam Hermippus et Numenius obijciút.na idem videtur de
effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis per in oratio ipfa natura
crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui eft virtus naturalis. nam
intelleêtus ora tionefignificat, syllogismo, qui ofo elt,
ratiocinatur: definitione, que rurfus oratio eft, definir.Sed
vefupra. omne virtutis naturalis in trumenté eft natura. igitur oro
natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit o
quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã)
ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt, modificationes
vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones natura sunt,
quatenus tales voces institutione formanf. Tuncad rationépri
mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus virtutis naturalis per
instrumenta naturalia ve tripudia et esse institutione. Ad secundum ait
Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus est:
sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet virtutis SVPRA NATVRAM esse
eflectú institutione. Sedhzcre- fponfio ftare non pot: quia faltem
intellectus est virtus naturalis: distinguendo NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur
effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur contra Artem. Propterea
dicendum o artificialium principivm imsoltio peria mediarú eil VOLVNTAS. He enim est immediata causa institutionum
et propterea gg concurrant intellectus et naturalia intrumenta virtutis
interpretatiuz, quia tamen ola subiacent VOLVNTATI, ideo inslitutione sunt
ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet forte hoc voluerit
balbutiri. Alexander aphrodifius R5 Ales. enititur probare
orationem esse institutione: quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum
institutione oft, sed orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt:
igie tota oratio. Hac ratio pace sua petere videtur, quia Plato et Socra in lib. CRATILO volvere etiam nomina et verba NATVRALITER
SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et verbo: qn ipsa sint
effectus virtu Ri melier. tis NATVRALIS instrumenta
naturalia. Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt
diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed
orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON
NATVRA, sed Dubitationes institutione sunt: et hac est sua mel
forratio. Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT
ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi
causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD
SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda
dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat,
vt hc oratio, “homo eit animal” -- dato prina rideat non nulli recentiorum
g nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM
NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat
alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút
Confutatis. alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia
ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed
nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit
nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur.
Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit
eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum nomen: Selatio pra quod
nemo dixit. Ideo dicendum, ey nullatenus varia-pris tur nomen: licet
varietur significatio cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici
variatum extrinicce, qué-ad modum colúna sit dextra vel finiitra ipso animali
va riato. nec valet: significatio formalis variatur, igif nomen, quia illa est
fibi extrinseca, sicut colúna dextreitas. Ad rationem dico e variata forma
artificialis in. trinfece variatur res artificialis: modo non sic est in
nominibus. Ad secundam midentidem o oratio de novo imposita, significandum non
complexum, vim habet dictionis. Hoc absolute dictum est falsum – QVIA VOLO
“HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et facio hanc propositionem: “Homo est
bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat ve dictio, igif tota non significar
ve di Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur
partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea dico quod
oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o dupliciter. Vno
modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet significatio
totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio modo ponendo q
oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de partibus afteredo,
hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione nova partium.
Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio non
resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet partes
lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit tín, de
hac re supra disputatum eit. Everationibus Enuntiativa vero non
omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti
deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur
relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa
vero presentis contemplationis ed. Divisio enuntiationis, vt BOEZIO est
autor, hac ra- Cim ao. tione sit fumpta oratione pro genere, ofonum
alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,” Alia vero pfecta - perfeita
vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv, alia non enuntiativa
qua e; diuisio, ideo p alterum membrum negativum dat, oi subdividentibus
mêbris genus cõe nomen non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve
adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia
interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt
o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa Faree
mane vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie. {pecies expofitor reducit adtres. on illa
quinqueor- dinata lunt ve vnus ex intellectu alterius dirigaf:quod quidem
in tribus sit modis. Primo adattédendü men te, et ad hoc oratio
deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum voce, et ad hoc facit interrogativa.
Tertio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex prefsionem
defiderij, et ad hoc facit optativa, vel refpa Etu superioris, et ad hoc
facit depcativa: autrelpediu inferioris, et ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré,
qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq;
mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit,
enunciativa definit: intentioné ad spēm altringit. Dividés ofonem ait.
enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia
non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit. sed illa in qua verum
vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve
vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris.
Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet
vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed
neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas
aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de
cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná
ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio
attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est,
qua {pés est ofonis potionhuius vero species sunt affirmatio et
negatio. Hac igitur sunt que LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum
vero ad verba graeca attinet verum vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in
intellectu, atque: rebus. Inre film, bus quidem vt in causa, gn ab eo quod
res eft vel non est enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu
vero, quia intellectus subie tú oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto.
In ENUNTIATIONE VERO IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis
emer gút dubitationes. Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per
verum vel falsum: qi verum vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé
propria non erit bona definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas
spés definisset. Secunda cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n.
est (cia cois, igit de oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori,
et in lib. polteriori. git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad primá rádet
Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia lunt fines
clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel dici pot, g sunt ve
propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet, etiam si sint
differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest, vt
dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus vnivocum.
Ad secundam ridet Theophraltus philosophus o omnis oratio aut instituta
ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut res ipsas. si ad auscultationes
ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque poetam, vt ACCADEMIA ofidit in
phedro. et Socrates plilebo. Si vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est
ad librum posteriorú et ad feiam: et ita crit propria huic considerationi. Ad
tertiá dici pot, enuntiatio differta propositionesm propolitio ordinatur
ad syllogismus, et quatenus ordinaé ad syliogismum dicitur propositio, qua si
ordinaf ad demonsirationem, ca. sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio
absolute. Enuntiatio vero dicit quatenus subordinat
intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et ita diffèrunt
quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio extra et
intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et problema:
problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá; dici põt
qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur
in libro priorum et pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones,
tonat, corufcat, lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere,
ego lego, ego Augustinus scribo, et dicere lego,icnbo. Ad primam rident
non nulli forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes:
benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna
pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins
dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio at de
ois ofo est penitus in voce vel scripto et c ita ciusmodi esse non possint
orones vel enttiatio- Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã ciufmodi
funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur
enuntiationes.Hac.n.fuit LIZIO definitio. Neccon- perfe pres tra cos
alter arguo: sünt. n.hac defe derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt
enuntiationes, qui verba sunt subiectum et predicatum et copula, in ilta
distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi prima vel secunda: pfone
verbi, qua sua natura illá importat. Est pradica- qua sunt pronomina et
prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi
causa cum dicit ego Augustinus Scribo, denotatur qua -- ut solus scribo, aut nullus ita bene
scribit. Et tunc iuxta hanc re bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda,
non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi
ego solus curreré: consequens vero falsums sit deus ego sum qui sumqi
alia a deo vel non sunt, vel nonita bene. Bene tamen concedent hasfum,
es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in pueriles fabulas. Hac.
n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his volunt effe
intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua cnuntia-tio pfeêta, et
non cum subieto. Si vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus
pót explicare voce om ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum:
vel tu es,” igitur “es” æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo,
tunc hec esset nugatoria tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca
vide mihi lilliulmo-di ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua
ad vium thetoricum atque: ornatum. quo. n. Ad veritatem idem est
dicere “tu es,” et es, “ego scribo,” et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina
ipsà prima et secunda persona nónung emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne
incapto desistere viêta? fub illo pronomine, “me,” intellexit reginam deorum,
et fororé, et Iovis coniugem. Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius
pietate erga te catenis satisfacio. sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui
cum Ientulo familiarissime vixit, et qui tot beneficia ab eo acceperat
intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi ad amplitudinem licet quoad
propositionum veritatem, quam logicus considerat, nulla sit differentia –
cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a CONVERSATIONAL RHETORIC – not a
conversational DIALETTICA. Et hoc modo intelligendum est
illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una prima oratio enuntiativa,
affirmatio, dea Enuncidiona inceps negatio: cater e ucro omnes
coniuncione sunt und. aliu est voafim alie con. Necesse et autem
omnem orationem enuntiativam esse ex alia vere cum verbo, dut casu
verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”, aut “fuit”, aut “erit,” aut
tale aliquid adyciatur nequag oras per afpr. tio crantistina si
Qgaobren an quoddam se or nonmul ta “animal, resibile, bipes”? Neque enim
quis propinque di» Pie: Mete. C- Mar. cuntur: una crit.
Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores et graeci et
latini, g› definitá Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et volút gi LIZIO
brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est o enuntiationum
quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor eo approbarge
etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut continuum, alteri
colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt expositor ait subdivisio
est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores volunt divisiones
esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam hypothetica sive
CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia negativa. Mouct BOEZIO
dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit posterior
negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit orationem: vt secunda sit
que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit in tres. Prima verum divisio
enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior divisione p affirmationem et
negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione. Tertia vtrvm simplex sit
prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo accepcrút recétiores: g
prima divisio. ciatie in visena enuntiationis sit per cathegoricam sive
vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM sive coniunctione
vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio est per vnvm
et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter. Alia vero divisio
est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum dixerim hoc stare
non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione vna est
affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio alerius
uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant recentiores
qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica sive
CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am
mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili duobus modis s aut condicionalem,
aut disiunctivam qua ét species conditionalis est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica
condicionalis est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones enuntiationis
aquales conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n. ens dividitur per vú et multa:
8e per adiú Se potentia et id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa.
Similr o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex aut
coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita
equales sunt divisiones euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac
diviso p vnam et coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et
hypothetica sive CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút: cathegoricum
opponi hypothetico: sed coniunctione vni. Eit aut coniunctio non vno ma:
sed interdi copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n. sunt
coniunctione vnz, pn sol exoritur, diescit: quia coniunguntur coninctione
tpis He hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt
hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens, dicit catera vero oes
coniunctione fune vna: et non di- ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am
sepondet Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior Additie
expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit
particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit
prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem
intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione,
cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat
esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na- esfuttio addi turali
prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono
placet Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non
cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo
ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de
noie. Lacetilla dicatur divisio reri. Secunda vero minime sgi PRIVATIO naturatr pracedic habitü, vt de in
Predacamentis Prius. nicatulus cocus elta viders, et ita fatis
citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO
gi enúcia- enantiatie fie tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta
pon sit vna nili pofitióne et quali ab extrinieco. Sed quod elbra-turale
prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé tiationis limpiscis
voitas eltà natura, etiá ipla crita na tura.eadem.n.ratio.eft
entis,&evnius:proponitionis& voius: ve di in elenchis. Sed
Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio
contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex
enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit
priortim plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim
Litera exp. plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio
enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps
negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens
aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge- Duli Mexi,
nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per
affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio
Ammonij: Scle tran vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente
super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander
qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet
generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt ordo. Refpondet
Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione
facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter- tin: vt poread
coc genus nullus est ordogi aqualter funt orones veri vel falli
participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare,
Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium
volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos
deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione
vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici.
Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda Deinde vt Ammonius et
BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et
negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de
illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t
pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum,
ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel
maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed
dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO,
vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse
pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire
tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line
verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione
nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum
nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius
enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est
verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac
eit Exp5 propria. vna exposítio,
qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic
enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois
enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis
non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio
eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus
enuntiationibus constat. Veluti hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus
conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam
fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua esse ex verbo, aut casu
verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus.
Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA
(ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas.
Sedo, quia interpositio fuif- fetnimis casualis et nopetinens. Tacuic aut
nomen: dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo maxime
ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut “fui”,
auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié ois
enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt, et
qualtio de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit
tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di cebant enim quiddam, ep
definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit. quamobre vnum fit et
non multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem falsam: et
inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad excusationem,
quali dicés, quare Natabile. vnvm sit definitio erit alterius hoc
tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius ad
vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes
longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc
elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad septimum et octavum
meta. Etlicet de vnitate definitionis LIZIO. Dubitatio. Rifie
T bre. tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que
eit causa vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione,
e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium
proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset
vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo,
quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto,
vel faltéca, qua effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima
elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia,
aliquid loco forma. et cum inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt
definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in,
g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus
inducitur ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem
afine. Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio
crit vna. Et sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei
eilentia, que cum refultet ex vitima diffe- rentia sive vitima forma, que
cil vtmusaCtus, ficbe- Dubitatin The ne Ammonius ait. Sed le res
non est hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia
videtur a definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO
hic autem vult non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere
enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc vero Philoponi expositione
afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et
enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia
vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit. Elait una ORATIO ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut
es que coniunione est uns. Plures vero esse que plu a co non un significat. Aut
ee que sine coniuntione sunt. Cim. as. Expositores fere ois volunt LIZIO
divisionem pre-politam nunc exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest
Addit-n, mónulla mébra que non pdiuilit Primarupt. Confutatin,
Ideo LIZIO divisione enuntiationis rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit.
Enuntiationú, alia est vna. Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa
vero Fm quid vr dicemus. Plures
rurfus biari: en quide plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures,
ga line coniunctione multe sunt. Huius secunda divisionis prima
pars prima parti prima divilionis ad- Prime duba. versat. Secunda
vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút que diviso sit
hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve i
hodiniderdt in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio,
plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my
coffee”). Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et
vnam fm qd: quid g; p plures imptir: Secunda dabi. et plures fm quid. Ad hac BOEZIO et Ammo cocorditer
rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú Referacãs.
tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex his fiunt lex coniugationes:
quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles: vt figura
declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles, o due
impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof Impossibilis
Polis Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt
vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero
quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.”
“Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia
colutione vna. Plures etia bifaria funt: plures composita contra primum membrum,
vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef.
sunt. n. plures et composite fm voces. Plures vero simplices – ut: “Canis
latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex. Simil
mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE. Multin. fuere Aiaces. Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic obiicit expositor.
Frimo, quia p defunitione: qua interponit vi distinguere inter
oratione, 9 significat vni, et gelt voa coniunctione. Secuco, quia supra
dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile BIPES: quod vero est coniunctione
vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm ex multis. Sed ifterones frivole sunt.
Prima qdem, ga non difigit inter vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice,
g tubintellexit in primo membro, et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud accipif vaitas enuntiationis
et definitionis hic et ibi. Qía hic
fumit vnitas a significatum multitudo etia. Ibi aliter vdisimus. Terio
dubitantois – “Homo vel equus currit” -- est vna fimplex, aut vna composita.
Similt Plato athenielslapiés academic est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex,
vel vna composita. Silr ois – “Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato
disputant” sunt ne vna simplices ? an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO,
Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g glibet harum est vna simplex. Nã
verbum elt vnu, a quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna de subiecto
disiuncto, iccúda una de subiecto composito. Tertia vna de SUBIECTO
CONDICIONATO. Quarta vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum
vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio
est vna simplex, de plures plures qua fignificane plura, et non
vnum. Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes
plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim resolvi hac in plures, sed quia continent sub
aiali, sunt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut
dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc esse di tú ad differentia
enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut pro pradicato. Na videntur
multa significare: sed in re vera vnum significant. Esenciatio fi Nomen quidem igitur aut verbum didio sit
solum. Cum non contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut
cauntier: fue INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur
o LIZIO inferat ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione
excludat, vé per Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis,
quia dictum et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut
verbum vaú significat. Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum.
Solvit de volt ‹pis, qui profert nomen aut verbum vnum, vum dicit, et is etiam
qui protert enuntiationem vna, vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens
nomen vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui
enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut
remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio
fitlo- cu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat sic dicat
vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue
interrogante aliquo, fue non inter- rogante aliquo,g qui aliquid nomine
aut verbo fignificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogante, vt fiquis
petat quis hodie venenum bibit, et refpon deatur Socrates. Patet e is qui dixit
Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla
pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed protulit
ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT
viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At
nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione.
Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di.
cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc est vt enuntict
in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve
in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero
hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que Tutto imples, aliquid de
aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca
oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas
enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere
per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod non
conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla.
Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca,
que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve
affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est
timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius
ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus
negationibus, ved ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum
fabdit, et cinquiti veluti es oratio
quizdam, qua fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE
pugnavit et ULISSE fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est
crudelis: et Socrates non est avarus.” Aut ex vna affirmatione,
8e altera negatione, vt: “PLATONE eit in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in
academia.” Et ita per exempla paret divilso et membra divisionis. Est autem
simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT aliquid Iniciato quid «/Je de
aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur. Alexander
aphrodifius exponit LIZIO nunc Cin 35- definire simplicem
enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento, enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum
quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO
enuntiationem definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic
propositionem descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa
alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem
describere debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO
definiens affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt
differentia migitur vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et
per consequens non definiendum per species. Porphyrius philosophus cum
Alexandro volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species
dehnifle, sed per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle
non sunt pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed
obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species.
Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est
affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in
definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO
Espibe. lemfimul dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt
intelligenti pateti& longis verbis exponit. Sed hoc expositor
refellit, quia si enuntiatio simul definiretur et divideretur, cum mon videatur
definiri nifiatt per species, aut per virtutes specierum, necessario cum dicere
oportebit vel vt Alexander, vel vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit,
&enos quod; sentimus, videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in
duas differentias dividit, vt inde definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft
autem simplex enunrtiatio, lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de
aliquo, quod ad affirmationem atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de
aliquo, quod ad negatione nde ne intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit
modo quo tempora distinguuntur, quasi dicat; etiam in aljs verbi temporibus.
Hac vero divisio vt expositor sentit non est enuntiationis in species, sed
in differentiaa specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel
negatio, sed VOX SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia
affirmationis specifica, vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica
negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum
descriptiones. Hac est optima expositio. Verum illa Alexandri non est
de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum voluisse enuntiationem,
non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi analogia genus dicitur
analogum speciebus Septimo physica auscultationis. Hac
enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat. Viterius
animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic in
pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a posteriori.
Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita per species
acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que rebus conveniunt, et
e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST QUA SIGNIFICAT
ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis accipitur.
SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta Et hac elt
mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum contra
Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed ait esse
analogum etiam. Per hac patetrefponfio ad illud contra Porphyriú.
Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no quidé in
definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori. Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt
notat illud genus vox et dividit ve notat differentia accepta à virtutibus,
hoc De bypatbetis est propriis specierum. Credunt
forticola LIZIO- củ. lem per simplice intelligere categoricam, et
per com Prima pofiria. ciatio sit cathegorica, vel bye que
in, gua a pluril categorias confans con.- etetica. sunctione vna eit:
de quonia plures categorica, possunt coniungi pluribus modis, {queda enim per
nota causa, vt quia Socrates bibit venenum, fuit fortis: Aliz moritur,
fepelitur. Et possunt etiam coniung: plures categorica innumeris fere modis;
Ideo hypothetice secundum iltos funt fera innumera. Quare ois enuntiatio, qua
expliribus conflatenutiationibus el hypothetica. Et sic inductio, exemplum, et
enthymema: atgi syllogilmus: et caetera id genus cum sint enuntiationes coniunte
per notam illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun thypotheticarum, fex species
sive modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia põ.
causalé, temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt TRES esse
species vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et
SUB-ORDINANS: conditionalem: (si p, q). Nam cateras ad has reduci
contendút. Theophrastus vero et Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem
et nullá alia nisi conditionalem. Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum
vbi air CONDICIONALES PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO
– suppositiva -- vocant. Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM
ENUNTIATIONE fortiri speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive
SUPPOSITIO. R urfus LIZIO in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus
costitui syllogismos hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS.
CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua
vocat. Velifol exoritur: dies est super nos. Altera
est: qua disontinua nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua
CONDICIONALIS discontinua appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur
te non esse, cumitag; nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes
difun Al formi que Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês
om Riends, nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica
6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive
CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona:
De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie
enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma,
que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes
qualitate partium: tunc sunt quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS
AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis
–vt: “SI non est animal, non est homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda
negativa – vt: “SI dies est, nox non est.” Quarta ex prima negativa et secunda
afirmatiua -- vt: “SI dies non est, nox est pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/
{Ouonihac nota si potest trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere
homeri, suderé: Aut permissiva, vofiad me veneris, mille basia dabot aut
illative – vt: “SI dies est, sol lucet harum trium tertia est in viu graecorum:
et proprie CONDICIONALIS continua. Consequenter quaramus
penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS continua. Respondent
recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS: quoniam e forma
qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea dicitur negativa,
cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa, cuius CONDICIONIS nota
affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua: non SI dies est,
sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus,
dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS
nota negatur. BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu. affirmatione vel
negatione naciscitur ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse
negativus etiam si solum consequens negatur. Hac enim est negativa.
ficit. a. non el. s. Hac affirmativa. f nonel. A. c. s. Hac positio persuaderi
pot, qín vis tota hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim
nihil po nit inesse, sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi vis
illationis habetur. Sed dices quales crunt ha, non SI DIES EST, sol est or
tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur mihi ep etia Dulltitie.
ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur
supra consequente ipso. Et pro tanto sunt negative pro quanto consequens
negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS nota negatur, sed quia consequens negatur
lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO potest CONDICIONALIS esse negativa
trifariam, aut per CONDICIONIS negationem, aut per negationis prepositione: aut
per negationem consequentis. Et de quantitate agamus Sorticola tenent CONDICIONALE
continua nullius esse quantitatis, gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo
illa non est ex subiecto et pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter
teneri potest omnem CONDICIONALEM continuam esse quanta Ex hoc a
quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum hos vniversales, hos
particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum CONDICIONALIS continua
sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis quantitate. E tita hac
vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa particularis simili ratione.
Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit. ois homo mo- roes
feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem effe
veram, cuius an tecedens et confequens funt imposibilia: aliquã effe fallam,
cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem diuidi
per verum et falfum. Pro hac politione arguút recétiores,
cotradictoria diuidunt omnem enuntiatione fm verum et falium. vt
dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua habet contraditorium quia
poteft negari et affirmari Igitur est vera vel falsa. Secundo cuiufli-bet
côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla. Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI
dies est, sol lucet. Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur,
equitur conditionalem esse veram ve lfalsam c Confitatio. Sed hac
positio stare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit
vel no eit, oratio dicitur vera aut falsa. Sed
hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse. Igitur non poteft dici vera
vel falsa. Propria ph. Propter hac videtur mihi faluo meliori
iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel falsa, sed bene necessaria
vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius necessariam aut
contingente, sive impossibilem. Et hac est intentio Boeuj vbigi-
Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto riu in hypotheticis non
cadem ratione accipit veluti in Simplicibus, na in simphcibus deltruit
veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in
re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem
illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g›
contraditoria dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria
aut impossibile. Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim
de necesitate alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in
hypotheticis vero alterum necessarium, alterum impoisibile, vel
cotingens, hoc est non necessarium. Et de conditionali discontinua
agamus, quag; disjuntiva dicif. Et primo dicamus o qualibet pars disiunctiva
potesse consequens, ve dicédo: “Tu es, vel tu non es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis
notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc ve notetur nihil poni inesse, nec
in prima nec in secunda [but cf. Grice on the metier of ‘or’ as providing pis
aller answer to a scenario where alternates are equally topically apt and held
to be liable to being truth.] Dico igitur o quelibet potest
esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot habere consequens
altera indifferenter, quia SI non movetur De fimuis quiescit; et SI non
quiescit, mouetur. Tunc dicendum e disiunctiva solum est negativa vel
affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid reneatur pro consequente,
intelligetur negatum, quod non est De quantite, ita in ipsa conditionali
continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua
particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem
quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie consequens, vigitur tenuetur
quantitas consequentis, Dabitatis. oportet ambas esse ciulde
rationis Sed dies velom. ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est
ista. Dici potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius quantitatis
est ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est disiunctiva vniversalis,
de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt. Pontenim vna
met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione, videlicet, disiunctiva
vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De sariste. De veritate
vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali continua. Cum.n. disiunctiva
sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat inesse, in re nulla erit vera,
8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut necessaria AVT impossibilis, sive
possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs negatiavrum dicamus. Et
quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e negatio praposita toti
coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit æquipollere copulative
coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis verbi causa, si
homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si homo cit animal
est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal. Similiter hac, non si
dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol non lucet. Huius
causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit, quare cum
particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum neget consequens,
vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil ratione: “non vel
mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex oppositis ambarum
cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit. Causa
vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit
copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium
ambarum partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo
cuiuslibet partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens
determinatem ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad
mentem grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus.
Sorticola vero, cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita
dicunt in confusione veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit
felicitas, neqad falicitaté praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis
grure gula funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si
ocium dabitur, ad importunitates forticola- rumatg: captiunculatorum
interdum occurremus: ac quid peripatetice ficientiendun circa corum
captine culas et cauillos exponemus. Nunc vero de his lit di
Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus,
animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus
agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious
about dialectis?– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”,
Grice, “Dreaming” – Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Nigidio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano.
Friend of Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is
on the wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare,
and Cesare sends him into exile. He is particularly interested in
Pythagoreanism and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises
in the mystical side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma –
Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio
Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo
consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella
guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo
vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama
notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei
romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di
cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di
Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come
Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di
Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita
al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che
permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di
fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su
filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane,
etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale
dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al
padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il
mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii
grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una
monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un
tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera
simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche.
E dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e
astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale
etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia
l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni. Uno
scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri. Si cita di lui
il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De
hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che
sembra fosse un’opera di geografia astrologica. La "Sphaera" di
lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera
graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una
"sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri
popoli. Probabilmente conteneva predizioni astrologiche. Le tendenze
mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in
tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo.
Nigidio
Luigi Speranza --
Grice e Ninone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua
causa -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the
leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He claims that the
Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to have a
knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However,
according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his essay
is ‘a work of pure invention.’
Luigi Speranza --
Grice e Nisio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia
molisena -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bojano). Filosofo italiano. Samnium, Bojano,
Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.
Luigi Speranza --
Grice e Nizolio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale –
la scuola di Brescello -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Brescello). Filosofo
italiano. Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and
it’s like reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico
Observationes in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia,
Facciolati, e il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica
con MAIORAGIO per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata
con la Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude
con i De veris principiis et vera ratione philosophandi contra
pseudo-philosophos, Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono
Leibniz al punto che questi li fa ristampare premettendogli il titolo
Anti-barbarus Philosophicus, sive philosophia scholasticorum impugnata, con una
prefazione ed una lettera a Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti,
Roma, Bocca. E chiamato da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle
critiche di Ramo alla logica dei lizii, anche per lui occorre sostituire
all'astrattezza di quella logica un pensiero che sia concretamente legato al
reale, e a questo scopo la strada maestra sta nel ritrovare i processi del
pensiero direttamente nella struttura grammaticale dell’italiano. Individua
cinque principi per fare della buona filosofia. Il primo principio generale
della verità e della buona filosofia consiste nella conoscenza della lingua
romana, in cui sono espressi quei saggi filosofici. Il secondo principio è la
conoscenza di quei precetti che si trovano nella grammatica e nella retorica di
CICERONE, sostituendo la grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o
filosofia speculativa, dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di
ricercare il vero, senza occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente
delle cose trattate. Il terzo principio consiste nell’interpretare il filosofo
antico come CATONE IL CENSORE, o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di
comprendere il modo con il quale il popolo romano si esprime, essendoci verità
in quella schiettezza – Grice: ‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto
principio generale del vero è il libero, e la vera licenza delle opinioni e del
giudizio su qualunque argomento, in contro ogni domma, come richiede il vero e
il naturale. Non devono essere dunque CICERONE o ANTONINO nostril
maestri, ma i cinque sensi, l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e
l'esperienza delle cose. Il quinto principio afferma che, oltre a esporre
ogni tesi con la chiarezza della lingua comune – l’italiano volgare, senza
introdurre nel discorso oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous
[sic], avoid unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare
problemi che non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di
oggettività sono la idea platonica e la tesi del reale dell’universalie.
Infatti, il reale è costituito soltanto da singoli individui e questi devono
essere indagati non attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso
la loro comune e continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia
togliendo da una singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso
fosse reale, ma comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale.
L'universale è una vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione
di ogni singolare di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza
astrazione intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che
comprende il singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con
un'operazione dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai
passare dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire
alla dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in
rilievo i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica
efficace e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la
retorica; Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano,
Bocca N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et
industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem
libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE
consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico
degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e
filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni,
Rossi, La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del
De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano,
Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana;
Calogero, Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I
got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;”
while Urmson liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I
did not care for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the
first letter of the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the
third tome – heavy as they are, and reprinted in London for use at public
schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal
with the longitudinal unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my
friend but a better friend is truth,’ I can’t believe it coming from one who
dedicated his life to TRACE every little ‘idiom’ (slogans as the London edition
has it) uttered by Cicero! While I would expect praise against the barbarian
scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical coming from Leibniz. By
N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The scholastics actually saved
the books from the flames of the Longobards and the Eastern Goths (earlier on)
Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et
convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div. Certahant, Urbem Romam Uemamne
vocdrent, Post led. in Sen. Roma arx omnium terrarum. De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu
constituta. de Onu. Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum
imperii et gloris. Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul
sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et postea
privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum
autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate
libertas, tam infinita hominum centia. Redu
Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam
conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter
ctiteras gentes laudis et gloriæ avidi. Romani cives facti siculi
lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani serius quam
GffKci poeticam acceperant Di. Romaia nihU in bello sineextis agebant
nihU d<»B& sine auspiciis. Off. Romani toscoianos, equos, volscos,
sabinos, Hemicos, victoria parta non modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem
acceperant Pro Mur. Romani tempora voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc.
Tus. Romani omnia aut invenerant per se sapientius, quam Greciaut accepta ab
illis fcicerant meliora. Div. Romani omnibut rebus agendis, quod bonnm,
faustum, felix, fortunamque esset prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere
solebant, qui mUites facti non essent de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant
Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis
Carthagienses vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet
consuetudo. de Or. Romanoram ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium
prsstiterunt Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc.
Apod priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor est Cato in
Originibus, ut deincepi, qui aocobaient, canerent ad tibiam virorom
daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat Romana RO
JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin
anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn
pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam
tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver.
Romani ladL Att. Nu Bc Romanas res aedpe. Romilla,
iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam esse £se-tnram. I,
Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos
immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post exoessum suum
dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia
eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos
lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit igitar, paoe vel
Qoirini toI Bomali du Eerim. de D. Romuhis puldier. Ih, Romulus
urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam
optimos augur feit de N.
Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii.
Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem
interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S.
Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et
Remus ambo augures fberant Roorali stataa decoelo taeta. Som.
Ronmlo moriente deficere sd bommibas eatingaiqao visus est.
Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque
philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum
et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva,
adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia,
nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra
pseudophilosophos. De nominibus propriis
et appellativis, tam cole&li vis quam simplicibus non cola Letivis, ac
decorum proprietatibus et diferentis, contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem
(falsis. De denominativis reliquis capitibus Ante predicamentora, vel
supervalaneis vel. Universalia realia etiam five raese concedantur, tamen non
fuisse facienda quin. Que numeross ed velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura
quam quinque hoc est, septem veloflo, adiecto communi, simils, contrario, arque
substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum proprietatibus ac
diferentis, contra pseudo-philosophos. De generaliomnium rerum
divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce
universi anni versalis et in summa de falsirate universaslium realium ut
vocant. Universalia realia nec propter scientias artes quetradendas, nec propter
syllogismos eocateras argumentations formandas, nec propler predications
superiorum de inferioribus faciendas necessario ese ponenda contra
pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese non posse. Co
propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam illam realium
opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes plusquam in
aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam
vocant. De toris, et corum divisionibus, compositionibus quepere, contra
falsissimam dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere
philosophico e oratorio genere et de vera eius definitione. Contra falsum genus
dialecticum et falsam cius definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus
definitione, contra falsam speciem dialecticam et falsam illius definitionem.
De vera diferentia et vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem
adversariorum vel falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin
constanter definite et simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis
questionibus in universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris
et dialecticis falis. De homonymis et
synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru mufus, contra stultaila
aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum et summum et verum á
generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex autem s a
transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA (si veda)
falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda
existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto
nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS
rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia
alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo
verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De
qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus,
praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium
dialectic corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia
arris quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum
que corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur,
contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali
scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De
errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter
scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum
habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex
omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias
Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose,
sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium
scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere
philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium
pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis,
abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem,
grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere continentem,
ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a pseudo-philosophis
unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis ab LIZIO in rhetoricam
non recte introductis et delio bro sophisticorum elenchorum quid senciendum,
Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise artibus, ex quibu spendetac
fitomnis eorum dividio definition o distinctio, contra falfam de eisdem rebus
Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et veris argumentis de que utili
vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum modo, conira partim sulum purtom
inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in libro Topicorum. De
definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum veris.
Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter in
libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de
queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam
traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et
falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum
analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis
appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur
plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra
communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio.
Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte
philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque;
Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt
aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als Geburtsjahrà wird allgemein und als
Todesjahr angegeben. Indes ist diese Berechnung nach der Untersuchung
Batistellas auf Grund inschriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu spät
angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber seine ersten
Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe des Grafen
Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete
auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die
Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als
Hauslehrer in der gräflichen Familie tätig gewesen, kam er als
professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von dem Herzog
Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N.
war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi
dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle
concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città
più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica
letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche und ein sich immer mehr
verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in dem schweren
Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon ereilte ihn der
Tod, ob zu Sabbioneta, oder in seiner Heimat Brescello,
lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N.
Suppl., der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt
Batistella: N. Batist. Bat. Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich
zunächst nur auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit
der Interpretation griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des
CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem
natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch
wohl der realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht.
Zu eigentlich philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch
einen mehr äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in
einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in
Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil und Philosophie,
CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N. ein grosser Verehrer
CICERONE, jedoch zog er der eklektischen Philosophie desselben die reine
Lehre des LIZIO vor und vertrat die Ansicht, dass man die Philosophie
CICERONE mit der des LIZIO in Einklang bringen könne. N.
dagegen strebte dahin, den LIZIO für immer zu verbannen, indem
er mit Ueberzeugung den Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin
LIZIO vertrat. Diesem Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig
geführt wurde, machte schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le
opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO
vergl. femer Gerh. Phil. und
N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat.
Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können!
(Jöcher a. a, 0.) non solum calamo et chartis
venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et
mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad
lectores in De veris principiis, ipse MAJORAGIO qui licet, de
magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur, tarnen vere est
acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede. MAJORAGIO hatte
auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen, die N. mit einer
anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum
libri contra N., worauf N. mit seinem anti-barbarus
philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen
in seiner Schrift: De veris principiis et vera ratione philosophandi
contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als
philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die
Beförderung der klassischen Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer
Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen
Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl
anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten
der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war
bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE, dann als Apparatus
latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE in Venedig, und
erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu
Padua mit beigedruckten CICERONE Phrasen, die nicht von N. stammen.
Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE
et Oratoribus contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner
Defensiones locorum aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig,
und übersetzte aus dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio
obsoletarum vocum Hippocratis. Fällt die Herausgabe des Werkes, welches
das vollständige philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel
lautet: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra
pseudo-philosophos, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat.
tium et scientiarura principia, refutatis et rejectis prope Omnibus
Dialecticorum et Metaphysicorura principiis falsis, et præterea refutantur fere
omnes MAJORAGIO objectationes contra eundem N. usque in hanc diem editæ.
Parma apud Viottum, Schon die Titel der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des
N. eine mehr philologische als philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets
warme Anerkennung gefunden. Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber
seiner Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich
unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N. quasi Deus
aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea
hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert
sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur
hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue
hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam
loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis
Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus
exhibuisse. Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen
Humanisten begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex
latiæ linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento, jjFortunas
Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich von
Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in der
Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in Italien
ausführhch gehandelt hat Ton der Dottrina metodica. Um indes den
Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in
der er lebte, in Rechnung ziehen. G. Bat. Daselbst auch die übrigen
kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht
charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer
Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie.
Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme,
vor allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an
CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten
Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie,
speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den
Schriften CICERONE wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber
dem entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit
ihrer dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen
wir alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der
sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen
Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu
einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO
derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so
bekämpfen die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor allem die
Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur dem LIZIO, den
man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege. Als Massstab
und Norm will man vielmehr den
eigenen gesunden Menschen-verstand und die fünf Sinne gelten lassen. Und in
diesem Gesichtspunkte haben wir die Brücke zu der
sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger die
Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben dem Italiener N. kommen
hier als bedeutende Vertreter der Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer
VALLA (si veda), und Agricola. N. bringt
die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen Abschluss,
sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben aber auch
kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus Philosophicus
die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio Philosophiæ bewirkt zu
haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch seinen Index CICERONE seine
Berühmtheit, während seine Philosophie schon beim Entstehen kaum dem Ersticken
entging. Philosophia N. prope in ipso partu suffocationem aegre effugit. Das Geschick des in tenui labor, at
tenuis non gloria bei N. begründet
Leibniz durch den Umstand, dass N. in Italien
schrieb, wo damals LIZIO und die
Scholastiker in allzu tyrannischer Weise herrschten. Leibniz ist der Ansicht,
dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens zugebe, dass auch ein LIZIO irren
könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht werden könne. Welche Wertschätzung
Leibniz selbst dem
italienischen Philosophen entgegenbrachte, beweisen
ausser der von ihm besorgten zweimaligen
Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in den Text
hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die Edition des
N. Werkes erscheinen
liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und wichtigste die sogenannte
Dissertation über den philosophischen Stil, Dissertatio Præliminaris de alienorum operum editione, de
philosophica dictione, de lapsibus N.,
wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst einer Widmung an
den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an Thomasius über die Versöhnung
des LIZIO mit der neuen Philosophie De LIZIO recentioribus reconciliabili,
sowie Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen
Abhandlung des N. voraus. G. Q. vel hoc saltem in
confesso est, LIZIO errare posse. Renhissanoe and Philosophie. Leibniz' üebereinstiramung mit N. Die
philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N. musste Leibniz
besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der Beurteilung und
Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz so durchaus ähnlich. Auch
N. knüpfte an die Scholastik, die Alten, vor allem
LIZIO, an, übernahm das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte
und reinigte, wo es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise
fremder Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den
Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur darauf bedacht seien, sich ausschliesslich mit ihren eigenen
Gedanken-erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N.
bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung der Scholastik.
Mit Recht musste seiner Ansicht nach N. nach dem Studium des stofflich
vielseitigen und stilistisch glänzenden CICERONE die scholastische
Behandlungsweise, die mit ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an
Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar
sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu
entschuldigen mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er
aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen
Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte gefunden,
lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen durch ihren Eigensinn
als durch Unwissenheit. Ihnen Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den
unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den
Neueren, die die Philosophie ex æreis
divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae
revocaverunt. Im Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften, so behauptet
Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben,
die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen,
aber es war bei ihnen mehr ein Carpere als ein Emendare. Die einen jammerten,
andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie
scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber
sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N.
gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia
wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der
Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es
daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es für die
Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden. Leibniz
knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit sich Männer
finden möchten, das Werk des N.
für die
übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde, wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe
unterziehen, wenn er sich nicht teils durch andere Studien daran verhindert
sähe, teils aber fürchten müsse, anderen, die dieselbe Sache besser leisten
möchten, vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die
N. Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues
hinzuzufügen. Rühmend hebt G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik
siehe: Jasper, Leibniz und die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens
Beziehungren zur Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N.
überall nicht nur fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi
ratio naturalis et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco
libera, et facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua
juvans potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf
allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz
bemerkt, mehr auf die Rede als auf das
Denken Bezug nehmen. Als erste Bedingung fordert er die Kenntnis des
Griechischenund des Lateinischen, als zweites das Vertrautsein mit den
Vorschriften und Lehren, die sich bei den Grammatikern und Rhetoren
finden, ferner drittens eine umfassende
und andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die
Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs
sowohl, soweit es die obigen betriflft, als auch des Volkes, das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung
hat über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und wahre Willkür
im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig philosophieren will,
darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen, sondern soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen,
seiner Intelligenz und der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern
undAutoritäten folgen. Endlich fordert
N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von der
gewöhnlichen und bei allen G. N.
C. Siehe auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt,
ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina tingere, nisi populo Atque ideo
dialectici non recte faciunt sed maximum committunt vitium, qui primum
impudenter et barbare nominant res a se non inventas et ab aliis ante nominatas,
ut exempli gratia, quæ grammatici et oratores jam inde a principio vocaverunt
nomina, verba, adjectiva, substantiva, supposita, apposita, propositiones,
assumptiones et plurima alia huiusmodi, ipsi prætermissis et rejectis penitus
nominibus antiquis et rectis. appellant terminos, copulas, concreta, abstracta,
subjecta, prædicata, maiores, minores et alia id genus sexcenta. Gelehrten
üblichen Redeweise, nicht za kurz oder dunkel schreibe oder lese, keine
quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches oder Neues in
die Philosophie einführe, falls letzteres nicht unbedingt nötig ist. Besonderen
Nachdruck legt N. darauf, dass ja nicht
die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo- [N. allem den dialektischen, und metaphysischen
und wo immer er handele von seinen mehr als monströsen genera, species, secundæ
substantiæ, universalia realia, abstractio, demonstratio u. s. w., verdiene er
den höchsten Tadel. In summa behauptet er von LIZIO: ubi bene dicit nihil
melius, ubi male nihil peius posse excogitari) Auch diese Ansicht des N.
teilt Leibniz durchaus nicht. Er behauptet im Gegenteil,
dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum LIZIO, was auch sagen mögen
N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe, die N. angibt, sind ihm
nicht durchschlagend. CICERONE, auf den
sich Nizolius in
erster Linie als
Gewährsmann stütze, könne
nicht als solcher
gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie CICERONE als
Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis
curis obrutus -- die Gedanken
gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi cuiusdam Philosophi)
flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe CICERONE (hie) duo dicit, primum communem esse
sententiam quod sint LIZIO, deinde non negat esse LIZIO, sed saltem conicit, posse fortasse esse filii. Hæc
vero a possibili coniectura communi illorum quoque temporum sententiae nihil
præjudicare debet. Ihm, Leibniz, selbst ist die Echtheit der Schriften
LIZIO vollständig verbürgt durch jene
perfecta hypothesium inter se Harmonia
et aequalis ubique methodus velocissiraæ subtilitatis. In seinem Briefe an
Thomasius') De LIZIO recentioribus
reconciliabili schreibt Leibniz:
Quæ LIZIO de materia, forma, privatione, natura, loco infinito tempore, motu,
ratiocinatur, pleraque certa et demonstrata sunt, hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate
vacui et motus in vacuo asserit. De
cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo fere sanus in dubium vocabit. N.
Adnotatio. Q. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords: Cicerone,
lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi
Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Noce: l’implicatura
conversazionale – la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana.
Grice: “Only in Italy, philosophy and history are so connected; it would be as
if we at Oxford after the war would be only concerned with understanding
Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic philosophy was to get away from
post-tramautic stress disorder acquired during what Winthrop stupidly called
the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult to understand why Noce’s notes
on Gentile were only published posthumously!” -- essential Italian philosopher.
«Certo i cattolici hanno un vizio
maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità,
nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi
oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.»
(Risposte alla scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di
"Storia delle dottrine politiche" all'Università La Sapienza di
Roma. Studioso del razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel,
Marx), analizzò le radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità,
ricostruendo con cura le contraddizioni interne dell'immanentismo.
Argomentò l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di
pensiero che propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina
cristiana (affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne
tenacemente, per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e
comunisti e previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del
fascismo, sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il
comunismo e fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità.
Sostenne, inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il
pensiero dei sessantottini. Filosofo della politica, preconizzò la crisi
del socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello
mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la
filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in
quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra
dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di
verità e di moralità. Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia
Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la
madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra
mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la
sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni
dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della
nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università
degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi,
Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia
quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì),
mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni
all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain,
che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al
fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla
carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli
dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e
altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di
conciliazione di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve
tempo affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un
istituto superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna
all'insegnamento un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi
periodici, tra cui Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare
Dossetti. Scrive e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che
ripubblicherà vent'anni dopo nella sua opera maggiore (Il problema
dell'ateismo) e nel quale fissa i termini complessivi della sua interpretazione
del marxismo. Nello stesso anno cura l'edizione italiana di Concupiscentia
irresistibilis di Šestov. Inizia la collaborazione alla Enciclopedia filosofica
del Centro Studi Filosofici di Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato
a Bologna presso il centro di documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel
capoluogo emiliano frequenta Matteucci e collabora stabilmente al neonato
periodico «Il Mulino». Scrive su Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e
altri alcuni saggi, uno dei quali, «Idee per l'interpretazione del fascismo»,
sarà all'origine delle future revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa
al convegno organizzato dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure
con una relazione intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella
presente situazione italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un
rapporto difficile con il partito cattolico (altri interventi nei convegni di
San Pellegrino e di Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non
ottiene il posto. Pubblica Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma
cattolica e filosofia moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con
una relazione intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero
l'autocritica dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua
fondamentale fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso
anno vince il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca
della secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni
sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove,
all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine
politiche e poi dal Filosofia della politica. Si infittisce la sua
collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo
all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura
moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al
pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin.
Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni
settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione
partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il
saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione
del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di
Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della
conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione
continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della
rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno
viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il
Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito
della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale
Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di
Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini.
Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce
“Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo
e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e
rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a
Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta,
diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e
Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia
della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico
che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che
tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la
postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici
e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere
dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla
Scolastica. La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è
-come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come
«necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e
necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da
qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro
way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi
innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo
positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di
un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico
(«notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine
l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e
particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della
filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier. Posta questa
propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico
moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da
pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia
epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà
l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica
medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che
proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece
colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni
metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre
una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista
del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con
la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Cartesio, nel suo
sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana
riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le
idee dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio,
quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà
ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale
realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la
quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione dell'idea
se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il tradimento e
la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha come punto
centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del reale a
struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a quello
della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il rifiuto
pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico all'idea, cosicché non
vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso della Scolastica né tantomeno
alcuna necessità di genesi del razionalismo; in tal senso la famosa critica di
Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non contro Sant'Anselmo, il cui
platonismo gli permetteva ancora di inferire necessariamente la «perfezione»
dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni perfezione, cioè dall'idea di
Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi come in Cartesio, che pur nelle
sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei, già sussisteva in nuce ogni
forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel Settecento, per questo egli
parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge inoltre che proprio Cartesio,
fiero avversario del libertinismo dilagante nel suo tempo, fu colui che
tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico nella sua forma
razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato appunto un
libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi sulla
persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva davvero
credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del
Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a
prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale
fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla
Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il
Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo
un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga presenta
la definizione kantiana di illuminismo). Da Cartesio in poi sono comunque
due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti
compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte
infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito
propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra
invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi
del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra
ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla
Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione
in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei
filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del
problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di
Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile
condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male
metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il
Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè
senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con
l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo
laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli
nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta
cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel
Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi
complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del
mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione.
Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua
interpretazione Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il
suicidio della rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema
dell'ateismo in quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo
una delle linee filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè
quella che nella storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel
tentativo di trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo,
materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra
problematica della civiltà postmoderna. La giustificazione epistemologica
di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento
inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in
azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la
«non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche
necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo
portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca
a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della
cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il
marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da
parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio
dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione
gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di
Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto
superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in
modo universale. Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo
gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano
oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto
dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno
dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra
rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore
dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase
dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore,
ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il
punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente
filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo
pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo
aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e
aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera,
mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica
(sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario
pur se negativo della storia universale. In questo senso N. ha potuto
mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in
Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e
hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il
momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella
formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo
culmine. Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del
secondo sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo
rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di
ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo
aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita
della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare
questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica
tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo,
non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo
mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi
anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che
ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della
rivoluzione politica. In Germania invece la dialettica fra kantismo e
hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la
riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di
Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento
storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur
nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla
corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più
peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che
solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle
generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita
l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione. Per questo N.
afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima
funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del socialismo
utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti dell'illuminismo
settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso dialettico),
nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una voltauna
forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa dettagliata
analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale appunto si
configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel attraverso
la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono le
marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la
politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo
scientifico rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di
Saint-Simon o di Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi
ad esso Marx applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe
potuto analizzare il capitalismo e prevederne così il necessario
fallimento. A tal punto però l'analisi marxiana di come potrà nascere la
società comunista introduce l'elemento di distacco non solo dall'idealismo
hegeliano ma anche dalla filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il
pensiero analitico in azione politica e di affidare alla storia invece che alla
ragione il compito di dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si
riallaccia a una lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti
è per esempio Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra
filosofia di Marx e di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza
concedere alcuna differenza né alcuna opposizione fra socialismo reale e
socialismo ideale (quasi a guisa di giustificazione storica). Il fattore
fondamentale di continuità fra Marx e Lenin è infatti quella struttura
tipicamente gnostica che equalizza il male all'ignoranza e il bene alla
conoscenza e quindi divide il genere umano fra la massa degli ignoranti e la
ristretta cerchia degl’lluminati, che nella riflessione leniniana erano gli
intellettuali borghesi che per una non spiegata differenza dal resto della
borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la rivoluzione; in questo senso la
politica leniniana, poi proseguita coerentemente nella politica staliniana,
sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica incarnazione possibile
della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di una certa apologetica
socialista- un tradimento di Marx. Ancora una volta si rifà a una lunga
storiografia critica nel considerare il marxismo non come una filosofia ma come
una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione non del suo carattere di
religione civile bensì di religione gnostica: in tal modo il marxismo leninista
sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove quest'ultimo è inteso come
gnosticismo laico, religione non di Dio ma dell'Idea/ideale che non ha bisogno
dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto l'uomo stesso avrebbe potuto e
dovuto far incarnare tale Idea nel mondo attraverso la sua azione. Questo
è il senso dell'appellativo delnociano di «non-filosofia» per il
marxismo, giacché la contemplazione metafisica in esso viene interamente
assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la politica è la vera
metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la morale. Eppure è proprio
questo punto a costituire secondo N. la contraddizione fondamentale interna al
marxismo e quindi la causa prima del suo fallimento storico: se infatti la
«riconciliazione con la realtà» iniziata da Hegel, proseguita da Feurbach a
portata a compimento da Marx deve rivoltare l'intera comprensione del mondo in
trasformazione del mondo, cioè in rivoluzione, allora in ciò non rimane
giustificato il riferimento ideologico all'avvenire come sede immaginifica
della società comunista, ovvero non rimane giustificato il carattere ancora
religioso del marxismo per cui esso ha sostituito il futuro all'eternità e il
lavoro dell'uomo alla redenzione del dio-uomo. Il fallimento storico del
comunismo, quindi, sarebbe stato non solo la dimostrazione sperimentale della
falsità delle teorie marxiane ma anche il coerente compimento del marxismo come
auto-distruggersi nella sua forma di religione. Con ciò si spiegherebbe per N.
l'attivismo comunista nonché la graduale decadenza del socialismo nel mondo
fino alla sua profetizzata fine, simboleggiata dalla caduta del Muro di
Berlino. È propria di lui infatti la teoria secondo cui il compimento e la
dissoluzione del marxismo non siano due momenti separati o addirittura opposti,
ma siano bensì il medesimo momento dispiegato coerentemente nel tempo.
L'interpretazione del fascismo Sul fascismo e sulla sua interpretazione in
stretta relazione al marxismo dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue
opere, partendo appunto dalle opinioni comuni e molte volte ideologiche degli
storici nei confronti del fascismo e delineando una struttura paradigmatica
tanto controversa quanto precisa e fondata. È a partire dalla definizione data
dallo storico tedesco Nolte di ogni movimento fascista come «resistenza contro
la trascendenza», intesa come trascendenza storica e non metafisica, che N.
sottolinea la continuità fra questo serio giudizio e la communis opinio del
fascismo come movimento reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista,
e per converso di ogni forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando
implicito e forse inconscio al fascismo. Di questo fa una critica
serrata, facendo notare innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del
fascismo, cioè Gentile e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di
politica reazionaria, tradizionalista e nazionalista e come invece affini
rispetto al socialismo, del quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si
noti che l'obiettivo che N. intende colpire e abbattere è quella generale
concezione del fascismo come momento singolare e controcorrente rispetto
all'intera storia moderna, dalla rivoluzione francese in poi, mentre ciò che
intende mostrare è la continuità quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo,
il marxismo e il fascismo come tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione.
Il filosofo inizia quindi dall'analisi della figura storica di Mussolini e
della sua formazione culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il
suo spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente superamento di
quest'ultimo per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul
concetto di «rivoluzione» che pone l'accento, essendo questo un concetto
base del marxismo che però, attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca
«filosofia dello Spirito» risorgente in Italia, dovette radicalmente
trasformarsi e portarsi dal livello sociale della «classe» a quello personale
del «soggetto». È insomma l'incontro intellettuale di Mussolini con la
filosofia di Gentile ad aver reso necessaria la trasformazione della
rivoluzione in un senso non più finalistico o escatologico (come era nel
marxismo puro, il cui fine è appunto la società comunista) ma in un senso
propriamente attivistico e lato sensu solipsistico, in termini gentiliani cioè
attualistico. Con ciò N. può connettere la psicologia di Mussolini con il vero
e proprio formalismo pratico del fascismo, il quale non aveva in realtà alcun
contenuto definito, ma proclamava bensì una forma di azione tanto vaga e
generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale (anche il
proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti persino quella
marxistica. Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene in sé già un
termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo andrebbe
rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione deve
necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla
riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è
stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma
(indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello
di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo
gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come eresia
dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia); “La
solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla
politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna,
Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma
cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano,
UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il
partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario”
(Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica
della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della
modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA
del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di
filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov,
Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi,
italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano,
Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri,
Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,” Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo:
errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e
vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia
contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità
e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca
Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia
contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo.
N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del
fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del
referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto. premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.
wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma,
Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti,
Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e
politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e
secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in
PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano,
Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza
dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia
dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo.
L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara,
il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea
Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella
riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier
Tilliette, Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, traduzione di
Sansonetti, Brescia, Morcelliana, Natascia Villani, Marxismo ateismo
secolarizzazione. Dialogo aperto con N., in Pensiero giurdico. Saggi, Napoli,
Editoriale Scientifica, Augusto Del
Noce, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Repertori Bibliografici, su centenariodelnoce).
La metafisica civile: ontologismo e liberalismo dalla rivista telematica di filosofia
Dialeghesthai. P. Ratto, Laicità e Democrazia: da N. a Giotto, su Bosco Ceduo, Democrazia e modernità in N., articolo dal
mensile 30Giorni. L'inseparabilità dei Tre. La modernità, di Andrea Fiamma Centro
Culturale,//centrodelnoce. Fondazione //fondazione augustodelnoce.net. centenariodelnoce.
Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi
Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da
Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune
dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi.
«Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini
dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa»
da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma
europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri
cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di
porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna
del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni
dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba, non
un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione
(Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto
gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato.
«Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato.
«Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto]
da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"»
dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il
Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile
conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice:
“Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history.
Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce
thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It
wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo
puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini.
Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just
as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin,
but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about
this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In
any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and
a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was
forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY
brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that
was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that
his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a
little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di
flosofia’!” Non si
può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di proporre ipotesi
interpretative del pensiero contemporaneo anche in radicale antitesi con
la pubblicistica corrente e con gli intellettuali più ascoltati dal
potere culturale dominante. Come si è visto a proposito del marxismo, la
nettezza del giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai
ceduto ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale
con i suoi interlocutori. Nel caso dell’interpretazione del
fascismo N. esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni
Sessanta (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già
la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente
argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in questo caso, come in
quello del marxismo, N. procede da una considerazione attenta del
fascismo che ne faccia emergere le specificità culturali, lo renda
identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze più o meno
evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei contenuti
del fascismo è già un aspetto rilevante dell’interpretazione, dal momento
che, ancora oggi il fascismo è stato rappresentato da una parte come una
sorta di barbarie irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della
coalizione di tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di
interessi particolari. In questa prospettiva il fascismo viene
identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo, caratterizzato
come male assoluto, mitizzato come un abisso di negatività al di fuori di
qualsiasi analisi critica e storica. Da ultimo, trasformato in una sorta
di essenza, il fascismo diviene la categoria alla quale ricondurre tutti
gli aspetti legati alla tradizione, alla metafisica, al tema
dell’autorità ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare
la tradizione senza essere nel contempo, almeno incoattivamente,
fascisti e repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento
di quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli
precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e che può essere
designato più opportunamente come secolarizzazione, per intendere quel tentativo
di creare una società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di
Dio. Il fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile
in quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha inizio con
il marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il
fascismo si presenta come un tentativo rivoluzionario di origine
marxista, nel quale il marxismo viene corretto per essere inverato, cioè
per essere effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo
e fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso del
razionalismo che porta a una progressiva secolarizzazione del mondo,
l’ideale rivoluzionario tende ad assumere il ruolo sociale occupato
precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la
rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si fonda, come
si è visto, sul materialismo e sulla sua opera decostruttiva; oppure
quella attualista, che è una interpretazione dell’ideale rivoluzionario
da un punto di vista soggettivo-spiritualistico, che assume le
caratteristiche di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta
il materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova
perciò in Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in
evidenza il nesso storico e teorico tra idealismo e fascismo. Per
comprendere questo nesso, però, occorre che venga pienamente riconosciuta
la complessità e profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato
a personaggio di propaganda e di apparato. D. non solo riconosce in
Gentile una figura chiave del pensiero italiano, ma nel suo pensiero
coglie una svolta epocale, quella del tentato inveramento del marxismo:
perciò in esso egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico
del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca
contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale
e connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò dal
quel presupposto naturalismo e materialismo che rappresentavano ai suoi
occhi un limite nella comprensione del vero spirito idealistico. È in
questa temperie culturale che avviene l’incontro con Mussolini. N. è
certo attento nel precisare che i fenomeni storici si verificano per una
complessa serie di fattori che non possono essere ridotti a uno schema
concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende
evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi biografici e storici, ma
anche il congiungersi, si potrebbe dire fatale, di indirizzi di pensiero
che per consonanza e necessità logica danno luogo a un connubio creativo.
Nel caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per
esempio, di armonia prestabilita, quasi a evidenziare una sorta di
attrazione fatale che ha compenetrato traiettorie di pensiero che avevano
origini distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso
una revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo
riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più sbiadita
rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene perciò sul terreno
comune della volontà di ripresa dello spirito rivoluzionario, in una
chiave però compatibile con la tradizione risorgimentale italiana.
All’interno di questa struttura significativa, certamente gioca poi un
ruolo determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro
molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è tuttavia perfetta
espressione esistenziale-politica di quell’ansia rivoluzionaria che
si traduce in attivismo come pura affermazione di potenza e in
solipsismo, inteso come soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la
realtà esterna in sé sussistente se non in funzione del proprio processo
di autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia
parlato spesso di fascismo come errore della cultura e non errore
contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante
nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come fenomeno
estemporaneo di improvviso impazzimento della società italiana succube di
forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della
secolarizzazione che contraddistingue l'evoluzione ultima del
razionalismo moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con
l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più coerentemente
inteso realizzare il farsi mondo della filosofia secondo quanto
prospettato da Marx. In questo senso, tra l’altro, si comprende perché
sia senz’altro errato interpretare il fascismo come fenomeno reazionario
e conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione dello
spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il quale la tradizione
e l’identità storica rappresentano puri strumenti per l’affermazione
dell’azione trasformatrice, che sarà perciò inevitabilmente violenta e
inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi
il fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del
marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria capace di realizzare
effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N.
dimostra un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel
presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi
che confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della
rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che, nel tentativo
di riformare il marxismo, incontra in realtà l’attualismo e trasforma
l'ideale rivoluzionario marxista in una filosofia della prassi
perfettamente funzionale e coerente con il realizzarsi del nichilismo.
Gramsci, perciò, identificato in quegli anni come il vero punto di
riferimento dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il
realizzarsi del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come
un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del
marxismo se non il rifiuto del suo materialismo e del suo economicismo,
per fondare una filosofia della prassi che porti a realizzare la
rivoluzione prospettata dal marxismo a partire da una lotta per
l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali militanti? Secondo
N. non è più marxismo, ma filosofia della prassi con tutti i caratteri
dell’attualismo. In che senso allora N. parla di suicidio
della rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire
il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della prassi
non materialista, Gramsci riduce il pensiero a ideologia strumentale per
l’affermazione del potere, svincolandolo da qualsiasi riferimento alla
verità. Pensiero senza verità, pura affermazione di potenza, e
perciò nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario
che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il costituirsi del
predominio sociale di una classe borghese cinica e disincantata. Diciamo
che Gramsci rappresenta il paradigma italiano di quella dissoluzione
dell’idealismo e del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è
detto, nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era
proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in
L’epoca della secolarizzazione, che propone una definizione storica
generale del fascismo e consente uno sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione
di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il secondo testo è il
capitolo secondo de I/ suzcidio della rivoluzione, che imposta l’assunto
fondamentale del libro, soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica
tra Gentile e Gramsci. Appunti per una definizione storica del
fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di
illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è un giudizio
sulla storia contemporanea; per dir meglio, su una zona della storia
contemporanea, quella dell'Europa fra le due guerre. Ora, l'attitudine
contraddittoria a cui ha dato luogo e per la cui designazione ho usato il
termine di millenarismo negativistico, porta al problema della sua
revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di mutare il giudizio
assiologicamente negativo sul fascismo; si tratta, invece, di vedere
quali posizioni ideali siano state coinvolte nella sua catastrofe.
È il primo saggio che tenta un’esaustiva comprensione
storico-filosofica del fascismo come fenomeno epocale, quello di NOLTE?
Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione rigorosa
all’idea che informa i giudizi correnti: quella secondo cui i fenomeni
fascisti dovrebbero venire sussunti sotto il concetto generale di
controrivoluzione. Visto nel suo aspetto più profondo, come fenomeno
transpolitico, il fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di
«resistenza contro la trascendenza», termine con cui intende non la
trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare «trascendenza
orizzontale», trascendimento storico, insomma. Quello che per il
fascismo, in qualsiasi delle sue forme, è il nemico, deve essere individuato
nella libertà verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale
nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e
si ama». Sul piano più strettamente politico questa «resistenza contro la
trascendenza» si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti
che la rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là
dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe
perciò parlare di un’essenza comune che si sarebbe specificata in diverse
forme nei vari paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni
politiche, economiche, culturali. Le principali di queste forme
costituirebbero altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea
unitaria di sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato
dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo dal
nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde
alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti
sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore
venendo assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni
atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più
inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità
fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è che questo giudizio
non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare
essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la
sua importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio
corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.
Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di un’«epoca del
fascismo? Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito
all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche
(Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo americano, socialismo in un
solo Paese per cui la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti
del mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la prima guerra
mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto di stati nazionali,
poteva nuovamente considerare se stessa come il centro del mondo, e
affermarsi quale proscenio degli avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si
deve denominare un’epoca, caratterizzata decisamente da contese
politiche, sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli
avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, ebbene, in tal
caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle guerre mondiali epoca del
fascismo»; termine che «presenta il vantaggio di non esibire alcun
contenuto concreto, e di non presentarsi al pari della parola
nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non però giustificata. Col
dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non pretende affatto a una
particolare originalità. Ha cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse
già stata affermata da rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel
giro di brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era
stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del
massimo suo potere. Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano
trovati d’accordo, con opposto accento valutativo. Così Mann nel define
il fascismo come «una malattia del nostro tempo, che è di casa
dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune». Così, nella
nota opera La distruzione della ragione Lukacs ha indicato «nello
sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione
più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito
del mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto
che l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.
Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale, della
malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs aveva parlato di una linea
unitaria di processo verso l’irrazionalismo da Schelling a Hitler», includendovi
tutti i pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di
Hegel. Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità,
Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il prefascismo di Weber,
e naturalmente il dissenso su questo pensatore ha un contraccolpo
decisivo per quel che riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse —
non ho verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito
come un rifacimento per l'Europa intera di quello che Lukacs ha scritto
sul pensiero reazionario tedesco, operato però da uno scrittore su cui è
stata forte l'influenza di Weber. Ora, nello stesso giro di tempo in
cui Nolte scriveva il suo libro, io mi ero proposto il suo medesimo
problema — di una definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando
però a prospettive diverse. Infatti, nel saggio di N., Il problema
dell’ateismo, definie la peculiarità della storia contemporanea per il
suo carattere di storia filosofica. Il mio punto di vista, che mantengo
oggi del tutto invariato, era semplice: se si riconosce un
carattere genuinamente filosofico all'opera di Marx, bisogna
prendere alla lettera la sua frase secondo cui la sua concezione è quella
di una filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella
realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica) opposta a
quella di un mondo che diventa filosofia nell’autocoscienza; se poi la
storia contemporanea non può essere compresa che in relazione alla
rivoluzione comunista, essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da
tutta la storia precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi.
