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Tuesday, March 18, 2025

GRICE ITALO A-Z N

 

Luigi Speranza -- Grice e Nannini: la ragione conversazionale e l’implicature conversazionali dei corpi animati – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “Nannini has intuitions in Italian.” Grice: “I agree with Nannini about the naturalism: the ‘anima’ is there to ‘explain’ ‘spiegare’ the action, ‘l’azione’ – He is the Italian Muybridge!” – Grice: “The Nannini series is the equivalent of the Muybridge series” Studia a Firenze con Luporini e Landucci e, inizialmente, con Luporini. Ha accompagnato la sua attività di ricerca in campo filosofico ed i suoi impegni accademici con una intensa attività politica a Siena come militante del Partito Comunista Italiano. È stato Professore di Filosofia Morale all'Urbino e di Filosofia Teoretica all’Università Siena, dove ha insegnato per alcuni anni anche filosofia della mente ed è stato principale cofondatore e direttore di una scuola di dottorato interdisciplinare in Scienze Cognitive. È stato inoltre più volte, visiting professor presso le Osnabrück, North London, Bremen e Oldenburg. Attualmente in pensione, è ancora pro tempore Docente Senior presso l’Siena e dal  è direttore di Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia. I suoi studi giovanili si sono incentrati sulla filosofia delle scienze sociali, lo strutturalismo francese e la storia del pensiero antropologico. Successivamente, rivoltosi alla filosofia analitica ed in particolare alla teoria dell’azione, ha cercato di sviluppare il “naturalismo metodologico” criticando il ritorno di neo-wittgesteiniani come Wright alla distinzione storicistica tra scienze della natura e scienze dello spirito. Sempre muovendosi entro la filosofia analitica, ma rivolgendo il proprio interesse alla filosofia pratica, ha difeso il non cognitivismo in meta-etica. A partire dagli anni Novanta Professoresi è infine spostato dalla teoria dell’azione alla filosofia della mente. In una prima fase si è occupato soprattutto della storia del concetto di mente, per approdare ad una forma di naturalismo cognitivo basata su una soluzione fisicalistico-eliminativistica del problema mente-corpo.  Saggi: “Il pensiero simbolico” (Bologna, Il Mulino); “Cause e ragioni” -- Modelli di spiegazione delle azioni” umane nella filosofia analitica” (Roma, Riuniti); “Il Fanatico e l'Arcangelo” -- Saggi di filosofia analitica pratica, Siena, Protagon. “L'anima e il corpo” --  Una introduzione storica alla filosofia dell’animo, Roma, Laterza; “Naturalismo” cognitivo: Per una “teoria materialistica” dell’animo, Macerata, Quodlibet, “La Nottola di Minerva” -- Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo” (Milano, Mimesis);“Educazione, individuo e società” Torino, Loescher ), L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori. Saggi, Freud e l'antropologia, in La Cultura. Rivista di Filosofia, Letteratura e Storia, “ Il materialismo “primario”, in, Il pensiero di Luporini” ( Milano, Feltrinelli); “L'anomalia dell’animo «Rivista di filosofia», Corpi animati, nel dibattito contemporaneo, in  L’animo, Milano, Mondadori, I corpi animati e e società nel naturalismo forte, nella Civiltà delle Macchine», Realismo scientifico e ontologia materialistica, in «Giornale di metafisica»,  Nicolaci G., Perone U., Ontologia e metafisica, Il concetto di verità in una prospettiva naturalistica, in Amoretti, Marsonet, Conoscenza e verità” (Milano, Giuffré); “L’Io come Direttore Assente” (in Cardella V., Bruni D., Cervello, linguaggio, società: Atti del Convegno di Scienze Cognitive, Roma, CORISCO, Orologi, animo e cervello: Riflessioni preliminari su tempo reale e tempo fenomenico tra fisica teorica e filosofia dell’animo, in Amoretti, Natura umana, natura artificiale” (Milano, Angeli); Rappresentazioni naturalizzate, in «Sistemi intelligenti», Kant e le scienze cognitive sulla natura dell’Io, in Amoroso L., Ferrarin A., La Rocca C., Critica della ragione e forme dell'esperienza’ (Pisa, Edizioni ETS); Realismo scientifico e naturalismo cognitivo, La coscienza può essere naturalizzata?, in Nannini S., Zeppi A., L’animo può essere naturalizzata?, Colle di Val D’Elsa (Siena), SeB Editori,  In-conscio, co-scienza e intenzioni nel naturalismo cognitivo, in «Sistemi intelligenti», La svolta cognitiva in filosofia, in «Reti, saperi, linguaggi: Naturalismo cognitivo: Per una teoria materialistica dell’animo, Quodlibet, N., La Nottola di Minerva: Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia dell’animo, Mimesis. Sandro Nannini. Nannini. Keywords: corpi animati, l’interazione dei corpi animati, l’ego come direttore assente, freud e il nos come dirretori assenti --. Luigi Speranza: “Grice e Nannini: il santo, l’eroe, il fanatico, l’arcangelo” – The Swimming-Pool Library. Nannini.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia. Grice e Nardi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Alighieri -- dantesco – Alighieri – la scuola di Spianate -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Spianate). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Spianate, Altopascio, Lucca, Toscana. Grice: “The Italians are fortunate: with Alighieri they can philosophise about him!” Primogenito di una famiglia benestante, composta di nove figli, viene avviato sin dalla tenera età alla carriera ecclesiastica. Entra nel collegio dei frati francescani a Buggiano e diventa chierico, assumendo il nome di frate Angelo. Usce dal convento di Buggiano perché non aveva intenzione di continuare nella vita religiosa, avendone perduta la vocazione. Proseguì gli studi di filosofia e teologia frequentando il convento di Sant'Agostino di Nicosia in provincia di Pisa. Volendo proseguire gli studi, i genitori gli indicarono un'unica strada, quella di entrare in seminario e diventare prete. Venne ammesso al seminario di Pescia e diventò sacerdote. Qui si avvicinò fugacemente al movimento Modernista, condannato da papa Pio X con l'Enciclica Pascendi.  Nel 1908 Nardi sostenne l'esame di concorso per una borsa di studio triennale conferita dall'opera Pia Galeotti di Pescia al fine di frequentare un corso di perfezionamento filosofico presso l'Università Cattolica di Lovanio (Belgio). Nel 1909 Nardi aveva da poco iniziato a frequentare l'Università Cattolica di Lovanio che già decise l'argomento della sua tesi di laurea Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante, che venne discussa con Wulf. La lettura dell'opera di Pierre Mandonnet, nella parte dedicata a Sigieri, non persuadeva N. sulla soluzione data al problema della presenza di questo averroista nel Paradiso dantesco. Due pregiudizi la inficiavano: il primo “consisteva in un'inesatta visione storica di quello che nel Medio Evo e nel Rinascimento era stato l'averroismo. Il secondo pregiudizio del Mandonnet era quello di ritenere il pensiero filosofico di Dante conforme in tutto e per tutto a quello d’AQUINO." Nel momento in cui N. Entra a Lovanio abbandonò il modernismo teologico, ma non abbracciò la filosofia neo-scolastica che quella Università belga stava elaborando. Non aveva senso per lui ripetere, sul finire dell'Ottocento, nell'epoca del positivismo, l'operazione culturale d’AQUINO che prevedeva l'unificazione di fede e ragione.  Il metodo di lavoro che Nardi seguì nel corso della sua vicenda di studioso e ricercatore, rimase sempre improntato al massimo rigore filosofico, risentendo come una traccia indelebile dell'esperienza di Lovanio, dove dovette affrontare studi scientifici. Per Nardi l'interpretazione del testo coincide con la libertà, ma tale atto libero non può attivarsi senza uno scrupoloso lavoro di scavo e ricerca del materiale documentario, l'esatta interpretazione filosofica dei testi.  Ottenuta un'ulteriore borsa di studio dall'Opera Pia di Pescia frequenta corsi di filosofia a Vienna, Berlino, Bonn. Oltre alla pubblicazione della propria tesi su Sigieri nella “Rivista di filosofia neo-scolastica”, N. vi pubblica altri interventi spesso critici con la linea editoriale del periodico. scritto ai corsi dell'Istituto di Studi Superiori di Firenze perché voleva riconoscere in Italia la sua laurea in filosofia conseguita a Lovanio. A Firenze discuterà la tesi di laurea in filosofia dedicata alla figura del medico e filosofo padovano Abano. Collabora alla “Voce”, rivista fondata da Prezzolini con il quale mantenne per lunghi anni una fitta corrispondenza. N. volle abbandonare il sacerdozio. In una successiva lettera  indirizzata al vescovo Angelo Simonetti, spiegava che era stato l'ambiente familiare a spingerlo a chiedere la sacra ordinazione, con preghiere e minacce. Di trasferì a Mantova per insegnare filosofia presso il liceo classico Virgilio, dove vi restò fino al quando si trasferì a Milano. Ha da Giovanni Gentile un incarico per l'insegnamento della filosofia medievale presso la facoltà di lettere dell'Roma. Tuttavia non ottenne la cattedra universitaria (se non dopo molti anni), a causa dell'art. 5 del Concordato in base al quale la curia romana escludeva i sacerdoti secolarizzati dall’insegnamento. Gli fu assegnata la “Penna D’Oro” dal presidente del Consiglio Tambroni. Gli fu conferita la laurea honoris causa da parte dell’Padova e da parte di quella di Oxford.  Le opere e gli studi su Alighieri si è dedicato instancabilmente per di più in mezzo secolo allo studio del pensiero di Dante, anche quando si occupava di Virgilio, di Sigieri di Brabante, di Pomponazzi. Nardi ha saputo mettere in discussione schemi consolidati, ha aperto strade nuove, ha formulato proposte inedite che ci permettono di avere una più esatta comprensione dei testi danteschi. Una costante di Nardi è di aver conservato sempre una propria autonomia, se non un vero e proprio distacco, rispetto agli ambienti culturali in cui si era trovato ad agire, fossero Lovanio, Firenze o Roma. Il coraggio con cui seppe polemicamente ribaltare tesi consolidate negli ambienti accademici, gli fruttarono ingiustamente isolamento e non adeguata considerazione rispetto alle sue acquisizioni veramente anticipatrici. Basti pensare alle sue tesi sull'averroismo latino, all'importanza data alla figura di Avicenna, di Alberto Magno, al rifiuto del preteso tomismo di Dante. E se di Gentile parlava come di un "vero e grande maestro", dandogli ragione nella sua polemica con il De Wulf (relatore della sua tesi a Lovanio), Nardi pur tuttavia non aderirà al Neoidealismo, ma vi trarrà soltanto spunti e stimoli per le sue ricerche.  L'incontro con Dante costituisce per N. l'episodio decisivo della sua vita intellettuale e morale. Scriverà nel 1956: "in Dante trovai il vero e primo maestro, quello a cui debbo la maggior gratitudine". Il senso della sua ricerca è stato interrogare il "miracolo" della Divina Commedia, questo "singolare poema sbocciato all'improvviso contro tutte le buone regole dell'arte e del dittare". Secondo N. nella commedia è custodita la Verità, che si è manifestata ad un poeta ispirato da una profetica visione. La lunga fatica del Nardi è giunta a concludere che la filosofia di Dante non si riduce a nessun sistema codificato; è una sintesi complessa tendente a superare le antinomie e che mantiene intera la sua spiccata originalità, il suo personalissimo pensiero. Per arrivare a coglierlo occorre da una parte ristabilire il preciso significato delle parole in rapporto alla terminologia filosofica e scientifica del Medioevo, e ricostruire dall'altra l'ambiente culturale e l'atmosfera spirituale nelle quali Dante si muoveva per arrivare a determinare la fonte, il libro letto da Dante.  N. ha gettato luce su molti elementi e suggestioni che Dante derivava dalla filosofia araba e neoplatonica. Essenziali per comprendere Dante sono Alberto Magno e Sigieri più di Tommaso; così come il neoplatonismo e la cultura araba più dello scolasticismo aristotelico. A N. interessava particolarmente affrontare il tema della "visione dantesca", esperienza profetica che seppe tradurre come nessun altro nel linguaggio della Divina Commedia. La visione di Dante non è finzione letteraria, è rivelazione reale dell'aldilà, concessa da Dio in virtù di un supremo privilegio. Dante visse il rapimento mistico ed estatico al terzo cielo come esperienza reale. Dante credette di essere sceso veramente nell'Inferno, salito veramente al Purgatorio e al Paradiso. Per N. la Commedia si distacca dagli altri scritti di Dante, perché ne è il loro compimento. Tale culmine si realizza attraverso un'esperienza eccezionale, di origine mistico-religiosa a lui soltanto riservata, una rivelazione che ha il potere di trasformare e rendere nuove tutte le altre opere precedenti.  L'opera dantesca, secondo Nardi, si deve suddividere in tre fasi: la prima fase, che termina a venticinque anni, è sotto l'influsso di Guinizzelli, assente del tutto la filosofia. La seconda fase, quella filosofico-politico, coincide con le rime allegoriche, il Convivio, il De vulgari eloquentia e la Monarchia. La terza fase, quella della poesia profetica, coincide con la Divina Commedia, poema che segna il ritorno all'unità della filosofia cristiana. Dante vi compare come profeta che deve annunciare al mondo l'avvento di un inviato di Dio per la redenzione umana. La Commedia è "poema sacro", la sua è poesia religiosa. Nardi vede in questa terza fase finalmente riconciliarsi la speranza cristiana spezzatasi con l'aristotelismo e l'avverroismo. Per Nardi l'aristotelismo è inconciliabile con il cristianesimo, e il tomismo pertanto è "il più strano paradosso del pensiero umano". La Commedia testimonia della riunificazione della filosofia con la rivelazione di Dio. Dante visse una visione profetica, esperienza che mancò ad Aristotele. L’'Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Filosofia.  Saggi:  “Flosofia dantesca” (Bari, Laterza) – ALIGHERI -- ; “Critica dantesca” (Milano,  Ricciardi); “Filosofia dantesca” (di Alighieri) (Firenze, Nuova Italia); “La filosofia medievale” (Roma, Ed. di storia e letteratura); “Alighieri” (Roma, Laterza).  Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,."Giornale Critico della Filosofia Italiana",  Premi Feltrinelli, su lincei,  Medioevo e Rinascimento,” Firenze, Sansoni, Alberto Asor Rosa, Dizionario della letteratura italiana del Novecento, ad vocem Sigieri di Brabante e Alessandro Achillini, Di un nuovo commento alla canzone del Cavalcanti sull'amore, “Cultura neo-latina”, Noterella poetica sull'averroismo di Cavalcanti, Rassegna filosofica, Sigieri di Brabante e le fonti della filosofia di Alighieri, in “Rivista di filosofia neoclassica” Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Alighieri, Spianate, La teoria dell'anima o animo e la generazione delle forme secondo Pietro d'Abano, “Rivista di filosofia neoscolastica”, Vittorino da Feltre al paese natale di Virgilio, in “Atti del IV Congresso nazionale di Studi Romani”, Roma, Lyhomo (note al “Baldus” di T. Folengo), “Giornale critico della filosofia italiana”, “Nel mondo di Alighieri” (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “Sigieri di Brabante nel pensiero del rinascimento italiano” (Edizioni italiane, Roma); “Alighieri profeta, in Dante e la cultura medioevale; “Saggi di filosofia dantesca” (Bari, Laterza); “La mistica averroistica e Pico”; “L' aristotelismo padovano (Firenze, Sansoni) – i lizii -- già edita in “Archivio di filosofia, Umanesimo e Machiavellismo”, Padova); “Il naturalismo del Rinascimento, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, Roma,  Universitarie; “L'alessandrinismo nel Rinascimento, Corso di Storia della filosofia. Anno accademico,  I. Borzi e C. R. Crotti, Roma, “La Goliardica” La fine dell'averroismo, Gli scritti di Pomponazzi. “Giornale critico della filosofia italiana”, Le opere inedite di Pomponazzi. Il fragmento marciano del commento al “De Anima” e il maestro di Pomponazzi, Trapolino, Il problema della verità, soggetto e oggetto dell'conoscere nella filosofia antica e medioevale” (Universale di Roma, Roma); “La crisi del Rinascimento e il dubbio cartesiano, Corso di storia della filosofia T. Gregory, “La Goliardica” Il commento di Simplicio al “De Anima” Archivio di filosofia”, Padova, La miscredenza e il carattere morale di Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Le opere inedite di Pomponazzi, “Giornale critico della filosofia italiana” Le meditazioni di Cartesio, Lezioni di storia della filosofia. “La Goliardica”, Roma, Pomponazzi e la cicogna dell'intelletto, “Giornale critico della filosofia italiana” Il dualismo cartesiano, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Il dualismo cartesiano degl’occasionalisti a Leibniz, Corso di storia della filosofia. T. Gregory, “La Goliardica”, Roma, Ancora qualche notizia e aneddoto su Vernia, Giornale critico della filosofia italiana, Marcantonio e Zimara: due filosofi galatinesi,  “Archivio storico Pugliese” Un'importante notizia su scritti di Sigieri a Bologna e a Padova alla fine del sec. XV, “Giornale critico della filosofia italiana”, Contributo alla biografia di Feltre, “Bollettino del Museo civico di Padova”, Letteratura e cultura del Quattrocento, in “La civiltà veneziana del Quattrocento” (Firenze, Sansoni); “Appunti intorno a Trapolin, In Miscellanea” (Edizioni di Storia e letteratura, Roma); “Copernico studente a Padova”; “Studi e problemi di critica testuale. Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i Testi di Lingua, Bologna, L'aristotelismo della Scolastica e i Francescani, in Studi di Filosofia Medioevale” (Storia e letteratura, Roma); “Pomponazzi e la teoria di Avicenna intorno alla generazione spontanea dell'uomo” (Mantuanitas vergilana – (Ateneo, Roma); La scuola di Rialto e l'Umanesimo veneziano, in Umanesimo Europeo e Umanesimo veneziano” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “I lizii di Padova” (Monnier, Firenze); “Corsi manoscritti di lezioni e ritratto di Pomponazzi, in Atti del VI Convegno internazionale di studi sul Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Studi su Pietro Pomponazzi” (Monnier, Firenze); “Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Filosofia e teologia ai tempi di Alighieri in rapporto al pensiero del poeta, in Saggi e note di critica dantesca” (Ricciardi, Milano); “Saggi e note sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova); “Saggi sulla cultura veneta del Quattro e del Cinquecento Mazzantini, Antenore, Padova, Divina Commedia, Treccani Enciclopedie,  Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Un profilo biografico, Consulenza scientifica Società Dantesca Italiana. L’ARISTOTELISMO PADOVANO. STUDI SULLA TRADIZIONE  ARISTOTELICA NEL VENETO, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA, CENTRO ARISTOTELICO. L'ARISTOTELISMO  PADOVANO. SANSONI,  FIRENZE. Il volume  di N. è stato pubblicato a cura e sotto gli auspici del centro per lo studio della tradizione aristotelica nel Veneto e del Comitato per la storia dell'università di Padova. Stampato in Italia. N. adere di buon  animo a che venissero riuniti in un volume, per comodo degli studiosi che ne fanno ricerca, alcuni saggi sull'aristotelismo padovano e particolarmente su quell’interpretazione del pensiero del “LIZIO” (antica ortografia di “Lyceo”) che prende il nome d’Averrois che 7 gran commento feo, sparpagliati, come numerosi altri loro confratelli, in varie riviste ormai non più facilmente  accessibili. Questi saggi abbracciano un periodo assai lungo di ricerche dal  igi2 al  ig^ó,  e nel loro insieme offrono un quadro sufficientemente completo, per monografie che si richiamano fra loro, della filosofìa a Padova dai tempi di Abano (SCHIAVONE, si veda) a quelli di ZABARELLA (si veda) e PICCOLOMINI (si veda), quando ormai, a Padova e altrove, il LIZIO comincia a volgere decisamente al tramonto, per il nascere delle nuove scienze della natura e del nuovo metodo di  ricerca  filosofica. Fuori della presente raccolta, già abbastanza pingue, son rimasti i saggi stille opere inedite di POMPONAZZI (si veda), meno quello relativo alla miscredenza di VERNIA (si veda), perché essi potranno essere riuniti a suo tempo in un volume a parte, ed altresì quello sulla letteratura e cultura veneziana, apparso in La civiltà veneziana pella Fondazione Cini, che potrà meglio figurare insieme ad altri, che vado preparando, sulla filosofia veneziana del Rinascimento. Nella formazione del presente volume non è stato sempre rispettato l'ordine cronologico nel quale i saggi qui compresi sono apparsi, per il bisogno di contemperarlo con la  successione storica degli argomenti trattati. Ad ogni modo, sono stati sempre indicati in nota la data e il luogo ove ciascuno ha visto la luce la prima volta. Inoltre, ritengo opportuno avvertire che tutti sono stati più o meno leggermente ritoccati, e qualcuno in modo assai notevole. Quello che mi ha guidato in queste non agevoli ricerche, non è stato, cerne forse taluno potrebbe pensare,  il gusto delle notizie erudite, pur sempre indispensabili alla ricerca storica, sibbene il bisogno di prospettare le particolari condizioni e circostanze d'ambiente culturale in cui certi problemi filosofici eran posti dagli aristotelici padovani, e lo sforzo da questi sostenuto per trovarne una soluzione e per evadere da abitudini mentali e pregiudizi che alla soluzione di quei problemi  s'opponevano. Su alcuni di siffatti problemi discussi e ridiscussi mille volte nel corso di quasi quattro secoli, era naturale che avessi a fermarmi con insistenza e abbondanza di citazioni, perché chi legge avesse modo di rendersi conto, quasi toccando con mano, dell'imprecisione e non di rado dell'avventatezza di talune affermazioni da parte di non pochi storici che la storia delle idee non hanno mai preso sul serio, contenti troppo spesso di luoghi comuni e vacue generalità: Per oppormi appunto a questo andazzo e per restituire ai pensatori sui quali mi sono fermato i lineamenti della loro umana fisionomia, m'è parso non fossero da sdegnare notizie particolari e perfino aneddoti che rasentano il pettegolezzo, ma intanto rivelano curiosi tratti del loro carattere morale  e aprono uno spiraglio su quell'ambiente scolastico, per tanti aspetti così diverso di quello d'oggi. La distinzione poi che s'è preteso di fare tra filosofia e cultura s è rivelata inconsistente, non solo quando s'è tentato di giustificarla, col definire in termini rigorosamente logici il concetto di cultura come diverso da quello di filosofia, ma più ancora quando, in omaggio a quella: pretesa  distinzione, nel tracciare la storia del pensiero d'un epoca, s'è tenuto conto quasi esclusivamente dei pionieri e si sono disprezzate forme di pensiero meno avanzate e, diciamo pure, piii umili, come, ad esempio, pel Rinascimento, le credenze magiche ed astrologiche, condivise da dotti non meno che dal popolino, e le opinioni intorno al potere delle streghe e al loro commercio col  diavolo, cui davan credito, non meno del volgo, insigni cherci e letterati grandi e di gran fama, non che giuristi e teologi i quali s'argomentavano d' estirparne la mala semenza con gli esorcismi e col rogo. Così del Rinascimento s' è mostrato solo un aspetto, mettiamo pure il migliore e più, seducente, ma unilaterale e incompleto, per aver relegato nell'ombra il rovescio della medaglia,  cioè quelle forme di pensiero che persistevano non solo nelle masse popolari e incolte, ma altresì nei ceti borghesi di media cultura, nella nobiltà, nelle corti principesche e nel clero. Eppure anche siffatte convinzioni rappresentano particolari maniere di raffigurarsi la vita e il mondo e costituiscono anch'esse modi di pensare la realtà, che, per quanto arretrati, furon condivisi dall'enorme  maggioranza degli uomini nel periodo che si dice del Rinascimento. Altrettanto si dica della distinzione fra ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero del passato, quasi che potesse morire quel che non è mai stato vivo, e che vivere non fosse un correre alla  morte, cioè un continuo rinnovarsi. Singolarmente penosa appare infine l'ansia che pel concetto, la natura, il metodo, le sorti  della storia e pel valore del giudizio storico dimostrano taluni che, chiusi nella loro specola teoretica, senza scomodarsi colla ricerca e la critica dei documenti e delle testimonianze, indispensabili al giudizio storico, pretenderebbero di dedurre a priori gli eventi della storia universale. Sì, lo sappiamo, per interpretare la lingua dei documenti e delle testimonianze ci vuol cervello; e per  cervello intendo la categoria, cioè la capacità a inserire il fatto accertato nella trama logica del pensiero. Ma la categoria è vuota senza l’intuizione, e la mola del pensiero frulla a vuoto se dalla tramoggia non cala giù il buon grano falciato nei campi arsi dal sole, battuto vagliato e seccato sull'aia. Sì che a ragione pare a VICO aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le  loro ragioni coll'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono d'avverare le loro autorità colla ragione dei filosofi. Il già celebre e oggi invece quasi sconosciuto filosofo di Padova, SCHIAVONE (si veda), vien classificato ordinariamente dai rari storici della filosofia che si degnano consacrargli qualche linea, fra gl’averroisti: da qualcuno è, anzi, presentato come fondatore  dell'averroismo a Padova. Ma, cosa strana,  dell'averroismo di SCHIAVONE  tacciono affatto gl’antichi storici che pur lo fanno passare come astrologo, mago, eretico, e che a queste accuse, riguardanti le dottrine di lui, n’aggiungono ben altre riferentisi al carattere personale, per quanto queste ultime abbiano l'aspetto di favole se non, spesso, di denigrazioni evidenti. Scorrendo la  monografia che gli consacra FERRARI (vedasi), il sospetto che l'averroismo di SCHIAVONE  non fosse una pretta leggenda, s’accrebbe in me a tal segno che decide di consultare per conto suo  il  Conciliator differentiariini philosophormn et praecipiie medicorum. Sennonché, essendo l'opera relativamente rara e trovandomi da quattro anni quasi sempre all'estero, non li fu così facile  procurarsela; quando, nell'essere a Bonn s'abbattei in un'edizione senza data, ma che porta in testa questa nota manoscritta: impressus. Me codex est Venetiis per  Herbart  de Selgenstadt, alemanmmi. Mentre andava trascrivendo i passi più importanti dal punto di vista filosofico, quasi quasi non sa credere a lui stesso, finché non li ha collazionati con altre Già apparso nella Riv. di  Filos.  Neoscolastica. Solo qualche lieve ritocco. I tempi, la vita, le dottrine di SCHIAVONE. Saggio storico-filosofico di Ferrari, Genova.] edizioni e specialmente con  quella  di cui, oltre le copie possedute a Padova, a Firenze, a Torino ecc., una si trova con sua grande sorpresa proprio nella capitolare di Pescia. Dice che  non sa credere a lui stesso, perché i passi, a cui FERRARI (vedasi)  rimanda, lungi dal rivelare le preoccupazioni averroistiche che egli, con critica bizzarra, crede scoprire ad ogni pie sospinto attraverso le dichiarazioni di SCHIAVONE, dimostrano, al contrario, che questi aderisce esplcitamente e senza riserve o esitazioni di sorta ad un'altra teoria intorno all'ANIMA – GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY --,  ch’è l'antitesi perfetta  di quella dell’arabo. Quei passi sono così chiari che FERRARI (vedasi) stesso si sente imbarazzato e suda due camicie per interpretarli a rovescio, come fa. Dovrei forse dubitare della buona fede di lui? Certo, nell'opera erudita di FERRARI (vedasi) si rivela qua e là un gusto matto di sorprendere nel filosofo da lui studiato atteggiamenti e pose d'eretico che agl’occhi dell'autore lo  rendono più simpatico. E quando gli fanno difetto i documenti e le dichiarazioni esplicite, ricorre a stravaganti congetture o a insinuazioni ridicole. Ma N. ritiene FERRARI (vedasi) un perfetto galantuomo, e per dubitare della sua completa buona fede non ha motivi sufficienti. Pensa invece che gli manchi l'esatta conoscenza della filosofia medievale; in maniera che egli non sa  comprendere nel loro giusto significato certe dottrine, le quali non si possono capire se non in rapporto ai movimenti d' idee a cui mettono capo. Ora, infatti, sostiene che SCHIAVONE è accusato di MATERIALISMO. Più tardi, invoca la stessa condanna per dimostrare che questi non è sincero quando dichiara prava la teoria averroistica dell'unità dell'intelletto. Ora gongola di gioia  perché SCHIAVONE, nel riferire l'opinione dell’arabo, la lascia passare senza una nota di biasimo. Una pagina, dopo, ti verrà a dire che la nota di biasimo che SCHIAVONE  quest'altra volta invece ha affibbiato agl’averroisti, va presa per un'ostentazione a ufficio di scudo! E via di questo passo. FERRARI (vedasi) avrebbe fatto bene, invece di rimandare alle opere di SCHIAVONE,  che il lettore non sa procurarsi con tanta facilità, d’offrire estesamente citazioni più abbondanti e meno laconiche. Il pubblico poi che s’occupa di queste materie sa, crede N., fare a meno, e quanto a lui molto volentieri, della traduzione che FERRARI (vedasi) sostituisce ai passi citati, i quali nel loro latino scolastico sono molto meno oscuri. Confesso la verità. Arrivato in fondo a dove  FERRARI (vedasi) parla della psicologia genetica e metafisica, non sono mai riuscito a raccapezzarmi sulla vera dottrina del filosofo SCHAVIONE. La quale, pertanto, se si piglia in mano il conciliator, è abbastanza chiara, nelle sue linee generali, ed è ben diversa da quello che FERRARI (vedasi) va fantasticando. Ecco qui uno dei passi più importanti e nello stesso tempo meno  ambigui. Alla differentia si discute la questione se il seme umano è o no animato. E, a proposito di questo problema, SCHIAVONE espone la sua teoria sullo sviluppo dell'embrione e sull'origine e natura dell'ANIMA. Egli dice. Rector autem huius tain divini operis, cioè dello sviluppo embrionale, virtus est dieta informativa ab ANIMA parentis decisa, per impulsionem coeuntis incitata,  quam  Galenus de virtutibus naturalibus, secundo, ca. 2,  appellat summam artem praesidem et intellectivam sine mente, il LIZIO autem intellectum vocatum sive intellectivam divinam, ceu ei Haly ascripsit. Nominavit autem eam LIZIO intellectum vocatum, ad differentiam intellectus potentionalis et agentis pars existentium ANIMAE intellectivae, ut tertio de anima inquit. Dico autem  intellectum quo ANIMA opinatur et sapìt, ad differentiam intellectus quem ponebat Anaxagoras chaos dieta ex eodem consimilia sequestrantis. Et ideo apparet hic erroneus intellectus lacobitarum me persequentium tamquam posuerim ANIMAM intellectivam de potentia educi materiae; differentia 9;  cum aliis mihi  54 ascriptis erroribus. A quorum nianibus gratia dei et apostolica  mediante me laudabiliter evasi. Da qua quidem virtute,  ló. ANIMALIVM, Avicenna. Virtus informativa est illa quae DAT VITAM et est proportionalis virtuti super-coelestium. Arrestiamoci a precisare il significato di questo passo. SCHIAVONE parla qui non dell'anima umana, ma della virtù informativa, la quale più sotto è così descritta sulla scorta del DE ANIMALIBVS e di  Avicenna. Virtus  informativa est illa quae DAT VITAM et est proportionalis virtuti super-coelestium, et ista virtus facit similia secundum quid virtutibus super-coelestibus quousque sit possibile illam RECIPERE VITAM, et est dispersa per universam substantiam corporis sive sit humiduin sive siccum: et in spermatis substantia est potentia potens recipere hanc virtutem et est SPRITIVS primus deferens calorem coelestem et ipse est causa omnium partium spermatis. Estque haec virtus a CORPORE abstracta, cui etiam ab LIZIO accipiens commentator.  j° metaphy  i^Comm. ]: LIZIO dixit in libro DE ANIMALIBVS, quod ipsa sit similis intellectui in hoc, quod non agit per instrumentum CORPORALE et membrum proprium. La teoria della virtù informativa,  qui esposta, è tratta dal DE GENERATIONE ANIMALIUM del LIZIO e la si ri-trova quasi negli stessi termini presso AQUINO. Siccome, per altro, i giacchiti di Parigi credeno che SCHIAVONE intende parlare dell’ANIMA, per questa ragione, com'egli dichiara, l’accusarono dell'errore d'Alessandro d'Afrodisia e di Galeno, l'ultimo dei quali sostene che L’ANIMA è la stessa  complexio del CORPO organizzato e il primo che l’intelletto materiale o possibile dove farsi consistere in una certa virtìt risultante ex universa illa temperatura vel constitutione propria dell'organismo umano. L’accusano, dunque, dell'errore opposto all'averroismo e contro il quale l’arabbo aspramente polemizzato a più riprese. A quest'accusa da certamente motivo l'appellarsi che SCHIAVONE fa a Galeno e al di lui fidelissimus interpres, Haly ben Rodoam. Questi sa trovare presso Aristotele, non si sa come, la teoria dell'intellectus vocatus, della cui provenienza del LIZIO il nostro, con quella sua espressione: ceu ei Haly ascripsit, sembra tutt'altro che convinto. L'intellectus vocatus è la traduzione letterale del ó HO KALOUMENOS NOUS xixXoù\j.tvoc,  voui; del De generatione animalium. Basandosi su di essa, Haly sostene che l’intelletto separato del LIZIO, distinto dall'ANIMA individuale e identico al voij? d'Anassagora, è la stessa virtù informativa, ossia l'influenza degl’astri la quale per mezzo del seme paterno presiede allo sviluppo e all'organiz tkxvtwv  (xév yùp év tcò  oTuéppiaTi  ÈvuTrdcpxei OTTEp  TTOiEÌ  yóvifxa  elvai xà  CTTrép[xaTa    xaXou(i,evov  -!>£p(i.óv.  xoùxo 8'où  TTup,  oùSè  xotauxY]  SuvafjLit;  Icttiv,  àXkà    l[jiTrepLXajjt.pavó(XEvov èv  T(p  CTTÉpfxaxi,  jcai  èv xo)  à9p(óSEi.  TTVEUjj'.a  xal  rj  Èv xw  TTVsufAaxt, quando viene a parlare de electionihus. Egli intanto distingue la ricerca, invero innocente, dell'bora laudabilis incipiendi aliquod opus, affinché l'opera d’intraprendere ha felice risultato, pur senza tentare di modificare il corso o l’influenza del cielo, dai tentativi, per mezzo d' immagini  Ferrari, SCHIAVONE e di scongiuri, di modificare favorevolmente l’influenze celesti pella buona riuscita dell'opera che s'intraprende. Che la prima ricerca non ha niente d' illogico, dati i presupposti astrologici che noi conosciamo, o di temerario dal  punto di vista della dottrina teologica del tempo, è evidente. Perciò l'autore dello Speculum non solo la ritiene legittima, ma dichiara ch’è opportuno, come  pensa anche SCHIAVONE, conoscer l'ora favorevole al concepire, al prender medicine e alle operazioni chirurgiche. Per quel che riguarda invece la costruzion dell’immagini a fine di modificare l'influsso celeste, egli stima  necessario far molte riserve. Parti electionum dixi supponi imaginum scientiam, non quarumcunque, sed astronomicarum. Quoniam imagines sunt tribus modis. Est enim unus modus imaginum abominabilis, qui significatione et invocatione exigit. Est alius modus aliquantulum minus incommodus, detestabilis tamen, qui fit per inscriptionem characterum, per quaedam nomina  exorcizando. Tertius autem est modus imaginum astronomicarum, qui eliminat istas spernendas suffumigationes et invocationes, et non habet neque exorcizationes, neque characterum inscriptiones admittit, sed virtutem nanciscitur solummodo a figura caelesti. Posta tale distinzione, mentre egli condanna gl’esorcismi, gl’incatesimi  e la necromanzia, pensa di non potersi arrogare il  diritto di condannare o di negar l'efficacia dell’immagini astronomiche. D'immagini astronomiche, ammesse dall'autore dello speculum, si parla nella già citata differenza X e nella CI del conciliator. Ma SCHIAVONE sembra andar più oltre ed ammettere anche quel genere di pratiche condannate dall'autore dello speculum. Si tratta per altro d'un equivoco. Egli crede al fascino, all'arte  notoria, alla pvaecantatio e alla magia, e questo deve, senza dubbio, aver contribuito a crear la sua fama di mago e di necromante; ma intanto spiega i fenomeni e i resultati ottenuti con queste arti, sforzandosi di trasportarli sul terreno della magia bianca, allora ritenuta lecita dai teologi. Conciliator, diff. Champier Conciliator,  diff.  Champier. Intorno alle interessanti varianti del numero  8  nelle varie edizioni del conciliator, Ferrari,  Pella biografia  etc. Così egli ammette l'efficacia del fascino e degl'incantesimi, come l’ammette Avicenna e come l'ammette POMPONAZZI, ma esclude d’essi ogni carattere sovrannaturale e segnatamente l'intervento di demoni, pur senza negar l'esistenza d’essi. Per SCHIAVONE,  L’ANIMA DI CERTI UOMINI è fornita, per uno  speciale influsso celeste, di virtù eccezionali, e si comporta, nel modificare l’influenze astrali sulla  terra, come l’immagini artificiali costruite dai sapienti dell' India. La praecantatio è utile al filosofo, come gl’è necessaria la fiducia da parte dell' infermo. Ma le parole dell'incantesimo verbale desumono la loro efficacia dalla virtù celeste, come dalle disposizioni favorevoli delle  costellazioni deriva l'efficacia, secondo Albumasar, della preghiera astronomic. L'efficacia, insomma, di tutte queste pratiche è desunta dall'astrologia. Samo fuori del dominio della magia nera. Una censura speciale di Champier riguarda anche una dottrina la quale non ha niente che fare colle dottrine di carattere prettamente astrologico ch’abbiamo riferite; ma che, anzi, sotto un certo  aspetto, è opposta a quelle. N. intende la dottrina della produzione delle forme – come il cerchio -- GRICE -- nel mondo infra-lunare. Essa  suona così: Ponentes creationem, etsi verissimi in lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi, cum ipsam levem faciant omnino, ac primam quasi causam multiplicibus vexent laboribus; decorem non minus et ordinem et per consequens  perfectionem removentes, secundum LIZIO, ab universo. Champier pretende che con siffatta dottrina SCHIAVONE viene a contradirsi, quia simul stare non possunt, quod lege sint verissimi, et tamen admictendi non sint in philosophia; quia omne verum consonat. Dove non sai s’egli accusi il filosofo d’aver negato la creazione,  o d’avere ammessa la dottrina averroistica della doppia  verità. Ma nell'uno come nell'altro caso, ha frainteso senz'altro la filosofia di SCHIAVONE Conciliator,  diff. Conciliator,  diff. Conciliator,  diff.  loi Champier realtà, di tutte le dottrine censurate da Champier, tre appena sono tacciate d’eresia e segnate d’un biasimo speciale, e cioè: quella, ora accennata, intorno alla creazione; l'avere SCHIAVONE affermato che il divino non puo operare nel mondo infra-lunare se non per mezzo d'intermediari; e l'aver ritenuta efficace la prae-cantatio. Ora la prima dottrina è  stata semplicemente fraintesa da Champier; la seconda è esagerata, poiché così come SCHIAVONE l’intende, non suona affatto eretica ai tempi di lui. Quanto alla terza, egli non s’è accorto come la prae-cantatio e le altre pratiche affini hanno perduto in  SCHIAVONE quel loro carattere originario derivante dalla magia nera che le rende singolarmente sospette. Se Champier esamina il conciliaior coll'animo scevro dai pregiudizi d’una scuola teologica che ha già perduto per sempre il senso della libertà nel campo scientifico, quel senso di libertà che s’è così  poderosamente affermato; s’egli,  dice N.,  studia l'opera del filosofo con quel  senso di tolleranza che rivela il teologo autore dello speculum, e non colla grettezza sospettosa degl'inquisitori padovani, avrebbe potuto forse risparmiarsi quasi  tutte le sue censure e castigationes. Notevole, per altro, che nemmeno Champier, che con tanto zelo si dette la pena di spulciare l'opera ritenuta pericolosa, formula l’accuse ben altrimenti gravi che, con altro scopo, solleva  contro SCHIAVONE il  suo biografo. Ferrari. Eresie  di SCHIAVONE, secondo Ferrari:  Dio e il mondo, Scienza e fede. L'averroismo  di SCHIAVONE secondo Ferrari. Dottrina  della  creazione; lo schema platonico;  il concetto di creazione  mediata. Eternità  della  materia Il  problema  circa  l'eternità  del mondo. La  pretesa  tendenza  al  panteismo. Il  miracolo. La  doppia verità. L'ultimo processo alle dottrine filosofiche  di SCHIAVONE è quello intentato ad esse nella voluminosa e farraginosa biografia scritta intorno al nostro filosofo da Ferrari. Anzi che colla serena comprensione dello storico, si dice che questo autore s’è accinto allo studio della filosofia di SCHIAVONE colla stessa parziahtà di Champier e, quasi dice N., colla stessa mentalità degl'inquisitori  padovani: coll'aggravante d’una minore disposizione a intenderlo, derivante dalla scarsa conoscenza, che ha Ferrari,  d’una filosofia così complessa e ricca di motivi come quella medievale. La scarsa conoscenza  della filosofia medievale, che verremo documentando, si rivela subito, fin dal primo tentativo col quale Ferrari caratterizza la dottrina filosofica di SCHIAVONE, ora asserendo  che questi inclina e simpatizza pell'avverroismo, ora sforzandosi d'inquadrarne il pensiero nel movimento d'idee noto sotto il nome d’averroismo LATINO. All'averroismo più o meno latino inclina il maestro padovano: pella negazione della creazione dal punto di vista filosofico, per avere ammessa la materia eterna, la necessità d' intermediari tra la causa prima e i fenomeni del mondo  infra-lunare, e l'eternità del mondo; per una non ben precisata tendenza al panteismo e per un certo NATURALISMO – bete noire H. P. GRICE -- che lo porta a negare la possibilità dei miracoli; per  aver professata la dottrina della doppia verità; e finalmente pella dottrina dell'intelletto separato. Discuteremo il giudizio di Ferrari sui primi tre punti. Al quarto punto riserveremo il  paragrafo che segue, giacché ne vale la pena. Alla fine del paragrafo precedente, abbiamo visto che Champier segnala come errore, et horrendus, l'affermazione di SCHIAVONE che la dottrina della creazione, pur essendo vera dal punto di vista  teologico, è da rigettarsi da quello filosofico. L'interpretazione sbagliata che Champier colla sua censura da d’un passo male inteso, diventa   Un esempio caratteristico dell'incapacità a comprendere e a giustificare, nel loro genuino significato storico, l’idee del passato, è il capitolo che Ferrari dedica  a SCHIAVONE astrologo. Egli riassume purchessia le dottrine astrologiche del nostro, ma non le spiega. Anzi, ad un certo punto non sa far di meglio ch’uscire in questa goffa esclamazione: Piaccia al nostro lettore che non ci  smarriamo in tali labirinti del pensiero umano che mettono avvilimento e pietà. Pella biografia, etc. L'accusa d'averroismo, per altro, risale, sebbene non precisata come presso Ferrari,  pello meno a Renan  e a Tiraboschi. addirittura una mostruosità storica sotto la scorrevole penna di Ferrari. Udiamo, infatti, qual concetto questi si sia fatto della relazione tra  la il divino e il mondo  secondo la mente di SCHIAVONE. L’azioni del mondo superiore sulla terra e su noi vengono infine dal divino; salvoché l’une producendosi per una serie di mezzi,  sono coordinate a questi e n’hanno la misura, la costanza, la prevedibilità, oltre che sono relativamente ad essi inevitabili; onde le possiamo in certo modo ridurre alle qualità degl’elementi, anche se non vediamo  precisamente il come; l’altre s’esercitano senza movimenti, absque medii alteratione, o dal divino stesso o dalle stelle imprimenti una speciale virtù, com'è nel caso del magnete, la cui virtù attrattiva è collegata, lo attesta l'esperienza, col polo artico. L'opera divina è del resto palese nell'ordine universale e nella finalità che governa il cosmo. L’ACCADEMIA ripose le cause universali  in divinità secondarie, specie di ministri alla prima, che danno le forme alle cose, onde Averroè dice che l’ACCADEMIA in un modo alquanto oscuro aveva asserito che il creatore fé' gl’angeli e ordina poi loro di creare l’altre cose mortali, il che veramente non si dee prendere alla lettera. Il LIZIO le forme delle cose terrestri volle, secondo che pare anche a Temistio, sono generate dal  sole e dal suo giro. Alcuni ammisero che le forme sono nella nostra terra latenti, quali Anassagora, GIRGENTI, Democrito. Altri parlarono di creazione. I primi traggono le cose dal  caos, i secondi vogliono invece che il divino le produca dal  nulla. E quest'ultima opinione induxit loquentes trium legum, quae hodie sunt, dicere aliquid fieri ex nihilo adeo quod diciint quod homo cum  moveat lapidem expellendo, non est movens, sed agens illud creai motum. Di tali sentenze possiamo leggere in Giovanni Filopono. Ma tra le due opinioni opposte e' è luogo per due intermedie, anzi per tre, che convengono nell'ammettere due tesi: la generazione essere un tramutarsi delle sostanze, e niente prodursi dal niente. Convengon in ciò, ma si discostano poi nel 4 L'osservazione  è  meravigliosa! Neanche a farlo a posta, SCHIAVONE cita subito il Timeo, nominando espressamente Platone e l’ACCADEMIA:  Quare,  12. Metaph.  [comm.  44],  Commentor: Plato e l’ACCADEMIA suis obscuris verbis dixit quod creator creavit angelos manu. Del resta alla  diff. si  legge. Plato e l’ACCADEMIA namque posuit substantias separatas, quas ideas appellavit. modo  di pensare l'agente. L'una pone che l'agente crei la forma e la dia alla materia, sia poi esso congiunto o no con materia: opinione di Temistio e lino a un certo  punto di Alf arabi. La seconda nega che l'agente sia affatto legato alla materia e lo chiama dator delle forme, come pensarono Algazel ed Averroè. La terza è quella del LIZIO, che l'Afrodisio giudica non ambigua, e alla quale non  si può non assentire. L'agente non fa se non il composto di materia e forma, movendo la materia finché n’esca in atto la forma che vi giace in potenza. La sentenza del LIZIO in qualche cosa somiglia a quella dei creazionisti e in qualche cosa ne differisce ma è la sola vera, perché sol essa non porta a conseguenze impossibili, come vi portano l’opinioni dell’ACCADEMIA e d’Anassagora, che sono dal LIZIO combattute vittoriosamente. Coloro che invocano la creazione, etsi verissimi lege sint, in philosophia tamen non sunt admittendi. Dopo questa che vorrebbe essere una parafrasi, invero molto libera, d’un importantissimo passo del conciliator, Ferrari dice ancora. L'essenza della materia rende inevitabile l'uso di qualche mezzo o strumento, per certe produzioni, al divino stesso. In altre parole il divino produce e governa i cieli, gl’angeli, L’ANIME, ma nulla poi potrebbe fare nei regni inferiori delle cose corporee senza il loro mezzo, pella troppa distanza tra i due termini. Gl’è così che per una serie di mediazioni, e con armonia meravigliosa discende alle infime cose terrestri l'azione divina, passandosi per gradi dalle cose incorruttibili, anzi  dall'imo semplice ed immobile ag’esseri composti, variabili corruttibili. Parrebbe, dunque, a sentire Ferrari, che il divino, sorgente prima di tutte l’azioni del mondo celeste su quello terrestre, avesse di fronte a sé un principio eterno di passività che sarebbe poi la materia; che questa materia fosse eterna al pari di Dio e non prodotta; che l'azione divina sul mondo Leggasi Avicenna, e  non Averroè, il quale ha sempre combattuta la teoria del dator formarum. Le edizioni hanno solo un' A., che ovunque è abbreviazione d'Avicenna. Ferrari un'altra volta legge Aristotele, arruffando tutto il senso di un passo importantissimo della diff. SCHIAVONE SCHIAVONE. Il luogo del Conciliator qui parafrasato è stato riportato per esteso sopra, corruttibile non potesse in nessun  modo esercitarsi se non attraverso una serie di mezzi, che sono i cieli, gl’angeli e le anime. Se gì'inquisitori parigini e padovani, che se n'intendevano, avessero lette queste cose negli scritti di SCHIAVONE, non avrebbero aspettato ad arrostire un cadavere, né r imputato sarebbe  sfuggito loro dalle mani. Il fatto, invece, è che il pensiero genuino di lui è ben diverso dall'esposizione che  ne fa Ferrari.Vediamo dunque di chiarirlo. Secondo lo schema accademico d’Alfarabi e Avicenna, riassunto anche da SCHIAVONE, dalla prima causa, che è motore immobile e quindi idem et stabilis permanet, non puòderivare ciò che è molteplice e mutevole; ma solum unum immediate, cioè la prima intelligenza col primo cielo. Da questa è prodotta la seconda intelligenza col  secondo cielo; e così di seguito, di grado in grado, secondo un ordine d’emanazione discendente, fino all'intelligenza lunare, la quale produce la così detta intelligenza agente, gubernantem quae sunt in activorum et passivorum spaerà simplicium et compositorum, cioè tutte le forme del mondo infrahmare. SCHIAVONE accetta in parte questo schema, ma v'introduce profonde  modificazioni. Egli pone, tra la causa prima e la materia, una serie d'intermediari che gli servono a  spiegare, come ad ALIGHIERI, la contingenza nel mondo inferiore; ma in nessun luogo afferma che la materia sia eterna, come vorrebbe farci credere Ferrari, per il quale eterna vuol poi dire non creata. E sebbene dica, secundum Aristotelem et Commentatorem, quod Deus nihil potest  in  haec interiora operari absque medio, è evidente che egli intende parlare, non di una necessità di natura e SCHIAVONE come gli scolastici del suo tempo mette con Avicenna anche Algazele. In realtà questi scrive un'esposizione delle dottrine d’Alfarabi e Avicenna, alla quale tene dietro la sua confutazione fatta dal punto di vista della teologia mussulmana ortodossa. Fino ai tempi  di SCHIAVONE solo la prima parte è tradotta in latino; la Destructio philosophorum si conobbe assai più tardi. Di qui l'abbaglio. Palacios, Algazel, Zaragoza,  igoi. Duhem tuttavia crede che quando Algazele scrive la prima parte dell'opera, egli accettas quelle dottrine accademiche che rifiutò poi nella Destructio Duhem,  Le système du monde  etc,  Paris. Conciliator,  diff.  loi. Farad.  il saggio di N, ALIGHIERI e SCHIAVONE nei  Saggi di filos. dant. Conciliator, diff. assoluta, ma di una necessità conseguente a quella a perfecta ratio che è poi la stessa sapienza divina, la quale ha volontariamente stabilito l'ordine mondano; ordine che è sospeso alla volontà divina la quale è immutabile. Ma se la causa prima fissa l'ordine cosmico, nel quale gl’eventi del mondo  infralunare dipendono dal moto e dalle 'a^iazioni che accadono nei corpi celesti, intermediari tra i due estremi dell'atto puro e della pura potenza, non ne segue logicamente che non possa, in quanto è superiore a quest'ordine da sé stabilito, derogarvi. Anzi troviamo esplicitamente asserito il contrario:  Potest primus sua mera benignitate, cum sit agens supernaturale, per voluntatem,  absque motu et transmutatione in haec in inferiora operari, quicquid dicat peripateticus. Ora se SCHIAVONE può pensare ad un intervento diretto,  anche se fuori dell'ordine naturale, della causa prima sul mondo della generazione e corruzione, vuol dire che la necessità degl'intermediari, affermata da lui sulla scorta di Aristotele e del commentatore, non è la necessità assoluta dei platonici arabi, per i quali è sempHcemente impossibile, cioè anche ancilla e jamula della teologia, la filosofia è riconosciuta indipendente da quella e autonoma entro la propria cerchia di ricerche naturali. Così, non ostante tutti i tentativi più o meno ingegnosi per unificarle, quella  filosofia e quella teologia non rimanevano meno distinte, se non opposte, per i loro metodi propri di  ricerca e per il loro spirito. In questa distinzione, accettata da tutti i teologi del tempo di SCHIAVONE, era il germe latente dell'eresia di cui a torto si vorrebbero render responsabili solo i veri o pretesi averroisti. Una volta proclamata la legittimità della ricerca razionale e filosofica, per mezzo di metodi propri e diversi da quelli teologici, quale autorità teologica in terra avrebbe potuto  più mettere un freno a coloro che, intrapreso il cammino della ricerca scientifica, intendeno percorrerlo fino in fondo. E infatti, s’era appena riconosciuta quella distinzione, che fu subito avvertito il contrasto tra filosofia e teologia, contrasto che venne sentito più o meno da tutti i filosofi scolastici, da Brabante come d.Aquino, da SCHIAVONE come da  Duns e d’Alighieri; e tutti  cercarono di risolverlo con particolari e diversi atteggiamenti spirituali. Il contrasto, da prima latente, dove portare, e porta, al conflitto fra i rappresentanti delle due principali facoltà degl'istituti universitari, quella dell’arti e quella di teologia. Nella facoltà dell’arti si leggeno e si commentano i libri d'Aristotele e le trattazioni d’Avicenna, Averroè, Galeno, Tolomeo e di numerosi altri  autori. E vi rifiorirono così, e s’accrebbero, l'astrologia, la matematica, la medicina, l'alchimia e la magia, tutte insomma le scienze create o sviluppate dal genio filosofico. Che queste scienze sono infestate d’inveterati pregiudizi metafisici, non toglie che il loro sviluppo concorre in larga misura allo sviluppo del sapere scientifico e al progresso dello spirito umano. Per mezzo d’esse si  inaugura nell'occidente il metodo della ricerca filosofica, s'inizia la libera indagine delle cause naturali dei fenomeni del mondo  ter  E di porre un freno si tenta più volte, ordinando, come a Parigi agli scolari della facoltà dell’arti di astenersi dal determinare contra fidem quando hanno da discutere d’un problema che  /idem videatur attingere simulque philosophiam. Carthularium  Universita Parisiensis restre. Al pregiudizio teologico si sostituì, è vero, quello astrologico. Ma l'errore d’aver riposto le cause dei fenomeni naturali in influenze astrologiche, non è poi così grave e imperdonabile, s’esso significa anzitutto libera ricerca di cause naturali, affermazione di leggi ed esclusione dell'arbitrario dal mondo dell'esperienza. E intanto quell'astrologia, quell'alchimia, la vecchia medicina e la stessa magìa venivano raccogliendo da ogni parte ed accumulando preziose osservazioni ed esperienze, che, nella Rinascenza, dovevano portare al superamento dei pregiudizi e concetti metafisici, e contribuire direttamente al rinnovamento della scienza. Al quale non si sarebbe  mai giunti, senza l'inaugurazione di quel  metodo razionale, la cui legittimità era  stata proclamata all'unanimità dagli stessi teologi scolastici, non solo in teoria ma anche in pratica. Vediamo infatti Aquino esporre con intera libertà e senza prevenzioni le dottrine di Aristotele, fino a dichiarare, contro il parere dei teologi, che l'eternità del mondo non implica contradizione e che la tesi della creazione nel tempo non può dimostrarsi colla sola ragione. E Alberto di  Colonia insieme al pensiero aristotelico espone quello degh altri peripatetici, pur notando che non di rado esso cozza coi dommi cristiani. Ora all'esempio di Colonia si richiamano espressamente o tacitamente SCHIAVONE e Brabante, quando dichiarano di trattare de naturalibus naturaliter, senza farla da teologi. De naturalibus naturaliter: ecco il programma di quegli AMBIENTI LAICI, che sono le facoltà dell’arti. LAICI, s'intende, solo per i metodi dell'indagine scientifica e filosofica in contrapposizione con quelli della teologia. Di questi ambienti laici SCHIAVONE incarna perfettamente lo spirito. In questo spirito è la sua vera, la sua unica eresia; un'eresia inconsapevole che s'era già insinuata nella coscienza di tutti coloro che avevan fatto buon viso al  rinascente pensiero aristotelico, e che era penetrata fino nelle scuole di teologia. Senza prestargli dottrine eterodosse che negli scritti a noi noti egli ha il studio di N., La posizione di Colonia di fronte all'averroismo La filosofia, infatti, questa povera ancella della teologia, ha il compito di stabilire i praeambida  /idei e dichiarare il contenuto delle formule dommatiche. Le opere teologiche   della Scolastica,  compresa espressamente riprovate, senza attribuirgli quel continuo sdoppiamento di coscienza che piace a chi, per il gusto di farne un eretico, ne farebbe volentieri un ipocrita, pronto ad affermare il contrario di quello che in cuor suo pensa, per salvare la pelle dal rogo; le sue audacie dottrinali, dal punto di vista della teologia imperante, sono evidenti: maggiore di tutte  quelle intorno ai miracoli e ai fatti meravigliosi. SCHIAVONE è lo scienziato forse più caratteristico di quel periodo di cui Aquino è il maggior teologo, e Alighieri il sommo poeta. Pella vasta erudizione, pur senza essere un rinnovatore e un  precursore, rappresenta la scienza in tutti i suoi molteplici aspetti, in ogni sua tendenza. L'idea centrale della scienza di lui è un'idea astrologica.  E i  creatori della leggenda popolare di un SCHIAVONE mago, sebbene non cogliessero i veri caratteri della sua magìa, magìa bianca, ben differente dalla necromanzia, ci hanno tramandato un'immagine dell'uomo, che forse è meno difforme di quel che non si creda, dalla sua storica personalità. la grande Summa d’AQUINO, son impregnate di razionalismo; razionalismo che s’afferma  nettamente in Lullo. L'ancella comincia ben presto a farla da padrona! Ili Se SCHIAVONE non è un avverroista nel senso vero e proprio della parola, avveroista è invece l'eremitano Nicoletti, il quale professa a Padova un tipo d'avveroismo guardingo, che forse «gli vi portò da Parigi, se pure non v'era già arrivato da BOLOGNA,  e che risente della lettura dell'opera di Sigieri di  Brabante, De intellectu ad jratrem AQUINO,  oppure degli scritti di Wilton impugnati a BOLOGNA Bologna, dal francescano Alnwick. NICOLETTI è andato a studiare a Oxford, insieme a un suo fratello germano, anch'egli eremitano, e v'era Dal voi. Brabante nel pensiero del Rinascimento  italiano. Roma, Edizioni Italiane, salvo una modificazione fino al quinto capoverso. Sigieri  di Brab. ecc. Che l'averroismo a PADOVA ha origini in BOLOGNA è ipotesi verosimile; ma non si può escludere un'origine oltre-montana. Che poi Averroè è tenuto in gran conto a Padova assai prima  di NICOLETTI, è provato dagl’affreschi di Menabuoi nella cappella Cortelieri nella chiesa degl’eremitani, anteriori, e dei quali ci resta la descrizione di Schedel di Norimberga che  è studente a Padova. Giunto raffigura Averroè insieme agl’eremitani maestro ALBERTO DA PADOVA e al beato GIOVANNI DA BOLOGNA. Schlosser, Giusto's Fresken in Padua n. die Vorlàufern der Stanza della Segnatura, Jahrbuch der Kunsthistor. Sammel. des allerhòch. Kaiserhauses, Wien, Bettini, Giusto  S. M. e l'arte. Padova, P n? NICOLETTI  dove ben conoscere quegli affreschi. 2  Maier,  Alnwicks BOLOGNA Quaestionen gegen Averroismus, Gregorianum rimasto almeno un triennio. Il soggiorno di NICOLETTI a OXFORD non era rimasto ignoto a CITTADINI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara detta un commento polemico dei Logica minora dell'eremitano, in principio del quale si legge: Ferunt autem quidam non auctoritate indigni, hunc libellum in BRITANNIA, ubi olim et dialecticae et PHILOSOPHIAE studia floruerunt, in antiquissimis litteris compertum esse, ut ex illis constaret, prius opusculum hoc extructum fuisse quam NICOLETTI natus esset. Quod eo magis a non nulhs creditur, quod certuni est NICOLETTI apud Britanos visendorum GYMNASIORUM gratia aliquando commoratum esse, ac postea in Italiani  revertentem multos libros secum detulisse, quorum auctores Italis penitus erant incogniti. Più tardi soggiorna anche in tlorentissima universitate Parisina, ove NICOLETTI espone gli  ante-praedicamenta di Aristotele. Egli è lettore nella facoltà dell’arti a Padova, e quivi compone quella Summa naturalium nella quale è esposta la dottrina del libri fisici e della Metafisica d'Aristotele, con  sobrie discussioni dei problemi agitati nelle scuole. Notevole in questa summa il trattato concernente il De anima, perché in esso ritroviamo le tesi fondamentali del De intellectu di Sigieri. Ma di questo scritto aristotelico NICOLETTI ci lascia un'assai più ampia esposizione redatta non di molto posteriore alla Summa naturalium Reg. Re. mi  Barth. Veneti,  nell'Archivio della Curia  generalizia degl’eremitani in Roma  Dd. il studio di N. sulla Letteratura e cultura veneziana, La civiltà veneziana. Firenze, Sansoni Cod.  Urb.  lat. Ghiotta notizia, segnalatami da Pagallo, in una annotazione al Cod. della Bodleniana di Oxford Catal. di H.O. CoxE, P. Ili, Oxford La data di composizione della Summa  naturalium è fissata dal codice marciano che ne contiene solo tre  parti. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Veneiiarum, Venezia, Lat. Come non molto posteriore è 1'Expositio super libros Physieorum Aristotelis necnon super comento Averois cum dubiis eiusdem Duhem, Le niouvement absolu et le mouvement relatif. Revue de philosophie. Montligeon (Orne) Le stesse variazioni che Duhem riAnche in questa seconda opera l'influsso  esercitato sull'eremitano dal trattato dell'averroista belga contro AQUINO, è decisivo, come possiamo convincerci dalla lettura dei seguenti brani che per comodità del lettore riferiamo. Nell'esposizione del testo del De anima, Nicoletti si pone, ad maiorem dictorum evidentiam, alcuni dubia, il secondo dei quali verte sul problema utrum in eodem animali plures possint esse anime totales,  che egli risolve nel modo che segue, non senza aver prima confutate altre soluzioni: Circa liane materiam, siint plures modi dicendi. Primus modus est, quod piante non habent nisi unam animam totalem, scilicet vegetativam; bruta duas, scilicet vegetativam et sensitivain; homines vero tres, videlicet vegetativam, sensitivam et intellectivam; non tamen simul  generantur, sed successive  per tempus, ita quod primo generatur vegetativa, deinde sensitiva, tertio leva – GRICE PIROTOLOGICAL PROGRESSION -- tra quest'opera e la Summa naturalium, si posson notare anche fra quest'ultimo scritto e il commento Super libros Aristotelis de anima, che senza dubbio rivela una maggiore complessità e maturità di pensiero. Nel commento, a proposito del quesito se gli  universali sint in rerum natura, NCOLETTI dichiara d'averne trattato quanto basta in alio opere et in prologo physicorum. È probabile che, dopo l'esposizione sommaria delle dottrine fìsiche e metafìsiche dello Stagirita, Nicoletti si sia accinto a commentare le singole opere aristoteliche alle quali si riferiva la Summa, cominciando, come sappiamo, dagli libri della Fisica e proseguendo  poi col De caelo, col De generatione et coruptione, coi libri Meteorologici, col De anima e colla Metafisica. Una vera biografìa filosofica di NICOLETTI non è concepibile senza aver tolto in esame tutte queste opere che da parte di Momigliano sono state piuttosto ricordate che vedute e lette. Tornato a Padova, dopo le peripezie che lo avevano costretto a lasciare questa città o forse  l'eremitano s'accinse a commentare di nuovo il De anima, come ci attesta Ripalta, piacentino, allora studente nello studio padovano. Questi si procura una copia dell'esposizione completa dell'opera aristotelica, poiché il maestro che con tanto grido era tornato a leggerla non anda oltre il capitolo de gustabili, essendo stato colto dalla  morte. Valentinelli NICOLETTI, In libros de anima  explanatio cimi textu incluso singulis locis, maxima qiiidem diligentia a vitijs mendis atque erroribus quibus hacteniis ex ignavia impressorum scatebat purgata ac pristine integritati restituta etc. E nel colophon: Scriptum super librimi de anima ex proprio originali diligenter emendatum per clarissimum. artium doctorem.  D. magistrum Hieronymum Surianum, filium prestantissimi quondam artium doctoris, Domini magistri  lacobi. de Surianis de Arimino Venezia, Eredi di Scoto, comm. post completarti organizationem membrorum generatur  intellectiva  Hic modus dicendi est superfluiis. Secundus modus dicendi est, quod in quolibet vivente est solum una anima totalis; et quod est ordo in productione animarum, quia FETVS PRIMO VIVIT VITA PIANTE,  deinde vita animalis; tamen tales anime simul non manent in eodem, sicut nec due figure, sed in adventu secunde corrumpitur prima, et in adventu tertie corrumpitur secunda. Iste modus est impossibilis, quia tunc aliqua forma per se ageret ad corruptionem sui ipsius. Tertius modus dicendi est, quod in nullo nisi in homine sunt plures forme substantiales seu anime totales, scilicet  sensitiva et intellectiva, quarum prima educitur de potentia materie per agens naturale, secunda autem creatur a deo, non obstante quod ita bene inhereat sicut prima, adducendo illud philosophi, de animalibus: intellectus venit deforis. Sed hec opinio includit contradictionem, quia si anima intellectiva inheret materie, ergo educitur de potentia materie et generatur ad generationera corporis  animati et corrumpitur ad corruptionem eiusdem. Item hec opinio non est naturalis, quia ponit intellectum creari; et Aristoteles una cum commentatore ponit ipsum perpetuum et eternum. Deinde, si anima intellectiva inheret materie, ergo intellectio et volitio sunt subiective in materia; quod est centra philosophum et commentatorem ponentes potentias rationales esse abstractas a corpore,  et consequenter actus illarum. Quartus modus, quem solum puto rationalem, est iste, quod pianta habet solum unam animam totalem, scilicet vegetativam, compositam ex partibus diversarum rationum; et consequenter animai imperfectum simpliciter, quod non habet aliquem sensum exteriorem nisi sensum tactus, nec aliquem motuin ad locum, sed solum motum dilatationis et  constrictionis, habet etiam solum unam animam, scilicet sensitivam, que propter sui imperfectionem supplet vices anime vegetative, ita quod in ostrea vel spongia  marina eadem anima est sensitiva et vegetativa. Animai autem perfectum habet duplicem animam, scilicet partialem vegetativam, in carne vel osse vel in aliquo proportionali, et Questa teoria è la seconda delle opinioni da  N. elencate in Giorn. Crii, della Filos. Ital., ed è ricordata d’ALIGHIERI, Purg., come quello error che crede ch'un 'anima sovr 'altra  in noi s'accenda. Questa dottrina, già accolta dal francescano RocheUe, fu difesa, com' è noto, d’AQUINO. lo stesso Giorn. Crii., opinione. Questo tertius modus, che è una teoria intermedia fra quella d’AQUINO e quella schiettamente  averroistica, non  è altro che la opinione da N. elencate,  professata da Alberto Magno,  Peckam  ed ALIGHIERI. Giorn. Crii.; come pure  il voi. Di N., ALIGHIERI e la cultura  medievale, Bari,  Laterza Questa è anche la tesi di Bate; Sigieri, nel pens. nnam sensitivam totaleni, ut equus vel asinus. HOMO autem, preter partiales animas, habet duas totales: cogitativam sensitivam, generabilem et  corruptibilem, inherentem et informantem, et intellectivam  perpetuam et eternam, informantem et non inherentem. Da siffatta teoria risultano alcune conseguenze a mò di corollari Tertio sequitur quod HOMO non est  homo precise per animam cogitativam, nec precise per animam intellectivam, sed per ambas simili. Cogitativa enim denominat hominem esse animai, et intellectiva  denominat hominem esse RATIONALEM. Sed HOMO est diffinitive et convertibiliter ANIMAL RATIONALE – corpi celesti ANIMAL RATIONALE AETERNVM --. Ergo ambe anime concurrimt ad constitutionem hominis. Quo dato, oportet concedere quod, sicut genus est prius differentia et potentiale ad illam, sicut universaliter minus perfectum ad maius perfectum, ita  cogitativa  est prior intellectiva in homine et potentialis Nella Summa philosophie natura! is o naturalium Venezia. Eredi di Scoto, De anima: conclusio: Necesse est in homine esse plures animas totales. Probatur: nam sol et homo generant hominem, physicorum; ergo homo generatur; sed terminus generationis est forma accipiens novum esse, ut colligitur ex sententia philosophi, phisicorum;  ergo  aliqua forma hominis generatur; sed non intellectiva, de anima; ergo sensitiva generatur. Item, philosophus,  coeli: omme genitum aliquando corrumpetur; ergo homo aliquando corrumpetur; sed non intellectiva,  de anima; ergo sensitiva. Et ita necesse est ponere in homine duas animas: unam intellectivam, ingenerabilem et incorruptibilem, secundum philosophum, et aliam sensitivam,  generabilem et corruptibilem, quam Commentator vocat, de anima, cognitivam cogitativam. Conclusio: Impossibile est in aliquo vivente non intellectivo esse plures animas totales. Patet, quoniam si in plantis vel in brutis ponerentur plures anime totales, una necessario superflueret, quoniam illa que est maioris perfectionis totum actuaret, sicut illa que est minoris perfectionis, et omnes  operationes eius exerceret, ex quo in ea fundantur omnes potentie inferioris anime. Dicatur ergo quod in plantis est solum una anima totalis, que est tota in toto et pars in parte, et hec est vegetativa. In animalibus autem imperfectis est solum una anima totalis, et illa est sensitiva, supplens vicem anime, que etiam extenditur ad extensionem subiecti;  et in animalibus perfectis sunt plures  vegetative partiales et una  sensitiva totaUs, multiplicata ad omnem partem heterogeneam. Sed IN HOMINIBVS, praeter formas partiales vegetativas, sunt due totales, scilicet sensitiva multiplicata ad partes heterogeneas, et intellectiva non multiplicata ad aliquam partem illius individui, sed bene ad omnia individua speciei humane, eo quod intellectus est unus in omnibus hominibus,  iuxta intentionem Aristotelis et determinationem Commentatoris, de  anima. illam sequitur quod idem individuum est diversarum specierum essentialium. Patet, quia HOMO per animam cogitativam sensitivam est alicuius speciei generis animalium, immo supreme speciei, quia, secluso intellectu, PER COGITATIVAM HOMO HABET DISCVRSVM QUODAMMODO RATIONALEM – GRICE PRINCIPLE OF RATIONAL DISCOURSE --,  ratione reminiscentie reperte in eo et non in aho; licet enim memoria reperiatur in liis animalibus, non tamen reminiscentia; neque reminiscentia competit homini ratione intellectus, sed ratione cogitative virtutis, quia reminiscentia est passio anime sensitive, secundum Aristotelem, in de meìnoria – GRICE PERSONAL IDENTITY -- et reminiscentia  H. Item, quia intellectus humanus est pura potentia in genere intelligentiarum, per commentatorem, tertio huius, et per consequens est primus gradus illius generis, ideo per intellectum constituit primam speciem intellectivoruni, sicut per cogitativam constituit ultimam speciem generis animalium. Nec est inconveniens duos gradus specificos esse immediatos, quia  species sunt sicut numeri, inetaphysice. Et si concluditur ex eodem fundamento, quodlibet mixtum esse diversarum specierum essentialiter, ratione forme mixti et forme elementi, negetur consequentia, quia forma elementi non se habet respectu forme mixti nisi materialiter et potentialiter per modum dispositionis prefinientis in materia formam mixti; ideo non dat mixto nomen specificum  nec diffinitionem  essentialem. Sed anima cogitativa non se habet tanquam dispositio prefiniens animam intellectivam, cum eque simul inducantur in corpore, nec una potest naturaliter esse sine alia. Cogitativa tamen dicitur esse prior intellectiva et potentialis ad illam propter suam imperfectionem. Come è facile vedere, già in questo luogo dell'esposizione del libro secondo del De  anima, la tesi caratteristica di Sigieri, Anche Sigieri, come sappiamo, afferma che la cogitativa è ordinata in intellectivam, talché nec potest intellectus informare materiam non informante cogitativa, nec potest cogitativa informare materiam non informante intellectu; Sigieri nel pens. Quella parte dove sta memora chiama l'anima sensitiva anche Cavalcanti, nella canzone Donna mi prega, tutta pervasa di dottrina averroistica; il mio voi. Dante e la cult, medievale Gli averroisti negano si la  memoria che la reminiscenza all'intelletto; il mio voi. Nel mondo di Dante, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura Altra tipica tesi di  Sigieri che NICOLETTI sviluppa. Allo stesso modo anche nella Summa naturalium Ad secundum dicitur, quod anima intellectiva non advenit enti in actu substantiali, quia eque primo adveniunt corpori sensitiva et intellectiva. Item, dato quod sensitiva precederet tempore intellectivam, adhuc advenit enti in potentia, quia forma sensitiva hominis dicitur potentialis ad ulteriorem actum; non autem anima intellectiva. Hec ergo est differentia inter formam substantialem et accidentalem, quia forma accidentalis advenit enti in actu  ultimato, forma autem substantialis advenit enti in potentia, licet non in pura potentia. Ol che r intelletto, pur essendo in sé una sostanza separata unica per tutta la specie umana, s'unisce ai singoli con un vincolo sostanziale, sì da potersi dire forma, atto e perfezione dell'uomo, è accennata in modo esplicito. Ma 1'influsso del brabantino sull'udinese è ancora più evidente nell'esposizione del libro, del pari che nei capitoU della quinta parte della Summa naturalium. In quest'ultimo scritto, NICOLETTI tratta anzitutto della passività o passibilità dell'intelletto umano, formando conclusioni: Quarum prima est ista: Intellectus humanus nullam habet de se in actu speciem intelligibilem, sed ad quamlibet talem est penitus in potentia. Intellectus non est aliqua una natura sed  solum habet possibilitatem recipiendi omnes formas materiales. Intellectus possibilis humanus ante intellectionem nullatenus est actu. Intellectus humanus est immaterialis et incorporeus et immixtus. Tutte e quattro queste conclusioni ritornano, con una leggera variazione nel loro ordine, in principio dell'esposizione del De  anima; ma qui alla  conclusione che corrisponde alla seconda  della Summa, il maestro padovano ricollega il problema dell'unità dell'intelletto che nella Summa è discusso. Tanto nella Summa naturalium conclusio, quanto nell'esposizione del De anima combatte la tesi sostenuta un tempo a Oxford da Kilwardby e Wilton, e accolta anche da Jandum, che in aliquo vivente possit esse multitudo formarum iuxta pluralitatem predicatorum essentialium    Della qual tesi nell'esposizione del De anima egli dà questo riassunto: Tenentes pluralitatem formarum in eodem iuxta multitudinem predicatorum quiditativorum, dicunt quod prima forma Sortis est illa qua ipse est substantia, et secunda qua est corpus, et tertia qua est corpus animatum, et quarta qua est animai, et quinta qua est HOMO, et sexta qua est Sortes; et ita de individuis aliarum  specierum; et imaginantur isti quod, quantum ad animam sensitivam, omnia animalia sunt eiusdem rationis substantialis, a qua sumitur hoc genus animai; et secundum formas ulteriores specifìcas, sunt homines, equi et canes diversarum rationum substantialium; concedentes omnes tales formas realiter distingui et fundari in materia inhesive, ordine essentiali, secundum quod taha  predicata invicem essentiahter ordinantur. Ista opinio est impossibilis. Summa  naturai.,  In libros de anima col. Sul modo di concepire la passività dell'intelletto possibile e il concorso dell'intelletto agente e del fantasma  ll'atto dell'intendere, l'eremitano riferisce opinioni, l'ultima delle quali è quella d'Averroè: Opinio est Averroys intellectui possibili nihil nisi passibilitates assignantis,  fantasmati vero activitatem tanquam particulari agenti, et intellectui agenti tanquam agenti universali; ita quod ad primas intellectiones et species intelligibiles concurrit fantasma tanquam agens particulare, et intellectus agens tanquam agens vniiversale; ad omnes autem conseguentes se habet intellectus agens sicut causa particularis, fantasma autem sicut causa sine qua non, intellectus  autem possibilis solum recipit et nunquam agit. Da questa opinione NICOLETTI dichiara di dissentire, non per quel che concerne le prime intellezioni, nelle quali l'intelletto possibile è totalmente in potenza, e quindi del tutto passivo, sibbene per quel che concerne le intellezioni successive, alle quali, essendo già attuato dalle prime, è in grado di concorrere attivamente, semper tamen  virtute intellectus agentis. Di qui la conclusione formulata piti oltre, che cioè: Intellectus ante actuationem speciei intelligibilis aliter est in potentia quam post actuationem eius. Dopo aver affermato l'essenziale passività dell'intelletto possibile, NICOLETTI si pone nella Summa naUiralmni il quesito del rapporto da stabihre tra questo intelletto e il corpo umano, intorno al quale tam  Inter veteres quam modernos multa discrepantia fuit. E prima di tutto ricorda quod Plato posuit intellectum uniri corpori, non ut formam materie, sed ut motorem mobili, eo modo quo nauta unitur navi et intelligentia orbi, non per modum informationis, sed per contactum virtutis alium a contactu corporeo. Il problema fu a lungo discusso fra le varie scuole nella scolastica della  decadenza,  senza che ci si rende ben conto della sua gravità, poiché è problema che investe tutta la filosofia fino a Kant: come salvare l'immanenza dell'atto del conoscere, se esso ha bisogno d'una causa esterna che la produca nel soggetto conoscente Summa  naturai Quanto ad Averroè, il nostro eremitano ne espone il pensiero in questi termini: Secundo notandum ex intentione commentatoris, ij  de anima comm, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam, et non cedit ei organum fantasticum  seu imaginative virtutis, cum sit quid corporale, intellectus autem quid spirituale; organum predictum non cedit intellectui, et per consequens illa eadem intentio que informat virtutem imaginativam, informat intellectum materialem; et hoc dico quia intellectus copulatur  nobis per formam suam. Copulatur enim nobis per intentiones imaginatas, que sunt eedem cum intentionibus existentibus in intellectu possibili; et ita unitur homini per fantasmata intellecta in actu. Intentiones enim imaginative, per commentatorem, ut informant virtutem imaginativam, plurificantur, quia sunt ibi cum conditionibus materie; sed ut informant intellectum possibilem fiunt  una intentio in ipso, quia non recipit cum conditionibus materie. Et ideo inquit Commentator, quod copulatur nobis intellectus per continuationem intentionis intellecte, quia eadem est intentio informans intellectum et virtutem imaginativam. Siffatta interpretazione del pensiero del commentatore arabo anzi che da Sigieri è suggerita invece da COLONNA, al quale il confratello veneto  s'appella esplicitamente nel commento al De anima: Opinio fuit Averoys dicentis quod intellectus humanus non unitur corpori ut forma, sed per fantasmata intellecta in actu. Ad quod declarandum, est notandum primo secundum eum in hoc tertio, iuxta expositionem COLONNA, quod corporalis natura compatitur secum spiritualem naturam  etc. All'opinione d'Averroè,  NICOLETTI aggiunge quella di Jandun che, al parere di N., egH non ha ben compreso. Ecco ad ogni modo com'egli la riassume: Opinio fuit  ianduno dicentis quod intellectus, secundum commentatorem, unitur corpori humano, non ut forma dans esse, sed ut motor mobili dans operari, eo modo quo unitur intelligentia orbi et nauta navi; concedens consequenter quod datur duplex homo: unus qui  componitur ex corpore et anima cogitativa; et alius qui componitur ex intellectu et toto residuo In libros de anima COLONNA,  Do intell. pass, contra Averr., Venezia quibus proportionaliter respondet duplex intelligere, scilicet universale et particulare; homo sumptus primo modo, solum particularia intelligit; et sumptus secundo modo intelligit solum universalia. A queste opinioni  egli oppone la tesi d'Aristotele, secondo il quale l'intelletto è vera forma sostanziale dell'uomo, cui dà essere ed operare. Ma com'egli intenda il pensiero dello Stagirita su questo punto, c'è detto nella Summa naturalium. Anima intellectiva non unitur corpori humano per inherentiam. Patet tripliciter: primo quia ipsa est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima; modo nulla forma inheret materie per transmutationem, scilicet materie que non generatur et corrumpitur, ut colligitur a philosopho, de genevatione, et a Commentore, in de substantia orbis. quia intellectus est impassibilis et intransmutabilis, de anima; sed nulla forma inheret materie nisi per transmutationem et passionem. quia anima intellectiva est indivisibilis et impartibilis per carentiam partium integralium;  nam quelibet forma inherens materie suscipit conditiones intrinsecas materie secundum quas inheret; cum ergo conditio materie, secundum quam forma inheret, sit habere partes integrales, licet non partem extra partem, quia hec est conditio quantitatis, etc. Anima intellectiva unitur homini substantialiter per informationem, ita quod est forma substantialis corhumani, non solum dans  operari, sicut intelligentia orbi, sed etiam esse specificum et essentiale. Probatur: differentia specifica constituens aliquam speciem sumitur a forma illius speciei, sicut apparet ex intentione philosophi, metaphysice, dicentis quod contraria consequentia materiam non faciunt differentiam in specie, sed contraria consequentia formam; modo differentia propria hominis est rationale; ergo sumitur a forma humana; sed rationale sumitur ab eo quod est intellectivum; ergo intellectus vel anima intellectiva est forma corporis humani. Item, rationale ponitur in diffinitione eius non tanquam additamentum, sed tanquam differentia eius, ut ponit Porphyrius et Aristoteles; ergo rationale est de essentia hominis; sed nihil est per se rationale nisi per aniinam intellecti Sigieri Opinio  fuit Aristotelis dicentis intellectum esse veram formam substantialem hominis. Ideo est dicendum cum Aristotele et alijs perypateticis veris, quod intellectus est iorma substantialis hominis, dans sibi esse et operari..vam; ergo etc. Unde ex diffinitione anime data a phylosopho, de anima, convincitur hanc conclusionem esse de intentione sua. Arguitur enim sic: Anima intellectiva  secundum ipsum est anima; ergo est actus primus corporis; patet consequentia a dififinito ad diffinitionem; ergo est forma substantialis; patet consequentia secundum phylosophum, de anima, eo quod actus primus est forma substantialis corporis; et nonnisi corporis humani; ergo etc. Deinde anima intellectiva est illud quo primo intelligimus; ergo est forma substantialis hominis; patet  consequentia, quia non est alia ratio ad probandum animam vegetativam esse formam substantialem corporis vegetantis, et animam sensitivam esse formam corporis sensitivi; ergo  etc. L'anima intellettiva dunque è, sì, forma dell'uomo, in quanto gli dà l'essere e l'operare di uomo, ma non perché sia inerente al suo corpo alla stessa maniera delle altre forme naturali. Su questa differenza  NICOLETTI ritorna anche nel commento al De anima: Intelligenda est differentia inter informare et inherere: quoniam informare est dare alteri esse actuale et hoc dicit perfectionem in forma, imperfectionem in materia, quia dare dicit perfectionem; sed inherere est ab alio sustantificari, et hoc dicit perfectionem in materia et imperfectionem in forma, quoniam sustantificare dicit  perfectionem, et sustantificari imperfectionem dicit, scilicet dependentiam a subiecto – GRICE SUBSTANTIATION --. Ex isto notabili, sequitur quod anima intellectiva, licet informet corpus humanum, non tamen  nheret illi, quia non dependet ab eo; quocumque enim tali corpore dato, ante illud fuit et post illud erit anima intellectiva, cum illud generetur et corrumpatur, anima autem  intellectiva sit eterna. Ouatuor rationibus arguitur animam intellectivam non inherere materie; quarum prima est ista: anima intellectiva non educitur de potentia materie; ergo sibi non inheret. Secunda ratio: anima intellectiva est prior materia; ergo non inheret illi. Tertia ratio: anima intellectiva est impassibilis et intransmutabilis; ergo non inheret materie. Quarta ratio: anima intellectiva est indivisibilis et inpartibilis per carentiam partium integralium, secundum philosophum et commentatorem, in hoc tertio; ergo non inheret materie. Anima sensitiva o cogitativa ed anima intellettiva son dunque, per il maestro padovano, due forme totali che costituiscono l'uomo nella sua natura di animale ragionevole. Ma pur essendo due forme distinte, sono unite da un intimo In  libros de anima legame talmente stretto, che l'una è fatta per l'altra e l'una completa l'altra. Per questa ragione Nifo, più che due anime le dice due semi-anime costituenti, pella loro sostanziale unione, una sola anima umana; -- GRICE UN TERTIUM ANIMAE -- che è anche il pensiero d’ALIGHIERI, il quale ad esprimerlo si serve della immagine del calor del sole che si fa  vino,  giunto all'omor che dalla vite cola. La tesi di NICOLETTI è dunque identica in sostanza alla tesi professata da Sigieri nel trattato in risposta a quello d’AQUINO contro gli averroisti; ma d'accordo col brabantino il maestro padovano non è nella pretesa d'attribuire questa tesi al commentatore arabo; anzi egli riconosce che è vero il contrario: Cominentator tamen diceret intellectum per  se subsistere, et ipsum non uniri materie ut formam; sed non sui ipsius{sic, leggi: sum ipsius) opinionis. Ma se il nostro eremitano dissente da Sigieri su questo particolare, non dissente affatto da lui nel ritenere che, pur essendo forma dell'uomo, l'intelletto possibile è unico per tutti gli uomini. E nella Summa naturalium ritiene sia questo il pensiero non soltanto d'Averroè, bensì  quello   d'Aristotele: Unde secundum philosophum, primo et tertio de anima, natura nihil facit frustra et non abundat in superfluis, nec deficit in necessariis; cum igitur natura alicui speciei non dederit nisi unum individuum, et alteri plura, hoc est ideo, quia una species in uno individuo potest se perpetuo preservare, et non alia; ut species angelica que perpetuo preservatur in una intelligentia, et  non species humana; sed ita est quod species anime intellective potest se preservare perpetuo in uno individuo, quia anima intellectiva est perpetua et eterna sicut aliqua intelligentia celestis, ergo frustra et preter intentionem nature ponuntur plures anime intellectuales solo numero differentes. tem, intellectus venit de foris, secundum philosophum, libro de animalibus: aut ergo per  creationem, iuxta opinionem fidei; aut per motum a corporibus celestibus, iuxta opinionem Platonis; aut per introitum unius corporis, aliud relinquendo, iuxta opinionem Pictagore; aut per novam actuationem unius corporis humani, aliud non relinquendo: nullus trium priorum modorum potest assignari, quia intuenti libros Aristotelis notum est ipsum oppositum Sigieri nel  pens.Purg. In libros de anima opinari; ergo est dare quartum modum; et cum in eodem corpore non possint esse plures anime intellective simul, secundum omnes opiniones, sequitur quod unicus est intellectus in omnibus hominibus secundum intentionem Aristotelis. E più oltre: Quarta conclusio: Intellectus non numeratur numeratione individuorum, sed est unicus in omnibus hominibus. Probatur: pluralitas individuorum in eadem specie non est nisi per materiam, per philosophum, celi, et metaphysice, ubi probat quod non possunt esse plures intelligentie separate solo numero differentes, per hoc medium: quecunque conveniunt in eadem specie et differunt numero, habent materiam; sed anima intellectivam non habet materiam scilicet ex qua, nec in qua per inherentiam; ergo etc. Unde arguitur sic: anima intellectiva est ingenerabilis et incorruptibilis, de anima, et non contingit dare multitudinem infinitam, celi et physicorum, et species sunt eterne, posteriorum et physicorum; ergo unica est anima intellectiva omnium. Patet consequentia, quia, si anima intellectiva mutatur mutatione individuorum speciei humane, aut ergo per generationem et corruptionem, ut  posuit Alexander, et hoc non, quia repugnat prime parti antecedentis; aut per multiplicationem finitam animarum recedentium et advenientium, ut posuit Plato vel Pictagoras, et hoc iterum non, quia omnes sciunt oppositum scripsisse Aristotelem; aut per generationem vel creationem et incorruptibilitatem, ut ponit fides, et hoc iterum non, quia repugnat secunde et tertie parti  antecedentis;  ergo oportet dare unicum intellectum in omnibus hominibus, secundum opinionem et intentionem Aristotelis. La stessa tesi NICOLETTI sostiene anche nell'esposizione del De animaci, ma con una piccola variazione: nella Summa, la teoria dell'unico intelletto in  tutti gli uomini  è  detta sen In libros de anima: Secundo notandum, secundum Commentatorem, eodem commento, quod  Illa natura intellectus non est hoc aliquid, nec corpus nec virtus in corpore,  quoniam, si ita esset, tunc reciperet formas secundum quod sunt diverse et individuales; et si ita esset, tunc forme existentes in illa essent intellecte in potentia, et sic non distingueret naturam formarum secundum quod sunt forme, sicut est dispositio in formis individualibus, sive in spiritualibus sive in  corporalibus. Intentio commentatoris est, quod intellectus humanus non sit aliquid singulare vel individuum, ex quo non est corpus nec virtus in corpore; quoniam materia est ratio individuationis, a qua separatur intellectus humanus sicut et quelibet intelligentia celi. Tria ergo inconvenientia adducit, concesso quod intellectus sit hoc aliquid. Primum inconveniens est, quod intellectus z'altro rispondere al pensiero d'Aristotele iuxta impositionem Commentatoris; nel commento invece è  presentata semplicemente come intentio e opinio Commentatoris: segno che sul vero pensiero d'Aristotele s'era forse affacciato qualche dubbio alla  mente del maestro padovano. Un'altra tesi tipica di Sigieri consiste, come sappiamo, nel ritenere che l' intelletto agente, tanto per  Aristotele quanto per il suo commentatore arabo, sia Dio. Nella Summa naturalium, NICOLETTI  ritiene: quod intellectus agens et possibilis non separantur ab anima intellectiva, sed sunt differentie illius non substantiales, sed accidentales. Intellectus agens est coniunctus anime intellective per inherentiam et fantasmatibvis per presentiam et indistantiam. Per altro nella risposta Ad  primum argumentum egli accenna anche alla tesi di Sigieri, ma senza aderire ad essa: Commentator autem vult intellectum possibilem esse essentiam anime intellective, et intellectum agentem esse primam cavisam, vitaliter immutantem ipsum intellectum possibilem; sed hanc opinionem non teneo ad presens. Invece, quando scrive l'esposizione al De anima, egli era ormai convinto  che la tesi di Sigieri fosse la sola vera, non soltanto dal punto di vista della filosofia aristotelica, ma altresì da quello teologico: Dubitatur, si intellectus agens et possibilis differunt tam inter se quam ab assentia anime, utrum sint substantie vel accidentia. In hac materia fuerunt quatuor opiniones. Prima fuit Avicenne et Algacelis, dicentium intellectum agentem et possibilem esse  substantias invicem separatas loco et subiecto, ita quod secundum eum sic intellectus possibilis est forma hominis, et intellectus agens est decima intelligentia appropriata decime spere, a qua nostra felicitas dependet; sicut ergo iste unus sol non reciperet nisi formas individuales et secundum quod sunt diverse. Secundum inconveniens: quod species intelligibiles essent intentiones intellecte in potentia et non in actu; quod est falsum, cum sint universales et depurate a conditionibus materialibus. Tertium inconveniens: quod intellectus non poneret differentiam inter formas universales et singulares, sive ille forme corporales sive spirituales. E dopo aver riferite obiezioni contra commentatorem, comincia la sua risposta con queste sintomatiche parole: Responsurus    prò opinione Averroys, dico totum universum illuminat, per cuius illuminationem possunt omnes oculi videre, sic, dicebant illi, est aliqua una substantia separata irradians super fantasmata omnium hominum, per cuius irradiationem possunt omnes homines intelligere. Hec opinio est in parte defectuosa, quia postquam intellectus factus est in actu nos intelligimus quandocumque  volumus, secundum quod posuit supra Commentator et habetur ad experientiam; sed talis substantia separata non videtur irradiare supra fantasmata quandocunque volumus, sicut nec sol illuminat oculum quandocunque volumus; cum ergo non intelligamus absque intellectu agente, ergo intellectus agens non est talis intelligentia separata. Siffatta critica della tesi d'Avicenna, ci fa  presentire come la pensi NICOLETTI su quest'argomento: se invece di identificare r intelletto agente colla decima intelligenza celeste, che è r infima delle intelligenze separate, Avicenna l'avesse identificato con Dio, questo certamente irradia della sua luce i fantasmi quandocumque volumus. Il difetto insomma di questa teoria consiste nell'avere identificato l'intelletto agente con un  intelletto particolare, anzi che con un intelletto veramente universale. Dopo di che, NICOLETTI espone e critica come seconda opinione quella di COLONNA, AQUINO,  e di tutti quegli antichi scolastici che ritenevano l'intelletto possibile ed agente facoltà accidentali dell'anima. La terza opinione, da lui riferita parimente rifiutata, è quella di Giovanni Eucliph, ossia WycHf, il cui  ricordo dove essere ancora ben vivo a Oxford, quando vi giunge il nostro  eremitano. Indi prosegue: In libros de anima La opinione è così riassunta: opinio fuit Eucliph dicentis intellectum possibilem et intellectum agentem esse potentias anime inteUective, non tamen esse substantias nec accidentia; sicut enim dicunt theologi quod pater, filius et spiritus sanctus sunt tres persone  realiter  distincte, non tamen tres substantie nec tria accidentia, sed una substantia que est deus, ita intellectus agens et intellectus possibilis et voluntas sunt tres potentie realiter distincte, non tamen tres substantie, nec tria accidentia, sed una substantia que est anima intellectiva; et sicut pater non est filius, nec spiritus sanctus, et tamen est ille idem deus qui est filius et spiritus sanctus, ita  intellectus agens non est intellectus possibilis nec voluntas, et tamen est intellectus agens illa eadem anima intellectiva numero, que est voluntas et intellectus possibilis. Opinio ista non est tenenda phylosophice nec theologice etc. Quarta opinio, que tenenda est, fuit Aristotelis ponentis intellectum agentem et possibilem esse virtutes et potentias anime non subtantiales nec accidentales,  sed intellectum possibilem esse accidens proprium et inseparabile anime intellective, quo recipit omnes formas speculativas, sicut materia prima per suam accidentalem potentiam recipit omnes forinas naturales. Intellectuin vero agentem voluit esse substantiam primam, coniunctam intellectui possibili non per modum forme informantis nec inherentis, sed per modum forme et habitus  presentis et indistantis; nec aliqua intelligentia, preter primam que deus est, potuit esse intellectus agens, quia, sicut potentialitati prime materie respondet actus purissimus in quo sunt active omnes forme naturales que sunt in prima materia passive, ita potentialitati anime intellective competere correspondere agens primum, in quo sunt effective omnes forme speculative, que passive  sunt in anima intellectiva, mediante intellectu possibili. Si enim aliqua intelligentia dependens esset intellectus agens, per istam non posset intellectus possibilis intelligere primam causam, quia intellectus agens abstrahit intellecta et agit ea, secundum Commentatorem; modo nulla intelligentia inferior potest abstrahere causam primam nec in illam aliquo modo agere, ratione independentie  suedependentie et imperfectionis. Et hec opinio non solum est physica, sed etiam a theologis tenetur. Nel commento al De anima, dunque, ogni riserva è sciolta, e NICOLETTI giudica  la dottrina che identifica l'intelletto agente colla causa prima, cioè con Dio, non soltanto conforme al pensiero d'Aristotele e d'Averroè, ma senz'altro vera in se stessa e tenuta dai filosofi, non meno che  da non pochi teologi. La tesi di Sigieri, intorno alla quale aveva avuto dei dubbi, aveva finito per prendere il sopravevnto nel suo animo. Altrettanto non possiamo dire d'un'altra tesi del brabantino, strettamente connessa con quella che concerne l'intelletto agente, la teoria cioè della beatitudine per mezzo del congiungimento della mente umana coli'intelletto divino. Su questo punto  Sigieri aveva fatta sua l'interpretazione che il Commentatore arabo, nella celebre digressione inserita nel commento del De anima, dava del Allo stesso modo per Dante, Conv. l'anima in vita tratta per virtù celestiale dalla potenza del seme, incontanente produtta, riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali,  secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima intelligenza è. Sul qual passo, N. Dante e la cultura medievale e Giorn. Crit. filos. Hai.. QI pensiero  d'Aristotele. Anche l'eremitano sa bene come la pensa Averroè: Commentator autem dicit de annna, quod, cum intellectus possibilis fuerit intellectus adeptus, id est actuatus omnium specierum  materialium, intelligit intellectum agentem per essentiam propriam Ma neppur questa volta egli è dell'avviso dell'arabo; e postosi il quesito Qualiter intellectus noster intelligit substantias separatas, lo risolve affermando che l'intelletto umano conosce le sostanze immateriali non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Così nella Summa naturalium. Ma  nell'esposizione del De anima è anche più esplicito, se fosse possibile. Postosi di nuovo il problema Utrum intellectus possit intelligentias separatas cognoscere, fa questa osservazione che è presa alla lettera dal commento d’AQUINO: Istam questionem non solvit hic philosophus, dicens se determinaturum alibi, scilicet in libro metaphysice; hec questio tamen non invenitur soluta per  ipsum, quia complementum illius scientie nondum ad nos pervenit, vai quia nondum est totus liber translatus, vel forte morte preoccupatus librum non complevit. Ciò non di meno egli espone qual fosse il pensiero d'Averroè e in che differisse da quello degli altri interpreti della dottrina d'Aristotele. Ma giunto alla fine della discussione, egli ci fa sapere quod hec opinio iam non tenetur  a theologis vel philosophis, e ripete quod intelligentie separate cognoscuntur ab intellectu possibili non per se et directe, sed indirecte et reflexe per cognitionem motus celi. Da quanto precede, mi pare risulti in modo da non lasciar dubbio, che Nicoletti, quando insegna a Padova, aveva od aveva avuto tra mano per lo meno lo scritto di Sigieri in risposta al trattato d’AQUINO. De unitale  intellechis. Questa e verosimilmente altre opere del brabantino circolavano già fra i maestri dello studio padovano, o fu  il Summa naturai In libros de anima AQUINO, De anima. nostro eremitano a portarvele, forse da Oxford o da Parigi? Non saprei che dire, perché tanto l'una che l'altra supposizione, in mancanza di dati sicuri, è ugualmente ammissibile. Ulteriori ricerche nella  letteratura manoscritta concernente i maestri che professarono a Padova e Bologna potranno gettare qualche luce sulle correnti d'idee che fervevano in quei due centri d'intensa vita intellettuale. Per il momento, a noi basti di ricordare quel maestro Taddeo da Parma, il quale insegna a Bologna, e che nel suo commento al De anima accoglie la tesi difesa da Sigieri nelle Quaestiones de  anima intellectiva. Ma Taddeo, più che l'opera del brabantino sembra aver letto le Quaestiones di Jandun, le quali ebbero in Italia la più larga diffusione e furono trascritte e stampate in parecchie edizioni, discusse con vivacità e qualche volta fraintese. Fraintesa in particolare sembra essere stata da NICOLETTI, e da altri la dottrina intorno al modo come l'anima intellettiva è forma del  corpo, la quale, come già sappiamo è in sostanza quella di Sigieri, cui espHcitamente accenna.  Il bisogno di togliere alla dottrina averroistica quello che essa aveva d'eretico, dopo che il concilio di Vienne aveva definito esser l'intelletto forma del corpo umano, dove invogliare gl’averroisti italiani a procurarsi quegli scritti nei quali Sigieri s'era difeso contro le obiezioni d’AQUINO, e  nei quali, senza rinunziare alla tesi dell'unico intelletto avea tentato di dimostrare com'esso s'unisse all'uomo con tale intimo e sostanziale legame, da potersi dire forma dell'individuo umano cui s'attribuisce l'atto dell'intendere. L'insegnamento di Nicoletti a Padova è una inequivocabile testimonianza che gli scritti di Sigieri non erano ignoti. Un'altra cosa questo insegnamento ci attesta:  che la dottrina averroistica poteva esser liberamente discussa ed esposta a Padova, senza che chi se ne fa sostenitore incorresse nella taccia d'eretico; tanto vero che NICOLETTI non sente neppure il bisogno di Vanni Rovighi, Le Quaestiones de anima di Taddeo da Parma. Testo e introduzione.  Milano,  Soc.  Ed.  Vita  e  pensiero ripetere la solita formale protesta, che altri averroisti  avevano cura di non omettere, cioè che essi trattavano dallo spinoso argomento come filosofi e non come teologi. E forse perché gli averroisti padovani usano senza parsimonia di questa libertà, il vescovo Barozzi d'accordo coli' inquisitore locale proibì quovis quaesito colore le dispute intorno all'unità dell'intelletto. Ma il divieto riguarda la DIOCESI di Padova, e non, per esempio,  Bologna e Pavia, ove si continua a disputare con grande spregiudicatezza. Non mi stancherò mai dal ripetere, per coloro che han l'animo sgombro da pregiudizi, che una vera e propria dottrina della doppia verità nel medio evo e nel Rinascimento non fu mai sostenuta da alcuno. Molti invece furon quelli che, contro il concordismo d’AQUINO, posero in rilievo l'opposizione di fatto fra  la teologia e la filosofia, intendendo per filosofia la dottrina della natura congegnata in sistema da Aristotele, detto perciò il filosofo per eccellenza, e sviluppata dai suoi commentatori. Il primo a rendersi conto, in modo chiaro ed esphcito, di questa opposizione, fu Alberto. Il quale, non solo dichiara apertamente che theologica cum  physicis principiis non conveniunt, ma giungeva fino  a sostenere, non doversi far caso dei miracoli che Dio opera oltre il potere della natura, quando si tratta di conoscere quello che è il corso degli eventi naturali. Perciò, egli che s'era proposto totam Aristotelis scientiam prò viribus explanare, dichiarava di rifuggire dall'interpretazione che del pensiero aristotelico danno i dottori latini: quoniam in istarum quaestionum determinatione    omnino Giorn. Crit. di Filos. Ital., e in Dante e la cultura  medievale, Bari, Laterza, nonché quanto ne ha scritto  Gilson, Etudes de philos. médiév.,  Strasbourg;  id., Dante et la philosophie, Paris A. Magno, Metaphys. A. Magno,  De gener. et corrupt., la  mia  nota  La posizione di Alberto di fronte all'averroismo,  Riv. di Storia d. Filos. abhorremus doctorum latinorum verba; fra i quali  è sicuramente il suo confratello italiano, Aquino. La pretesa teoria della doppia verità non fu dunque una teoria né una dottrina, ma la semplice constatazione del disaccordo o contrasto fra la filosofia aristotelica e il pensiero cristiano. Ed era perfettamente logico che gli espositori del pensiero aristotelico diffidassero dei tentativi concordistici d’AQUINO e d'altri teologi, e preferissero  attenersi neir  interpretazione  d'Aristotele ai principii fondamentali della sua metafisica, senza preoccupazioni teologiche, sia che le conclusioni cui giungevano s'accordassero o no coi dogmi della fede, avendo per altro cura di dichiarare che quello che affermavano come filosofi, cioè come interpreti d'Aristotele, non riguarda né intacca la verità di fede, cui essi protestavano di credere  come fa ogni buon cristiano. Dal punto di vista logico e oggettivo, questo atteggiamento degl’averroisti era perfettamente coerente e non impHca in sé niente di contradittorio,  e tanto meno costituiva quell'eresia che Aquino e  alcuni altri teologi vi scorsero. Il che compresero bene  non pochi altri teologi ai quali il tentativo d’AQUINO di cristianeggiare la filosofia aristotelica, per  ancorare ad essa il dogma, non parve né di buon gusto né di A.  Magno, De  anima; La posizione d'A.  M. Pomponazzi, che rifugge del pari da questo fratrizzare, id est miscere diver.-a  brodia  Phys. Vili,,  Bibl. Nation. di  Parigi, cod.  lat., loda anche lui  Magno, perché a differenza degli altri fratres omnes,  cioè  di COLONNA,  AQUINO,  Scoto e RIMINI, s'è  astenuto dal frateggiare,  mescolando filosofìa e teologia. Sicché isti fratres truffadini, dominichini, franceschini vel diabolini habent bene rationem comburendi Albertum, quia omnes questiones sunt contra fìdem nostram licet dicat in fine, quod ita dicit quia ut philosophus loquitur, et philosophica non sunt miscenda cum theologicis; et dicit quod in theologia aliter sentit; et dicit quod est fatuum miscere eredita cum physicis; me autem vellent comburere {Phys., Vili, Arezzo, Fraternità de'Laici, m. cod. Parig. il articolo di N., Alberto Magno e AQUINO,  Giorn. Crit. d. Filos. Ital., e La posiz. di A. M., Non va confusa con questa tesi la dottrina, svolta più  tardi  da Bruno, e anch'essa d'origine averroistica, la quale attribuisce alle verità di fede un valore puramente pratico, che il filosofo accetta solo come tale. Dell'origine e dello sviluppo di questa teoria ho parlato n Giorn. Crit.  d. Filos. Ital.,  buon  augurio. E in particolare lo compresero gì' inquisitori che sorvegliavano con occhio sospettoso le manifestazioni dell'eretica pravità. A questi ultimi importa mediocremente di sapere come la pensa Aristotele e Averroè sull'eternità del  mondo o sull'unione dell'intelletto all'uomo:  essi invece volevano essere rassicurati sui sentimenti personali dei commentatori cristiani  d'Aristotele intorno a questi argomenti. E per esserlo, bastaron loro, a quanto pare, le pubbliche dichiarazioni che, neir  insegnamento e nei loro scritti, gli aristoteli si facevano premura di non dimenticare. Ciò spiega come l'averroismo e l'alessandrismo abbiano potuto avere una vita abbastanza  florida; e com'essi fossero apertamente professati a Padova, a Bologna ed altrove senza che per questo corre sangue, come fantastica Orestano. Ch'io sappia, neppure una goccia ne  fu versato, a meno che non fosse dal naso nell'ardor delle dispute. E nella libera discussione, entro e fuori le aule universitarie, a Padova e  a Bologna, e non per editti restrittiva, l'aristotelismo nelle sue  varie  tendenze esaurì la propria vitalità, quando si comprese che i problemi da esso posti erano insolubih,  per esser mal posti. Ma, intanto, quella che s'usa  chiamare dottrina della doppia verità, aveva ottimamente compiuto la sua funzione storica, di assicurare un'assai ampia libertà d'indagine e di critica, di cui il pensiero del Rinascimento s'è avvantaggiato. A questo punto nasce per altro  un dubbio perfettamente legittimo e stimolante: erano poi sinceri, averroisti e alessandristi, quando dichiaravano di limitarsi ad esporre quello che, a loro avviso, era il pensiero d'Aristotele, ossia la verità filosofica, senza aderirvi, ma anzi ripudiandola, e di credere alla verità della fede? oppure si beffano in  cuor loro degli inquisitori, mettendosi al riparo, per mezzo di quelle dichiarazioni,  contro le pene canoniche comminate agli eretici? Un dubbio siffatto solleva problemi delicati, di difficilissima Riesame della Beatrice svelata, in Studi su Dante,  Milano, Hoepli; il  mio voi. Nel mondo di Dante, Roma. N., Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano. anche la voce Averroismo ndll’Enciclopedia Cattolica. soluzione. Intanto si deve constatare che, in  generale, gì' inquisitori si mostraron piuttosto propensi a credere alla sincerità di quelle dichiarazioni e a lasciare che, nel foro interiore, ognuno s'aggiustasse con  Dio come meglio crede. Non tutti, però: che noi sappiamo della citazione di Sigieri, di maestro Bernieri di Nivelles e di maestro Gosvino de la Chapelle da parte dell'inquisitore di Francia; del processo intentato a Biagio  PELACANI, maestro a Pavia, dal vescovo di questa città; e dell'editto emanato dal vescovo di Padova e dall'  inquisitore del luogo, col quale si vieta  ai maestri e agli scolari ogni pubblica disputa intorno alla dottrina averroistica dell'intelletto. Quanto al primo caso, sappiamo tuttavia che Sigieri e i compagni interposero appello alla curia papale avverso la sentenza dell'inquisitore di  Francia, né risulta che questa fosse confermata. Il processo contro PELACANI dev'essere stato motivato da espressioni veramente ardite contra fìdem catholicam et sanctam ecclesiam, come quelle che s' incontrano nelle Quaestiones sul De anima conservateci nel Codice Chigiano  O., e discusse quando Biagio insegna a Padova. Il maestro si dichiarò male contentus del linguaggio da  lui tenuto, e dopo aver chiesto perdono de commissis, il vescovo di Pavia restituit eum ad lecturam et salarium solita. L'editto invece di Barozzi, vescovo di Padova, e dell'inquisitore Lendinara merita più lungo discorso. Insegna allora nello studio padovano, come lettore ordinario di filosofia naturale Vernia da Chieti, che per la sua piccola statura era chiamato ed egli stesso si firma Nicoleto, come Pomponazzi, suo alunno, sarà detto, pella stessa ragione, Pereto -- Nicoletto e Perette son forme italianizzate della schietta forma dialettale padovana Nicoleto e Pereto. Addottorato in filosofia naturale a  Padova, dopo avere studiato la logica a Venezia sotto Riv. di Storia d. Filos., Maier,  Die Vorlàufer Galiìeis, Roma, QQ Paolo dalla Pergola, occamista, e la filosofia  nello studio patavino sotto Thiene, averroista, conseguì anche la laurea in medicina. Succede  a Thiene come ordinario di filosofia naturale. In suo testamento,  pubbUcato  da Ragnisco, accade di leggere una dichiarazione, nella quale il testatore, nell'imminenza della morte che sentiva  avvicinarsi, vuol purgarsi dell'accusa che pesa su di  ui, d'aver fatta sua la dottrina averroistica  dell'unità dell'intelletto: Ego Magister Nicoletus Vernias Theatinus antedictus, publice legens in florentissimo gymnasio patavino ordinariam philosophiam naturalem sine aliquo concurrente, quam legi per annos triginta tres elapsos, ac disputavi ac tenui quod opinio unitatis intellectus Averrois fuerit opinio AristoteHs, et post niultos annos, duni vidissem et graecos et arabes doctissimos,  repperi non solum dictam opinionem alienam esse a fide nostra et veritate, sed etiam ab intellectu  AristoteHs,  prout in quadam mea quaestione intulata Reverendissimo Dominico Grimani ad plenum declaro; et hoc feci prò removendo nialas opiniones, qiias  /orlasse habnerunt auditores mei; nani Deum testor quod numquam credidi tali opinioni, et cum sim in aetate decrepita, et  considerans quod oinnes morimur secundum naturalem cursum, et videns incertitudinem temporis, diei et horae, et deliberans disponere supra rebus meis, ut possim consequi vitam aeternam in altera vita promissam bonis iuxta legem nostram, et, prout in supradicta quaestione declaravi, etiam iuxta opinionem philosophorum hic non potest esse vita beata,  sed tantum misera  m. Fra  coloro che s'eran  formata una cattiva opinione di VERNIA, oltre ad alcuni suoi scolari, era certamente anche il vescovo Barozzi. Fine spirito d'umanista e, come  molti  Documenti inediti e rari intorno alla vita ed  agli scritti di Vernia  e di Elia del Medigo, Atti e memorie dell'Accad. di Scienze Lettere ed Arti in Padova, disp. E cosi, a che serviva tutta la sua speculazione filosofica  intorno alla copulatio o continiiatio dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, in cui avrebbe dovuto consistere la felicitas dell'Etica Nicomachea in questa vita ?  Intorno al quale è da vedere 1'introduzione di Gaeta, Il Vescovo di Padova Barozzi e il trattato De factionibus extinguendis. Fondazione  Cini,  Venezia-Roma. patrizi veneziani suoi contemporanei, animato di religioso ardore, Barozzi è vescovo di  Padova alla sua morte. Pastore di anime e maestro di vita cristiana in una città dotta, sede d'un rinomato studio al quale affluivano scolari da tutte le parti d'Italia e d'oltralpe, non potè mostrarsi indifferente alle rumorose dispute la cui eco si diffonde lontano. Quel battagliare intorno al vero pensiero d'Aristotele, del suo commentatore arabo e degli interpreti greci, gli pare che inaridisse le sorgenti della vita e del pensiero cristiano. Inoltre, l'accanimento che molti dei disputanti mettevano nel sostenere le interpretazioni d'Aristotele più lontane dal comune modo di pensare dei credenti, dove alimentare in lui il sospetto, suscitato da voci che correno, che qualche maestro dello studio patavino, mentre si da l'aria d’essere un semplice espositore  della dottrina peripatetica, in realtà ha finito per farla sua propria fino a negare i premi e le pene nella vita futura. L'editto episcopale e inquisitoriale, pubblicato nelle scuole di Padova, dopo aver citato alcuni passi scritturali, prosegue: Et rursum memores eorum que ad Colossenses magis ad rem de qua in presentiam agimus accomodate scribit  Apostolus, dicens: Videte ne quis vos  decipiat per philosophiam et inanem fallaciam secundum traditionem hominum, secundum elementa mundi et non secundum Christum. Et scientes sic Inter disputandum solere animos perturbar!, ut interdum homines quod falsum esse sciebant, prò vero suscipiant et defendamt. Volentesque ut et hi qui philosophiam discunt, sic discant ut christianam philosophiam, que longe omnium  prestantissima est, non dediscant, et hi qui docent, dum se philosoplios esse meminerunt, non obliviscantur se etiam christianos existere, ac venena disputationum malarum iuxta epulas philosophice discipline non ponant. Et postremo existimantes eos qui DE VNITATE INTELLECTVS disputant ob eam potissimum causam disputare quod, sublatis ita tum premiis virtutum tum vero  supphciis vitiorum, existimant se liberius maxima queque flagitia posse committere: mandamus ut nullus vestrum, sub pena excomunicationis late sententie quam si contrafeceritis incurratis, audeat vel presumat DE VNITATIS INTELLECTVS quovis quesito colore publice disputare. Non si tratta, com'è chiaro, della scomunica lanciata personalmente contro Vernia, che della dottrina  dell'unità Ragnisco, Documenti, dell'intelletto era, in quel momento a  Padova, il piìi risoluto assertore; ma d’un provvedimento che riguarda lui ed altri, e che sopratutto denuncia una pericolosa moda d' insincerità e doppiezza che s'anda affermando ed era nociva non meno al costume morale che alla pietà religiosa. Può darsi che, vietando ogni discussione sull'argomento dell'unità dell'intelletto, Barozzi e frate Martino spiegano uno zelo eccessivo; ma la mala opinione che gl’alunni avevano concepito di taluni maestri e le voci che sul conto di essi correvano, giustificano almeno in parte il severo ammonimento. Poiché a questo in fondo si riduce l'editto episcopale; né si sa che esso da luogo a processi, né che alcun maestro è ridotto al silenzio. Anzi è noto, al  contrario,  che Trapolino, alunno di VERNIA, continua a professare pubblicamente il suo moderato averroismo anche dopo la promulgazione dell'editto. E lo stesso fanno altri. Due soltanto, eh' N. sappia, s'affrettarono a cambiare indirizzo ai loro pensieri e a recitare la loro palinodia: Nifo da Sessa e Vernia da Chieti, in gara tra loro. Nifo, com'egli stesso informa, aveva cominciato averroista  della  corrente  sigieriana; e, prima d’abbandonare definitivamente questa posizione, deve aver giocato d'astuzia da quell'uomo scaltrissimo che era. Alla fine del De intelledu e del commento al De animae  heatiUidine,  pretende d'aver portato a termine queste due opere a  Padova. Ma N.  pensa che su questa affermazione bisogni fare molta tara: poiché nella dedica del De  inielleciu a  Badoèr, nell'edizione veneta, che è la più antica che si conosce, Nifo dice in sostanza d'aver rimaneggiato l'opera, costituita originariamente d’una Quaestio de intellectu, che gl’avversari gl’avevano impedito di pubblicare, avendolo accusato d'eresia. Da questa accusa era riuscito a discolparsi, a quanto pare, pell'intervento di Barozzi stesso, di Badoèr e di teologi e filosofi  amici che ne presero le difese. Nella redazione l'autore non esita a confessare d'essersi indotto a pristinam mutare sententiam; e questo non soltanto per ciò che concerne la forma primitiva dell'opera, giacché egli ammette: placuit quaedam tollere, mutare alia.     intellectu, Venezia addere plurima, Rabberciato alla meglio il De intellectu e rifattasi una verginità filosofica, egli tenta,  lontano da Padova, quella fortuna che non manca mai d’arridere agl’uomini della sua prolifica specie. Vernia era noto in tutta Italia, attraverso i suoi numerosi discepoli, come uno dei più decisi averroisti. Per noi è un po' ditficile oggi ricostruire, nel suo insieme, la sua dottrina intorno ai diversi problemi agitati nelle scuole del tempo, perché non sappiamo dove sono andati a finire i  suoi scritti, se dati alle fiamme da lui stesso prima di morire, oppure se lasciati insieme alla sua biblioteca al monastero di S. Bartolomeo in Vicenza, ovvero al figlio adottivo Nicoletto della Scrofa, o ad altri. Nonché le opere scritte di suo pugno, non ci son pervenute nemmeno le reportationes degli scolari che pur non dovettero mancare. Ci restano soltanto, eh' io sappia, i seguenti  scritti a stampa elencati da Ragnisco: la Quaestio   Dicaveram tibi anno superiori questionem meam de intellectu. Eamque, ne labores iuventutis mee perditum irent, imprimendam esse curavissem, nisi emuli affuissent, qui me hereseos accusassent. Ac malui ad hoc tempus pervenire morando, quam huiuscemodi criminis culpam subire. lam cessant accusationes: emulorum iniquitas,  sic mea fide postulante, in propatulo est. Ergo suo tribuant commodo, si quam utilitatem accepere qui me insidiis persequuti sunt, discantque interea diligentius legere que volunt criminari, ut cautius egisse videantur. Sed valeant isti, satisque mihi sit Barotium episcopum patavinum, christianorum nostre etatis decus et splendorem, te cui non minus in fide quam in philosophia tribuo, et quamplurimos alios tum theologos tum philosophos iudices ac censores habuisse, qui semper innocentie mee testes eritis. Tractaveram hanc nobilissimam materiam et de fontibus omnium antiquorum phylosophorum exhaustam, recenti stilo, quod omnes fere commendare visi sunt, preter paucos, quorum precipuus fuit Hieronymus Malclavellus, tunc privatus scholaris, nunc nostre  academie diligens ac iustus moderator; qui ut est rectus ingenio, acer iudicio, splendidus in omnibus atque liber, numquam ubi de honore ac utilitate amicorum suorum agit, assentari novit. Hic cohortatus est me, ut universum opus in capitula secarem, asserens antiqua stilo esse antiquo tractanda. Hac unica huiusce viri ratione persuasus, licet alias adduxerit quarum illi copia est,  pristinam mutavi sententiam: placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Nihil delevi quod sit contra fidem catholicam; non enim potest destrui quod factum non invenitur. Seb. Badoèr morì i Diarii  di Sanudo. La dedica dunque e il rabberciamento dell'opera sono anteriori, e probabilmente dello stesso periodo nel quale Nifo prepara anche l'edizione dei Collectanea sul  De  anima, usciti anch'essi, presso la stessa officina veneziana de Quarengiis. Sembra pertanto che l'edizione del De intellectu, ricordata e perfino citata da taluno come uscita a Venezia, non sia mai esistita! an ens mobile sii totitis philophiae naturalis suhiectum; il prologo alla Fisica col titolo De divisione philosophiae; la Quaestio an medicina nohilior ac praestantior sii iure civili. la  Quaestio an caelum sit animatum, nell'infelice riportazione d’uno scolaro che forse è Sermoneta; Quaestio an deniur universalia realia; la  Quae Stampata a Padova nel volume di commenti di COLONNA, di Marsilio di Inghen  e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, ed anche nell'edizione scotina della stessa opera Venezia. Nell'edizione padovana precede la dedica a  Languardo, vescovo di Acerenza e Matera. Ragnisco, Documenti; Vernia. Studi storici sulla filosofia padovana, Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Questa Quaestio e lo scritto precedente si trovano in principio del volume: Burley, Expositio in libros de physico auditu  Aristotelis stagerite, emendata per me nicoletum verniam theatinum puhlice et ordinarie  legentem Venetiis, La Quaestio è stata ristampata da Garin, La disputa delle Arti, Ediz. Naz. dei Classici del Pensiero Italiano, Firenze, Vallecchi. Precede la dedica a Badoèr, censore di Venezia, il quale, come Vernia, era stato discepolo di Paolo dalla Pergola, ed era un convinto scotista, qual erasi rivelato a Nicoleto, per averlo questi udito argomentare con vigore in una pubblica disputa in  occasione d'un capitolo generale di Frati Minori tenuto a Venezia. In questa dedica Vernia accenna anche ad una amplissima quaestio de INCHOATIONE formarum che avrebbe dovuto trovarsi nello stesso volume, ma che poi è stata omessa. L'argomento per altro è ripreso con certa ampiezza nella Quaestio an dentur universalia realia, di cui sotto. Pubblicata da Ragnisco, Documenti. In  principio del raro volume Urbanits Averoista philosophus sumnius ex almifico Servoritin Divae Mariae, comentorum omnium Averoys super librum Aristotelis de physico audita expositor clarissimus. Per probum virum Bernardinum Tridinensem de Monteferrato. Venetiis.Questa importante opera dell'averroista bolognese dell'Ordine dei Serviti, la quale nel prologo dell'edizione  stampata porta la dat, era stata ritrovata, coperta di polvere e corrosa dalle tarme, nella biblioteca bolognese dell'Ordine, dal priore generale dei Serviti, frate Alabanti, che, compresone il pregio, tanto più che anch'egli si professa averroista, ne  scriss a Vernia, come quello che aveva sempre difeso le parti d'Averroè, onde averne il parere per un'eventuale stampa; e all'uopo gli mandò lo  scritto d'Urbano perché l'esamina: Ad te igitur libellus noster confugit: tu eum paterno amplectaris amore; et tandem tua censura maturoque Consilio examinatum censeas si dignus est ut in claram lucem professoribus perypatheticis ad doctrinamque Averoys aspirantibus emergere possit, ad nosque rescribere digneris. Quod si feceris, ut speramus et oramus, non minus tibi et Urbanus  noster, operis conditor, quam Averoys et qui eius doctrinam sequuntur, interstio de gravibus et levihus, senza  data; è la Quaestio, rimasta sconosciuta a Ragnisco, An celum sit ex materia et forma constitutum vel non, che termina: Et sic est finis huius questionis compilate per me Nicolettum verniam theatinum Padue philosophiam publice legentem, e che si trova in principio della rara  edizione veneziana, curata dallo stesso Vernia, del commento d'Averroè alla Fisica, ove occupa ben dodici colonne in-folio. Tutti questi scritti sono schiettamente averroistici; e sebbene non riguardino alcuno dei problemi scabrosi pei quali gli averroisti eran tenuti in sospetto, tuttavia non è difficile qua e là imbattersi in espressioni rivelatrici dello spirito del loro autore. Si prenda, ad  esempio, la prima quaestio ricordata qui sopra. Dapprima, secondo lo schema familiare al Vernia, sono addotte le opiniones ab Aristotele et suo commentatore deviantes, e in primo luogo quella d’AQUINO che egli, nativo di Chieti, si compiace di chiamare suo compatriota, poiché suddito anche lui dello stato napoletano. AQUINO appunto aveva sostenuto, in principio del suo  commento alla Fisica, ens mobile et non corpus mobile, contra Albertum merito cognomine magnum, esse totius philosophiae naturalis subiectum. Poi ricorda le critiche mosse da COLONNA ego quoque minimus accedo, ingentem immortalemque semper gratiam habebimus. E il maestro padovano gli risponde, dando dell'opera e dell'autore questo  giudizio: Vir ille ut dicam quod  sentio cum omnibus bis, qui Averoym ad haec usque tempora secuti sunt, certare mihi visus est et plurimos etiam vincere. Nemini vero ut mea quidem fert opinio cedit. Cum enim Averoys verba sensusque per obscuros aperire illustrareque aggreditur, nihil illius explanatione enodatius, nihil clarius, nihil denique absolutius dici potest. Quaestiones vero quae in naturali philosophia et  plurimae et gravissimae occurrunt, nequaquam dissimulat. Sed ut est acri iudicio praeditus, ita acute subtiliterque solvit, ut ad rei perfectionem nihil addi posse videatur. E mentre approva il disegno della stampa, informa che a Padova nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, esiste un altro codice dell'opera d'Urbano, attribuito fino allora a Marcanova, e promette che, per far meglio  conoscere il commento del servita, terrà un corso sulla Fisica. La quaestio del Vernia sugli universali occupa quattro fogli non numerati, prima del commento di Urbano, ossia 12 colonne intere e 2  mezze colonne. Nel voi. Acutissime questiones super libros de physica auscultatione ab Saxonia edite, Venezia, con dedica al filosofo Bolderio  da Verona. alla tesi d’AQUINO, e il giudizio  di Jandun su AQUINO, ritenuto melior expositor inter latinos, unde per excellentiam dicitur expositor, sicut Averrois commentator. Incappa infine nella tesi degli scotisti Canonico e Andrès, i quali s'eran permessi di criticare Aristotele. Contro tanta audacia egli insorge ripetendo il giudizio, comune a tutti gli averroisti, sullo Stagirita: Ad illa respondet Canoniciis, et  similiter Andreas,  concedendo Aristotelem male dixisse et insufficienter ipsum philosophiam tradidisse; philosophus enim tanquam sacrilegus insufficienter et erronee tradidit nt)bis philosophiam naturalem, ut Antonius inquit. Sed minor de istis, quod cum tam pauca reverentia centra philosophorum principem loquantur; ncque unquam invenio Albertum, AQUINO aut doctorem subtilem talia contra  Aristotelem dixisse. Unde beatus Hieronymus, de eo loquens, scribens ad Eustochium,  De vita nionachonim, ait: Absque dubitatione prodigium fuit grandeque miraculum in tota natura, cui, ut pergit, pene videtur infusum quicquid naturaliter capax est genus humanum. Cui concordat Averrois, De anima, dicens: Ipse fuit regula in natura et exemplar quod natura invenit ad ostendendum  ultimam perfectionem possibilem in materiis. Venendo poi alla soluzione del problema, il filosofo chietinf) sostiene de intentione aristotelis et sui commentatoris averrois cordubensis fuisse, quod corpus mobile est subiectum in scientia naturali. Ancora più tipico è il caso della Quaestio aii medicina iiobilior ac praestaiitior sii iure civili. È notevole, anzi tutto, che egli abbia lasciato in  pace i canonisti, strettamente imparentati coi teologi, gente, gli uni e gli altri, colla quale è prudente non aver briga. Per dimostrare, dunque, la tesi affermativa, che cioè la medicina è da più del diritto civile, il nostro si rifa  Lo stesso passo dell'opera pseudo geronimiana m'è accaduto di trovar citato nel De pietate Aristotelis erga Deiim et ìioinines di Liceto Udine, amico e collega di  Galileo a Padova. Costui, al pari di Tostado, vescovo di Avila, In librum paradoxorum Venetiis, e di Sepulveda, da Cordova Opera, Madrid, Epist., lettera al  teologo Serrano, pensa, se non proprio a una canonizzazione, che fosse almeno altamente verosimile la salvezza eterna di Aristotele. Al quale però  Tostado, da buon umanista, unisce le anime di Socrate, di Platone e di siffatti  filosofi, che Cristo avrebbe liberato discendendo al limbo. al concetto, comunemente ammesso, che la medicina nella sua parte teorica rientra nella filosofia naturale ed è scienza speculativa; il che non può dirsi dal diritto civile. Ora nella speculazione intorno alla natura Aristotele aveva fatto consistere il fine ultimo e la perfezione suprema dell'uomo, a cui si giunge soltanto mediante  l'apprendimento delle scienze speculative, coronato dal congiungimento o copulatio con r  intelletto agente. Ex quo sequitur, hominem equivoce dici de homine rationali et iurista, cum iurista non sit nisi equivoce, cum inrista ultimo fine hominis sit privatus. Et hoc est quod Averrois dicit in prologo libri Physicorum, quod homo equivoce dicitur de homine perfecto per scientias  speculativas et de homine ignorante eas, sicut dicitur equivoce de homine vero et picto Ci sarebbe da chiedersi se mastro Nicoleto non fosse per caso in vena di scherzare, per dar la baia ai colleghi della facoltà di diritto: ma purtroppo egli non fa che ripetere cosa di cui tutti gli averroisti erano convintissimi; anzi taluni diessi, come Achillini e Bacilieri pensano che al raggiungimento  della suprema perfezione e della felicità cui l'uomo aspira, bastassero i libri bene interpretati di Aristotele e d'Averoè, che quelli ritenevano aver conquistato il più alto grado di felicità di cui l'uomo è capace in questa vita, non ostante i sorrisi ironici degl’alunni, e quelli di Pomponazzi Al cospetto della  morte,  Nel citato voi. del Burley sulla Fisica, Venezia. Il passo d'Averroè in  principio al prologo della Fisica, al quale accenna Vernia, è questo: Declaratum est in scientia considerante in operationibus voluntariis, quod esse hominis secundum ultimam perfectionem ipsius et substantia eius perfecta est ipsum esse perfectum per scientiam speculativam; et ista dispositio est sibi felicitas et sempiterna vita. Et in hac scientia manifestum est, quod praedicatio nominis hominis perfecti a scientia speclativa, et non perfecti, sive non hahabentis aptidinem quod perfici possit, est aequivova, sicut nomen hominis quod praedicatur de homine vivo et de homine mortuo, sive praedicatio hominis de rationali et lapideo.  il  mio  Sigieri nel pens. Accade spesso al mantovano di fare dell'ironia sulla copulatio degli averroisti qui continuo prandent cum deo et qui  habent intellectum adeptum comm. al delle Meteore. Parigi, Bibl.  Nat.  cod.  lat..  E del Bacilieri  riferisce: Ideo Tiberius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos, ad hoc ut felicitatem istam pertingat Comm. alla Metaph., Arezzo,  Frat.  Laici, ms. Parigi,  e. s., cod.  lat.. Questa convinzione abbandona il filosofo chietino, persuaso ormai che non solo secondo la fede, ma etiam iiixta  opinionem philosophorum, hic non potest esse vita beata, sed tantum misera. Evidentemente anch'egli, come molti, ignora la manzoniana preghiera allo Spirito divino: Dona i pensier che il memore ultimo dì non  muta. Averroista era Vernia anche nella soluzione del problema se il cielo è animato, e di quello sul moto dei gravi e leggeri. Anzi, su quest'ultimo argomento,  mentre perfino  molti averroisti avevano finito per scostarsi dalla  dottrina  d'Aristotele e  avevano accolta la teoria nominalistica degli impetus, Vernia segna un ritorno puro e semplice alla tesi dello Stagirita, seguita da Averroè, da Sigieri e da pochi altri. La Quaestio an denhir universalia realia è invece un tentativo di mostrare l'accordo tra Averroè e Alberto sulla dottrina, convenientemente  interpretata, della inchoatio formarum; poiché gli universali di cui qui si parla, non sono le intentiones primae et secundae dei  dialettici,  ma le idee considerate come cause della  realtà, gli universalia physica, come li chiama Vernia, ossia le forme delle cose. Nel voi. cit. delle Acutissime questiones di Sassonia Maier,  Zwei Grundproblenie der scholastichen Philosophie. Roma, Ediz.  di Storia e Letter. Nel voi. di Urbano Averroista, col.: Ex quo patet error illorum qui dicunt inchoativum secundum commentatorem et Albertum esse potentiam subiectivam materie, cum, ut visum est, sit potentia formalis distincta a potentia materie, que est in substantia forma substantialis, imperfecta tamen, cum omnis potentia materie taUs, quam ponunt, si distincta ab ea et sit  accidens Ex quo sequitur dari universalia realia ad mentem veriorum philosophorum peripatheticorum, tum Grecorum, tum Arabum, TVM LATINORVM GRICE MINNIO PAULELLO OXFORD;  cum tales essentie sint universalia physica et in re, ut visum. Il primo di tali universali fisici è per Vernia la forma corporeitatis di Avicenna, coeterna alla materia. In proposito, abbiamo  questa informazione nel commento di Pomponazzi  al De substantia orbis di Averroè Cod. Reg. lat.. Credo quod haec responsio fuerit Nicholeti; quia etiam ipse tenebat ad mentem commentatoris formas corporales de prae-dicamento substantiae materiae primae esse coaeternas. Et tunc glosabat ipse commentatorem, hic dum dicit quod materia non habet formam quae reponat eam in  esse specifico et ultimo, quia si materia prima baberet formam ultimam specificam, tunc non posset ipsa materia aliam formam recipere, quia, cum ultimo non detur ultimum, ipsa forma esset in actu completo, nam infra formam ultimam specificam non sunt nisi individua; et in hoc commentator dissentit ab AviIo8 Anche in questa Quaestio, non mancano accenni alla dottrina averroistica  dell’intelletto; ma sono accenni più cauti. L'editto episcopale era stato promulgato evidentemente per qualche cosa. A Colze nel vicentino,  mastro Nicoleto dovette pensare al modo di dissipare i sospetti d'eresia che gravavano su di lui, e, sebbene affetto da oftalmia, prese la penna e cominciò a buttar giù una specie di confutazione dell'averroismo. Nasceno così le Quaestiones de  pluralitate intellectus contra falsani et ah omni ventate remotam opinionem Averroys et de animae felicitate. L' idea di quest'opera gli fu suggerita non iniussa cano! da frequenti esortazioni del doge di Venezia, Barbadigo, e dallo stesso Barozzi, che, se da una parte lo minaccia di scomunica, dall'altra cerca di adescarlo con buone promesse. La composizione dello scritto non dovette  procedere molto rapida. Poiché soltanto l'opera fu presentata ai revisori ecclesiastici e al vescovo per la stampa. I revisori, Trombetta, Merlino e Ibernico, prodigarono all'autore le più ampie lodi, e  il vescovo Barozzi se ne dichiarò pienamente soddisfatto. Tuttavia, anche nel dare atto del nuovo atteggiamento assunto, ricorda le voci che un tempo correno sul conto di lui, e non osa  dichiararle infondate; anzi lo stesso paragone che egli fa del chietino con S. Paolo, il quale di persecutore del nome cristiano era divenuto un ardente difensore della fede – GRICE HERESY APOSTASY – back to goold old Paul --, sembrerebbe insinuare il contrario: cenna qui ponebat talem formarti specificam ultimam; sed commentator dicit, quod talis corporeitas non est forma  specifica completa, sed est forma generica imperfecta; et sic dicebat ipse Nicholetus quod materia prima habet istam formam genericam sibi coaeternam, et in  ipsa etiam formam elementorum. Così, per esempio, in principio della colonna: Et tu nota hoc prò Averoy, quod anima intellectiva non dat esse corpori humano; sed hoc quod dicitur est mendatium purum, ut in De anima declarabo. E più oltre a metà della stessa colonna: Unde intellectiva anima apud ipsum non creatur, sed est eterna; et in hoc Albertus, et bene sicut fidelis christianus, ei adversatur, volens ipsam de novo fieri per creationem, et hoc secundum Aristotelem. La quale apparve nel volume già cit. delle Acidissime questiones super libros de physica auscuUatione ab Saxonia edite, Venezia.  