Non soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo;
una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è per
Marx quello di realizzare la condizione per un’azione efficace a trasformare
la società e il mondo; e per riferimento al carattere precipuo della
filosofia di Marx, mi parve di doverla definire come l’età
dell’espansione dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa
cosa, parlare d’epoca della secolarizzazione, servendomi di un
termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e dr O ateismo
sono certamente le due facce della stessa moneta; ma siccome il termine
di secolarizzazione dice ciò che questa età vuol essere — processo verso
una situazione in cui si possa dire che Dio è scomparso senza lasciar
tracce — e siccome qui si tratta di un’analisi interna di
quest'epoca, prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione
della mia preferenza. Ora se l’età contemporanea deve, a mio
giudizio, venir definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non
può essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una
rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra possibile ritagliare
l’idea di un’epoca semplicemente europea e parlare di un’«epoca del
fascismo». Bisognerà invece parlare del «momento fascista» dell’epoca
della secolarizzazione. Credo inoltre che un’ulteriore
specificazione si presenti come necessaria. Nell’epoca della
secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che si può dire
sacrale (in relazione al fenomeno delle religioni secolari, che
accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo profano; a un
dipresso, e con l’approssimazione necessaria delle date, possiamo dire
che il primo si chiude con la morte di Stalin. Fascismo e nazismo
appartengono interamente al periodo sacrale; fenomeno nuovo che
caratterizza in maniera precipua il periodo «profano» è la società
opulenta. Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire
che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione dell’Action
francaise rispetto al radicalismo e quella del nazismo rispetto al
comunismo. Non vorrò negare che la simmetria vi sia, ma, appunto,
soltanto una simmetria; è infatti altrettanto impossibile vedere nel
nazionalsocialismo la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion
frangaise che nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più,
mi sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando deve
trattare del termine medio tra Action francaise e nazismo, cioè del
fascismo propriamente detto. Nel considerarlo, infatti, egli accentua,
molto giustamente, i tratti segnati da un persistente influsso marxista,
e le curiose affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel
momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel momento iniziale
(Action francaise) e di nuovo scompare nel momento conclusivo
nazionalsocialista. E, allora, non è almeno singolare definire l’intera
epoca con il termine di fascismo? Siamo con ciò arrivati al
punto veramente centrale: se si possano sussumere sotto il comune
concetto di controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro
la trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e nazionalisti,
che più o meno si richiamano tutti all’ispirazione dottrinaria
dell’Action francaise, come il fascismo e il nazismo, in modo che si
possa parlare di una stessa essenza, che si è specificata diversamente a
seconda delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui
si era realizzata, o se invece l’attenzione debba prevalentemente
venir portata sulle differenze. Se ci si mette in questa seconda via si
delineano poi due diverse possibilità interpretative. Si devono
distinguere qualitativamente i movimenti nazionalisti dal fascismo e dal
nazismo, riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi
fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di nazismo, come di
fenomeni per essenza diversi? Come si vede, il punto più delicato, e
quello che ora cercherò di affrontare, è proprio quello di assegnare il
punto giusto al fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo,
mentre altri sono proclivi a considerarlo come una semplice
variante dei regimi autoritari. La distinzione così di fascismo
come di nazismo dal nazionalismo propriamente detto può essere
stabilita facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un
tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità, quest’eredità
essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche
se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di
legittimare un’eredità (per ciò si può vedere nel nazionalismo lo sbocco
finale di un’inesatta idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce
invece la nazione non più come un'eredità di valori, ma come un
divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia non è
concepita come una fedeltà, ma come una creazione continua che merita di
rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta,
del resto, di una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e
Goebbels, che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato
il primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un
punto di vista non reazionario; * sta in ciò la ragione della devozione
indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini. Assai più
che i tratti comuni importano però le differenze. In quello stesso libro
sostenevo che il fascismo deve essere storicamente definito come la piena
realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che
ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e
dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx (o pensandola
come una posizione contraddittoria di spirito rivoluzionario e di materialismo);
e che la biografia di Mussolini è il miglior documento per lo studio
dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista
e connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa nei
primi decenni del Novecento. La successiva biografia di Felice, preparata
in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora accennato, mi pare
offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre
mi sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata
l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può essere
considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale, del
comunismo europeo; che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente coinciso
con quella della cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha
coinciso con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi
è una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e
dell’altra; che questa cultura idealistica
italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, che
segna l’europeizzarsi della cultura italiana. Non si può, insomma,
intendere Mussolini al di fuori della misteriosa vicinanza e lontananza
insieme che lo collegava alla figura di Lenin, punto ben visto da Nolte,
ma non sufficientemente approfondito. Il mistero della
lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a
quella distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura
idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di fatto
accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità inscindibile tra
materialismo radicale e azione rivoluzionaria, rifiutato. La
vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte: «Se per
comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella
riformistica, disposta alla collaborazione, del partito socialista,
Mussolini può essere a ragione definito il primo e, da un certo punto di
vista, l’unico comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli
altri paesi europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza
del bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto
diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi
del comunismo italiano postbellico egli fu anche il
promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta
intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria
fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è tentato di contrapporre
alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua
intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente
contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto
analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso
spontaneo. Dove è giusto parlare di analogia, non di ortodossia marxista.
Il «volontarismo» di Mussolini non è la «dialettica» di Lenin; è il
rifiuto del materialismo marxista, in relazione alla generale critica
allora corrente del materialismo naturalistico e del positivismo
evoluzionista. Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa
diventa l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più
rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella
liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato dal momento
materialistico e dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella
che giustamente è stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova
prassi della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo
punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai chiara. Sotto
un primo riguardo il momento materialistico significa la sconsacrazione
dell’ordine che si deve abbattere; sotto il secondo assai più importante
— che implica la conservazione, e non la semplice negazione, del
pensiero utopistico nel pensiero rivoluzionario è intrinseco alla finalità
rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di una nuova
idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni traccia
del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva
umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre
la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale
materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato dal
materialismo, lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di
mistica dell’azione, in quel che si suol dire con un termine diventato
logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»;
tensione verso un’azione che è voluta per sé, come
semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine,
con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di dar
significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti che
possono promuoverla. Ma non basta: la logica che gli è intrinseca lo
porta anche alla negazione della personalità degli altri, alla loro
riduzione a oggetti; dato il conferimento del valore alla pura azione,
gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per diventare
puri strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra cosa
dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del disconoscimento morale
si tratta di un rifiuto pratico di eseguire quel che la legge morale
comanda; nel caso, invece, dell’attivismo si tratta di una prospettiva
totale per cui gli altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più
senso parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire
quest’attitudine? Io proporrei il termine di solipsismo, e personalmente
sarei portato a credere che l’unico senso preciso che si possa dare alla
nozione di solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica,
il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La totale
spersonalizzazione che l’attivismo include porta a togliere alla realtà
l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra che essa non esista che nella
mia azione, come ostacolo che proietto davanti a me per superarlo. Sul
termine si potrà discutere; ma è comunque certo che all’azione di
Mussolini non si addicono la qualificazione di anarchica, perché
resta sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e
invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria, perché non
si può rintracciare la tradizione che Mussolini abbia riaffermata e
difesa; né, ovviamente, di giacobina e di comunista. A me pare che
partendo da una fenomenologia dell’attivismo diventino comprensibili
quegli aspetti contraddittori che rendono così difficile, come De Felice
ha giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini!
Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di personalismo, di
scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se medesimo e al tempo stesso
di sfiducia nell’intrinseco valore di ogni atto, e, quindi, nella
possibilità di dare all’azione un significato morale, un valore che non
fosse provvisorio, strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal
personalismo. Bene Cantimori lo ha delineato. Questo senso della
potenza, questa volontà di predominio che lo fa identificarsi
spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo protagonismo
politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per un’affermazione
della propria volontà, consapevolezza e affermazione della propria
individualità... e questa consapevolezza di sé, questo esser
continuamente presente, cosciente della propria volontà e della
propria individualità, continuerà sempre: l’identificazione
spontanea con il proprio popolo si articola sempre più attraverso
tale consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio,
in compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute». Per sé, l’identificazione
con la causa del proprio popolo caratterizza ogni politico ed è da essa
che questi trae la propria forza; ma in Mussolini si compie in una
volontà di predominio, in un protagonismo politico che è
consapevolezza e affermazione della propria personalità; che altro può
significare questo se non un’identificazione che si opera a rovescio di
quella dei grandi politici attraverso una specie di assorbimento, per
così dire, del popolo in sé? Di qui quei caratteri che sconcertarono
quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto
con lui: l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale
energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il male, il
nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è da aggiungere: se
si potesse ridurre la personalità di Mussolini a questo semplice
immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo successo. In realtà,
nella disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza di
moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di autotrascendimento di
sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento della personalità morale
degli altri. Qui è anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista,
se il liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui
persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva
insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza della
finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una disponibilità
massima per ogni tatticismo e trasformismo, ma al tempo stesso gli
vietava di dare all’azione un valore che non fosse appunto provvisorio e
tattico. Di qui l’altra contraddizione per cui non poteva pensare se
stesso che come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva
esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa azione
distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche
decennio, nei manuali di storia: c'era una realtà storica nuova, il Regno
d’Italia, e fu Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto
questo rapporto, veramente l’antiCavour. Si intende anche
l’osservazione acuta di Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un
«capo»; ciò, però, non già perché vi si debba vedere quel che Gramsci
pensava, «il tipo concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione proprio
della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a trattare gli
altri come forze, veniva a sua volta visto dagli altri come una forza di
cui disporre. Da ciò anche la continua minaccia di restare prigioniero delle
forze con cui si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste
forze con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di
contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si davano per
tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto che «credendo così di
essere l’arbitro di tutto, non si accorgeva che, di compromesso in
compromesso, il suo margine di autonomia si riduceva sempre più e che la
logica delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione,
lo soffoca progressivamente, e lo riduceva a un piccolo Laocoonte
che appariva forte solo perché poteva gonfiare i muscoli, ma era
irrimediabilmente stretto in un groviglio di spire che lentamente lo
avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua
incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il ricorso al
pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa solitudine come forza; per
questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra le pagine che meglio
illuminano la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come
potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di parlare al
popolo e di trascinarlo in quanto massa, e l’incapacità di colloquiare
con gli uomini in quanto singoli, e di giudicarli. Perciò ebbe su di lui
tanta presa la lettura della Psicologia delle folle di Le Bon; gli
rivelava i meccanismi che determinano il comportamento collettivo, lo
istruiva nella tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei
suoi interventi. Diventa pure chiara la sua incapacità di formare
un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché
questi uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro
volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo essere le
coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho addotto
per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico,
in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con
l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei tratti
psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di
Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta
per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col
materialismo; dalla irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della
posizione rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il
problema del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna
però guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della
cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e ignoranza
di Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario ritratto che
lo rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con qualità, in questo
genere non comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare dell’avventuriero
opportunista, pronto a ogni cambiamento, a seconda della possibilità di
successo; di cui poi è specificazione quello del traditore o del
transfuga, o rispetto al socialismo o all’interventismo democratico.
Certo, non poté incontrare i problemi culturali che da politico; e
pensò contro certe idee che trovava incarnate in posizioni
politiche, e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre,
in relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto
questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto incontrare e
domandarsi se abbia verificato nella pratica, e quindi coinvolto nel suo
scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine della sua polemica è
chiaro: si tratta del socialismo riformista e della cultura che lo
accompagnava; del marxismo ripensato nella cultura positivistica di
fine Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai
rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse volentieri idealista
perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò a
infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della
violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il misticismo
dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aria
intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È il noto giudizio di
Croce, non inesatto, ma tuttavia generico, e che per questa genericità
rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla
rievocazione, singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini
illustra a De Begnac il processo che l’aveva portato più di vent'anni
prima alla fondazione dei Fasci di combattimento. Le guide spirituali
erano rimaste indietro di mille anni a noi che avevamo sofferto
l’esperienza della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta
mesi una sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un
libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi
erano culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli
economisti riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita.
VITI, MARCO, EINAUDI, RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel
sembrava appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la
strada a chi come me avesse desiderato camminare su di essa. Certamente,
si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini
abbia guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo
Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però
una veduta importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si
devono dare all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il
Mussolini «fascista» succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei
protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e
Sorel, non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul
momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la veduta
affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun
modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che
non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia
penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista
come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò
passare qui a definire il senso dell'incontro di Gentile e Mussolini.
Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse
per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per
il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di un’influenza di
Nietzsche, come pure degli altri autori che possono aver esercitato
un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon. Genericamente
possiamo dire che fu un incontro per negazioni: per un verso l’attualismo
gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre
per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a modellare
e a prospettare un movimento politico; di più, nel riguardo delle forme
politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni che pure pronunziava
il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva
bisogno di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da
ciò al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata
dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e la
conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini
come Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è
strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che
fu dedicato, nel mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La
filosofia di Marx) non è affatto un episodio marginale della sua opera.
Si può infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato
dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il
senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir
vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti
fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile
che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra
storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo
diciannovista. Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza
atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo
costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace
di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che
pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla
repubblica sociale, O l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi
secoli, debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma
ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto indicava che il
fascismo stava per concludersi in una catastrofe, Gentile non poteva
staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno
a restar fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel
momento della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso
converrà prender le mosse dallo saggio su Origini e dottrina del
fascismo. La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo
aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che
Croce non soltanto si era messo all'opposizione, ma dopo che aveva
ragionato i motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si
intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene
un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e
della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla
vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde perché
«c'erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due
anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si
contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione
che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale
col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto,
quel che è conservabile». La partecipazione italiana alla prima guerra
mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo
strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale: entrare
nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione, dei volenti e dei
nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la Dalmazia, e non certo per i
vantaggi specifici, politici e militari, se non economici, che queste
annessioni avrebbero potuto arrecare... In guerra bisognava entrare
per cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi più per
fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la Nazione, come può
fare soltanto la guerra, creando a tutti i cittadini un solo pensiero, un
solo sentire, una stessa passione, una comune speranza... Cementarla,
questa Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di
muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed entrare
insomma nella storia, con una sua personalità, con una sua fisionomia,
con un suo carattere, con una nota sua originale, senza più vivere
d’accatto sulle civiltà altrui, e al’ombra dei grandi popoli fattori
della storia. Crearla dunque davvero questa Nazione, come soltanto è
possibile che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso
il sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione
democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la libertà delle
Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme del saggio è estremamente
interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico e
l’interventismo fascista; insomma, tra il fascismo e quello che
successivamente prenderà nuova forma come Partito
d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti
stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione morale, non
tangibile, non palpabile, non pesabile sulla bilancia. La prima parte era
per Gentile quella dell’Italia giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana;
ed è appunto nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile
il suo incontro con Mussolini. Mazziniano (quest’ultimo) di quella
tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua Romagna, egli aveva
già superato, prima per istinto e poi per riflessione, attraverso una
giovinezza travagliata e pensosa, ricca di esperienza e di meditazione,
nutrita della più recente cultura italiana, tutta l’ideologia
socialista. Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla
separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per il
nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la volontà e la
personalità dell'individuo, perché concepita come obiettivamente
esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche
se questi non lavorino a farla esistere, a crearla. L'individuo nel
nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il
suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o
condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve
morire; mentre per il fascismo lo stato e l'individuo si immedesimano, o
meglio sono termini inseparabili di una sintesi necessaria». In breve,
quel che caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal
nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui
proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in
una certa maniera un Gentile che si inserisce nello sviluppo del fascismo
per contenderlo a conservatori, nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso
atteggiamento viene da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel
nazionalismo essa era un presupposto in quanto faceva parte del
processo di formazione storica della nazione italiana. E viceversa
per Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato ereditario,
si trasfigura in una nostra personale conquista, che svanirebbe appena ce
ne distraessimo, noi che ne siamo gli autori». Sarebbe
totalmente errato ridurre questo saggio a un puro scritto di circostanza,
e ciò perché la visione del Risorgimento che Gentile vi afferma è in
continuità diretta con quella già delineata addirittura nei suoi
primissimi scritti, espressa già nella prefazione a SERBATI e Gioberti; e
SERBATI e Gioberti e La filosofia di Marx sono due libri inseparabili.
Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo in cui Marx lo
era stato da quello di rivoluzione. Riforma della dialettica, riforma
della scuola, riforma dello stato, ecc.; ma il termine di riforma
significava per lui non già rettificazione di un ordine costituito, ma
nuova forma attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova
vita; è più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di
riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente
inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica, continuazione
in certo senso di quella riforma cattolica giobertiana in cui già si
trovano tutti i motivi del modernismo; né ha senso per lui come puro
sistema speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è
l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea che va
da BRUNO a Gioberti, né del resto egli presentò la sua filosofia in altro
modo; e in certo senso può anche venir detto l’ultimo dei
risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del filosofo
politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e Gioberti e su
Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere espresso nella formula
che segue: il marxismo separato dal materialismo e il giobertismo
separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da
ciò era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si
ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione e di
approfondimento; di un giobertismo particolare, però, per cui
l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di
Mazzini dopo Marx. Col che si stabiliva pure una curiosa analogia tra
Gentile e Marx; si può dire che come Marx pensa alla rivoluzione
francese come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al
Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal
mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di religione e
di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva, oltre
l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso nazionalismo. Procedendo
per accenni, è importante osservare quale scossa avesse rappresentato per
lui la Prima guerra mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve
segnare il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì,
in cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe
allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando la sua
veduta filosofica e permettendone la realizzazione, onde i vari scritti
politici del periodo tra Caporetto e la marcia su Roma — gli articoli raccolti
in Guerra e Fede e Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i
Discorsi di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di
una politica religiosa. Possiamo così renderci conto della
necessità dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come
egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato il
pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per Mussolini a
partire dalla critica politico-pratica del marxismo.” Si vede
dunque come, in sede di un giudizio storico e non moralistico e polemico
sul fascismo, la questione delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato
vittima non debba esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più
complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò
ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior
filosofo italiano del tempo. D'altra parte non può non essere senza
significato il fatto che le stesse critiche fondamentali mosse contro
l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come criteri storici
essenziali per intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è
facile ricostruire l’idea che Gentile si formò di Mussolini, quale fu
quella che Mussolini si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è
stato ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può
pensare che egli non abbia troppo gradito di venir considerato come lo
strumento di una riforma religioso- politica pensata da un altro, e di
cui neppur bene afferrava i termini; e ho già detto della sua incapacità
di vere amicizie. Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente
da parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del
Fascismo; così mi è sembrato molto significativo quell’accenno nella
conversazione con De Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non
era certo troppo in auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva
essere che così. Possiamo ora tentare una definizione complessiva?
Il fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione
rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare dopo aver
accettato i risultati di quella critica del marxismo teorico che fu
svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento e di cui l’attualismo
può essere considerato la conclusione filosofica. Naturalmente, questa
definizione non concerne che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente
a spiegare la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non
si sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra
mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la
trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito della
vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc.
Come si inserisce in quella che prima si è chiamata l’epoca della
secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve essere definito come
alternativa al leninismo (al leninismo, si badi, non allo stalinismo;
anche se lo stalinismo e il richiudersi della Russia in se stessa
potevano sembrar confermare la validità della soluzione fascista). Ma il
termine alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due
sensi: quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in
una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla
russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare a una
prossima fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo
secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la differenza
tra fascismo e nazismo. Due uomini si contendevano nel mondo la pretesa
di incarnare la vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si
deve riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente
sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua giustificazione
storica, nel senso di condizione della sua possibilità, nel fatto che il
marxleninismo non ha potuto realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha
dovuto arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare
però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a
dire che debba esser considerato come fenomeno reazionario; né a
giustificare i giudizi secondo cui Mussolini avrebbe deliberatamente
ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia
rivoluzionaria. Ma la considerazione dell’esito non può servire come
criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice che il
comunismo è fallito perché ha portato a una nuova classe, più oppressiva
di ogni altra, non vuol certamente dire con questo che il comunismo sia
sorto in un’intenzione reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di
fascismi, altrettanto lo è il giudizio che la loro catastrofe coinvolga
quella degli ideali tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta;
giudizio, il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel
che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo propriamente detto
coinvolge, è la linea dei riformatori religioso-politici italiani, linea
unitaria che è insieme antiprotestante e in posizione eretica rispetto
al cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile, al
tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si
risponderà che nessuno pretende realmente affermare che la caduta del
fascismo coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma questo
significa soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che
l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica
fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso
livello, non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la
sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo
mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato
come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo»
è fatto sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a
simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono ben certo
che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula di
resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore, in
quella di «spirito di repressività. Per il significato di quanto ho
detto, valga un esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia
trovato un sostegno valido in quella parte del mondo cattolico che più
era avversa al modernismo; e in realtà, si può ben ammettere che
un'illusione vi fu, in molti dei suoi componenti; obbedienti a quella
visione cattolica dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una
condanna globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in
ciò la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come
dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro
il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e
il socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,
lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se questo è
vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di
un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi
a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo
sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto
facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che
abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi
nessuna figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si
sia, per un momento almeno, illusa su di lu (anche Salvemini e Gramsci,
al tempo dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece
l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere
considerato come il più coerente dei modernisti (in polemica con altri
modernisti per questa sua coerenza)? sia stata intellettualmente
obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come
interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di qualsiasi
parte, e invece scusabile perché motivata da illusioni quella degli
assertori dello spirito di modernità. E proprio contro quest'idea,
solidificatasi ormai come abitudine mentale, che il presente discorso è
diretto. Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità
sia sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è
intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa conferisce un
significato magico, di parola-forza, al termine rivoluzione; oggi quasi
sempre, come perfettamente osserva Monnerot, «la parola “rivoluzione” è
presa en donne part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re:
Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico prego intendere quanto scrivo alla
lettera che il pensiero di Gentile
rappresenta una svolta di capitale importanza nella storia della
filosofia, in un senso la più importante del Novecento, e lo dico senza
essere per nulla gentiliano? In quello che ha portato
all'estremo non soltanto, come normalmente si dice, l’idealismo o la sua
forma soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire,
chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si trovano,
portate all'estremo, tutte le possibili linee del pensiero
antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto di necessità che
intercorre tra la coerenza rigorosa della filosofia del divenire, e la
più radicale negazione della metafisica. Parlare perciò di una svolta
gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua
considerazione ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero
antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni per cui
non possono venire affermate dopo l’attualismo. Con l'aggiunta: il suo
pensiero si svolge interamente entro la filosofia del primato del
divenire; perciò, se si pensa concluda in uno scacco, permette anche di
definire, facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea
in cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in altre
parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia
che si parli di successo come di scacco. Che la mia persuasione sia la
seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile,
dopo un lungo periodo di oblio, non significa perciò che il suo
pensiero appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue
prime opere che, per la loro data, possono essere considerate come i
due ultimi grandi libri di filosofia apparsi nell'Ottocento, e in cui
tutto il suo pensiero successivo si trova già virtualmente precontenuto,
Rosmini e GIOBERTI e La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta
come la sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista
nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica giobertiana
resa coerente attraverso lo hegelismo, rappresenti il punto ultimo,
soltanto ora raggiunto da coloro che si definiscono nuovi teologi, del
modernismo religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato —
ma devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era ancora,
al tempo in cui ne scrissi, sufficientemente chiaro — alla sua
definizione come punto ultimo a cui deve giungere lo svolgimento dello
hegelismo nella forma della filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo rispetto
a cui il marxismo non si trova nella possibilità di rispondere.