A. Calcedonio da Pesaro, M. D.2  ra. i Cum prius et disputando et docendo unum esse in omnibus intellectum sic explicaveris, ut totam pene Italiani errare feceris, ut aiunt malivoli tui et minuti philosophi, ut in epistula tua ais, etsi istud non senseris, fuisti forte causa ut alii hoc sentirent. Nunc opusculum composuisti, quo sentire te contrarium non solum dicis verum etiam probas. Quod  cum diligentia vidimus et approbamus. Quo circa, sive ita senseris sive non, opusculum istud componere precium fuit, ut error pessimus illius maledicti Averroys extirparetur. Nihil hac mihi re gratius, nihil iis qui te audiverant utilius, nihil tibi, qui apud miiltos ob eam rem infamiam non mediocreni excitaveras, honorificentius. Per purgarsi di questa non mediocre infamia e  per impedire che si parla di un voltafaccia, mastro Nicoleto insiste nel dichiarare che la difesa un tempo da lui assunta dell'averroismo non  muoveva da intima adesione alla  dottrina dell'unità  dell'intelletto, ma era fatta soltanto disputandi ac acuendi ingenii gratia. Era sincero in questa sua protesta, rinnovata con solennità anche nel suo testamento?  Per il vescovo e per l'inquisitore questo non aveva  importanza: ad essi basta il fatto che, comunque l'avesse pensata un tempo, ora il sospettato fa lodevole ammenda del passato col suo ultimo scritto contro l'averroismo. Ma tra i suoi alunni d'un tempo ve n'era sicuramente qualcuno che, assistendo ai funerali e alla tumulazione di lui – e suo corpo --  nella chiesa di S. Bartolomeo a Vicenza, e ripensando al carattere del  maestro, dove  sorridere di questa commedia e ripensare in cuor suo alla novella di Ser Ciappelletto. Vernia non era precisamente quello che si dice un cuor di leone. Nello stesso suo testamento revoca, come giuridicamente nulla, una donazione de'suoi beni alla moglie, fatta sotto la minaccia di morte da parte del cognato Pietro de Salvato. Era stato richiamato all'ordine dal Senato, perché pare facesse  i suoi comodi, leggendo senza concorrente e trascurando di studiare con grande lagnanza degli scolari, Nifo, già suo alunno, ci narra di lui due episodi che possono servire a lumeggiarne il carattere. Il primo è meglio Nella dedica a Grimani Ragnisco, Nic. Vernia. Cfr. qui sotto il saggio successivo. no riferirlo in latino; Cum Nicoletus Theatinus, praeceptor noster, sua aetate peripateticus  eximius, ludibriis ludificationibusqiie oblectaretur, plurima jecisse multi norunt. Et inter prima, cum Veronam peteremus, ut baptizaremus puerum cuiusdam communis discipuli, et post crepusculum ad urbem applicaremus, essetque caupo prohibitus recipere iudaeos, qui extra urbem hospes erat, nobis hospitium conferentibus dixit: Te recipere non possum, quia prohibitus sum,  demonstrans Nicoletum; te autem possum, annuens me. Interrogantibus quare respondit: Quia Iudaeos hospitari prohibitus sum. At praeceptor subiecit: Audi, amice, a secretis.  Et mox penem praeputiumque ostendit. Quem cum vidisset, hospitatus est nos. Nifo aggiunge che la mattina dopo, sopraggiunti alcuni della città ad incontrarli e a riverirli, l'oste chiede umilmente scusa, mentre  mastro Nicoleto non si stanca di raccontare a tutti, uomini e donne, il piccante episodio. L'altro aneddoto si può raccontare anche in volgare, sebbene sia assai più sconcio del primo, se è vero. Narra dunque Nifo che, rimasta vacante a Padova una cattedra di diritto, per la morte del titolare. Barbadigo, che era allora capitanio della città, era sollecitato dagli studenti a corpirla con un  dottore di diritto canonico siciliano. Barbadigo annunzia che aveva già pronto l'uomo che fa al caso, e questi era mastro Nicoleto. Ma Nicoleto è un filosofo,  osservano quelli, e di diritto non se n'intende. Montato su tutte le furie, il magistrato li manda a farsi impiccare, e chiamato a sé Nicoleto gli propone di legger diritto al mattino, per 300 ducati d'oro, e di continuare a legger filosolia  nel pomeriggio. Il maestro non si perita di accettare, effondendosi in ringraziamenti. Se fin qui la faccenda era abbastanza sporca, il peggio vien dopo. Gli studenti malcontenti andano da Nicoleto a pregarlo di voler far capire lui stesso a Barbarigo che il diritto non era il fatto suo. Che io vada a fare una dichiarazione del genere ad un uomo che mi giudica sommo in ogni ramo dello  scibile? Gli studenti non si scoraggiarono e lo tentano per un altro verso: si che non molto dopo, munusculis  A. NiPHi, Opuscula moralia et politica cum G.  Naudaei de eodem auctore iudicio, Parigi,  De re aulica.  III non mediocribus acceptis ab illis studentibus, si presenta a Barbadigo e con ogni rispetto lo prega di liberarlo d’un carico che pesa troppo sulle sue spalle. Chi oserebbe  insinuare che l'idea di conferire a lui una seconda cattedra e un secondo stipendio fosse ispirata a Barbadigo da Vernia stesso? Ma non meno interessante,  pella religiosità e l’indole morale di lui, è  quel che apprendiamo dalle lezioni di Pomponazzi, che, al pari di Nifo, del chietino fu alunno e collega e, da ultimo, successore sulla cattedra di Padova. Il ricordo del maestro padovano e  del suo carattere faceto e bizzarro accompagna il mantovano per tutta la vita. Così nella lezione del commento al De sensu et sensato, tenuta, tre mesi prima della morte, accennando al modo superficiale col quale SCHIAVONE tratta un quesito intorno ai  sapori – GRICE TASTE --, dice: eo modo quo dicebat Nicolettus, praeceptor  meus, sicut mus super farinam et gatta super carbones.  Un'altra volta, a proposito del noi usato spesso da Averroè, ricorda: Dicebat Nicoletus: advertendus est sermo; loquitur da papa, ponendo numerum  pluralem. Nelle lezioni sulla Fisica, narra che Vernia spaccia come sua un'opinione che era invece di Thiene, come si vide dopo la stampa di questo: Magister Nicoletus attribuebat sibi hanc opinionem. Impresso Gaetano, latro inventus  est. Un'altra volta accennando alla a via nominalium, Pomponazzi aggiunge: imo merdalium, ut dicebat Nicholetus. In principio del commento alla Fisica, accenna a un dissidio tra gli scolari sui libri di quest'opera che il maestro avrebbe dovuto leggere: Unde lepidissinms vir nicholetus qui, curti versaretur discordia inter scolares sicut modo versatur inter vos, an scilicet primi an ultimi  libri physicorum essent legendi, dixit: Non timeatis, quia ego unica lectione legam omnes  4or  primos  Bibl. Nation. di  Parigi, Cod. lat. Cod.  lat., In Metaphys. Arezzo, Bibl. della  Fraternità  de'  Laici,  Ms., Super Physicorum, Ms., Super  Phys.1 Bibl. Nat. Parigi. Nello stesso commento, in una lezione intorno ai sottili accorgimenti di Averroè per salvare Aristotele, narra del  suggerimento dato da Vernia a uno scolaro ignorante che dove affrontare un esame: Credo ergo quod commentator voluit dicere hoc; sed sibi accidit ut cuidam scholari patavii, qui volens disputare, et nihil sciebat, fuit ad Niccoletum, qui eum doceret. Volebat enim iste scolaris ingredi collegium, et non poterat nisi disputaret. Quare magister Nicoletus dixit: Dabo tibi unam responsionem ad omne argumentum; distingue enim et dicas: Tuum argumentum tenet propter quia, et mea conclusio propter quid. Et ita vult dicere Averrois. Tamen possemus dicere ad omnia illa argumenta. Oportet enim scaramuzare quandoque. Sempre nelle lezioni sulla Fisica, incontriamo un altro  aneddoto, ove Vernia è alle prese con Nardo, in una disputa di moda, de intentione et remissione formarum, che concerne la dottrina dei calculatores, particolarmente invisi a Pomponazzi: Et ubi Aristoteles in hoc loco Phys. fuit  parcus, Entisbery in suo tractatu et Calculator fecerunt de hoc magnos tractatus. Aristoteles enim dimisit hec, quia ille compositiones et ille truffe spectant ad  matematicum; et calculatores latenter vincunt ph^dosophos; interponunt enim geometricalia. Sed philosophus, ut phylosophus est, non se intromittit ad hec. Et isti calculatores sophiste appellantur; quare non se debent intromittere in philosophia, sed in geometria. Unde erat magister Franciscus neritonius,  erat enim vir doctissimus, et in uno capitulo fratrum erat etiam Nicholettus, protesto ignorantissimus, et arguebat domino francisco neritonio in illa disputatione, et in calculatione  argumentabatur; et dominus franciscus nesciebat respondere, quia mathematica ignorabat. In hoc enim argumento erat quater fortassis totum alphabetum. Dominus tamen franciscus intrepide respondit sibi, quod Nicholetus fecerat ut contigerat in suo capitulo cuidam fratri, cui prior  comiserat ut predicaret de conceptione virginis. Cum venisset tempus predicandi, dixit ille bonus vir qui debebat predicare illa die: O domini auditores, ista materia de conceptione est tante difficultatis, quod non poteritis numquam eam percipere. Itaque, rogo vos, ut loco istius dimittatis me narrare ystoriam sancti Alexandri, quam Arezzo, ms. Allo stesso episodio Pomponazzi aveva accennato anche nelle lezioni In de anima nel cod. della Bibl. Nazionale di Napoli, Ms. Vili, ed ivi fa il nome dello studente somaro, che pare sia un Baldassarre da Chiusi. promptissime capietis. Sic etiain, dixit dominus franciscus, contigit domino Nicoleto: qui dum in hac materia quam posuimus disputandam nihil intelligeret, incepit nobis cum suis argumentis calculatoriis narrare ystoriam beati Alexandri. Ben più grave è quanto Pomponazzi narra agli scolari, in una lezione sul De caelo, tenuta a Bologna. Stava esponendo il testo, e poiché taluni dicevano che Dio e le intelUgenze celesti prima intentione agunt propter se, mentre le cose generabili e corruttibili prima intentione faciunt propter alia et secundario propter se, ha il coraggio di dire apertamente che non è vero: Non videtur verum; imo videtur totum oppositum; quia quicquid homines faciunt, faciunt primo propter se, secundario vero propter alios. Verbi gratia, homines student: prima intentio eorum est hicrari scientiam et fieri perfecti et eiusmodi; secundario vero ut illustrent domuin suam et patrem etc. Unde Aristoteles numquam somniavit, quod deberet fieri bonum ut ireturin  paradisum, et evitari malum ne iretur in infernum; sed bene dicit quod debemus exponere vitam prò patria et eiusmodi, et potius mori quam committere peccatum, ut acquiramus illarn virtutem, sciHcet fortitudinem. Ergo quicquid homo facit, prima intentione facit propter se, ut in omnibus discurrere potestis. Ideo videtur fatuitas philosophorum dicere hoc de generabiUbus, scilicet  quod primo agant propter alia, et secundario propter se. Unde Nicoletus, vir lepidus, qui non credebat, ut ita dicam, dal tecto in su, cum sepissime audiret beatum Bernardinum de Feltro predicantem et in suis predicis dicentem: O tu, attende tibi; o tu, attende tibi, mulier luxuriosa, bonus Nicolettus emebat bonos pullastros, fasianos, et si quis diceret illi: Quid vis tacere, o Nicholette?,  respondebat: Volo attendere mihi'. Item rapinabat et eiusmodi, et si dicebatur illi: Quid vis facere?, dicebat: Attendere mihi volo. Omnia ergo faciebat propter se Lo stesso ritratto morale del buon Nicoleto, Pomponazzi traccia negh stessi termini agli scolari bolognesi in una lezione sul delle Meteore. Arezzo Bernardino da Feltre predica la quaresima a Padova Wadding, Annui, e di  nuovo vi fu quando Patavium profectus, in Ecclesia Cathedrali, assumpto i lio trito suo themate Attende tibi, egregie populum de rebus saluti maxime necessariis instruxit. Parigi, Bibl. Nat. Erat Padue quidam frater sancii Francisci de observantia, qui dicebatur frater Bernardinus de Feltro, qui predicabat et in predicatione semper dicebat: Attende tibi, attende tibi. Unde Nicolettus, qui  legebat Padue, emebat perdices, capones et multa bona. Inde ipse erat malus homo, et prò uno quadrante perdidisset hominem, et nullum habebat prò amico. Unde, eundo ad predicam, accepit illud verbum attende tibi suo modo, scilicet: attende tibi, id est sguazza et triumpha. Ideo emebat perdices etc. Tale è il ritratto morale del Vernia quale fu conosciuto da Peretto:miscredente,  crapulone, rapinatore, che per un quattrino avrebbe rovinato un uomo, senza amici. Così giudica Pomponazzi l'autore delle Quaestiones sulla pluralità degl’intelletti e sull'immortalità dell'anima, nel quale ai revisori ecclesiastici deputati da Barozzi e a Barozzi stesso era parso di ravvisare il campione  stesso  dalla  fede, che aveva debellato definitivamente  l'averroismo e l'alessandrismo! Tuttavia non va dimenticato che Peretto era stato assente da Padova, in seguito a dimissioni dalla cattedra da lui occupata e sulla quale era stato sostituito da Nifo. Ora è sicuramente in questi anni che la crisi filosofica e religiosa del Vernia, venne a maturazione, se vera crisi ci fu in un uomo così lepido e astuto. E la testimonianza di Pomponazzi non può aver valore pegli anni in cui il  mantovano lo perde di  vista. Del resto, queste oscillazioni tra una spregiudicatezza quasi scettica e il bisogno di conformarsi all'ambiente religioso e d’accettarne il formalismo, è tutt'altro che alieno dall'indole, piena di contradizioni, d’un uomo dell'età di papa Borgia Cod. lat. Oliva, Note sull’insegnamento di Pomponazzi, Giorn. Crit. d. Filos. Ital. Ritengo che questo ameno e  spregiudicato maestro, prima che a Padova, si recasse a Venezia, in casa del Patrizio Badoèr, nei cui lari era stato educato il suo conterraneo e parente Manupello da Chieti', che, addottorato in artibus a Padova, vi s'addottora anche in medicina. Altrimenti non si spiega come, nella dedica dell'esposizione di Burleo alla fisica  d'Aristotele Venezia, egli potesse dire d'essersi affezionato al  Badoèr a teneris annis, e come mostrasse di conoscere così a fondo la storia leggendaria di questa famiglia. Dal testamento fatto  a  Padova e pubblicato da Sambin, si conosce il nome del padre, per esser detto clarissimus artium et medicine doctor dominus magister Nicolaus filius honorabilis viri ser Antonii de civitate Theatina. E lo stesso si legge nell'atto di donazione Dal  Giorn. Crit. d. Filos. Ital.  La nota su Cristoforo da Recanati è inedita. Expositio excel. mi  philosophi Giialterij de burley anglici in libros de physico anditn Aristotelis stagirite emendata per me nicoletum verniam theatinimi publice et ordinarie philosophiam in gimnasio pattivino legentem Venetiis. dedicata a Badoèr, censore del comune di Venezia: Del Manupello si legge appunto nella  dedica: affinis ac conterraneus meus clarissimus phisicus et mediciis Nicholaus manupellus Theatinus in tuis laribus fuit educatus. Erotto e Zonta, Ada graduum academicorum Gynnasii Patavini, Padova Sambin, Intorno a VERNIA, in Rinascimento, docum. de'suoi libri al monastero di S. Giovanni in Verdara. Dai quali documenti si rileva che il buon Nicoletto si lascia passare come artium et  medicinae doctor, quando dottore di medicina non era! Nella stessa dedica a Badoèr si legge: cum enim sub disciplina clarissimi philosophi pauli pergulensis essem, a quo etiam tu eruditus fuisti, pluries ab eo audivi  te summum philosophum atque theologum evasisse, nullumque esse qui te in docrina francisci de marronis subtilisque doctoris lohannis scoti antecelleret  Orbene: Paolo da Pergola era reggente delle scuole annesse in Venezia alla chiesa di S. Giovanni Elemosinarlo a Rialto, nel quale anno egli era anche piovano di questa chiesa; e reggente di queste scuole restò fino alla sua morte; fu sepolto nella chiesa di cui era piovano, Tanto Badoèr quanto  Nicoleto, e, suppongo, anche Manupello, sono stati sotto  la disciplina di Paolo a Venezia. Questa scuola merita d'esser meglio conosciuta, sia per gì'insigni maestri che, dopo il pergolese, vi insegnarono, sia perché essa fu una specie di succursale dello Studio patavino, nella quale molti veneziani cominciavano gli studi di filosofia, che poi andano a completare a Padova, ove s'addottoravano. Così appunto sappiamo aver fatto anche il chietino, il quale, da Venezia, forse dopo la  morte del pergolese, si reca a Padova, ed  ivi, dopo essere stato qualche tempo sotto la disciplina di Thiene, consegue il dottorato in artihus, primo promotore lo stesso maestro Gaetano. Dopo questa data, non si hanno di lui altre notizie fino a quando fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia. Dalla dedica del Vernia docum.Segarizzi, Atti  dell'  Istit. Veneto e la breve notizia  dello stesso in Nuovo Arch. Veneto. anche il  mio studio già  cit. Letter. e cultura veneziana, Valsanzibio, Vita e dottrina di Gaetano di  Thiene, Padova, I stesso a Languardo, arcivescovo d’Acerenza e Matera, del volume di commenti  di COLONNA, di Marsilio di Inghen e d'Alberto di Sassonia al De generatione et corruptione, stampato a Padova, veniamo a sapere che era stato  chiamato ad legendum philosophiam in locum quondam Gaetani  Thienei philosophi celeberrimi; carriera abbastanza rapida che mal si spiega senza l'appoggio di potenti  patroni ch'egli aveva a Venezia. L' intervento di questi patroni a suo favore si fa palese, del resto, con l'edificante episodio che traggo dagli atti del Sacro Collegio  dei  Filosofi di Padova, a solazzo dei laudatores  temporis acti, i quali vanno dicendo che certe soperchierie avvengono soltanto ai nostri giorni. Ecco dunque l'episodio. Ma, prima di narrarlo, bisogna sapere che al sacro collegio dei filosofi, che aveva un numero limitato di membri, erano aggregati solo FILOSOFI PADOVANI e veneziani, in numero limitato, dopo aver conseguita la laurea in  artihus, e a seconda della disponibilità dei posti. Da sapersi è altresì che soltanto ai membri del collegio spetta di farsi promotori dell'ammissione di coloro che ne fossero degni al tentativum  e al privatum examen pel conseguimento del titolo di dottore in artibus e al primo promotore tocca il privilegio di conferire le insegne del grado al neo-dottore, previo il giuramento di rito. Coloro che non fossero cittadini padovani o veneziani,  ma fossero MAESTRI  nello studio di  Padova, sì che non avessero più bisogno di essere ballotati periodicamente, potevano essere aggregati al collegio in seguito al parere favorevole dei membri di questo e colle cautele previste dagli statuti. Ora sentite questa. Un bel giorno il priore del sacro collegio  dei filosofi di  Padova, che era il dottore in artibus Maestro  Cristoforo da  Recanati de rechaneto, udito il parere dei consiglieri, convoca  il collegio in assemblea straordinaria e tiene Arch.  ant.  dell'Univ. di  Padova,  S. Coli,  de' Filosof. Su  lui,  Facciolati,  Fasti Gymnasii Patavini, ai convenuti questo  discorso: Famosissimi doctores, causa convocationis excellentiarum vestrarum est ista, quia die heri quidam officialis Magnifici domini pottestatis padue  mihi mandavit, ex parte prefati magnifici domini pottestatis, quatenus hodie convocare facerem  collegium ad instantiam d. M. Nicoleti, et, in executione literarum serenissimi ducalis  domini dicto d. M. Nicoleto, assignare debere locum in collegio cum conditionibus prout in dictis literis continentur, et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum. L' intervento della Signoria  veneziana  a favore del filosofo chietino mette in serio imbarazzo  il collegio, geloso dei suoi diritti e privilegi. Forestiero, laureato nell’arti, lettore di filosofia a Padova, Vernia veniva imposto dall'autorità politica centrale, senza che il collegio fosse stato nemmeno interpellato prima, e senza una ragione di particolari benemerenze che gli  dessero la precedenza su altri. Che modo di  procedere era questo? Vero è che anche Maestro Cristoforo da Reeanati era entrato a far parte del collegio, di cui egli era priore, mentr'era legens ordinarie philosophiam  naturalem, per l'intervento e l'imposizione dallo stesso governo veneziano e senza il gradimento del collegio stesso   IO Arch. Ant. dell'Univ. di Padova, Maestro Cristoforo Rappi  secondo  Benedettucci,  Biblioteca recanatese, Recanati da Recanati s'era addottorato in artibus a Padova Arch. della Curia Vescovile di  Padova, Diversovitìu. Non mi risulta la data esatta del  dottorato, che sicuramente ebbe luogo pochi anni dopo. Ma ebbe dal Senato veneziano un aumento di stipendio come professore di filosofìa naturale da molti anni nello studio patavino, allo scopo d’impedire che egli accetta un  invito fattogli dal vicedomino di Ferrara; que res universis scolaribus studii ipsius molestissima est, non sine incomoditate et iactura nostri domini, quia si recederet, omnes qui illum audiunt, eum sequerentur Arch. di  St. di Venezia, Senato-terra,  Reg. Di queste buone disposizioni del Senato a suo riguardo Recanati non tardò ad approfittare; poiché sotto la data si legge: In studio  nostro paduano, ut notum est, reperitur Clarissimus doctor magister Christophorus Recanatensis, legens ordinarie philosophiam naturalem. Qui, ut litere Rectorum nostrorum et rectoris Universitatis Artistarum padue testantur, neminem in Italia habet parem. Et qui vehementer optai prò honore suo cooptari in collegio Artistarum padue, in locum scilicet primi qui deficiet, et multi  prestantiorum doctorum ipsius collegii hoc velie et cupere videantur. Vadit  IIQ Ma sentiamo come l'estensore del verbale continua a riassumere il discorso dell'avveduto priore: Sed sibi videtur, quod durum. est centra stimulum calcitrare Actiis. Et quod ipse non vult in hac re nisi quod vult totum collegium, ad quod omnino oportet super hoc providere: aut quod ipse d. M. Nicolletus  acceptetur in dicto collegio iuxta tenorem literarum, aut quod colligantur duo experti qui sint doctores dicti collegii, et quod ipsi accedant ad Magnifìcos dominos pretores sic, 1. rectores padue et etiam ad Serenissimum dominium, ad deffendendum iura collegi contra dictum  M.pars, ut dictus magister christophorus, quo, hoc gradu honoris auctus, animatior et promptior reddatur ad  perseverandum in sua lectura, Auctoritate hiiius consilii cooptetur in dicto collegio, in locum scilicet primi qui quoquo modo deficiet. De parte, ; de non, 12;  non sinceri. Ritengo che di parere contrario dove essere Landò, dottore e milite,  non che Sapiens terre firme, il quale ammoni quod serventur promissiones facte collegio doctorum artistarum padue,  evidentemente col rispettarne  i privilegi e gli statuti. Anche allora il collegio aveva pestato i piedi e masticato amaro, ma poi aveva finito per rassegnarsi. Simili ingerenze del governo veneziano nelle faccende del collegio non erano una novità: che anche quando di Quirini, veneziano e doctor artium, pose la sua candidatura per essere accolto nel Collegio padovano, ove i veneziani avean diritto a un certo numero  di posti, la decisione si trascinò per oltre un mese, finché la domanda fu respinta con 9 balote contro 8 Arch. Ant. dell'  Univ. di  Padova, Sacro Coli,  degli Artisti. Dopo la morte di Thiene, Recanati fu chiamato dal Senato veneto con voto unanime Senato-terra,  Reg.  a succedergli nella prima lettura ordinaria di filosofia. Morì ,  sec. Benedettucci e fu sepolto nella chiesa delle monache  di S. Francesco dell'Osservanza, in vico pontis Altinatis, in un'arca di pietra cum doctoris effigie dormientis, e un epistaffio che lo raccomanda ai posteri come medico celeberrino et philosophorum inclyto, quem universae Italiae Gymnasia peripateticae scholae principem luxerunt  lac. Salomonius, Insc. ript. Urbis patav. Padova  Io, purtroppo, non conosco se non le Quaestiones recollectae super Calciilationes sub magistro Chistophoro de Recaneto, huius artis principe. Ma il Coxe, Catal. Mss. Bibl. Bodl.,  Ili,  Oxonii, segnala l'esistenza di  un'esposizione  Magistri  Christofoli de Reganato super de celo et niundo ad instantiam Magistri. Yeronimi de Cammarino, e forse anche sul De physico auditu, nonché di certe pillulae magistri Christophori Rechanatensis.  È un po'poco per giudicare delle lodi che gli tributarono i contemporanei. Ad ogni modo, è inesatto quello che scrive Facciolati, Fasti  Gymnasii  Patav., che egli primus averroi auctoritatem in Gymmasio Patavino conciUasse dicitur, eius commentarla in philosophando unice secutus. Prima di lui c'erano stati NICOLETTI e  Thiene, di cui il recanatese era stato discepolo. Nicoletum, et  petere quod diete littere revocentur, tanquam impetrate et concesse contra formam statutorum dicti collegi, ipso collegio et iuribus suis inauditis. Et super hoc factis multis sermonibus et arengationibus, prefatus dominus prior posuit ad partitum, quod quibus placet quod acceptetur in collegio d. M. Nicolectus iuxta tenorem literarum Serenissimi domini, ponat suffragia sua in pisside  rubea; quibus vero placuerit quod defensentur iura collegi contra dictum Magistrum Nicoletum per expertos dicti collegi, ponat balotam suam in pisside viridi. Et facto scrutinio cum bussolis et balotis, in vente fuerunt balote quinque in pisside rubea, in favorem dicti M. Nicoleti, et balote xv in  pisside viride, quod defensentur iura  collegi contra dictum Magistrum Nicoletum. Cinque  contro sedici costituisce un bello scacco per ser Nicoletto. Tuttavia è notevole che cinque membri del Collegio si mostrassero disposti, fin dal primo momento, a incassare il colpo, non ostante l'affronto al corpo. Lo facevano per simpatia verso il filosofo chietino, o perché eran persuasi anch'essi che durum est contra stimulum calcitrare?  Si trattava ora di eleggere coloro che dovevano  assumersi la difesa dei diritti del collegio al cospetto dei rettori della città e del governo della Serenissima. Deinde posuit prior ad partitum, de consensu dominorum consiliariorum, quod quibus placet quod elligantur d. M. Nicolaus de Sancta Sophia,  d. M. Ioannes Michael de Bredepalea,  d. M. lacobus f.  q.  mag.  Gratiadei de Venetis et d.  M. Ioannes Petrus de cararis, qui accedant  ad Magnificos pretores rectores padue et ad Serenissimum dominium Venetiarum, ad deffendendum iura et statuta dicti collegi contra d.  M.  Nicoletum et literas per ipsum impetratas, ponat balotam suam in pisside rubra; quibus vero non placet, ponat balotam suam in pisside viride. Et facto scrutinio invente sunt balote xx in pisside rubra, et balote due in pisside viridi  negante. Et sic  fuerunt ellecti. In questo verbale v'è un piccolo dettaglio che potrebbe facilmente sfuggire. Il messo del podestà aveva detto, a nome di questo, che fosse riunito il collegio e che ogni  membro dicesse la sua intorno alla  faccenda: et quod unusquisque super hoc dicat apparere suum. E l'estensore del verbale ci assicura che furono fatti dai convenuti molti discorsi e arringhe in proposito  e a sproposito. Gli animi della  maggio Arch. ant. delI'Univ. di Padova  v. I ranza  s' infiammarono nel denunciare l'affronto fatto al sacro collegio e ai suoi statuti, e infiammati si suggestionavano a vicenda sino a prendere le decisioni che presero. Ma tornato a casa, ognuno di quelli che avevano gridato piti forte contro la soperchieria che si perpetra da parte della Serenissima Signoria,  si sarà  messo a riflettere che anche le mura della chiesa di S. Urbano, ov'eran raccolti, avevano orecchie, e probabilmente più d'uno si sarà morsa, un po' tardi, la lingua. Fatto sta che il sacro collegio fu di nuovo convocato dallo stesso priore, non più nella chiesa di S. Urbano, ma in palatio Episcopali. Il priore si fa eco delle considerazioni che due giorni di riflessione avevano maturato nell'animo dei suoi magnanimi colleghi, e parla una lingua più circospetta. Illico et immediate prefatus prior dixit: famosissimi domini doctores, vos vidistis Mandatum mihi factum nomine collegij Potestatis, ut accipere debeamus omnino in collegio, in executione literarum ducalium, d. M. Nicoletum, prout in literis ducalibus continetur. Mihi videtur, ne videamur esse inobedientes et  rebelles Hteris Serenissimi domini Venetiarum, quod bonum esset ipsum d. M. Nicoletum acceptare in dicto collegio ad ultimum locum, cum protestacione quod non intendimus ipsum acceptare in preiudicium iurium et statutorum nostrorum, et quod reservamus nobis ius prosequendi iura nostra centra dictum d. M. Nicoletum et petendi revocationem dictarum literarum tanqviam  indebite, collegio nostro inaudito, concessarum et commissarum dicto d. M. Nicoleto. Et ita satisfaciemus Voluntati Serenissimi dominij impune et absque alio inconvenienti et schandalo dicti collegij. E COSÌ fu deciso. Un paio di settimane dopo, Nicoletus comincia a figurare in coda alle liste dei membri del Collegio; poi, man mano che altri membri entrano a farne parte, il suo nome  dall'ultimo posto passa al penultimo, e, su su, diventa uno dei primi, e comincia ugualmente a figurare in quelle dei promotori nei verbali di dottorato. Della protesta e della riserva cui accenna il priore del Collegio, l'egregio dottore in artihus Maestro Cristoforo da Recanati, non si parla più, ritenendosi che il fatto ricade sotto l'impero di quello che i giuristi pisani chiamano 1'ius  mengicum seu gengicum de praescriptione, e che molti filosofi molto filosoficamente ritengono un precipitato storico della giustizia eterna! Il povero Nicoletto, sano per grazia di nostro Signor Gesù Cristo mente et sensu, era tuttavia corpore languescens; e pare si tratta di malattia piuttosto seria, se provvide a far testamento, disponendo dei suoi averi a favore del monastero di S.  Giovanni in Verdara a Padova. Da questo documento confrontato col testamento pubblicato da Ragnisco appare che egli a Padova abita in contrata burgi Capellorum e non ancora in contrata S. Lucie, né ancora in contrata putei Bonelli; risulta parimente che non era ancora cittadino di Vicenza, che non dispone dei possessi di Colze, e non si sa se ancora avesse avuto a che fare con la  famiglia vicentina Dalla Scrofa. Questi rapporti sono strettamente connessi coll'acquisto poco chiaro della cittadinanza vicentina e della villa di Colze, quando i suoi guadagni erano aumentati assai. Su tutti questi punti potrebbero far luce ricerche negli archivi notarili di Padova e di Vicenza. Ad ogni modo, pare che le sue fortune cominciassero a prosperare, scapolato alla morte; ed  anche allora coll'appoggio di autorevoli patroni. Dal primo dei tre documenti pubblicati da Persiani, si rileva che l'amba Sambin,  /.  e. Sui rapporti di Vernia coi canonici Regolari Lateransi del monastero di  S. Giovanni in Verdara a Padova getteranno luce le ricerche dello stesso Sambin sulla biblioteca di questo monastero. Uno studio sulla tomba del Vernia e sui rapporti di lui con gli stessi Canonici Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo a Vicenza sta per dare in luce negli Atti dell'Accademia  vicentina, Pozza, direttore della Bertoliana. In Atti e Memorie dell'Accad. di  Se. Lett. ed Arti di  Padova, disp. Ili pubblicato  dal  Sambin, ma in mercoledì. Quindi o è sbagliato l'anno, oppure il giorno. Ragnisco,  /. e In  La  Riv. Abruzzese di Se, Leti, ed Arti, Vili. sciatore napoletano, Dott. Arcamona, s'adopra presso il Senato veneziano, perché il famoso dottore Maestro Nicoletto da Chieti, che legge a Padova la filosofia ordinaria cum maxima elegantia et sufficientia ac contentamento  omnium, fosse confermato  in detta lettura ita ut non subiaceat de cetero ulli ballottationi. Era già aggregato al collegio! La domanda fu accolta con 122 voti favorevoli, e uno solo contrario. Molto più importante è il secondo documento pubblicato dallo stesso Persiani. Da esso si rileva che ser Nicoletto, ottenuta la stabilità a vita, aveva messo su boria, e sub pretextu quod non habeat ccncurrentem sibi parem,  obtinuit pridem a dominio nostro litteras, per quas ei concessum fuit ut legere possit bora extraordinaria, quo fit quod venit eo modo carere concurrente. Quanto al credersi superiore ad ogni altro professore che fosse a Padova, e magari sotto la cappa del cielo, Vernia fu buon maestro ad Agostino da Sessa, che si ritene il primo homo dil  mondo, com'ebbe a dichiarare al console veneziano  a Napoli, Anselmi. In questo sì il maestro che lo scolaro eran ben lontani dalla modestia del Peretto mantovano che preferiva di confessare con Socrate: Hoc unum scio, quod nihil scio. Ed anche questa volta ser Nicoletto era riuscito ad ottenere r insolito privilegio con lettera della Signoria veneziana. Ma egU non aveva fatto i conti cogli studenti, che, per quanto chiassosi, erano anche  allora i migliori giudici della capacità dei loro professori. E gli studenti appunto protestarono per r immeritato privilegio e pella flagrante violazione degli statuti accademici da parte di coloro che avrebbero dovuto esserne i vigili tutori. L' istituto della concorrenza a Padova esige che per ogni materia professata i lettori ordinari fossero due, e che leggessero e commentassero gli stessi  testi NEGLI STESSI GIORNI E ALLA STESSA ORA. Gli studenti potevano ascoltare la lezione dell'uno o dell'altro concorrente, scambiandosi poi gl’appunti e le impressioni,  e avviare discussioni, sollevando obiezioni Sanuto,  Diarii Giorn. Crii. d. Filos. -- alla fine della lezione, e continuando le discussioni, avviate entro l'aula, al circolo dei filosofi, che più tardi ebbe la sede sotto  il portico del podestà, a pochi passi dal Bò.  L'intento perseguito coll'istituto della concorrenza è OBBLIGARE A PROFESSORI A TENERSI AL CORRENTE ED A STUDIARE. Et hoc ut fiant dihgentissimi coactique sint studere, et ex consequenti satisfacere habeant scolaribus audientibus. Ora Mastro Nicoletto, ottenuto il privilegio di LEGGERE SENZA CONCORRENTE, hora  extraordinaria, scelta a suo piacimento, dice il documento pubblicato da Persiani, minime curat studere, fitque negligens cum magna murmuratione scolarium, qui, hanc ob causam, relieto studio, venerunt ad presentiam nostri domimi et indolentes sic, 1. dolentes supplicantur ut forma et continentia ipsorum statutorum superinde loquentium sibi observetur. Non saprei se fra quei cari  studenti v'era anche Pomponazzi, il quale si laurea in artihus appena qualche mese prima che il senato obbliga il maestro chietino a rispettare gli statuti sul fatto della concorrenza e a rinunziare al privilegio abusivamente concessogli. Ultimo aneddoto della vita padovana di Vernia è il suo dottorato avvenuto un po'alla chetichella. Dopo anni d'insegnamento della filosofia naturale, in  riconoscimento dei suoi meriti, la signoria veneziana, coll'approvazione di tutto il consiglio,  gl’aveva finalmente concesso il raro privilegio che un tempo era stato concesso, pelle loro benemerenze, a Gaetano da Thiene e a Maestro Cristoforo da Recanati, di leggere senza concorrente. Pare che ormai non dove avere altra aspirazione che quella di portare a compimento le Quaestiones  de pluralitate intellectus contra falsam et ah onini ventate remotam opinionem Averroys, per riguadagnarsi la stima del vescovo di Padova e per ottemperare all'invito del doge Barbarigo, dimostrando falsi e calunniosi i sospetti che si susurravano in angulis, d’una sua adesione all'averroismo. Eppure alla distanza di anni dal dottorato in artihus non esita  a sottoporsi agli esami per  conseguire il titolo di dottore in medicina. Promotori furono i suoi colleghi Aquilano,  Lorenzo da Noale e Girolamo  da Verona; testimoni i patrizi veneziani Lorenzo Donato e Vincenzo Quirini, e i maestri dello Studio Pomponazzi  e Francanziano. Che cosa l'avrà spinto a procacciarsi il titolo di  medico? e a che cosa poteva  giovargli? La risposta forse potremo trovarla in questa  notizia che si legge nei Diarii di Sanudo, a di 2 zener. Vene li miedigi di collegio di questa terra Venezia, exponendo, conzò sia che a tempo di le vachation maestro Zuan dell'Aquila, maestro Nicoleto, maestro Hironimo da Verona et maestro Zerbi legeno a Padoa, venissero a miedegar in questa terra; per tanto chiedeno, nel tempo stevano dicti medici qui, facessero l’angarie come  Ihoro, sì da pagar il medico in armada etc. E li fu concesso, et cussi per la Signoria, consulente collegio,  fo terminato in scriptura. Ecco a che cosa dove servire la laurea in medicina: ad andare a miedegar a Venezia durante le vacanze, facendo concorrenza ai medici del luogo, sia col fatto di essere maestri di medicina dello Studio patavino, sia perché questi padovani non facevano le  angarie che  dovevano fare i medici veneziani sì da pagar il medico in armada. Lo stipendio di 180 fiorini non pare abbastanza al filosofo chietino, che, al dire di Pomponazzi, prò uno quadrante perdidisset hominem, e dove invidiare i guadagni che i colleghi medici traevano, nel periodo delle vacanze, a Venezia, dall'esercizio della loro arte. Due di essi, Aquilano e il veronese Torre, erano stati suoi promotori, ed entrambi godevano di onorata nominanza a Padova e altrove per la loro perizia nel miedegar, sì che la loro opera era molto ricercata. Ma di gran lunga più celebre era Zerbi, anch'esso veronese, avversario di Iacopo Berengario da Carpi, che gli muove gravissime accuse, forse infondate o almeno esagerate. Appena sei anni più tardi morì di morte efferata,  nel viaggio di ritorno dalla Turchia, ove la sua fama era giunta, recatavi dai veneziani. Padova,  Arch. d. Curia Vesc, Acta graduum Coiraiuto compiacente di questi e altri colleghi, il filosofo chietino ebbe dunque le insegne di dottore in medicina, conferitegli da Aquilano, e quattro anni dopo lo troviamo a Venezia a miedegar, in sieme a Aquilano, a Gerolamo da Verona e Zerbi, ai  quali la piacevole compagnia del faceto filosofo non dove riuscire ingrata. Ma bel gioco dura poco. Ed il primo ad abbandonare il quartetto fu proprio maestro Nicoletto, il quale fece appena in tempo a preparare per la stampa il libro che lo fa tornare nelle buone grazie del Barozzi. A Vicenza detta le sue  ultime volontà, e due mesi dopo trova pace nella tomba presso i Canonici Regolari  Lateranensi della stessa città. Sotto al bel monumento sepolcrale che ora trovasi nella cappella dell'Ospedale Civile di Vicenza, e già da N. riprodotto in Giorn. Crit. d. Filos. Ital., si legge questa iscrizione, in cui è fatta speciale menzione della sua ultima opera: Nicoletus, Philosophus Clarissimus, De animi pluralitate ac felicitate edito libro, Patavina in Accademia floruit. Obiit Comunemente, quando si parla oggi d'averroismo, vien fatto di pensare alla dottrina dell'unità dell’intelletto possibile per tutta la specie umana; la quale dottrina vien designata, con un vocabolo moderno che si direbbe coniato apposta per accrescere la confusione, pampsichismo. – GRICE THOSE SPOTS MEAN MENTE MEASLES -- Ma rari sono coloro che dell'averroismo mettono  in  evidenza quella tipica dottrina mistica che fu uno degl’argomenti maggiormente discussi fra gli’averroisti e i loro avversari. E, ciò che è più strano, ne tacciono sia Mandonnet che Steenberghen nelle loro massicce diffuse monografìe dedicate a Sigieri di Brabante. Eppure la mistica averroistica era stata fatta oggetto di ampia discussione da  parte  di Alberto COLONIA,  d’AQUINO e di Sigieri. Sebbene non fosse stato ancora tradotto in latino il trattatello De animae beatitudine, essi conoscevano bene il commento e l'ampia disgressione d'Averroè sul De anima, assai più importante di quel piccolo trattato, e per chiarezza e per compiutezza. In  questo testo del De anima, s'accenna al problema se è possibile che l'intelletto unito al corpo arrivi  a conoscere le sostanze  separate. Ivi  Aristotele promette che questo argomento sarà discusso più tardi; a noi per altro non è giunto alcuno scritto dello Stagirita nel quale il problema ora accennato sia risolto. AQUINO, dopo aver dubitato che Aristotele, sorpreso dalla morte, fosse mai pervenuto a trat Dal  volume  Umanesimo e MACHIAVELLI Machiavellismo dell'Archivio di Filosofia, Padova, Editoria  Liviana. I Arist.,  De  Anima tare delle sostanze separate, finì per credere che il problema è risolto dallo Stagirita in un'opera non ancora tradotta in latino che gl’era stata mostrata  Anche Alberto, che a questo problema dedica il suo De intellectu et intelligibili,  ritiene che quest'opera, rimasta sconosciuta a lui, era ben nota a  molti dei discepoli d'Aristotele, i quali si sarebbero ispirati  ad essa in quei numerosi scritti che Alberto ben conosce e nei quali crede di trovare il fior fiore dell'insegnamento aristotelico. Neil'intento di chiarire il pensiero di Aristotele su questo punto, commentatori greci come Alessandro d'Afrodisia e Temistio, o arabi come Alfarabi, Avicenna ed AbuBaker Avenpace,  cercano  negli scritti dello Stagirita quale, a loro avviso, dove essere la  soluzione di quel problema, conforme ai principi della filosofia peripatetica. Averroè, venuto dopo costoro, intraprende nel commento al De  anima, una vivace critica delle loro teorie, in parte rigettandole e in parte sforzandosi di correggerle. Afrodisia ritene che l'uomo potesse arrivare alla conoscenza del mondo immateriale mediante la copulatio dell'intelletto potenziale coll’intelletto  agente. L'intelletto potenziale è, per l'Afrodisio, una semplice preparazione o disposizione dell'organismo vivente di vita sensibile. L'intelletto agente invece è la causa prima di tutte le cose, la quale, irraggiando la luce dell'intelligibilità sulla materia, la plasma e trae dalla potenzialità di essa tutti gli esseri del mondo corporeo. Questi imprimono le loro qualità dapprima sui sensi esterni; e per mezzo di queste prime impressioni suscitano l'attività dei sensi interni e particolarmente dell'immaginativa. L’ATTIVITÀ CONOSCITIVA DEGL’ANIMALI INFERIORI ALL’UOMO S’ARRESTA QUI. Ma l'organismo umano, sviluppatosi sotto l'azione dell'intelletto agente, è dotato d'un principio vitale più perfetto che tende più su. V’è in esso una capacità o disposizione che,  per quanto legata all'organismo vivente, lo porta ad aprirsi una veduta sul AQUINO, De  anima, lez. AQUINO, De imitate  intellectus cantra averr., ed. Keeler, Roma, Pontificia  Univ. Gregoriana,  Alb. Magno,  De intellectu ed intelligibili, I tr.  i, e.  i mondo intelligibile. Questa capacità o disposizione è ciò che Aristotelechiamato l'intelletto in potenza. Soltanto la luce inteUigibile  dell'intelletto agente, la quale avvolge € vivifica tutta la natura, può trarre all'atto questa pura potenziaHtà. Ma la luce divina dell'intelletto agente attua r intelletto potenziale per gradi: prima per mezzo degl'intelligibili astratti dai fantasmi dell'immaginativa; poi per mezzo delle scienze speculative; finalmente, quando l'intelletto umano è intelletto in atto o in abito, l'intelletto agente,  cioè la luce divina, lo riempie di sé, lo informa e lo rende capace di contemplare in se stesso il mondo divino dei puri spiriti. Siccome in questo stato l'intelletto contempla il divino per  mezzo del divino stesso, esso è detto intelletto acquisito. La teoria dell’Afrodisio, con la sua graduale ascesa della mente umana al divio, che nell'ultimo grado della sua elevazione finisce per essere  deificata, sembra aver sedotto Averroè. Il quale, per altro, ne scorge acutamente le difficoltà. Se il punto di partenza di questa ascesa verso il divino è l'intelletto in potenza, e se questo è semplice attitudine dell'anima sensitiva essenzialmente legata all'organismo del quale subisce le vicende, bisogna ammettere che una virtù organica, generabile e corruttibile, vincolata cioè dalle  condizioni dello spazio e del tempo – GRICE PERSONA VERSUS UMANO --, fosse capace d'elevarsi alla conoscenza di ciò che è universale, libero cioè dallo spazio e dal tempo, ossia dalle condizioni della sensibilità o, come si dice nel medio  evo, della materia – GRICE MATERIALISMO BETE NOIRE --.  Si può bene intendere, fino ad un certo punto, che la causa prima operi,  come causa agente, sul mondo materiale e sull'intelletto potenziale; ma non si riesce a capire in che modo l'intelletto agente possa farsi forma d'una virtù organica e renderla simile a sé. L'intelletto acquisito è concetto che non è punto chiaro. In quanto acquisito parrebbe qualcosa di diverso dal soggetto che lo acquista; ma non si vede come un soggetto corruttibile possa acquistare e far  suo l'eterno. Per queste ragioni parve ad Averroè che l'intelletto potenziale NON dove essere ncque corpus ncque virtus in corpore; in altri termini, la natura di siffatto intelletto vuol essere sciolta da ogni intrinseco legame colla materia. Sostanza separata esso stesso, l'intelletto possibile diviene capace di quella ascesa al mondo delle sostanze separate, mediante la copulatio coir intelletto  agente. Anche Abu Nasar Alfarabi s'era fermato a meditare sul problema posto da Aristotele e sulla soluzione che ne aveva dato Alessandro. E nella sua opera intorno all'Etica Nicomachea – HARDIE GRICE --, avendo accettata la dottrina del commentatore greco suir intelletto possibile, s'era limitato a considerare l'intelletto agente come causa attiva del passaggio di quello dalla potenza all'atto, e non come forma che s'unisce ad esso. Invece, nel De intellectu et intelligibili, Alfarabi ammise che r intelletto possibile, già pienamente attuato dagl'intelligibili tratti del mondo sensibile, diventa soggetto d'una più intima unione coli' intelletto agente, dal quale riceve una più copiosa illuminazione che gli dischiude la vista del mondo sovrasensibile. In questa unione  coli' intelletto agente, cui serve di preparazione l'acquisto delle scienze speculative, e che anche Abu Nasar chiama intelletto acquisito, intellectus adeptus, consiste la suprema perfezione della mente umana e la beatitudine finale dell'uomo. Ma Averroè informa, nel De animae beatitudine, che il povero Abu Nasar, giunto al fine de'suoi giorni colla ferma convinzione di potere arrivare  a questo alto grado di perfezione, cui s'era apparecchiato procacciandosi tutto il sapere a lui accessibile, come s'accorse che non c'era arrivato, ha a dichiarare impossibile e vana l'aspirazione a congiungersi  colle sostanze separate, ritenendo ormai favole da vecchierelle le descrizioni puramente immaginarie che taluni fanno dell'uomo pervenuto a tale sovrumana altezza – GRICE IN OUR BETTER MOMENTS OF COURSE. Quest'umile riconoscimento della limitatezza del sapere umano fatto d’Alfarabi, ormai sul passo estremo, non ha per altro scoraggiato AbuBaker Avenpace. Il quale, dice Averroè, s'adopera a lungo a risolvere l'arduo problema, senza perderlo di vista un batter d'occhio. Oltre che nel suo commento al De anima, Avenpace tratta di questo  argomento in  molti altri suoi libri, di due dei quali conosciamo i titoli: Alpharabii, De intellectu,  nell'edizione di Avicenna, Opera per canonicos emendata. Venezia, eredi  di Scoto. Il trattatello è stato ristampato nella traduzione latina  da GiLSON,  Archives d'hist. doctr. et  litt. au moyen  8ge.  N., introduzione  ad Aquino, Trattato sull'unità dell'intelletto contro gli  averroisti,  Firenze,   Sansoni, Nifo, In Averrois de animae beatitudine, Venezia, eredi dì O. Scoto Avere., De Anima, comm., digress. r  Epistula de perfectione, e il Tractatus de copulatione. Anche la teoria di questo pensatore si ricollega strettamente a quella di Alessandro e d'Alfarabi, per quanto concerne la natura dell'intelletto potenziale e nel ritenere che alla conoscenza delle sostanze separate si possa  giungere per mezzo del sapere speculativo, ossia della progressiva attuazione dell'intelletto, in potenza. L'atto col quale l'intelletto umano dal sapere scientifico s'eleva alla conoscenza dei puri intelligibili separati, potrebbe dirsi un atto di superastrazione, col quale dai concetti astratti – GRICE ABSTRACT ENTITIES --, ricavati dalla realtà sensibile, s’astrae quella pura essenza  intelligibile che è semplice e identica per tutte le menti: Et cum philosophus ascenderit alia ascensione, considerando in intellecto inquantum intellectum, tunc intelliget substantiam abstractam. Sembra, per altro, che Abu Baker si mostra alquanto perplesso in merito a questa suprema ascesa, che dove coronare gli sforzi di chiunque è giunto in possesso di tutto lo scibile filosofico; e  che  egli, nell'Epistola de perfectione, la ritene possibile non tanto pello sforzo della natura umana, quanto piuttosto per un aiuto divino: intellectio istius intellectus est de possibilitate divina, non de possibilitate naturae. Ad ogni modo, la maggiore difficoltà, che travaglia anche la teoria di Alf arabi e d'Avenpace, consiste nel punto di partenza, cioè  nell'aver considerato l' intelletto potenziale  generabile e corruttibile, come l'aveva ritenuto Alessandro d'Afrodisia. Non così possiamo dire di Temistio. Per questo parafraste bizantino d'Aristotele, com'è stato inteso da Averroè, l'intelletto potenziale è immateriale – GRICE METHOD PHILOSOPHICAL PSYCHOLOGY FUNCTIONALISM MULTIPLE REALISABILITY --, uno ed eterno, al pari dell'intelletto agente che n'è la forma. Il problema che concerne Temistio, è un altro. Se l'intelletto potenziale è uno e ingenerabile, ed uno e ingenerabile è l'intelletto agente; e se il primo è tratto dalla potenza  all'atto e diventa intelletto speculativo per  r  informazione del secondo, non si riesce a vedere come il concorrere di due cause eterne possa dar luogo ad un effetto generabile e corruttibile, qual' è il mio  individuale atto d' intendere, susseguente, in particolari contingenze  di 8  MuNK, Mélanges de philosophie, Parigi AvERR.,  /.  e,  p '0 AVERR. tempo e d'ambiente, al non intendere, e diverso dall'atto col quale altri intende quel che non intendo io. Nel pieno congiungimento dell'intelletto potenziale con l'intelletto agente consiste anche per Temistio il più alto grado di perfezione raggiungibile dall'uomo; ma il bizantino non spiega perché questo congiungimento avvenga soltanto alla fine e non al principio dello sviluppo intellettuale dell'uomo; egli cioè non spiega perché l'intelletto agente, fin dal primo momento della sua unione all'intelletto possibile, non attua tutta intera la potenzialità di quest'ultimo, se è vero che gì'intelligibili, come pensa Temistio con  Platone, anzi che tratti dalle immagini sensibili – GRICE CIRCLE SUBLUNARY CIRCLE --, sono irraggianti dall'intelletto agente su quello potenziale. A risolvere le difiìcoltà contro le quali urta d’un lato la teoria d'Alessandro e dall'altro quella di Temistio, il commentatore arabo pone questi fondamenti. Anzi tutto, l'intelletto che è soggetto del pensare, in quanto questa funzione conoscitiva si differenzia dal sentire – GRICE POTCH AND COTCH --, non può essere e quindi al privatum examen per ottenere il dottorato in medicina. Ecco il verbale di quest'ultimo atto, rimasto ignoto a Ragnisco il quale, confondendo col Vernia Nicolò  Manupello, egli pure da Chieti e parente del Vernia, ritene che questi si fosse laureato in filosofìa: A nativitate Domini nostri  Jesu Christi sic. Indictione, in loco solito examinum. Privatum  examen  et Doctoratus in facilitate Medicinae Clarissimi Artium  doctoris Domini Nicoleti Verniatis, theatini, ordinariam philosophiae legentis absque concurrente, examinati per Sacrum collegium artium doctorum, corani venerabili Domino presbytero Antonio de Malgarinis, cathedralis ecclesiae paduanae Mansionario, in hac parte Vicario, in  assistentia spectabihs domini Butironi, Rectoris, approbati unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, sub promotoribus Domino Joanne Aquilano qui de dit insignia prò se ac Dominis Laurentio de Noali et Hieronymo de Verona. Testes. D. Laurentius Donato, Camerarius. D. Vicentius Quirino, artium scholaris. D. M. Petrus de Mantua D. M. Antonius Trachantianus In  questo atto da me veduto Arch. d. Curia Vesc, e gentilmente trascrittomi da Barzon, il dottorato di Maestro Nicoletto è fissato. Ma che si tratti d'un semplice lapsus dell'estensore è provato dal fatto che l'atto immediatamente precedente porta altra data. Inoltre, cade in giovedì, e non martedì. Infine, Pomponazzi non pcteva fare da testimone, perché lascia Padova, e vi fa ritorno solo  dopo la morte di Vernia. Ma forse non si tratta d’errore, bensì dell'aver computato il principio a  nativitate  Domini. Notevole nell'atto riferito è poi la presenza, fra i testimoni, di Donato e Quirini. Il primo era un patrizioveneziano, e a lui, questore a Padova, Nifo, alunno di Vernia, dedica il prologo d'Averroè alla fisica, stampato in fine del commento dello stesso Nifo alla destructio  destructionum dello stesso Averroè. Del secondo, al quale Nifo a Padova e da Salerno ostenta il suo particolare e interessato attaccamento, faremo cenno piìi giti. Ma potrebbe anche darsi che il motivo che spinge il filosofo chietino ad  ddottorarsi fosse un altro. Leggiamo infatti nel Sanudo che i veneziani si lagnarono in collegio perché  Aquilano, maistro Nicoleto, Girolamo da Verona  e  Zerbo, che leggevano a Padova, durante le vacanze andao a miedigar in questa terra, cioè, a Venezia, e non applicano ai clienti le angarie di legge che dovevano far pagare i medici di Venezia, a prò del medico dell'armata. Pare che a quei tempi l'esercizio della filosofia desse guadagni più vistosi della teologia; e a maistro Nicoleto dovevano far gola. Ma comincia pella filosofia  padovana un periodo di crisi che coincide colla partenza di POMPONAZZI. Questi, messo a dura prova dalla concorrenza di Nifo, dove sentirsi spronato ad accogliere un invito che gl’era fatto d’andare a stabilirsi alla corte di Alberto Pio a Carpi. E egli rinunzia alla cattedra e chiede licenza d'andarsene, adducendo a motivo i suoi personali interessi. Questo risulta dal decreto del Senato  veneziano Venezia, Arch. di Stato, Senato terra,  Reg.: Renuntiavit niiper eximius doctor D. Petrus de mantua lecturae ordinariae philosophiae gymnasij nostri patavini, cuius retinebat primum locum; et hoc impulsus privatis suis negotijs. Sicché i sapienti del Consiglio e della Terra ferma, nella necessità di provvedere alla cattedra rimasta vacante, nominarono a succedergli Agostino Nifo, qui erat concurrens ipsius. D. Petri de mantua secundo loco, promovendolo al primo,  col salario di 90 fiorini, e dandogli come concorrente, ad secundum locum, il famoso e a tutti gratissimo dottore Fracanzano, vicentino, de cuius sufficientia et doctrina litterae Rectorum nostrorum Paduae dant amplum testimonium, coll'annuo salario di 80 fiorini. Ma Nifo non valeva il  Pomponazzi,  e d'altra parte risulta che non sappiamo per quali ragioni, se per motivi di stipendio o per attriti col Fracanzano, ad un certo momento taglia la corda. Sì che il Senato veneziano, in seguito a rapporto del rettore degl’artisti di Padova, considerando che maestro Nicoletto ob suam ingravescentem etatem continue non potest legere, quamvis ob eius sufficientiam est valde  gratus omnibus scolaribus, et quoniam illam lectionem alias legebat  D. Augustinus de sessa cum florenis  90 in anno, vir apprime sufficiens et gratus illis scolaribus, qui libenter veniret ad legendum, decide che Nifo sia condotto di nuovo con fiorini 120, ed abbia a concorrente lo stesso Fracanzano  (Reg.). Questi s'era addottorato in artibus, era stato assunto alla lettura della logica, e  questa cattedra occupa ancora Padova, Arch. della Curia, Acta  grad.); aveva conseguito la  laurea, e quindi assunto alla cattedra straordinaria di filosofia che occupa  (Arch. d. Curia).  Fu promosso alla cattedra ordinaria secundo loco. Ben poco ci è noto anche del suo indirizzo filosofico. Di scritti di lui a stampa N, non conosce che le Quesiiones in consecutiones Stradi ac de sensu  composito et diviso, pubblicate nel volume del faentino Vittori,  In Tysberum DE SENSV composito ac diviso cum eiusdem collectaneis in suppositiones NICOLETTI.  Nec non Tractatus Alexandri Sermonete, Bernardini Petri de Landìtciis, Pauli Pergulensis et Baptiste da Fabriano in eundeni Tysberum. Item qiiestiones Frachanciani Vicentini in consecittiones etc. Venetiis, impensa  heredum q. Oct. Scoti, e dedicate a Sermoneta. Esse appartengono senza dubbio al periodo nel quale Fracanzano fu lettore di logica. Di opere manoscritte N. ne conosce invece due. Una è nel cod. Ashburn nella  laurenziana di Firenze con titolo: Excellentissimi Doctoris Domini fracantiani Vicentini de casu et fortuna fatoque quaestiones incipiunt. L'altra è nel codice Vat. lat., e  porta  questa intestazione: Tractatus proportionalitatum Domini fracantiani Vicentini di ff. io. È scritta di mano d'un allievo, che probabilmente è Accorumboni o Accoramboni da Gubbio. Ecco quanto scrive questo alunno: Finis Tractatus proportionum Fracantiani, praeceptoris mei, qui legit patavii ordinariam philosophiae. Ego vero eram tum bacchalarius ordinarius in studio patavino.  Pontifex erat prope bononiam cum exercitu, ut dominum iohannem expelleret. Niente son riuscito a sapere del commento inedito In Physicorum di cui parlano i Memorabili di Schio nella Bibl. Bertoliana di Vicenza, e  che era posseduto da Querengo. Interessante è quanto riferisce Sanuto,  come furon ricevuti a Venezia in collegio maestro de Starniti teatino et  maestro Zerbo, doctori,  lezeno a Padoa in  philosophia, insieme col retòr di scolari artista, con commission dil collegio di doctori; et forno alditi in contraditorio con  maestro Fraganzan, dotor vicentin, leze in philosophia, qual non voria aver concorente inferior a lui, né vorìa essi doctori esso in nel collegio di doctori. Or fo gran parole, e scrito ai retòri di Padoa, dagi Information. N. non conosce l'esito di  questa bega; ma è certo che l'insegnamento della filosofia a Padova versa in gravi condizioni. Nifo se n'era andato, e non fa più ritorno a Padova, ove non gli mancano gl’appoggi di potenti amici, ma dove aveva dovuto cozzare altresì contro l'avversione di maestri e scolari. Poi era morto maestro Nicoletto,  che a Vicenza fa l'ultimo suo testamento, e con lui spariva dalla scena padovana  la figura forse più nota fra gli studenti di filosofia e più popolare pelle sue bizzarrie. Nessun maestro di qualche rilievo occupa più le cattedre di filosofia. Di ciò ha a preoccuparsi il senato veneziano nella  seduta Senato terra,  Reg.. A succedere a Vernia fu perciò richiamato Magister Peretus de Mantua, vir singulari doctrina preditus et studentibus gratus, con 180 fiorini di salario; per  concorrente gli fu assegnato Fracanzano, vir doctissimus, qui legit, quando fu  nominato lettore di logica; e poiché il vicentino ricusa l'ufficio di concorrente col salario di 80 fiorini, fu deciso di portarlo a 130, onde possit legere contentus et facere bonam concurrentiam. Alla cattedra straordinaria di filosofia fu accettato il bolognese Bacilieri, discepolo, amico e collega di Achillini, del  quale porta a Padova le dottrine. Egli aveva dovuto lasciare la città natale, in seguito alla sospensione per un quinquennio inflittagli da quel Collegio dei filosofi. E forse Bacilieri dove fare da concorrente al Peretto, quando Fracanzano entra al seguito di Corner, che, elevato alla sacra porpora, ha ancora bisogno d'andare a Padoa a studia Sanuto. Ma ritornato sulla sua cattedra il  Fracanzano, e ripreso il suo posto di concorrente di Pomponazzi,  Bacilieri lascia  Padova per Pavia  N. Sig. di Brah. nel pens. del Rinasc. ital.. Nella stessa delibera si trova ancora: Demum legit in dicto gymnasio iam annos  sexdecim dunque dall'anno  scolastico quando Trapolin salì sulla cattedra di filosofia quale straordinario Magister Petrus trapolino, qui est  onustus  ingenti  numero  filiorum, et habet florenos 250 de salario in anno, quod exiguum est respectu laborum quos sustinet in legende. Ideo captum sit quod dicto magistro Petro addantur floreni quinquaginta, ita quod habeat de salario trecentos in anno et ratione anni, attento presertim quod eius concurrens che era Zerbo habet fiorenos sexcentos de salario in anno. Con questa delibera del consiglio veneziano  che vigila sulle sorti dello studio patavino la crisi della filosofia padovana era avviata a una felice soluzione. Intanto venivan su ottimi elementi, alunni dei maestri, che, appena addottorati e taluno anche prima, salivano sulla cattedra. Così s'addottora in artihus Molino, da Rovigo, alunno di Pomponazzi e di Trapolin che al dottore confere le insegne,  e nel verbale di dottorato troviamo  annotato che egli era già stato deputato ad lecturam dialecticae Arch. d. Curia Vesc. S'era addottorato in artihus il veronese Burana, e un anno dopo lo troviamo ordinario di logica. Il veronese Plumazio, già alunno del Nifo, fu chiamato ad extraordinariam philosophiae lecturam. Anche Trapohn, al quale conferì le insegne di dottore in artibus il padre, troviamo che electus est ad lecturam  publicam logice. Fu promosso straordinario di filosofia naturale. E dopo la laurea, anche questa volta  promotore. D. Petro Trapolino GENITORE suo qui dedit insignia  e fra i testimoni era Contarini, passò alla scuola, collega del padre e, come questo, collegiato. S’addottorò in artibns delle Pelli Negre da Troia in Puglia, promotore Trapolin, ed anche egli era già stato eletto ad MORALEM PHILOSOPHIAM – GRICE AND THE WHITE CHAIR OF MORAL PHILOSOPHY AT OXFORD --- publice legendam. S'addottorò Bagolino di cui abbiamo udito l'elogio fatto da Avanzo e del quale è ben nota la carriera scolastica. S’addottorò in artihus Zimara, promotore  ancora Trapolin, e comincia a insegnare prima  logica, poi filosofia. Conseguì il dottorato in artihus Fracastoro, anch'egli già ad lecturam logice deputatus. Proprio in questi anni, affluiscono a studiar filosofia a Padova membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane. Primi fra tutti Quirini, Gradenigo, Taiapietra, Moro, Marcello, Contarini, Tiepolo, Surian, Contarini, e Venier. Quirini, ancora artium scholaris, figura in vari atti di dottorato come testimone; ma recatosi  a Roma, vi sostenne le conclusion nella chiesa dei Santi Apostoli, presenti Bembo e l'oratore veneziano Zorzi, e fu addottorato in artihus da Alessandro. Il suo esempio seguirono anche Taiapietra e Tiepolo, addottorati essi pure a Roma, dopo avervi disputato le loro brave conclusion da Giulio II, Sanudo; Bembo, Opp., Venezia. Invece Marcello, ch aveva sostenute ai Frari, a Venezia,  alcune conclusion Sanudo, s'addottorò in artihus a Padova, promotore Trapolin, e gli fecero da testimoni Foscarini,  vescovo di  Città  Nova  e ancora studente di diritto, Barbarigo, primicerio di S. Marco, e  Pomponazzi Arch. di Curia Vesc. Del dottorato in artihus  di Mocenigo, discepolo di Pomponazzi, N. trova questo verbale, indictione. Privatum examen in artibus, in loco solito  examinum,  per venerandum collegium artium doctorum, et comprobatio unanimiter et concorditer ac nemine penitus discrepante, in assistentia Spectabilis. D. Pauli Zerbo Rectoris, coram  Reverendo  d. Ludovico de rugerijs vicario. Et deinde in medio cathedralis ecclesiae, assistentibus Mocenigo praetore, patruo, et Paulo Trivisano equiti, praefecto urbis, avunculo, et aliorum  praestantissimorum doctorum scholarium civium et praelatorum corona, per R.mum D. Episcopum, eius domino Vicario recitante, pronuntiatus fuit Doctor in Artibus M. cus et doctissimus vir. Mocenigo, natus mi D. Leonardi, fili olim Serenissimi principis Venetiarum Mocenici, post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae  suae experimenta. Cui tradita fuerunt insignia per Excell.mum artium et medicinae doctorem, D. Magistrum Petrum trapolinum prò se ac Dominis Magistris Ioanne de Aquila, Symone Estensi, Hieronymo de foelicibus ac Bernardino Spirono. Testes:  D. Laurentius Venerio, D. Suriano, Contareno, artium scholares. È notevole che anche qui s'accenni a pubbliche dispute, tenute  verosimilmente a Padova e a Venezia, delle solite conclusion. S'addottora in artibus Gradenigo, ed ebbe a testimoni il Magnifico  G. Batt. Memo, suo zio e podestà di Padova. S'addottorò in artibus Foscarini, promotore Montagnana; fu eletto lettore di filosofia nelle scuole di Rialto a Venezia, al posto di Giustinian nominato ambasciatore (Sanudo). S'addottorò parimente in artibus  Venier, el Gobeto, del quondam Marino procurator di S. Marco, e gli furon testimoni Corner, padre del Cardinale  e podestà di Padova, Trevisan, capitanio, Surian e  Polani  Arch. Cur. vesc. Prima del dottorato a Padova, egli aveva tenuto le sue conclusion ai Frari in Venezia, disputando per più giorni con Bragadin, lettore di filosofia, con Badoèr, dottore e cavaliere, con Zorzi,  anch'egli  dottore, e con alcuni frati Sanudo. Fu la volta di Moro di Marino, che ebbe a testimoni Molin, podestà di Padova, Trevisan, capitanio, i due celebri scotisti francescani Trombeta e Ibernico, lettori nelle scuole del Santo, e Pomponazzi Arch. Cur. Vesc. Anch'egli aveva tenuto le conclusion ai Frari, qual'è  impresse Sanudo. E finalmente Surian, nipote del patriarca dello stesso nome, dopo  una disputa pubblica di due giorni a Padova  e di un giorno ai Frari a Venezia Giorn. Crii. d. Filos. Hai., ebbe le insegne di dottore in artibus da Speroni, prò se ac Dominis Magistris Ioane de Aquila, Benedicto de Odis, Trapolino, Maripetro, Antonio de Faenza, Francisco ab Equis, Petro de Mantua,  Carrano et Carolo de lanua compromotoribus suis Arch. Cur. Vesc. Dal qual verbale  appare che Pomponazzi, forestiero, era stato aggregato al collegio dei filosofi di Padova, Dallo stesso Archivio della Curia Vescovilesi  rileva che xA.ntonio D. Petri Trapolini ricevve la prima tonsura dalle mani del vescovo Barozzi, il quale venne a  morte di lì a poco. Questo figlio del Trapolino fu avviato allo studio del diritto, e, dopo alcuni anni di vita dissipata, rimessosi sulla  buona strada, professa  Decretali e diritto civile a Padova. Ma  morì se sono esatte le notizie raccolte da Facciolati Fasti Gymnasii Patavini. Divenuto un fiorente centro d’intesa vita intellettuale, lo studio di Padova attira, oltre la nobiltà veneziana e studenti di molte parti d'Italia, molti studenti d'oltralpe. Fra coloro che vi sostarono è da ricordar  Copernico, che, già studente di diritto e  quasi certamente anche dell’arti a Bologna, a Padova fu studente e a Padova certo non può aver trascurato lo studio della  matematica e dell'astronomia. A Padova avevano insegnato queste scienze Peurbach e Regiomontano, ossia Muller di Kònigsberg, e dipoi Capuano di Manfredonia, i quali avevano discusso le osservazioni di Tolomeo e quelle di Albategni in rapporto ad una  revisione, che si rende ogni giorno più necessaria, delle tavole alfonsine. Si parla anche della fama di profondo matematico goduta da Trapolin, considerato nientemeno che il primo matematico del suo tempo, sì che per questa sua fama accorrevano a  Padova, avidi d'ascoltarlo, scolari d'ogni nazione Vedova, Biogr. d. Scrittori  Padovani. Alunno di Trapolin e Pomponazzi era stato il  mantovano Tiriaca che s'addottorò in artihus, promotore Trapolin che gli conferì le insegne, e testimone il Peretto suo concittadino. Egli tenne la cattedra di matematica e astronomia con tanto plauso che, avendo dato le dimissioni, bandito il concorso per dargli un successore, quando gli studenti seppero i nomi degli aspiranti a quella lettura presero ad agitarsi e chiesero che Tiriaca  fosse richiamato sulla cattedra, come fu fatto con deliberazione del Senato veneziano. È arduo pensare che Copernico non l'abbia avvicinato e si sia disinteressato dell'insegnamento del maestro. Un confronto dei ritratti di Copernico, e specialmente dell'autoritratto, col matematico seduto e intento a tracciare un disegno nel quadro del Giorgione i tre filosofi , l'ha indotto a credere a N. che questo sia proprio Copernico, studente a Padova. Volgendo le spalle a Tolomeo e all'arabo Albategni, egli è rappresentato dal pittore di Castelfranco Veneto, al centro ideale e prospettico del quadro, nell'atto di scrutare la natura che ha dinanzi e di volgere le spalle ad un sapere che sta per tramontare. Trapolin era a Venezia, presente alle solenni esequie fatte a Sabellico nella chiesa di S. Stefano. Egnazio fece l'orazione funebre dell'amico umanista  deceduto, Sanuto,  Vili. Pomponazzi, circondato dalla stima e dall'affetto dei suoi alunni e dei colleghi rinnova l' ingaggio de firmo et unum de respectu; e in quell'occasione il Senato gli  aveva portato lo stipendio dai 180 ai 250 fiorini, motivando l'aumento colla singolare dottrina del filosofo e coi bisogni della  numerosa famiglia da À mantenere Venezia, Arch. di Stato, Sen. terra, Reg. Quanto alla numerosa famiglia, sappiamo che sotto Natale egli si sposa con Cornelia  di Francesco Dondi dell' Orologio, dalla quale aveva avuto una o forse già due figliolette. Per parlare di numerosa famiglia bisogna pensare che egli avesse a carico altri  parenti. Tanto più che lo stesso motivo del bisogno in  cui versa pella famiglia numerosa sarà addotto da Peretto per chiedere un nuovo aumento in occasione del rinnovo dell'ingaggio. Lo stipendio questa volta gli fu portato a  370  fiorini. Le cose dello studio patavino procedevano dunque a gontie vele, e quando, ad Achillini costretto a fuggire da Bologna pella caduta dei Bentivoglio dei quali era fautore, fu offerta la cattedra di filosofia  naturale, secundo loco, che era stata del Fracanzano, morto; si che il bolognese si trova ad essere concorrente di Pomponazzi.  