Si dirà che, la sua fortuna anche qui in Italia — e si era
trattato, del resto, di un successo che aveva avuto scarsa eco oltre
frontiera — è andata costantemente declinando rispetto a quella di
Heidegger, e che l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo,
questo, di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività.
È vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della storia
della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche, coincide
singolarmente con quella proposta da Gentile, ma con segno rovesciato: è,
cioè, letta come processo verso il nichilismo. In questo senso, penso sia
possibile dire che la filosofia di Heidegger è la verità della filosofia
di Gentile, quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la
filosofia di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di
Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua eccezionale
importanza attuale; è attraverso il suo studio che possiamo renderci
conto della profondità della crisi del pensiero teologico-metafisico e
delle sue radici. D'altra parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci)
nello hegelo- marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.
Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di Heidegger come versione
del suo pensiero in forma di filosofia speculativa; per sottrarsi deve
tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua
opera principale Storia e coscienza di classe, al materialismo
dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero nella cui
critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei convergenti punti di
partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa occasione della questione
seguente: se la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto
ultimo dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia
della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo per
affrontarla in una posizione privilegiata in ragione dell’esistenza
dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello Spirito», Gramsci. Uso
il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle — neoidealismo,
neohegelismo, eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle
negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che genericamente
viene detta idealistica, e che è la prima filosofia dopo Marx che sia
sorta nel mondo facendo inizialmente i conti col marxismo, non può
infatti venir caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello
Spirito»: contro la metafisica per la negazione dell’intuizione
intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione alla
metafisica, che lo costringe a esprimersi come naturalismo. In questo
senso generale la filosofia dello spirito abbraccia così l’opera di Croce
come quella di Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo
del Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così Platone come
Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo
naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo assunto,
rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo del neomarxismo in Italia
dopo la «filosofia dello Spirito» non può quindi venir inteso come un
accidente, dato che è la riapertura di un problema interno al suo
processo di costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol
essere la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito,
correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si rendeva
necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di vittoria sul marxismo,
all’interno della riforma dello hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo
al massimo rigore critico, liberandolo da tutte le incrostazioni
positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche
o neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico, dato che
la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova della sua verità
filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno per lui tutt'uno. Si può
enunciare perciò il suo problema nei termini seguenti: come la
rivoluzione mondiale, perché totale, è possibile? È noto come su
questo neomarxismo circolino due giudizi opposti. Per il primo sarebbe la
forma più rigorosa che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica
che possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al
successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo sarebbe una
sorta di marxismo diminuito, accompagnante il processo di dissoluzione
della rivoluzione come sua involuzione borghese, condizione
dell’affermarsi della nuova classe borghese quale che possa essere il
successo del suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze
estreme da un comunista non secondo a nessuno per integrità morale,
BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma quel che può sembrare
paradossale e curioso (ma si dimostrerà come non lo sia) è che la prima è
vera per il non marxista e non comunista, la seconda per i marxisti
e comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il mio
punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il marxismo
contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso
può riaffermarsi dopo la «filosofia dello Spirito»; questa posizione non
può però venire assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà
storica a cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO
SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare dopo Gramsci un miglior»
marxismo, a cui corrisponda una più adeguata politica. Ricordiamo
per brevissimo accenno le tesi del marxismo antigramsciano. Esse hanno a
punto di partenza i giudizi di chi prende posto nella storia
contemporanea come il più intransigente moralista in nome del marxismo
letterale e del comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda),
e hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno dei
migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti, quello del
marxista eterodosso Riechers. Riechers, che pure non mostra di avere una
conoscenza approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di
accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del marxismo a quella di
Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano teorico critica Gramsci per aver
sostituito al materialismo marxiano un idealismo soggettivo di stampo
kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe sul
piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di sinistra. Scrive,
infatti: «Questi fascisti di sinistra la maggior parte dei quali confluì
dopo la fine del dominio fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno
soltanto da sostituire l'attributo fascista con quello di
democratico, socialista o comunista, per scoprire negli scritti di
Gramsci una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la
frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci
appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo, di cui fascismo e
postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso
orizzonte; e lo stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio
degli antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un
errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno studio
approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del Riechers, portandola
a un altro significato che coinvolge la critica anche dell’eterodossia
marxista. La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi
la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi stupefacente. Soltanto
la discussione del tema Gentile-Gramsci ci mette in grado di formulare
adeguatamente le categorie interpretative della storia
contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento
conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione transpolitica
della storia contemporanea, cioè quella che privilegia, in detta storia,
come l’essenziale, il momento filosofico; o che è attenta al parallelismo
tra filosofia e politica come tratto nuovo che la
specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma
italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di detta storia
(dato che Gentile e Gramsci possono trovare spiegazioni soltanto nella
storia del pensiero italiano). Si tratta, del resto, di paradossi
soltanto apparenti. Il carattere che accomuna le filosofie di Marx e di
Gentile è di essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel
senso della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il
più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe le
filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di riaffermare il
marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione rigorosa della
questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie
interpretative della storia contemporanea, e della possibilità di
graduare, nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento
di verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale
problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia contemporanea non è altro
che il passaggio alla realtà di queste due filosofie della prassi. La
rivoluzione marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro,
l’idea di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione
russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e cultura, o per
essere più esatti, per grado di modernizzazione. Non a caso questa idea
maturò soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di
riforma dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la
guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la filosofia di
Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta
fino alla morte caratterizza pure le forme divergenti sorte
sull’orizzonte del marxleninismo). Poniamo ora si riesca a dimostrare —
ed è l’assunto che mi propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è
più marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo che la
politica che esso promuove prende posto in una rivoluzione ulteriore alla
marxleninista, non già, cosa che Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui
esplicitamente lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché
il modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi
occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se,
nonostante l'opposizione mortale, non si debba vedere una continuità tra
il periodo fascista e il postfascista, come continuità di un processo di
dissoluzione. In termini filosofici, se la filosofia del primato del
divenire, dopo aver elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta
al suo punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di
processo verso il nichilismo. Trasportiamo la considerazione sul piano
mondiale. Se l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della
filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia, nel
senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha trasformato il marxismo in
ideologia). Perciò la rivoluzione che esso ha promosso ha dato luogo alla
forma estrema dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico,
con cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo
sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la forma
filosoficamente più rigorosa, non realizza la rivoluzione, ma il suo
opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però
produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si osserva il
fatto che la contraddizione della filosofia della prassi, come termine
ultimo della filosofia del primato del divenire, non può esplicarsi che
storicamente e praticamente. È In dipendenza delle
considerazioni sinora svolte, la trattazione presente deve articolarsi in
tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx, perché la
filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di ritraduzione del
marxismo in forma di filosofia speculativa. Ossia, egli pensa di aver
compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui
muoveva, ora come il positivismo, ora come la filosofia
teologizzante, o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la
proposta della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora
come l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il
marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di vincerlo.
Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo emergerebbe nella sua forma
più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la
filosofia di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia
speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la
filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si può
dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque, nel suo lavoro di
«ritraduzione storicizzante» non incontra Marx, ma invece Gentile, pur
credendo di incontrare Marx. Questa tesi può avere la sua riprova nel
fatto che le novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto
a Lenin — novità che nessuno può negare — non possono trovare
spiegazione come sviluppo del marxismo o del marxleninismo, mentre invece
si accordano con la forma gentiliana della filosofia della prassi
(rappresentano il cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci
essersi illuso di aver ritrovato il marxismo, se anche un marxismo
diverso dal marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera,
anche dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre
distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana, dall’interpretazione
che lo stesso Gentile ne aveva dato e dalla politica con cui l’aveva
connessa. Effettivamente anche un’altra ne è possibile, quella svolta da
Gramsci. Si tratta quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e
più precisamente nella veduta attualista della storia della
filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il
risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al
rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione che si
rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione che si rovescia
in dissoluzione è: «contestazione. Non è un caso che Gramsci sia forse
l’unico filosofo marxista la cui fama abbia resistito alla contestazione
nelle sue forme anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se
dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la filosofia del Croce
rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di
trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, ha
poi storicamente torto nell’identificare col marxismo la filosofia della
prassi che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea
dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario sempre presente
alla mente di Croce, anche se ossessione quasi sempre sottaciuta; perché
la tentazione rivoluzionario- marxista era stata accesa in Croce da
Labriola, e poi criticata senza troppa difficoltà in questa forma
labrioliana, e i motivi della critica rivoluzionaria si erano rovesciati
nella critica della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto,
con Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo
Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al moralista che
nella prima gioventù gli aveva fornito un purismo etico, giovevole come un’armatura,
onde egli mi rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato
dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e
dall’utilitarismo che stava sempre nel fondo di questi tentativi, ma al
filosofo che aveva sentito l’importanza della distinzione; e affermato
una linea che porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia
del momento economico alla hegeliana riconciliazione con la realtà.
Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata, ma che la
corrispondenza rende chiara del Gentile de La filosofia di Marx è di
portarlo al suo pensiero attraverso una considerazione del marxismo più
profonda di quella di Labriola, condizionante una critica più rigorosa di
quella di Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda
di quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si
atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle esigenze
spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da spiegare perché
questo tentativo doveva andare fallito; separando Croce le accettate
critica dell’intuito metafisico e affermazione del formalismo — che
rendono possibile anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un
tempo dalla metafisica e dal naturalismo dalla filosofia della
prassi. In quegli anni Labriola e Gentile si contendono CROCE, senza
riuscire completamente né l’uno né l’altro nel loro intento; e senza
intendere appieno, né l’uno né l’altro, le ragioni della
resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se
rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce e di
Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua ritraduzione, avrebbe dovuto
ritrovare Gentile, o ripensare in forma attualistica il marxismo, dato
che la filosofia di Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia
speculativa, non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile.
Avrebbe dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo
detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe
infatti darsi che Gramsci avesse condotto un parallelo tra lo storicismo
marxiano e il crociano, mostrando la superiorità del primo, e avesse poi
voluto far coincidere questa ricerca con la dimostrazione che il
ripensamento italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere
con la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero
essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della seconda non
inciderebbe sulla valutazione della prima. Non è tuttavia così, e
realmente quel che Gramsci chiama marxismo è il risultato coerente della
ritraduzione di Croce, così coerente da ricostruire dopo il
crocianesimo l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo
originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La prima è la
coincidenza puntuale tra la critica gramsciana dello storicismo di Croce
e la gentiliana. La seconda è la formulazione nuova che in Gramsci trova
il concetto marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra
cui quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo
marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, #
inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire che l’invito
che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece recepito da Gramsci. La
quarta è il modo in cui è inteso il blocco storico. La quinta è il
giudizio sulla funzione capitale accordata alla filosofia italiana nel
processo di modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza
da Lenin rispetto alla nozione di egemonia. Per gli ultimi
cinque di questi punti, se ne trova la miglior conferma in uno scritto
che Norberto Bobbio ha dedicato a Gramsci e la concezione della società
civile e che è il più penetrante nella linea, per dir così,
gramsciano-azionista, che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto
riforma del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo,
dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la scarsissima simpatia
per Gentile e che non pone infatti la domanda essenziale: se quella che
pur chiama «la profonda innovazione che Gramsci introduce in tutta la
tradizione marxista possa essere considerata uno sviluppo del
pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della critica
gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato l'assunto di tradurre in
linguaggio storicizzato il pensiero speculativo di Croce. È piccante
osservare come le precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano
più avverso a Gentile rappresentino le tappe per la dimostrazione
rigorosa del cedimento in Gramsci della filosofia della prassi marxiana
rispetto alla gentiliana. Cominciamo con l’osservare come la
critica gramsciana dello storicismo crociano coincida puntualmente con
quella svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al
divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che questa
sostituzione coincide con quella del divenire reale con un divenire
dipinto; che la «non definitività» della filosofia ricopre di fatto la definitività
della società liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in
realtà chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per
usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente sostituito
all’apologetica diretta dell'ordine esistente un’apologetica indiretta.
Che lo storicismo di CROCE, come storicismo separato dalla filosofia
della prassi e dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo
chiuso al futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui
Gentile conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo
e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza perfetta. Gentile parla
dello storicismo crociano come appoggiato a fondamenta semplicemente
dipinte, perché all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti;
così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il futuro
preveduto o comunque pensato come un qualunque possibile futuro, è
logicamente un passato rispetto al pensiero che lo raffigura nel sistema
necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda che
Gramsci introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in
questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società civile
vista come appartenente non al momento della struttura, ma a quello della
sovrastruttura; cioè per Marx la società civile, intesa come «il vero
focolare, il teatro di ogni storia», comprende secondo la definizione
dell’Ideologia tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica,
tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui
all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive.& Affermazioni che sono la premessa della celebre
definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi rapporti
di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la
base reale sulla quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla
quale corrispondono forze determinanti della coscienza
sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca
tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della
struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee come
riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per «società civile» tutto
il complesso delle relazioni ideologico- culturali della vita spirituale,
si rimette la dialettica sulla testa, sia pure in modo diverso da quello
che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia
economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia della filosofia.
È quel che attesta il passo gramsciano così frequentemente citato,
secondo cui «la filosofia della prassi è il coronamento di tutto questo
movimento di riforma intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto
tra cultura popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma
protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è anche una
politica e una politica che è anche filosofia».& Detto questo, le
altre novità gramsciane che BOBBIO mette in luce con tanta precisione non
possono servire ad altro che a illuminare meglio la coincidenza tra il
distacco di Gramsci da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la
sua, certamente non voluta né consapevole, subordinazione
all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero
di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul
concetto di storia della filosofia, in cui la storia, in obbedienza, per
così dire, al mondo rimesso sulla testa nel giovanile libro su Marx,
viene risolta nella storia della filosofia. Con la conseguenza, per
Gramsci, che il concetto «borghese» di «modernità» si sostituisce alla
versione rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla
base della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente gramsciano
tra la borghesia progressiva e il comunismo, quell’incontro così
severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma non da Bordiga
soltanto. La novità rispetto all’idea della società civile è
correlativa all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO
acutamente avverte, senza però osservare che avviene esattamente nei
termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non
nascono dal cielo» era equivalente alla loro spiegazione a partire dalla
struttura economica, secondo la notissima sua frase per cui la
struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i modi di
regolazione e di soggezione degli uomini verso gli uomini (il diritto, la
morale, lo stato), 1 secondo luogo e per indiretto gli obiettivi della
fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della
scienza». Le idee non nascono dal cielo neanche per Gentile e per
Gramsci; ma le concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni
una funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un
potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era appunto il
senso del congedo del materialismo marxiano — dell’ antDibring in nome
dell’elemento più positivo e rigorosamente critico delle tesi — proposto
dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile
porta alla critica dell’economismo a cui consegue quella del
materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da economismo; ma non
è una definizione che vale esattamente per l’attualismo? Con un paradosso
soltanto apparente si potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a
Croce da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato
Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco
storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti gramsciani
siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo fondamentale» del
gramscismo. Ebbene, in due di questi pochi passi si dice che nel «blocco
storico» le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma,
affermazione a cui Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che
la distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica,
perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza
forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze
materiali; così che l’unità-distinzione tra la struttura e la
sovrastruttura viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito.
Frasi di cui è inutile sottolineare l'accento
attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana
sul primato italiano nella promozione della rivoluzione comunista a
rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del popolo italiano è nella
ripresa «del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella forma più
moderna e avanzata» non in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto
a dire è nella continuazione, nella forma che si è detto, della
filosofia dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più
alto sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla
sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere mondiale della
rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi
al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di società civile ha
tra l’altro la funzione di permettere, attraverso una giustificazione
filosofica, la fondazione in linea di diritto della novità del leninismo
rispetto a Marx: la nozione di egemonia, ossia l’idea del partito
come strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva
parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in ciò oltre al
marxismo nella direzione volontaristica e partitica; per Gramsci bisogna
subordinare questa direzione politica alla direzione culturale. Si
potrebbe dire che il progresso politico di Lenin su Marx importa
filosoficamente per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che
può trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima
alla seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto che
meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione. Anche se non si
possono trovare citazioni precise, credo si possa considerare pensiero
centrale di Gramsci quello che la riforma teorica del marxismo
conseguente alla riforma italiana del pensiero classico tedesco rende
anche possibile la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti —
non sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si va
fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella di Stalin e
quella di Trockij. Perché si può dire che in entrambe egli dovesse vedere
la conseguenza del non risolto problema leninista; nello stalinismo
prendeva la forma della subordinazione della teoria alla pratica, con la
conseguenza della trasformazione del marxismo in un’ideologia di
potere che doveva, in definitiva, portare al
social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non
troncare il processo rivoluzionario non poteva trovare
soddisfazione sino a che non si fosse elaborata una filosofia
rivoluzionaria con significato veramente mondiale. La
priorità della direzione politica poteva cioè portare alla formazione di
una volontà collettiva, nel senso di volontà universale, solo a
condizione che fosse subordinata a una concezione del mondo, non più
usata strumentalmente, ma valida perché vera, tale da imporsi agli
intellettuali. Ciò aveva portato alla delusione degli stessi
intellettuali marxisti occidentali rispetto al comunismo russo, e alla
loro solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici
nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse fenomeno russo e
non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa
impressione deve essere inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione
del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere
dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente critica del
marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr ewig [per sempre] a cui
egli si accinge dopo la sconfitta politica e a cui lavora negli anni del
carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,
alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso
sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può confessare, e che
non può confessare perché è insuperabile. Ora, soltanto #/ necessario
cedimento di Gramsci rispetto a Gentile ci permette di definire questa
insuperabilità. Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono
per il marxismo filosofico che due vie: o respingere assolutamente
tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o trasformarsi nel senso
gramsciano. Finché si porti l’attenzione sul solo Croce, la tesi del
marxismo di Gramsci può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà,
essere sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere
sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di
soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la forma più
liberale che il marxismo sia suscettibile di assumere. Le cose cambiano
completamente, come si è visto, quando si ponga il problema del rapporto
con l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile
perché sia marxismo che attualismo si presentano come l’esito della
filosofia classica tedesca. Bisognerebbe dimostrare che l’attualismo è
un’involuzione, ma dove ravvisare l'elemento involgente? La
considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del
pensiero marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso
sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,
nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del cattaneismo oggi
corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche
definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano. Ha ragione
quando afferma che il neomarxismo di Gramsci non è effettivamente più
marxismo; non però perché contagiato da influenze che avrebbe subito, in
qualche modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il
modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si deve invece
dire che rappresenta esattamente quel che il marxismo deve diventare
quando vuol prendere posizione rispetto alla «filosofia dello Spirito»
italiana. Meglio ancora: come già si è visto, l’originalità
incontestabile del pensiero gramsciano, quel che ne fa il più notevole
tra i commenti filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che,
richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema
dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non
venga riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale
importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica di sinistra
non può procedere oltre dopo il rilievo del nonmarxismo di Gramsci: la
sua verità rispetto a giudizi di fatto abbisogna di una diversa
giustificazione teorica. Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat
come ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,
le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che riguarda le
conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la
forma di marxismo critico che possa venir sostituita alla posizione di
GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione
nel senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare tutte
le forme in cui sinora si è realizzata o si propone. Quanto si è detto
porta al non piccolo risultato del riconoscimento di un’impotenza non
superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del
marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto nello scacco
dell’attualismo, da intendere non come scacco- fallimento, ma come
scacco-occasione di una svolta nella storia del pensiero. Ogni altra
critica appare esterna rispetto a questa: che mostra come, percorrendo lo
svolgimento dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non
si possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale portata
sia questa critica ci accorgiamo considerando come quella che si potrebbe
chiamare «prigionia gramsciana del marxismo nell’attualismo» porti a
rovesciare la rivoluzione, nel senso marxiano del termine, in
dissoluzione. Non è senza significato che oggi si affacci l’idea che la
contestazione (definibile appunto come rovesciamento della rivoluzione in
dissoluzione) abbia compiuto un’opera selettiva tra i teorici del
marxismo, risparmiando il solo Gramsci come elaboratore dell’unica
strategia capace di render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi
occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di GENTILE e di
GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo di GENTILE come il
comunismo di Gramsci può portare a una visione della storia contemporanea
diversa dalle abituali. Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di
sentire una certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi
si trattasse di un tema su cui fosse preferibile non
insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere
nella funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,
nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque, data la prossimità
di posizioni filosofiche, il fascismo di Gentile e l’antifascismo di
Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità
politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al riscontro
testuale. Tali possibilità sono due, la risorgimentale” e la
rivoluzionaria. La prima si imparenta alla sua interpretazione in termini
di «filosofia cristiana». La grande cesura nella storia sarebbe
rappresentata dal cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo
al soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,
in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da questo e in relazione
alla sua critica del materialismo marxiano, da lui associato con l’idea
rivoluzionaria, GENTILE può pensare a un Marx oltrepassato in GIOBERTI
(si veda), e all’idea di rivoluzione oltrepassata in quella di
Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica. Risorgimento
che viene conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale
alle posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti
al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e amoralismo, spirito
rivoluzionario, negazione della tradizione. Da ciò lo sganciamento totale
del Risorgimento dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione
francese e la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di
vera restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non come
semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa e affinamento di una
tradizione, dopo che essa era stata messa in crisi, così che potremmo
complessivamente dire che per Gentile spirito risorgimentale ha il
significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come spiritualismo
purificato da ogni traccia di naturalismo e di soprannaturalismo insieme,
essendo il soprannaturalismo per lui, per così dire, una forma di
naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo dal suo
carattere «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo
autore gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per
quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia
(particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione pisana
L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia: tutte le concezioni del
mondo prima dell’attualismo si sono mosse nell'orizzonte di una realtà e
di una verità presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di
un processo di erosione della concezione oggettivistica e
trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»; ciò non
toglie però il salto tra esse, e il rigoroso immanentismo. L’attualismo
non è soltanto il punto d’arrivo di un processo millenario, ma una
rivoluzione; e il passo ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi
vedesse questo; la rivoluzione filosofica attualista,
perfezionamento del marxismo, poteva ben congiungersi con la
rivoluzione comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o
evoluzionistiche del marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo
interpretato da Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora
la domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo, di
soggettivistica filosofia della prassi, non porta al rovesciamento
dell’idea di rivoluzione in quella di dissoluzione? Cioè al nichilismo
che è il termine esatto per indicare questo rovesciamento? A parlare del
nichilismo non può non venire in mente la diagnosi di
Nietzsche: l'avventura della rivoluzione a contatto con l’attualismo può
servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a sormontare il
nichilismo. È qui che si manifesta massimamente quell’enorme potere di
negatività, che è il proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole,
direi che l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio
per questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette in
primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta importanza la
sua definizione abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza
gramsciana nell’ultimo quarto del Novecento è stata enorme, solo
paragonabile a quella della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di
intellettuale che oggi prevalgono sono quello del dissacratore
o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico; quale
rapporto hanno con la figura gramsciana dell’intellettuale organico?