E in disputa tra loro al circolo dei filosofi, al portico pretorio, fra il palazzo della ragione e il Bò, li ritrasse ambedue al vivo Giovio, il quale era alunno del Peretto, e a Padova rimase fino a quando fece ritorno a Pavia. Ma la serenità che Bologna invidia a  Padova non dura a  lungo e un violento uragano s’abbatté su questa, quando, pel furore totius fere Europae virium in Rem Venetam conspirantium, come con bella frase si legge sulla tomba del doge Loredan nella chiesa di San  Zane e Polo, Venezia corse pericolo mortale e le milizie imperiali occupano Padova. Sembra che proprio lo stesso giorno dell'entrata dei tedeschi in  Padova, morisse, non saprei in quali circostanze, Trapolin. E fu certo ventura per lui che, giacendo nella pace del chiostro di  S. Francesco,  ov'era la tomba della famiglia Trapohna nella stessa chiesa riposa Roccabonella, non ebbe a vedere lo scempio della città, il saccheggio della sua casa e la sciagura dei suoi congiunti ed amici. All'avvicinarsi  del nemico i rettori della città e il consiglio  cittadino, formato di 16 deputati, discussero a lungo s’arrendersi o resistere. E parlò Trapolin, che si voleno tenir pella Signoria, e non si dar al re di romani, si non vedono mazor exercito eh'1 nostro a preso Padoa, ben non voleno danno, ni el nostro campo entri in Padoa, dice Sanuto. Vili. Ma le difese veneziane eran deboli, e Padova cade. Vi  fu un principio di saccheggio, ma una  grida rassicur i cittadini; fu formato un governo provvisorio di notabili padovani, e l'ordine fu ristabilito Sanudo,  Vili. Di questo governo fa parte anche Trapolin, Bagaroto, lettore di diritto e Conte. Qualche settimana dopo insieme ai predetti fa parte di questo governo provvisorio anche un altro dottore  padovano, Lion  Sanudo. L'ordine relativo che regna in Padova consentì che i professori dello studio continuassero a svolgere i loro corsi e a fare esami. Così mi risulta che Pomponazzi era promotore nel  dottorato di Alvise da Brescia Arch. ant. dell'Univ., Sacro Collegio  dei filosofi. Ed altri esami si tennero anche nei giorni successivi. Ma i veneziani mal si rassegnano alla perdita di Padova, anche perché sapevano che non  pochi padovani non se la prendevano poi tanto calda per Venezia, e ricordavano che nel tentativo di Marsilio da Carrara non pochi l'avevano favorito, e la Signoria per dare un esempio memorabile, FA IMPLICCARE UNA SESSANTINA DI PERSONE, fra le quali l'avo di Alberto e di Pietro Trapolin. Perciò s’affrettarono a ricuperare la città, affidando l' impresa a Gritti. Entrate in Padova, le milizie veneziane si dettero  a saccheggiare le case dei fratelli Trapolin e di altri padovani, compromessi o sospetti, mentre Alberto, col fratello Roberto e con Conte, s'asserraglia nel palazzo del Capitanio, ove fatto prigione fu mandato a Venezia, coi suoi compagni, per render conto del suo contegno verso la Signoria. È appunto col ritorno dei veneziani che cominciarono i maggiori guai per Padova. Nell'elenco delle case saccheggiate che menziona Sanudo Vili, figurano quelle dei fratelli Alberto, Roberto e Nicolò Trapolin, e quella di Francesco loro nipote, e figlio del  u  quon m dam maistro Pietro. La stessa casa di maestro Pietro, ove vive la vedova Maria, coi figli Giulio, Alessandro ed Alba, non fu risparmiata, e pare che in questo saccheggio andassero distrutti per intero le opere  manoscritte e i corsi di lezioni da lui tenute. Sanudo poi informa che anche Julio Trapolin, fo fiol di missier Piero, fu fatto prigioniero e dal capitanio di Padova spedito a Venezia con altri compagni per esser giudicato. Ma anche ripresa dai veneziani, Padova rimane sotto la minaccia degl’imperiali che ne occupano i dintorni immediati e tentarono di fare di nuovo irruzione in città.  Soltanto i tedeschi levarnoo il campo. Intanto l'università riceve un fiero colpo: maestri e studenti cominciarono a prendere il largo, e taluni non vi ritornarono piìi, altri soltanto più tardi.  Fra quelli che NON ritornarono, è POMPONAZZI. A dir il vero, gli era morta la moglie ed era rimasto con due bimbette ancora in tenera età. Forse dopo essersi in fretta riammogliato con Ludovica  del nobile Pietro da Montagnana, cittadino padovano che ritengo abitasse nella contrada di S. Lucia,  lascia Padova colla famiglia, forse per riparare a Mantova, portando con sé il ricordo dello studio patavino, delle battaglie chev'aveva combattuto, degl’alunni che a lungo gl’attestarono la loro devozione, primi fra tutti  Bonamico  da  Bassano, Gaspare e Marcantonio Contarini, e dei  colleghi, e in particolare di quello che era stato suo maestro e poi caro amico, Trapolin. Invece Zimara da  S. Pietro in Galatina già ALUNNO E POI FIERO AVVERSARIO – GRICE STRAWSON – di Pomponazzi, dopo aver girovagato in patria, a Salerno e a Napoli, vi fa ritorno. Non è esatto per altro che lo studio venisse chiuso, poiché dagli Ada graduimi dell'Archivio della Curia  Vescovile risulta che, per esempio, fa il dottorato in artibiis Binno de'Tomasi figlio di Maesto Jacopo veneziano, ed ha le insegne da Genua; s'addottora ugualmente in  artibus Oldoino, e fra i testimoni era  Genua figlio  del  dottore  Nicolò; ebbe le insegne di dottore pure in artibus il  Magnifico e generoso Francesco del fu Chiarissimo Morosini, promotore lo stesso Genua, e testimoni i Magnifici Spinelli  partenopeo, dottore cavaliere, conte di Cariato e oratore massimo di Sua Maestà Cattolica, Pietro Duodo, podestà di Padova, Alvise Emo, Capitanio, nonché i Reverendi Contarini, dottore in artibus, in teologia e in decreti, e Giustinian, canonico patavino. Ed altri dottorati ebbero luogo, come può vedersi negli stessi Ada della Curia Vescovile e in quelli più volte  ricordati dell'Archivio antico dell'Università, per quanto lacunosi. Certo è, per altro, che la attività dello Studio, sia per il minor numero degl’alunni, sia per scarsità di maestri, fu assai ridotta fino alla ripresa. Nel quale anno, troviamo il dottorato in artibus di Speronello figlio dello Spettabile ed esimio dottore  Bernardino Speroni,  nobile  padovano,  presenti  come  testimoni  i  Magnifici Donato, podestà, e Loredan, degnissimo capitanio, non che i nobili veneziani Almorò Donato, Venier, e Giacomo Loredan. Dopo la deportazione a Venezia dei  fratelli Alberto e Roberto Trapolin, del loro nipote  Giulio, lìglio di Pietro, e degli altri che s'erano compromessi nei fatti di Padova, più di 100 per sospetto, oltra li ritenuti  (Sanudo),  fu fatto il processo a carico di Trapolin  fratello di misier Piero dotor excellentissimo, el qual Alberto era di  XVI  al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apicato a Padoa a tempo di la novità di misier Marsilio di Carrara, di Conte, fato cavalier per r  imperator  presente  novitev, di Bertuzi Bagaroto, dotor, qual  lezeva publice in  iure a Padova et havia 300 ducati all'anno della Signoria, era richo e famoso, e di Giacomo da Lion dotor, el qual fé' la oration a l' imperator l'orazione  è  riportata  da Sanudo, Vili quando se deteno padoani, ne la qual dice gran mal de'venitiani. Il Consiglio dei X con la Zonta fu implacabile con questi padovani, che vennero impiccati. Sanudo, che ci dà alcuni particolari della loro impiccagione, e' informa anche che i loro beni furono confiscati, e aggiunge: Restane a spazar li altri padoani Della fine di Trapolin e dei suoi compagni parla anche il vicentino Porto, che assistè al supplizio Lettere storiche per cura di Bressan. Firenze,  Le Monnier, lettera a Savorgnan. Di Trapolin dice che era profondissimo filosofo e teneva alquanto dell'epicureo, sì che pare che non accetta con tanta riverenza, né con tanto desìo le cose sante dette da'religiosi con quanto gli altri fanno; ma taciturno, ovvero dicendo alcuna fiera parola contro i Viniziani, aspetta l'ora del fine suo. E dinanzi alle forche,  voltato messer Bertucci a Trapelino disse: Ecco il legno della nostra  croce. Ecco risponde egli il luogo dove la nostra innocente vita d’una ingiusta morte sarà terminata. Pare invece che Roberto e Nicolò, altri fratelli di Pietro, e il figlio di questo, Giulio, se la cavassero a buon mercato. Poiché di Nicolò ci vien  narrato Papadopoli, Hist. gymnasii  patav. che anda in Germania al seguito  dell'Imperatore Massimiliano, da cui ebbe onori, e quindi si mise al servizio di Carlo V,  prese parte all'espugnazione di Tunisi, della quale scrisse la storia; infine si riconcilia con  Venezia, e potè ritornare a Padova, ove morì. Di Roberto Trapolin consta Padova, Arch. di Stato,  Estimo, Polizze della Città, Polizza che si trova ad bavere 5 fioli, 4 menori, de li quali tre fiole da maridare e che egli era confinato in Venetia, dove sto egli dice um spesa, né posso veder li fatti miei et convegno pagar uno fator et ogni cosa me va in ruina. Egli era già morto poiché, Trapolin de'Trapolin suo figlio presenta a nome degl’eredi la prescritta dichiarazione all'ufficio dell'estimo. Di Giulio consta che, insieme al fratello Alessandro, ebbe procura dalla madre. Maria del fu Francesco  de'RoselH, nella causa che questa intenta per l'eredità paterna. Gli stessi Giuho e Alessandro compaiono ancora insieme alla madre nel contratto di nozze della loro sorella Alba col nobile  padovano Gaspare del fu Buzacarini, abitante nella contrada di S.Agnese Padova, Arch. di Stato, Sez. notar.,  Not. Bragadin. Ma  Giulio  morì l'anno stesso in cui sarebbe morto l'altro fratello,  Antonio, secondo Facciolati, e fu sepolto a S. Francesco, insieme al padre, prima che la tomba di famiglia dei Trapolin divenisse proprietà dei nobili De Lazzara, figli di Marina Trapolina, che non è detto in quali relazioni di parentela è col filosofo e i suoi eredi  lac. Salomonio, Urbis  patav. Inscriptiones,  Padova. Alessandro invece era ancora vivo, quando, insieme a M. Antonio e  Pietro, nipoti del filosofo, provvide a far trasportare nella chiesa dei Carmini le ossa del  padre e della  madre e di altri suoi maggiori, in una tomba che avesse da accogliere lui e tutti i suoi, come si legge nelr iscrizione riportata dagli storici di Padova  PapadopoU, Hist.  gymnasii  patav.; anzi, dalla già citata Polizza dell'Estimo risulta ancor vivo. E Francesco Trapolin, che sull'esempio  paterno insegna a Padova prima la logica, indi la filosofia naturale. I documenti padovani tacciono di lui, dopo il saccheggio della sua casa. Può darsi ci sia qualcosa di vero nella notizia raccolta anche da Portenari, Della  jelic. di  Padova, che egli anda a legger a Firenze. G. Cesare Scaligero, De subtilitate, dist., pretende di sapere che Francesco Trapolin, precettore di Pomponazzi, che  anche un'altra volta BORDONE chiama suo precettore, muore per aver mangiato un intingolo ove la domestica mette della cicuta invece di prezzemolo. Se non che precettore di Pomponazzi non fu Francesco Trapolin, ma Pietro, il padre. BORDONE, addottorato in artihus a  Padova, mostra, anche per questa confusione, di riferire una voce raccolta per sentito dire. Certo è invece, per l'attestazione dell'Estimo citato Polizza , che la nobele madonna Maria Trapolina era tutrize et gubernatrice de i fioli del  q. messer Francesco Trapolin, q.  m.  piero. A questa data dunque Francesco era morto. E forse suo figlio, se non di Alessandro o di Giulio, potrebbe essere quel Pietro Trapolin che figura come nipote nell'epigrafe sepolcrale dei Carmeni e fa denuncia dei suoi beni  all'ufficio dell'Estimo Polizza. Costui è sicuramente l'autore delle lettere a Mussato nel Ms. della Biblioteca del Seminario di Padova. A questo figliuolo Pietro Trapolin aveva trasmesso, col conferimento delle insegne dottorali in filosofia, il meglio della sua arte, ed egli avrebbe dovuto custodirne l'eredità spirituale. Invece l'oblio colse il figlio anche prima del padre. Poiché se di quello  resta appena il nome nelle carte sbiadite della Curia Vescovile e dell'Archivio dell'Università di Padova, di questo ci son pervenuti almeno i pochi frammenti menzionati in principio, insieme alla gloria d'essere stato ricordato dal suo grande discepolo ed amico Pomponazzi come suo precettore Prologo al De incantationihiis: Dicisque ulterius te quandam responsionem alias a Petro  Therapolino patavo, nostro communi praeceptore, audivisse, quam ipse Alberto ascribebat. Queste parole sono rivolte a Panizza, cui il Peretto indirizza la sua opera; sebbene dalle stampe non appaia, è attestato però dal codice Ambrosiano di essa. Panizza, mantovano, è studente a Padova; e nel voi. più volte citato di quella Curia Vescovile,  c'è anche il verbale del dottorato in artibus  D.  M.ri panicia Mantuani, filij  D. de panici s, ov'è detto che dell'uno e dell'altro grado accademico habuit insignia a D.  M.ro  Petro trapolino. Fra i testimoni figura al primo posto Pomponazzi, artium doctor, ordinariam philosophiam legens. Paniza è autore di tre opere a stampa: di una Qnestio de phlebotomiis fiendis Venetiis, per Benalium, dedicata al duca Gonzaga, e di un Commentarium de venae sectione per sex egregios et praeclaros iudices diindicatum, cui si trova aggiunto dello stesso autore il Lihellus de minoratione ex visceribtts ad Herndem Gonzagam Principem iustissimum et Cardinalem  amplissinitmi Venetiis. Quest'ultimo volume ha in principio un bel ritratto dell'autore e una tavola raffigurante i filosofi in atto di giudicare e approvare la  sua opera. Nella Qnestio de phlebotomiis, scritta contro un chiarissimo medico del quale non è indicato il nome, accade a Panizza di ricordare il maestro che gli aveva conferite le insegne dottorali. Accennando ad Avicenna che fu il migliore seguace d'Aristotele, dal quale discorda solo in paucissimis admodum rebus, egli continua: IdeoTrapolinus, preceptor meiis, sue etatis    philosophorum gloria, autoritate Girardi bolderii Veronensis hanc dicebat profitentibus arteni: Insequimini Avicennam, primo; insequimini Avicennam, secundo; insequimini Avicennam, tertio. E un po'più giù, a proposito d'un'argomentazione subtilissima et tota metaphisicalis, osserva: Ex quo non mirum si medici ista non intellexere, artifices sensitivi grossique cum sint; stat enim in  abstractis a materia. Sed ex sententia perspicui speculatoris Petri trapolini, artifices huius artis res tales e suis expellere mentibus tenentur, cum medicina sit de immersis in materia et quandoque feculenta et turpi. Ma se Paniza ricorda Trapolin come insigne medico, Genua, figlio di Nicolò che del Trapolin era stato collega, continua a ricordarlo sicuramente l'aveva conosciuto da  ragazzo  anche come filosofo di tendenze moderatamente averroistiche, insieme a Pomponazzi, nel commento al De anima, stampato a Venezia. Altre notizie su questo maestro, amico e collega del Peretto Mantovano non sono riuscito a rintracciare, ed ho riunite quelle che ho trovato per chi, come dicevo e come mi auguro, vorrà intraprendere più ampie ricerche sullo Studio patavino nel  Rinascimento. Intanto son lieto di  potere annunziare che altre notizie e documenti sulla famiglia Trapolin, coinvolta nelle vicende di Padova al momento della guerra pella lega di Cambrai, il lettore potrà trovare nella A Criticai Edition of the Lettere  Storiche 0/ Porto, a cura di Clough, Oxford. vili I QUOLIBETA DE INTELLIGENTIIS DI ACHILLINI Se a Padova il decreto  episcopale, vieta di disputare quovis quaesito colore, sotto qualsiasi pretesto, della dottrina averroistica dell'intelletto, meno che per combatterla, e maestro Nicoletto da Chieti e il suo discepolo Nifo da Sessa s’affrettano a recitare la loro palinodia, e la penna a impugnare l'averroismo brandiva anche lo scotista  francescano Trombetta, a Bologna, sotto la  liberale signoria dei Bentivoglio,  Achillini potè liberamente discutere al capitolo generale dei francescani tenuto in questa città sotto il generalato di Francesco San  Dal voi.  Sigieri  di  Brab.  nel  pens.  del  Rinasc.  Ital.  I  II  francescano Trombetta, ordinario di Metafìsica invia Scoti a Padova, aveva scritto, prima del Vernia, un Tvactatiis de humanaruiìi animarmn plurificatioiie coìitra Averroistas, che sarà poi  pubblicato a Venezia, per Bonetum Locatellum, col quale scende in lizza in difesa della proibizione del vescovo  Barozzi. Wadding, Scriptoves Ordinis Minornni, Roma, informa che taluni, anzi che col nome volgare di Trombeta o Trombetta, preferivano cultu quodam latino di chiamarlo con  quello di Tubefa; e Tubefa è chiamato anche nell'epitaffio sepolcrale nella chiesa di S.  Antonio a  Padova, che Wadding  riporta. Sul finire delle Questiones de pliiritate etc, Vernia scrive: Si quis vero, per resolutionem ad immediata et per divisionem ad minima, argumentationes contra Averroym, in hoc commento philosophice discipline depravatorem, videre desiderat, videat, opus contra ipsum reverendi sacre pagine magistri  Antoni]  Trombetta,  philosophi integerrimi  et theologi excellentissimi, provincie sancti Antoni] Patavini  ministri meritissimi. Nam frustra visum est mihi tangere que ab eo mihi amicissimo sunt optime declarata. E Trombetta, che è il primo dei revisori dell'opera di Vernia, rende testimonianza, a sua volta, al sapere del collega e alla fede di lui, si da procacciargli l'approvazione del sospettoso Barozzi.] sone presenti forse  il  Nifo  e  Pico, i suoi Quoliheta de intelligentiis, in difesa della sua interpretazione sigieriana della dottrina averroistica, portata a Padova dal suo fìdus Achates, Bacilieri, e da lui  stesso,  e a Padova professata da Taiapietra e Venier, quando ormai Nifo, che n'era stato propugnatore fin dai primi anni del suo insegnamento padovano, l'aveva apertamente ripudiata. In quest'opera Achillini è  sigieriano da principio alla fine, sebbene egli, secondo un costume molto diffuso, non faccia mai il nome dell'averroista brabantino né d'alcun altro, tranne si tratti di Aristotele o d'Averroè o d'altra autorità pari a queste. E, cosa notevole, le opere di Sigieri cui egli attinge, sono quelle stesse dalle quali il Nifo prende le citazioni che ho riferito nel volume su Sigieri di Brahante nel pensiero del Rinascimento Italiano: il che si presta a varie congetture. Come sappiamo, le tesi difese da Sigieri nel suo trattato De intellectu, scritto in risposta al De imitate intellectiis d’AQUINO, erano queste: r  intelletto possibile è, in sé stesso, l'infima delle sostanze separate, ed è unico per tutta la specie umana; l'anima intellettiva dell'uomo risulta dall'unione dell'intelletto possibile, separato ed eterno, colla cogitativa che Achillini bononiensis de  intelligentiis quolibeta in quibus quid commentator et Aristoteles senserint et in quo a veritate deviaverint continetur. in capitulo generali minorum edita et impressa Bononie impensis Benedicti Hectoris Faelli Bononiensis, illustrissimo Ioanne secundo Bentivolo reipublice Bononiensis habenas felicitar moderante.  La seconda edizione, fatta presso lo stesso editore Faelli, è dedicata al  conte Rangoni, che aveva udito Achillini disputare intorno agli argomenti trattati nel libro ed aveva preso attiva parte alle dispute. Intorno a Rangoni, TiRABOSCHi, Biblioteca Modenese. Per Venier, allievo del Bacilieri, è da vedere il volume di Bonet, Metaphys., naturai. Philos., Praedicam., necnon Theol. natur. Recogn.per magnif. dom. Venerium.Venetiis, Eredi di Scoto, con lettera  del Bacilieri a Venier, e dedica di questo al doge Loredan. Le note marginali di Venier risentono dell'insegnamento del suo  maestro bolognese. Nifo, De intellectu; De anime beatit., comm.; Sigieri ìiel pens. è la più alta delle facoltà di cui sia dotata l'anima sensitiva dei singoli; in questa unione coi singoli l'intelletto, uno in sé, acquista un'esistenza individuale e molteplice, pari al numero dei singoli; mercé questa unione, l'anima intellettiva può dirsi forma sostanziale inerente all'uomo, e non soltanto forma assistente; sì che da essa l'uomo trae il suo essere specifico di animale ragionevole; r intelletto possibile è pura potenza priva di ogni atto sostanziale; soltanto grazie all'azione dell'intelletto agente la  sua potenza è gradualmente attuata; r intelletto agente è Dio; ma esso può dirsi parte della anima  umana in quanto concorre all'atto dell'intendere umano e alla fine dello sviluppo intellettuale dell'uomo s'unisce all'intelletto possibile come forma r intelletto umano può arrivare a conoscere le sostanze separate e Dio per unione intenzionale colla loro essenza. Nel  libello De felicitate,   poi, l'averroista del Brabante aggiunge quest'altre tesi: nell'atto intellettuale col quale l'intelletto possibile intende nella sua essenza l’intelletto agente, cioè Dio, consiste formalmente la suprema felicità dell'uomo in questa vita; al pari dell'intelletto umano, anche le altre intelligenze separate conseguono la loro beatitudine nell'atto col quale intendono l'essenza divina ; NiFO, De iutell. De anima, comm. Sigieri NiFO, De intell. De aniima, comm. Sigieri NiFO, De ititeli. De anima, comm. Sigieri  NiFO, De intell. De anima, collect.; Sigieri, De anima intell. Mandonnet, Sig. de Brabant et l'averr. latin, Louvain, e Qitaestiones naturales edite da Stegmùller, in Rech. de tìiéol. anc. et méd.. Sigieri Vedasi  anche  Giorn. Crit., NiFO, De intell. Sigieri NiFO, De intell. De  anime beatit., I, comm. Sigieri NiFO, De intell.; De anime beat., comm. Sigieri NiFO, De intell.; De anime beatit., comm.; De anima, collect.; Sigieri.] o) sì per r intelletto umano, sì per le altre intelligenze separate, intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus. Ora tutte queste tesi son difese d’Achillini nei suoi Qtioliheta de intelligentiis; anzi la massima parte di quest'opera del maestro bolognese è dedicata alla trattazione di questi dieci punti svolti negli scritti di Sigieri, dei quali Nifo ci ha rivelato l'esistenza; il che m'ha recato, quando ho potuto rendermene conto, non poca sorpresa. La trattazione d’Achillini verte intorno a questo problema fondamentale: Utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis. Per intendere l'esatto signiiìcato di questo  problema, giova ricordare alcune cose. È  noto che Anassagora, a spiegare l'origine del movimento fisico che separa i semi delle cose dal  \ny\La. nel quale eran tutti confusi, e per dar ragione dell'ordine che s'osserva nella natura, sentì il bisogno di porre una mente ordinatrice, non mista perché dominasse. Ma parve a Platone e ad Aristotele che, pur avendo affermato un così operoso  principio, Anassagora non ne traesse tutto il vantaggio che poteva e non gli attribuisse quella causalità che gli sarebbe spettata nell'ordinamento delle cose. Perciò, il primo ad ogni specie di cose nel mondo sensibile fa corrispondere una propria idea nel mondo del pensiero; ed il secondo pone tante menti separate quanti, a suo modo di vedere, sono i movimenti celesti. Anzi che un solo  intelletto, abbiamo così per Aristotele una gerarchia d'intelhgenze, comprese fra due termini estremi: l'intelletto umano in basso, e la mente del primo Motore immobile, puro pensiero, al vertice. Come le idee dei generi e delle specie hanno una maggiore o minore estensione, così questi intelletti hanno una maggiore o minore capacità d'intendere, in rapporto alla funzione che ad essi è  riservata come motori; poiché non va mai dimenticato che solo per mezzo del movimento Aristotele, al pari ‘Anassagora, era giunto ad affermare l'esistenza d'una prima Mente motrice dell'universo e di altre menti intermedie fra quella e il mondo della generazione, aventi l'ufficio d’adattare l’impulso che viene dal primo Motore, a particolari fini subordinati al fine supremo. Perciò la  prima Mente è intelligenza al  massimo grado, mentre gli altri intelletti, giù  giù  ARisT., De anima, di cielo in cielo, fino all'intelletto umano, possiedono una capacità d'intendere sempre più limitata. Rappresentandosi r intelligenza a guisa d'una qualità, per esempio, d'un colore, di cui s'hanno molti gradi d'intensità, da quello piìi cupo a quello più chiaro, gli scolastici solevano chiamare  latitudo l'estensione compresa fra la cosa che possiede quella data qualità nel minimo grado, e la cosa che la possiede nel grado più alto e più intenso: perciò la latitudo dell'intelligenza non è altro, come dice Achillini, se non la gerarchia stessa degl'intelletti, avente il grado più basso o più dimesso nell'intelletto umano, e il grado più alto o più intenso neir intelletto divino. Chiedersi se  la latitudo degl'intelletti sia uniformiter difformis, significa per lui domandarsi se le varie intelligenze differiscon fra loro per gradi uguali oppure no Ma per risolvere siffatto problema, è necessario vedere qual'è la natura propria dei singoli intelletti compresi nella Latitudo intellectuum est ipsi intellectus ordinati secundum quod ex se sunt ordinabiles. De intelligentiis,  quol.in AchilLiNi,  Bononiensis, philophi celeberrimi. Opera omnia in  iDium  collecta cum annotationibus excell. doctoris Pamphili Montij, Bononiensis, scholae Patavinae publici professoris. Venetijs, apud Hieronymum Scotum. A questa edizione mi riferisco anche nelle citazioni successive, per ragioni di comodità. In un trattatello De latitudinibus formarum,  più volta stampato sotto il nome di Nicolò  d'Oresme, si leggono in principio queste definizioni che giova tener presenti: Latitudo uniformis est illa que est eiusdem gradus per totum. Latitudo difformis est que non est eiusdem gradus per totum. Questa si divide come segue: Latitudo secundum se totam difformis est cuius nulla pars est uniformis; latitudo non secundum se totam difformis est illa cuius aliqua pars est uniformis.  La  latitudo uniformiter difformis è una sottospecie della latitudo secundum se totam difformis, ed è precisamente quella cuius est equalis excessus graduum Inter se equaliter distantium Tractatus de latidinibus formarum secundum Reverendum dodorem magistrum Nicholaum Horen, Venezia. Sull'autore di questo piccolo trattato, l'eremitano Iacopo di San Martino, detto anche Iacopo  da Napoli, il quale riassunse e schematizza, non del tutto fedelmente, un più ampio trattato di Oresme, come sul sommento di PELICANI da Parma che insegna anche a Padova e Bologna, e in generale sul tentativo di costituire un metodo matematico pel calcolo dell'intensità delle qualità non solo corporee ma anche spirituah, completa luce ha fatto Maier, in An der Grenze von  Scholastik iind  Naturwissenschaft. Roma, Ediz. di Storia e Letter., che è uno dei più seri e documentati contributi allo studio della filosofia della natura, condotto con rara conoscenza delle fonti manoscritte, e perfetta intelligenza dei problemi trattati. latitudo di quella perfezione o qualità che dicesi intelligenza: e segnatamente se il primo e più alto intelletto sia intelligenza infinita. Nel  qual caso, è evidente che la latitudo dell'intelligenza sarebbe infinita. Occorre pertanto chiedersi in primo luogo se il primo Motore, cioè Dio, muova l'universo con vigore o virtù intensivamente infinita, e sia perciò di vigore intensivamente infinito. Per intendere il significato del qual problema è necessario ricordare che l'argomento principale, col quale Aristotele era salito a Dio, è  quello del moto: Dio è essenzialmente il primo Motore immobile dell'universo, è l'universo è il mosso. Ora l'universo, per Aristotele come pei Pitagorici, è una sfera di raggio finito, avente per centro assoluto la terra e per limite esterno il cielo delle stelle fisse. Finito nella mole, il mondo si muove con moto finito in velocità, e infinito soltanto in durata, poiché l'universo è eterno. Dall'intensità del moto dell'universo non si può dunque arguire ad un'infinità intensiva della virtù o vigore con cui Dio muove il mondo. Ed infatti Averroè dice espressamente in più luoghi, che v'è proporzione tra l'intensità di vigore nel movente e la velocità del mosso; sì che un'azione d'intensità infinita e d'infinito vigore non può esser ricevuta in un corpo di grandezza finita. Se il  primo Motore muove il cielo con virtù intensivamente infinita, questo dove muoversi con velocità infinita in un solo istante. AQUINO crede di potersi sottrarre alla conclusione cui era giunto Averroè, concedendo che tutto ciò è vero dei motori naturali che mettono nel muovere tutta la forza di cui sono capaci; ma non è vero dei motori che agiscono con intelletto e libera volontà, qual è Dio. Il primo Motore dell'universo, per AQUINO, appunto perché dotato d'intelligenza e di libero volere, comunica al mondo quel tanto di movimento che meglio si conviene, in rapporto al fine che si propone di raggiungere e alla capacità limitata del mosso; ma questo non implica che vi sia una proporzione necessaria tra la quantità di movimento ricevuta dal mondo e la virtù del  primo Motore, l'infinità della quale può dimostrarsi per altra via. AvERR., Phys., Vili, comm.; De  caelo, comm.; Metaph. De substantia orbis AQUINO,  Phys., Una delle proposizione delle condannate a Parigi suona così: Quod Deus est infinitae virtutis in duratione, non in actione, quia talis infinitas non est nisi in corpore finito, si esset. E di nuovo la proposizione: Quod Deus est  infinitae virtutis, non quia facit aliquid de nihilo, sed quia continuat motum infinitum. La condanna di queste proposizioni è sicura prova che anche su questo punto gli averroisti parigini accettavano r interpretazione che Averroè da del pensiero d'Aristotele. Era di questo avviso anche Sigieri De ista quaestione, informa Jandun  o credunt magni viri in philosophia, Philosophum et  maxime Commentatorem veritati catholicae adversari. Che egli alluda ad AQUINO non è possibile, poiché AQUINO scagiona Aristotele da quest'accusa d'opporsi alla verità della fede su quest'argomento. Dove dunque trattarsi d'averroisti. Ora vir magnus in philosophia è titolo che troviamo dato a Sigieri. Pare dunque che Sigieri accetta l' interpretazione averroistica della dottrina  aristotelica in proposito. Il che è confermato anche dall'ultima citazione che del brabantino abbiamo trovato nel De primi Moforis infinitate del Nifo. A quanto ci fa sapere il suessano, Sigieri e Baconthorpe petunt primum Motorem esse universi mobilis celestis formam perficientem et non constitutam e che esso è prima illius perfectio, sì da potere affermare che, almeno per accidens,  si muove insieme al cielo. Siccome la quistione concerne direttamente l'onnipotenza di Dio e la sua trascendenza, s'era accesa in proposito un'appassionata e interminabile controversia, poiché troppo preme ai teologi aver dalla loro parte Aristotele. Soltanto quando si comprende che la filosofìa aristotelica non è tutta la filosofia, l'ardore della controversia comincia  a venir  meno Denifle e Chatelain, Chart. univ. Paris. Quaestiones super Averrois sermonem de substantia orbis Sigieri Jandun, oltre che nelle Quaestiones sul De substantia orbis, discute il problema utrum primum Principium sit infiniti vigoris Achillini, da quel buon averroista ch'egli è, ci dà del problema questa soluzione: Primum, mens Philosophi fuit deum esse finiti vigoris. Secundum, ad oppositum  est veritas. Provata la prima parte della tesi, riferisce le obiezioni centra Philosophum, alle quali fa seguire la risposta d'Aristotele. Ma nel far questo, che è un procedimento generale seguito in tutti e cinque i Quolibeta, Achillini si mette al riparo da ogni accusa d'eresia con questa tipica dichiarazione, fatta una volta per sempre: Ad haec praemitto quod ubi Philosophum introducam  respondentem, non teneo responsionem illam. Dopo ben cinque fitte colonne di serrate schermaglie dialettiche e di citazioni di testi, sì da darci l'impressione che egli la pensi proprio come Aristotele e il suo ottimo commentore, eccolo a dichiararci: Sed quia haec opiiiio in phiribus errat, ut patet consideranti ea in quibus introducitur Philosophus respondens, ideo, ea dimissa, pone  secundum dictum principale: Deus est infiniti vigoris in essendo et operando in tempore et actione. Ex quo sequitur infinitam esse intellectuum latitudinem. E le prove di questa tesi? Nessuna, tranne quel patet, che non è affatto una prova. Seguono invece obiezioni anche nelle Quaestiones sulla Metafisica e in quelle sulla Fisica: e tutte e tre le volte con molta ampiezza. Lo stesso problema è ventilato da Scoto, Qiiodl., da Baconthorpe. In I Seni., dist., da Rimini,  In  I Seni., dist.e più tardi, ma anche con maggior copia, da Nifo, d’Achillini, da Vio, che nella sua subtilissima quaestio de Dei gloriosi infinitate intensiva, terminata a Pavia, credo abbia raggiunto il primato della prolissità è stampata in appendice al commento d’AQUINO della Fisica, Venezia, si da  superare lo stesso  Elia del Medigo, detto altresì Helias Cretensis, il quale tratta di quest'argomento nella sua interminabile De primo Motore acutissima quaestio in appendice alle Quaestiones di Jandun sulla Fisica, Venezia e nelle Annotationes in dictis Averrois super libros Physicorum  Vedasi  anche Zimara, Theoremata, e Piccolomini,  De caelor. motoribus. Bruno, nel De l'infinito,  universo e  mondi in Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze, accenna all'importantissimo argomento, pel quale dice Elpino è stato ridutto Aristotele a negar la divina potenza infinita intensivamente. La soluzione che del problema affaccia Filoteo, il quale dall'infinità di Dio deduce r infinità dell'universo, consiste nel cambiarne i termini, si da mostrarlo definitivamente superato. AcHiLLiNi,   De intell., ql. contro quest'asserto, alle quali il filosofo bolognese fa del suo meglio per rispondere in una mezza colonna, osservando, alla fine, che rationes philosophorum super dictis ab eis fundantur; ideo non difficile est eas solvere. Ma intanto non le risolve. A questa che è la quaestio principale del Quolibetum. tengon dietro duhia, coi quali si tende a precisar meglio il concetto  aristotelico-averroistico del DIVINO e a porre in evidenza taluni postulati della soluzione data al problema principale. Il primo di questi dubbi consiste nel chiedersi utrum tantum DIVINVM DIVINVM intelhgat, cioè se il divino conosce soltanto sé stesso oppure anche le cose inferiori ad esso e segnatamente quelle del mondo sublunare. Anche su questo punto Achillini è averroista: Respondeo per duo dieta. Opinio Aristotelis est, quod sic. Illa opinio non est vera. La prima affermazione è provata con argomenti, la conclusione dei quali è la seguente: Ex his de mente Philosophi habentur. DIVINVM intelligit se et non aliud. Et si dixeris: verum est recipiendo, sed aliter non; dicam quod non potest aliquid intelligere aliud a se, nisi recipiendo; ideo non potens  recipere, non potest intelligere aliud. Productio autem vilium non infert passionem in agente; ideo quamvis DIVINVM non intelligat vilia, producere tamen potest. Aliae intelligentiae in actu intelligunt se et perfectius se et nihil vilius eis. Intellectus possibilis Così appunto diceno i teologi: il divino non intende le altre cose diverse da sé, nel senso che la mente divina è attuata d’un  qualche altro intelligibile diverso dalla sua stessa essenza, e dinanzi al quale esso è in potenza; il divino conosce le altre cose conoscendo se stesso, e quindi senza niente ricevere. La condanna che Tempier fa di le proposizioni averroistiche, e che è il primo sicuro documento dell'esistenza d'una corrente averroistica a Parigi, colpisce queste proposizioni: Quod divinum non cognoscit  singularia e Quod divinum non cognoscit alia a se. DeNiFLE e Chatelain. Tuttavia, leggendo attentamente il commento d'Averroè, Metaph., comm., e la Desfriictio destructionum, disp. dub., nasce il sospetto che il suo pensiero non è stato ben compreso. Si veda in proposito, Baconthorpe, In Sent., dist.; Zimara, Theoremata. intelligit  se viliora et nobiliora. Nullus intellectus, nisi forte  possibilis, intelligit aliquid extra se. DIVINVM est simpliciter primo notum; sed primum principium complexum, de quo Metaphysicae, commento, est notissimum nobis. Ai argomenti coi quali è provata la tesi averroistica, se ne contrappongono altri; ma, mentre i primi restanoinsoluti, ai secondi è data una soluzione dal punto di vista averroistico. Dopo di che Achillini s'affretta a  concludere: Sed propter multa falsa, quae sequuntur ad hanc positionem, eam cum auctoritatibus eius dimittamus. Tenemus igitur quod DIVINVM cognoscit omnia; ex quo sequitur quod non omnis intellectus intelligens aliud a se patitur ab eo. Sequitur secundo, quod non omnis intellectio, qua materialia intelliguntur, est collecta ab intellectu agente ex singularibus. Ex his duobus  fundamentis solvuntur rationes philosophorum, quia super oppositis corollariorum fundantur, Il diibium concerne la causalità efficiente del primo Motore. Aristotele dice che la prima intelligenza muove le intelligenze preposte al movimento dei singoli cieli, come bene supremo da esse conosciuto e desiderato, ossia come fine ultimo cui tutte le cose tendono. Il problema che pone il  maestro bolognese, utrum prima forma, quae est ultimus finis, sit primus Motor, verte non sull'attrattiva che il divino esercita sugl’esseri in quanto amor che muove il sole e le altre stelle, bensì sul movimento rotatorio della prima sfera mobile. Secondo un'interpretazione del pensiero d'Aristotele e del suo commentatore arabo, il divino muove i cieli soltanto per mezzo d'un  motore  appropriato, cioè d'un'intelligenza, la quale è mossa dal desiderio d’assomigliare al primo Motore. Secondo un'altra interpretazione, invece, il divino muove il primo cielo mobile immediatamente; e poiché il primo mobile rapisce col suo impeto tutti gl’altri cieli,  ne ACHILLINI Metaph.. Jandun, Quaestiones  sup. Metaph. Quaest. sup. Phys. ZiMARA, Quaestio  de triplici cansalitate  intelligentiae in appendice alle Quaestiones  di Jandun sulla Metafisica, Venezia; Theoremata viene che il primo Motore esercita su tutto l'universo una vera e propria azione di causa efficiente e non soltanto di causa finale. Sigieri, a quanto sappiamo dall'ultima citazione di Nifo, ritene che il primo Motore è addirittura forma e perfezione del cielo, a tal segno che si muove per accidens  insieme ad esso;  nel che egli non fa se non ripetere una dottrina d'Averroè, il quale in più luoghi insiste sul concetto che il primo Principio è tale in quanto è fine, forma e motore dell'universo. Achillini risolve il dubbio, dimostrando con argomenti che il divino imprime al mondo un movimento effettivo come primo Motore di esso; né questa volta ha bisogno di distinguere tra l'opinione  di Aristotele e la verità, poiché Philosophus in hoc quaesito non recedit a veritate, quanto all'asserto della causalità efficiente; ma osserva che si discosta dal vero in un particolare: sed bene in circumstantia: quia dictum est de mente eius, quod Deus est motor immediate et appropriate movens caelum, et quod nulla alia intelligentia ab ipso movet primum caelum; sed hoc non est verum  etc. Ed infatti la tesi che il moto del primo cielo deriva immediatamente dal divino si basa sul concetto ch’il divino è forma del primo cielo. Ora questo concetto è schiettamente averroistico, ed è uno dei presupposti della teoria che dalla finita grandezza del moto celeste deduce il vigore finito del primo Motore. Questo necessario reciproco rapporto tra il divino e il mondo si scorge  anche meglio nella discussione del dubbio, utrum DIVINVM libere moveat  caelum. Nell’interpretazione averroistica del pensiero d'Aristotele, se il divino è necessario a spiegare l'esistenza del moto, e, diciamo pure, l'esistenza del mondo stesso, è altrettanto vero che, posta l'esistenza del primo Motore e della prima causa efficiente, questa e quello agiscon come natura anzi che come  libera volontà creatrice. Sigieri non sembra aver concepito la possibilità d'una vera libertà creatrice, che a lui pare esclusa tanto dall'immutabilità divina quanto dalla necessità delle speci. Posto il divino come AvERR., Metaph., comm., comm.; De subst. Orbis AcHiLLiNi Steenberghen, Les oetivres et la doctrine de Siger de Brabant, Bruxelles; Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, igo.] prima causa motrice del mondo, questo ne risulta necessariamente, come la conseguenza dalle premesse d'un sillogismo. Aristotele ben ferma la sua attenzione sugl’eventi che si dicon contingenti e fortuiti; ma anzi che dedurre la contingenza di tutti gl’esseri creati dall'essenziale libertà del pensiero divino, impone allo stesso pensiero divino e all'atto creatore – GRICE GENITOR ENGINEER -- la necessità del suo astratto formalismo logico, e la contingenza e il caso limita al mondo sublunare, spiegando l'una e l'altro per mezzo del concetto delle cause impedibili e dell'indisposizione della materia che spesso è sorda a rispondere all'intenzione dell'arte. Pur trascendente o separato, il primo Motore resta così prima forma e prima perfezione dell'universo, al quale  è intimamente unito non come forma constituta per subiectum, bensì come forma constituens subiectum. Per dimostrare la tesi, che secondo Aristotele il divino muove il cielo per sua natura e non liberamente, sì da poter non muoverlo o mutarne la velocità e la direzione, l'averroista bolognase argomenta così: tutto ciò che si muove per un principio essenziale che è in esso, si muove  per sua natura; ma questo è il caso del cielo; dunque esso è mosso naturalmente. Se il primo Motore potesse non muovere oppure muovere in modo diverso da quel che fa, il mondo potrebbe esser diverso da quello che è, e anche non essere. Ma tutte queste conseguenze sono impossibili per Aristotele, che dall'immutabilità del primo Motore deduce la necessità e l'eternità dell'universo, come d'un effetto connaturale e inseparabile dalla sua causa. Puro atto senza alcuna potenza, il divino causa dall'eternità Louvain. Tale è il pensiero di Siglari in tutti gli scritti intestati a lui dai codici.  Per attribuirgli con qualche fondamento la tesi opposta, bisogna supporre che siano sue le Quaestiones sulla Fisica edite da Delhaye Giorn. Crii.. Ma per farlo manca ogni serio indizio  esterno, e le prove interne sono troppo deboli. Si veda il passo di Nifo riportato in Sigieri. Su questa distinzione ricavata da diversi luoghi d’Averroè, dello stesso Nifo il commento al De anima, già riferito in Sigieri, AcHiLLiNi, Quol. dub. Omne quod movetur per principium quod est in eo, movetur per naturam, Physicorum Intelligo in subiecto maioris: per se primo, et non secundum accidens; et tunc patet propositum ex diffinitione naturae, secundo Physicorum. Sed caelum movetur per principium etc, ut vult Commentator Aristotelem declarasse in Physicorum, etc. mondo con ordine e moto necessario. Dal che sequitur nullam esse in rebus libertatis contingentiam, ad quas non concurrit homo; poiché la ragione della contingenza dell'umano arbitrio consiste nel  modo di conoscere, essenzialmente discorsivo, che è proprio dell'uomo; di guisa che la mente umana, procedendo per composizione e divisione di concetti, potest aftìrmativam vel negativam partem concludere, et consequenter ad utramque partem possibilis est assensus. Or questo non accade né nelle altre intelligenze superiori all'umana, né, tanto meno, nella prima intelligenza. Necessario a render ragione della realtà dell'universo, dei movimenti celesti e di ogni accadere, il primo Motore d'Aristotele non ha altra realtà, per l'averroista, all'infuori di questa, né altra ragione d’essere che questa: senza il mondo da esso causato e mosso, il primo Motore non sarebbe nulla. Perciò il divino e mondo formano un binomio indissolubile, come amore e cuor gentile  nella  canzone guinizelliana, come il sole e il suo risplendere: ch'adesso che fo il sole sì tosto lo splendore fo lucente, né fo avanti il sole. Contro questa dottrina del  Filosofo, qual'è intesa ed esposta dal  Commentatore arabo, Achillini riferisce argomenti, avendo però cura di farci sapere che cosa gli averroisti rispondeno. Dopo di che conclude, secondo il suo costume: His praetermissis, ad  veritatem revertamur, et dicamus DIVINVM ad extra mere libere et contingenter agere. Concedanius insuper quod in divino esse et agere sunt idem, et tamen non, si necesse est divinum esse, necesse est divinum agere ad  extra. Dicamus tertio quod, licet necessitas sit melior conditio essendi, non tamen est melior conditio operandi ad extra. Ncque immutabilitas divina toUit  novitatem  in effectu, quia ab aeterno determinavit divinum agere nunc. Ideo contra philosophos dicamus, quod ab antiqua vohmtate potest aliquid novi poni in esse, sine mutatione operantis, aut remotione impedimenti etc. Addo insuper, licet necesse sit divinum esse productivum ad extra, non tamen necesse est ipsum producere ad extra. Concedo etiam nullam rem quae est divinum esse   contingentem; dimitto naturam assumptam, et tamen de Dee formabiles  sunt  propositiones  per  accidens  et  contingentes, propter  connotationem  extrinseci.  Neque  propter  hoc  quod  Deus multa  producibilia  potest  producere,  quorum  nullum  producet, concedendum  est  potentiam  divinam  frustrari,  quia  reduci potest et in aliquo illius generis reducta est in actum. Con queste proteste d’attaccamento all'insegnamento teologico, ha termine il qiiolibetum che tratta dell'intelletto del primo Motore, la cui latitudo è dunque finita com'è finita la grandezza del mondo e del movimento. L'opposizione fra la tesi averroistica e quella teologica non è che un aspetto particolare fra la concezione  aristotelica del mondo e l'intuizione cristiana. Per Aristotele, come l'espone Averroè, Dio è principio teleologico e causa prima efficiente della natura; la natura alla sua volta è effetto necessario ed eterno  dell'attualità divina. Dio è principio in quanto dà origine a un principiato; esso è l'atto che precede logicamente ogni potenza. L'ordine cosmico riflette la necessità e l'immutabilità  della sua prima causa. Dio insomma è complemento necessario della natura ed è esso stesso natura: è la stessa natura intellettualizzata, cioè considerata platonicamente sub specie aeternitatis. Neil'intuizione cristiana del mondo, invece. Dio è spirito, cioè libera volontà creatrice, infinita potenza, infinita sapienza, infinito amore. Il mondo e' è, ma potrebbe non esserci, o esser diverso; e  c'è, per un atto di liberalità divina. La necessità delle leggi di natura non è assoluta, ma relativa al decreto della volontà divina che liberamente le ha stabilite e può mutarne il corso. Così la contingenza è alla radice stessa dell'ordine cosmico; il miracolo è affermazione e prova della contingenza della natura e delle leggi fisiche. Con siffatta dottrina il cristianesimo libera l'uomo dalla  tirannia del fato cui dovea piegarsi la volontà dello stesso Giove. Al posto degli inesorabili decreti dell' Ananche si sostituiva la libera e onnipotente volontà di Dio, che ha dato all'uomo il potere di cooperare ai suoi eterni disegni. Libero e artefice del proprio destino, l'uomo si sente così simile a Dio. Dopo quello che Agostino e lo Pseudo Dionigi e Pier Damiani e il Cardinal Cusano  avevano speculato intorno alla natura divina, mentre nel rinnovato platonismo del Rinascimento covano i germi che sarebbero esplosi nei I dialoghi De la causa e Dell’infinito, la dottrina averroistica su Dio, anzi che un progresso, dove sembrare la ricaduta in una delle più anguste forme di naturalismo già da molto tempo sorpassate. Ad un superamento definitivo occorre, per altro, eliminare quella ristretta visione cosmologica alla quale il concetto di Dio era legato, e che è merito delle nuove scoperte astronomiche aver per sempre dissipato. Il qiiolihetum tratta delle intelligenze separate, intermedie fra 1'Intelligenza divina e l'intelletto possibile, proprio della specie umana. Queste intelhgenze son sostanze separate preposte ciascuna al moto d'uno dei cieli inferiori alla prima sfera, che è mossa immediatamente dal primo Motore. Achillini comincia coll'affermare che, secondo la dottrina d'Aristotele, siffatte intelligenze non sono state prodotte, e per conseguenza sono eterne; ma che, secondo la verità della fede, è tutto il contrario. La prima parte della tesi è dimostrata con argomenti; con  altrettanti la seconda; colla differenza, che gli argomenti  in favore della prima parte non hanno risposta, mentre degli argomenti in contrario abbiamo la  soluzione. Per quel che concerne la dottrina d'Aristotele, il lettore poco esercitato potrebbe rilevare una divergenza tra l'averroista bolognese e Sigieri su questo punto: che, mentre quello dice le intelligenze celesti non prodotte, questo al contrario le dice tutte causate immediatamente o  mediatamente da Dio che dà l'essere a tutte le cose. In realtà, la divergenza è soltanto nel modo d'esprimersi e non nel pensiero. Perché le intelligenze celesti non si posson dire prodotte? Perché non sono state tratte dalla potenza all'atto, quasi che ci fosse una loro potenza ad essere, la quale precede, anche soltanto logicamente, il loro atto di essere. Esse sono natural Sigieri di Brab., Impossibilia, I ed.  Mandonnet,  Sig. de Brab. et l'averr.  latin Partie, Louvain; De necess. et  conting. caus. Mandonnet; Aletaph. ediz. a cura di Cornelio A. Graiff, Sig. de Brab. Questions sur la Metaphysiqiie. Texte inédit. Louvain, Édit. de 1'Institut Super, de Philosophie SteenBERGHEN,  S. d. B. d'après ses oeuvres inédites.] mente e necessariamente, per il fatto stesso che esiste la prima Causa che le fa essere, a quel modo che l'esserci il sole fa sì che ci sia lo splendore. Esse son certamente causate dalla prima Intelligenza, ma non prodotte alla maniera delle cose che possono essere e non essere. L'atto non s'aggiunge in esse alla potenza, né l'essere sopravviene all'essenza: sono puri atti per loro natura, ed atti eterni, come eterno e necessario è l'Atto primo che le causa. Strettamente connesso con questo problema è il duhium utrum ponenda sit creatio. Anche a questo quesito il maestro bolognese risponde, essere opinione d'Aristotele che non si dà creazione; ma soggiunge che la tesi dello stagirita non è vera. Secondo la dottrina aristotelica, la causa agente ha sempre bisogno d'una materia su cui esercitare la sua azione, e dalla cui potenza trae  quello che essa produce. Ora la creazione implica una produzione dal nulla, senza passaggio dalla potenza all'atto. Allo stesso modo Sigieri, parlando dell'anima intellettiva  e il discorso vale per tutte le intelligenze e altresì per i corpi celesti, afferma che, sebbene essa possa dirsi fatta, nel senso che è causata e dipende, alpari delle intelligenze celesti, dal primo principio d'ogni essere, tuttavia non può dirsi che è stata fatta dal niente, ma anzi che essa de se est semper ens, ab alio tamen, poiché in eius ratione seu defìnitione est semper esse, cum careat materia. Se non che, pur essendo de se, seu de sui ratione, semper ens, non ha questo suo essere ex se effective, sed ab alio. Per questa ragione, essa è certamente causata ed essenzialmente dipendente da Dio, sed non est verum eam esse factam ex nihilo. AcHiLLiNi, Quol.: Orane agens extrahit id quod est in potentia ad actum: sed in intelligentiis non est potentia extrahibilis ad actum (intelligo de potentia distante ab actu, et de actu informativo eorum aut potentiali, ex quo et alio fiat una intelligentia: ergo in eis non est agens. Ratio tota est Commentatoris, Metaph., comm.  Ex  hoc  sequitur  quod  intelligentiae  non  componuntur  ex esse  et  essentia,  tamquam  ex  doubus  principiis  intrinsece  componentibus  intelligentiam. AcHiLLiNi, Quol, dub. Sigieri, De anima iniellect., ed.  Mandonnet. AcHiLLiNi Potentiale non potest esse sine actu. Est autem deus actus vitalis intelligentiarum et finis, et caeli est forma et finis, corruptibilibus autem dat esse et conservat movendo. Primo enim Metheororum: Est autem ex necessitate continuus iste  superioribus I  Ancor più evidente è l'influenza della dottrina di Sigieri sulla soluzione del secondo dubbio che l'Achillini si pone: Utrum intelligentiae inferiores intelHgant superiorem. L'averroista italiano formula in proposito tre tesi, il significato delle quali ci è chiarito da un luogo dei CoUectanea del Nilo sul De anima 'i'^, riferito da me altra volta. Colla prima tesi egli si oppone alla teoria di coloro che, al dire del Nifo, il quale sicuramente riassume da Sigieri citato un po'più oltre, sostenevano che Deus multiplicat lumen quod est quoddam accidens spirituale existens in mentibus intelligentiarum, per quod elevantur intellectus illi ad intelligere primum; la qual teoria Nifo nel commento al De anime beatitudine attribuisce ad AQUINO e la combatte appoggiandosi  a Sigieri. La prima tesi d’Achillini, dunque, suona come segue: Primum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per aUquod accidens, ut species, actus, vel habitus etc. Probatur primo, quia in intelligentiis non est aliquod accidens. Patet quolibeto Secando, omne compositum est novum; sed in inteUigentiis non est novitas; ergo neque compositio. Maior est Commentatoris,   Metapliysicae, comm., sive sit compositura substantiale, sive accidentale, sive in intelHgentiis, sive non; ea enim probat ibi Commentator, quod intellectio non est accidens in deo; coehim autem, quia subiectum est accidenti, novitatem habet, sciUcet motum, Pliysicoriim, comm. si sic, cum secunda intelHgentia intelHgat se per essentiam, De anima, comm., perfectior esset intellectio  secundae de se, quam intellectio secundae de prima, et sic secunda intelligentia esset felix cognoscendo se, et non primam; vel intelligentia duas intellectiones habens felicitaretur intellectione imperfectiori. lationibus, ut omnis eius virtus gubernetur inde. Ideo, primo remoto, omnia destruuntur; ideo Metaphysicae, textu et commento; Ex tali igitur principio caelum et natura dependet.  Et primo Caeli, commento: A primo quidem ente datum est esse et vivere; bis quidem clarius, bis vero obscurius. Et in De substantia orbis: Ex quo verificatur, quod dator continuationis motus est dator esse omnibus aliis entibus. Così anche nelle Qiiestiones sulla Metaphysica, ed. CTraiff. Invece l'autore delle Quaestiones super Physicorum, edite da Delhaye come opera di Sigieri. sostiene senza alcuna esitazione la tesi quod necessarium est aliquid fieri ex nihilo, sebbene ritenga che alcuni esseri non sian prodotti da Dio immediatamente. È un altro punto sul quale il dissenso dagli scritti di sicura appartenenza a Sigieri è troppo evidente. Per attribuire queste Quaestiones al maestro brabantino occorrerebbe una qualche testimonianza sicura che non s'ha, fino ad  oggi, Sigieri nel  pens., Sigieri si sic, tunc scientia earuin non esset scitum; consequens est centra determinata quolibeto De anima, comm. Intellectus in formis abstractis est idem cum intellecto; et incidentaliter Physicorum,  comm.: In abstractis intellectus et intellectum idem sunt. quia tunc intellectio, qua secunda intelligentia intelligeret primam, et intellectio qua secunda intelligentia  intelligeret se, essent alterius generis, quia una esset substantia et alia accidens. Risulta da questa affermazione che l'atto col quale le intelligenze inferiori conoscono la prima Intelligenza, cioè Dio, è un atto sostanziale al pari di quello col quale conoscon se stesse. Anche in questo Achillini è d'accordo con Sigieri, per il quale l'intendere è perfezione essenziale dell'intelletto possibile,  sì che ponere substantiam esse in actu in genere intellectualis naturae et non intelligentem in actu, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia. La tesi d’Achillini consiste nel negare che le intelligenze inferiori conoscano la prima Intelligenza come loro causa, in quanto avvertono che la loro natura ha essere da quella. Così appunto pensano taluni filosofi, come riferisce il   Nifo: Dixerunt quod intelligentia interior intelligit superiorem per essentiam inferioris; essentia enim inferioris est causata ab intellectu superiori, et omne causatum ducit in cognitionem cause; ergo intellectus interior per essentiam sui intelligit superiorem. Oportet enim imaginari essentiam inferiorem esse obiectum adequatum sui intellectus; et sic tanquam obiectum adequatum intelligitur solum a semet. Et quoniam illa essentia est effectus  Achillini, Quol. Sigieri, Quaestiones naturales ed. Stegmùller, Nenaitfgcf. Quaestionen des Sig. v. Br., in Rech. de Théol. ancienne et médiév.; De anima intell. ed. Mandonnet Giorn. Crii. d. FU. Ital.. Un'attività accidentale dell' intelletto è invece l'intendere pel'anonimo autore delle Questiones Arist. de anima ed. Steenberghen, Sig. d. Br. d'après ses oeurres inédites; ma quanto più il chiaro editore s'affanna a dimostrare che l'autore di esse è Sigieri, tanto più evidente appare che non lo è. Si noti poi che nelle Quaestiones naturales edite da Stegmùller, il maestro brabantino insegna che l'intelletto possibile ha il suo atto primo ed essenziale pell'unione all'intelletto agente, e che questo e quello son  due sostanze separate; la qual dottrina ha non poca importanza. Achillini superioris, etiam continet saltem instrumentaliter essentiam superioris; et sic intellectus ille per essentiam illius secundario intelligit superiorem. Nifo stesso riferisce quattro dei molti argomenti che Sigieri oppone a siffatta teoria. Gli stessi argomenti quasi alla lettera oppone alla stessa teoria anche Achillini: Secundum dictum: intelligentia inferior non intelligit superiorem per essentiam inferioris. Probatur primo, quia tunc scientia non esset scitum. Patet consequentia, quia tunc secunda esset scientia ipsi secundae de prima etc. nulla res distincta a perfectiori est sufficienter repraesentativa perfectioris; sed secunda non est ita perfecta sicut prima; ergo etc. Tertio, si sic, tunc non dependeret  intelligentia inferior in suo intelligere a prima; et sic secunda esset actus purus, quia non esset potentialis respectu alicuius perfectivi eius formaliter. quia tunc intelligentia inferior beatiiìcaretur in se ipsa tanquam in obiecto repraesentativo omnium intelligibilium ab ea, aut felicitaretur in obiecto secundarie cognito. quia tunc aliqua cognitio dei dependeret; quia omnis intelligentia  inferior dependet; et omnis intelligentia inferior esset cognitio dei per te quia tunc nulla esset compositio in intelligentiis, nisi forte ex perfectione et defectu eius; de qua non loquor nunc. quia non salvaretur efììcientia dei super motu proveniente ab inferioribus intelligentiis. Anche per quel che concerne la tesi, Achillini ripete alla lettera quello che, secondo Nifo, si legge in quodam tractatu intelligentiarum et beatitudinis di Sigieri: intelligentia inferior intelligit superiorem per essentiam superioris. Probatur primo a sufficienti divisione. quia in abstractis intellectus et intellectum sunt idem. quia intelligentiae abstractae perficiuntur per se invicem; ergo una est alterius forma, et non nisi quia una est alterius scientia vel amor. Antecedens patet, Metaph., commento:  Perfectio uniuscuiusque moventium unumquemque orbium perficitur per primum motorem omnium; sed non effective, ncque materialiter, sed finali perfectione coincidente cum forma necesse est in omni intelligentia intelligente aliud esse aliquid simile formae et aliquid simile materica; et si non, non esset multitudo in formis abstractis, De anima, commento; quia, posita multitudine,  una est potentialis alteri. Est autem secunda simile materiae, ideo recipiens, et prima si Nifo, De anima, Venezia, coUect. AcHiLLiNi Nifo Sigieri. mile formae, ideo recepta. in intelligentiis est compositio, et non est alia quani ex intelligente et intellecto, desiderante et desiderato; ergo etc. Maior patet, Metaph., commento Quod est minoris compositionis est nobilius in ilio genere,  donec deveniatur ad simplex. Patet minor, Metaph., commento: Tantum illic est causa et causatum, secundum quod intellectum est causa intelligentis. Sed intellectum non est  causa efEectiva intelligentis, ncque materialis, ncque finalis tantum, sed formalis et finalis simul, vel formalis tantum. Ideo subdit Commentator, non inconvenire unum esse causam plurium, secundum quod a  pluribus intelligitur, perfectius tamen a perfectioribus, et imperfectius ab imperfectioribus. Et hoc patet Commentatore, De anima, commento: Essentia primae formae est quidditas eius; aliae autem formae diversantur in quidditate et essentia, quoquo modo. Loquitur Commentator de essentia, ut fecerat De anima, comm.: Pomum est indivisibile subiecto, et divisibile secundum essentiam  diversam in eo, secundum quod habet colorem, odorem et saporem, licet in multis sit differentia etc. Ex hoc patet intelligentiarum compositio, quae cum aliis est, et earum simplicitas, quia non compositio ex aliis; ideo, De anima, comin.: Res abstractae sunt simplices, et non compositae. Ex his habetur quod, cum superiores intelligentiae sint in inferioribus, adhuc potest intelligentia interior intelligere superiorem, non intelligendo tamen aliquid extra se. Patet etiam quod, cum intelligentia superior sit intellectio inferiori, quod potest superior principiare motum productum ab inferiori, eo modo quo intellectio est principium operationis ab intelligentia productae. Achillini si domanda se una tale teoria non contradica alla verità  teologica; e risponde di no, anzi dichiara  di trovarla in tutto conforme a quello che la fede insegna in proposito E veramente anche AQUINO è del parere che, nell'atto della visione beatifica,l'essenza divina non è soltanto oggetto conosciuto, id quod intelligitur, ma altresì forma intelligibile per mezzo della quale la stessa essenza divina è conosciuta, forma qua intelligitur. Questa forma attua bensì l'intelletto umano reso capace  per grazia, ma l'attua solo idealmente, in intelligendo, non  sostanzialmente, poiché l'intelletto umano ha già un suo atto sostanziale anteriore all'unione beatifica coll'essenza divina. Non così per Achillini e per Sigieri AcHiLLiNi NiFO Sigieri ACHILLINI AQUINO, S. theol., Suppl. Questi non fanno alcuna distinzione fra l'ordine naturale e lo stato soprannaturale concesso per grazia,  fra la conoscenza che compete alle intelligenze separate per loro natura e la visione beatifica di cui parlano i teologi. Inoltre, l'intendere delle intelligenze create, tanto nell'ordine naturale quanto nell'ordine soprannaturale, è, per Aquino, una operazione accidentale che s'aggiunge alla loro natura sostanziale già costituita in  atto, e il loro stesso intelletto è una potenza altra dalla loro  essenza. Per Achillini e per Sigieri, invece, l'essenza stessa di qualsiasi intelletto, sì di quello umano come di quelli celesti consiste in un atto sostanziale d'intendere, dovuto alla loro vmione coli'intelletto agente che, per essi, è Dio. Fra l'intelletto umano e le intelligenze celesti v'è solo questa differenza, che r intelletto agente s'unisce al primo per gradi, e completamente solo al termine  del suo sviluppo; alle seconde invece è eternamente unito come forma che attua tutta insieme la loro capacità. GÌ'intelletti inferiori a Dio hanno essere soltanto in quanto intendono la prima Intelligenza, che sola è da sé e per sé. Dio così è il sole del mondo intelhgibile; le altre intelligenze ne sono lo splendore. In questo eterno raggiare dalla prima Luce intelligibile e in questo eterno  rifletterla per diversi gradi, consiste l'essere delle menti inferiori alla prima Mente. Per questo nell'intelletto non v'è MEMORIA GRICE PERSONAL IDENTITY, che è ritorno del passato. Siffatto ritorno del passato non è concepibile là dove è solo un eterno presente senza mutamento. I teologi medievali, compreso AQUINO, potevano attribuire agl’ANGELI la memoria, in quanto  attribuivano ad essi un conoscere puramente naturale e accidentale distinto dal conoscere in Verbo; non gl’averroisti, pei quali le intelligenze conoscono solo in quanto sono informate dall'essenza divina. Ed è sicuramente sotto r influenza di questa dottrina averroistica ch’ALIGHIERI rimprovera ai teologi d’avere attribuito la memoria agl’angel; che è un'altra delle tante tracce  dell'influsso dell'avveroismo sul pensiero del nostro poeta. AQUINO,  S. rheol. Si veda in proposito, N., Nel mondo di ALIGHIERI, Roma. Il Quolihetum concernente le intelligenze celesti si chiude con un  duhiuni, nel quale l'averroista bolognese si chiede se le intelligenze intermedie distino dalla prima Intelligenza con certo ordine, ossia seguendo una qualche proporzione: utrum  ordine quodam recedant intelligentiae mediae a prima. Il problema è risolto da lui coll'affermazione che così è per Aristotele, non però secondo verità. Anche questo è un problema tipicamente averroistico, e trae origine da quel passo del commento d'Averroè alla Metafisica, che dice: Quoniam vero ordinatio istorum moventiiuTi  a primo motore oportet ut sii secundum ordinem  stellarum et orbium in loco, manifestum est etiam; prioritas enim in loco eorum et in magnitudine facit eos priores in  nobilitate. Qual fosse il pensiero di Sigieri su questo argomento non sappiamo. Ma conosciamo quello d'un averroista a lui abbastanza vicino e che, come il brabantino, insegna a Parigi nella scuola dell’arti;  voglio dire Jandun. Questi discute il problema utrum motores  corporum celestium sint ordinati secundum ordinem corporum celestium in magnitudine et in loco nelle Qiiaestiones sulla Metafisica, e lo risolve in  senso  affermativo. La soluzione che del  problema ci dà il bolognese, è sostanzialmente identica a quella dell'averroista di Jandun: posto che v'è tra le intelligenze celesti un ordine gerarchico fondato sul differente grado di perfezione,  egli stabilisce una corrispondenza fra questo e l'ordine dei cieli, in quanto essi si differenziano per grandezza e velocità: Primus est ordo secundum gradum perfectionis essentialis earum intelligentiarum sic quod, quanto una intelligentia est perfectior alia, tanto est primo propinquior, non tainen secundum proportionem geometricam; patet quolibeto. Hic autem ordo, qui rationes formales  intelligentiarum consequitur, causa est aliorum ordinum qui sequuntur. Secundus est ordo caelorum secundum magnitudinem eorum, secundum quam caelum maius continet caelum minus. Perfectiore igitur intelligentia caelum maius regitur et gubernatur. Oportet enim informabile corre AcHiLLiNi, Quol. AvERR., Metaph., comm. Ianduno, Quaestìofies  in  Metaph. I  spendere formae  sic, quod altieri caelo altior intelligentia api)ropriatur. Tertius est ordo velocitatis in motu. Caelum enim maius velociori motu movetur, distinguendo inter movere et circuire. Huius sententiae fundamentum ponit Commentator, secando Caeli, commento: super semper eorum intelligentiarum intellectus est fortior et desiderium est fortius; ideo ab eis motus est velocior. Se il cielo è il  soggetto informabile e l'intelligenza è la sua forma, e se le intelligenze non hanno altra funzione che quella di motori dei diversi cieli, ne segue che dal numero dei cieli e dei moti celesti si debba dedurre, come insegnato Aristotele, il numero delle intelligenze. Ora cieli in senso vero e proprio possono dirsi soltanto quelli in cui brillano una o più stelle. Perciò otto e soltanto otto sono le  intelligenze motrici. La più alta di esse è Dio, che muove immediatamente il cielo delle stelle fisse, quod secum rapit alia corpora caelestian. Le altre sette muovono ciascuna uno dei cieli planetari, nell'ordine stabilito dagl’astronomi. Achillini, come respinge con Averroè la teoria degl’eccentrici  ed epicicH, così sembra rifiutare il nono cielo, comunemente ammesso sull'autorità di  Tolomeo: Or bis stellatus est finis corporum quae sunt intra, quoniam extra ipsum nihil est; esso è il primo e più perfetto di tutti gl’altri cieli; ideo caelum stellatum deo informatur. Se non che i moti planetari non sono, per Aristotele, m^oti semplici; sibbene la risultante di più movimenti che richiedono più  sfere. Così Aristotele, a render ragione del moto di ogni pianeta, aveva dovuto,  sull'esempio d’Eudosso, scindere ogni cielo planetario in un gruppo di più sfere, ciascuna delle quali aveva un diverso movimento. Dalla composizione dei loro moti risulta il moto apparente del pianeta. Una sola intelligenza, secondo l'avviso d’Achillini, presiede al moto Achillini, Quol. Il passo d'Averroè nel luogo citato suona cosi: Quod igitur magis propinquum fuerit primo orbi,  habebit maius desiderium, quoniam propinquitas in loco illic est similis propinquitati essentiarum ad invicem, quae est propinquitas in scientia et in inteUectu rationali; quanto enim. magis intellectus primi moti erit fortior, tanto magis desiderium erit perfectius; et quanto magis desiderium erit perfectius, tanto motus eius erit velocior. Metaph. Achillini  Achillini. di Ogni pianeta; ma  ognuna delle sfere che formano quel gruppo planetario è mossa da una sua particolare anima che è causa efficiente di moto, mentre l'intelligenza che presiede al gruppo è soltanto causa finale a cui le anime celesti obbediscono. Si hanno così otto intelligenze: la prima è Dio, motore del cielo stellato e quindi di tutto l'universo: ad essa obbediscono le sette intelligenze planetarie, più o  meno nobili secondoche sono più o meno vicine al primo Motore. Ciascuna delle sette intelligenze planetarie presiede a un gruppo d'anime celesti, quanti sono i moti dei quali il moto di ogni pianeta è la risultante. Tutto questo, pensa il filosofo bolognese, si rica da Aristotele e dal suo commentatore arabo: ma secondo la verità della fede, fra la prima Intelligenza, che è infinita, e le intelligenze inferiori, non può stabilirsi alcuna proporzione, poiché queste, per quanto più o meno perfette, sono tutte ugualmente distanti dall'infinità della Prima. Ciò non di meno, anche secondo la fede, esiste fra le intelligenze angeliche un ordine basato sulla loro diversa perfezione.  Con questa osservazione, mentre sta per mettere il piede sulla soglia della teologia, in ianuis theologiae,  Achillini pone fine al quolibeto. Ma mentre il filosofo averroista sente il dovere d’arrestarsi sul limitare della teologia, il teologo al contrario non sente ritegno di portare l'abito del ragionamento filosofico sul terreno della verità rivelata e di contaminare, come spesso avveniva, i dogmi della fede colle lucubrazioni della filosofia. Tale è il caso, fra i molti che si verificarono della  speculazione teologica intorno agl’angeli. L'angelologia  ebraico-cristiana era solidamente costituita nei suoi capisaldi  teorici, come ne'suoi elementi rappresentativi e fantastici, assai prima del suo incontro colla filosofia  aristotelica. Ma poi che, per opera dei filosofi maomettani ed ebrei l'aristotelismo prende contatto colla rivelazione, e a poco a poco alla primitiva e rozza cosmologia  biblica si soprappose quella dotta dei greci anche l'angelologia subì un'uguale contaminazione. Omnes gentes quae concedunt Deum esse, ACHILLINI il molto interessante e istruttivo studio di Ricciotti, La cosmologia  della  Bibbia  e la sua trasmissione fino a Dante, Brescia, Morcelliana conveniunt in hoc, quod caelum est locus Dei et aliorum spirituum qui vulgariter dicuntur Angeli, osserva Averroè; e come lui pensano Avicenna, Isacco Israeli e Maimonide. Il problema  da  risolvere, per i teologi cristiani, era quello di trovare nella gerarchia angelica, fissata dallo pseudo Dionigi Areopagita o da S. Gregorio Magno, il posto preciso ove collocare le intelligenze motrici d'Aristotele e dei suoi commentatori. Così, mentre AQUINO assegna la funzione di intelligenze motrici ad alcuni angeli dell'ordine delle Virtù, il domenicano Maestro Teodorico di Vriberg fa delle intelligenze di cui parlano i filosofi, un ordine a parte che precede l'ordine costituito dalle anime dei cieli e quello degli angeli. Per Dante, le intelligenze motrici dei cieli sono quelle stesse lequali la volgare gente chiamano angeli; ma non tutti gl’angeli, sibbene quelli  che, in ciascuna gerarchia ed ordine, sono stati deputati alla vita attiva, cioè al governo del mondo, anzi che alla pura vita contemplativa.  E secondo la nobiltà dei diversi cieli essi appartengono a gerarchie e ordini diversi; sì che il poeta, al pari degl’averroisti, può stabilire un rapporto tra la perfezione dei cieli e quella degli ordini angelici disposti in cerchi concentrici intorno a Dio: Li  cerchi corporai sono ampi ed arti secondo il più e'1 men della virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà, vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s'elli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape l'altro universo seco, corrisponde al cerchio che più ama e che più sape. Per che, se tu alla virtù circonde la tua misura, non alla  parvenza, delle sustanze che t'appaion tonde, tu vederai mirabil conseguenza di maggio a più e di minore a meno in ciascun cielo, a sua intelligenza. De caelo, comm. Baeum ker, Witelo,  Beitr. z. Gesch. d. Philosophie d. Mittelalters Krebs, Meister Dietrich, in  Beitr. z. Gesch. d. Philos. d. Miti., Dante, Convivio Par.] Così non ragiona certamente AQUINO; così ragionano invece  Averroè e gl’averroisti, pei quali le intelligenze motrici son forma delle rispettive sfere, come forma del cielo stellato è Dio stesso. Il quolibeto tratta dell'intelletto possibile, che occupa r’inlìmo posto tra gì'intelletti e costituisce la tertia et ultima pars latitudinis intellectuum. A proposito di esso Achillini stabilisce questa tesi: Intellectus possibilis est intensissimum materialium et  remississimum abstractorum, ossia è la più intensa delle forme unite alla materia e la meno attiva delle forme separate. Poiché, come vedremo, l'intelletto umano, per lui, è una sostanza separata, unica per tutta la specie umana, e, nello stesso tempo, forma sostanziale degl'individui ai quali è unito per sua natura. Intorno a questa tesi, son discussi dubia, il primo dei quali concerne la  teoria d'Alessandro d'Afrodisia, esposta e combattuta da Averroè, secondo la quale l'intelletto possibile sarebbe una virtù organica tratta dalla potenza della materia. L'averroista bolognese confuta questa dottrina con argomenti tolti dagli scritti del commentatore arabo. Ma se l’intelletto possibile non è una virtus materialis, al modo delle forme che hanno essere solo pella materia a cui  sono unite e dalla quale sono individuate, s’esso ha una sua propria realtà indipendente dalla materia, ne consegue che in se stesso sia unico per tutti gli uomini. Questa è appunto la tesi che Achillini sostiene d'accordo con Averroè, discutendo il dubbio utrum unum intellectum possibilem habeat omnis homo. Fra gli argomenti a sostegno della tesi averroistica vi sono questi, desunti   dalla natura della conoscenza intellettuale: Si sic cioè, si intellectus possibilis esset multiplicatus ad numerum hominum, contingeret ut res intellecta apud te et apud me sit unum in specie et duo in individuo; ratio patet supra. Si sic, procederetur in infinitum in conceptibus; quia AcHiLLiNi De anima, comm., digress. AQUINO, Trattato sull'unità  dell'intelletto contro gl’averroisti,  Firenze, Sansoni AcHiLLiNi conceptus essent numero diversi, et ab omni per se intelligibili numeraliter multiplicato abstrahibilis est conceptus; ideo ab illis conceptibus essent alii conceptus abstrahibiles; patet supra. Unus est conceptus essentialis omnium individuorum eiusdem speciei; ergo unus est intellectus possibilis omnium hominum. Questi argomenti non sono in sostanza che  uno solo, cioè quello di cui già fanno uso gl’averroisti, coi quali polemizza AQUINO nel De unitate intellectus, e a capo dei quali era Sigieri: Adhuc autem ad munimentum sui erroris aliam rationem inducunt. Quaerunt enim utriim intellectum in me et in te sit unum penitus, aut duo in numero et unum in specie. Si unum intellectum, tunc erit unus intellectus. Si duo in numero et unum in specie, sequitur quod intellecta habebunt rem intellectam: quaecumque enim sunt duo in numero et unum in specie, sunt unum intellectum, quia est una quidditas per quam intelligitur; et sic procedetur in infinitum, quod est impossibile. Ergo impossibile est quod sint duo intellecta in numero in me et in te; est ergo unum tantum, et unus intellectus numero tantum in omnibus. AQUINO,  Traci, de un. intell. cantra  averr.,ed. Keeler,  Roma; il commento di N. alla  traduzione di questo opuscolo d’AQUINO, Firenze, Sansoni. L'argomento che deriva d’Averroè De anima, comm., digress.,  solae quaestionis, è ampliato da COLONNA (vedasi) nel suo trattato De plur. inteìlectus possibilis, Venezia gira,  ed è la sesta delle ragioni colle quali Averroè positionem suam roborat  et vult ostendere quod intellectus, qui dicitur possibilis, est unus numero, in questo modo: Si potest estendi quod una et eadem species intelligibilis informat omnes intellectus, tunc sequitur quod sit unus intellectus in omnibus numero. Unde licet non sequeretur quod eadem res videretur ab oculo omnium hominum, si unus esset oculus omnium, bene tamen valeret quod, si una species  informaret oculum cuiuslibet hominis, quod unus esset oculus cuiuslibet hominis. Ergo a simili: si igitur una species informat intellectum omnis hominis, omnes homines habent unum intellectum. Quod autem una species informet intellectum omnis hominis, patet; nam possibile est quod plures homines intelligant lapidem. Tunc ergo quero: aut est per imam speciem lapidis, aut per aliam et aliam. Si per unam, habeo intentum; si per aham et aliam, tunc ille due species oportet quod differant numero, et communicent in forma, cum ducant in cognitionem unius naturae. Sed quotiescunque aliqua dicunt differentiam in numero seu in specie, tunc nullum eorum habet intellectum in actu, et habet tantum intellectum comm.unem; ideo nulla illarum specierum est in  intellectu in actu, sed habebunt intellectum communem. Et tunc quero de ilio intellectu comuni, cum possit intelligi, utrum intelligatur per eandem speciem vel per aliam; sed non est abire in infinitum; standum est igitur in primis, quod una species potest informare intellectum plurium hominum et pari ra[Nel corso della discussione delle obiezioni contro la tesi dell'unità, Achillini  inserisce addirittura un brano di Sigieri, che noi conosciamo attraverso una citazione del Nifo e che questi dice preso dal trattato De intellectn, misso AQUINO in responsione ad illum AQUINO. Giova riportarlo, per un confronto con quanto scrive il suessano: Ad, haec  supponamus quod iste terminus homo SIGNIFICAT compositum ex corpore et intellectu, et quod homo est per se unum, directe reponibile in praedicatione substantiae, sub ANIMALI, intrinsece DENOMINATUM intellectione etc. Secundo, non potest intellectus informare materiam non informante cogitativa quia non stat materia sine forma constituta in esse per eam; et non potest intellectus informare sine sua proxima dispositione et ultima, quae est cogitativa. Et sic patet cogitativam ordinari in intellectivam, quamvis cogitativa non sit forma generica. Ex quo patet quare operatio cogitativae et intellectus possibilis se comitantur, ut tangit Commentator, De anima, comm. Ncque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et  ultimate dispositum ad recipiendum intellectum; et sic potest una forma substantialis esse dispositio ad aliain, dummodo illa forma praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Hucusque nihil mali dictum est. Tertio, praemittendum apud Averroim quod intelligentiae sunt haec et individuae individuatione non repugnante esse universali, quia esse earum in anima et extra animam est  idem, De anima, comm. et Metaphysicae, commento: In abstractis non differt quidditas ab eo cuius est. Est autem intellectus possibilis de genere intelligentiarum, ideo non repugnat intellectum dare esse hoc, quamvis etiam sit universalis. Ideo concedo Sortem habere suum esse hoc ab intellectu. Sed a materia,  divisa informabili cogitativa. tione omnium; igitur omnes homines habent  unum intellectum numero. Appare evidente da questo testo di COLONNA  e da quello d’AQUINO, come si sia ingannato Fiorentino, di solito attento e accurato, quando ha creduto di ravvisare nel argomento d'Achillini, qui sopra riportato, due mutazioni sostanziali dell'averroismo {Pomponazzi. Studi storici sulla scuola bolognese e padovana Firenze. Il conceptus essentialis omnium  individuorum eiusdem speciei è l' intellectum, cioè il votjtÓv  aristotelico, l'universale che è certamente unico per  tutti gì'individui d'una stessa specie. Dall'unità dell'intellectum Averroè e, con lui, Achillini deducono l'unità dell'intellectus possibilis. Nifo, De intellectu Sigieri Questa frase che nel riassunto del Nifo manca, è evidentemente un'osservazione dell'Achihini, e mostra che  questi ha un testo dinanzi a  sé. I 20/ informante mediante dimensionibus, oritur possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia, secundum Commentatorem, propter esse universale intellectus, informari possunt ilio et ab ilio sumere suum esse hoc et unum, et verius unum quam bruta a sensu, quia mediantibus dimensionibus unitur sensus materiae, sed non  intellectus. Parrebbe dal confronto di questo brano con quanto ci è fatto sapere dal Nifo, che l'Achillini abbia fatto sua una pagina dello scritto di Sigieri in risposta al De unitale intellectus d’AQUINO. Come vedremo più oltre, non è questo l'unico caso da rilevare. Dopo aver sostenuta con sedici argomentazioni la tesi dell'unità dell'intelletto possibile, attribuita ad Aristotele, ed aver  risolto le obiezioni contro di essa, il bolognese conclude affermando che la tesi d'Aristotele e d'Averroè è falsa, e, contro il metodo finora seguito, fa vedere che cosa si può rispondere ai argomenti a prò di essa. Indi passa a discutere un dubbio, e cioè Utrum intellactus possibilis sit pure potentialis. Il problema era stato posto almeno due volte da Sigieri di Brabante, e tutte e due le volte  risolto allo stesso modo: l'intelletto possibile, prima dell'atto dell'intendere, non ha alcun atto, né può dirsi sostanza se non in potenza. Affermare, come facevano Tommaso ed  altri, che esso sia una sostanza in atto in genere intellectualis naturae, prima dell'atto d'intendere, est ponere contraria et impossibilia vel incompossibilia; per questa ragione appunto Aristotele aveva detto e quod  intellectus ante intelligere nullam naturam habet nisi istam quod possibilis. L' intelletto possibile diviene atto e sostanza in genere intellectualis naturae, soltanto per l'azione su di esso dell'intelletto agente, che è una sostanza separata, la quale, come ormai sappiamo, per Sigieri è Dio. Identica è la soluzione che di questo problema dà Achillini: l’intelletto possibile è sostanza puramente  potenziale in genere intelligibilium, e quello che lo trae dalla potenza AcHiLLiNi Sigieri, Qiiaestiones naturales, ed. Stegmùller Sigieri, De anima intellectiva, ed. Mandonnet Giorn. Crii. d. Filos. Hai. AcHiLLiNi, Quol., dub. I l'atto è l’intelletto agente che, anche pel1'averroista italiano, come vedremo esaminando il quolibeto, è Dio: Componitur enim intellectus possibilis agenti; tali  tamen compositione quod remanent dnae substantiae separatae in actu. Ideo, De anima, comm., istae substantiae sunt duae uno modo, et unum alio modo. Sunt enim duae per diversitatem actionis; et sunt unum, quia intellectus materialis perficitur per agentem. Et secundo De anima, comm., et De anima, comm., omnis actio attributa alieni propter aliqua duo existentia in eo, necesse est  ut unum sit materia et aliud forma; sed nos intelligimus per intellectum agentem et possibilem, De anima, comm.; et sic aliquo modo intellectus agens est forma nobis, ut patet De anima, comm.. Se l’intelletto possibile non è un atto prima d'intendere, ma semplice potenza, ne segue che l'intellezione che attua questa potenza, sia essa l'atto sostanziale dell'intelletto, poiché la pura potenza  non è mai soggetto immediato d'accidenti. Perciò l'atto d'intendere, del pari che l'abito della scienza, è perfezione essenziale dell'intelletto possibile e atto che costituisce la sua sostanza quando pensa e ragiona. Anche in questo egli è perfettamente d'accordo con Sigieri. Unico per tutta la specie umana, l'intelletto possibile è eternamente congiunto coll’intelletto agente che ne attua la potenza, e possiede, grazie a questo congiungimento, un atto di pensiero eterno in cui consiste la sua stessa natura. Di abiti e di atti accidentali si può parlare non in rapporto all'intelletto in sé, ma solo in rapporto ai fantasmi sensibili ai quali l'intelletto possibile s'unisce nei singoli individui della specie umana. Questo, s'intende, dal punto di vista averroistico, in quanto s'ammette un  unico intelletto per tutti gl’uomini. Ma ciò non è più vero, se si rifiuta come falsa la tesi dell'unicità dell’intelletto possibile. L'ultimo dubbio del quolibeto verte sul problema utrum intellectus possibilis sit forma dans esse hominem. Zabarella fa le sue meraviglie perché Achillini, dopo aver sostenuto l'unità dell'intelletto, non avesse visto la contradizione che e'è ad affermare che lo  stesso intelletto, unico per tutta la specie, è forma ACHILLINI Sigieri, nei luoghi cit. I informante, e non soltanto assistente, sì da costituire l'uomo nel suo essere di uomo. Ma il filosofo padovano non sa che anche in questo il bolognese segue da presso il maestro brabantino. Del quale è appunto la tesi, a quanto e' informa Nifo, che l’intelletto, pur essendo unico in sé stesso, è forma  costituens hominem et hunc hominem: hominem in esse specifico, et hunc hominem in esse hoc. Anzi Nifo ci fa sapere che Sigieri, nell'opera della quale il suessano riferisce alcuni tratti che son riportati alla lettera anche d’Achillini, come abbiamo visto a proposito del secondo dubbio di questo terzo quolibeto, ritene, al pari del bolognese, dottrina conforme alla mente d'Averroè quella  che afferma esser l'intelletto possibile forma sostanziale dell'uomo. Come Sigieri, anche l'averroista italiano pone nell'uomo due forme:la cogitativa tratta dalla potenza della materia, e l'intelletto. Ma la prima è ordinata al secondo, e questo è complemento e perfezione di quella; sì che la materia già informata dalla cogitativa è 1'informabile ultimate dispositum ad recipiendum  intellectum,  che ne è la forma ultima. Nifo ad esprimere questo intimo e sostanziale rapporto fra la cogitativa e l’intelletto possibile, s'era servito del termine di semi-anime o semi-forme. Il termine nell'Achillini non s' incontra, e non credo s' incontra nemmeno nello scritto di Sigieri al quale il suessano si riferiva: ma il concetto e' è, sì nell'uno che nell'altro. Forma sostanziale che dà all'uomo il suo  specifico essere  di Zabarellae, Liber de mente hiimana De rebus naturalibus, Venezia, e nei Commentarii  in Arist. de anima, Venezia, dopo il commento De  inteUectu; De  anima, comm.; Sigieri nel pens. Anche VIO, nel suo commento al De anima, stampato a Firenze, lui vivente,  nel  15 io,  dopo aver detto che Averroè separa l'anima intellettiva dal corpo, osserva in margine che  questo è contra achiUinum, quolibeto, et subgerium  in tractatu ad AQUINO, qui volunt quod intellectus uniatur secundum esse, apud averroem, et sit unicus. ACHILLINI AcHiLLiNi In  Sigieri anzi il concetto s' incontra fin nelle Quaestiones super de anima  del  Merton, Oxford;  Giornale  Crit. d. Filos. Ital. Lo stesso concetto appare anche nelle Quaestiones de anima intellettiva, ed.  Mandonnet.] uomo, l’intelletto non è per altro forma constituta in esse per materiam, sì da dipendere da questa, come accade per le forme che son tratte dalla potenza della materia, poiché ha un proprio essere di forma separata al pari delle intelligenze celesti, che pur son forme dei rispettivi cieli. Ed anche in questo concetto l'accordo d’Achilhni coll'averroista belga è perfetto. Forma e  perfezione del primo cielo Dio, forma e perfezione dei cieli inferiori al primo le intelligenze motrici, forma e perfezione dell'uomo l' intelletto possibile, che è l'infima delle intelligenze. Resta ora da vedere come Dio sia forma anche degl'intelletti e ragione di ogni intelligibilità. Il quolibeto è dedicato all'intelletto agente. Se l’intelletto possibile è pura potenza, l'intelletto agente è puro atto senz'ombra di potenza; perciò esso possiede, fra tutti gì'intelletti, il massimo grado d'intensità nell'intendere. Esso dunque è Dio. La identità dell'intelletto agente con Dio, che Nifo attesta essere stata sostenuta da Sigieri, è dimostrata  d’Achillini con questi argomenti: Primo, omnis felicitas est deus; sed  ntellectus agens est felicitas; ergo etc. Maior et minor in secundo dubio et tertio declarantur. Secundo, omnis intellectus qui est. omnia facere est deus; sed intellectus agens est intellectus qui est omnia facere, De anima, textu  comm., etc. Patet maior, quia esse omnia facere est ad omnia receptibilia in intellectu  possibili, ad hoc ut in eo recipiantur, effective concurrere, vel est ad omnia factibilia effective concurrere, vel omnia facere, id est purus actus; et quomodocumque intelligatur, soli deo competit. Tertio, illud cuius substantia est sua operatio omnimode, est deus; sed intellectus agentis substantia est illius operatio omnimode, De anima, comm.: Et est in sua substantia actio, id est, non est  in eo potentia ad aliquid. Quarto, omne quod est primum educens formam de materia, est deus; patet ex quolibeto primo. Sed intelligentia agens est primum educens etc, De aniìna, comm. Quinto, omne quod animae nostrae infundit intellectum, est intellectus agens; sed deus animae nostrae infundit intellectum. Patet maior, quia intellectum speculativum facit intellectus Achillini,  Quol.  Ili,  dub. Nifo,  De  intell. De  anima,  comm. Sigieri. I agens esse in intellectu possibili, faciendo de potentia intellectis actu intellecta. Minor est Aristotelis  exemplum, Rhetoy'icorum: Intellectui deus lumen accendit in anima. Ex hoc patet quare Commentator, De anima,  comm., dixit se differre a Themistio, in modo ponendi intellectum agentera, et convenire cum Alexandre; quia  Themistius voluit intellectum agentem non esse Deum, quia animae nostrae est pars; sed Alexander voluit intellectum agentem esse deum: patet ex De anima, comm., ubi Commentator, recitando opinionem Alexandri dixit: Intellectus agens est prima causa agens intellectum materialem. Il primo di questi argomenti è preso da Sigieri. Il secondo e il terzo son ricavati dal testo aristotelico  del De animai, ov'è detto che è proprio dell'intelletto agente rendere intelligibili tutte le cose, e che lo stesso intelletto agente è atto per sua natura, senza alcuna mescolanza, sì che non intende ora sì ed ora no, ma intende sempre, senz’intermissione; le quali cose son proprie soltanto di Dio. Importante poi è l'osservazione concernente la dichiarazione d’Averroè, il quale approva  Alessandro d'Afrodisia, per avere identificato l'intelletto agente colla causa prima che trae dalla potenza all'atto l'intelletto possibile o hylico. Dopo di che Achillini riporta obiezioni che solevano farsi alla tesi da lui sostenuta; l'ultima delle quali è questa: Nono, sequitur deum esse partem animae nostre, quod non videtur etc, giacché Aristotele aveva detto che tanto l’intelletto agente  quanto quello possibile bisogna che siano due  èv  t-^  ^u/y^...  Sia9opaL  Alla quale obiezione il bolognese risponde semplicemente così: Ad  nonum, declaratum est supra quomodo deus est pars animae nostrae, et quomodo non. Ed infatti in un passo del quolibeto, dub., che abbiamo già riferito altra volta, egli aveva detto che,  pur essendo l'intelletto possibile ed agente due sostanze  diverse, s'uniscono nell'atto dell'intendere di guisa che in qualche modo intellectus agens est forma nobis. AcHiLLiNi,  Quol.,  dub.  NiFO, De intell.,  Sigieri De  anima. Ma in che modo Dio s'unisca all' intelletto umano come forma, è detto più ampiamente nella discussione del secondo dubiuni del quolibeto, ove si pone lo stesso problema che s'era posto Sigieri nel Libey de felicitate,  Utrum felicitas sit deus, e lo risolve allo stesso modo del brabantino. Dio è il fine supremo d’ogni intelligenza, nel cui conseguimento consiste la beatitudine, perché Dio è ciò che è simpliciter perfectum quod secundum se est eligibile semper, è optimum, pulcherrimum, delectabilissimum , è quello che nullo indiget ed è principium honorum et causa ipsorum. Soltanto Dio, dunque, est  felicitas sibi aut aliis intelligentiis aut homini, quia solum ipse est perfectissimum intelligibile et appetibile propter se, e solo in lui eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, Si dirà che la felicità è un atto che è in noi, mentre Dio non è in noi. Achillini risponde che, come nel quolibeto concede deum esse intellectionem intelligentiarum, nunc conceditur deum esse  intellectionem intellectus possibilis et hominis. Ma s'obietta ancora: nullum obiectum operationis quae est felicitas est illa operatio quae est circa illud obiectum; patet ex differentia  Inter obiectum operationis et operationem. Sed deus est obiectum operationis quae est felicitas; patet io Ethicorum, cap.  io: Perfecta felicitas est operatio speculativa optimorum. Ergo etc. A questa obiezione Achillini risponde negando la maggiore: Ad tertium negatur maior, quia sufficit inter operationem et obiectum distinctio rationis. Dico igitur quod felicitas non intelligo policam quae est usus virtutis, septimo Politicorum, sed contemplativam, quae secundum Philosophum, decimo Ethicorum, est secundum nobilissimum habitum qui est sapientia, et secundum eundem, septimo  Politicorum, est melior quam politica non est actus qualitativus inhaerens intellectui aut voluntati: quia si sic, tunc non tenderent intellectus et voluntas in félicitatem tamquam in ultimum finem. Secundo, quia ille actus non est perfectissimum. Quia oporteret ponere ¥>  NiFO,  De  intell. Sigieri duas felicitates: imam formalem et intrinsecam, et aliam obiectivam et extrinsecam; et sic  Aristotelem et Commentatorem indistincte processisse in aequivoco, cum dixeriint felicitatem esse ultimum fineni et operationem  animae. Quia ex quolibeto non datur accidens inhaerens intellectui. Concludo igitur quod tantum una est felicitas, et quod ea omnia vere felicitabilia felicitantur; et ista est deus. Hanc sententiam ponit Commentator, Etliicoritm, capite in Deo esse felix est  in speculatione sui, in nobis esse felix est in eo in quo est sibi, prout nobis est possibile. Allo stesso modo Sigieri sostene che, come Deus Deo per essentiam beatificatur, così l'intelligenza a lui più vicina essentia Dei ut forma felicitatur, et consequenter omnes residui intellectus; adeo quod intellectus hominis essentia Dei felicitatur, quemadmodum Deus essentia Dei»ioo. Sebbene  distinti nella loro natura, l'intelletto causato non potrebbe intendere Dio, se Dio non lo informasse di sé, giacché, tanto per Achillini quanto per Sigieri, intellectio qua Deus intelligitur est ipse Deus; l'operazione colla quale Dio è inteso da parte dell'intelletto causato e l'oggetto inteso formano, nell'atto dell'intendere, una cosa sola. In quest'atto, Dio, informando di sé gì'intelletti inferiori,  fa ad essi dono di se stesso. Ex quo patet osserva il bolognese quod felicitas est optimum deorum donum, quia non est donum excellentius quam donare seipsum, et praesertim si donatum sit perfectissimum entium. Hinc apparet quam commode potuit Aristoteles, De animalibus, substantiam hominis divinam appellare. Principio di siffatta beatitudine è, pertanto, il congiungimento della  mente umana con Dio nell'atto dell'intendere. Perciò la felicità consiste formalmente in un atto d'intelligenza, poiché solo nell'atto dell'intendere avviene il congiungimento dello spirito causato coli'intelletto primo: la beatitudine è il più alto grado della vita speculativa, come con Aristotele aveva detto Averroè. A questo punto giova chiarire qual era il pensiero di Sigieri intorno ad una  questione dibattura specialmente fra i , NiFo Sigieri AcHiLLiNi Arist., De part. animai., Eth.  Xiconi.,  comm. De  anima, comm. teologi. Questi solevano chiedersi se l'esser beato si fonda, come dice Dante, nell'atto che vede oppure in quel ch'ama; in altri termini, se la heatitudo risieda formalmente in un atto di conoscenza del quale è soggetto l'intelletto, ovvero in un atto d'amore che  risiede nella volontà. Ed è noto che, mentre i teologi del vecchio indirizzo agostiniano e i francescani poneno la beatitudine in un atto di volontà al quale precede la conoscenza, AQUINO e la sua scuola la fanno consistere essenzialmente in un atto d'intelligenza, d'accordo in questo cogli averroisti, al quale atto d'intelligenza tien dietro l'atto d'amore da parte della volontà. Se non che  l'una e l'altra teoria presuppongono una troppo netta distinzione fra l'intelhgenza e il volere. Sigieri supera il problema, negando la distinzione reale fra queste due facoltà. Ciò risulta d’un importante luogo del Nifo, che prima m'era sfuggito. Dopo aver riassunto que ex libello Subgerii excipiuntur, intorno al problema dell'identità della beatitudine con Dio, Nifo prosegue: Ut igitur positio  huius philosophi intelligatur, oportet accipere quod sicut unum precise est intellectum et volitum sub diversis rationibus, intellectum quidem ut perficiens intellectum ipsum absolute, volitum ut perficiens illum sub indifferentia fuga aut consensus; ita una numero est intellectio et volitio, sed differunt quoniam intellectio est intellectum absolute, volitio est intellectum ut acceptum vel  fugitum; sic unamet res est voluntas et intellectus: intellectus quidem, ut perficitur ac formatur ab intelligibili sub ratione forme absolute; voluntas autem ut perficitur ratione fuge vel prosequele, ut superius diximus. Ergo intellectus et voluntas sunt unamet res simpliciter absolute, licet sint diverse rationes; et inde videmus Aristotelem et Averroem nuUam facere differentiam inter ea,  nec tractatus diversos, nec capitula diversa, ut in De anima visum est. Ex quo sequitur, quod unamet felicitas est intellectio et volitio, ac unainet essentia est intellectum et volitum; est enim in abstractis intellectio rei idem quod ipsa res, ac volitio rei idem etiam cum re volita. Ergo si Deus erit felicitas. Deus erit intellectio et volitio insimul; et etiam simul est volitio quod felicitas, et  intellectio quod volitio et felicitas etc. Amplius sequitur quod ociosa est questio querens utrum  fe103  Pa»'., Nifo,  De  intelL,  Sigieri Così anche Achillini,  Quol. dub. Ad primum, voluntas et intellectus sunt idem re, licet secundum esse vel rationem differant. Felicitas principalius sit intellectio quam volitio, an econtra; cum volitio et intellectio non differant nisi nomine vel ratione;  nisi questio fiat sub ratione respectiva hoc modo, scilicet utrum felicitas sit Deus sub ratione qua intellectio, an Deus sub ratione qua volitio vel amor. A questa felicità, dichiara Achillini, noi tendiamo per natura, né può darsi che il desiderio naturale resti inappagato in tutta la specie. Perciò, considerato in rapporto alla specie umana che è eterna, anche l' intelletto umano, come insegna Averroè, è eternamente felice, perché eternamente congiunto con Dio e colle intelligenze separate. Ma non felici son tutti gli uomini, singolarmente presi, poiché non tutti arrivano, in questa vita, a questo segno. Giacché per Achillini, come per Sigieri, si tratta appunto della felicità alla quale è concesso all'uomo d'arrivare in questa vita, mediante l'acquisto della scienza: Felicitatem  autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam. Ma può l'uomo arrivare in questa vita a conoscere le sostanze separate? Tale il problema che il nostro bolognese si pone subito dopo, col dubbio. Nella soluzione di esso egli fa uso dell'argomento di Sigieri, riferito da Nifo e Silvestri: Secundo, si impossibile esset  intellectum possibilem intelligere substantias abstractas, ociose egisset natura, quia fecisset, quod est in se naturaliter intellectum, non intellectum ab aliquo. Ratio est Averrois, Metaphysucae, comm. Suppono in hac ratione, quod omnis intellectio conveniens intellectui possibili convenit homini, sic quod non est possibile quod intellectui competat, quin homini conveniant: hoc voluit  Aristoteles, De  anima, textu commenti, et hoc proposito negato, clauditur via Commentatori ad ostendendum caelum intelligere. Ideo, si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possibile est substantias separatas intelligi ab homine. Hoc stante, arguo sic: Ouandocumque est aliqua forma non apta recipi in maxime receptivo alicuius generis, illa non est  receptibilis  in minus reciptivo illius generis; sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus; patet ex quolibetoio9; 106  Nifo AcHiLLiNi AvERR., De awf/Ma, comm. ergo, si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, non est possibile alium intellectum recipere primam formam; et sic iam frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc fine, qui est  deum gloriosum intelligere. Tunc ultra: quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere interiora, ut quolibeto dictum est esse de mente Averroismo; sed nulla intelligentia media potest primam intelligere, ut ex ratione superiori sequitur; ergo nulla intelligentia potest intelligentiam mediam intelligere; sed ncque deus potest intelligentias medias intelligere, secundum Averroim,  ut patet quolibeto primo; neque intellectus possibilis potest eas intelligere per te; ergo intellectum naturaliter in se non est intellectum ab aliquo. Patet consequentia de intelligentiis mediis: quia non a Deo, qui est supra; non a se ipsis, ut sequitur; neque ab intellectu possibili, qui est infra, per te intelliguntur; et non est alius intellectus ab istis. Et sic patet alia ociositas in natura et maxima;  et sic patet quod, quamvis non sit homo finis intelligentiarum, tamen, si non sunt intelligibiles ab homine, frustrantur a suo fine; et sic ociose sunt intelligibiles etc. Ilaec omnia ex modis intelligendi dei, intelligentiarum et intellectus possibilis supra declaratis sunt evidentia. Passando ad esporre i fondamenti filosoiìci sui quali si basa la tesi che attribuisce all'intelletto umano il potere di  elevarsi a conoscere le sostanze separate, l'averroista bolognese distingue, come aveva già fatto Jandun, la conoscenza speculativa acquisita per mezzo dello studio delle discipline filosofiche, dalla conoscenza intuitiva, qua cognoscimus substantias separatas per earum essentias proprias; e in quest'ultima fa consistere la felicità suprema dell'uomo. Sì che la beatitudine non è raggiunta  coll'acquisto delle scienze speculative, ma dopo il loro apprendimento. L'acquisto per altro delle scienze è una condizione indispensabile e sufficiente a rendere la mente umana preparata e disposta al congiungimento coll’intelletto agente, che sappiamo ormai esser Dio. Ma, oltre a ciò, è necessario che alla perfetta conoscenza speculativa tenga dietro la  pratica delle virtù morali: Cum  igitur fuerit homo secundum virtutes morales sufficienter habituatus, sic quod cessaverit discordia inter sensitivum  appetitum et intellectivum;  sic quod rationi regimen tributum erit AcHiLLiNi,  Quol., dub. Questo luogo, nella stampa veneziana, è evidentemente  difettoso.  AcHiLLiNi,  Quol., dub. NiFO,  De  intell.; In Averroys de anime beatitudine, comm. Sigieri De anima. Metaph. sine intrinseco repugnanti; sic quod veruni erit dominium rationis super viribns sensitivis, tunc continuabitur intellectus possibilis, secundum quod est felix, homini et denominabit hominem felicem. Ex quo patet quod quia in habituatione hominis secundum virtutes et scientias magnum tempus vitae hominis labitur. Unito al corpo umano da un legame intrinseco, l'intelletto possibile  trae dall'esperienza sensibile le forme immerse nella materia  e rese immateriali per un processo d'astrazione. Quando, attuato da queste forme divenute intelligibili e dall'abito delle scienze filosofiche, l'intelletto umano si trova congiunto coll’intelletto agente nell'atto della beatitudine, alla stessa beatitudine parteciperanno in tal modo le cose del mondo materiale, fatte intelligibili; sì  che l'uomo verrà ad essere anello di congiunzione fra il mondo superiore e il mondo inferiore, nexus superiorum cum  inferioribus,  ultra  hoc quod  forma  hominis  sit  intelligentia. Anzi, siccome Dio nell'atto della beatitudine è forma dell'intelletto beato, e questo è forma del corpo umano, ne segue che anche la stessa materia partecipa alla beatitudine; di guisa che attraverso l'uomo  la beatitudine si diffonde su tutto il mondo inferiore. Ma poiché l'intelletto agente è la suprema Intelligenza, cioè Dio, mentre l'intelletto possibile è l'infima, questo non può unirsi immediatamente alla prima Intelligenza, sibbene mediante le intelligenze intermedie. Sì che nell'atto stesso e, potremmo dire, coll'atto stesso col quale s'unisce all'uomo l’intelletto agente come forma,  s'uniscono all'intelletto possibile anche le altre intelligenze ad esso superiori già informate dalla prima Intelhgenza: Cum intellectus agens sit suprema intelligentia, et intellectus possibilis sit intima, non potest naturaliter uniri intellectus agens intellectui possibili immediate, quia aliae intelligentiae naturaliter mediant. Ideo oportet quod aeque cito, sicut incipit intellectus agens esse  forma et intellectio istius hominis, incipiat quaelibet alia intelligentia media informare hunc hominem. Ex hoc patebunt apud Aristotelem et Commentatorem novem gradus felicitatis, sicut novem sunt apud eos intellectus felicitabiles, quorum AcHiLLiNi Per questa teoria della beatitudine, la mistica averroistica. prinius et maximus dee convenit, nonus vero et intìmus intellectui possibili,  medij vero medijs intelligenti  s aptantur ordinate etc, quia intellectus cognoscens deuni per plura media remissius cognoscit et imperfectius. Ideo prima, quae est sua cognitio per essentiam, se perfectissime cognoscit. Secunda autem intelligentia recipiendo cognoscit primam, licet immediate eam recipiat. Tertia vero mediante secunda; et sic gradatim descendendo. In questo senso dice  Sigieri, come ci attesta Nifo, che l’intelletto possibile dell'uomo, ut habet esse intentionale, est materia omnium intellectuum separatorum. Nell'ultimo dubbio di questo quolibeto, Achillini riassume e schematizza quanto ha detto in questo stesso quodlibeto circa il congiungimento, copulatio, continuatio, dell'uomo coll’intelletto. I congiungimenti, a dir vero, son tre, e non uno solo: il  primo è quello dell'intelletto possibile col corpo umano di cui è forma; il secondo è quello dell'intelletto agente coll’intelletto possibile; il terzo è il congiungimento dell'intelletto agente coll'uomo. Il primo congiungimento è duplice. Anzi tutto, l'intelletto possibile s'unisce all'uomo secundum esse, cioè come forma sostanziale che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, e ciò fin  dal momento in cui l'uomo comincia ad essere uomo. Indi s'unisce a lui secundum operationem, quando l'uomo comincia a far uso dell'intelligenza. Questo duplice congiungimento era già esplicitamente distinto da Sigieri, secondo la testimonianza del Nifo. Anche il congiungimento dell'intelletto agente coll’intelletto possibile è duplice: dapprima l'intelletto agente s'unisce all'intelletto  possibile come causa agente dell'intendere, concorrendo all'astrazione del concetto dall'immagine o fantasma sensibile, e promovendo lo sviluppo intellettuale per mezzo delle scienze; indi, al termine dello sviluppo intellettuale, s'unisce all'intelletto possibile, acconciamente disposto e preparato, come forma che ne attua tutta la potenzialità e gli dà la beatitudine. Siffatta distinzione è  d'Averroè Nifo, De intelL, Sigieri AcHiLLiNi De intelL, De anima, comm. Sigieri AcHiLLiNi AvERR., De anima,  comm. Ed essa vale anche per il congiungimento dell'intelletto agente con l'uomo. Giacché dapprima l'intelletto agente, trovando l'intelletto possibile già unito secundum esse al corpo di quest'uomo particolare, per esempio, di Socrate, illumina della sua luce i fantasmi  della cogitativa di lui, diversi dai fantasmi di altri uomini, e ne trae quelle specie intelligibili che sono intese in questo particolare momento da Socrate. Piìi  tardi, quando l'intelletto di Socrate, convenientemente attuato dagl'intelligibili tratti dalla sua particolare cogitativa, si sarà arricchito di una sempre più varia e complessa esperienza, l'intelletto agente gli dischiuderà, se n'è degno,  il mondo splendente della pura luce che emana da sé, come da sole d'ogni intelligibilità. Come in Sigieri, così anche nell'Achillini  s'avverte lo sforzo per superare la difficoltà maggiore dell'averroismo, già avvertita dallo stesso arabo, consistente nel bisogno di conciliare l'universalità del conoscere e il valore della personalità o PERSONA umana individuale. La grande obiezione che  AQUINO fa, dal punto di vista strettamente filosofico, alla dottrina d'Averroè, è appunto questa: posta l'unità dell'intelletto, come può esser vera la proposizione: hic homo intelligit? Alla fine del diibimn utrum felicitas sit deus, Achillini si domanda se l'uomo che in questa vita ha il privilegio d'arrivare a congiungersi coll’intelletto agente come a sua forma, può perdere volente o nolente  questa sua beatitudine. La sua risposta è incerta e imbarazzata, anche perché concerne uno dei più scottanti problemi che, non molti anni dopo, solleva gran clamore di dispute, voglio dire il problema dell'immortalità  PERSONALE. Già AQUINO notato che, tolta tra gli uomini ogni diversità d'intelletto, ne segue che, dopo la morte, niente rimanga della coscienza individuale. L'averroista  bolognese, pur ritenendo con Sigieri che l’intelletto possibile è forma del corpo umano, e che nel suo atto d'intendere è essenzialmente legato ai fantasmi della cogitativa, pensa che all'eternità dell'intendere e della beatitudine non sia necessario un legame col singolo, bastando il la mia introduzione a AQUINO, Trattato sull'ìtniià  dell'intellettoTratt. sull'unità dell'intell.] legame colla  specie, la quale nella successione dei molteplici individui dura eterna: Testatur enim Aristoteles, Ethicorum, capite: u Multa enim et natura existentium scientes et operamur et patimur, quorum nulluni neque voluntariuni neque involuntarium est, puta senescere vai mori. Conditio enim suae naturae, quam scit esse mortalem, non patitur nolle, et quia mors non est finis neque bonum, Physicotum, textu et commento, ideo non vult felix mortem. Neque desiderio naturali permanentiam sempiternam appetit in individuo, sed in specie, De anima, comm., et Physicoruni, comm. Et propter hoc in Physicorum dixit Commentator, fortunitatem ultimam esse secundum fatuos vitam aeternam. Multa autem mala felicitas hominis compatitur, quae felicitati dei aut intelligentiarum  repugnant. Est enim, inter veros felicitatis gradus, humanus intìmus. Ideo, Ethicorum, capite Sapientem omnes extimamus fortunas decenter terre. Felicitatem autem in alia vita, quam non potuerunt philosophi naturali ratione inquirere, theologis relinquimus considerandam. Pomponazzi, sebbene abbia dell'intelletto possibile un concetto così diverso da quello dell'Achillini, sul tema  dell'immortalità personale è perfettamente d'accordo con lui: tranne che per il mantovano solo l'intelletto agente è veramente immortale per essere una sostanza separata, come volevano anche Temistio e gli averroisti. Visti quali sono i diversi gradi d'intelligenza, compresi fra la mente Prima che è puro atto e l'intelletto possibile che in sé è pura potenza, Achillini affronta il problema  che s'era posto da principio, e cioè utrum latitudo intellectuum sit uniformiter difformis. Un siffatto problema era nato dal tentativo di applicare a misurare i gradi d' intensità dell'intelligenza il metodo delle calcidaiiones matematiche, che s'usa per misurare l'intensità delle quahtà materiali, come la velocità, il colore, la temperatura e via dicendo. Qualcosa di simile è stato tentato nella  psicologia moderna per misurare l'intensità della sensazione; e già  AcHiLLiNi,  Quol. dub. Pomponazzi, De immortai.  animae e Oresme aveva esteso il metodo al calcolo del dolore e del piacere. Appiglio a porsi siffatto problema nei riguardi dell'intelligenza dev'essere stato quel che si legge nel Liber de causis, che è un estratto della Elenientatio theologica di Proclo: In primis Intelligeiitiis est virtiis magna, quoniam sunt vehementioris unitatis, quam Intelligentiae secundae universales inferiores; et in Intelligentiis secundis inferiores sunt virtules debiles, quoniam sunt minoris unitatis et pluris multiplicitatis. Quod est quia Intelligentiae quae sunt propinquae Uni puro, sunt maioris quantitatis et maioris virtutis; et Intelligentiae quae sunt longinquiores ab ipso, sunt minoris quantitatis et debilioris virtutis. Et quia Intelligentiae propinquae Uni puro sunt maioris quantitatis, accidit inde ut formae quae procedunt ex Intelligentiis primis procedant processione universali unita; et nos quidem abbreviamus et dicimus, quod formae quae veniunt ex Intelligentiis primis in secundas, sunt debilioris processionis et vehementioris separationis. Allo stesso modo Alberto magno: Omnes formae ab ipsa totius universitatis natura largiuntur; quo autem magis ab ea elongantur, eo magis nobilitatibus suis et bonitatibus privantur; et quo minus recedunt eo magis nobiles sunt et plures habent bonitatum potestates et virtutes. Siffatto modo d'esprimersi sembra fatto a posta per invogliare ad applicare il metodo del calcolo  matematico all'  intelligenza. E Achillini, dopo essersi chiesto se la latitudo degl’intellettisia uniformiter difformis, si pone altresì il quesito utrum quarumcunque intelligentiarum perfectio attendatur penes appropinquationem summo. Esula dall'intento che ci siamo proposti in questa ricerca, il seguirlo nella critica che egli fa della pretesa di stabihre un rapporto quantitativo fra i vari  gradi d'intelligenza, e perciò ci hmitiamo a segnalare la soluzione negativa che egli dà dei due problemi, a chi avesse ancora in proposito delle fìsime del genere. Maier, An der Grenze Liber de causis,  prop.; Proclo, Institutio theologica l'opuscolo era stato tradotto in latino da Moerbeke col titolo di Elenientatio theologica. Alberto magno, De intellectu et intelligibili, ACHILLINI, Ouol. Dalle pagine che precedono sembra intanto potersi concludereche solo la prima Intelligenza è fonte di sapere e di luce intellettuale. AQUINO agl’averriosti che dall'universalità del conoscere avevano preteso di dedurre l'unità dell' intelletto per tutti gli uomini, obietta che, se mai, se ne dovrebbe concludere, secondo il loro modo di vedere, che debba esservi un solo intelletto non soltanto  per tutti gli uomini, ma in tutto l'universo; sì che il nostro intelletto non è soltanto una qualsiasi sostanza separata, ma è Dio stesso  AQUINO ha ragione. Né Sigieri e Achillini gli danno torto: che per essi Dio è l'intelletto agente che effettua sì nella mente umana sì nelle intelligenze celesti l'atto dell'intendere e s'unisce all'una e alle altre come forma, a tal segno da fare in qualche modo  una sola sostanza con ciascuna di quelle. Soggetto assoluto di pensiero e sorgente d'ogni intelligibilità. Dio causa col suo intendere altri intelletti, nei quali l'atto dell'intender divino si particolarizza per gradi, fino all'intelletto della specie umana che, informando i vari corpi dotati di sensibilità, mentre comunica ad essi la sua superiore individualità spirituale, ne assume l'individualità  contingente e caduca, per farla partecipe dell'atto divino del conoscere. Si rileva altresì dalle pagine precedenti che l'interpretazione sigeriana del pensiero aristotelico dove apparire ad Achillini un'interpretazione organica, sistematica in tutti i suoi particolari, e sostanzialmente diversa da quella d’AQUINO ispirata dal bisogno d’abbreviare la distanza fra la filosofia e la fede, quasi che  la fede non avesse in se stessa una filosofìa che la giustifica appieno. Liberi da questa preoccupazione apologetica, gli averroisti potevano discutere in piena indipendenza di spirito e con grande spregiudicatezza intorno a quello che era il genuino pensiero d'Aristotele, s'accordasse o non s'accordasse colla fede. Giustamente dice Laurent, parlando del domenicano Spina avversario del  Pomponazzi: Per lui che non ha subito l'influsso del rinnovamento  che 1' Umanesimo ha introdotto nella teologia, affermare che Aristotele nega l’immortalità dell'anima, equivale ad affermare che tale AQUINO,  Traci, de unit. intelL, ed. Keeler;  la traduzione di N. e relative note, Firenze,  Sansoni dimostrazione è filosoficamente impossibile. Basta leggere alcune pagine del suo  lavoro per rendersi conto dei principi che han diretto le sue critiche. Il vecchio binomio: Aristotele = Verità, è il sottinteso IMPLICATURA sous-entendue MILL GRICE, starei per dire, d'ogni riga del suo volume. Non bisogna perciò stupirsi delle invettive che Spina rovescia sui suoi avversari: i termini più virulenti ricorrono sotto la sua penna. E la stessa osservazione Laurent ripete  a proposito del sequace d’AQUINO, SILVESTRI (vedasi) da Ferrara. Trasportiamo questa osservazione all'inizio della polemica averroistico-tomitica, e sarà finalmente chiarito il significato della così detta teoria della duplice verità, della quale qualche storico della filosofia s'è scandalizzato anche più di quel che non abbian fatto nel passato gì'inquisitori dell'eretica pravità, talora, se  non sempre, meno irragionevoli di certi storici della filosofia. Che l'aver rivendicato il diritto alla libertà della ricerca storica nell'interpretazione del pensiero aristotehco, prima che all'influsso dell'umanesimo, si deve all'averroismo. E anche in questo Achillini è buon discepolo di Sigieri, nel tenere cioè costantemente distinto il pensiero del Filosofo dalla verità della fede. La quale,  forse, ha subito maggior danno che non vantaggio dall'impegno che taluni hanno messo a mostrarne la troppo intima aderenza ad un particolare sistema filosofico. Laurent, Le Commentaire de VIO sur le De anima, in principio a VIO Scripta Philosophica: Comment. in De anima Aristotelis,  ed. Coquelle, Roma, Angeliciim Intorno al significato storico della dottrina della doppia verità, si veda quel che ne ha scritto Gilson, Études de philosophie medievale, Strasbourg;  Dante et la philosophie, Paris; e N., Dante e la cultura  medievale, Bari,  Laterza, nonché 1'introduzione ad AQUINO,  Trattato sull'unità dell'  intelletto. Quando N. ha ad occuparsi dell'avverroista bolognese  ACHILLINI (si veda), lo fa unicamente per i suoi Quoliheta de intelligentiis e per le tracce  evidenti in essi di dottrine sigieriane. Ma per il momento non mi detti cura di far  ricerche sul curricolo della sua vita, bastandomi la data di quando i Quoliheta furono disputati nel capitolo generale dei frati minori tenuto a Bologna e per l'occasione stampati. Successivamente ho raccolto alcuni dati biografici che crede utile far conoscere a chi voglia occuparsi a fondo di questo non  comune maestro bolognese, tenuto ai suoi tempi in altissima considerazione, e degno anc'oggi d'esser ricordato sotto diversi aspetti. Secondo le notizie raccolte da Mazzetti, di solito accurato e preciso, nel suo repertorio di tutti i professori della famosa università di  Bologna Achillini, figlio di Claudio che dicesi fosse oriundo di Barberino in Val d'Elsa, e coprì più volte cariche pubbliche, sarebbe nato a Bologna. Questo preso dal Tractatus astrologicus di Gaurico, non sempre bene informato, dovrebbe però essere anticipata di due anni se  Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital.  N., Sig. di  Brab.  nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma Bologna Carrati, Genealogie di famiglie nob. bolognesi, Bologna, Archiginnasio, Ms. condo la cifra degli anni ch'egli  aveva  quando venne  a  morte, quale si trova nell'elogio che di lui si legge nel Libro segreto del Collegio delle Arti. Ma la cifra di anni è corretta su rasura e con altro inchiostro. Inoltre il fratello d’Achillini, nel suo Viridario ci assicura che ACHILLINI,  in  quell'anno in cui egli sta scrivendo il poema, varca d'un lustro il  mezzo camin della vita. Parrebbe dunque che Gaurico avesse ragione. Mazzetti inoltre  informa che fu laureato in filosofìa, e che lo stesso anno comincia a insegnar logica a Bologna. Era stato ritratto da  Francia. Insegna filosofìa; passa a medicina;  ma resse entrambe le cattedre, cosa non comune, spiegabile solo col favore di cui gode presso i colleghi e presso i Bentivoglio dei quali fu sempre caldo fautore. D'un  insegnamento tenuto d’Achillini a Padova, prima di  questo  momento, non mi pare dunque si possa parlare. Gaurico accenna anche ad un soggiorno abbastanza lungo d’Achillini a Parigi, del quale purtroppo non abbiamo altra testimonianza, e d'altra parte non si riesce a trovare un periodo della sua vita nel quale collocarlo. A Bologna ebbe sicuramente ad alunno il bolognese Bacilieri o Bazaleriis, il quale fu approvato in  artibus nemine  discrepante. Fra i promotori al dottorato era Achillini che dedit  insignia al neo dottore. Bacilieri fu aggregato in sopranumero ai  col Viridario di ACHILLINI Bolognese. Impresso in Bologna per Hieronymo di Plato Bolognese. Sotto la f. m. di  N.  S.  Leone. Dedica al Papa che riguardano Achillini son riportati più giii II disegno di Francia è posseduto dagl’Uffizi di Firenze. Fotogr. Alinari, più volte riprodotta. Libro Segreto del Collegio delle  Arti Bologna,  Archivio di Stato; Dal libro dei Partiti. (Arch. di Stato), risulta che Bacilieri riscuoteva  già 100 lire bolognesi annue prò stipendio lecture. 7 Ib.. f. 41 r. legi bolognesi delle arti. Ma non era passato un anno dalla sua aggregazione, che fu  sospeso per un quinquennio dall'uno e dall'altro collegio, con decisione confermata, propter nonnulla demerita et facinora facta et commissa. Fra questi facinora pare fossero anche parole ignominiose e turpi nei riguardi dei suoi colleghi. La punizione fu inflitta con otto fave bianche contro una nera. Fra i votanti era anche l'Achillini. Questa la ragione perché Bacilieri proprio in quest'anno dove lasciar Bologna, e recarsi a Padova, e quindi a Pavia ove  rappresenta l'averroismo della corrente sigieriana che aveva assimilato alla scuola d’Achillini. Scaduto il quinquennio della sospensione, egli fu riammesso a far parte dell'uno e dell'altro collegio per unanime consenso senza che ci fosse bisogno di porre ai  voti la proposta  Quolibeta de intelligentiis, preparati per la disputa, rappresentano dunque il pensiero filosofico dell'Achillini nel  primo periodo del suo insegnamento della filosofia naturale prima che passa all’insegnamento della medicina teorica. In quest'opera, come ormai sappiamoci, si ritrovano, inserite negli schemi del metodo calcolatorio, divenuto di moda anche a Bologna come a Padova, tutte le tesi fondamentali dell'averroismo, concernenti Dio, le altre intelligenze separate, e in particolare l' intelletto  possibile e la copulatio di questo col1'intelletto agente; tesi tutte, specialmente quelle riguardanti l'intelletto umano, desunte dai tre scritti di Sigieri, che, secondo l'attestazione di Nifo, si leggeno. Ma qui accade di doverci porre un piccolo problema. Nessun dubbio sulla data di pubblicazione dei Qnolibeta d'Achillini, che s’esibiva campione della dottrina sigieriana in una pubblica  disputa alla quale erano intervenuti dotti di varie tendenze. È per caso in questa circostanza che Pico e Nifo si trovarono a far viaggio N. Sigieri Libro  Segreto.; insieme, diretti a Bologna, disputando tra loro come l'unità  dell'intelletto potesse  conciliarsi coll'individualità e la SOPPRAVVIVENZA GRICE SURVIVAL dell'anima del singolo. Nifo ci fa  apere di essere stato averroista  sigieriano prima, e pretende d'aver composto il Tractatus de intellectu nel quale la dottrina sigieriana è combattuta. Ho già espresso piìi volte i miei dubbi sulla veridicità di Nifo, il quale aveva troppo interesse ad acconciare il racconto della sua vita in modo da meritarsi le grazie del vescovo di Padova,  Barozz. Il piccolo problema che vorrei porre, e che non sono in grado di risolvere,  è questo: chi porta a Padova o a Bologna gli scritti di Sigieri ricordati da Nifo? Fu NICOLETTI che certamente dimora  a Oxford e Parigi? Fu Pico?  