Rispondo che sono il frutto della sua decomposizione. All’intellettuale
era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che
Marx assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,
libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in funzionario
dell’industria culturale, dipendente da una classe di potere che ha
bisogno così dell’intellettuale dissacratore (quale custode del
nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non
è del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si
configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte l’economismo,
l'opposizione diventerà quella tra intellettuali tradizionali e intellettuali
progressivi. Come storicisti, questi non potranno più parlare in nome di
un socialismo utopistico; neppure però di un socialismo scientifico,
dato l’abbandono dell’aspetto
materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente
in nome della storia come processo di
autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave
illuministica porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo,
dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la conseguenza che
l’intellettuale progressivo prenderà la figura dell’intellettuale
dissacratore: del devalorizzatore dei valori finora considerati come
supremi. Quella rivoluzione per erosione, e non per rottura brusca, che è
poi la «guerra di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica
rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una
dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei valori ideali che
lo fondano, così che viene chiusa la via a una loro riaffermazione
purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di questo
possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che avrebbe detestato
gli intellettuali profittatori dei connubi tra marxismo, psicanalisi di
sinistra e decadentismo sadico. Ci si può render conto di questa assenza
di previsione, se si pensa alle circostanze politiche che furono
l’occasione della sua riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è
la persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la
rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto attuarsi in
Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto imprevisto del
fascismo che attrae a sé il consenso della maggior parte di questa
cultura; in diversi gradi, ma praticamente è sufficiente il giudizio
della sua minore pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo.
Per il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare
all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso l’unica
via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo
più originale deve portarla all'incontro col marxismo autentico, o, per
dir meglio, alla sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il
creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a punta, ma
che è vera, quando venga bene intesa. Senza la cultura gentiliana il
fascismo non avrebbe potuto prender forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI
e il creatore dell’antifascismo, quando lo si distingua
dall’opposizione mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE,
per esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del
fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi naturale che,
trasportato in una situazione in cui il fascismo non sussiste più,
l’antifascismo non possa esplicarsi che come fenomeno dissolutivo. Per
esprimere tutto in una rapida formula, direi che, visti nella loro radice
filosofica, fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui
quella filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel
farsi mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo
necessario che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della
rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole assegnare al
termine materialismo un significato soltanto metaforico (al di là del
mondo storico non c’è nulla), ne è la completa riprova: la funzione
primaria data agli intellettuali come all'elemento attivo e unificante e
al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà
alla captazione borghese-illuministico-modernista. Osserviamo
infatti. In questa concezione storicistica gli intellettuali possono
operare soltanto come dissolutori delle verità eterne, svolgenti perciò
una critica che include quella dell'aspetto escatologico del marxismo. Il
momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal positivo
e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente, dei valori ideali
che lo legittimavano. Esercita un’azione dissolutiva che non distrugge le
classi, ma porta al dominio di una nuova classe, che tratta ogni idea
come strumento di potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro,
più razionalmente organizzato, del dominio di classe. Si trova una
precisa conferma a questa tesi se si porta attenzione alle cose più
pertinenti che siano state scritte negli ultimi anni, così su GRAMSCI come
su GENTILE. Così, è stato giustamente osservato da Riechers come il
socialismo si riduca fondamentalmente per GRAMSCI a un modo di
produzione capitalistica separato dalla figura dell’imprenditore e in cui
il funzionamento del piano è controllato dagl’intellettuali organici (la
nuova classe); e che per lui sembra esistere un’economia indifferente
alle classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova
impedito da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione
è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo lavoro è
svolto a definire l’idea, in questo significato scissionistico; di fatto,
questa purificata idea rivoluzionaria è destinata a rovesciarsi nel senso
che si è detto. [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti
storico-politici opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica
tra MAZZINI e Marx. Si conclude però nel modo più singolare,
estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come per il
politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia della prassi,
rivoluzione totale e materialismo; l’approfondimento gentiliano della
filosofia della prassi porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI
tenta vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale
dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle
discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica
decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero italiano di
portarsi al livello più alto del pensiero mondiale. È un giudizio da
rettificare piuttosto che da escludere; a parte la consapevolezza che
egli stesso o altri abbiano potuto averne, il protagonista della grande e
insolubile crisi del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene
effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile tra
l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di BORDIGA (si veda),
che è costretta al marxismo letterale, e non può raggiungere una
formulazione teorica seria, proprio perché non ha affrontato Gentile, ma che
è nonostante ciò sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo
di GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,
all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea marxiana
della rivoluzione totale, autocritica che si esprime nella forma di
rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di GRAMSCI ne è la decisiva
conferma. Se è vera la prospettiva che ho enunciato nel mio libro su I/
problema dell’ateismo, secondo cui il razionalismo, inteso come negazione
senza prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della
rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In ciò il
senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE
rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords:
saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi,
Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Noferi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della setta di Firenze – la
scuola di Firenze – filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze).
Filosofo Fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Important
Italian philosopher, especially influential at what Grice called Italy’s
Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I
would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio
dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza
accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far
istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne
di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto,
commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica
di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto
irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la
sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a
Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da
Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari
e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione
strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di
fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con
uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a
lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato
o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura,
e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile,
Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima
l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate,
cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo
comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della
“liberta”. In questo e diverso d’Albizi.
Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che
avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei
gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli
avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito
anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi
conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di
filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali
più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più
importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due
fiorentini come Giotto o Donatello. Lascia la sua raccolta di libri rari,
arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di
Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto
nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino
per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di
Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to
philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He
loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in
Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers,
since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never
touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords:
“Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an
exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi
Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Nola: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – la scuola
di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud
of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their
physicians, as they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di
Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto
per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem
speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli,
Elementi dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S. Renzi, “Storia della medicina” (Napoli,
Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina,
Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio
storico di Crotone. 1, quem ad modum
Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm
iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor,
et scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore.
Med. Doctore scientias ac artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia
muerè scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso
contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror,
impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere
scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, et unicuique
sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit
quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i, qui uel omnino inertes
fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non
est fidgeipfierrent, et alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret
(utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere,
fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et
bique fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam
quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria,
ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint,
pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa
Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent.
Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores
patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos
animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut
discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ
fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint.
Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem,
nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector,
liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon
foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum Plusquam commentatoris, tum
etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile,
longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM ægrorumý; corp. biqueconsentire, e
nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto ses utipfeait. quod sita fieretnequehic
incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo
neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus
male eruditusac impulsus, eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas.
Quas omnes passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor,
quod huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque
reliquiin posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia,
Artisg; medicæ apprimè necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim
dicam, universam pene medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem,
uteaquæa doctissimoac Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta
sunttuear, sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et
reliquaomniaque hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et
rationibus comprobata, ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis
etiam aliorum do tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea;
primus omnium quosuiderim, propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo
iudicio, ueritate mattigerint, et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores
calumniasset, quorumnca quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret
cunéta quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam
desedimentosentit, quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et
Gal. sententia demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag.
conscriptos, manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis
modă. Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords:
Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig,
brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ –
universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e
Nola” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Sperana -- Grice e Noto: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di IVPITER – la scuola
di Noto -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Pollina, Palermo,
Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there –
are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack
thereof for God – the part concerining the refutation for those who deny
evidence is fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows
down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly
existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del
Bosco ai Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e
professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo,
Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato
sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e
il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi
superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma
di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel
periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia"
(Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove
insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in
Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si
trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse
alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in
Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per infermieri
dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un laboratorio
linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle lingue. Deceduto
nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da miocardite in
diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male nella notte
dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva tenuto
lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi. Alle 18
andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua inglese per
adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico cardiologo che ordinò
il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata stroncata da un
complesso attacco cardiaco polmonare. Ai
funerali, presieduti dal Padre Provinciale nella Chiesa di San Francesco in
Figline erano presenti tanti religiosi e sacerdoti, i parenti, molte suore
oltre che un grande pubblico di studenti e popolo che riempiva la chiesa. È
stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento di Giaccherino Convento del
Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di Sargiano Montemurlo L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo
XIII. Grice: “Noto is
playing with his surname. There’s no ‘significare’ in Italian. They use
‘notare’ – Now, how is God signified? When Cicero said ‘god’ he meant Jupiter.
Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede was killed in self-inflicted
accidental with a boomerang. Her mother said: “His corpse is here, but he was
raped by Giove --. Taking this narrative literally – Ganymede was RAPED, so the
rape is the way the god gets ‘noted’. Noto. Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Novara: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
d’Euclide – la scuola di Novara -- filosofia piemontese – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Novara). Filosofo italianao.
Novara, Piemonte. m. Viterbo. matematico, astronomo e astrologo
italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche Bacone lo cita
come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano è conosciuto
anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un Johannes
Campanus anabattista belga del Cinquecento). Elementa geometriae,
Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato
un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento
all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il
testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia
(Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione
in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente
presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano
IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne
parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale
di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso
Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica
Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo
per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e
dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī). Dopo
trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori
filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare,
stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una
ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli
ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di
cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua
splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale
abitò negli ultimi anni della sua vita. Di lui ci restano l'Abbreviatio
equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus
maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i
commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui
attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere
astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome
un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il
cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.
Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis
S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University
of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura,
Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di
Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University
of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia Portale
Astronomia Portale Biografie Portale Matematica
Categorie: Matematici italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a
Novara Morti a Viterbo Astronomi medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara.
Novara.
Luigi Speranza -- Grice e Novaro: la ragione
conversazionale e implicatura conversazionale ligure -- l’infinito del ponente
– la scuola di Diano Maria -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Diano Maria). Filosofo ligure. Filosofo italiano.
Diano Maria, Liguria. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La
riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of
the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da
famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi
liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore
comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel
locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla
madre Paolina Sasso. Pur dedito
all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo
anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino
alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli,
Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.
Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie,
che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume
intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore
dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto
di carattere etico. Saggi: “Finito ed iinfinito”
(Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura
ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure
Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro,
su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro.
Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione
novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana,
uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una
definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e
tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il
rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e
si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando
si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere
eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz.
Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz.
Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of
Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è
lasciato intatto il mistero che sembra involgerla. Già tutti i concetti
che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici
dovettero per questo attendere a lungo prima di venir trattati in
corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si
ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare
applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo,
l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle
difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame
degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti
secoli prima della ripresa della questione per Locke, trattarono il
problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la
loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di
Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello
spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i
tropi dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der
That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht
werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut,
und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen
Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge,
welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart
bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati della
estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti
ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a
confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le
esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a
riconoscere evidentemente per tali. E più d’uno nel confutarli à seguito,
come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu
infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche
Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire
che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa et i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni
svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare a far uso del
concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di
Antifontem continuarono a lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare
alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito”
non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha
seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i
suoi cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non
avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente
giustificarlo, nè dargli un denotato preciso, si che egli molte volte ha
a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio
Èrtovi come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto
per il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr.
Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung
dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue
Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele
Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito”
in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il LIZIO dà una divisione
dei vari generi di infinito, che come sempre 0 spessissimo presso lui è
più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione
oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*,
il quale nasce dal non trovar la nostra immaginazione alcun limite così
nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice
Aristotele, non è grandezza nè à parti così, come il suono è per sò
invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non esiste dunque in realtà, perchè non v’ è
grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede
dover evitare rigettando il concetto dell’infinito attuale è appunto
nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe
così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li
Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris,
Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.] juersi
sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non
riuscirono a chiarire i loro concetti riguardanti l’infinito trascurando
la maggior parte di aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che
incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si sono del pari in
grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di
rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso.
Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito
tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più
razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in
fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia
infatti alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se
si diano propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene
pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per
arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito
rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e
Schriften, Gerhardt I', dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi
come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli
parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto
incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo ivi. Infatti dopo
l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di
Berlino, presieduta da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva
un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On
demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en
mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage continuel des
infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les geomètres et
meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut ce qui approche
de l’infini, et des grands analystes modernes avouent que les termes
grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou- haitc donc qu’ on
explique comment on a déduit tant de theorèmes vrais d une supposition
contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad. des
Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico
filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche dilucidazione
definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse
à dato una cosi bella e tuttora insuperata sistematica trattazion
generale, non solo non fa fare un passo alla questione, ma
neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di
Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono
cosi i filosofi che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si
direbbè che lo fa in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente
cangiato li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come
egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli
stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito
di Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande nel
processo formale dell’animo, l’aver dimostrato come un tale concetto sia
solo propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio.
Con ciò ogni nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era
reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di
grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando
della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il Duhnng à
finalmente completata la razionalizzazione di [ Leibniz, passo
citato, Gerhardt e Montucla, Histoire des mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia
può sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de
ne s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure
de 1 etendue et du movement.” Locke,
On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring
costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi
filosofici. Soltanto- nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad
una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo.
La sua dimostrazione è però geometrica, e non insieme algebraica. Manca
quindi di generalità. Cosi si spiega come Diihring ritenga ancor ora
inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à
assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel
passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito non viene dapprima
reso chiaro e incontradittorio nella matematica, la rocca in apparenza
più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La
nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto
d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno
comuni le radici o i principi e la matematica e la logica.
La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa,
ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si
cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*,
sia che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non [Nat Uri
iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione
è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo,
malgrado il viro desiderio di molti suoi ammiratori, quali per un esempio
v. Gizicky e Riebl. Vedi specialmente dello stesso, nei “ Xeue
Grundmitteln u. Erfindungen zur Analysis, ecc. il capitolo terzo.
L’analisi critica dell’infinitesimo ivi data riassumiamo noi brevemente
nel numero seguente, modificandola però nel senso della corretta legge
del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und KVssenschaftstheorie,
è un differente problema quello di Senone di Velia, da quello che occupa
a cosi grande distanza di tempo i matematici dal seicento in poi. In tutti
i problemi riguardanti il concetto di “infinito”, le difficoltà ànno la
loro comune radice nella contraddizione fondamentale nascente dalla
posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito* stesso.
Cosi l’infinitesimo, e già prima l’indisivibile di CAVALIERI, e pensato
assurdamente quale risultato di una infinita divisione, o come l’elemento
più piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra ogni
grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità data e pensato
l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni data grandezza l’infinitamente
grande, arrivando anche qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile
per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque
piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di intermedio. Questa
ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata quantità
per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore d’ogni
quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo irraggiungibile grado
di piccolezza immaginabile e prima dello zero. Minore d’ogni quantità
assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di “momento”, già Hobbes define
il conatus (concetto che doveva poi diventare il fondamento della teoria
newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di qualsiasi assegnato. Hobbes
conserva, però, malgrado l’equivoca definizione, come dell infinitamente
grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo un giusto concetto. Di quest’ultimo
haa intesa infatti a essenziale relatività. V. De Corpore. Delimemus CONATUM esse motum per spatium et
tempus minus q’uam quarn bile è però soltanto lo zero; una quantità non
può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza. Tra la
quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione. A meno che il dire
“minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est determinatur, sine
expositione vel numero assignatur ìaest per punctum. Ad eius definitiouis
explicationem meminisse oportet per punctum non intelligi id quod
quantitatcm nullam habet, sive quod nulla ratione potest dividi (niliil
enim est eiusmodi in rerum natura) sed id cuius quantità non
consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta inter
demonstrandum computatur. Ita ut punctum non habeatur prò IN-DIVISIBILI.
Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non
prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita mtelhgendus est, ut sit quidem
motus sed ita ut neque tempori in quo fìt neque lineai per quam fit
quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis
vel line cuius ipsa est pars. Quanquam sicut punctum cura puncto, ita conatus
cum Canata comparaci potest et unus altero maior vel minor
reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto
dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur moindre que toute
grandcur donnée de la meme nature. On est conduit naturellement a ridde
des infiniment petits, lorsqu’on considère les variations successives
d’une grandeur soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par
des degrés mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque
petit quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un
corps croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne
peut fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les
positions intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance,
aussi petite qu on voudrn, entre deux positions successives. Les
infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement
un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione
non pochi matematici, quali Bernouille
“oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo.
Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il continuo esteso
in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar poi il modo di farlo
generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi
Lasswitz, Galileis Thieorie der Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph., a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di
dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita
divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni
qualunque piccola quantità data. Come nella serie dei numeri noi possiamo
(prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità,
cosi possiamo farcene uno della possibile divisione
dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che
il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai
compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai
senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto
oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già compiuta,
che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente quale
totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito
come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO
IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso
dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni
possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur
sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge
formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der
bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn. edizione Kirchmann. Sohald
etwas als quantum discretum angenommen wird, so ist die Menge der
Einheiten darin bestimmt, daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring
però, e qui sta il grave errore della sua teoria dell’infinito, à
tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come
diciamo noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come
totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una
qualunque data comunque già piccola per sè. La illimitatezza riposa sul
concetto della infinita possibilità della ripetizione, non è dunque un
concetto di effettività, ma di mera possibilità. Il moto nevi realizza
come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità
di parti nel finito. Moto non è che il concetto di ciò che la
stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un
altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di
posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la
cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro
concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo,
ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere
senza limite alcuno. Ma effettivamente nè la natura nè noi possiamo
fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un
punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro punto
fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento
assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente,
se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di
infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo
una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente
aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o
coincidono, o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata
distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque
noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare
unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa
illusione è nel dire che una quantità cresce per gradi minori
di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m matematica le
quantità continue crescono per gradi e che ogni nuovo incremento
elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più
piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà
bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che è solo della
facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le quantità non constano di
elementi per sè esistenti, e che invece noi solo distinguiamo in esse
delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il
concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude
solo la possibilità di un infinito porre di limiti, ma non una infinità
di limiti posti. Esso è quindi come quello dell’infiuitamente piccolo un
concetto di pura posibilità. La illimitatezza nella scomponibilità
in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una
qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di razionale s’ à a
sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene
evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di
azione del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è
inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di ogni altra
assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma
pur reale di una infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo
o infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento.
1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza
finita relativamente piccola, la quale nel complesso delle operazioni può e
deve rappresentare ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per
eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come infinitamente
piccolo, essere secondo le circostanze un milionesimo di millimetro
ovvero una distanza solare. L’essenziale non istà in queste eventuali
determinazioni, ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza,
scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano
nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite alcuno sempre
più piccole verso lo zero. L’ infinito o la illimitatezza non è dunque
ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa
grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo.
Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del calcolo, non à più
ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per
quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente
piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma
si noti bene- non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione
infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità insignificanti che
loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti più acuti procederebbero del
pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che
nelle [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr.
Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte:
Cours de philosophie positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato
una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza alcuna.
Accanto a quantità finite si trascura nel risultato e con ragione, un
infinitamente piccolo, poiché è nella sna natura di poter venire senza
fine rimpicciolito verso lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo
e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito rimpiccoliinento,
e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà sempre finite,
comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più piccole
verso di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente
grande si à analogamente a distinguere tra [Non altro significa il
luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non
arriva a dar l’ultima chiarezza alla nozione dell’infinitesimo. Infatti
non avrebbe altrimenti creduto vi fosse bisogno (per dimostrare come i
risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà
esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale,
anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi
frantese affatto ciò che di veramente importante e duraturo conteneva lo
scritto di Carnot, e ravvisa così il merito di lui appunto nella
dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive),
la teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile
che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne
definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però non venne
schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli dispute a cui
diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che
avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo.
Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta
strada nelle menti dei matematici. Ma non basta questo a razionalizzare
l’infinitesimo. Dove colla relatività di esso si ammette però ancora (v.
ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni
quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.
questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza
qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro
il concetto proprio di grandezza è scomparso. Il non aver distinto
questi due concetti non à forse meno contribuito della contraddizione di
un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del
differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili
difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde
perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza
fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi i casi ci è data
la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come
compiuta, poiché essa deve rispondere alla illimitata possibilità di
ripetizione- del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per
quanto piccola o grande di cui non si possa sempre raggiungere un’altra
ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto
di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già
grande, può senza fine venir considerata ancor sempre più grande secondo
il bisogno. In ogni aso non sarà però ella mai altro che finite. Come
la nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può --
Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione
dell't/t/unVo relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring
dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui
Wundt e Lasswitz chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del
resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce
di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”,
lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore
specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente
grande è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è
quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie
progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro
esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare ad un
ultimo membro delle serie, perchè la possibilità di aggiungerne altri
riman sempre la medesima. E nella natura dell’infinitamente grande di non
poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data
oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande
può rappresentare ad arbitrio una grandezza sempre maggiore oltre la
sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente grande non è
un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo.