Fu Achillini stesso, se mai fosse vero, come pretende Gaurico, che anch'egli soggiorna a Parigi? O fu Grice? Del resto, gli scambi fra le due università italiane e quella parigina sono frequenti, e, come sappiamo di galli che durante il  sono venuti a studiare a Padova e Bologna, sappiamo del pari che Pietro e Lorenzo Pasqualigo, patrizi veneziani, erano stati a studio a Parigi, e il primo anzi vi aveva sostenuto, ben due mila conclusioni. Quando all'insegnamento della medicina teorica aveva riunito quello della filosofìa naturale, AchilUni fece stampare la sua seconda opera De orhihus. Qui ritroviamo tutte le grandi tesi  della fisica celeste di Aristotele, nella più rigida interpretazione averroistica, fino al punto che è ritenuta assurda la teoria tolemaica degl’eccentrici ed epicicli, che aveva Nifo, In libriim Destvuctio Destructionum Averrois comment., I,  dub. Hoc secundum opus in quatuor libros divido. Il che esclude l'esistenza di quel trattato De proportionibiis niotuum, che secondo Hain, sarebbe stato  stampato a Bologna per Benedictum Hectoris. Questo trattato, composto più tardi, usci postumo. SÌ il grande merito di salvare le apparenze dei moti planetari assai meglio che non la teoria delle sfere concentriche, ma che mal si concilia coi principi della fisica aristotelica. Ed Achillini, come in generale tutti gli averroisti, ci teneva alla fedeltà ai testi che egli s'era assunto l'impegno di  esporre. Nel secondo libro di quest'opera si parla invece delle intelligenze motrici, cioè di Dio, primo motore immobile, e quindi dei motori preposti al governo di ciascun cielo. A questo punto il maestro bolognese si chiede se, oltre alle inteUigenze separate, esistano altresì dei dèmoni. La credenza nei dèmoni e nelle loro opere prodigiose non era diffusa, soltanto nel popolino, ma  anche nei ceti colti, presso i quali la demonologia cristiana era rincalzata da quella platonica. Achillini nel suo rigido averroismo non sa con esattezza ove collocare siffatte nature ibride, di spiriti imbestiati, e quale funzione propriamente assegnare ad esse. Ammessa per fede, l'esistenza dei dèmoni è relegata tra le opinioni volgari. E quanto ai fatti meravigliosi che ad essi vengono  attribuiti, il bolognese è d'avviso si possano spiegare coll'arte umana o per mezzo di cause naturaH,  a dir vero, non meno meravigliose, come fa più tardi Pomponazzi, e come aveva fatto  molto prima  SCHIAVONE. Dopo questa parentesi, egli torna a parlare dell'immutabilità di Dio, ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, non soggetto a movimento locale né a mutamento di pensiero, poiché tutto atto senza potenza. Di questa divina immutabihtà partecipano anche le altre intelligenze celesti, sebbene in queste sia qualche potenzialità, in quanto ogni intelUgenza di sotto subisce l'azione di quella di sopra, sì che questa è intelletto agente per rapporto a quella che vien dopo, e quella che vien dopo può dirsi intelletto possibile per rapporto alla precedente, come già  sapevamo dai Qiioliheia de intelligentiis. Primo intelletto agente che immediatamente o mediatamente informa di sé tutte le intelligenze inferiori, è Dio. Ma le intelUgenze inferiori sono informate da quelle di sopra senza subire cangiamento nel tempo, bensì con atto eterno, che fa De  orbibus,  diib. secondo l'edizione degli Opera omnia, curata da Monti, Venezia, alla quale per comodità mi richiamo) . dub. Secundo  principaliter,  Septimum  dictum Qiiol. de intell. dire talora ad Averroè che esse sono atti puri senza potenza, cioè puro intendere senza mutamento. Ultima delle intelligenze è l'intelletto umano che propriamente si disse possibile o potenziale, poiché non ha altra natura che quella di essere in potenza. Questo intelletto, unico per tutta la specie umana e forma  che dà all'uomo il suo essere specifico di uomo, non passa dalla potenza all'atto del conoscere se non è coadiuvato dall'esperienza sensibile. In quanto passa dal non conoscere al conoscere le cose del mondo sensibile, che sono il suo oggetto proprio, esso è soggetto a mutamento o alterazione. Questa alterazione era intesa comunemente come modificazione dell'intelletto stesso ad opera delle specie intelligibili o rappresentazioni in esso delle cose conosciute. Achillini respinge questa teoria, appoggiandosi a un famoso testo della fisica aristotelica, che aveva già richiamato l'attenzione d'Averroè, e coglie l'occasione per ribadire un concetto già da lui affermato alla fine  del Qttolib. de iìitelligentiis. Aristotele aveva detto che nella parte intellettiva dell'anima non si dà  né generazione né alterazione vera e propria: l'atto conoscitivo non importa un mutamento qualitativo intrinseco all'intelletto, ma una semplice variazione del rapporto fra questo e le forme del mondo sensibile che la mente conosce in sé stesse senza bisogno che una rappresentazione o specie intelligibile, distinta dalla realtà conosciuta e dal soggetto conoscente, venga a inserirsi fra  l'una e l'altro. Un mutamento qualitativo e intrinseco subiscono invece le facoltà sensitive e con esse la cogitativa, cui l'intelletto s'unisce nell'atto d'apprendere le forme del mondo sensibile. L'intelletto in sé stesso è immutabile, come i principi logici e come le forme a priori di Kant; senza di che nessun giudizio certo sarebbe possibile; il mutamento e l'alterazione sono soltanto nel  contenuto del conoscere, e soltanto per denominazione estrinseca s'attribuiscono all'intelletto. Perciò Achillini distingue con Sigieri l'intelletto dall'ANIMA RAZIONALE: quello è unico in sé stesso per tutta la specie umana; questa invece, risultando dall'unione dell'intelletto colla cogitativa, è individuale al pari di quest'ultima e diversa in ogni uomo; e a questa, propriamente, e non -Diib. Hic  aliquantulum morabimur. a quello, spetta la FUNZIONE RAZIOCINATIVA E DISCORSIVA, consistente appunto nell'applicazione delle immutabili forme del pensiero alla mutevole esperienza sensibile. Merito d’Achillini è appunto questo, che a lui spetta per altro in quanto ha ripreso un motivo di alcuni pensatori d'aver capito che la dottrina delle specie intelligibili finisce  per offuscare la conoscenza della realtà, ricacciata al di là della rappresentazione che attua il soggetto conoscente. L'atto conoscitivo è possibile solo in quanto il reale conosciuto è presente per se stesso al soggetto che l'apprende. Vero è che, pell'Achillini, le cose del mondo fisico hanno un esse reale fuori del soggetto che le pensa, e non possono essere in questo se non per il loro  esse  intentionale; di guisa che lo sdoppiamento fra realtà in quanto appresa e realtà in sé risorge e rende plausibili le obiezioni che altri aristotelici e averroisti ebbero a rivolgere al filosofo bolognese. E primi fra tutti Pomponazzi e Zimara. Pomponazzi si dichiarò contra modernos pedagogos, qui tenent secundum Averroem quod intellectus possibilis nihil de novo recipit,  mentre commenta  a Padova il De anima. I moderni pedagoghi dai quali dissentiva erano Nifo, Achillini e il suo fido Achate, Bacilieri, che era diventato collega del mantovano nello studio patavino. Questo è confermato da una nota in margine al codice napoletano che ci ha tramandato il commento del Peretto: Nota contra socios Achillinum Tyberiumque  bononienses. Più tardi, mentre commenta a Padova la stessa opera aristotelica, il maestro mantovano dedica una quaestio speciale a esporre e combattere opinionem noviter repertam quae tenet nullo pacto dari species intelligibiles. Veramente questa opinione non era proprio noviter reperta,  come Vedasi N., Soggetto e oggetto – GRICE OBBLE SOBBLE --  del conoscere nella filosofia, Roma,  Edizioni  dell'Ateneo,  Bibl. Naz.  di  Napoli,  mss. La nota nel ms. napoletano parrebbe di mano di Surian che trascrisse il testo della riportazione, di cui forse è autore quel Marco da Otranto che è Zimara, il quale ne avrebbe fatto copia a Troiano e questi a Caravegi da Crema, dal quale l'ebbe Surian. del resto ben sa Pomponazzi; ma nuova poteva sembrare per il modo come la presentavano e per il vigore col quale la  difendevano i due pedagoghi bolognesi. Ma nuova o no, il Peretto non esita a giudicarla abominevole, fatua e bestiale: Et dico primo quod opinio ista est abominabilis, fatua et bestialis et nihil boni ab ea potest capi. Ego enim nihil intelbgo de opinione ista. Isti contra se adducunt duo  miUia  auctoritatum  et totam ecclesiam doctorum, ipsosque glosantes totaliter dilaniant et lacerant.  Vide in scriptis suis. Che il mantovano non avesse presa  per il suo verso e non avesse capito l'opinione d'Averroè e d’Achilhni, non è da stupire, dato l'orientamento del suo pensiero quale dove rivelarsi anche meglio in seguito. Così anche nell'esposizione della Fisica, fatta a Bologna, giunto al commento del testo sul quale si fondano gli averroisti della corrente d’Achillini, torna a ripetere: Ista est pars dignissima in qua aut ego erro aut omnes aiii maxime erraverunt; sed credo quod potius  iUi  decipiantur quam ego; sed in hoc constituam vos iudices. In ista ergo parte commentator ponit unum documentum, ex quo traxit Burleus, quod est de mente commentatoris, cum anima sit unica in omnibus hominibus, ipsam nihil capere {ins capit) de novo,  ncque acquirere [ms aquirit) scientiam  per species de novo advenientes, sed scientia est substantia animae. Et non possum non mirari de istis modernis, qui faciunt se inventores et autores huius viae, cum videant Burleum ante se de hoc iam expresse loqui. Imo, ante Burleum Henricus de Gandavo tenuit hoc idem esse de mente commentatoris; et etiam AQUINO ascribit hoc commentatori, Hcet propter   aham rationem. Non meno aspro, contro l'interpretazione che Achillini sostene del pensiero d'Averroè è il giudizio di Mar Infatti nel ms. napoletano si legge: Pro quo, domini, debetis scire quod insurgit nova philosophia, immo antique; quare Burleum videatis: expresse super textu commenti 2oi septimi physicorum dicit intellectum speculativum esse eternum et non dari species  intelligibiles commentatoris; hec etiam tenet augustinus sessa, Achylinus et multi alii insequentes i tos Ms. napol. In de phys. auditu,  Bibl. Nation. di Parigi,  ms. lat. ms. della Biblioteca del Collegio Campana  di  9 Osimo] c'antonio Zimara da Otranto, in una sua quaestio Utrum ad  mentem  Averroys  intellectus  possibilis  recipiat  species intelligibiles  subiective. Esposta e  criticata la dottrina d’Achillini, della quale vorrebbe far rilevare l’'assurdità dal punto di vista aristotelico ed averroistico, egli conclude: Et in veritate opinio istius hominis adeo est erronea, ut me pudeat amplius arguere centra ipsvim. Ipse enim ignorat adhuc quomodo forma materialis generatur. Item habet fateri quod formae materiales secnndum suum esse formale accipiantur in sensibus interioribus, quia non est maior ratio quare in intellectu possibili materiales formae sint secundum esse formale, et non in ipsa cogitativa et imaginativa. Quantum autem ista sint inconvenientia, non solum sapientibus, sed etiam vulgaribus sunt novissima notissima. Unde licet mihi dicere de isto homine quod dixit commentator de Avicenna in Celi  comm. quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum  ad maximos errores. A risolvere le obiezioni mosse alla tesi d'Achillini bisogna tener costantemente presente la distinzione fra ANIMALE RAZIONALE – RAGIONE e intelletto in sé. L'intelletto possibile, in sé considerato e in quanto unico per tutta la specie umana, non è modificato d’alcuna rappresentazione che gli venga dal mondo sensibile. Invece, in quanto unito alla cogitativa  individuale di Socrate e di Calila, colla quale forma L’ANIMA RAZIONALE composta di ciascuno individuo umano, esso è certamente soggetto a mutazione e ad alterazione, non pel mutare di qualcosa in esso, ma pel mutare dell'immagine sensibile che è nella cogitativa cui è unito. Che se Achillini dice l'intelletto possibile pura e nuda potenza senz'atto di sorta, prima dell'atto d'intendere,  questo va inteso per rapporto all'intelletto Zimara de sancto Petro de Galatinis Terrae Hjdrunti, artium doctoris, Quaestio qua species intelligibiles ad mentem Averrois defenduntur ad Magnificum patritium Venetum Surianum; a cura di Storella. La stessa quaestio fu pubblicata da francescano Girelli, professore di teologia nello studio di Padova, in principio del suo  Tractatus adversus quaestionem Zimarae de speciebus intelligibilibus ad mentem antiqiioritm Averrois praesertim. Venetiis. Girelli, che aveva studiato a Padova, ov'era stato alunno del Pomponazzi, cita Achillini, ma si rifa  specialmente a Gand e al carmelitano  inglese Baconthorpe, noti avversari delle species intelligibiles. agente che è tutto atto senza potenza ed è la scienza in atto, al cui possesso tende l'intelletto possibile. Il De orhihus s'apre col dubbio an intelligentia sit forma dans esse caelo. Anche su quest'argomento Achillini si sforza di mantenersi fedele ad Averroè: ogni cielo è composto di materia e di forma; il corpo sferico di esso è la materia, l'intelligenza motrice è la sua forma. Per questa unione ciascun cielo è un ANIMALE VIVENTE, non di VITA VEGETATIVA O VITA SENSITIVA, come pretende Avicenna, ma di vita intellettuale. Le sfere celesti sono perciò quegli ANIMALI RAZIONALI IMMORTALI – GRICE IMPLICATURA DI ANIMALE – BRUTO O PIANETTA -- ed  eterni di cui parlano Aristotele nei Topici e Porfirio nella sua Isagoge alle Categorie. Animali viventi di vita intellettuale, l'atto dell'intendere e del volere si predica dei cieli, di cui le intelligenze son forme sostanziali, a quel modo che si predica dell'UOMO di cui è forma  sostanziale l'intelletto  possibile, che è l'infima delle intelligenze separate. Sebbene i corpi celesti sono dotati di spazialità e di movimento al pari dei corpi del mondo inferiore, essi son corpi spirituali, immuni da composizione di materia e di forma, poiché il loro  essere è costituito dall'unione immediata colla propria intelligenza. Questo concetto averroistico d’una corporeità spirituale e immateriale, che piacque anche a Ficino, fu oggetto di lunghe controversie fra gl’averroisti e le altre scuole aristoteliche, e fra gli averroisti stessi. Dio è la prima delle intelligenze separate; e come ognuna di queste è forma sostanziale del proprio cielo, ch'essa  avviva di vita intellettuale e a cui imprime movimento, così anche Dio è forma sostanziale del primo cielo mobile al quale, insieme al primo moto, imprime la propria perfezione intellettuale. Con ciò il bolognese non fa che sviluppare un concetto già chiaro nella sua precedente opera, Quol. de intelligentiis. L'idea di Dio, quale emerge da siffatto modo di vedere, è l’idea di un Dio  strettamente legato al mondo finito  Arist.,  Top.  tcov  ^cóoiv    jjièv  8-VY]Tà  xà •^'à-B-àvaTa. Porfirio, Isagoge  et  in  Arist. Categor. comni. ed. Busse, nei Commentaria  in Arist. graeca, De differentia Argmn. in Platon. Theol. ad  Laurent. Medicen in Opera,  Basilea, Epist. De orbibìts di Aristotele, come forma e motore non mosso della prima sfera celeste, e anima del primo   corpo spirituale che contiene e racchiude entro di sé le altre sfere animate e immortali, fino al CIELO LUNARE, che racchiude nella sua  concavità la sphaera activorum et passivorum, ossia i quattro elementi e quelle cose che, sotto l’influenza celeste, di lor si fanno. Forma e motore di un mondo finito, è evidente che di siffatto Dio non si può dimostrare l'infinità né l'onnipotenza né  la libera azione creatrice. Del resto, per ciò che concerne l'animazione dei cieli, v'erano teologi disposti ad ammetterla. Achillini lo sa bene; ma osserva che da parte dei teologi esistono difficoltà non facilmente superabili ad accogliere simile teoria. Per essi, infatti. Dio creò  le  intelligenze in statu merendi et demerendi; viatrices enim aliquantulum fuerunt, durante quella  morula   concessa loro da Dio per potere scegliere liberamente il bene o il male. Ora che cosa sarebbe accaduto se l'anima del primo cielo  pecca? Il primo cielo sarebbe stato dannato. Eppure esso avrebbe dovuto accogliere i beati, a meno che Dio non avesse preparato per sé e pei santi un altro luogo più adatto, o che non  vesse predestinato l'intelligenza di quel cielo alla beatitudine eterna! Ma  il maestro bolognese taglia corto su questo e altri problemi sottili e imbarazzanti: per lui, secondo la verità della  fede, non può ammettersi che Dio sia unito come forma ad un cielo; ciò ripugna alla sua infinità e al potere che ha di trarre le cose dal nulla. Tutto questo, per altro, riguarda i teologi E NON LA FILOSOFIA, se per filosofia s'ha d’intendere, come quasi tutti allora  intendeno, il sistema aristotelico della natura, cosa che non tutti gli storici della filosofia han sempre avvertito. E problema tutto teologico è quello discusso nel  dubbio intorno alla creazione dal niente e al cominciamento o novitas del mondo nel tempo. In oltre fittissime e uniformi colonne in folio, interrotte da appena due capoversi, la dottrina teologica della creazione del mondo nel tempo è  sottoposta ad una serrata e  minutissima critica che  ne  dimostra l'inconciliabilità coi Dante,  Par. De  orb.] principi  più  Certi della metafisica  aristotelica, per terminare, al solito, dopo tanto sforzo, con questa dichiarazione: Tenendum est autem deum creasse mundum et non ab aeterno, et ab aeterno ipsum potuisse creare! Segue il quesito o dubbio, utrum caelum sit finitae magnitudinis  in actu  intorno al quale Achillini, fedele ad Aristotele ed Averroè, mostra di non tenere in alcun conto il tentativo fatto d’alcuni teologi di dedurre la possibilità d'un universo infinito dalla infinità e onnipotenza di Dio; che anzi dalla limitatezza dell'universo aristotelico egli è condotto a limitare la potenza divina. Perciò egli si contenta di osservare: Quod si theologus concedat deum  posse lacere corpus infinitum, oportet ipsum dicere has difiìnitiones quantitatum non esse diffinitiones absolute, sed quantitatum finitarum, quemadmodum oportet ipsum concedere, quod acquale vel inacquale non est passio quantitatis, sed est passio propria quantitatis finitae; nel che consentono appieno il Cusano e BRUNO. Nel quesito col quale si conclude il libro, il maestro  bolognese esclude la possibilità d’altri mondi fuori di quello descritto da Aristotele, che ha per centro la terra e per limite la convessità della prima  sfera di cui è forma sostanziale Dio stesso. Anche troviamo ribadite le grandi tesi dell'aristotelismo averroistico intorno alla natura celeste presa nel suo complesso. Sferico è il cielo, perché corpo perfettissim.o cui non può competere se  non la perfettissima delle figure geometriche, qual è appunto la sferica. Ed è formato di natura luminosa che consegue alla luce intellettuale dell'intelligenza che l'anima e lo muove, diminuendo d'intensità giù giù, di grado in grado, FINO ALLA SFERA LUNARE, la cui luminosità propria è appena percettibile nelle ecclissi di luna. Ampio sviluppo maestro Achillini dà al quesito  concernente l'eternità del moto celeste, connesso con quello dell'eternità del mondo e dibattutissimo insieme a questo, nei commenti al ad quartum,  stando in principiis philosophorum, rationes militant; sed negatis eorum principiis, tiinc cessai disputatio. della Fisica. Circolare ed eterno, il moto delle sfere celesti riflette l'eterna circolarità del pensiero delle intelligenze motrici: Quia  igitur intellectio intelligentiae exit ab intelligente et revertitur super idem ut intellectum est, ideo intellectio est principium motus circularis, quoniam in circulo exit corpus ab a, ut a principio, et revertitur in idem a, ut in terminum, per arcum circuii. L'ultimo quesito del De  orèzèiis concerne l' influenza celeste sul  MONDO INFRALUNAR. In nessun'altra trattazione quanto in questa  Achillini appare evidente come le dottrine astrologiche sull'influenza dei cieli avevano finito per prendere consistenza metafisica nel sistema aristotelico della natura, nel quale le sfere celesti, coi loro motori intellettuali, e il mondo elementare, contenuto nel concavo dell'ORBE LUNARE, son solidali e quasi direi complementari fra loro, legati come sono da un legame di causalità. Si  caelum staret, ignis in stupam non ageret, quia Deus non esset, suona una proposizione condannata dal vescovo di  Parigi. E Achillini: se il movimento celeste s'arresta, non soloil fuoco non s'apprende alla stoppa e allo zolfo, ma addirittura tunc non essent ignis, stupa aut sulfur; e ciò per la ragione quod in primo instanti quietis caeli resolverentur omnia inferiora in materiam primam,  quia desineret caelum esse conservans interiora; aut in nihil omnia redirent. Ideo supra dictum est, quam repugnat naturae vacuum, aut materiam esse sine forma, tam repugnat caelum quiescere. Ideo Averroes, Mataphysicae,  comm., auctoritate Aristotelis,  Meìaph.: Non est timendum caelum  quiescere. Meno male! Ma nel trattare della causalità che il mondo celeste esercita su tutte  le cose del mondo inferiore, il bolognese è indotto a porsi il problema della libertà umana. Sigieri  e Giovanni  di Su questo legame fra il cielo e il mondo inferiore, cfr. Averroè, De  caelo, comm.; Aristotele, Meteor. Denifle e Chatelain, Chart. Univers. Paris., Giorn. Crit. d. Filos. Ital. De orb. Steenberghen, Sig. de Brab. d'après ses oeuvres inédites, Siger dans l'hist. de l'Aristotélisme,  nella collez. Les philosophes belges, Louvain Jandun se l'eran posto assai  prima, e l'avevan risolto allo stesso modo. L'influenza dei corpi celesti non s'esercita in modo diretto se non sui corpi infralunari. Sull'intelletto e la volontà umana questa influenza non s'esercita se non indirettamente, nella misura che lo spirito umano è legato al corpo. Ma per se stessa quest'influenza non  s'esercita sull'atto del giudicare e del volere, che può resistere ad ogni influenza indiretta. Ora la nostra libertà trae origine dal giudizio della ragione, che per sé è immune da ogni diretto influsso celeste.Al qual proposito Achillini coglie l'occasione per chiarire l'equivoco che nasce dal confondere la libertà umana colla contingenza, la quale nela lingua del LIZIO è ben altra cosa. La  libertà è propria del giudizio che non è determinato dall'oggetto appreso; la contingenza deriva invece da indisposizione della  materia che a risponder molte volte è sorda; la prima è propria dell'uomo; la seconda spazia in tutta la natura sublunare, ove l'impronta del suggello celeste è ostacolata dalla cera mortale. Ma anche in questo Achillini non dice niente di nuovo. Lo stesso concetto  della libertà, più che svolto, è appena accennato. Poco dopo la pubblicazione del De orbibus a mezzo della stampa, il maestro bolognese prepara l'edizione di alcuni rari opuscoli pseudo aristotelici insieme ad altre cose non meno rare, fra le quali egli inserì anche un suo trattatello De universalibus, la cui composizione è probabile risalga agli anni in cui legge logica. Nacque così l'Opus septisegmentatum stampato, a spese dell'editore Phys., De  orb., Ex potentiali in genere intelligibilium nascitur libertas, sed ex potentiali in genere sensibilium nascitur contingentia. Hoc voluit Philosophus, Metaph., textu comm., in translatione graeca: quare materia erit causa praeterquam ut in pluribus aliter accidentis. Quod igitur dixi in primo opere, Quolibeto de  intelligeutiis primo,  dub.: Sequitur secundo nullam esse in rebus contingentiam ad quas non concurrit homo, passum est ab impressura defectum, non apponendo libertatis prima di contingentiam. Ma nell'edizione, l'autore ebbe cura di correggere l'errore bolognese Benedetto d'Ettore Facili. La stampa riuniva insieme queste rarità: Pseudo Aristotele, De secretis secretorum, De regum regimine, De sanitatis  conservatione, De physionomia. De signis tempestatum – GRICE DARK CLOUDS MEAN RAIN --, ventorum et aquarum, De mineralibus; poi il fragmento De intellectu di Alessandro d'Afrodisia nella traduzione medievale di Gerardo da Cremona, il  De animae beatitudine di Averroè, cui tien dietro l'opuscolo De universalihus d’Achillini stesso; infine l'epistola d'Alessandro il Macedone ad Aristotele, De mirahilihus Indiae. L'anno seguente deve aver curato, presso lo stesso editore Ijolognese, l'opuscolo De primo et ultimo instanti di Burley, a spiegazione del quale egli aggiunse una breve nota: Achillini  Bon. Examinatio huius quadrate figure et addictio oblunge, cui seguono le Proportiones di Alberto di Sassonia Bononie per Ben. Hectoris. La rara stampa  è posseduta dalla Bibl. Nationale di Parigi, Rés. Cura altresì la stampa del libretto di Trionfo da Ancona, agostiniano. De cognitione animae et eitis itentiis, cui Achillini aggiunge una quaestio de sensihilibns noribus di Maestro Prospero da Reggio, egli pure agostiniano, excerpta et sumpta ex quaestionibus ab eo Parisius J'.putatis supra prologo primi magistri sententiarum Bologna, presso Giovanni Antonio de'Benedetti; e poco dopo quella della Destructio in arborem porphyrianam dello stesso Trionfo, presso lo stesso stampatore de' Benedetti. Nello stesso anno e presso lo stesso editore, da in luce la quaestio de subiecto physionomiae et chyromantiae, o anche De Chyromantiae principiis et physionomiae, dedicata a Coclite e premessa all'opera di questo,  Chyromantiae ac physionomiae anastasis cum approbatione magistri Achillini, uscita a Bologna presso il de'Benedetti e dedicata ad Bentivoglio, figlio del signore di Bologna, Giovanni  IL  Due altre quaestiones, una De potestate syllogismi, l'altra De subiecto medicinae, dedicate all'alunno Porto da Modena, Achillini stampò a Bologna, presso lo stesso de' Benedetti. Questo Porto era  ancora alunno d’Achillini e ne aveva raccolto le lezioni su quei due argomenti. S’addottora, e nel nuovo anno scolastico comincia a leggere medicina teorica a Bologna fino a quando passa a medicina pratica; ma venne a morte. Ecco la dedica affettuosa del  maestro: Achillini Porto Mutinensi, discipulo haud penitendo, foelicitatem. Nostra quaedam fragmenta ut moris eorum est, mi amantissime, diligentem eorum collectorem  adeunt. Tu enim urbanitate et virtutibus et doctrina is es, quem inter caeteros nobis dilectos elegi, apud quem aptissime reponantur; te enim semper cognovi nostri nominis studiosum. Logicalia quidem alios docebis; medicinalia vero exacte ut assoles contemplaberis: ex quibus non minus gloriae, Alexandre tuo aurigante, te iam comparaturum  existimo, quam hactenus ex poeticis muneris numeris adeptus sis. Haec igitur nostris aliis, quae apud te sunt, adiungas. Vale, et libenter res nostras perlege. Presso lo stesso de'Benedetti, uscì il De elementis che si può dire formi, insieme al De intelligentiis e al De orbibiis, la terza parte d’un'opera complessiva, la  quale abbraccia tutto il sistema aristotelico-averroistico della  natura,  ossia tutta intera la sfera cosmica, avente la terra per centro e per periferia il cielo delle stelle fisse. Consapevole dell'importanza dell'opera, Achillini dedicò il De elementis all'invittissimo principe e padre della patria, Giovanni II Bentivoglio, con una lettera che è documento importantissimo per stabilire i legami che univano il filosofo al signore di Bologna. Nell’explicit di questa e dell'opera precedente Achillini, anzi che col nome d'Alessandro, comincia a sottoscriversi il  figlio di Claudio Achillini, arieggiando alla lontana la maniera degl’arabi. A rendere piìi solenne l'edizione  del De elementis, Porto fa scattare il suo estro poetico e detta questo epigramma che si legge sul  frontespizio, e in cui il nome di Claudio Achillini è ricordato nel momento che pella prima volta, per quanto N.  sappia, al figlio viene dato l'appellativo di nuovo Aristotele: Cum modo legisset titulum natura libelli huius, Achillini est obvia facta  seni, 48  Su  di  lui,  TiRABOSCHi,  Bibl.  Moden. atque ait: O nimium foelix hoc pignore, Claudi, quam melius dici Nicomachus poteras. Un altro epigramma scrive pella stessa  stampa Boccadiferro, che traduce il suo cognome in quello meno plebeo di Siderostomo. Anch'egii era discepolo d’Achillini, e più tardi ne continuerà l'insegnamento averroistico a BOLOGNA, ma con assai minore vigore  speculativo. Il  De elementis  è diviso in tre  libri. Si parla dei mutamenti e delle vicissitudini che accadono nel mondo sublunare – GRICE CIRCLE AND CIRCLE -- e della materia che n'è il soggetto. In diibia son discussi tutti i problemi concernenti l'esistenza della materia prima, la sua natura di soggetto indeterminato e potenziale del divenire fisico, la sua conoscibilità, i suoi rapporti colla forma, colle dimensioni,  e il concetto di PRIVAZIONE – GRICE NEGAZIONE E PRIVAZIONE --. Niente di particolarmente notevole, tranne questi punti. Primo,  il dubbio  an Sorte non existente, Sortes non sit homo – GRICE VACUOUS NAMES – If neither Pegasus nor Bellerophon exist, what is the implicature of the second having ridden the first? --, che richiama l'attenzione sulla discussione che fa di  questo problema anche Sigieri di Brabante, nella quaestio utrum haec sii vera Homo est animai, nullo homine existente; secondo, il dubbio ove si nega la tesi che attribuisce alla materia una forma sostanziale di corporeità d’essa inseparabile. Terzo,  il dubbio  ove si sostiene che la materia prima è ingenerabile e incorruttibile  e perciò eterna, checché ne pensassero altri con Avicenna. Si tratta degl’elementi e della loro mescolanza. Al qual proposito il bolognese riprende in esame l'annoso problema se nei misti restino in atto o soltanto in potenza le forme elementari, ritorna sulla forma corporeitatis che Avicenna voleva inseparabile dalla materia, e fa un fugace accenno alla famosa colcodea dello stesso Avicenna, quae est decimus intellectus in descendendo a deo,  et est formarum datrix in concavo lunae assistens ad regulandam activorum et  passivorum sphaeram et ipsam conservandam.   Altro  De  elementis,  diib. ,  f.  gava.  Mandonnet, Brab. et l'averr. latin testi inediti. Nella  coli. Les  philos.  belges, Louvain De eleni. Sull’origine e il significato di colcodea, dopo quanto ne aveva scritto Alfonso Nallino, son ritornato in Giorn. Crit. d. Filos.  It.,  per dimostrare che essa entra in circolazione coll’edizione del conciliator di SCHIAVONE, Venezia. tema è quello, allora di grande attualità, se e come le forme sostanziali sono capaci d'accrescimento e di diminuzione, di maggiore o minore intensità. Più importante, sebbene non nuovo, è quello che egli dice della generazione degl’ORGANISMI VIVENTI – Grice cabbage and king --, e in particolare dell'uomo – GRICE MAN PARROT HUMAN PERSON --. Tutte le forme degl’esseri corporei, da quelle elementari a quelle ANIMALI, son tratte dalla potenza della materia. Ma mentre le forme elementari permangono nei misti, attenuate nelle loro proprietà, come dice Averroè, la forma mixtionis resta soltanto potenzialmente nel VEGETALE – GRICE CABBAGE --,  e come l'anima vegetativa si corrompe all'apparire dell'anima sensitiva, nella quale rimane potenzialmente o virtualmente. Achillini in questo non si dilunga molto da AQUINO, sorvivvo, e SCHIAVONE, brucciato. In certi momenti, anzi, egli sembra accogliere la tipica dottrina d’AQUINO dell'unità della forma sostanziale. Con due strappi però. Uno, di minore  importanza, concerne la permanenza delle forme elementari nei misti. L'altro, assai maggiore, riguarda l'unione dell'intelletto col singolo. A rammendare quest'ultimo strappo che compromette l'unità della coscienza umana, AchilHni s'adopra con ogni accorgimento dialettico, pur mantenendosi fermo sulla tesi averroistica fondamentale: l'unità dell’intelletto. È interessante seguirlo nel  suo tentativo. Lo sviluppo dell'organismo umano s’inizia con una fase puramente vegetativa, come dice Aristotele. Principio delle funzioni vegetative nell'embrione è la così detta ANIMA vegetativa – Alice: Is mustard an animal? --, all'apparire della quale la precedente forma mixtionis si corrompe. Così, nella SECONDA fase dello sviluppo embrionale – GRICE: WHEN BABIES HARDLY MEAN, IF NON-NATURALLY AT ALL --, alla forma vegetativa subentra quella sensitiva – ANIMA ANIMATIVA SOUNDS CLUMSY – GRICE -- , mentre la prima si corrompe. Ma qui Achillini si domanda. Allora dovremmo dire che. prima d'essere animale, l'embrione nella  prima  fase è *pianta*, -- GRICE: OR IS THIS A MERE IMPLICATURE --? No, egli  risponde; perché altro è ESSER PIANTA – cabbage izzing --, altro è vivere a mo'di – METIER OF -- pianta, come dice appunto Aristotele.  L'anima vegetativa d'una pianta – GRICE CABBAGE -- è termine della nascita di quella pianta, ed è quindi forma determinata e PERFETTA -- perfetta nella sua specie – Tigers tigerise. La forma vegetativa nell'animale – TIGERS TIGERISE – SQUARRELS – PIROTS – PIROTOLOGY --,  invece, è forma indeterminata e imperfetta – NON METIER --; più che punto  d'arrivo, è preparazione e AVVIAMENTO ad un GRADO  più alto di VITA – Grice PHILOSOPHY OF LIFE. Questa è in via, direbbe  ALIGHIERI, quella è già a riva. In questo concetto del passaggio dall'indeterminato al determinato parrebbe dovesse  cercarsi la chiave per intendere come l’intelletto, unico in sé, s'unisce all'anima sensitiva a costituire un individuo umano particolare – LIKE PAUL GRICE, PAUL GRICE.  Ed è concetto aristotelico che mitiga alquanto la crudezza dell'altro concetto, essere le forme sostanziali come i numeri e come le figure della geometria, di cui non si dà aqcrescimento o diminuzione senza  cambiamento di specie – GRICE ARISTOTLE LIZIO ANALOGY LIFE WITH NUMBER – ONLY UNDERSTOOD AS SERIES.  Aristotele appunto, nel De generatione animalium, dice che nel processo genetico non nascono insieme l'animale e l'uomo, né l'animale e il cavallo – it’s an implicature – there is an animal in the backyarrd: my aunt – URMSON.  Dal che parrebbe che  l'animale, che  precede l'uomo e il cavallo, dove essere NON UNA FORMA DETERMINATA e specifica,  ma una forma generica e indeterminata, la quale tende là  a determinarsi in cavallo,  qua in uomo. – qua in TIGRE, qua in SQUARREL, qua in PIROT, qua in cat --.Venendo a parlare appunto del processo genetico umano, il maestro bolognese si chiede an in ipso homine animam  intellectivam expectet sentitiva. E per risolverlo, ricorda anzitutto quali, a suo modo di vedere, ne sono i due presupposti. Unum, quod intellectus  -- GRICE RATIO -- sit forma informans materiam, dans esse hominem – PERSONAM GRICE. Aliud, quod prius tempore sit anima sensitiva in materia, quam intellectus possibilis. Quorum primum in De intelligentiis declaravi, et etiam  in  De orbihus, quaestione de motu intellectus. Quibus addo, quod ambo illa asseruntur ab Aristotele, De genevatione  animalium,  dicente. Sed quamobrem talem animam prius haberi necesse sit, ex his quae De anima disservimus apertum est. Sensualem autem, qua animai est, tempore procedente, recipi et RATIONALEM, qua homo est, certum est. Quest' anima sensitiva che precede  l'apparire dell'intelligenza O RAGIONE – GRICE HOLLOWAY --, è una forma generica e INDETERMINATA – Timothy -- che prepara l'avvento d’un'altra forma più determinata, pella quale l'uomo comincia già a distinguersi dal cavallo – o del CHIMP – read chimp lit. GRICE --  e dagl’altri animali; e questa è la cogitativa. La cogitativa è nell'uomo Purg. Arist.,  De gen. animai. De elem. quello che negl’altri animali – GRICE TIGER SQUARREL CAT -- si dice estimativa, ed è, insieme all’immaginativa, alla  memorativa e al sensus communis, uno dei così detti sensi interni. Come l'estimativa negli  animali – NON UMANI GRICE DISIMPLICATURA --, anche la cogitativa, che talora è chiamata essa pure ESTIMATIVA – GRICE I LIKE THAT, SINCE ONE IS AWARE OF DISIMPLICATURE -- ha la funzione di distinguere e giudicare sensibilmente le percezioni – GRICE POTCH COTCH -- particolari e quello che v'è nelle cose apprese d’utile e di dannoso – PER L’UOMO NON IL CHIMP.  Per questo essa è chiamata anche ratio particularis – o PARTICOLARIGGIATA GRICE; ma è facoltà sensibile, legata all'organismo, tanto  che i medici e anatomisti antichi e medievali l’assegnano come organo il ventricolo medio del cervello, mentre all'immaginativa assegnano quello ventricolo anteriore del cervello, e alla memorativa – GRICE PERSONAL IDENTITY --- quello ventricolo posteriore del cervllo. Ma oltre alla funzione ora accennata, la cogitativa umana ne ha un'altra, pella quale si distingue SOSTANZIALMENTE dall'estimativa degl’altr’animali – who cannot but potch, never cotch or MEAN, M-INTEND --: essa è ordinata a preparare quelle immagini sensibili, o fantasmi, quasi riassunto di tutto il mondo dell'esperienza sensibile, che  l’intelletto o RATIO fa oggetto d’elaborazione mentale, scientifica – fa scienza, scire --, traendo fuori dalle rappresentazioni particolari  il concetto universale – GENERALIZZATA. Mentre nell'animale inferiore all'uomo l'anima sensitiva, per mezzo dell'estimativa, si può dire sia giunta a riva, ed abbia raggiunta la più alta perfezione di cui è capace, non così è della cogitativa UMANA, la quale, per quest'ultima sua funzione O METIER preparatoria all'atto dell'intendere O RAGIONARE,  è ordinata per sua natura RATIO ESSENDI a congiungersi coll'intelletto possibile. Questo alla sua volta, nella  gerarchia dell’intelligenze separate, è quello che tiene l'infimo grado, perché, pura potenza d' intendere, è ordinato, per iniziare il suo passaggio all'atto, ossia per divenire intelletto in atto, all'apprensione intelligibile delle forme del mondo sensibile, di cui la cogitativa  gli somministra le rappresentazioni  particolari. Perciò non si può dire che la cogitativa sia la vera forma dell'uomo, come  pure diceno molti averroisti, e che per essa l'uomo si distingue dagl’altr’animali. O se vogliamo, essa è forma, sì, ma incompleta. E questo perché la cogitativa umana Fondandosi  su un famoso detto d'Averroè,  De  anitna,  comm. Et per istum intellectum  queni vocat Aristoteles passibilem, e che Averroè denomina cogitativa differt homo ab aliis animalibus. Al qual detto gli’averroisti sigieriani n’opponeno però un  altro, tratto d’un commento allo stesso De  aniìiia: Cum per hanc VIRTVTEM RATIONALEM difterat homo ab aliis animalibus. non è ancora giunta a riva; a riva essa giunge quando è unita all'intelletto possibile, che, alla sua volta, è ordinato per sua natura ad  essere eternamente unito alla cogitativa umana, negl'infiniti individui della specie. V’è insomma tra la cogitativa umana e l'intelletto possibile un vincolo sostanziale, per cui l'una è ordinata per natura all'altro, e reciprocamente, ed entrambi si completano a vicenda. Forma completa dell'uomo, sia in universale, quanto alla specie, sia in particolare, quanto ai singoli, è dunque l'intelletto  possibile unito alla cogitativa; e non solo forma assistente, ma vera forma informante che dà all'uomo L’ESSERE – GRICE IZZING HAZZING – d’uomo e ne fa il soggetto dell'intendere. A prima vista potrebbe parere, e certe espressioni potrebbero indiirci a crederlo, che l'anima cogitativa, tratta dalla potenza della materia, e l'intelletto possibile, venuto dal di fuori, fossero due nature,  due quiddità diverse, due forme, anzi due anime. Ed effettivamente esse stanno nell'uomo a rappresentare due modi di conoscenza che Achillini, come a LIZIO E ACCADEMIA, son parse irriducibili. Duo igitur svint principia cognoscendi in ncibis reperta: unum universaliter, et est intellectus, et est incorporeus, inorganicus, incorruptibilis; aliud vero singulariter, et est sensus, et est  virtus in corpore et organica et corruptibilis, et est anima cogitativa, Ma poiché la cogitativa è forma incompleta ed è ordinata ad unirsi all'intelletto, e questo alla sua volta è complemento di quella, possiamo ben dire che dalla loro unione risulta un'anima composta, come dice Sigieri, la quale è tutta intera forma dell'uomo. GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL – executive legislative judiciary INTENZIONE --.Tuttavia, poiché la cogitativa è forma incompleta che riceve il suo ultimo complemento dall'unione coll’intelletto, possiamo dire ugualmente che 1'intelletto termina il processo della generazione umana, e che esso ha da ritenersi forma dell'uomo a più forte ragione che non l'anima cogitativa: Quamvis in homine duae species colligentur,  ibi est tantum intellectus, qui est ultima forma, qua homo est homo. Cogitativa igitur forma non est ultima, sed ordinatur in intellectum. Non tamen est homo unus per simplicem formam, sed per composi  De ehm. tissimam; nullum enim est mixtiim homine compositius. Habet igitur homo duo esse: unum est esse inateriale a cogitativa; reliquum vero est esse  divinum  PERSONA GRICE -- ab  intellectu possibili. Perciò Achillini nei QuoUbeta de intelligentns, ai quali più volte si riferisce nel De elementis, dice: Non potest intellcctus informare materiam, non informante cogitativa, quia non stat materia sine forma constituta in esse per eam. Neque potest cogitativa informare, non informante intellectu, quia, dato informabili ultimate disposito et informativo, ponitur informatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad recipiendum inteilectum. Le quali parole, secondo la testimonianza di Nife, son tolte alla lettera dall'opera di Sigieri, De intellectu ad AQUINO. De elementis abbraccia quaestiones intorno alle proprietà degl’elementi, e cioè alla quantità e alle loro qualità, al movimento, alla  gravità, alla figura e al luogo proprio di ciascuno. E poiché le teorie di Heytesbury, o Heutisbery, come  lo chiamano, e quelle di Suisset, o meglio Swineshead,  sono venute a scompigliare le idee dei maestri bolognesi non meno che di quelli padovani, anche Achillini s' impegna in una prolissa discussione del problema di moda, se di ogni cosa naturale si da un massimo e un minimo – GRICE MAXIMIN --,  sul quale nel corso delle sue lezioni e in trattati speciali ha a soffermarsi più volte anche Pomponazzi, imprecando ai CALCULATORES FORESTIERI DI MERTON GRICE -- e  nostrani. A questo problema tien dietro una non meno prolissa discus  De elem. NiFO, De intellectu et daemonibus Sigieri De elem. Pomponazzi, De maxima et  minimo  ad  Laurentium  Molinum, Ms. Ambrosiano  R.;  In Phys., Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo, Bibl. Frat. de'Laici, ms. Pomponazzi prende di mira particolarmente il  suo concittadino Pietro da Mantova (VEDASI),  nonché  le  due opere a stampa De reactione e  Tractatus penes quid intensio et re-missio formarum  attendatur. sione  sul quesito utrum aliquid moveat se. E sebbene l'autore dichiara di  voler trattare di ogni specie di movimento, celeste o elementare, animato o inanimato, sostanziale o accidentale, corporale o spirituale – GRICE I’LL MOVE MY ARM TO SCRATCH MY ITCHING HEAD --, egli s'intrattiene più a lungo intorno al moto naturale degl’elementi e dei misti e specialmente alla gravità ROMANA di NEWTON e leggerezza, ritenute con Aristotele e  Averroè forme sostanziali dei corpi, all'azione del cielo, del luogo naturale, del generante e di ciò che rimuove l’impedimento al cadere – GRICE FREE FALL -- o all'elevarsi d’un corpo. Le stesse idee averroistiche che Achillini sostene a Bologna, aveva sostenuto a Padova Pomponazzi, commentando la Fisica. Ad un certo momento il maestro bolognese accenna anche al moto violento  dei proiettili. E come Pomponazzi, sostiene egli pure che il proiettile lanciato movetur a medio  e combatte la tesi dell'impetus difesa dai parisienses cioè da Buridano,  Oresme, Albertuccio o Alberto junior di Sassonia, per non condonderlo con Alberto Magno, e altresì da Inghen, e portata a Bologna da maestro Biagio PELACANI (vedasi) da Parma che  di Sassonia era stato alunno a  Parigi. Seguono altri quesiti intorno ai quattro elementi e alle loro qualità sostanziali. La soluzione di essi è quella averroistica. Ma l'ultimo ha un'importanza speciale per il tempo in cui è posto: Dubitatur utrum terra sit ubique habitabilis. Il problema se l'era  già posto SCHIAVONE, in una diff. del  suo  Conciliator, e l'aveva discusso con ampiezza, ricordando i viaggi di Polo e la  relazione di frate Giovanni cordigliere,  cioè del francescano Giovanni del  Pian del  Car  De  eleni. e specialmente sulla gravità e nerezza Bibl. Naz. di Napoli,  ms. Questio Magistri Petri  Pomponatii de motu gravium et leviiim, quam fecit Magister Petrus dum legeret Physicoriun. Sullo stesso argomento il mantovano ritorna nel commento  alla Fisica, Arezzo, Bibl. Frat. de'Laici, ms., ove combatte la solutio de impulsu que communiter tenetur a parisiensibus De elem. Secunda est opinio Parisiensium. Maier,  Zwei Grundprobletne der scholastischen Naturphilosophie: das Problem der intensiven Grosse; die Impetustheorie.  Roma, e per Biagio PELACANI da Parma  in particolare] pine. Achillini conosce e  cita il Conciliator, ma di mala voglia e senza entusiasmo: Quod autem sub aequinoctiali continue habeantur ficus, aut quod aer sit ibi temperatissimae dispositionis, aut quod aninialia ibi habitantia temperatam habeant complexionem, aut quod paradisus terrestris ibi sit: sunt res quas experientia naturalis nobis NON ostendit. Il che è ben detto pel paradiso terrestre, ma non pell’altre cose ricordate, delle quali 1'experientia naturalis di arditi  viaggiatori e missionari era cominciata d’un pezzo. Il filosofo bolognese, che pur sa qualcosa di ciò che costoro narrano d’aver visto e toccato con mano, senza avere il coraggio di negarlo, si contenta di dire che è cosa che non riguarda i filosofi intenti alla ricerca del perché, bensì gli storiografi cui spetta d' indagare se un fatto è o non è: Pro malori parte veritas illarum causarum ex  historia quia est dante, petenda est; ideo haec historiographis relinquantur, et praesertim de Marco Veneto POLO aut dominico indiano loquentibus. Chi sia questo  Domenico  Indiano N. non sa dire. Ma coloro che parlano e scriveo dell'India e delle terre australi sono più d'uno. Negli anni stessi in cui Achillini compone il De  elementis, s'aggira pell’India e le terre australi Ludovico de  Varthema, che pare, e non senza buon fondamento, fosse oriundo bolognes. Usce per Benedictum Hectoris Bibliopolam Bononiensem  l’edizione dei Quoliheta de intelligentiis, cui l'autore premise dubia sollevati dal conte Rangoni, al quale l'edizione era dedicata, insieme con le soluzioni di essi.  Questi dubia nelle edizioni successive sono stati rimandati in fine dell'opera. Tutti questi  scritti hanno, in complesso, carattere stretta  Che cordelarius in francese cordelier significhi  francescano o  cordigliere, è sfuggito a Sante Ferrari, in quel suo volumaccio, pieno di tanti spropositi, I tempi, la vita, le opere di SCHIAVONE, del quale N. parla a lungoi, e il ove cordelarius è diventato un cognome, Cordellari! De eleni. mente filosofico, se per filosofia s'intende, come s'intende allora, la teoria della natura completata dalla metafisica. Le stesse questioni  De suhiecto physiononiiae et chiromantiae e De suhiecto medicinae, ben poco hanno che riguardi da vicino la medicina propriamente detta. Tuttavia dalle Anotomicae annotationes, pubblicate postume dal fratello si può ricavare che maestro ACHILLINI, il  quale regge una delle cattedre di Medicina  Teorica, fu condotto a discutere di anatomia e di FISIOLOGIA – theoria della natura GRICE.  In queste Annotationes infatti egli accenna più volte ad osservazioni da lui fatte. Lo studio bolognese, da quando Achillini assunse l'insegnamento della Medicina Teorica ha quasi sempre tre maestri deputati ad lecturam chyrurgiae, che di solito aveva per testo fondamentale l’Anatomia del  Mondino, sulla guida del quale si conducevano le dissezioni dei cadaveri o anotomie, che si facevano con speciale messa in scena, pari a quella non meno solenne pella confezione della Triaca. A queste anotomie assistevano maestri e scolari e pell'occasione si sospendevano per otto o dieci giorni le lezioni. Siccome Achillini non fu mai deputato ad lecturam chyrurgiae, è verosimile  che egli, come maestro di Teorica, abbia preso parte a qualcuna delle abbastanza frequenti anotomie tenute negli anni da lui stesso indicati e in altri ancora. Fra i maestri deputati a leggere Pazzini, La scoperta della membrana timpanica, nella  rivista Valsalva scrive. Achillini lesse anatomia a Bologna, ma per breve tempo. Riprende la cattedra. La notizia è inesatta per più versi. Una  cattedra d'anatomia a Bologna allora non esiste. Di anatomia si occupano il professore di Teorica, quando fa lezione su un testo di anatomia, per es. su talune parti del Canon di Avicenna o su alcuni trattati di Galeno ecc., e il professore di chirurgia. Achillini fu sempre professore di Teorica. Oltre  a queste anotomie pubbliche, ve n'erano del resto anche di private che i maestri facevano  per proprio conto, quando ne avevano la possibilità, a scopo d'indagine scientifica. Martinotti, L' insegnamento dell'anatomia a Bologna, Studi e memorie pella Storia dell'univ. di  Bologna, Bologna. Ma l'autore non dà esempi pel periodo d’Achillini né dice che fossero  frequenti. Chirurgia, insieme a Domenico della Lana, che già insegnava da vari anni, e a Biagio de'Mercuri,  ucciso, compare nello studio bolognese la figura di Jacopo o Berengario da Carpi, detto semplicemente il Carpo. Questo illustre maestro, che gode della  protezione d'Alberto  Pio, signore di Carpi, commentando il Mondino,  ha a correggerlo su molti punti, e domina la chirurgia  bolognese del suo tempo, cui apre nuove vie, fino alla sua partenza per Ferrara. A proposito della scoperta del  martello e dell'incudine nell'orecchio medio, gli storici della medicina sono incerti s’attribuirla ad Achillini o al Carpo, e sembrano quasi insinuare che vi fosse rivalità  fra i due colleghi bolognesi. Il certo è che Achillini nelle Annotationes non ne fa cenno; e d'altra parte Carpo, nei Commentaria cum amplissimis additionihus super anatomia Mundini, stampato a Bologna, per Hieronymum de Benedictis. Pridie Nonas Martii, QUANDO IL COLLEGA ERA MORTO DI QUASI NOVE ANNI, trattando nel comm. di questi due ossicini, lungi dall'attribuirsene la scoperta, e informa che sunt aliqui qui volunt quod illa ossicula moveant aerem intra stantem et panniculum praedictum. E anche nelle Isagogae breves et exactissimae in anatomiam humani corporis, lo stesso Carpo torna a parlare dei duo ossicula e delle varie opinioni per intenderne la funzione. Se se ne discute, ed altri avevano opinioni diverse da quella di maestro Jacopo, è segno che questi duo ossicula sono notati da qualche tempo. Forse in qualcuna delle anotomie tenute dallo stesso chirurgo, e alle quali un maestro di teorica, qual è Achillini, non puo rimanere estraneo Giacché è ri-saputo come nel corso appunto di queste anotomie e nelle discussioni inevitabili a cui danno occasione, sono notate discordanze, le quali ogni giorno  crescevan di numero, fra l'esperienza e le trattazioni anatomiche di Galeno, di Avicenna, di MONDINO (vedasi) o di Ugo da SIENA (vedasi), e si venne rinnovando la scienza anatomica. Achillini gode dunque a Bologna della più alta considerazione COME FILOSOFO e come medico e Del resto l'attribuzione di questa scoperta ad Achillini si fa risalire a ciò che ne dicono Eustachio  Rudio e Giulio Casserio piacentino. Pasquali Alidosi, I dottori bolognesi di filos., Bologna, del favore dei Bentivoglio che gareggiavano coi signori di Ferrara e Urbino e coi Medici nel proteggere gli studi, le arti e i begli  ingegni,  Il fratello d’Achillini porta a termine il suo enfatico e strampalato poema  intitolato Viridario, stampato  a  Bologna per Hieronymo di Plato Bolognese, e  dedicato a de Medici Cardinale, bora Leone sommo Pontifice. Il fratello d’Achillini tesse le lodi di Bologna. Prima delle donne e dei gentiluomini illustri, poi degli studi che dan fama a Felsina. Fra i dotti bolognesi due ne indica in particolare. L’uno è Campeggi, giurista di gran fama, che dopo insegnare il diritto a Pavia e Padova, s'era fermato definitivamente a Bologna, a meno che  il fratello d’ACHILLINI non intenda del figlio di lui, Lorenzo, che, insieme al padre, tene la cattedra straordinaria di diritto civile, egli pure giurista di grido e futuro cardinale, cui saranno affidate importanti e delicate missioni diplomatiche. L’altro è Achillini, che il poeta, suo fratello minore, esalta con orgoglio e ammirazione: Dui lumi chiari, ciascaduii divino: lune Campeggio, l’altro ACHILLINI. Di l’una legge e l’altra quel Campeggio, si come e voce e ver, porta corona. Negl’altri studii  ACHILLINI veggio, che theologia sparge in ogni zona. l’alta PHILOSOPHIA laudar non deggio, che fama, e dell’altre arti, il mondo introna. Me glorio, godo, e laudo il creatore che a questo unico son fratel minore. Chi legge e intende l’opre sue superne, dove e insudato, gli  da laudi gloriose e eterne. Hor pensi le  lucubration, calami e lucerne scranno al letto ed al lettor salute. D’un lustro a punto il mezzo camin varca, sei debito farà l’orrenda parca che  maestro ACHILLINI  è DOTTISSIMO IN FILOSOFIA e nell’altr’arti lo sapevamo; ma ch’egli s’è addentrato anche fu anche del consiglio degli Anziani. Catalogus omnium doctoriini collegiatorum in artibus  liberalibus, Bologna, un campo così diverso come quello degli studi di teologia, ci sarebbe facilmente sfuggito, s’il fratello poeta non richiama l'attenzione su questo aspetto della sua cultura. A dir vero, più volte, leggendo taluni dei suoi scritti, N. s’è accaduto d' imbattersi, senza farci troppo caso, in brani che, ben considerati, attestano nell'autore buona conoscenza delle cose teologiche – INDEED EXACTLY AS IN GRICE, WHEN HE SAYS, “I surely can commit to the 39 Articles without ever having read them” --, pari certamente a quella di Bacilieri, il quale,  averroista alla maniera d'Achillini, non esita a dichiararsi pronto, s’il papa l'avesse gradito, a interrompere l'esposizione d'Aristotele e, re-lieto lumine naturali, propositiones creditas magna cum facilitate et  brevitate resolutissimas reddere. Achillini avrebbe dovuto essere presente come compromotore all'esame di dottorato che quel giorno doveno subire maestro Spinola da Modena, che per un biennio era già stato rettore dello studio et optime se habuerat in officio, e maestro Guido da Pesaro. Dove invece farsi rappresentare d’un collega, perché tunc temporis iverat Romam, ut interesset  disputationibus fìendis in capitulo generali fratrum minorum tam observantinorum quam conventualium, grafia sui honoris, studiique nostri ac almae civitatis bononiae. N. dirà quanto basta di questa disputa avvenuta in casa e sotto la protezione di Grimani. Il patrizio veneziano Taiapietra protagonista di questa disputa, al capitolo generale dei frati minori tenuto a Roma, giostra  in  difesa di quell'averroismo sigieriano che Achillini difende durante un altro capitolo generale di francescani a Bologna. L' invito deve essere stato rivolto ad Achillini Nella dedicatoria a Giulio II della lectura de anima di Bacilieri,  Pavia, N.  Sig. d. Brab. nel  pensiero  ecc.. A convincerci della buona conoscenza che ad Achillini non dove mancare delle cose teologiche, oltre ai molti  luoghi nei quali egli mette in rilievo, su vari argomenti, il dissenso irriducibile tra filosofi e teologi, basta ricordare i accenni alla libertà degl’angeli De  orò., dub., alla grazia infusa  {dub.), alla duplice natura  in  Cristo  [De  eleni., art.), al peccato originale e alla giustificazione {art.), alla transustanziazione – GRICE TRANS-SUBSTANTIATION -- e all'identità del corpo di Cristo – GRICE ALMA MATER CORPUS CHRISI -- nel sepolcro e simili. Libro segreto del collegio Mùnster, Achillini, Riv. di Storia delle Scienze Naturali] da Grimani, per desiderio di Taiapietra stesso,  cui dove stare a cuore d'avere al suo fianco, nel pubblico cimento, un maestro di tanta autorità, del quale condivide il pensiero. Però fu un peccato che maestro ACHILINI è assente da  Bologna quel giorno, poiché maestro Bombaxia, priore del collegio di medicina, annota  di suo pugno nel Libro Segreto del Collegio stesso: Et eadem die habuimus opulentam colationem a doctoratis; usanza non del tutto infrequente, e fatta oggetto, a quanto N. consta, anche di speciali norme regolamentari. Achillini, che era priore del collegio, carica già da lui coperta altre volte,  dove provvedere alla sua incolumità personale, all'appressarsi delle milizie papali: Erat enim tunc temporis universa urbs in sagis ob terorem summi pontificis, qui magnis et GALLORVM ET ITALORVM copiis ad eam approperabat, ut urbem suam liberam in liberiorem redigeret; quod sibi sviccessit fuga optimatum bentivolorum, qui tunc ei preerant, suscepta. Come fautore dei Bentiviglio,  egli era fuggito a Padova, mentre nella carica di priore gli era successo maestro de'Genuli. Giulio II fa il suo ingresso in Bologna, e i maestri dello studio andano a rendergli omaggio: Beatissimus sumnius pontifex Iullius papa secundus honorificentissime ingressus est praetorium fori bononiensis, tanquam Dominus benemeritissimus; et nostra collegia iverunt obviani ei pedestres usque  ad mansionem prope positam strale maioris, cum vestibus et biretis rosaceis et banale de variis, et beatitudinem suam associavimus usque ad sanctum petrum. Sic enim consue visse alios collegiatos factitare, a Domino Paris de grassis, Magistro ceremoniarum, accepimus. Fuggito da Bologna, Achillini era accolto come maestro nella seconda cattedra ordinaria di FILOSOFIA NATURALE, a Padova. Ivi appunto lo troviamo come concorrente del Pompo Libro  segreto Mùnster Libro   segreto nazzi che occupa la prima cattedra, come risulta dal titolo dalla reportatio del corso di lezioni che il Peretto Mantovano tenne sul De substantia orbis di Averroè: Expositio libelli de substantia orbis ex. mi ac tempestate nostra naturalis philosophiae luminis Magistri  petri pomponacci Mantuani. Patavij. dum  primum locum ordinariae philosophiae, ad concurentiam ex. mi ACHILLINI bononiensis, publice profìteretur. Sebbene Facciolati pretende di sapere che maestro ACHILLINI era stato professore a Padova, e che ha per antagonista – GRICE WARNOCK GRICE STRAWSON GRICE PEARS GROCE THOMSON GRICE AUSTN JOINT SEMINARS GRICE QUINTON Pomponazzi, la notizia è smentita dai rotuli bolognesi e dagl’altri documenti del COLLEGIO DELL’ARTI che danno presente a Bologna Achillini ininterrottamente. Invece è certo che il mantovano ha a concorrente, quando  ritorna a  Padova, l'alunno e socio – GRICE STRAWSON PUPIL COLLEAGUE COLLABORATOR – d’Achillini,  Bacilieri,  lino alla partenza di lui per Pavia, e, partito  questo,  Fracanziano. Prima dunque che con Achillini, Pomponazzi s'era scontrato col di lui fido Achate, che del suo Enea non era per altro che una pallida e sbiadita ombra. Soltanto dunque Peretto si trova ad  avere per concorrente Achillini, del quale già conosce il pensiero. Ma a giudicarne dal contenuto dell' Expositio libelli de substantia  orbis, i dissensi fra i due, per quanto senza dubbio notevoli, non paion tali da dover degenerare in risse. Anzi, non ostante i dissensi, vi sono nell'esposizione pomponaziana molte pagine che il bolognese avrebbe potuto sottoscrivere a piene mani. Così, per esempio, quando il mantovano combatte la teoria avicenniana della forma corporeitatis coeterna alla materia; o quando tratta della  dottrina averroistica delle dimensiones interminatae anteriori ad ogni forma corporea; o quando nega con Averroè che le sfere celesti siano animate d’un'anima sensitiva, distinta dall'intelligenza motrice, come pretende ugualmente Avicenna. Anche  sul Cod. Vat.  Regin. lat. grosso problema An caeluni sit compositum ex materia et forma, Pomponazzi si sforza di mostrare come le  varie opinioni in contrasto si possan difendere e come si possan risolvere gl’argomenti che ad ognuna s’obiettano. Il suo  aristotelismo e il suo averroismo insomma non hanno la rigidità intransigente del pensiero d’Achillini. Col quale il mantovano era in sostanza d'accordo anche nel dubitare della dipendenza delle intelligenze e dei corpi celesti dalla causalità efficiente del primo  motore, e altresì della infinità intensiva del vigore col quale questo muove l'universo. La vera e profonda differenza fra l'uno e l'altro maestro, trovatisi di fronte a Padova, è questa. Achillini accetta integralmente l'interpretazione averroistica d'Aristotele, anche là dove altri aveva visto discordanze fra il testo e il commento e nel pensiero stesso d'Averroè nota non poche contradizioni,  onde le molte opinioni sul vero pensiero dello stagirita e le diatribe fra gli stessi averroisti, ciascuno dei quali aveva in serbo il suo modo di risolvere quelle discordanze e contradizioni. Quello del bolognese rappresenta uno dei sistemi più coerenti d'interpretazione del pensiero d'Aristotele, dal punto di vista rigidamente averroistico. Per mezzo di sapienti accorgimenti logici, suggeriti  dalla più scaltrita arte dialettica, per via d’impensati ravvicinamenti di testi e di sottili distinzioni, le contradizioni spariscono, i contrasti sono conciliati, le obiezioni mosse dai dissenzienti risolte, le dubbiezze dissipate. Di guisa che il sistema aristotelico- averroistico, costruito con procedimenti deduttivi che mentre scimmiottano quelli della geometria in realtà si risolvono in una  caricatura del metodo matematico, ostenta una compattezza in tutte le sue parti, sì da dare l'illusione della raggiunta certezza, in cui l'animo si quieta e non sente più l'acre puntura del dubbio. In questa superba convinzione d’essere ormai arrivato al segno che si tien gran miracol di natura, e prossimo alla copulatio coll'intelletto agente, Achillini non aspira orm.ai ad altro che ad  assomigliare ad Aristotele, del quale dice con Averroè: qui divinus potius quam humanus; quoniam  a  M. D. annis cifra non est inventus error in eius dictis alicuius momenti; naturae enim consiliarius extitit', De phys. auditu. A Pomponazzi, al contrario, questa balda sicurezza dell'infallibilità d'Aristotele e d'Averroè era venuta meno. Egli non soltanto afferma quod Aristoteles non fuit  deus et ipse non novit omnia, ed ugualmente quod Commentator erravit neque ipse est deus, ma spesso dichiara di non riuscire a intenderli, che preferirebbe esser discepolo che non maestro, talvolta anzi non esita a qualificare pazzesche, dal punto di vista della stessa ragione umana, le loro dottrine. Ma il più spesso, da quell'uomo faceto che  era, più che incaponirsi a dissolvere gli  argomenti dei suoi avversari, cosa non facile senza accettarne taluni presupposti, il che l'avrebbe condotto ad invischiarsi in un perpetuo circolo vizioso, senza via d'uscita, preferiva motteggiare con essi e svignarsela con qualche piacevole e magari salace barzelletta. Esempi: stava esponendo il De cado, e precisamente il commento averroistico al  testo, là dove si pretende di poter  dimostrare con arzigogoli sillogistici che il mondo non potuisset esse nec maior nec minor, secundum philosophos, perché esso ha d’esser proporzionato alle dimensioni dell'uomo, cum mundus sit propter hominem. Questo modo d’argomentare stuzzica LA VENA UMORISTICA ldel Peretto: Modo, si mundus esset maior, homo non posset vivere; nam si haberetis thalamum maximum,  non possetis vivere, quia ibi esset nimis frigus. Unde si Sanctus Petronius esset in decuplo maior, organum, quod nunc habetur, non posset sentiri per totum. Similiter, si mundus esset maior, sol esset nimis parvus, et sic non posset calefacere, et sic corrumperetur homo. Similiter, si esset minor, nimis sol calefaceret, et ita non possent esse plures celi. Mundus ergo non potest esse maior  neque minor; et est sicut dicebat illa bona mulier, quod virga bene manebat in vulva sua, et quod virga non oportebat quod fuisset nec maior nec minor, nec grossior nec subtilior, nec curtior nec longior; ita quod era, ut dicitur, a punto. Et hoc respondent fatui philosophi ad istam dubitationem. E perché, mentre il moto violento dei proietti è più intenso da principio e poi va rallentando,  il moto naturale dei gravi e dei leggieri est in fine velocior? La ragione ve la dà Averroè Arezzo, Bibl. Laici Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Arezzo, ms. Parigi, ms. lat. Parigi ms. lat. Et ponit conimentator huius rationem: v. gr., grave descendens in fine velocius est quam in principio, quia confortatur ex desiderio finis et termini; ideo intenditur desiderium, et intento desiderio intenditur  virtus motiva et motus. Exemplum do vobis: quando vos itis ad amicam et appropinquatis illi, antequam figatis priapum, vos mandate fuor el seme in sulle cosce. Similiter, quando aliquis est clericus, non desiderat papatum; sed quando incipit liabere sacerdotia magna, incipit desiderare episcopatum, postea cardinalatum, et tunc, quando est cardinalis, magnopere papatum desiderat,  quia illi est propinquus. Et ita dicit commentator. Commenta il primo delle Meteore, e precisamente il capitolo della  pioggia, della rugiada, della grandine, della neve e della brina. Seguendo passo passo il testo aristotelico e prendendo in esame le varie opinioni così poco convincenti intorno alle cause del riscaldamento e raffreddamento, della siccità e dell'umidità, esce in queste  dichiarazioni: Ego multos annos consideravi ista, et ex toto mihi non satisfacio, et volo addiscere 2as dubitationes quas nescio solvere, et solutionem relinquo istis meis sociis qui cenant cum deo et omnia sciunt. Domini, ego dico vobis sicut dicebat Petrarca: Così ben io potessi con lingua exprimere quaelibet mente concipio. Domini et filij mei, dicam vobis veruni: certe quo ad nostrum saeculum, multum laudo fratres sancti Hieronymi, id est li lesuati, quoniam non student et nihil faciunt nisi dicant Pater noster et Ave Maria. Et ita contenti vivunt et sine molestia. Et  quantum ad alium saeculum, magis laudo, et mallem habere conditiones Socratis, qui ad hoc devenit et dixit hoc: Unum scio quod nihil scio, quam conditiones Aristotelis, quem credo quod multa finxerat  se scire, quae tamen ipse ignoraret. Dico vobis quod ista nescio solvere. Solvant qui continuo prandent cum deo qui habent intellectum adeptum. I soci che pranzano e cenan con Dio e san tutto, sono evidentemente quegl’averroisti che, come Achillini e Bacilieri, ritenevano fosse concesso al filosofo di giungere, in questa vita, al termine dello sviluppo filosofico e al congiungimento coll’inteletto agente, nel quale consiste il pieno appagamento del desiderio umano di sapere. Giovio si trovava a Padova discepolo del  Peretto, quando questi ebbe per concorrente  Achil Parigi, ms. lat. lini  fuggito da Bologna; sì che quello che egli racconta dell'uno e dell'altro è testimonianza di quanto ebbe ad osservare. Al grande cacciatore d’aneddoti non pare vero di tramandarci qualche fugace impressione, colta a volo, intorno ai personaggi del tempo, nei quali s'era imbattuto. Egli infatti niente ci dice dell'insegnamento d’Achillini a Bologna. Ce lo rappresenta a Padova, averroista che gode fama di solido e ben digesto sapere, mentre Pomponazzi, astioso rivale, mosso d’ambizione, gli vuota la scuola. Un po'trasandato nel vestire e nel portamento, ma con  fronte sempre raggiante, sicuro di sé, eccolo là al portico pretorio, nel circolo dei dotti, mentre nel rozzo gergo scolastico affronta l'avversario e cerca d' irretirlo entro le maglie dei suoi bifronti e cornuti entimemi. E talora sembra averlo abbattuto col vigore delle sue stoccate. Ma il più delle volte quello sfugge alla presa del’armi dialettiche, l'impeto dei colpi vibrati cade nel vuoto,, stornato d’una facezia o d’un motto salace, salsa dicacitate, che suscita, in chi assisteva a quelle giostre di sillogismi, le più scroscianti RISATE – GRICE IF I FEEL I NEED VALUE I HAVE VALUE --. Laughter in philosophy, not at philosophy. Negli anni del soggiorno padovano Achillini attese a riunire in un sol volume le opere che aveva stampate separatamente a Bologna e che  abbiamo elencate fin qui. La prima edizione degli Opera omnia fu fatta a Venezia a spese degli eredi di Scoto. Essa comprende i Quolibeta de intelligentns, il De orbibus, il De universalibus,.il De elementis e le questioni De principiis chiromantiae et physionomiae,  De potestate syìlogismi e De subiecto medicinae Capparoni, Profili bio-bibliografici di medici e naturalisti celebri italiani  Roma, dice  addirittura che a Padova Achillini ha a soffrire l'invidia di Pomponazzi col quale sostenne non lievi dispute, avendolo ad avversario poco cortese e corretto. Tutto questo mi pare che aggravi un po'troppo il racconto  di Giovio Giovio,  Elogia virorum literis illustrium. Basilea. In questa edizione dell'opera di Giovio si trova quel ritratto d’Achillini che Mlinster riproduce di seconda mano, dichiarando di non sapere donde provenga. Un ritratto del filosofo bolognese Giovio possede nel suo museo a Como. Una copia d’esso, se non proprio l'originale, si trova nel ballatoio della sala Fagnani presso la bibl. Ambrosiana  di Milano, somigliante all'immagine degl’Elogia. Altro ritratto d’Achillini è posseduto dal museo dell'università di Bologna. La dedica al   Bentivoglio naturalmente fu omessa. La partenza di questo insigne maestro lascia un gran vuoto nello studio bolognese, e l’autorità accademiche, che non riuscivano a colmarlo, lo sollecitarono a ritornare sulla sua cattedra, minacciandolo dell'ammenda di cinquecento ducati d'oro e di pene anche più gravi, ove non avesse ottemperato all'ordine Così egli fa ritorno in patria, ove riprese  la sua attività  normale di dottore del collegio dell’arti, e l’insegnamento della  filosofia  naturale; tanto poco il nuovo regime papale si preoccupa dell'opposizione che avrebbe potuto venirgli dalla filosofia. Al periodo del ritorno a Bologna appartiene il De distinctionibus, edito quivi, per Ioannem Antonium de Benedictis L'opera concerne i concetti trascendentali di ente – GRICE MULTIPLICITY OF BEING -- , uno, vero – GRICE TRUTH -- , buono – GRICE GOOD PROLEGOMENA, e quelli di  essenza – GRICE IZZING HAZZING,  di cosa, di identico – GRICE RELATIVE IDENTITY --e  distinto,  della  distinzione reale e della distinzione  concettuale, delle formalità scotistiche, della relazione e dei suoi fondamenti,  dell'analogia – GRICE POMPONAZZI VIRGA IN VULVA MAGNITUTE MONDI -- e  dell'uso di questi concetti; di guisa che la trattazione ci dà, di scorcio, un sommario di tutto il pensiero metafisico d’Achillini intento a salvare e a conciliare la dottrina d'Averroè con quella dei maggiori – NON MINORI GRICE BOSANQUET WOLLASTON -- maestri.  