L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente
grande è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke,
On bum. Underst, Our idea
of infinity being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of
any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be
it as great as it will, it can be no greater than it is), to join
infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave
no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of
a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say,
a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless progression that
can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that
of number always to be added. But thereby never amounts to any distinct
idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of
division, as often as we will think of it. But thereby we have no more a
clear idea of infinite parts in matter than we have a clear idea of an
infinite number, by being able still to add numbers to any assigned nember
we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a
rifiutare risolutamente il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla
nozione di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata
possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività
compiuta cui l’infinitamente grande non arriva mai. Nel transfinito o
trasfinito ogni grado di ingrandimento è già anticipatamente dato. Esso è
realmente maggiore di ogni assegnabile grandezza, e dal finito non c’è
modo di farlo originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile
obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè le possono sempre
venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE
IRRAZIONALE dell’infinitamente grande,
partendo ella da un falso concetto del transfinito o tras-finito, secondo
il quale si avrebbe questo a lasciar pensare come un tutto, ossia,
contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato
al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il
transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir
esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione
per rifiutarne il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in
ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito
per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue
parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio
conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da
un capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto tale,
ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility
giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts
than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea
of an actually infinite number, both being only in a power stili of
increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le
proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre
nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è quella
che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni
ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo
abbia raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il
numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I
know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso
e con ciò di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito
non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile.
Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente
grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente
piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più possibilità di
rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o
tras-finito. Questo è la negazione della grandezza misurata nel grande, e
lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della
grandezza nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come
l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità
diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un
continuo flusso, lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il
principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi. Dall’infìnitamente
piccolo allo zero e dall’infinitamente grande all’infinito assoluto c’è,
a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito
assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra «quindi Lasswitz
che nega esserci qualcosa di corrispondente a que- [Nel primo caso il
passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la
quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto
risolutivo col quale si sottrae interamente il resto stesso. Nell’un caso
si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta
propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene
mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del
sempre nuovo resto. Bsogna togliere in ima volta l’intero resto
altrimenti si avrà una convergenza continua verso l’irraggiungibile
zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe
veramente esaurita la grandezza. Non bisogna prender per esaustione reale
una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un
infinitamente piccolo. Ma questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione
non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero passaggio. La
inter-polabilità infinita di posizioni tra punto e punto non toglie che
da posizione a posizione il passaggio debba rimanere E come v’è un salto
da un punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al punto
ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col st’ultimo.
(Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats - hcfte); come
pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza
essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants
Kosmologische Antinomien u. das Problem der Unendlichke.it Philos.
Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich
zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits
vollzogenen Processes- dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt
niimlich ein wesen- tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten
vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato
differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli
altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à
nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o
tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di
due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele,
in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si pone
come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però
mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle
due rette al parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che
questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della
linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo
le farebbe finite. Ed à luogo allora quella illimitatezza od infinità
assoluta della retta, la quale è la negazione della grandezza misurata
nel grande, come lo zero è la negazione della grandezza in
generale. Un indubitabile significato si lascia dare al transfinito
o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei
processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma
dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della
realtà, poiché esso trova e suppone necessariamente come dati sempre piu
membri della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a
pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione
reale del nostro conti) Diihring, luogo citato. «etto ; ma rimanendo
insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO o il numero dei stelle sia
o no infinita, non si à che l’applicazione di esso allo spazio puro. Ed
ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce
appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La
tangente di un angolo che differisce da 90° di una infinitamente piccola
differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di
riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della
tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si
tagliano si fa sempre più lontano. Rimane però sempre dato un incontro
reale delle linee fin che sia data una per quanto piccola
divergenza da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia
se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più propriamente una SECANTE nè
una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano
più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la CO-SECANTE
e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna grandezza, allo stesso modo
che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già
una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione
quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte corrisponde dall'altra
l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso
dell’infinitamente grande si distingue da quello dell’infinito assoluto
per questo, che la possibilità (della illimitata estensibilità) non
figura come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio
quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di
un’altra, in modo che dall’infinito rimpicciolimento e dal grado di
questo dipende l’infinito ingrandimento e rispettivo grado costantemente
corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à fatto in
riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene
con qualche riserva, da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto
quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di
Diihring. Crede Cantor che la serie dei numeri si lasci pensare non solo
come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che
si lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver
sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o
tras-finito è la cagione dell’assurda nozione che s’è fatto Cantor di
questo. Infatti perciò à e Cantor potuto credere che il transfinito o
trasfinito pnssa trovarsi nel finito stesso quasi come suo sostrato, e
servire cosi alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma
qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede
egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito
assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento
della reale serie dei numeri intieri Duhrinq. Logik. Cantor:
Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre; Zur Lehre vom Transfinite.] oltre
l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico numero intiero
infinito, si bene una infinita serie di tali numeri come benissimo tra
loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe
sarebbe la serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe
dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine
determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla 3 a e alla 4 a classe e cosi
all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das
eigentlicbe Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire
Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal
guisa non si arriverà mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur
soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo è
un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito,
quantunque determinato e maggiore d'ogni finito, avrebbe assurdamente
comune col finito il carattere della illimitata aumentabilità. Cantor dà
per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti,
confessa però non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei
numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito non poter venir
concepito, quantunque necessariamente postulato. Qui dunque ritorna la
difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla
sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della
sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in
fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur
Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie
Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari numeri della nuova serie
al DI là DELL INFINITO. Cosi il
non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p) è una evidente ASSURDITà che rivela una
inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente
in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere,
come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad
esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità.
Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché
invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur
essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito
assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza
precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa
assai più facilmente rannodarsi a quella del Locke e di Ivant da una
parte, e dall’altra a quella di Carnot, che non si lasci questa sua
nuova distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci)
Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come
espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische”
und die “synkathetische”. “Katlietisch”
oder einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch”
unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt
und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als jenes
Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den Abschluss
bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn es mit
Gròsserem verglicken wird. Man
erkennt leicht dass das kathe- tisck Unendliclie Bradwardinus das
Ueberendliche oder Transfinite ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes,
di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del
tutto- ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario
dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione
da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine
‘divino’. unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das
Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt,
wàhrcnd das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn
ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa-
chsen hervorgelit. BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve
arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi
dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma
meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la
infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però
avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa
giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il
progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità dell’animo,
mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a
distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito,
-- dum non promere subiectae credat con- formia rei. — Intìnitae
progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus
usus ARTI-FICIALIS obsecundat. De Min. Tuttavia anche alla matematica
vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del
corpo matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo
anzi non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale
ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo
strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili o
atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni
del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì
à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d. Griech. Philosoph.
dove ne è anche data la traduzione) Della dottrina atomistica di BRUNO
riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift
f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano
e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico
infinito in riguardo al quale non possa esservi divisione possibile uè
disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito
assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei
quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici,
esempio ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già
illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come
è impossibile che la materia mossa tra due cerchi possa realmente
dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una
infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata dalla relazione di
quelli. Poiché data questa infinità non è nè può essere. Altrimenti la
potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea
da’suoi punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che
venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non
può esser che un caso di infinita possibilità come lo è quello
dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn
erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc
Verdienst erworben, den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt
zu haben. So lange
das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf
ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass es ein Krfordcrniss dcs
Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung zn liaben, macht den
Atombegriff za einem nothwendigen. Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per
inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne
aveva rifiutato il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia
ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo
non può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i
termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi però mai esaurire da
successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola
d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di
queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun
numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio
pensare come raggiunto il risultato d’una operazione infinita ossia da
ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito
relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in
realtà l’infinito assoluto. Esso è soltanto lo stesso infinito relativo
nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre
Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di
meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli
altrove che SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la
distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da
quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo
fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni
determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo
stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso
questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono
suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti
che ei dice avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La
infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi
non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo notato del
transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari
esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il
complesso della serie dei numeri intieri positivi. Etica, I, prop.
XV. è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di un
altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano potersi
DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual razionale
concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa tuttavia
considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e
divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una
grande acutezza soltanto le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito,
non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke
ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO
coll’illimitato progresso, riempiva tanto l’infinito del tempo che quello
dello spazio. Ed è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di
infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra
(2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke
nell’esame dello spazio, e fissa l’idealità di questo. Una idealità che
se è conseguenza delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai
veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga
superiore. Ma quanto al concetto proprio di infinito Kant non fa un passo
oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di
quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella
trattazione lockiana dell’infinito, in cui la funzione SINTETICA dell’animo
trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai. giusta e importante
bencliè non del tutto consapevole applicazione. Hume, senza esaminare
particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a
considerare l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza
il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della
infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser
diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo,
confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come
composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”)
; e il tempo della somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si
domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli non dare una
grandezza infinitamente grande? o, come può un tal numero esser compreso
allo stesso modo in una data grandezza che in una doppia di quella?
Come può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di
parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse
contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone
conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO
senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il
non aver più acutamente esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono
la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è
insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World
Library. Exsai/s (4; Hume: Essai/s. meno sino a Diiliring, che
segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di
infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla
natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot, e con Cauchy,
in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur
sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici
dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è
ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss poi, e dietro a lui
con Riemann e con Steiner e con tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia
che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi
quale indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale non
sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza che cosi grande
aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti
per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il
notato carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al
secolo precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove
l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si
stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata
di tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo moderno la
questione della reale estensione dell’universo si è fatta essenzialmente
empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio non ci
garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si lascia
dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo; È chiaro che chi
volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo della nostra
concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La nostra
rappresentazione dello spazio il la sua spiegazione nella costante unità
della coscienza e nella sua libertà del porre e dell’oltrepassare
continuamente il posto. Ora a questa funzione de nostro ANIMO non si deve
attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino
infinito il mondo appunto perchè è infinito lo spazio, ritenendo che la
materia stia allo spazio come questo a quella: “ e se non v’ha differenza
tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto
occupato dal nostro sistema planetario sia pieno e tutto il resto
dell’immenso spazio vuoto. „ Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.).
il quale commenta gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe
farli servire a dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il
finito noi non possiamo raggiungere e non possiamo mai giudicare se altro
non vi sia più oltre da raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o
no dei limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito
COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per
la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta
inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo
comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi
costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da
noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della
forza non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa
dell'universo. Seia massa si fa infinita, dice Riehl, verrebbe a mancarle
con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col
concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe
però naturalmente se considerata solo nella sua
trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di
masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande principio della
costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera
e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente
l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il
principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza
della materia infinita come tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella
del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del
finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus. non è (lata analiticamente
colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è
toccato da addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita
la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza
contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo
sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od
empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al
tempo concorrono invece necessità dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo
nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à
tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto
principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il
tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come può
senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il
cangiamento abbia una volta cominciato è, per il principio di causalità,
impossibile ammettere. La ausa di un cangiamento deve cercarsi a priori
in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento
assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono
nell’essere ultime ragioni dei processi, ma non ultime cause. In ogni
punto del tempo è esistita la serie delle variazioni. Non che nel
concetto di sostanza si trovi unita necessariamente coll’esistenza
l’azione, come crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi
disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga ad esser
perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal cangiaménto.
Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla
essenza. La forza potrebbe però concepirsi ovunque come in equilibrio
stabile, e con ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una
condizione del divenire cbe non entra mai come membro nella serie causale
-- è questa il fondamento ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro
possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del
tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei
cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un
DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito,
non avrebbe mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo;
auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi all’infinito. Delle
cause non ve ne può essere una cbe da sè inizi assolutamente una serie;
ogni causa di cangiamento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò
un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e
un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per
cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a
connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere
senza una causa che la faccia cessare è un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe
una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non possiamo
accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la
legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto),
cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono
soltanto la sostanza e le sue qualità originarie, ossia in generale gli
elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è
applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa di un
cangiamento non può mai esser che un altro cangiamento, non una cosa come tale.
E quindi unicamente l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che
non à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer
potremmo chiamare la ragione dell’essere, o di identita. La medesimezza
con sè stesso è infatti la ragione della sua eterna esistenza. Dove non
c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è che la
ragion reale del cangiamento. Una variazione che non procedesse in base a
qualcosa di stabile è un assurdo. Degli elementi non si dà quindi nè
generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che
la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la uniformità e
costanza del loro succedersi. Tanto l’essere universale quanto la materia
e la forza sono fuori della catena causale. Nn sono per sè causa, si bene
la ragione della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si
può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il più remoto
fenomeno immaginabile quanto il presente presupponendo l’essere, il fare
dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da
un sistema STATICO, come neminanco può a questo passare. Sempre le forze
si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed
altri ànno prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e
lavoro sono sempre stati necessari da una parte per conservare i
cangiamenti lenti concretatisi, ossia in generale le forme durevoli, e
d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il
voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che
credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a
un dato momento nell'universo, che il momento innanzi noi possiamo
immaginare come affatto privo di vita conscia, non è uua creazione
assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza
dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi non l’abbiamo
a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è
creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come
occasionata dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di
sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale non à causa;
ad essa come agli elementi ultimi d’ogni realtà è applicabile soltanto
ciò che s’è detta la ragione dell’essere. Altra è però la questione della
sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la
causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si presenta come
originata dal NULLA, gli è perchè le sue cause, nella loro natura
oggettiva materiale, non possono in essa evidentemente comparire. Gli
elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella
realtà inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data
combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del
cangiamento in generale implicherebbe invece una derogazione alla legge
fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire,
e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile
non è per sè stesso intelligibile senza un identico a sostrato. La
identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del
cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto
della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica.
Ammesso che cangiamenti potessero avvenire senza conseguire ad altri,
verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto
di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento.
Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro
che come l’animo è la condizione inevitabile della esperienza, e con ciò
del nostro mondo fenomenico, cosi le sue leggi o funzioni generali devono
anche di quello esser leggi a priori, o assolutamente valide
indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi
possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria
delle cose, ossia non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè
nelle cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi in
riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica
dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi necessario di veder nelle
leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un
riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle
determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un
principio del tempo reale e con ciò un cominciamento delle causalità non
si sfugge d’ altronde alla domanda. E perchè non prima? Se il primo
cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto
solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non
si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco
si dice che qualche cosa l’abhia impedito di nascere prima. Per questo,
per quanto lo si allontani dal presente, esso riesce sempre troppo
vicino. Richiamarsi alla originarietà dell'essere come fa Duliring,
alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni
ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero
non può mai ricevere completamente in sè stesso, mai fondare in senso
assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto
alla stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente
si contraddice. Si contraddice, dico, poiché, lasciando da parte
l'analogia del pensiero che ammesso il cangiamento non sa vedere come
esso possa originarsi in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà
conoscenza alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni
cangiamento che apparentemente si presenta come tale — il nuovo
nell’evoluzione — noi lo riduciamo è vero alle forze o forme, agli
elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il
perchè della loro manifestazione appunto in un tale momento e non
in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto
a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della
realtà, che nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi,
quando diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del perchè
quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia già stato in passato o non
abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo
suo essere Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza
stessa universale : dacché come questa non à inai avuta fuori di sè la
ragione del suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire
interno. In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,
non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal
suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non
c’ è un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno in cui
esso non abbia un suo stato determinato. E cosi che del divenire v’ è
sempre la ragione in un divenire anteriore, ma del divenire in senso
assoluto, v’è tanto poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi.
In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò che à
esistito la ragione di ciò che esiste. Nella originaria nebulosa è la ragione
dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri processi
cosmici ebbe essa stessa la sua origine, i quali se la scienza non
può oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile che un
giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il
cangiamento non à dunque avuto principio. Ed ecco appunto dove sorgono
specialmente gravi, e a molti filosofi son parse insormontabili, le
difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato,
e Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si enim numerare
possumus decem revolutiones praeteritas, et centum, et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse
numcrabiles, sed practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram
revolutionem in futuro anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod
est impossibile. Bacone, Novum Organimi, odi/.. Fcllow, Ne- Kant
è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che ponendo la
mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene
conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una
infinità di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice
al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma
anche, tra gli altri, il più acuto forse dei filosofi post-kantiani,
Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a
stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi
casualmente senza ragione alcuna avuto un assoluto principio nell’essere,
cosa evi- quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit
ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit
infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia
inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut
consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale dichiara
insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema
cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel
passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore
di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a
momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar
l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella
supposta contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex
co quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse
conclu- deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est
pares et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus
in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un
principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo
facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o,
secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella
sua dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa assoluta.
ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di
Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma
anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie,
Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è
sur un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che
la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza
contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente,
assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto
possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi alla
infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale
applicazione sia necessaria, egli à fatto invece quella ingiustificata
della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me
superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato
sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non
involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come
totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la
contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un
principio del cangiamento. Di fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni
principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie
infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque? Si pensa con un tratto
indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre
in- -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera
filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u.
Paralipomena: Wenn cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die
jetzige reale Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou
liingst gewesen, dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir
irgend einen. jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der
min aber, wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic
hinaufruckén, mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino
sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche
milioni di milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto
vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi per quanto risalghiatno
addietro non possiamo esaurire l’infinito che fu, cosi non dobbiamo
inavvertentemente ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti
partito da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà
ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti dietro a sè una stessa
infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in
senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò
ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata
bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è
assolutamente infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma
prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far
terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il
passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi
senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri
sta nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò
una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto,
e non ammette quindi alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè
ogni numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,
l'assurdo di una contata (o percorsa, come direbbe Kant) serie infinita (“den
Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe
una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò egli
ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo
reale? In verità è quella serie non contata, ma innumerata e innumcrabile,
ciò che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto
non à principio nel tempo, e: sino a un punto qualunque del tempo è
trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente.
Con è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò che è
impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione scompare subito che si
dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra
rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die i
cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa
senza contraddire al concetto di ogni assenza di principio. Una infinità
di cangiamenti, una infinità di momenti del tempo non è trascorsa,
sibbene l’infinito trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la
serie dei processi. La successione perpetua è appunto la forma
della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si
scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo in vece sua
quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti.
Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita
nel passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua natura non
può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono
incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva
delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti
del passato è infinita — quale contraddizione nel pensare che ogni
cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo
di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni
per sè non suppongono se non i fenomeni che immediatamente li precedono ;
e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro
nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere
all’ora presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito
perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto
giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che
quello dal quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve
solo avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non
è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito
fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli
stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter
questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva e che
il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di
sciogliere il sofisma Kantiano con un altro sofisma, distinguendo tra
assenza di principio e infinità del tempo. Schopenhauer cosi infatti
obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin,
dass statt der Anfangslosigkeit der Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die
Rede, plutzlich die Endlosigkeit (Unendliclikeit) derselben
untergeschoben und nun bewiesen wird, was Xiemand bezweifelt, dass dieser
das Vollendetsein logisch widerspreclie und dennocb jede Gegenwart das
Ende de Vergangenheit sei. Das Ende einer anfangslosen Reilic làsst sich
aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich
aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik
der reinen Venunft”, ed. Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G sentanone
della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il
concetto di totalità non esser applicabile ad una serie infinita.
Tuttavia per dimostrare che le cose coesistenti non possono essere
infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto
contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco nel rigettare quindi
un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir
pensato tale dovrebbe lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive.
Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque una totalità
infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant
: una infinità non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser
finita, dunque non può esser data; vien rigettato l’infinito
semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo
l’infinito nel finito è realmente un assurdo, poiché come tale dovrebbe
esser necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere
soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma quanto al temilo non
c’è ragione di negarne la infinità ; numerabili sono i processi da un
punto a un altro della serie, non la serie stessa in senso assoluto,
perchè ella non è mai data come un tutto, Is eli infinito
assoluto o transfinito che è proprio del tempo, non abbiamo più veramente
una grandezza ma 1 assenza di essa, poiché è data la necessità della
mancanza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza è oggettivamente
mallevata come nello schema spaziale della mente essa lo è
soggettivamente. La ragione della infinità dello schema spaziale, come di
quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della
serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà estramentale.
E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente
attuare un significato reale del transfinito. Poiché una simile
illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio
ideale o matematico, in quanto questo viene ogget- tivato e lo
possibilità che realmente è solo nella funzione mentale vien naturalmente
considerata come oggettiva e per sé esistente indipendentemente da noi.
L’infinità del passato non à, come tale, determinazione alcuna
quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è invece ogni
numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente
indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la
si immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito del
tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto
essendo propriamente la negazione di ogni grandezza nel grande non può
venir posto in relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può
correre che all’ infinitamente grande del passato. SOLO L’ANIMO ne
intende la infinità assoluta. Della seriedel tempo non possiamo ottenere
una assurda totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal
cangiamento e volgersi al fondamento della infinità temporale, ossia
all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile.
Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina
all’infinito assoluto che la più piccola, è analogo al meravigliarsi che
la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in
sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta di una
differenza qualitativa che nou si lascia esaurire pei aiiazioni di
quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non
s’è mai più vicini che con altra infinitamente minore al
transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite
a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma consideiandolo
invece come una quantità determinata; nel qual caso sarebbe veramente un
assurdo dire che da esso disti ugualmente un dato punto e un altro che
fosse prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato non
c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo;
dunque tutte le grandezze sono per riguardo ad esso insignificanti.
Parimenti è un assurdo credere di poter addizionare una unità al transfinito
o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà
pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in riguardo alla
retta stessa nella sua infinità. In una retta infinita nelle due
direzioni è indifferente il far la divisione più in un punto che in
un altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti sono
sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella retta co’_a _b
_m rx - A — Aoo e oo’B ossia ( co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo
— AB). Si vede cosi contrariamente alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu
einer unendlichen Zalil, wenn sie als bestimmt und vollendet gedacht
wird, selir «ohi cine endliche hinzu- gelugt und mit ihr vereinigt werden
kann, oline dass kierdurch eine Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur
der umgekerte Vorgang, die llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer
en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua
notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da essendo
co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto
sarebbe infinito il tempo ritroso se la serie dei cangiamenti fosse
terminata migliaia di secoli fa, quanto se esso continui all’infinito a
trascorrere ancora. Il passato si può misurare tanto a minuti che a
secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi, a numero
infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non pertanto sarebbe
sempre lo stesso infinito nè più nè meno. E la ragione di ciò è che la
quantità transfinita non è misurabile. La immensità supera ogni
numero, come direbbe Spinoza. Nella infinita serie delle
cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi), maggiore di
ogni numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello la natura
ne offre costantemente altri ulteriori. Nella natura la contraddizione non può
esistere ella non ef¬ fettua il passaggio che da un momento a un altro;
e questo passaggio non può farsi attraverso l’infinito. Per quanto
noi risalghiamo all’indietro nella serie causale, come non troviamo
contraddizione pel pensiero, cosi non la troviamo nella realtà. Essa ci offre
sempre e solo un ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der
letzeren, ohne dass eine Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen
ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat
man: 1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co
durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also
alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri
transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire inoltre a dimostrare come
tali numeri debbano poter essere e pari e dispari insieme o anche nè pari
nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede
per la sua spiegazione la totalità della serie delle cause anteriori, si
bene soltanto la causa immediatamente antecedente; e il principio di ragione
domanda unicamente la immediata condizione e non una totalità di
condizioni. In quanto la stessa richiesta si rivolge successivamente alla causa
della causa e cosi via all’infinito, si viene a domandare costantemente una
nuova condizione e questa è un nuovo membro della serie e niente di più.