Come Da una lettera dei Quaranta riformatori  dello studio bolognese, pubblicata da Podestà, Di alcuni docum. ined. riguardanti  Pomponazzi,  Atti e Mem. della R. Deput. di Storia Patria pelle provincie di Romagna, Bologna, appare che i riformatori avevano già prima fatte le loro rimostranze, perché  s'era  assentato senza licenza. Achillini s'era scusato cum dire che ne fu concessa hcentia dal  M. co Sr. Confaloniero d' Justitia  e  che senza di ciò non sarebbe mai partito. Ma i Quaranta repUcarono che la licenza non era stata né richiesta né concessa nella forma valida. Perciò s'affrettasse a far ritorno, se non voleva esser multato di 500 ducati  d'oro o colpito con altre gravissime pene nelle quali incorrono li nostri doctori che partono da Bologna SENZA LICENTIA per andare a legere fora nelli externi studi.  Tuttavia  l'AchiUini  non  ritornò che  un  anno  dopo.  Nel  Lib.  Partitorutn  (Arch.  di  Stato  di  Bologna,  si  trova  che  con  19  su  19  fave  bianche I conduxerunt Ex.m Artium Doctorem, D. M.m Achilinis ad legendum in STUDIO BONONIE col salario di  900  lire bolognesi, integre e privilegiate, e alla condizione di leggere teorica ordinaria al mattino e FILOSOFIA ORDINARIA la sera. La formula conduxerunt vuol dire che si tratta di un nuovo ingaggio. maestro di teorica, commenta  la  prima  fen  del  IV  libro  del Canon  d’Avicenna. Ripreso il corso delle lezioni, egli si  dette a esporre il De physico auditu di Aristotele. Ma l'esposizione è interrotta dagli eventi bellici. È noto come il grande capitano Trivulzio, al servizio del re di Francia, riprende BOLOGNA al papa e come ri-apre le porte al ritorno dei Bentivoglio. Ma Giulio  II,  fatta lega, non tarda a usare dei servigi delle truppe PER FAR BOMBARDARE BOLOGNA e ridurla all'obbedienza della chiesa. Sorpreso dagl’avvenimenti, il maestro continua a far lezione finché gl’alunni, per fuggire all'assedio, non disertarono lo studio. Penetrato di sorpresa in città Foix obbliga a SBLOCCARE BOLOGNA. Ma dopo la battaglia di Ravenna, PERDUTO L’APOGGIO FRANCESE, i Bentivoglio dovettero di nuovo prendere  il largo. Com'era suo costume, Achillini fa volentieri a meno di pubblicare questo frammento d’esposizione del De physico auditu. Ed infatti egli non mai pubblica nessun commento a scritti d'Aristotele o d'altri, bensì trattazioni originali sebbene ispirate al pensiero d'Aristotele e d'Averroè. Perciò sorprende N. assai quello che Miinster scrive degli  Opera  omnia  nell'edizione curata  dall'autore stesso: Si tratta in gran parte d’opere d'Aristotele, d’Alessandro Afrodisiaco, d'Averroè ecc. provviste di commenti d’Achillini. Ma ch'egli, non che scorsa, non ha mai visto in faccia questa edizione, è provato dal  fatto Nel cod. Latino, BOLOGNA, si trova, tra altre cose d’Achillini, una expositio supra prima Avicennae Frati, Indice dei codici latini conservati nella R. Bibl.    Univers. di Boi., Firenze Fantuzzi, Notizie dei bolognesi, dice, senza per altro citare la fonte, come tenendosi una radunanza di teologi, di dottori legisti e d'altri uomini insigni, per consultare se si dovea ricevere il legato proposto a BOLOGNA dal conciliabolo di Pisa, cioè  il Cardinale San Severino, fatto legato di quella radunanza e governatore di BOLOGNA, gl’aderenti a' Bentivoglio sostenevano l'affermativa, e fra essi Achillini piià d'ogni altro aringo con grande arte ed impegno per sostenerla. E se non potè ottenere l' intento, ne venne però, che fu determinato di non ricevere né questo né quello destinato allora da Giulio. Riv. di  St. delle Se. Med. e Naturah che fra le opere incluse in questa edizione pone il De physico auditu, e il De niotimm proportione. Achillini,  dunque, per sua esplicita dichiarazione, non pensa affatto a dar in luce una nuova esposizione dell'opera aristotelica, parendogli che bastano quelle latine che correvan pelle mani di tutti. In ciò fu imitato da Pomponazzi, che non pensa mai a dare alle stampe alcuno dei numerosi commenti ad Aristotele, lasciati inediti nelle riportazioni dei suoi alunni. Quello che decide il bolognese a desistere dal suo proposito, è quanto egli stesso scrive in principio del frammento: Fugeram olim Peripateticorum principis Aristotelis librorum interpretationes notis mandare, quoniam expositores Latini evolvere ipsos cupientibus textum  AristoteUs piane aperuerunt. Difficultates autem circa sententias Aristotelis et Averrois contingentes, ex libris a me editis non difficile erat  comprehendere. Sed quia varii auditores varia fragmenta philosophica, me legente, varie collegerant, et me inscio meo nomine publicaverant, non passus sum ut, quae nostra non erant, prò nostris haberentur. Ideo coactus sum haec scripta, tum apponendo tum variando tum rescindendo, diligentius repurgare, ut ipsa, manu propria elaborata, proprium auctorem recognoscerent. E alla  fine dell'opera: Hucusque nos prosecuti sunt audientes. Quod si amplius durassent, noster labor longior fuisset. Et haec nostra recognoscens, fragmenta esse voluissem, sed fractionum fragmenta sunt, quoniam eis comminutiva fractio supervenit,  BONOMIAM armis impetentibvis et moenia machinis deicientibus. Per giocondità del lettore N. aggiunge che nel volume della Storia  dell'università di BOLOGNA di SIMEONI (vedasi), Zanichelli, Bologna, si legge che Achilhni, Achillini, Expositio primi Physicoriitn. E infine: Expli ciiint fragmentorum fractiones physicales ab Alex. ACHILINI  BOLOGNA ordinariam theorice de  mane publice docente. Impresse per Hieron. de Benedictis civem BOLOGNA. Questa avvertenza è stata omessa nell'edizione degli  Opera omnia curata da Monti, e nell'edizione di Monti,  se non scopritore, è almeno il  primo descrittore degl’ossicini dell'orecchio nel suo De physico auditu. Con che Simeoni pare credere che in questa opera Achillini S’OCCUPA DELL’ANATOMIA DELL’ORECCHIO! E questa dove essere un'opinione ben radicata in SIMEONI, se anche poche pagine dopo scrive che il bolognese  è celebre tanto COME DIALETTICO quanto come anatomico e medico, e che le opere che d’ACHILLINI possediano che trattano tanto De universalibus come De physico auditu, mostrano questo doppio  carattere. Ora nel De physico auditu non si parla affatto di cose attinenti all'ANATOMIA – GRICE THE CAUSAL THEORY OF PERCEPTION --, bensì di quello di cui Aristotele  parla in quest'opera e, fra l'altro, anche degl’universali, ma dell'organo dell'udito proprio no. Un'altra opera composta d’Achillini lasciata inedita è il De proportione motuum. L'argomento riguarda il rapporto che Aristotele nella fisica stabilisce tra la forza, la resistenza e la velocità del  movimento, e il  tentativo da parte di Bradwardine, Oresme ed altri calculatores – GRICE MERTON -- di  tradurlo in un rapporto matematico o SIMBOLICO – AUSTIN SYMBOLO.  Le dottrine di costoro, portate in Italia da PELACANI (vedasi) da  Parma, Parisius  doctoratus, suscitano vive controversie tra coloro che accettano la novità delle calculationes e gl’averroisti che alle nuove dottrine sono piuttosto ostili. Achillini si mostra pienamente informato dello stato della questione, allora dibattutissima anche a Padova e Bologna. Conosce e cita il commento di Campano alla geometria d’Euclide, l'arimmetica di Nemore, i trattati calcolatori di Bradwardine, Swineshead, Heytesbury, Oresme, Alberto di Sassonia, NICOLETTI,  Marliani in sua quaestione subtili de proportionibus, insomma tutta la letteratura dell'argomento, che noi oggi ben conosciamo attraverso  le dotte e dihgenti ricerche di Maier. Intento del maestro bolognese è quello di salvare le regole delle proporzioni formulate d’Aristotele ed Averroè  nella fisica e d’accordarle colle teorie calcolatorie, a differenza di quello Die Vorlàufer BONAITUO GALILEO GALILEI  Roma; An der Grenze von Scholastik u. Naturwissenschaft, Roma che pensa potesse farsi, pochi anni dopo la  morte di lui, Pomponazzi. L'opera non potè essere pubblicata dal filosofo bolognese perché prevenuto dall'improvvisa morte. Hain registra quest'opera d’Achillini col titolo De distyibiitionihus ac proportione motuum, e la dà stampata a Bologna, per Benedictum Hectoris. Ma il gesamtkatalog dichiara l'esistenza di questa edizione zweifelhaft. N. la direi semphcemente INVENTATA. Per due ragioni. Primo, perché nell'opera sono citati il De orbibtis e il De elementis, sicuramente posteriori. Secondo, perché il fratello Filoteo che ne cura l'edizione postuma, la dà come inedita, nella dedica a Leone. Itaque ACHILLINI ipsius auctoris nomine quando ipse funere praeventus acerbo non potuit ea sanctitati tuae nuncupatim dico. Ma, coll'animo profondamente amareggiato per gl’avvenimenti che turbano la serenità dello Aliqui ergo ducti inani gloria voluerunt salvare Aristotelem; Inter quos fuit Marilianus, qui construxit tractatum in quo intendebat salvare Aristotelem; et aliqui fecerunt tractatum centra Marilianum. Et totus mundus apud me non salvaret Aristotelem, et Aristoteles sibimet contradicit, et videbitur aperte errasse, et una regula alteri  contradicit. Fortassis enim quod decipior; sed iudicabitis vos per dieta Aristotelis, quod non potest salvari. Aristoteles etiam fuit homo et decipi potuit, sicut etiam possibile est me decipi. Pomponazzi, In  ynm. Phys., ms. aretino, Bibl. de' Laici. Giunto alla fine della sua riportazione, l'alunno, che dal cod. della Kungl. Biblioteket di Stoccolma Giom. Crit.  Filos.  It. appare essere quel  Magister Hieronymus Bonus o de Bono, da Bologna, laureato in Artibus et Medicina Libro Segreto del Collegio, annota:  P ribadire la scoperta di Mondini, che l’altre pretese opere anatomiche non erano che una sola, pubblicata con titoli diversi nelle varie edizioni, e per correggere l'errore accolto anche da Renzi, pur così informato. Tuttavia, N. non  ha voluto prestar fede neanche al  Mondini e a Medici, e ha voluto  rer.  L.  e,  Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia Fantuzzi dersi conto de visti della curiosa vicenda. N. così constata che la prima edizione è quella che vide la luce a Bologna, a cura del figlio d’ACHILLINI, col titolo d’Anotomicae annotationes, nella stamperia di Benedetti, con dedica a Monti, che di maestro ACHILLINI era stato alunno, ed ora tene la  cattedra ordinaria di medicina teorica, BONONIENSIS GYMNASII splendor immortalis, nientemeno! Questa dedica ha nel frontispizio la ben nota xilografia, sormontata dal  nome ACHILLINI; sotto il ritratto d’ACHILLINI, tre distici di Camillo da Correggio, artium discipulus. La dedica pare escludere che vi fossero edizioni anteriori. La stessa opera, col titolo De humanis corporis  anatomia, usce a  Venezia,  per Io. Ant., et fratres de Sabio, colla stessa dedica del figlio d’ACHILLINI a  Monti. Terza stampa della stessa opera è quella che  apparve  nel FascicuUts medicinae  di de Ketam,  ediz. veneziana per Caesarem Arrivabenum. In questa edizione l'opera d’Achilhni forma un trattato della raccolta,  subito dopo l’anatomia di Mondino, e porta questo titolo:  Annotationes anathomie ACHILLINI honon.; ed anch'essa ha la dedica a  Monti. Dell'edizione di  Venezia, in  fol.  secondo Capparoni,  in    secondo Hirsch, nessuna traccia, sebbene altri la ricordino per sentita dire. Delle edizioni posteriori N. non si occupa. Il colmo in questo pasticcio pseudo erudito è raggiunto da Miinster il quale, dopo parlare della prima e della seconda opera  secondo l'ordine di Capparoni e di Hirsch, aggiunge di suo che le annotai, anatomicae pare non siano un nuovo trattato, bensì l'unione delle due precedenti! Esempio tipico N. non sa se di disinvoltura o d'improntitudine letteraria, da parte di troppi filosofi, avvezzi a copiacchiare come scolaretti e a spacciare per certo quello che hanno appreso soltanto per sentito dire. Curioso è il caso  di Pazzini. Nello studio già segnalato, sebbene parla di scritti anatomici, egli con questa espressione parrebbe tuttavia intendere le sole Adnotationes anatomicae che nel Fascicuhis medicinae di Ketam sarebbero state pubblicate, dice PAZZINI (vedasi),  col titolo in Mundini Anatomiam adnotationes. Invece nella storia della medicina, Soc. Editr. Libr., Milano, Queste Anotomicae  annotationes che il maestro bolognese lascia tra le sue carte, non costituiscono propriamente un'opera d’anatomia umana da dare alle stampe, ma lo schema forse d'un'opera che egli anda preparando e pella quale raccoglie osservazioni che gl’era accaduto di fare nel corso di diverse dissezioni anatomiche predisposte da lui stesso o insieme ad altri colleghi. Queste dissezioni avevano lo  scopo di riconoscere nell'organismo umano quello che si legge in Galeno o in Avicenna,  in Mondino o in Ugo da Siena. Nel corso di queste ricognizioni accade talora ad Achillini di notare errori commessi dagl’anatomisti precedenti, e discordanze fra quello che legge negli scritti di costoro e quello che gli rivela l'esperienza. Spesso egli ha cura di descriverci il procedimento col quale  egli conduce la dissezione, e di suggerire il modo più adatto per mettere a nudo, senza lederlo, quell'organo o tessuto che si ha in animo di studiare. L'opera è semphcemente abbozzata. Ma anche in questo  stato, essa costituisce un notevole documento di quello che s'anda maturando nelle scuole di chirurgia. Mentre le rumorose dispute intorno al modo d'intendere i testi classici  dell'anatomia recano assai scarsa luce per una esatta rappresentazione della struttura dell'organismo umano, gì'impetuosi torrenti di parole s'arrestano, le ire si placano, quando gl’occhi dell'anatomista e di coloro che gli facevan corona nell'anfiteatro, si fissano su quello che il coltello mette a nudo, e la luce dell'esperienza rivela qualcosa di nuovo e d' insospettato. Il che del resto avvenne,  non solo nel campo del coltello e dell'anatomia, ma nel campo del telescopio, e del microscopio, e in tutte le ricerche concernenti la natura, e non per influsso dell'umanesimo e del platonismo dell’ACCADEMIA, ma per un processo di critica interna, quasi dirai N. di autocombustione, in seno alle scuole darivate dal LIZIO.  BONAIUTI Galileo GALILEI stesso vien dall'aristotelismo e del LIZIO in via di dissoluzione. Il ri-nascimento è frutto dell'approfondirsi e dell'estendersi dell'esperienza in tutti i campi del sapere  naturale. Com'è noto, Monti, mentr'era professore vedo che è ritornato all'errore di Capparoni e Hirsch. S’avesse dato un'occhiata alla memoria di Mondini e all'opera di Medici, oltre alla correzione di questo errore, v’avrebbe trovato forse qualcosa che poteva giovargli anche pell'argomento da lui trattato, riguardante la scoperta della membrana timpanica.] a Padova, raccolse in un volume gli Opera omnia d’Achillini, cioè tutte l’opere che il maestro bolognese stesso da alle stampe, più il De proportione motuuni; e il volume, edito da Scoto a Venezia, fu dedicato al patrizio veneziano e chiarissimo filosofo Foscarini. Perché ne lascia fuori l’Anotomicae a?inotationes? Non certo perché egli non le ritenesse autentiche; ma verosimilmente perché gh parvero, come sono, opera frammentaria, piii schema e materia di opera che opera completamente delineata; o forse anche perché quelle note gli parvero ormai sorpassate e di scarso valore, dati i rapidi progressi  che l'anatomia in quegli anni anda facendo. Sì che agli occhi dell'alunno editore l'opera dell' Achilhni degna d'essere presa ancora in considerazione e tramandata e meditata era opera di filosofo. E questa sola egli intese tramandarci con l'edizione da lui curata. Con le Annoiationes Monti trascurò altresì gì'inediti che non dovevano mancare sia tra le carte del maestro, o dispersi in  riportazioni di scolari.  Se ora ci chiediamo quale è stato il giudizio complessivo degli storici sull'opera globale dell'Achillini, dobbiamo constatare, anzitutto, che troppi son coloro che ne hanno parlato per sentito dire. E questo tanto tra gh storici della filosofia quanto tra quelli della medicina. Di costoro evidentemente non è da tener conto. Come non è da tener conto di giudizi come  quello di Munster, il quale da ciò che dell'Achilhni narra a modo suo Giovio, è indotto a rappresentarcelo come schizzoide! Il primo che  parla dell'averroista bolognese dopo averne scorse le opere, se non tutte, almeno i Qitoliheta de intelligentiis, fu, tra gli storici della filosofia, FIORENTINO nel suo POMPONAZZI. E a quel che ne dice allora l'onesto Fiorentino si rifanno su per giù  gli storici posteriori, trascurando però taluni giudizi di questo e altri esagerandone fino a renderli irriconoscibili. Che Achillini fosse un averroista, tutti a un di presso s'accorsero; ma 1^4  Tuttavia l’Anotomicae annotationes non furon mai del tutto dimenticate e il nome d’Achillini vien ricordato d’anatomisti posteriori, anche quando le sue opere filosofiche sono ormai cadute del tutto  in oblio.  L.  e,  p.  se averroista di più o meno stretta osservanza pare dubbio. La tesi che l'intelletto possibile, forma immateriale e incorruttibile, infima dell’intelligenze celesti, è unica per tutta la specie umana, è certamente tesi averroistica. Ma pare a Fiorentino che il bolognese si discosta dallo schietto averroismo, perché questo ritene 1'intelletto forma assistente e non informante  dell'uomo, Achillini invece ammette che l’intelletto umano, pur essendo unico per tutta la specie, è vera forma informante che dà all'uomo il suo essere d’uomo. Se non che lo storico calabrese non pare s'accorgesse che con questa seconda tesi, senza rinnegare la prima, la dottrina averroistica non era affatto parzialmente abbandonata, ma anzi approfondita; e che, grazie a questo  approfondimento, venivano a cadere tutte o gran parte di quelle obiezioni che si facevano alla tesi averroistica, di spezzare l'unità del soggetto umano cui s'attribuisce l'atto d' intendere. E già prima, Sigieri e Wilton, NICOLETTI e  Pico, coetaneo del bolognese, interpretano il pensiero d'Averroè alla stessa maniera; e questo non per motivi di fede, ma per eliminare dalla dottrina  aristoteUco-averroistica un assurdo evidente sul quale speculano gl’avversari dell'averroismo; tanto vero che l'anima razionale che vien detta informare l'uomo, resta in sé unica per tutta la specie umana. Non è pertanto esatto l'affermare che ogni seguace d'Averroè ritene l' intelletto forma assistente dell'uomo e non forma dans esse. Fiorentino è stato colpito anche d’un passo del De  eiementis, ove si parla dell'unione dell' intelletto coll'anima sensitiva dell'uomo, e dove Achillini torna ad esporre con nuovi particolari la sua dottrina sigeriana esposta nei Quolibeta de intelligentiis. Ad un certo momento si domanda: Quomodo stat opinio Aristotelis cum fide? giacché tanto l'interpretazione che dà del pensiero dello Stagirita Averroè, quanto quella che ne dà Alessandro  d'Afrodisia, secondo la ragion naturale, discordan dall'insegnamento della fede. E il nostro averroista risponde: Il fatto ch’entrambe discordin dalla fede significa che tutte e due son false, e che su questo punto, come su altri non pochi, bisogna che noi credenti abbandoniamo il filosofo. Ma dovendo scegliere a lume di ragione tra quelle due interpretazioni, entrambe false, quella che ha I miglior verisimiglianza, sceglieremo quella d'Averroè, perché, sostenendo questi che l'anima è forma informante che dà all'uomo l'essere di uomo viene a dire che l'intelletto, nell'atto d’unirsi all'uomo, termina il processo della generazione umana e quindi ha in qualche modo un cominciamento nel tempo, come appunto insegna la fede. In tutto questo N. non vede né incertezza né  spossatezza da parte d’Achillini. Né tanto meno che egli si senta spinto ad accettare l'averroismo dopo averlo dichiarato falso. L'opposizione tra molte tesi difese d’Aristotele e la verità cristiana è comunemente ammessa, da quando Alberto Magno proclama che theologica cum physicis principiis non conveniunt, e che al filosofo che voglia trattare delle cose naturali secondo i principi  della ragion naturale non deve importare dei miracoli della fede. È vero che AQUINO, combattendo l'interpretazione averroistica del pensiero d'Aristotele, s'è adoprato ad accordar questo col pensiero cristiano. Ma questo concordismo d’AQUINO non è parso né di buon gusto né di buon augurio, non solo ad averroisti come Sigieri, discepolo in questo d'Alberto Magno, ma nemmeno  ad alcuni teologi che si ribellano al tentativo de Aristotele haeretico facere omnino catholicum. E molti, non solo maestri in artibus, ma anche teologi e commentatori delle sentenze  di Lombardo, ritennero perfettamente fondata sul testo aristotelico e legittima l'interpretazione averroistica, salvo quando questa discorda da quella d’altri commentatori autorevolissimi, come Alessandro,  Filopono od altri specialmente greci. Ora ai tempi d’Achillini e Pomponazzi, a BOLOGNA come a Padova, è obbhgo di leggere e discutere il testo aristotelico E il commento d'Averroè. Averroisti si diceo tutti quelli che, rifiutando il concordismo d’AQUINO, d' ispirazione avicenniana, mostrano ripugnanza a miscere diversa brodia, e, per quello che concerne il pensiero aristotelico, s'attenevano al commento averroistico. Il che non implica Fiorentino Metaphys., De gen. et corr. Rivista di Storia d. Filos. affatto che essi dove accettare le dottrine d'Aristotele quali sono esposte d’Averroè come loro proprio pensiero. Gl’averroisti potevano quindi con perfetta coerenza dichiarare che la dottrina dell'eternità del mondo e dell'unità dell'intelletto è dottrina vera e necessaria  nel sistema del pensiero aristotelico, ma che questa dottrina è falsa secondo la fede che s' ispira all’angelo e non ai libri d'Aristotele. Il che è perfettamente vero anche per noi, dice N. Questo non hanno ancora compreso taluni storici della filosofia. Uno dei quali, dopo aver detto che enger an dem averroistischen Aristotehsmus schloss sich ACHILLINI an aus BOLOGNA, war  PROFESSOR der philosophie, zuerst in Padua (!), in Bologna, wo er starb, aggiunge: So weit Aristoteles von dem christlichen Glaubensstandpunkt  z. B. hinsichtlich der Schòpfung der Welt abweicht, ist er ini Sinne der Kirchlichen Lehre zu korrigieren. Il qual giudizio vien trasportato di sana pianta nella massiccia storia della filosofia d’ABBAGNANO, U.T.E.T. In realtà la  preoccupazione d’Achillini costante è quella di correggere la dottrina aristotelica nel senso dell'insegnamento  ecclesiastico. Ma egli v'aggiunge qualcosa di suo, che  aggrava Ueberweg-Moog, Die Philos. der Neuzeit, Berlin. E già prima  Renan, Averroès et l'averr., Parigi: Tout en reconnaissant que sur ces deux points, l'unite des àmes et 1'immortalité collective, la doctrine d' Averroès est conforme à Aristote, ACHILLINI rejette expressement ces théories comme opposées à la foi. E cita Ritter, Gesch. der neneren Philos., citato anche da Fiorentino. La stretta aderenza d’Abbagnano a Moog appare anche da quel che l'uno e l'altro dicono di ZIMARA. Scrive Moog: Noch strenger hielt am Averroismus fort ZIMARA  aus  Neapel. In ihnen Schriften suchte auch er den  Averroismus mit Kirche zu vereinen. Die Einheit des menschlichen Intellektes wird von ihm als Einheit der allgemeinen Erkenntnisprinzipien gedeutet. E  ABBAGNANO SU ZIMARA: E lo stesso, di spogliare l'aristotelismo e l'averroismo dei loro caratteri originari in omaggio ad una preoccupazione dommatica, accade nelle dottrine del  napoletano ZIMARA, ma  s’era di S. Pietro  in  Galatina presso Otranto, tanto che a Padova lo chiamano l'Otranto o l'Otrantino!, anch'egli professore a Padova, il quale interpreta l'unità dell'intelletto, sostenuta dall'averroismo, come l'unità dei principii universali della conoscenza. Dello stesso avviso pare è anche SAITTA, Il pens. ital. nell'umanesimo e nel Rinasc, Bologna. Le sue Contradictiones assai l'errore dell'autore tedesco:  L'aristotelismo e l'averroismo sono stati qui spogliati dei loro caratteri originari, in omaggio ad una preoccupazione dommatica. Preoccupazione che Achillini, al pari degl’altr’averroisti, non mostra mai d'avere, anche quando, constatata l'opposizione fra Aristotele e il dogma, dice esser dovere del credente che tale voglia rimanere di ripudiare Aristotele, non di  correggerlo, che vorrebbe dire travisarlo. In questo i nostri vecchi sono onesti e coerenti. L'ottimo Garin ricorda la breve preghiera che si legge in principio del De elementis: Luminum clarissima lux, qua ac solutiones ex dictis Aristotelis et Averrois parlano dell'unità dell'intelletto di tutti gl’uomini come l'unità dei principii universali del conoscere. Moog ed Abbagnano non citano alcuna fonte della loro affermazione.  Saitta invece cita le Contradictiones di Zimara, senza però indicare un punto preciso. Ma egli non deve averle lette. Che lo ritengo troppo intelligente, se l’avesse lette, da lasciarsi scappare simile affermazione. E allora? Allora  Moog, Abbagnano e Saitta derivano, direttamente o per via indiretta, il loro giudizio da Renan, Averroès et l'averroisme, ove appunto accade di  leggere. L'unite de l'intellect est adoptée dans le sens de l'unite des principes communs de l'esprit, mais ouvertement rejetée en ce sens qu'il n'y aurait qu'un seul principe substantiel de la raison humaine. E Renan cita le solutiones contradicionum, Averrois opera, dell'ediz. di Venezia, più semplice e più comodo era citare le stesse solutiones  contrad.  super de  anima, contr. Se Moog,  Abbagnano e  Saitta si fossero presa la briga d’andare a vedere questo luogo di Zimara, avrebbero potuto constatare, con non poca sorpresa, che  Renan quel giorno dove essere febbricitante o ubriaco o fortemente distratto, giacché  l'averroista otrantino in quel luogo DICE ESATTAMENTE IL CONTRARIO. Ivi  Zimara, che s'era proposto di conciliare un'apparente contradizione fra  due affermazioni d'Averroè, riporta un brano del commento di Temistio al De anima, ove si legge appunto. Unde enim communes illae animi conceptiones prae-notionesque communes omnibus haberentur? Unde indigentia illa impressaque omnium mentibus primorum notitia constitisset, natura duce, nulla ratione, nulla doctrina?  Unde postremo intelligere mutuo et intelligi vicissim  possemus, nisi iiniis singularis intellectus fttisset, quem communem omnes homines haberemus? Platone, osserva Zimara, con un simile ragionamento dimostra l'esistenza dell’idee. Temistio ed Averroè lo usano per dimostrare l'unità dell'intelletto; se no, bisogna ammettere che la scienza nell'alunno – STRAWSON -- si genera da quella del maestro – GRICE -- a quel modo che,  secondo Aristotele, il fuoco si genera dal fuoco. Hoc autem sequitur secundum ponentes pluralitatem inteUectus, ut ipse Averroès opinatur. Niente di più si legge nell'opera di Zimara, il quale non si  chiede affatto se questa dottrina s'accordi o meno colla fede. A lui basta chiarire il pensiero d'Aristotele e del suo commentatore, eliminando le contradizioni.  L.  e. omnes aliae veritates  illiistrantur, me per umbras materiae tutum ab errore per Filium hominis ducas in te ipsum. E l'accenno a una breve preghiera è anche in principio del De physico aiiditu: Deus illuminatio mea [OXFORD] sit.  Dominus illuminatio mea (Latin for 'The Lord is my light') is the incipit (opening words) of Psalm 27 and is used by the University of Oxford as its motto. It has been in use there since at least the second half of the sixteenth century, and it appears in the coat of arms of the university.  An article written in 2000 by the Roman Catholic priest and theologian Ivan Illich (1926–2002) may help to explain this ancient university motto, at a time when scientists were progressively replacing the concept of vision as a gaze radiating from the pupil by the concept of vision as the retinal perception of an image formed by reflected sunlight:  To interpret De oculo morali, the relationship of things to God "who is light" must be understood. This is the century [i.e., the thirteenth century] suffused by the idea that the world rests in God's hands, that it is contingent on Him. This means that at every instant everything derives its existence from his continued creative act. Things radiate by virtue of their constant dependence on this creative act. They are alight by the God-derived luminescence of their truth.[1]  Other uses[edit] Dominus illuminatio mea is also the motto of Loyola High School (Kolkata) in India, founded in 1961.[2]  It is one of the two mottos of Robert College in Istanbul, and it has appeared in the arms of the Robert College Alumni Association since 1957, next to Veritas.[citation needed]  It is also the motto of Finlandia University, founded as Suomi College in 1896.[citation needed]  Additionally, it is the motto of Cair Paravel-Latin School, a private college-preparatory school in Topeka, Kansas,[citation needed] and Nazareth Academy in Rochester, New York. It is also used by St Leo's College, University of Queensland, and by Drew University in Madison, NJ.[citation needed]  It is found in the coat of arms of Montessori Professional College in Quezon City.  Furthermore, it is the motto of Hallfield Independent School in Birmingham, UK, and Marymount Secondary School in Hong Kong, as well as Gregorian Public School in Kerala, India.[citation needed]  References[edit] ^ Ivan Illich, "Guarding the Eye in the Age of Show" (PDF). Online Book, 2001, p. 16-17. ^ "Loyola High School (Kolkata)". Loyola High School Website. Archived from the original on 9 August 2018. Portal: flag England   Stub icon This article relating to the University of Oxford is a stub. You can help Wikipedia by expanding it.  Stub icon This article related to Latin words and phrases is a stub. You can help Wikipedia by expanding it. Categories: Latin mottosCulture of the University of OxfordUniversity of Oxford stubsLatin words and phrases stubs. Primo dubitatur. L'uso di dar principio ad un'opera, ed anche alla lezione, nel nome di Dio, era un tempo costume di ogni buon cristiano non meno che d’ogni fedele maomettano. Perciò non pare strano di  trovare che anche Pomponazzi al suo corso di lezioni sul De substantia orhis, premette una oratiuncula accomodata, della quale però il raccoglitore delle lezioni non riporta il tenore. Né si creda che questo fosse formalismo o ipocrisia. Nella maggior parte dei casi, non vi sono serie ragioni per dubitare della sincerità di chi si protesta buon cristiano, senza per questo rinunziare alla sua  libertà d' interprete del pensiero aristotelico; libertà che, all’avviso di N., non che nuocere ha giovato molto alla fede, non costretta violentemente negl’artificiosi schemi d'un sistema filosofico ormai in via di dissoluzione. E così maestro Alessandro, l'averroista Achillini, poteva riposare tranquillo nella chiesa di S. Martino,  a Bologna, come il Peretto mantovano in quella di S. Francesco  nella sua città natale, sotto le grandi ali del perdono di Dio. Cod. Vat. Regin. lat. Di averroisti della corrente di Sigieri di Brabante nel Rinascimento italiano m'era accaduto d' incontrare, alcuni anni addietro, Pico, Achillini, Nifo, Bacilieri e Bernardi. Ma il gruppo dei sigieriani dove essere più numeroso, e ad esso parrebbe che avesse aderito, in un momento del suo sviluppo intellettuale, anche Pomponazzi,  come N. dimostra. Ma fu, da parte del Peretto, l'ultimo tentativo di salvare l'esegesi averroistica d'Aristotele; dopo di che, s'orienta decisamente verso l'alessandrismo. Invece un altro convinto sigieriano è il patrizio veneziano Taiapietra o Taiapiera. Costui, figlio del quondam Quintin di Taiapietra, dopo essere stato a studiare a Padova, richiamato in famiglia per  dedicarsi alla vita pubblica, come si convene  ad uno del suo rango sociale, s'accosta a Grimani del titolo di  S. Marco e patriarca d'Aquileia, non che munifico protettore degli  studi e degli studiosi, per averne appoggio. Fu senza dubbio per suggerimento di Grimani che Taiapietra si prepara a un pubblico cimento per coronare col dottorato in filosofia la carriera di studi intrapresa a  Padova e terminata colla Dal Giorn. Crit. d. Filos. Ital. Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma, Edizioni Italiane Paschini, Grimani  cardinale di S. Marco, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura] licentia docendi, ossia col titolo di magister artium. L'occasione d’una pubblica disputa s'offre colla convocazione del capitolo generale dell'ordine dei frati minori,  del quale Grimani era cardinal protettore. L'uso di siffatte dispute in occasione di capitoli generali dei vari ordini  religiosi era una veneranda usanza, vecchia d'oltre due secoli. Sollecitato dunque da Grimani, Taiapietra si reca a Roma per dar saggio del suo sapere. La pubblica discussione ha luogo in una solenne riunione di dotti tenuta nella residenza abituale del cardinale a Roma. L'indomani mattina, domenica della  Trinità, il dottorando è presentato a Giulio II perché si degna conferirgli il titolo di dottore in artibus. La cerimonia è così ricordata nei suoi diari da Grassi, maestro delle cerimonie di Giulio II.  Dopo la messa cantata d’Arboreo e la creazione da parte da Giulio II  d’un milite aurato, dice Grassi: Creatio  doctoris in artibus per papani in capella. Cum  adhuc papa sederet, superveneruiit Cardinalis de Grimanis et orator venetus qui rogarunt papam, ut dignaretur quendam dominum magistrum Taiapietra doctorem in artibus creare, qui, ut testificati sunt, bene se gessit in disputationibus cum fratribus ordinis minorum qui venerant ad capitulum generale etc. Et sic sua Sanctitas absolute, id est sine cerimoniis, ipsum genuflexum creavit  doctorem hoc modo,  videlicet: papa ante doctorandum genuflexum hec verba dixit, videlicet: Intelleximus a Cardinali de Grimanis et ab oratore veneto quod sis in artibus exscellens et doctus, quodque in disputationibus pridianis que apud edes suas habite fuerunt te laudabiHter exhibueris; propterea nos, tam ad predictorum relationem, quam etiam ad intuitum tue virtutis et meritum,  creamus te doctorem in artibus, dantes tibi omnia privilegia que alii in quibuscumque studiis et universitatibus habere consueverunt, in nomine patris et fìlii et spiritus sancti. Quo facto ipse doctor osculato pede pape, illi gratias agens, recessit. Et Cardinalis de Grimanis et orator predicti gratias etiam pape egerunt. Il venerdì successivo la notizia del fatto era già arrivata a Venezia,  poiché Sanudo la registra  Fra i presenti alla disputa era Achillini.  Cod. Vat. lat.  Diarii, con parole che attestano la fedeltà del cronista: Item, come a dì. Taiapiera, quondam sier Quintino, tene le conclusion in casa di Grimani. Et el cardinal episcopo d’Urbin disputa contro una, dicendo l'è eretica. Grimani la mantenne, et vince. Et così a dì il papa lo dotoroe. Siccome la notizia giunta  da Roma non indica il giorno esatto della discussione e quello del conferimento del titolo dottorale,  l'onesto Sanudo lascia i due spazi in bianco. In compenso ci trasmette due notizie preziose. Quella dell'IOBJEZIONE che GABRIELLI, vescovo d’Urbino, ha a fare  a una tesi sostenuta da Taiapietra, perché, a suo parere, l'è eretica, e quella dell'intervento DI GRIMANI in favore del  suo protetto. Del resto, prima della fine del mese il dottore era già di ritorno a Venezia; poiché negli stessi diarii di Sanudo si  legge Fo gran conscio. Vene uno dotor, vestito de scarlato, s’ha dotorato a Roma, Taiapiera, quondam sier Ouintin. l'o fato podestà de Verona, et niun non passa. Da questo momento egli entra nella carriera amministrativa e politica, e N. non sa se si sia più  occupato di filosofìa. Nei Diarii del Sanudo il suo nome ricorre spesso, ma sempre pelle cariche ricoperte in servigio dello stato veneziano. Ciò potrebbe spiegare perché il nome di Taiapietra è sfuggito anche al diligentissimo Ferrari che l'omette sì nel suo grande onomasticon. Né in fondo avrebbe interessato molto neppur me, se il suo nome non è legato a un suo libro del quale N. ritiene valga la pena dire qualcosa. Questo libro s'intitola: Sunima divinarum ac naturalium difficilium quaestionum Romae in capitiilo generali fratrum minorum per Taiapietra, patritium Venetum, puhlice discussarum. E fu stampato a Venezia a domino Pincio Mantuano. Il libro fu pubblicato prima della discussione, che evidentemente era stata preparata per tempo dal cardinal  Grimani, cui la Summa è dedicata. Recandosi a Roma, Taiapietra porta con sé il volume, come programma della pubblica discussione. Così fa Pico, pubblicando le novecento condusiones pella disputa che si tiene a Roma. Così fa anche Querini, altro patrizio veneziano, quando s'appresta a discutere, parimenti in Roma, le sue condusiones, in Ecclesia Sanctorum Apostolorum. L'opera,  è dedicata dall'autore a Grimani. Nella dedica Taiapietra accenna al distacco forzato dallo studio patavino: quum mihi mine redeunduni esset ad meos, qui me in patriam ex celebratissimo gymnasio patavino, in quo octo iam perpetuis annis vitam non minus honestam  quam studiosam duxi, centra propriam ferme voluntatem revocabant. A Padova dunque aveva dovuto recarsi quando  v'era ancora Nifo da Sessa. Costui,  alunno di Vernia, comincia a insegnare a  Padova nella seconda scuola di filosofìa STRAORDINARIA, ove professa la dottrina averroistica di Sigieri di Brabante. Era stato promosso alla seconda scuola ORDINARIA come concorrente del Pomponazzi, col quale debbono essere cominciati fin d'allora i litigi. E  quando il mantovano si dimise dall'insegnamento, Nifo fu chiamato a succedergli. In questi anni egli, ambiziosissimo e astuto, mentre si da da fare per schivare l'accusa d'eresia, combattendo l'averroismo prima da lui professato per  non Nifo,  De  intellectu Longo tempore Averroy vacavi et, ut dixi, hanc opinionem di Sigieri sequebar ad mentem eius; Destr., dub. Peccatum meum longo tempore. Dalle indicazioni  cronologiche fornite da Nifo stesso in quest'ultimo scritto, Disp., dub., quaestio, parrebbe che ciò vada riferito al  periodo prima. Dalle quali indicazioni si dove dedurre che egli fosse  nato prima, come  nell’arbole de casa Nipho nel voi. ms. Historia e documenti della  famiglia Nifo, posseduto da Croce) inimicarsi Barozzi, anzi per procacciarsene la benevolenza, come fa nello stesso tempo quella vecchia volpe di maestro Nicoletto, era riuscito a circuire molti membri delle più ragguardevoli famiglie patrizie veneziane che a Padova veneno per fare i loro studi e procacciarsi il titolo di dotor tenuto in gran conto dal governo della serenissima e quasi direi indispensabile pell'accesso a talune cariche dello stato. Suoi discepoli erano stati Querini, Bernardo e Giustinian, l'amicizia dei quali si compiace spesso di ricordare. A Bragadin, patrizio veneto, dice egli stesso d'aver dedicate certe sue quaesiiones de anima che non mi risulta fossero mai stampate; a Donato  dedica l'edizione da lui curata del prologo d'Averroè alla fisica; a  Sebastiano Tutti e tre son ricordati nei Collectanea De anima, e nel commento alla Desimciio,  prol. dub, dub. Da quest'ultimo luogo si rileva che tanto Geronimo quanto il padre sono morti prima di quando il commento alla Destritctio fu stampato. Nel luogo citato dei Collectanea, oltre che ai tre patrizi veneziani  ricordati, raccomanda il suo libro anche a Campesano, filosofo di Bassano che in quegli anni studia a Padova. Egli è il padre del poeta di Bassano Campesano Vergi, Notizie intorno alla vita e alle opere degli scritt. d. città di Bass., e. I, Venezia.  Collect., prohemium: In questionibus meis libri de anima inscriptis domino Bragadeno patricio Veneto. Sanuuo, Diarii, ricorda una disputa  avvenuta in Venezia alla presenza del patriarca intorno ad alcune tesi pericolose, e fra coloro che intervennero ad essa menziona Pisani, Dandolo, Zorzi, Michiel, Pasqualigo, dottori, Corner, Michiel, Bragadin doctissimi in philosophia. Nota invece la mancanza di Zustinian, dotor, che leze philosophia. Su Bragadin,  v. Zeno, Giorn. di letter.  Scrive Garin a proposito dei primi scritti del  Nifo {Rinascitnento. Innanzi all'edizione dellafisica, v'è una lettera di ringraziamento a Donato. In uno degli esemplari esaminati da GARIN la dedica è sul verso di una carta che sul recto reca una lettera con cui Nifo presenta pell'approvazione il suo commento alla Destructio destritctionum. E più oltre: Ad ogni modo esce l'edizione curata da Nifo della fisica col commento d'Averroè. Dove Garin trova che questa edizione della fisica sia stata curata da Nifo, N. non sa. N. sa, invece, che la lettera del Nifo, anzi del Niffus de Suessa a Maestro Grassetto, francescano e inquisitor dell'eretica pravità (vedetelo divotamente genuflesso ai pie' della Vergine, a Padova, nella chiesa del Santo, di fronte alla tomba di Trombetta), è sicuramente posteriore alla stampa del Badoèr  il De intellectu, sostanzialmente rimaneggiato e pubblicato pelle stampe quando aveva ormai detto addio a Padova e prima ancora all'averroismo; per Bernardo compone il De sensu agente, pubblicato quando Bernardo era morto, e dedicato a Spinelli, patrizio partenopeo; al Giustinian dedica il commento In Metapysicae composto assai prima su preghiera di Bernardo, il cui nome il  Nifo accoppia sempre a quellodel Giustinian; a Santo Moro, altro patrizio che commenta alla Desiriictio, non solo perché si riferisce a questa, ma perché è stampata nel recto di un mezzo foglio facente parte dell'ultimo quinterno di questo volume; l'altra metà contiene due pagine della Destnictio (quinterno  q,). Il verso poi del mezzo foglio, al cui recto è la lettera a Grassetto, reca il  prologo d’Averroè alla fisica e la dedica di questo prologo al pretore Donato, pella ragione che gl’editori l'avevano omesso. Niente di più. Alla fine del trattato si legge: Et sic consumatus est liber de intellectu. In Patavino studio. Ora che Nifo scrive una quaestio de intellectu (la dedica del De intellectu a Badoèr) è verosimile; ed è verosimile che la scrive in senso sigieriano, tanto che  gli emuli poterono accusarlo d'eresia, com'egli stesso ci fa sapere. Ma che questa  quaestio sia identica col trattato, è difficile crederlo, dopo quel che egli stesso confessa a Badoèr: Placuit quedam tollere, mutare alia, addere plurima. Troppo interesse ha Nifo a voler far credere che fin dal suo primo anno d' insegnamento s'era liberato dall'averroismo inviso a Barozzi. Vuole Garin un  esempio della fede che merita Nifo? Eccoghelo. Nell'edizione dei Collectanea ch'egli aveva pronta, e che vide la luce pella stampa col titolo In librum de anima Aristotelis et Averrois commentatio, a Venezia, per Petrum de Quarengiis Bergomensem. Studio et impensa domini Calcidonij, Pisaurensis, dedicando l'opera a Miliani, patrizio partenopeo, Nifo vede un segno particolare  d'amicizia neU'essersi Calcidonio addossate le spese della stampa del volume: quod et noster Calcedonius, communis amicus, tui et mei amoris omni solertia sumptibusque prò his edere instituit. Ebbene, nella ristampa degli stessissimi Collectanea Suessa, Super libros de anima, Venetiis, in fine della prefazione che v’appose, questo barabba osa scrivere: Quantum igitur inique  Calcidonius Collectanea nostra publicaverit quantumve venenose, ex bisce patet. Ego enim publicare illa non destinaveram, nisi nono pressis anno che e frase oraziana adattissima a imbrogliare anche meglio le carte. L'opera fu pubblicata, come codicilus al commento della Destructio. Che al momento della pubblicazione tanto Bernardo che suo padre fossero morti, risulta dalla frase  dello stesso Nifo in fine del commento alla Destructio: quorum animae in perpetuum gaudeant, confermata dalla dedica del commento In Metapysicae a Giustinian. avuto alunno a Padova negli ultimi anni, dedica il commento al De beatitudine animae di Averroè, rimaneggiando un scartafaccio del periodo averroistico, di mano del suo alunno veronese Plumazioij; al cardinale Grimani  dedica il commento alla Destructio destnictionum, servendosi, per insinuarsi nell'animo del cardinale, dell'amicizia d'un tal prete Prosdocimo familiare del Grimani; più tardi gli dedicherà anche il trattato De primi motoris infinitate; e nello stesso anno dedicherà a Querini il De diehus cniicis. Ma non ostante tutte queste amicizie e protezioni, non potè sottrarsi ai latrati, com'egli più  volte si duole, dei suoi colleghi e avversari. Non saprei se per questa o per altra ragione s’allontanò da Padova. Facciolati per altro informa che revocatus est anno, stipendio argenteorum CXX; il che lascerebbe supporre che fra le ragioni del malcontento vi fosse anche quella dello scarso stipendio. Sappiamo di professori che correvano là dov'erano megUo pagati, e che spesso la  minaccia di andarsene era un buon mezzo per farsi aumentare lo stipendio. Ma Facciolati ci fa sapere che, non ostante questo aumento, Nifo anno vertente rursus abiit, in cerca di miglior fortuna, o semplicemente per sposarsi con Angela Laudi da Sessa. A Padova non torna più, sebbene siamo informati che egli s'adopra per tornarvi. Vi torna invece, dopo la morte di Vernia, il Peretto  mantovano, cioè POMPONAZZI. Anche quest'opera porta in fine la dichiarazione: Compievi Patavii. Santo Moro si addottora a  Padova Sanudo, Diarii. Quando Nifo gli dedica l'opera, sa che l'antico scolaro di Padova nunc naturae mundique interpretem gravissimum evasisse. N. non conosce altre edizioni anteriori a quella scotina di Venezia. Di Bernardo dice (comm.): accepi verba  haec ut iacent in codice meo, quem felix illa Bernardi memoria olim mihi misit. Vi sono non pochi rimandi al trattato De inteUectii, e non di rado nella stesura che esso ebbe dopo la revisione Fasti  gymn. patav., Sanudo, Diarii. Anzi si legge: k Item, ave lettere dell'orator nostro in corte, che domino Sexa NIFO, qual è li, vengi a lezer a Padoa, et li ha dimandato. Par contento venirvi,  et è facto più docto di quello era, et ha studiato in greco. dopo due anni d'assenza, per restarvi ininterrottamente fino all'assedio della città. V'erano poi maestro Trapolin, averroista moderato, che dall'insegnamento della filosofia naturale passa a medicina teorica, Trombetta francescano e Monopoli domenicano, che insegnano in concorrenza la metafisica, l'uno ad mentem Scoti, l'altro  ad mentem AQUINO. Era venuto a Padova il bolognese Bacilieri, alunno e poi collega d’Achillini del quale condivide l’idee, forse a sostituire Fracanziano che in seguito ad una lite fra maestri lascia lo studio padovano e segue a Roma Corner. Ma Fracanziano torna a Padova ad occuparvi la seconda cattedra di filosofia ordinaria, in concorrenza con Pomponazzi, mentre maestro  Tiberio, che dice mancargli appena quattro dita per arrivare alla piena e perfetta copulatio coll'intelletto agente, aveva accolto l’invito di recarsi a Pavia. Sotto la guida di siffatti maestri Taiapietra fa i suoi studi a Padova; e con lui c'erano negli stessi anni, su per giù, Mocenigo, figlio di Leonardo e nipote del doge Giovanni; Contarini, il  futuro  cardinale; Surian, nipote del patriarca di Venezia  dello stesso nome; Santo Moro, e altri rampolli delle più illustri famiglie patrizie veneziane. Maestri e scolari vivevano uniti d’uno stesso spirito goliardico non scompagnato da febbrile ansia di sapere. Peretto POMPONAZZI, che marciava ormai verso la quarantina, pensa bene d’accasarsi con una gentil donna padovana figlia di Francesco Dondi dell'Orologio. Ed ecco Facciolati,  Fasti, 1. e;  C. Oliva, Note  sull’insegnamento di Pomponazzi,  Giorn. crit. d. Filos. Ital. Facciolati. Era presente ai dottorati in artibìts di Zimara e di Oleari, col titolo di extraordinarius philosophiae  Arch. d. Curia Vesc. di Padova, Acta grad. Franceschetti, La famiglia dei conti Fracanzani di Verona, Vicenza ed Este con notizie dei loro antenati ecc. Bari, presso la Direz. del  Giorn.    Araldico Pomponazzi,  In  XII  Metaphys. deo Tiberius iactatus solum sibi defìcere quatuor digitos ad hoc ut foelicitatem istam pertingat Arezzo, Bibl. Fraternità de'Laici, Ms.; Cod. Ambros.Mocenigo intonare pell'occasione nn epitalamio in latino, ove tra molte reminiscenze mitologiche si leggono questi due distici molto confidenziali rivolti, s'intende, allo sposo; Ista dies omnes  reliquos divellit amores: paecipit haec soli perpetuoque vaces. Substulit ista dies sectari fornice tetra scorta suburbano, substulit ista dies. Ma la giocondità della vita studentesca nel rumoroso e gaio ambiente dello studio patavino non  distoglie questi patrizi veneziani dallo scopo per cui erano venuti sulle rive del Bacchigliene tra le antenoree mura. E Sanudo ci fa sapere che 1', zorno  di Pasqua di mazzo, da poi disnar, sier Santo Moro di sier Marin, studia a Padova, tene le conclusion ai Frari, qual è impresse. Arguì molti, videlicet domino Bragadin, leze in philosophia a Venezia, Pasqualigo dotor, cavalier, Zorzi, dotor, e altri, e poi anda a Padoa e si dotoroe. Ugualmente Sanudo annota che in questo zorno, in la chiesia di Frari, fo tenuto le conclusion per Surian,  quondam Michiel, nepote del patriarcha nostro, qual studia a Padoa. Vi fu il reverendissimo patriarcha, e l'orator di Franza e molti patricii invidati e dotori»-s. Con -2  Io. Brunatius, POMPONAZZI, nella raccolta d’opuscoli scient. e filos., Venezia  Diarii Di Pasqualigo riferisce Sanudo, che a Roma tiene conclusion publice et si ha facto uno honor grandissimo et hora sta dotorado  nomine pontificis dal cardinal di San Zorzi. E Vene da Milan in questa terra Pasqualigo, dotor, patricio veneto, stato e si trova a Milan al tempo del capitolo general di frati minori dove tene le conclusion publiche. Vi fu el ducha con li oratori, et fu molto comendato, come si have lettere di Lupomano orator nostro nel conscio di pregadi.  Questo studia a Paris, et è doctissimo. Il Degli  Agostini, Not. storico-critiche intorno la vita e le opere dei veneziani, Venezia dice che Piero sostenne a Parigi due mila conclusioni. Anche il fratello Pasqualigo studia a Parigi Sanuco Sanudo,  Diarii. La cronaca di questa disputatio è fatta dallo stesso Surian in una pagina del volume in cui ricopia le lezioni tenute da Pomponazzi sul De anima Ms. della  Bibl. Naz. di Napoh, Vili.  D.  descritto da Kristeller in Revue de philosophie questa pubblica disputa anche il Surian conquista il titolo di dotor, come appare da quanto Sanudo ricorda. E sarei quasi tentato di credere che, allo scopo di conseguire il dottorato,  anche Querini affronta a Roma la solenne disputa cui accennavo e alla quale assiste anche Bembo, egli pure patrizio veneziano, cavalier ma non dotor qual  era invece suo padre. Quello di stampare le conclusiones pella pubblica disputa non li consta a N. che fosse un obbligo; ma si sa che Pico  le stampa,  Querini le stampa, impresse le ha Santo  Moro, e anche Taiapietra  si, ed è importante perché c'introduce nel bel mezzo dell'ambiente scolastico padovano: Que disputatio a me habita fuit Patavii per biduum. Et prima die argumentatus  est dominus Portenarijs, florentinus patritius, Artistarum rector; secondo loco  R. dominus Marcellus, patritius venetus, proto-notarius apostolicus;    magister Trombeta ordinarius metaphysice, Patavii legens;  4" Dominus  magister Monopoli, ordinis AQUINO, ordinariam metaphysice legens  [Quètif-Echard, Scriptores Ord. Praed.;    Dominus magister faventinus ordinariam  theorice medicine legens; 6°  Dominus  magister Caballis, brixiensis, ordinariam practice medicine legens. Et disputatio hec habita fuit in aede cathedrali, in choro penes altare maius, coram R.mo domino  D.  Barocio, episcopo patavino, et magnificis Griti, pretore, Pisani equite, prefecto Padue,  R.mo  D. Barbadico primiI cerio Sancti Marci. Duravit disputatio usque ad 24 horam satis  feliciter die dominico, et fuit dominica quadragesime quarta.  die et fuit habita in salis magnis, primo argumentatus est Dominus magister Mauricius ordinis minorum hybernicus, preceptor, ordinariam theologie legens; 2° Dominus magister Gaspar perusinus ordinis AQUINO QuÈTiF-EcHARD, Ordinariam theologie professus et profitens; 3° Dominus magister Trapolin, patavinus,, ordinariam theorice medicine legens;    Dominus Petrus POMPONAZZI mantuanus,olim  preceptor; 5"  Dominus Fracancianus, vicentinus, ordinarius philosophie, ambo professi et profìtentes. Et disputatio fuit mane Venetiis autem, die Jovis, in aede S. Francisci minorum; et interfuit R.mus Patriarca, patruus meus, R.mus D. D. archiepiscopus spalatensis,  D. Zane,  R.mus  Foscarenus,  episcopus Emonensis  cioè di Città Nova in Istria, R.mus D.  D. Dominicus episcopus Chisamensis, suffraganeus  R.mi  D. Patriarche. Argumentatus est in primis Foscharenus, doctor, legens lecturam physice Venetiis; 2° loco R.mus  D.  D. Zane, archiepiscopus Spalatensis; 3° loco Dominus Mozenigo, doctor; 4" D. magister Cruce ordinis minorum, regens  ibi; 5° Dominus Maurus, doctor etc. Et fuit dies felicissima. Quare Deo semper honor et gloria Sanudo. frettò a presentarle stampate. Più tardi, so di Bin, le cui conclusiones, dedicate a Michiel, Procurator di S. Marco, furon discusse a Venezia; e so pure di Ruggiero, discepolo a Padova  di PASSERI Genua, che stampa le sue positiones, cioè le sue tesi, dedicandole a Gonzaga, pella disputa che dove aver luogo  a Padova nella chiesa di S. Antonio; e l'esempio suo è seguito d’un altro discepolo di PASSERI, Mocenigo, nipote di Diedo patriarca di Venezia, pella disputa che ha luogo, come nel caso di Surian, a Venezia e a Padova. N. non conosce il contenuto delle tesi o conclusion sostenute da Surian e da Moro; conosce invece quello delle conclusiones di Querini e Bin, delle positiones di  Ruggiero e dei Panidoxa theoremataque di Mocenigo. Querini, discepolo di Nifo quando questi già abbandona l'averroismo, si dichiara apertamente CONTRO Averroè come aveva fatto il maestro. Invece averroista è Bin; e anche Ruggiero e Mocenigo sostengono apertamente la dottrina averroistica di PASSERI combinata con quella di Simplicio. Allo stesso modo Taiapietra è un  risoluto sostenitore dell'averroismo della corrente sigieriana, del quale, dopo la partenza di Nifo da Padova, era stato sostenitore Bacilieri. Ciò appare meglio dall'esame del contenuto della sua opera. Un'aperta professione d'averroismo accade d' incontrare tìn sulla soglia del libro, cioè nel proemio intitolato anch'esso a Grimani. Dopo avere accennato ad Aristotele come regula La rara  stampa veneziana della Casa Tacuino, è posseduta dal British Museum. A Dionisotti N. è debitore della cortese segnalazione e del microfilm.  Positiones hasce de vero et bono Rugerius ad disceptandum proposuit. In quibus si quid a religione ac summa veritate dissentire lector animadvertet, id non ex animi sententia, sed ex Aristotelis ac veterum Philosophorum placitis pronunciatum  sciat. Venetiis, f. yor Finis. Disputabuntur triduo Patavij in tempio D. Antoni], nella sezione de homine quatenus intelligit et speculatur, accade d'incontrare tutte le tesi dell'averroismo Simpliciano di PASSERI, coll’idea della progressio dell'unico intelletto ad secundas vitas nei diversi corpi umani ecc. in natura secondo il noto concetto d'Averroè 3°, il filosofo veneziano continua: Post  queni prinius floruit Averroes cordubensis, qui ex graecis expositoribus velut ex optimis quibusdam fontibus philosophiam non tam hausisse quam expressisse visus est. Eos enim insequi et incessere delectatus est apprime, unde is solus est qui condigne et recte apud omnes commentatoris nomen adeptus fuit; tantum enim est ex agro fertili messem tacere. Hinc est, ut qui Averroem exacte legerit, et suis quaeque locis singulatim singula contulerit, eius doctrinam facile percipiet ab optimis manasse auctoribus. Quid enim aliud est commentator Averroes quam Alexander, Themistius, Simplicius, ac demum ipsemet Aristoteles transpositus Ouamobrem et nos divino beneficio confisi, non vana similiter gloriae cupiditate impulsi, et absque ulla prorsus invidia, sed  solum utilitatem aliquam studiosis afterre anhelantes, penes horum virorum sententiam quarumdam diftlcilium quaestionum summam seu compendium ordinare suscepimus: ea enim benivolentia perypatheticos prosequor omnes, et praesertim summum Aristotelem eiusque magnum commentatorem Averroem, omnium philosophantium vere duces, ut si quid ex illorum disciplinis  deprompserim, quod utile, pulchrum lionestumque putem, id quippe omnibus communicatum esse velim, quo omnes literati una mecum ipsorum rapiantur amore eosque digna veneratione prosequantur et colant. Verum nos, divini Platonis De legibus imitati, ut scilicet ne cuivis liceat, quae aediderit, aut privatim ostendere, aut in usum publicum concedere, antequam super id publici et  idonei constituti iudices ea viderint et probarint (quod maxime observant venerabiles illi magistri parisienses), opus hoc nostrum in studiosorum communem usum concedere ullo pacto voluimus, antequam gravssima amplissimi Venetiarum prothoflaminis censura et lima castigetur; cuius quidem titulis et laudibus (nisi defraudetur) solum ipsemet accedit religiosissimus antistes Surianus; simulque nisi prius in clarissimorum virorum conventu et corona opus hoc manutenerem et tutatus essem. E il prothoflamen di Venezia, cioè il patriarca Surian, zio di quell'altro Surian, che era stato discepolo a Padova del Pomponazzi e del Fracanziano, e che del Peretto ci ha tramandato le lezioni sul De anima, contenute nel codice della Bibl. Naz. di Napoli, studiato da Kristeller, il  buon patriarca di Venezia, dicevo, dopo aver letta l'opera del Taiapietra, lungi dallo scandolezzarsi di questa aperta esaltazione d'Averroè, 3° De anima. comm. che avrebbe fatto fremere il vescovo di Padova, Barozzi, gli scrive questa candida letterina che si legge in fondo al volume: Filii diarissime, praeclarum opus tuum, in quo Aristotelis peripatheticorum principis et Averrois eius  fidi et luculentissimi commentatoris sensum diligenter et ad unguem examinasti, non mediocri gaudio voluptateque lectitavi, eo quod te philosophum praestantissimum noverim, tum et ortodoxae matri ecclesiae obsequentissimum. Quo fit ut te quam maximis prosequamur laudibus, magnisque honoribus te decorandum extollendumque censeamus. Exinde enim persuaves et amenissimos  tibi fructus acquires, nec modicam saeculo utilitatem, patriaeque nostrae gloriam allaturus es. Vale. Eppure l'averroismo dell'opera non concerne soltanto una o due tesi che vi siano difese quasi di passaggio, ma domina tutto intero il volume, dalla prima all'ultima pagina; salve sempre, s'intende, le solite proteste d'obbligo, chiaramente espresse o sottintese, che l'autore cioè non persegue altro intento che quello di esporre qual è il genuino pensiero d'Aristotele e del suo fedele commentatore, senz'alcun pregiudizio per la fede e per gl’insegnamenti della Chiesa. L'opera si divide in due libri: il  primo concerne problemi dibattutissimi nelle scuole di filosofìa, alla soluzione dei quali son dedicati altrettanti trattati, e in ciascuno di essi un capitolo è consacrato alla esposizione della vera dottrina del Filosofo e del suo fedelissimo interprete, mentre altri son riservati a combattere più le obiezioni dei cacoaverroisti, com'egli li chiama, che non quelle degli avversari dell'averroismo.  Nel primo trattato si discute il problema se unico sia il principio di tutte le cose, o possa esser molteplice; e nel quinto capitolo philosophi et commentatoris vera positio inducitur cum suis rationibus et fundamentis. Nel secondo trattato, si parla della immaterialità e semplicità divina; e nel cap. philosophi et commentatoris vera positio inducitur. Nel trattato si dimostra la tipica tesi averroistica Deum tantum seipsum, idest essentiam propriam intelligere ac intueri; e nel  cap. vera positio philosophi et commentatoris in hac materia ponitur. Nel trattato si pone il quesito an primus motus, qui est diurnus, sit immediate a Deo glorioso, e si critica la tesi dell'averroista Jandun, il quale sostene che Dio non può muovere il primo mobile se non per mezzo della prima  intelligenza; nel  cap. poi è esposta la vera opinione del filosofo e del SUO commentatore su questo argomento. Nel trattato è presa in esame la vexata quaestio, se Dio sia causa efficiente delle cose eterne, cioè delle intelligenze e dei cieli, poiché delle cose corruttibili non v'è dubbio che esse non possono esser prodotte immediatamente da Dio. È noto che l’agostiniano Rimini ritene  che, secondo Aristotele, Dio è causa finale ultima delle intelligenze e dei cieli, ma non causa efficiente del loro essere. Taiapietra, d'accordo con Sigieri, è del parere che, pur essendo coeterne a Dio, sì le intelligenze motrici che i cieli incorruttibili son tratti all'esistenza da lui per via di vera causalità efficiente, e in proposito intraprende una lunga disquisizione che dura per diversi  capitoli contro l’agostiniano; giacché è bene si sappia che, per quanto riguarda l' interpretazione del pensiero d'Aristotele, vi furono teologi che si spinsero anche più in là di taluni averroisti; è esposta la vera dottrina del filosofo e del commentatore cum suis rationibus et fundamentis, che è poi la dottrina sigieriana. Nel trattato sesto, è discusso un altro problema oggetto di lunga contesa,  fin dai tempi di Sigieri, se cioè Dio nel muovere il mondo si palesi di virtù intensivamente infinita ossia, come soleva dirsi, di infinito vigore. Dopo aver combattuto l’interpretazione che d'Aristotele danno AQUINO, Alberto Magno e Scoto e quella di alcuni averroisti che, a suo giudizio, falsano il pensiero d'Aristotele e d'Averroè, l'autore passa ad esporre la vera positio dell'uno e  dell'altro, riaffermando la sua fiducia nel commentatore: Quum inter tot celebres philosophos, nullus adhiic posteriorum philosophantium aut priorum, praeter Aristotelem, inventus sit qui commentatori Averroi in rebus naturalibus aut divinis exponendis equipolleat, unde merito nomen magni et certe maximi commentatoris est assequutus, ideo, primae philosophiae principiis innitendo,  in hoc quesito ad mentem philosophi et commen  Lectura in Sent., dist. q.; Baconthorpe, In Sent., dist. q.; Jandun, Meiaphys.; Quaestiones sup. De siibst. Orbis Steenberghen,  Sig. de Brab. d'après ses oeiivres inédites, Louvain] tatoris dicimus infinitum, ut proposito attinet, alias infiniti distinctiones omittendo, dupliciter intelligi posse: vel secundum tempus et durationem, vel  secundum virtutem et vigorem; quorum unum vocant latini infinitum extensive, et alterum intensive. Pro quo sciendum quod si primum principium secundum primum modum infinitum intelligatur, hoc utique ad mentem philosophi et commentatoris concedendum est, quoniam primus motor motu locali uno et continuo movet per infinitum tempus; et sic etiam, secundum eos, quaelibet  intelligentia est infinita; quaelibet enim intelligentia movet, secundum Aristotelem, orbem proprium motu locali circulari infinito. Potest et secundo modo intelligi primum principium esse infinitum in qualitate actionis, scilicet in vigore; et hoc pacto negat philosophus et commentator. Ma rendendosi conto che un'affermazione sì grave poteva sonare sgradita alle orecchie dei teologi, il  nostro s'affretta a dichiarare: Sed quamvis isti, philosophus scilicet et commentator, sic dicant, nihilominus tamen dico secundum fidem et veritatem, quod deus, qui est primum principium, est virtutis infinitae, scilicet in qualitate actionis, ita quod quantum est de se potest velocitare motum in infinitum, immo movere in instanti, nec est limitata sua virtus ad actionem determinatam; et  hoc absque omni ambiguitate verum est, non tamen potest convinci aut comprehendi ex sensatis; et ideo non est mirum si philosophus ac caeteri antiquorum naturales, sensata tantum insequentes, illud minime comprehenderunt. Quum enim deus ipse naturae sit auctor, potest utique plus facere quam possit natura vel naturaliter comprehendi, quoniam quemadmodum ipse omnia excedit in infinitum, sic etiam profecto in agendi potentia. Iccirco iuxta illud quod primo Esaias et postmodum Paulus dixerunt, propter ista et alia quae oculus non vidit nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, sacrosantae ecclesiae sanctissimis doctoribus sine aliqua haesitatione credendum est, et absque aliqua demonstratione aut sensuum experientia etc. E la stessa dichiarazione ripete,  come d'uso, tutte le volte che gli accade di toccare un problema intorno al quale vi sia conflitto fra la filosofìa e la teologia. Nel trattato si chiede se il numero delle intelUgenze motrici debba dedursi dal numero dei movimenti e delle sfere celesti, oppure se ve ne siano di non addette al moto dei cieli; e nel  cap. è esposta al solito l'opinione del filosofo e del commentatore, che il  Taiapietra ancora una volta toglie a difendere. Inoltre, è esposta la vera opinione del filosofo e del commentatore, che la nobiltà delle intelligenze va posta in relazione con la maggiore ampiezza e altezza delle sfere da esse mosse. Nel trattato si dibatte l'annoso problema, se la materia di cui constano i cieli sia eiusdem rationis cum materia horum inferiorum; e di nuovo nel  cap. viene  esposta e difesa come vera la dottrina d'Averroè, la quale combacia perfettamente con quella del principe dei filosofi, e vi si dice che la materia dei cieli non è in potenza a diverse forme, ma soltanto a diverse posizioni locali. Il libro  si divide in  trattati. Il primo dei quali verte sulla natura dell'anima umana e precisamente sul problema utrum humana et rationalis anima sit una vel  plures, dans esse homini et immortalis. Fin dal capitolo, l'autore ci palesa candidamente qual è il suo intento: anzitutto rigetterà tutte le opinioni che più s'allontanano da Aristotele e da Averroè; poi riferirà quelle che più si avvicinano al loro pensiero: Demum veram philosophi et commentatoris addemus sententiam ab ea quascunque amovendo cavillationes, ut eius veritas clarior  appareat. Ed egli non meno candidamente spera che dalla sua fatica verrà non poco giovamento alla restaurazione della filosofìa, che al comune giudizio degli averroisti pare in quei tempi non poco decaduta: Unde speramus laborem hunc nostrum non modo rem peri-patheticam, id est Averroycam, adiuvaturum esse, verum etiam aucturum, quum forte scriptum hoc non tantum erit  causa declarandi rem obscuram et latentem multum in philosophia, sed etiam aliis, hoc est bene dispositis, initium fiet vel occasio Iaborandiin doctrina philosophi et commentatoris, et ad communem utihtatem quamphira scitu nobilissima scribendi. Et sic forte in Italia reviviscet philosophia, quae temporibus meis, cum philosophis pessum ivit, adeo ut hac tempestate pauci vel nulli  reperiantur philosophi; sunt autem in precio triviales, nebulones et sophistae; sperandum est tamen naturam ali- È un lagno che Averroè aveva fatto dei filosofi del suo tempo, nel famoso prologo alla Fisica; ed è curioso vedere come gli averroisti lo ripetano. V’insiste in particolare Pomponazzi, parafrasando sia il prologo alla Fisica sia quello al terzo Cod. lat. della Bibl. Naz. di Parigi;  Arezzo,  Fratern. de'Laici, ms., f. igir.  