Al tempo è essenziale la posizione in atto di un solo momento.
Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere affatto
immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo poniamo però sempre in
qualunque punto del tempo ideale che noi fissiamo ; la sua esistenza la
poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere la
contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti pensiamo invece
l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un
tutto infinito, quale non può qui esser dato, poiché la successione
perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo qui una serie
che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno
è infinitamente grande, e per sé è transfinita come la tangente
dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s
kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione
de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico del
tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è e cosi
gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1
eternità del processo della natura. Il concetto limite del in.
Kant crede che la sua dottrina della idealità del tempo e dello
spazio o della transcendentalità in generale, spiegasse la supposta
antinomia del problema cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la
ricerca di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo spazio
al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione se questo, che Kant
non può a meno di accettare, si abbia a pensai’e come fondamento di un
mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere che
la serie regressiva delle percezioni nostre non può essere realmente
infinita perchè come tale impossibile, e neppure finita perchè nessun
limite dei fenomeni può venir concepito come assoluto, e dichiarare con
ciò insolubile la questione. Dacché l’oggetto trascendentale
condiziona realmente, come egli ammette un determinato regresso
empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ; doveva Kant pur
ammettere che rimaneva sempre a ve- regresso infinito (o a dir proprio
infinitamente grande) non è già un concetto trascendente della creazione
quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della
natura (v. Wundt, “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.);
quel suo concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito
assoluto del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro
infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità
del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito
regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto
non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per
cui Wundt concepì il tempo passato sotto il concetto dell’infinitamente
grande concordando in fondo col Kant, come il Lasswitz si trova in questo
d’accordo con lui. (Ein Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der reinen
Vermnft. dere se l’oggetto trascendentale determinasse
un possibile regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui
tuttii processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano
altro che la possibilità deirallungamento della catena dell’esperienza
dalla percezione attuale indietro alle condizioni che la determinano nel
tempo; pure egli, per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il
possibile regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della
mente, non supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia
indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita distanza
dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre ancora nuove percezioni? E
cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi
necessariamente sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra
necessaria produzione dello schema dello spazio e del tempo, non
potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni dove l’oggetto
trascendentale non le condizionasse e si mostrasse con ciò finito. Lo
spazio e il tempo ideali non sono per sè garanti di una corrispondente
possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del
tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità della serie
regressiva dei cangiamenti. Poiché non si può conchiudere la mancanza di
un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge
der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg
gegeben ; sie sind aber ftir mieli nur Gegenstànde und in der vergangenen
Zeit wicklich, sofern als ich ecc.). Saranno però dunque sempre non
null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della
possibilità dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente
percezione indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da
questo, che ogni limite è necessariamente da noi pensato come relativo.
La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e
oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale
cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in
cui comprendiamo il reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in
sè della cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e
limitante non può evidentemente mettere nella realtà il suo secondo
termine se nella realtà non è dato. Questo secondo termine, il limitante,
rimane, se si astrae da ogni altra considerazione, un puro complemento
ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa
contraddizione che Kant e Dtihring, per non dir che di loro, credettero
inchiusa nella concezione di una serie regressiva infinita di
cangiamenti. Visto che la contraddizione stava nel concetto di una
infinità la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente
[Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue
Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo
all’infinito del tempo e dello spazio, che se la ragione non ci fa
piegare necessariamente nè da una parte nè dall’altra, pure in realtà il
tempo e lo spazio dehban essere o finiti o infiniti. (Cfr. del resto
l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL).
Spencer poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto
e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il
maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del
tempo e dello spazio che quella della divisibilità della materia e altre
ancora. Egli pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di
moto, di materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e
ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First
Principles”, la quale io stimo certo l’opera più infelice del filosofo
inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare la
numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle
cause e delle variazioni. Numerabili, dice egli, sono le cose, non i
processi. In quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,
deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come legge del numero
determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione
non vale per i processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per
sé stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione
mentale che essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che
vale per il numero non può senz’altro venir applicato al tempo, poiché
mancano in questo per sé considerato e non riferito allo spazio,
degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti
insomma come numerabili. Noi possiamo distinguere dei processi nel tempo
soltanto in determinato numero finito, nessun processo è però
indipendente [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava
dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del
cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato
dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo
abbia fatto notare egli stesso esplicitamente); ma per uscire dalla
presunta contraddizione dell’ infinito regresso, pensò, al contrario di
prima, i processi come assolutamente, e con ciò assurdamente continui. Si
vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato di parere,
non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta
troppo brevemente e troppo alla larga, come se gli scottasse di dover
render più minuto conto di ragioni che a lui stesso non possono parere
troppo convincenti Ciononostante l'opera sua e specialmente la seconda
parte del secondo tomo è un lavoro filosofico non solo di grande valore,
ma anche molto attraente, il che è una cosa assai rara. 1C e distinto da quello che immediatamente lo
precede o segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta
contraddizione à dunque rinunciato a concetti di cui l’esatto pensiero
scientifico non sa nè può lare a meno, senza che ciò del resto gli abbia
giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi
vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che lo
spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza loro ideale ; cioè
il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi
solo pensare lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale
dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché estensione reale
è coesistenza, e la continuità assoluta non può essere reale ma soltanto
ideale ; altrimenti essa inchioderebbe la contraddizione dell’infinito
compiuto nel finito, chè senza parti è solo il continuo della
rappresentazione. Porre la continuità assoluta come effettiva è non
spiegar nulla e mettere il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla.
L’irriducibile noi lo dobbiamo soltanto rilegare negli atomi sia dello
spazio che del tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro
il continuo del tempo che contro quello dello spazio; non meno contro lo
spazio percorso da un pendolo in una oscillazione, che contro il tempo in
questa impiegato. In parti ultime non si può dividere il tempo nè lo
spazio ideale, perchè essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di
parti, come in fatti non possono venire analiticamente scomposti in ultimi
elementi semplici, e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili
all’infinito ; ma non è cosi del tempo e dello spazio leali, dove la
natura viene necessariamente aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro
intelletto scompone l’accadere temporale in singoli processi, e che
questi solo per ciò ci appaiono indipendenti, che partono da cose
spaziali e si trasmettono ad altre cose nello spazio. Un processo secondo lui
può aver indipendenza solo perchè vien riferito alle cose nello
spazio e non al tempo unicamente. Ma è naturale che tutti i processi
siano nel mondo materiale (e non vengano soltanto da noi) schematizzati
per dir cosi nello spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti
della realtà spaziale, e unicamente i processi della coscienza in
sè considerati possono venir riferiti al tempo come tale senza riguardo
allo spazio. Difatti non pensa ora Rielil che sia concepibile una materia
assolutamente continua come lo spazio mentale, ossia non costituita
da atomi? Anche della materia allora si dovrebbe dire che gli
elementi distinti solo la nostra mente li pone. Come può egli dunque
affermare ripetutamente che soltanto la riferenza dei processi temporali
allo spazio ci faccia considerar questi come distinti e per sè
numerabili? Voler negare la numerabilità nel tempo reale o ne’ suoi processi
dovrebbe al contrario anche secondo il Riehl esser lo stesso che
negare nello spazio gli atomi o le cose ossia gli aggruppamenti durevoli degli
atomi. Ogni grandezza nella realtà à parti elementari, non
esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di cangiamento è una somma di
successivi cangiamenti minimali. Ma il pensiero come per istinto sembra
rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo temporale, perchè colla
determinatezza scompare quel che di vago e di nebuloso E ir, rdie
altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e per cui la mente non avverte
o avverte assai meno la inintelligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo
o minimo, la natura non più oltre scrutabile del tempo si affaccia
bruscamente all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente
strettamente continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua
continuità assoluta ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla
natura della coscienza, la quale tra due processi per quanto
infinitamente vicini interpola pur sempre la sua unità. Non c’è un minimo
concettuale del tempo come c’è invece e si richiede il minimo reale. I n
minimo nella rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso,
e considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe quanto
rendere impossibile il concetto di questa. Non deve più urtarci
l’accettar gli atomi, o meglio la concessione atomistica, per la materia,
che accettarla in riguardo alla forza e al cangiamento. Non
crediamo siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli
del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare gli Schopenhauer trattando
nella quadruplice radice del principio di ragione del tempo del cangiamento,
mette in piena e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della
continuità assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso
presso il LIZIO. “ Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice
egli, così tra due ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo
del cangiamento ; esso è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per
conseguenza il cangiamento percorre in esso un numero infinito di gradi
per i quali dal primo stato nasce a poco a poco il secondo. Egli
conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del tempo, che ogni
contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il passaggio da uno stato
all’altro deve essere infinitamente divisibile, e che dunque tutto- ciò
che diviene s’origina in fatti da punti infiniti. atomi come
ulteriormente divisibili vale per tutti e due gli ordini senza diminuire
perciò la necessità che à la mente di ammetterli. Quel sentimento direi
quasi di disagio clic par darci questa necessità, non è in fondo che
ca¬ gionato da quella nostra come ripugnanza a riconoscere che
l’analisi mentale della realtà deve a un dato punto arrestarsi. La mente
deve arrivare ed arriva, ad elementi i quali non sono più oltre
scomponibili, altrimenti il reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La
divisibilità ideale non porta con sè una reale divisione. Solo il tempo
ideale può venir diviso a piacere all' infinito, e non à quindi
elementi numerabili, ma il tempo reale col suo vario contenuto fenomenico è di
sua natura numerabile; quantunque noi, come ci accade per gli atomi della
materia, non arriviamo direttamente a’ suoi elementi. Non meno
delle cose o degli elementi delle cose sono anche i processi numericamente
distinti. E se in astratto la grandezza non à divisione, essa non può
tuttavia nella realtà venir esattamente concepita che come risultante di
una immediata ripetizione numerica d’uno stesso identico. L’assenza di
elementi reali è solo nel nostro pensiero che può a- strarre da ogni
divisione nel considerare una grandezza, ed è pienamente libero di
dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo che esso procede co’
numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del resto la possibilità
dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro prodotti non possono
dare che il determinato: l’infinito si riferisce solo al loro operare,
non al loro operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al
tempo reale sarebbe del resto affatto inutile anche quando
fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi non lo
incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi della natura (come dice
Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo altro che
rappresentazioni di effettività, non ci dà il diritto di fare delle
possibilità del nostro pensiero la misura della realtà. Come in sé
sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro, non può venir
inteso. Tanto varrebbe domandare perché esiste il tempo o magari l’essere
stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo
è uno sconoscere la natura del pensiero; noi non li possiamo ridurre ad
altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi
dell’esperienza, e non à una natura puramente logica. Il passaggio è
una determinazione della realtà che noi non possiamo che
riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della materia; noi
non possiamo che ammetterli o riconoscerli; una pretesa spiegazione di
essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da
qualcosa che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può però
dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio
in quanto il cangia¬ mento stesso ci si mostra come fatto compiuto.
Noi non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del
continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della natura, nel
divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai altro che constatare gli
avvenuti cangiamenti, nuH’altro possiamo. E cosi in realtà non conosciamo
come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla
soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti
assolutamente continua sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta
contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più
stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si
mostrerebbe esaurita se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro.
Ei crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe
ammettere un principio assoluto del tempo. E così fa dipendere, cosa
enorme, la infinità del regresso dalla infinità del progresso nel futuro.
Ma la fine del tempo non è invece punto contradditoria. É questa
una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non dovrebbe esser
allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo
reale, ove fossero date le condizioni di un equilibrio universale,
potrebbe finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché ad
ogni modo nella natura ogni fine non è della serie infinita ma
dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure, ammettiamo che i processi
non siano per sé distinti e numerabili, ma siano invece assolutamente
continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono senza
dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè
vi può in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate
le oscillazioni dei pendoli che possono dall’eternità esser mai esistiti
in infiniti mondi, possano venir compresi da un numero finito? E se no
sotto quale concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir
pensata? A ciò non à egli risposta. E più ancora come risponde Riehl a
quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e
morte è egli infinito o finito? Poiché qui manifestamente abbiamo delle
esistenze separate, indipendenti, numerabili anche secondo lui. L’unica
giusta risposta è che un tal numero è necessarianente infinito, o,
propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è
contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti
(dato che le moderne teorie cosmiche siano, come pare, inevitabili) abbia
gradatamente avuto nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo
cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito
assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei
cangiamenti, non alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto
nel crescere suo continuo verso il futuro non può cadere, se infinita,
che sotto il concetto dell’infinitamenfe grande. Poiché in nessun punto
iminaginabi'e del futuro non si sarà compiuta, a partire da un punto
qualunque del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E
ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità di sempre nuove
mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la
disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come
s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare
possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il
concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione è
puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello
schema spaziale non porta seco necessariamente un infinito riscontro
nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza
del tempo ideale porta con sè quella del tempo reale ossia una serie
infinita di reali cangiamenti. Essa non ci impedisce in modo alcuno di
considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati
di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero di esso che gli dà un
contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata
tanto è del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane mai
nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza
dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può
mai mancare di farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza
tra la rappresentazione dello spazio e quella del tempo. Mentre a niun
punto arbitrario del tempo viene a mancare il contenuto materiale, non
così necessaria¬ mente ad ogni punto dello spazio. A parte i
cangiamenti in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad.
esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre
quello che è, cosi il tempo non à a suo riguardo significato alcuno. In
un qualunque momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è
tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse
realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo
impropriamente venir considerato come nel tempo; la durata dal
punto in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso perchè
noi la immaginiamo misurata da quella piena di cangiamenti della nostra
coscienza. Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità
del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il
tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza
fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le
due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale
inchiude la realtà eterna, la realtà che fu e che sarà. La pienezza
dell’essere non ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita
sua fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è
elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a originarsi.
Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo
ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che
per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia non avrebbe valore
alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in
un qualunque punto matematico del tempo. E cosi T importanza del
tempo finito non si perde di contro alla infinità passata e futura del
processso: ogni momento del tempo ci dà l’essere sub specie aeternitacis,
nè altra mai è stata la esistenza della realtà che quella del
momento. Solo in questa considerazione della permanenza eterna del
reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura
sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far
considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che
l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi.
Giova quindi, per la concezione universale dell’esistenza, oltre che
aver riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel tempo
considerare gli altri sistemi parziali del cosmo nel loro coesistente
diverso grado di svolgimento, per cui si lascia forse quasi pensare come
in ogni momento attuata nello spazio la evoluzione temporale dei
singoli mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da
processo a processo, per il filo della causalità materiale spiega
l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva
unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella
rappresentazione non basterebbero per sè a escludere una radicale
disparità nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente
forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà non possa dare
origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si
riconosce che l’unità stessa del reale è che crea quella dello spazio e
del tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬ tura
meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della natura esprimersi in
relazioni di spazio; nelle necessità spaziali è la logica immanente delle
forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto
riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il
pensiero per sè non trova alcun impedimento a riunire ogni spazio in uno
spazio unico nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di
considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi la pluralità degli spazi
vorrebbe dire pluralità di esseri. Ora una tale pluralità non solo non
può mai venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi
assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche
l’esperienza colla omogeneità universale della materia mostra esser
l’essere uno. Le posizioni delle distanze nello spazio reale non sono che
rapporti di forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi
nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni
relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone
quella dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del
cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la
temporalità d’ogni cangiamento è uno anche il tempo oggettivo. E
cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre
maggior certezza ad ogni massa dell’universo, a ogni sistema di stelle
fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura
meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta
fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e
parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una
fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece
per dir cosi la sua unità in quella di molteplici coscienze individuali.
L’unità oggettiva estramentale e la unità della coscienza: due abissi del
pari inscrutabili ma rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi
quasi a tergo quella che noi non possiamo concepire che col
concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e subfenomenico dei
due fatti. Non è meno inscrutabile l’una unità dell’altra, sebbene quella
della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che
cosà di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la
mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare
la effettiva comunione delle sostanze, il fatto che lo stalo di un atomo
porti seco un dato altro stato di un altro? Queste riflessioni ci
richiamano alla infondata originarietà delle cose, e alla natura per
così dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli sono
resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro
istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la
realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La
analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno però bisogno
d’esser limiti della conoscenza nel modo in cui falsamente per lo più
vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo
logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente
applicabile al reale il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti
essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di scopo. Se
l’universo è infinito, non à evidentemente per ciò stesso determinazione
alcuna quantitativa; se finito è vero però che in relazione ad una sua
parte esso à una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile
da un momento all’altro. E che possiamo quindi dirlo più piccolo di una
grandezza posta mentalmente superiore alla sua ; che anzi possiamo anche
considerarlo infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto
dello spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè
grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi è nulla che possa darci
una unità di misura. E del pari è affatto relativo il concetto di durata
e inapplicabile perciò in modo incondizionato all’essere. Questo
non dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso non è nel
tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci
accade per lo spazio, lo schema ideale del tempo riceve necessariamente
un contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la
difficoltà che più che tale a molti filosofi è parsa sinora una stridente
contraddizione, abbiamo visto che come per mezzo del tempo si fa
possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio,
cosi per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla
realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords:
implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature
ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth,
Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi
Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera
Ligure. Novaro.
Luigi Speranza --
Grice e Novato: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Seneca’s brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates
two of his philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that
if Novato was not a follower of the Porch, he was a the very least a
sympathiser. Lucio Anneo Novato. Novato.
Luigi Speranza --
Grice e Numa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la
logica del regno – Roma – la scuola di Cures -- filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cures). Filosofo italiano. Cures, Fara in Sabina, Rieti,
Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It wasn’t written by
Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical. The Roman senate
ordered that it should be burned. It was! But most Italians can recite by heart
all the indiscriminate teachings it contained. The big polemic came from
Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other than in Rome, so
he denied the school of Crotone and much more any Etrurian influence via N. Still… N.dal
Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo
Successore Tullo Ostilio Nascita Cures Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia
Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è stato il secondo re di Roma, e il suo regno
durò 42 anni. Numa Pompilio, di origine sabina, per la tradizione e la
mitologia romana, tramandataci grazie soprattutto a Tito Livio e a Plutarco,
che ne scrive anche una biografia, era noto per la sua pietà religiosa e regna succedendo, come re di Roma, a Romolo.
N. e un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione
di N. non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo,
i senatori governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un
tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal
sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa
efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono
costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa
delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i
senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un
accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i
Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I
Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella
a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse
nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e
noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di
leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’ I Sabini accettarono la proposta rinunciando
a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i
due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per
offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei
senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo
aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu
quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che
il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui
dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei
boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene
attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le
istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto
nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla
base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano
amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le
Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare
ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le
divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove
associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del
sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un
terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti
dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio
sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni.
Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale
perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno
di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio
sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa
ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla
moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di
carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a
queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro
della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio
ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della
pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i
conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi
diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii,
sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per
i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa
funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso
dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti
all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari
soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni
militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora
anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di
partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro
padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le
proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa,
statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis,
e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il
tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via
Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse
solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo
regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N.,
ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda
(ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un
convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già
in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi
incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto
da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli
lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo
divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con
l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine
dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la
persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre,
ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei
giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna
decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più
difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa
Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque
omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia
tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno
qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita
dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis
omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit,
quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno
in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non
arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare
l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi
intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano,
tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo
ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo
cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni
politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita) L'anno così
suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni
alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni,
togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere
queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro
racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai
Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che
Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di
Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si
celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte
le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare. A queste
riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di
pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il
regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne
e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio),
quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato
dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace
di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti
rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito
insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa
esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo
equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio
Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua
sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed
altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con
cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che
aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da
Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra
Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune
fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui
sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali
avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni
e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa.
Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per
metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento
religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto
al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo
alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito
sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua
figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio:
Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non
posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu
quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum
praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito,
Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum
significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio,
Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio
Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio
Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio,
Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche
moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano,
Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron,
Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia
di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic:
the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson,
Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia
primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano,
Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli,
Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia
romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De
Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore
Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco Portale Antica
Roma Portale Biografie Portale Mitologia Categorie:
Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re
di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in
quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua
N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse
libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta
N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam
tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a
scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos,
permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim
eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros
mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos
non tetigerant. Tamen, lectis
libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a
praetore ussi sunt. Hoc idem tradit
Piso quoque in libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris
pontificii, totidem Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera
sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico
autore di annali, nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio
avesse disseppellito nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva
regnato a Roma, era stato sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano
stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio
scrive anche che i libri di N. erano di carta, pieni di molte cose misteriose.
Cassio tramanda anche che i libri nel sarcofago fossero stati trovati integri
con grande stupore di tutti e che fossero stati portati dallo scrivano al
senato. Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti
integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione. Dice, in effetti, che questi libri erano
stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti
integri. Inoltre, poiché i libri erano
stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano
toccati. Tuttavia, letti i libri, furono trovati molti scritti sulla filosofia
pitagorica e per questo furono bruciati dal pretore. Questa stessa notizia la tramanda anche
Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette libri del
diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio
inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella quale
fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing
part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the
Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous
for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with
this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now
occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a
lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a
delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much
persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great
to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa.
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