Giorn. Crit. d. Filos. Ital. quando nostri misertam iri, et nobis integram redituram philosophiam et philosophos; natura namque non deficit in necessariis neque abundat in superfluis. Iccirco laborandum est prò viribus ut ad nos redeat niater nostra pliilosophia. Con questa speranza nel cuore, che la filosofia aristotelico- averroistica minacciata da  un lato dal concordismo d’AQUINO che la svisa, e dall'altro dalla RETORICA UMANISTIICA CHE LA DISPREZZA e dileggia, il nostro averroista s’accinge a difendere quella che era apparsa la più ostica delle tesi averroistiche, qual'è quella dell'unità dell'intelletto. Ed anzitutto egli espone e combatte, sulla scorta d'Averroè, la dottrina di Alessandro d'Afrodisia, intorno alla quale  si diffonde per ben sei lunghi capitoli. Accade d' incontrare questa allusione all'ambiente filosofico padovano: Conantur quidam alexandrei et acutissimi viri prò Alexandro ad rationes Averroys et auctoritates Aristotelis respondere. Giusto un anno prima Pomponazzi, che sta commentando a Padova il del De anima, s'era posto il problema dell'immortalità dell'anima, e pur dichiarandosi  ancora propenso a ritener possibile una soluzione positiva del problema secondo la ragione,  dimostra in che modo la tesi d'Alessandro avrebbe potuto sostenersi. Forse alludendo a Pomponazzi, Taiapietra nel rintuzzare le ragioni degli alessandristi osserva: Etsi Alexandrea opinio lumini tantum innitendo naturali non minus forte substentabilis sit iuxta fundamenta sua, quam et  averroyca,  hoc nihilominus in loco ipsum ad intentionem philosophi minime loquentem fuisse proculdubio ostendemus. Nel qual passo è quanto mai significativa la distinzione fra ciò che è sostenibile lumini tantum innitendo naturali, e ciò che è sostenibile ad intentionem philosophi. A prescindere dai francescani che di questa distinzione fanno largo uso, essa è una novità nella storia  dell'aristotelismo; Aristotele non ha visto tutto quanto si può vedere col lume di ragione; la ragione umana può spaziare forse oltre i confini del mondo ari  Come appunto dice Pomponazzi, commentando il De  anima Kristeller, Two impubi. Questions on the Soul of  Pomponazzi, Medievalia et Humanistica, quando Taiapietra era ancora studente a Padova.]stotelico: è un'idea sulla  quale insiste più volte Pomponazzi e che dove ferire a morte l'autorità di cui Aristotele, maestro e duca dell'umana ragione, aveva finora goduto. Dopo la critica della tesi alessandrista, il nostro espone e confuta la dottrina di Abubacher, Averroys socius, di Avenpace, eius magister, quasi fossero due persone diverse, di Avicenna e di Alfarabi; e qui eccolo, in quo Aristotelis et Averroys  vera positio ponitur in hac materia cum suis motivis, ad esporci l' interpretazione sigieriana del pensiero di questi due filosofi: Clini binas hiicusqne illustrivim peripatheticorum opiniones ostenderimus, qiias tamqnam impossibiles omnino ad, mentem philosophi reliquimus, superest videre et de tertia, quae est Averroys se unicum ad intentionem Aristotelis loqui pollicentis. Aliorum  autem sapientum opiniones hoc in tractatu non indagamur. Item quia intentio nostra in praesentiarum non est de omnibus loqui, sed tantum manifestare quae fuit opinio commentatoris, et quorundam errorem refellere, qui temporibus nostris nonnulla monstra in hac materia ut finxerunt de intentione Averroys enixi sunt. Tum etiam, ut sententia est philosophi, topicorum primo, capite,  quolibet proferente contraria opinionibus sapientum sollicitum esse stultum est. De anima igitur disceptantes quadrifariam circa ipsius incoeptionem loqui poterant: primo, quod quandoque producta fuit in materia, quandoque corrupta: quem modum sequutus est Alexander aphrodiseus, ut disputavimus in pracedentibus abunde satis, in quo quidem tamquam demonstratum nobis palam  est, rationalem animam non a corpore incipere, neque in corpus desinerei illam quoque prò parte insequi visi sunt arabum sapientes, ut supra piane constat. Secundo, quod  novum acceperit esse, quod nunquam perditura sit: et hic dicendi modus Platonis est, cui contradicit philosophus et commentator, Divinorum, tex. co.; et primo Coeli, tex. co; alioquin natura possibilis verteretur in  necessariam; nullum enim novum est perpetuum. Tertio, quod nullum eius fuerit initium, sed dissipanda quandoque foret: et is quoque modus impossibilis est; omne namque aeternum a parte ante est etiam aeternum a parte post, et econtra, ut sententia est philosophi et commentatoris, ibidem, primo Coeli et mundi; nec aliquis hominum dudum id percepit, quod quum perscrutata non  sit dignum, absque auctore  Dante,  Conv. IO  A questo principio del De coelo fa appello Bessarione, In calimin. Platonis, sostendo che, per Aristotele, se l'anima è immortale ed eterna a parte post, deve esserlo anche a parte ante, con tutti gl’assurdi che dal punto di vista aristotelico ne seguirebbero, se l'anima intellettiva fosse dimissum fuit. Quarto, quod, ncque quandoque cadet, nec  exordium ulluni aliquando acceperit: si igitur rationalis anima nec ncepit cum corpore, nec in corpus desinet, sed semper fuit et aniplius semper erit immortalis ac substantia semper existens simplex et immixta, humano orbi secundum esse unita, non tamen corruptibilis nec alterabilis secundum eius substantiam, opinio redditur Aristotelis scilicet et Averroys et multorum tam antiquorum quam modernorum peripatheticorum, ut Themistii, Theophrasti, Pythagorae et caeterorum eiusdem sectae. Id igitur in quo veriores scilicet peripathetici concurrunt, est rationalem animam nec incipere cum corpore, nec etiam incipere ab aliquo corporis, nec desinere in potentiam corporis, nec in corpus ipsum, sed esse semper qviid immortale divinum et impatibile. Verum id in quo  discreti et differentes sunt isti viri, hoc porro loco a me perscrutandum non expectetur: tum quia prò nunc tantum philosophi et commentatoris opinionem venamur, ex qua ad caeteras quascumque discrimen colligere poterimus; tum quia praeter opinionem opus nostrum multum excresceret. Hanc sententiam comprobant Aristotelis auctoritates multae; quarimi quae adversus Alexandrum  iam adductae sunt nobis sufficiant. Motiva autem philosophorum sunt multa, et primum quod ad hoc movit Averroym, fuit ratio fortis quae ex De substantia orbis piane colligitur, quoniam nulla forma inducta in materia non mediantibus interminatis dimensionibus et non per dispositiones qualitativas et quantitativas praecedentes, simul accipit esse cum toto. Sed rationalis anima hominis huiusmodi est. Ergo etc. Amplius amne quod est dominus suorum actuum est abstractum et immortale. Sed anima humana intellectiva talis est. Ergo etc. Maior utique evidens est ex se: quod enim non habet dominium suorum actuum, ad unam tantum partem determinatur; quemadmodum ad delectabile appetitus sensitivus; et talis proculdubio est materiae immersus. Minoris autem  veritas inductive declaratur: nam si uni vero philosopho vel  religioso offeratur inoltre moltiplicata col numero degli uomini. Si che Bessarione ne aveva concluso: Igitur alterum de his duobus dicat necesse est: aut enim unum eundemque intellectum omnibus esse, aut una cum corpore animam interire. E se egli poteva ritenere che nessuno era riuscito finora a dimostrare la falsità della  tesi averroistica dell'unità dell'intelletto, secondo i principi della filosofia aristotelica, Pomponazzi, che, pur ritenendo perfettamente aristotelica questa dottrina, la considera stoltezza, fatuitas, Kristeller, il  ms. napol., tronca le sue precedenti esitazioni, e prese a sostenere con risolutezza la tesi che, pur essendo quello dell'immortalità dell'anima un problema neutrum, tutti i principi  formulati da Aristotele, e segnatamente quello stabilito in questo luogo del De caelo, sembrano concludere alla MORTALITÀ dell'anima. Pochi mesi dopo scrisse D’immortalitate aniniae. Ma sullo sviluppo del pensiero del Perette intorno a questo argomento, Giorn. Crit. puella, appetitus tunc tendit in fornicationem, quia delectabile; intellectus autein reicit et fugit, quia malum et  propter offensionem dei proximique. Ecce igitur qualiter hominis intellectiva anima domina est suorum actuum, quia scilicet potest delectabile fugere vel persequi; non sic autem appetitus ipse. Et haec fuit ratio divini Platonis in Phaedone, ibi inter omnes efficacior, quam olim ab eo accepit platonicus Plotinus, in tractatu de immortalitate animae, quam etiam adducit divus Albertus in De origine animae. Et fuit haec ratio apud aliquos tantae effìcaciae et auctoritatis, ut palam dixerint,  quod qui conatur hanc solvere rationem fatuus est. Rursum, quod intelligit omnia tam materialia quam immaterialia est iinmateriale, et per consequens immortale; haecenim se consequuntur, ut constat in intelligentiis; sed intellectiva hominis anima omnia comprehendit, tam scilicet  materialia quam etiam iinmaterialia; igitur immaterialis est, et ex consequenti immortalis. Maioris primam partem innuit philosophus, De anima, tex. co., quum dixit, quod omne recipiens debet esse denudatimi a natura rei receptae. Secunda etiam pars patet; alioquin rationalis anima esset organica, et sic determinata ad unum, cuius tamen oppositum in nobis metipsis comprehendimus. Minorem vero in nobis proculdubio quottidie experimur. Quare etc. Et confirmatur, nam anima  nostra intellectiva universaliter et abstracte intelligit; ergo et ipsa est abstracta et immortalis; secus ipsa esset aut aliquis quinque sensuum – URMSON THE OBJECT OF THE FIVE SENSES -- , aut sextus sensus, et sic per consequens non iniiversaliter intelligeret; quod apud perypatheticos est valde absurdum et manifeste falsum. Adhuc, si ista rationalis anima non est abstracta et  immortalis, tunc aut est complexio, aut forma superaddita complexioni; sed non primum, quia tunc esset accidens, quod nullus sanae mentis fateretur; minus etiam secundum; sequeretur enim ipsam esse organicam et extensam, et sic fìeret determinata ad unum quemadmodum et caeteri sensus, cuius tamen oppositum in nobis manifeste percipimus omnia et universaliter percipientes. His ita prealibatis, inquiunt veriores perypathetici hunc intellectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere, loquendo praecipue ad intentionem philosophi et commentatoris, unicamque omnibus hominibus inesse, ac minime generabilem aut corruptibilem nec eductam de potentia materiae. Amplius opinantur ipsam facere per se unum cum homine constituto in esse per  cogitativam; et ponunt quod intellectus ipse non potest informare materiam non informante cogitativa; non enim stat materia absque forma constituta in esse per eam; nec potest intellectus informare sine sua proxima et ultima dispositione, quae quidem est cogitativa respectu intellectus; unde, esto quod cogitativa ipsa non sit forma generica, ordinatur  nihilominus in intellectum propter  ipsius essentialem ordinem ad ipsum. Nec econverso potest cogitativa informare materiam et ipso quoque non informante intellectu; positis enim informabili ultimate disposito et ipso informativo,  necessario et ipsa insurgit inforniatio. Est autem materia informata cogitativa informabile propinquum et ultimate dispositum ad humanum recipiendum intellectum; et sic potest una formia  substantialis ad aliam esse dispositio, dummodo forma illa praeparans non sit materiae ratio recipiendi. Adduntque post haec hunc eumdem intellectum primo et adequate informare totum orbem humanum; secundario vero illius partes, ut scilicet sunt individua hominis. Nec intellectui humano, quamvis sit unicus et individuus, pluribus dare esse aeque primo hominibus, utputa Socrati,  Platoni, CICERONI CICERONE – L’ANIMA DI CICERONE -- et sic de aliis, repugnat; in via namque philosophi et commentatoris constat intelligentias esse individua, ut Primae Pìiilosophiae et in De coelo; et illa eadem esse cum suismet quidditatibus; unde intellectus materialis, quum sententia commentatoris, secundo Physice auscultationis, infima sit intelligentiarum, erit et ipsa  individuum et sua quidditas; enim Methaphysica, comm. De  anima, comm., in abstractis a materia non differt quidditas ab eo cuius est. Intellectus igitur materialis individuum erit et singularis; ob id tamen nihil prohibet, licet intellectus ipse sit etiam quidditas universalis, dare esse hoc et singulare homini, ut iam dictum est. Et sic apparet quomodo esse hominis, in eo quod homo, est  ultimo per hunc intellectum, et quomodo difterentia hominis, in eo quod homo, sumitur ultimate ab hoc eodem intellectu; et sic quoque individuum ipsum humanum, idest constitutum ex cogitativa tanquam ex materiali, et ex ipso intellectu tanquam ex formali, utputa Sortes vel Plato, habent esse hoc ad ipso intellectu ultimate. A materia autem divisa informabili cogitativa dimensionibus  mediantibus informante, nascitur possibilitas multiplicationis individuorum sub eadem specie; quae omnia propter esse universale ipsius intellectus informari possunt ab ilio, et ab eodem sumere esse suum verum hoc et unum. Et breviter autumant intellectum ipsum primo esse formam adequatam totius suae sphaerae humanae; secundario vero partium sphaerae, ut particularium  hominum, hoc scilicet pacto quod, inquantum quidditas, partiri possit per materias informatas dimensionibus et cogitativis, inquantum autem individuum, est id  esse per quod individuum hominis est hoc ultimate. Dicuntque praeterea opinionem esse Averroys, ut intellectus uniatur homini non tantum ut ars et motor instrumento et organo, sed etiam secundum operationem et esse.  Yocant autem aliquid alteri vmiri secundum esse, quando illud habet esse et nomen ab eo; non autem audiunt esse prò operatione, iuxta illud vivere viventibus est esse,  nec prò esse  educto de po Questa tesi si trova alla lettera nei quolibeta de intelligentiis d’Achillini, e NiFO, De intellectu, la dice tolta dal trattato De intellectu di Sigieri. N. Brab. nel  pens.  ecc. tentia niateriae; sed per esse intelligunt informationem quam corpori tribuit intellectus. Dicunt etiam quod, quando aliqua forma unitur alicui materiae, duo debemus considerare: primum, prout ipsa forma materiam constituit in esse, scilicet prout forma materiam informat eique nomen et difììnitionem concedit simul, prout ipsa forma a materia sustinetur ac ab ea dependet in esse et conservari secundum  suum genus causae, ac etiam ab ea in operari dependet; secundum autem prout aliqua forma aliquod subiectum sive materiam in esse constituit, ipsa tamen per subiectum vel materiam in esse non constituitur, sicut se habet intelligentia et orbis; et huiusmodi asserunt se habere rationalem animam ad hominem, sive ad orbem humanum et suas partes. Dat ante intelligere hanc distinctionem  Averroys, Physicorum primo, comm. ubi  ait: Et quia coelum caret hoc subiecto, ideo caret forma quae substentetur per hoc subiectum, et fuit necesse ut forma eius sit liberata ab hoc subiecto, et non habet constitutionem per corpus codeste, sed corpus codeste constituitur per illam, ut scies alibi etc. Ex quibus apparet aliquam esse formam subiectum suum tantum constituens, non autem per illud constituta, sicut est de forma codi et de anima intellectiva in proposito nostro; alia vero est forma constituens subiectum suum in esse, ac per illud ipsa quoque in esse constituta Hoc idem dicitur in Physicae auscultationis, ex comm. Illud idem etiam et in capite De substantia orbis. Hanc eandem sententiam possumus sumere a commentatore De anima comm. et comm. non  minus quam a Themistio, ibidem in paraphrasi sua de anima. Caeterum quod ista sit opinio commentatoris Averroys,  ex verbis suis intdligi potest. Ait enim. Taiapietra riferisce l’obiezioni che a lui fanno gl’altri averroisti, i quali riteneno che per Averroè l’intelletto è separato dall'uomo, sì che intentio fuit commentatoris, quod intellectus possibilis, licet sit unicus in omnibus hominibus,  non tamen proprie dat esse, sed operationem, eo modo quo dicunt aliqui intelligentiam uniti coelo, non dando ei perfectiones primas, sed tantum secundas, et hoc modo anima ipsa intellectiva unitur homini, secundum commentatorem, mediantibus scilicet fantasmatibus. Ed anzi tutto riferisce cinque obiezioni ricavate dalle opere dei averroisti. A queste n’aggiunge ben ventisette che  gli movevanoi contemporanei, irritati dal vedere la dottrina d' Averroè interpretata in modo così diverso dal consueto: ex modernis autem inveniuntur quos adeo positio nostra in via commentatoris fastidit, quod, ut eam penitus delerent, omne quasi possibile induci contra illam attulere, Nel riferire questi argomenti, egli usa sempre il plurale dicunt, volunt etc. Ma giunto alla fine del  capitolo, abbandona il plurale e addita un certo dottore contemporaneo di cui però non fa il nome: Ex his potissime vult iste doctor colligere positionem hanc contradicere fundamentis Averroys expresse. Et fortius et uberius instetit iste homo in hac materia, quam aliquis alter quem ego unquam viderim. Et iudicio meo multum laboravit hic vir, sed frustra. E nel capitolo successivo, rispondendo a queste obiezioni, torna ad accennare a costui ad vigesimum septimum: Et certe sum admiratus de isto homine qui aliquas tam frivolas rationes aduxerit. Quasi con certezza si può ritenere che questo dottore averroista che inveiva contro quello che egli ritene un travisamento del pensiero d'Averroè, fosse Zimara. Ad ogni modo è indubbio che la controversia non era tra  averroisti e antiaverroisti, ma tra averroisti e averroisti, cioè tra primi cugini, se non proprio tra fratelli carnali. Ed erano maestri dello studio patavino: Sed post hos invenio aliquos qui in GYMNASIO PUBLICO patavino se magnos philosophos faciunt, voluntque per urbem digito ostendi ac ab omnibus observari; sed quo iure non video Alla spocchia di questi chacoaverroyci expositores  Taiapietra oppone la sua superba Zimara, che dedica a Mocenigo, discepolo di Pomponazzi la quaestio de principio individuationis, l’Annotationes  in Gandavenseni super quaestionibits metaphysicae e la quaestio de triplici causalitate intelligentiae in appendice alle quaesiiones di Jandun sulla metafisica, Venezia, era quello che meglio rappresenta l'averroista combattuto da Taiapietra.  Non è tuttavia d’escludere che egli si riferisse direttamente a Pomponazzi, che, discutendo dell'immortalità dell'anima combatte la dottrina sigieriana in questi termini, Kristeller. Alia est opinio quorundam se averroistas existimantium qui dicunt quod anima ita se habet ad corpus sicut forma ad materiam. Vult autem opinio ista quod fuerit de intentione Averrois, animam intellectivam  esse formam dantem esse ipsi corpori. Formarum autem dantium esse aliquae sunt constitutae in esse per subiectum et eductae de potentia subiecti et insunt ex mutua dependentia ei; aliae vero sunt quae nec sunt constitutae in esse per subiectum, nec sunt eductae de potentia subiecti, nec insunt ei ex mutua dependentia, tamen dant esse ipsi subiecto. Et talis forma praesupponit corpus organizatum actu existens, et  non inducitur absque disposinone praevia, sed praesupponit omnes conditiones requisitas. Le stesse cose nel ms. napol. Giorn. Crit. Filos. Ital. certezza di essere nel vero: Et haec et tanta dixi, quia hanc viam ad mentem commentatoris caeteris subtiliorem et probabiliorem esse existimo, ac ab omni contradictione remotiorem. E più oltre: Et ista est resoluta  doctrina philosophi, et panis non est tradendus canibus Nel studio di N. sulla diffusione del commento di Simplicio al De anima e sulle ripercussioni ch'esso ebbe nelle controversie, dimostra che i primi a trarne profìtto sono Pico e Nifo, e come l'uno e l'altro, ma specialmente il secondo,  trovano in Simplicio una conferma del loro averroismo di marca sigieriana La quale opinione è  condivisa dal nostro, che così scrive: Post haec omnia invenitur una alia opinio quae Simplicio ascribitur, qui ex intellectu et cogitativa aggregai animam rationalem, quasi ex istis compositam, quae, si recte intelligatur, ad niostram opinionem reducitur. Puto enim quod, quum ipse fuerit unus ex bonis Aristotelis expositoribus ut omnes graeci latinique philosophi de ipso testantur,  voluerit cogitativam realiter distingui ab intellectu; verum quoquo modo rationalis anima ex cogitativa et intellectu componi dicitur, prò quanto cogitativa omnino habet introitum in essendo animam hominis licet non ultimate, et distinguendo ipsum, ac ipsum in specie non ultimate reponendo. Et confirmatur hoc, quia quae ad invicem quoquo modo vel vere componuntur, ad invicem  et distinguuntur. Non autem credo Simplicium tenere cogitativam et intellectum esse idem realiter, secundum tamen gradus distinctos, quoniam tunc realiter essent plures intellectus generabiles et corruptibiles, sicut de cogitativis evenit. Et hanc sententiam confirmat Averroys, Methaphysicae comm. ubi ait: Et ex hoc quidem apparet bene quod Aristoteles opinatur, quod forma hominum,  in eo quod sunt homines, non est nisi per continuationem eorum cum intellectu qui declaratur in libro de anima. Unde patet quod Averroys vult quod differentia hominis, inquantum homo, ultimate sit ab intellectu. Hoc idem sentit Averroys in destruc. desiruc, disp., in solutione dubii ibidem. Quare  etc. Et sic etiam verificatur quod intellectus is non est actus corporis, id est non est  forma educta de potentia materiae ab agente scilicet  naturali, ut testatur philosophus; ob id tamen nihil prohibet quod intellectus ipse sit actus corporis, id est forma informans corpus et dans esse corpori. Et ex his habetur haec Simplicii positio in via peripatheticorum optime tirmata. Indi il maestro, dopo aver fatto vedere in che la tesi d'Averroè sull'intelletto possibile differisca dalla  dottrina di Temistio e di Plotino, e dopo aver risolte l’obiezioni degl’altri averroisti e degl’avversari dell'averroismo, torna ad insistere che la sua maniera d' intendere il pensiero d'Averroè concorda in tutto e per tutto con quanto asserisce il commentatore arabo e, con lui, pensano i migliori averroisti, a capo dei quali è Sigieri: Ecce ergo qvio modo vult ipse Avwroes intellectum,  inquantum quidditas, partiri per materias informatas dimensionibus et cogitativis; inquantum vero est individuum, esse id per quod individuum hominis est hoc. Intellectus ergo, ut habet esse reale, est forma suo orbi; ut autem habet esse intentionale et universale, est materia omnium intellectuum separatorum. Et ista videtur esse plana sententia Averroys in hoc quaesito, ut de mente eius tenent praeclarissimi viri et maxime inter alios Subgerius, praecipuvis averroysta. Et iste fuit discipulus Alberti et contemporaneus AQUINO, et qui, in quodam suo tractatu De intellecttt adversus AQUINO, opinatur, in via Averro^'S et philosophi, intellectum materialem esse formam perpetuam ex utroque latere. Dal modo come si parla qui di Sigieri, è evidente che Taiapietra aveva presente il trattato De intellectu del Nifo che era stato stampato a Venezia. Ma mentre questi s'era già separato dell'averroismo professato a Padova nei suoi anni d' insegnamento, il filosofo veneziano è ancora perfettamente averroista, e si direbbe che dalle opere del Nifo abbia attinto soltanto quel che gli serviva per conoscere il pensiero dell'averroista brabantino, del quale si  fa difensore e propugnatore dinanzi al capitolo generale dei frati minori a Roma, contro l’argomentazioni del Nifo stesso  ch'egli  rintuzza. Il trattato ha per oggetto 1'ultima prosperitas et beatitudo, ossia 1'  £ÙSai!J.o via aristotelica, intorno alla quale dissertarono a lungo gl’averroisti. Sigieri, a quanto riferisce Nifo, n’aveva parlato in DE FELICITATE – GRICE ON HAPPINESS ACKRILL EUDAEMONIA--, ed sostene in proposito forse le sue più ardite tesi. Per Aristotele il fine – GRICE METIER -- supremo dell'uomo, in quanto uomo, consiste nel pieno appagamento del desiderio che la 40 Nifo,  De  intellectu; De beatitudine animae, commento. N.,  Sigieri. mente ha di sapere, cioè di conoscere la realtà, non solo nelle sue manifestazioni contingenti, ma  nelle sue cause e ragioni eterne. Occorre quindi che la mente risalga, al di là del mondo sensibile e di quel che nasce e muore, all'eterno e immutabile, al mondo metafisico, al cui centro è il principio di ogni intelligibilità e il fine ultimo cui le cose tutte tendono. Ma può l’intelligenza umana, legata com'è alla sfera della sensibilità, giungere a conoscere in se stessa la pura realtà ideale di  Dio e dell’intelligenze motrici intorno a lui? Aristotele non dà una soluzione chiara di questo problema – GRICE: KANT DOES: COUNSELS OF PRUDENCE AS HAVING A FIXED PROTASIS: IF THOU WILLEST THAT THOU ART HAPPY --; e perciò i suoi commentatori greci, romani, ed arabi l'avevano cercata nel pensiero platonico e neoplatonico, elaborando quella tipica  dottrina della copulatio della mente umana coll'intelletto agente, della quale si fa un necessario complemento dell'etica aristotelica – GRICE HARDIE ARISTOTLE’S MORALS --. Se l’intelletto umano non fosse capace d' innalzarsi a conoscere in se stesse le sostanze separate, dice Averroè nel commento alla metafisica, il desiderio umano di conoscere la verità sarebbe vano, ed  inutile sarebbe l'esistenza di tali sostanze che noi non potremmo mai arrivare a conoscere nella loro vera natura – HARE L’UCCELLO DELLA FELICITA FELIX ILLE.  È certo interessante veder posto il desiderio umano di conoscere a fondamento dei nostri giudizi intorno alla realtà. Ma a ciò non badarono i filosofi medievali. I quali si sforzarono piuttosto d'intendere come la conseguenza  fosse dedotta dalle premesse, contro AQUINO che nega la legittimità di questa deduzione. In che modo giustificasse la legittimità della deduzione Sigieri, è fatto conoscere da Nifo, al quale s' ispira anche questa volta il patrizio veneziano nel riecheggiare che fa la dottrina sigieriana: Onod si foret hominibus omnino impossibile conoscere in se stesse le sostanze separate e Dio, tane  natura ociose egisset; fecisset enim id, qnod est in se naturaliter intellectum, non comprehensum ab aliquo, et sic esset frustra, quemadmodum si fecisset solem non comprehensum ab aliquo visu. Hanc sequellam diversi diversimode deducunt; quidam enim eam sic deducere consueverant. Supposito primo quod omnis intellectio, conveniens intellectui possibili, non conveniat quin etiam  homini competat, hoc expresse sensit philosophus, De  anima, quicquid dicant alii; hoc quippe supposito negato, aufertur omnis via commentatori ad probandum coelum intelligere; quare AQUINO In metaphys. lect. si possibile est substantias separatas intelligi ab intellectu possibili, possibile est quoque substantias separatas intelligi ab hoc homine. Quo stante, tunc arguunt sic.  Quandocumque aliqua reperitur forma apta non recipi in maximo receptivo alicuius generis, illa eadem non est receptibilis in minus receptivo eivisdem generis. Sed intellectus possibilis in genere intelligentiarum est maxime receptivus, ut constat  De  anima Igitur si primam formam non est possibile intellectum possibilem recipere, ncque etiam est possibile alium intellectum primam  ipsam recipere formam. Unde omnes frustrarentur intelligentiae mediae ab hoc scilicet line, qui est deum gloriosum et sublimem intelligere. Verum quandocumque intellectus abstractus non potest intelligere superiora, ipse non potest intelligere inferiora; sed nulla intelligentia media potest primam intelligere; igitur nulla intelligentia media potest et intelligentiam mediam intelligere;  sed neque deus potest intelligentias medias intelligere, ut Divinovum de mente Averroys concluditur. Et neque intellectus noster possibilis, ut fatentur adversarii, eas intelligere potest. Igitur intellectus possibilis, naturaliter in se intelligibilis, non est ab aliquo comprehensus; sic patet ociositas maxima in natura. Ex quo habetur quod, nisi abstracta intelligerentur a nobis, essent utique  ociosa. Et haec fuit deductio Subgerii, viri in familia averroyca non obscuri Ma Taiapietra  sa che non tutti gl’averroisti convengono nel modo d’argomentare di Sigieri; dal quale dissente in particolare Jandun: Alii autem, ut Gandavensis in quaestionihus suis de anima, quaestione, aliter deducunt. Et ipsi accipiunt primo quod substantiae separatae comparantur ad intellectum nostrum  ut formae natae intelligi; intellectus vero noster comparatur eis ut subiectum natum recipere illas comprehensive et spiritu aliter; quod ex verbis Averro3^s multis viis probari potest. Primo, namque intellectus possibilis ultimus est abstractorum; sed semper infìmus intellectus est materia superioris, infima enim intelligentia perficitur a superiori sicut materia perficitur a forma, ut dicunt  philosophi. Et confirmatur: quoniam vilius est potentia respectu nobilis, et nobile est tanquam actus respectu vilis; igitur, quemadmodum substantiae separatae sunt natae ntelligi secundum earum naturas, ita noster intellectus est natus Arist., De anima Poiché secondo Averroè, Metaphys. comm., Dio conosce soltanto se stesso e non le cose inferiori a sé. NiFO,  De intell.; De beat, an.,   I,  comm. Ma anche questa svista è in Nifo, De intell. perfici ab eis secundum suam naturam. Amplius, intellectus possibilis est materia omnium abstractorum et omnium intelligibilium; sed materia non corruptibilis ab ipsis formis est apta et potens suscipere omnes formas; intellectus igitur noster potest recipere omnia intelligibilia. Accipiatur igitur prò constanti, quod intelligentiae  sint potentes intelligi ab intellectu nostro potentia quidem naturali; et similiter intellectus noster potest intelligere illas potentia naturali, sicut et ipsa materia potentia naturali potest omnes suscipere formas. Quo stante, arguit modo Ioannessic: intellectus possibilis, corpori continuus, est receptivus et passivus intellectionis abstractarum intelligentiarum; ergo habet naturalem  potentiam  recipiendi intellectiones earum, per earum scilicet  essentias; ergo, si aliquando per cognitionem non attinget eas, tunc natura egisset ociose, quoniam fecisset illam potentiam naturalem intellectus nostri ad illas capessendas, quae tamen in actum nunquam adduceretur. Et quod haec sit Averroys ratio, declarat ibidem Ioannes exemplo eius. Et sic patet quomodo Ioannes deducit illam  sequellam, exponendo totam potentiam intelligendi ex parte nostri intellectus, et non ex parte intelligentiarum, ut fecit Subgerius, qui totam intelligendi potentiam ad  substantias separatas convertit. La stretta dipendenza dell'averroista veneziano dal Nifo, si rivela oltre che dai testi citati, anche d’un particolare caratteristico, là dove s'accenna  a quell'esposizione del pensiero averroistico che veriores  averroyci exceperunt a filio Averroys in tractatu suo  De intellectu. Ma comunque interpretata, la dottrina averroistica sulla copulatio e sulla felicitas Averroistarum, di cui era solito beffarsi il Perette, è evidentemente contraria all'insegnamento teologico. Perciò Taiapietra s'affretta ad aggiungere :Verum quicquid dicatur principiis innitendo naturalibus ad mentem philosophi et commentatoris, nihilominus secundum veram theologorum  sententiam dicimus nullam generi humano in hac vita contingere posse foelicitatem et beatitudinem, sed illam ei servari post mortem in alio statu. Viatori enim non potest NiFO De  intell. Amplius, filius Averroys in tractatu de intellectu Declaravit has tres demonstrationes filius Averroys in tractatu de intellectu anche nei Collectanea: et hanc domonstrationem dedit Alpheeh Averroys  filius in tractatu quem edidit ad instantiam patris, et eam multum laudavit; e più oltre: et si inspicies librum Alpheeh Averrois filij; e ancora più giù: Et in commentariis, quos scripsi in libro felicitatis Averroys et eius filii. inesse foelicitas nisi in patria, nec etiam abstracta ab eo cognosci possunt cognitione matutina sed tantum vespertina ut sacri nostri recte sentiunt theologi. Con siffatta  dichiarazione, egli ha ottenuto il duplice scopo, di rassicurare i teologi sulle proprie intenzioni, e di poter discutere con tutta libertà intorno al vero pensiero del filosofo e del commentatore. E di questa libertà, procacciata a prezzo di quella dichiarazione, approfitta nel modo piìi ampio, attenendosi al famoso commento del De anima. Anzi tutto, coll'esporre e criticare la dottrina di  Alessandro intorno al modo come l' intelletto umano giunge ad unirsi coll’intelletto agente, che per Afrodisio è Dio, e quella di Avenpace e di Temistio; poi collo spiegare e difendere la tesi che ad essi oppone Averroè, qui inter omnes philosophos post Aristotelem perfectior fuit et subtilior. Taiapietra combatte l’interpretazione che del pensiero d'Averroè da Jandun, il quale opinatus  est quod foelicitas nostra consistat in actu sapientiali, et sit sapientia quae habetur Divinormn xii, a textu commenti xxix usque in finem. Come si vede la felcità – GRICE HARDIE ACKRILL AUSTIN SOME REMARKS ON HAPPINESS -- in siffatta teoria era a portata di mano: per quanto astrusa, la metafisica aristotelica non è poi inintelligibile, e sopra tutto abbastanza facile a  capire è la parte che parla appunto delle sostanze separate che muovono i cieli, e della pura mente di Dio. Ma il possesso delle scienze speculative non basta alla suprema felicità dell'intelletto umano, occorre l'inerenza formale del primo vero nella mente umana, la cui potenza resti così tutta attuata. Il possesso delle scienze speculative è condizione per giungere a questa beatitudine dell'intelletto, non il fine ultimo cui aspira la mente umana, che riposa solo nel possesso del vero eterno --- citta dell’eterna verita GRICE -- fuor del qual nessun vero si spazia. Ora a questo possesso s'arriva soltanto colla copulatio o continuatio dell'intelletto possibile coll'intelletto agente, sì che la potenzialità del primo sia tutta sommersa e assorbita nell'attualità del secondo: Ipse  (commentator), commento (De  anima) totiens allegato, inquit quod in adeptione illa nos intelligimus omnia et sumus sicut dii, et quod ille modus intelligendi non currit cursu scientiarum cogitativarum,  quae habentur per discursum, sed est per substantiam intellectus agentis, in quo omnia intuitive cognoscimus. Convincitur ergo ad intentionem commentatoris, quod ea in cognitione intuitiva nos utique foelicitamur; non autem in illa quae in metaphysica per demonstrationem habetur. Del tutto aderente all'interpretazione sigieriana del pensiero d'Averroè, quale ci è nota pell'esposizione che ne fa Nifo e che concorda con quanto pensa Achillini, è anche l'interpretazione che della vera dottrina del commentatore ci dà Taiapietra: Superest modo circa ambiguitatem  hanc magni commentatoris afferre sententiam, quam omnes viri sublimes in philosophia ac in secta averroyca primarii nobiscum integre et perfecte sentiunt. Opinamur enim itaque foelicitatem esse deum. Nam assumpta foelicitatis diffinitione prò maiori, tunc si addatur haec minor, videlicet: sed deus est ultimus finis, optimus, propter se eligibilis, ad nullum aliud ordinabilis, cuius  gratia omnia eliguntur, bonus et perfectus, pulcherrimus, delectabilissimus, per se sufficiens, honorabilis, principium et causa omnium bonorum; ex his ergo optime convincitur, quod deus est foelicitas. Foelicitas enim, quia rationem totius boni amplectitur, omnem quietat voluntatem; quia vero rationem totius entis continet, universum saciat intellectum. Sed in nullo nisi in deo verius  reperiuntur ratio totius boni et totius entis. Ergo etc Et hoc forte, et sine forte, balbutiendo intellexerunt vetustiores; nec valet quod dicunt quidam moderniores, quod bene concluditur deum esse foelicitatem simpliciter, sed non homini propriam. Sed profecto hoc nihil est, ut piane ostendimus in superiori capite: hanc enim conclusionem habent Averroes et Aristoteles expresse, x.  Nichomachiae,  capite, scilicet quod deus est foelicitas sibi et aliis intelligentiis et etiam homini. Solum enim ipse est perfectissiinum intelligibile et appetibile propter se; in eo enim eminenter reperitur ratio obiecti intellectus et voluntatis, immo solum ipse est eminenter omnia bona continens. Et confirmatur, quoniam id quo foelicitantur dii omnes est suprema hominis et omnium  foelicitas; sed deus est quo omnes foelicitantur; omnes enim intellectus foelicitantur intelligendo deum; sed intellectio qua ipse deus intelligitur est ipse deus; igitur omnia deo foelicitantur. Et haec ratio tota est philosophi, Nichomachiae. Quare concluditur quod deus, ipse formaliter est foelicitas. Amplius, quo foe Sigieri Alla lettera da Nifo, De intellectu Allude forse al  passo  àeWEtìi.  Nicom.. licitatur deus, foelicitantur et alii omnes intellectus, ut expressa est sententia philosophi, Divinorum, et praecipue commentatoris,  ibi,  comm. Sed deus non foelicitatur nisi dee, ut inquit Politicoruni:  deus foelix quidem est et beatus, propter nullum autem extrinsecorum bonorum, sed propter seipsum ipse. Deo, ergo, nedum homo, sed omnia foelicitantur. Sed nihil foelicitatur  nisi foelicitate. Deus igitur ipsa est foelicitas. Et ex hiis verifìcantur omnia verba Aristotelis in toto libro Ethicoriim, ubi de foelicitate sermonem habet. Giunto alla fine trattato,  il filosofo, rendendosi ben conto che siffatta  felicità è irraggiungibile all'uomo in questa vita, torna ad avvertire il lettore che tutto quello che abbiamo udito da lui su questo argomento, ad altro non mira se non  a chiarire qual è in proposito il vero pensiero d'Aristotele e Averroè: Hoc enim, in explanandis auctoribus, expositoris officium esse consuevit, ita quod, quid ipse velit auctor, et determinet et ad verbum interpretetur, etiam si illud falsum sit, ut auctorum integrae et non manchae, fideles et non depravatae sententiae circa quaeque apud omnes recipiantur.  His autem sacri nostri Poi.  ediz. Immisch. Leipzig, Teubner, Così anche Nifo  nella lettera all'inquisitore Grassetto, della quale è stato fatto cenno sopra: in exponendis enim auctoribus, commentatoris officium solet esse, quid ipse auctor velit ac sentiat, etiam si id interdum minime verum sit, interpretari. Di questo che è non solo diritto ma dovere di ogni interprete onesto, si valsero tutti gl’averroisti per esporre con  la massima libertà il pensiero d'Aristotele e dei suoi interpreti. Ma Nifo, per entrare nelle buone grazie dell'inquisitore, aggiunge. Itaque ut in illis quae ad philosophiam pertinebant, philosophi ac interpretis munere functi, ipsum auctorem exposuimus; ita in his quae fidei catholicae contraria erant, ultra expositoris terminos evagati quemadmodum hominem christianum decebat, ipsi  auctori contradicimus eiusque OPINIONES – GRICE PREJUDICES AND PREDILECTIONS, WHICH BECOME THE LIFE AND OPINIONS OF H. P. GRICE -- ac dieta omnia theologorum nostrorum auxilio confutavimus -- quello che Taiapietra e in generale gl’averroisti non fanno.  Del che l'inquisitore gli dà  atto: placetque mihi quod in philosophia, christianae fidei non  immemor, in plurimis philosophos redargueris, nihilque in toto opere  invenerim quod castigatione dignum censeam -- in fine del volume che contiene il commento di Nifo alla Desfritctio e il De sensu  agente nell'ediz. veneziana. Di questo zelo nel redarguire e confutare le dottrine dei filosofi ancora di più che nel commento alla Destriictio, Nifo fa mostra nel De intellectit, riveduto e  corretto pell'edizione, ove è evidente il proposito di rifarsi una verginità filosofica anti-averroistica, adoprandosi a far credere che il suo distacco dall'averroismo risalga e preceda quello del suo maestro Vernia. Hec sunt que preceptor defendit ad mentem Platonis et Aristotelis theologi iuxta christianam nostrani religionem multa addunt, quae nos ex testimonio prophetarum credimus;  et ideo ea tantum asserta esse volumus, non quaerentes ad liaec aliquam rationem, sed quantum ortodoxa ecclesia praecipit, procul dubio asseveramus. Itaque, ut philosophum decet ac peripatheticum hoc in tractatu quae ad philosophiam pertinebant, more phisici interpretis, declaravimus, ubi non parum boni fecisse arbitramur, quum multa in naturali philosophia obscura et latentia  iuxta sententiam philosophi et eius magni commentatoris Averroys in lucem ediderimus et ea bene dispositis aperte propalavimus. A questo trattato ne seguono altri, concernenti argomenti di filosofia naturale fieramente controversi tra gl’aristotelici delle varie tendenze, e cioè  Utrum nec ne apud philosophum plures substantiales formae ad invicem realiter distinctae in substantiali  composito sint  ponendae Utrum ad intentionem philosophi dementa remaneant formaliter in mixto Utrum simplex elementum alterari possit et a se De quorumcunque  simplicium sive mixtorum primo ac proprie dicto elemento e su tutti questi argomenti Taiapietra difende con risolutezza ed energia la dottrina d'Averroè come quella che combacia perfettamente coll’insegnamento di  quello glorioso filosofo al quale la natura più aperse li suoi segreti, come pensa ALIGHIERI. Ma di siffatti argomenti il nostro palato, che ha assaporato Hume e Kant – E KANTOTLE ARISKANT PLATHEGEL --,  non ha più il gusto, che non hanno perduto invece i sequaci d’AQUINO, ai quali è giusto che queste pagine siano segnalate. Tale il programma che l'allievo dei maestri  padovani prepara pella solenne disputa romana. A parte l'accenno abbastanza vago che Sanudo fa dell'obiezione di Gabrielli ad una delle tesi sostenute dal dottorando, perché l'è ereticha, non sappiamo a quali altri assalti dove tener testa l’averroista veneziano. Sappiamo soltanto che egli giostra da  bravo e che il giorno appresso il papa lo dotoroe. O tempora! – IT IS A GOOD THING I NEVER TRIED TO EXPLORE QUA HAMSWORTH SCHOLAR THE 39 ARTICLES – GRICE -- in eo libello quem inscripsit De animorum pluralitate, quem confecit compluribus annis post nostrum  De intellectti librum Nifo, De anima, comm. Eppure Nifo sa bene che Vernia, nella dedica dell'opera a Grimani, dichiara d’avere scritto anch'egli il suo trattato Conv., Nel volume  su  Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, N. ha a riunire alcune importanti testimonianze intorno a due e forse tre scritti dell'averroista brabantino, che si leggeno ancora a Bologna e a Padova. Queste testimonianze si trovano pella massima parte nel De intellectn et daemonibiis di Nifo, il quale pretende d'avere scritto quest'opera a Padova, quando già s'era distaccato  dall'averroismo sigieriano cui egli aveva prima aderito. E pare che in quegli anni egli scrive davvero una quaestio de intellectu in  senso sigieriano, e che in seguito, per evitare la taccia d’eresia e guai maggiori, ri-elaborasse quella quaestio, sino a  farne il trattato De intellectu, dedicato  a Badoèr: che d’edizioni anteriori  non esistono tracce. In tal modo Nifo cerca di far credere che egli  aveva preceduto il suo maestro Vernia nell'abbandono dell'averroismo. Nel  De intellectu e nel commento al De animae  beatitudine di Averroè,  Nifo si riferiva a due opere di Sigieri  o, com'egli scrive, Sugerius, Suggerius, Subgerius, vir gravis, secte  Averro3stice fautor, etate Expositoris, cioè d’AQUINO, discipulus Alberti, Subgerius contemporaneus AQUINO.  Queste due opere    sono un tractatus de intellectu, Dal Giorh. Crit. d. Filos. Ital. tertio loco inscriptus, qui fuit missus AQUINO,  prò responsione ad tractatum suum contra Averroim, e un  liber de felicitate che pare identico col tractatus intelligentiarum et beatitudinis, ricordato dallo stesso  Nifo nei suoi Colledanea sul De anima, nell'edizione  veneziana e in quella, nelle quali Subgerius è diventato   Subiegius. Ma nel suo trattatello De primi motoris infinitate, portato a termine quando aveva lasciato Padova, Nifo sembra attribuire a Sigieri un terzo trattato de motore primo et materia celi. L'espressione in tractatu suo de intellectu, tertio loco inscripto potrebbe intendersi di un volume di scritti sigieriani, ove il tractatus de intellectu si trovasse trascritto al terzo posto fra altre opere  dell'averroista  belga. Delle varie dottrine attribuite a questo Sugerius o Subgerius da Nifo, due giova qui ricordare: quella che tende a mettere in evidenza il procedimento deduttivo onde Averroè aveva concluso che se l'intelletto umano non potesse intendere le ostanze separate queste sarebbero inutili, ociosae; e l'altra che afferma che ogni intelligenza inferiore intelligit sviperiorem  per essentiam superioris, ossia in quanto l'intelligenza superiore l'informa di sé intenzionalmente e s'unisce ad essa. Orbene: quanto alla prima di queste due tesi, sappiamo che  il  domenicano Silvestri da Ferrara, nel suo commento alla somma Contra gentiles, l'attribuisce a Rugerius in tractatu  suo de intellectu, misso Beato AQUINO prò responsione ad tractatum suum contra averroistas.  In un primo momento, N. pensa che  Silvestri dipende da Nifo e che Rugerius fosse un errore di stampa per Sugerius. Però avevo aggiunto:  ma può darsi che egli citi d’un manoscritto in cui il nome di Sugerus. era già stato mutato in Rtigerius. Qualche luce viene ora a gettare su questa, che non è affatto una quisquiglia, l'importante notizia nella quale mi sono imbattuto scorrendo il  codice marciano Lat., che contiene le Annotationes in jo  UJjro de anima, die vero iovis quae fuit ah excellentissimo ac celeberrimo domifio Mofìtedocha, unum trium sui temporis philosophoriim peritissimo, trascritte dal padovano Tedoldi, dottore nelle arti, ad laudem ei, dic'egli, et meae amicae quam maxime amo! Montesdoch studia a Bologna e nello studio bolognese insegna  filosofia naturale in concorrenza con Pomponazzi, e per alcuni anni legge anche la metafisica. Ma in seguito a contrasti che N. ritiene egli  ha con Pomponazzi, lascia Bologna e anda a insegnare a Roma. Da Roma  appunto, per un ingaggio vantaggioso propostogli dall'ambasciatore veneto Minio, passa a insegnare filosofia naturale a Padova, iniziando il corso delle lezioni colla lettura  del commento averroistico al De anima. Nella lez., egli venne a porsi appunto il dibattuto problema, come un'intelligenza inferiore conosca l’intelligenze superiori ad essa. Dopo aver riferite varie opinioni,  egli  accenna a quella moderna sostenuta d’Achillini, che l'intelligenza inferiore conosce quella superiore per essentiam superioris. Siffatta tesi, osserva Montesdoch, può dirsi   moderna solo in quanto alcuni moderni, come Achillini, se la sono appropriata. Ma prima di  loro e' è stato Ruggiero. Cosi anche  nel Marciano lat. che contiene le lezioni dello stesso Montesdoch sulla Fisica, Tedoldi che le stava trascrivendo, interrompe la lez. con questa informazione autobiografica: Et sic sit finis huius lecturae nostrae prò praesenti, quae fuit die mercuri  8 mensis  augusti et hora  ii  ad laudem dei et beatae mariae atque amicae meae quam maxime amo, quia  hodie hora habui eam in brachiis meis. Le parole tra parentesi quadrate son coperte d'inchiostro e solo alcune appena leggibili. Sotto è un quadrato che dove contenere un motto o un piccolo disegno. Ma anch'esso è stato coperto d'inchiostro nero. E alla fine della lezione sul De caelo,  commentato da Montesdoch, cod. marciano lat., Tedoldi, che la sta copiando, annota: Sed quia hora est nimis tarda, et quia maxime crucior amore meae amicae, ideo valde fessus cogor non amplius scribere. Tanto che, lasciata Bologna d’un pezzo, Montesdoch conserva ancora del Peretto un ricordo disgustoso. Nel commento infatti alla Fisica fa menzione di lui come nimis monstruosus,  e troppo grossolani ne dichiara i ragionamenti: dicit rationes nimis grossas Alia positio et opinio est quae est opinio non moderna, dato quod moderni eam sibi tribuant. Sed ante eos fuit Rogerius; fuit magnus vir, cuius opera non habentur impressa, nec vidi ea nisi in bibliotheca sanati dominici de bononia, et ea etiam vidi romae in sanato Ioanne de viridario. Fuit etiam opinio Ioannis de RIPA; tamen Achillinus sibi eam tribuit, quomodo seconda intelligentia intelligat primam, ms. Marciano. Che questo Rogerius sia il Sugerius o Subgerius di cui parla Nifo non v'è dubbio. Ma l'importanza di questa informazione di Montesdoch consiste nell' averci egli indicato dove aveva visto l’opere di questo Rogerius sostenitore della dottrina che Achillini spaccia per sua. Queste  opere non ancora stampate, bensì  manoscritte, erano state viste da lui a Bologna, nella biblioteca del convento domenicano di S. Domenico, e dipoi a Padova, nella biblioteca del monastero di S. Giovanni in Verdara dei Canonici Lateranensi. Veramente nel ms. Marciano si legge: et ea etiam vidi romae in sancto Ioanne de viridario; ma è evidente che al posto di romae deve leggersi  paduae supponendo che il nome di Padova fosse scritto con l'iniziale maiuscola, l'errore di lettura si spiega facilmente; a meno che non debba leggersi romae et in sancto Ioanne de viridario. Quanto al codice veduto a S. Domenico di Bologna, parrebbe trattarsi di quello usato da Silvestri che, come abbiamo visto, ne ritenne autore, anch'egli, Rogerius, che si ha ragione di ritenere  identico a Sugerius. Questo codice non figura affatto nei cataloghi di S. Domenico pubblicati da Laurent Vigili et les hibliothèques de Bologne au début du xvie siede d'après le  ms. Barb. latin  E nella lez lo stesso Montesdoch dice. Una est opinio Ioannis de RIPA, cuius opera sunt bononiae in conventu sancti lacobi, qui est fratrum Eremitarum. Et ipse bene intellexit opinionem averrois  in hoc loco, sicut aliquis  alius. Omnia autem ab Ioanne de RIPA accepit Achilinus. Come risulta dall'opera di Laurent, citata più oltre, il commento alle Sentenze, cui qui si allude, era posseduto non solo dalla biblioteca del convento di S. Giacomo, ma altresì da quella di S. Domenico e da quella di S. Francesco. In questo scritto o questione non  solo Giovanni da Ripatransone si dilunga in ben quattro articoli sul tema qui accennato, ma ci offre un'ampia esposizione del suo modo d' intendere la dottrina averroistica sulle intelligenze separate e sull’intelletto umano, molto vicina e spesso identica a quella di Sigieri. in Studi e Testi, Vaticano. Dove è andato a finire e come è scomparso? Siccome esso fu visto da Silvestri, che, proprio a Bologna nel convento di S. Domenico,  aveva portato a termine il suo commento alla somma Contra gentiles, e da Montesdoch, si può pensare che esso sia stato fatto sparire come opera d'averroista inviso ai domenicani, che l'averroismo ritenevano una pericolosa eresia, a differenza di altri, per esempio degh eremitani e dei carmelitani, assai meno ligi ad AQUINO. Tanto più che Achillini, come ricorda Montesdoch, aveva  fatte sue le dottrine dell'averroista brabantino, pur evitando di nominarlo, nella pubblica disputa tenuta al capitolo generale dei frati minori. Quanto all'esemplare che Montesdoch dichiara d'aver visto nella biblioteca di  S. Giovanni in Verdara, a Padova, N. ha il sospetto che esso potesse essere una copia di quello di Bologna, ordinata da Marcanova, negli anni che questi insegna a  Bologna, e quindi passata al monastero di Verdara insieme alla biblioteca di lui. Ma dallo studio di Sighinolfi, che della biblioteca del Marcanova ha pubblicato l’inventario nei Collectanea variae doctrinae in onore di Olschki,  Monaco di Baviera, non  risulta. Questo per altro non vorrebbe dir molto, perché spesso l’inventario è assai generico e contiene non pochi numeri d’opere anonime, fra le quali potevano ben trovarsi incastrate quelle di Sigieri. Al notaio premeva più d’elencare il numero dei  volumi che non il loro effettivo contenuto, contentandosi d'un'ispezione molto superficiale, che spesso rende difficile riconoscere l'esatta natura d’opere appena accennate con titoli piuttosto vaghi, anche senza contare i non pochi errori di trascrizione commessi da Sighinolfi. Si potrebbe pensare, è vero, che gli scritti di Sigieri fossero entrati per altra via che non fosse quella del legato  testamentario del Marcanova. Ma è sicuro che essi non figurano nell'elenco che Tomasini redasse dei manoscritti di Verdara nelle Bibliothecae Patavinae maniiscriptae puhlicae et privatae Ma potrebbe anche darsi che l'opera di Sigieri restasse sconosciuta o fosse dimenticata da Vigili, poiché il suo catalogo è lungi dall'essere completo. Udine, nemmeno in quello manoscritto della  Marciana (Ital.); sì che bisogna rassegnarsi a pensare che, già prima, gli scritti di Sigieri fossero ormai spariti anche dalla biblioteca dei canonici regolari lateranensi di Padova. In questa biblioteca, ch'era assai ricca, non mancavano commenti ad Aristotele e trattazioni concepiti, queste e quelli, secondo lo spirito  averroistico. V'era, fra l'altro, l'ampia esposizione del servita Urbano  Averroista sul commento d'Averroè alla Fisica, che Marcano va aveva fatto copiare a sue spese a Bologna in due grossi volumi corretti e postillati di sua mano. Quando  a Venezia, l'opera d'Urbano fu data alle stampe su un vecchio codice bolognese per volontà del priore generale dei Serviti, Alabanti, dietro suggerimento di Vernia, questi s'accorse e fa notare che il codice trovato d’'Alabanti contene la stessa esposizione alla Fisica, che nella copia di S. Giovanni in Verdara era attribuita a Marcanova. Ma l'osservazione di Vernia passa inosservata; e anche quando dal monastero padovano il codice passa alla Marciana, nei cataloghi di questa l'opera d' Urbano resta attribuita a Marcanova, sebbene nell’explicit sia detto  (Lat.,  CI.) che il nome dell'autore non si  conosce: cuius nomen non habetur. Ed alla stessa biblioteca di S. Giovanni in Verdara e ai Canonici regolari Lateranensi, che abitano quel monastero, era particolarmente affezionato l'averroista maestro Vernia, il quale, gravemente ammalato, fa testamento a loro favore e, qualche anno dopo, fa ad essi donazione dei suoi libri. Per quella volta la negra parca lo risparmiò, lasciandogli ancora più d'un ventennio, per il piacere dei suoi colleghi ed alunni, pelle sue filosofiche speculazioni e per diverse marachelle non precisamente filosofiche. Ma quando sentì A proposito dell'opera d' Urbano, che nel prologo dell'edizione si dice cominciata prima, giove avvertire che il p. R. M. Taucci, de' Serviti, / maestri della fac. teolog. di Bologna, in Studi stor. sull'Ord. dei Servi  di Maria osservando che l'unico maestro servita di nome Urbano fiorì prima, propone di correggere la data che la morte sta ormai per ghermirlo, detta le sue ultime volontà, in Vicenza, lasciando ancora tutti i suoi libri, omnes libros graecos et latinos, ai Canonici regolari Lateranensi del monastero di S. Bartolomeo di quella città, perché fossero posti nella loro biblioteca, e chiede altresì  d'esser sepolto nella loro chiesa. Nella biblioteca di S. Giovanni in Verdara, a Padova, pare dunque che Nifo, discepolo di Vernia,  legge le tre opere da lui citate e attribuite al grande averroista Sugerius o Subgerius, ov'egli dichiara d'avere attinta la dottrina, un  tempo da lui seguita, sul modo come l'intelletto possibile, unico per tutti gli uomini, s'unisce ai singoli e può dirsi vera forma  dans esse homini. Lo stesso Nifo, nel commento alla Destructio destructionum, apparso pella stampa accenna ad una discussione avuta col conte della Mirandola, mentre in corbula si recavano a Bologna. Per la Pentecoste, in occasione del capitolo generale dei frati predicatori tenuto a Ferrara, c'era stata una solenne disputa pubblica alla presenza del duca Ercole, e il domenicano VIO,  venuto apposta da Padova ove insegna metafisica, s'era trovato di fronte Pico, il quale gli aveva mosso niente meno che cento obiezioni. Mortier, Histoire des Maitres Généraux de l'ordre des fr. Precheurs. Pochi giorni dopo, anche i frati minori adunarono a Bologna il loro capitolo generale e, secondo il costume, diramarono inviti ai maestri e ai dotti delle città vicine che avessero  desiderato partecipare alla disputa pubblica che si sarebbe tenuta, more solito, in quell'occasione. A Bologna sarebbe sceso in lizza uno dei maestri dello studio che già comincia a far parlare di sé pella sua serrata dialettica e per certa nuova maniera d'intendere l'averroismo. L' invito doveva solleticare il battagliero conte della Mirandola e Nifo, che verosimilmente era accorso da Padova  alla disputa nella quale era campione un suo collega. E penso che tutti e due insieme sian partiti da Ferrara per trovarsi alla disputa che il jo giugno, seconda domenica dopo Pentecoste, Achillini  avrebbe tenuto  a S. Francesco in Bologna. E quale non dev'essere stata la sua sorpresa nel sentire che maestro Achillini discetta intorno alle Intelligenze, da quella del Primo Motore che è  puro atto, giù giù fino air intelletto possibile umano che è pura potenza, e con grande risolutezza e abilità dialettica fa sua la dottrina averroistica di quel Sugerius, del quale anch'egli aveva letto gli scritti che a Padova si conservavano in S. Giovanni di Verdara, ove ritengo li avesse visti e letti anche il Signore della Mirandola. Questa risolutezza del collega bolognese deve averlo tanto  più meravigliato, che a Padova il decreto vescovile aveva assai limitato la libertà di giostrare sull'unità dell'intelletto umano, ed egli e Vernia si vedevan costretti a dissipare i sospetti che si nutrivano su loro come averroisti. Nel trattato De intellectii, scritto da Nifo col proposito fin troppo palese di rifarsi una verginità antiaverroistica, in gara con maestro Nicoletto, si direbbe ch'egli  prendesse di mira i quolibeta de inielligentiis, pur senza nominare l'autore d’essi, delle cui dottrine svela la fonte negli scritti di Sigieri, d'Achillini taciuta. Il  nome di Zimara, largamente  diffuso, è strettamente legato alla storia dell'aristotelismo, e in particolare di quella corrente che fu l'averroismo, anzi di uno speciale indirizzo di questo in contrasto con altri indirizzi che si reclamavano  ugualmente d’Averroè, il commentatore per eccellenza d'Aristotele, l'arabo Averrois che il gran commento feo. Invece il  nome del figlio di lui, Teofilo, è rimasto presso che sconosciuto, fra gli storici della filosofia italiana. Peggio: uno di questi che di recente ha dedicato al pensiero italiano del Rinascimento tre grossi volumi, Saitta, essendogli accaduto di metter la mano, senza volerlo,  sul massiccio e diffuso commento di  Zimara,  Marci  Antonii  F., al De anima, ha attribuito quest'opera al padre, ignorando l'esistenza del figlio. E fin qui poco male. Ma egli s’è spinto assai più in là; che non pare si sia reso conto che, mentre Marcantonio è un averroista schietto e tutto d'un  pezzo, il figlio al contrario combatte apertamente  l'averroismo e propugna un platonismo  cristianeggiato, che, divenuto di moda tra gli umanisti dopo Ficino, si propone di conciliare Aristotele, liberato dall'esegesi averroistica, con Platone, con  Plotino, con Proclo e con Simplicio. E questo è il male peggiore che puo capitare a Teofilo, che cioè il grosso volume dedicato a Sirleto, e dal quale s'attende qualche fama, non solo gli fosse tolto, ma ne fosse travisato il pensiero,  col ravvicinarlo all'averroismo. Atti del Congresso Storico Pugliese, Archivio  Storico  Pugliese. Sono stati apportati alcuni notevoli ritocchi. Ma anche intorno a Zimara accade di leggere nei libri di storia della filosofia grossi spropositi, che N. si propone di correggere, raccogliendo quello che di certo si sa intorno a lui e al figlio e intorno alle loro opere. Ben inteso, non si tratta di  richiamare l'attenzione dello storico su due astri di prima grandezza o, come si direbbe oggi, su due figure di primo piano nel complesso panorama del nostro Rinascimento: si tratta soltanto di mettere nella giusta luce due onesti pensatori che, pur senza elevarsi gran che sulla coltura del loro tempo, meritano di non esser dimenticati, perché di quella coltura sono eminentemente  rappresentativi. I. Zimara. Di lui sappiamo con certezza  che sostene a Padova la discussione preliminare al dottorato in artibus, ossia  fa il tentativum nella chiesa di S. Urbano, ove d’un cinquantennio sole riunirsi il sacro collegio degl’artisti; e che una settimana dopo nell'aula solita d'esami in vescovato, sostenne il privatum examen e consegue il grado di dottore in artibus. Il filosofo  Trapolin gli conferì le insegne del grado a nome del sacro collegio. Tutto questo è perfettamente documentato dagl’atti del collegio stesso, nell'archivio dell'università di Padova, e dagli Ada graduum presso l'archivio di quella curia vescovile. Da notare: presenti come testimoni al giuramento e al dottorato sono Pomponazzi e Bacilieri; il primo ritornato da poco a  Padova,  ove insegna filosofia  naturale come ordinario primo loco, il secondo venuto via da Bologna per contrasti coi colleghi, e straordinario della stessa materia. In questi atti. Marcantonio è detto figlio quondam  Zimara de Sanctopetro de Galatina terre Hydrunti. Altra cosa certa è ch'egli potè fare gli studi di filosofia a Padova grazie all'aiuto dello zio Bonuso, prelato della chiesa di  S. Pietro in Galatina,  al quale dedica l'edizione dei Subtilissima  Hervei Natalis Britonis Quodlibeta  undecim cum odo ipsius profundissimis tradatibus, da lui  curata pell'editore veneziano Arrivabene. Anche nella dedica della quaestio de primo cognito, Venezia, a Contarini, accenna espressamente a questo zio. Bonusio, propresuli, avunculo, qui me semper eque ac filium carum habuit fovitque, cuique  non minus quam parenti mee animam hanc debere me libens profiteor. Papadia lo dice nato da povera e oscura gente: e cita in proposito un'epistola ms. di Vernaleone, che esiste a suo tempo presso i signori Caroti. Sulla scorta della quaestio de regressu Excellenfissimi Domini  Marci Antonii Zimarea nell'Ambrosiana di Milano, Cod. S. Q., fui indotto, nella prima edizione di questo  saggio, a supporre un primo soggiorno padovano, anteriore, perché l'autore di quella quaestio accenna più volte a discussioni avute con Maestro frate Francesco da NARDO, che insegna Metafisica a Padova in via AQUINO, mentre frate Antonio Trombeta insegna la stessa disciplina in via Scoti Erotto  e Zonta,  La facoltà teologica di Padova. Padova: Ad argumenta praeceptoris  magistri Francisci de NARDO, dico; sed advertatis quod praeceptor meus antequam ingrederetur ad scolas ad legendum, allocutus fui eum supra hoc, et dixit mihi. Ma pili tardi, visto il codice della Nazionale di Napoli, che contiene il commento del Pomponazzi ai primi due libri del De anima e il commento dello stesso Peretto al terzo libro, m'accorsi con mia sorpresa che quella quaestio, attribuita a Zimara nel codice ambrosiano, non è affatto di questo, sibbene del suo maestro, il mantovano Pomponazzi, che più volte ricorda d'essere stato discepolo del sequace d’AQUINO  Nardo. Quindi cade l' ipotesi di un soggiorno di Zimara a Padova, prima di quello indicato da Papadia, il quale dice che lo zio, Bonuso, l’inviò a Padova. Se a Padova giunge quando  erano  già  morti Nardo e Roccabonella,  vi trova tuttavia maestri provetti che godevano già di gran fama  o quelli che erano sulla via di procurarsela:  il faceto Vernia, Memorie storiche della città di Galatina,  Napoli averroista spregiudicato, finché il vescovo di Padova, Barozzi, col  decreto non l'obbligò a ravvedersi, Trapolin, anch'egli averroista, ma ben più moderato e guardingo, gli  scotisti  Trombeta e Ibernico, il Peretto Mantovano che rivelava una spiccata tendenza a ribellarsi all'averroismo di moda, il vicentino Fracanziano, concorrente del Pomponazzi, Bacilieri che a Padova professa l'averroismo di marca sigieriana del quale a Bologna era acerrimo propugnatore Achillini. Nifo lascia con gran disdegno lo Studio patavino, non sappiamo se malcontento dello stipendio  o per dissensi coi colleghi.  E Vernia muore, e la sua cattedra venne appunto coperta col richiamo del Peretto, cui fu dato a concorrente Fracanziano. Di questi maestri, Trapolin fu primo promotore del dottorato in artihus del Sanpetrinate, come Zimara ama chiamarsi; ma di lui N. non ha trovato cenno, né in bene né in male, nelle opere dell'alunno. Del Pomponazzi invece parla spesso;  sebbene il rispetto pel precettore non gl’impedisca di combatterlo su varie dottrine – GRICE: UNLIKE STRAWSON, WHO’D NEVER DARE --,  e di pigliarlo di mira più volte in modo assai vivace nella Tabula dihicidationum in dictis Aristotelis et Averrois, e particolarmente nella quaestio d’immortalitate animae. Del Bacilieri combatte la tesi che identifica l'intelletto agente con  Dio, che egli attribuisce, come fa anche Pomponazzi, ai bononienses. A Trombeta accenna anche alla fine dell’annotiones sulla Metafìsica di Jandun: in his omnibus subtilissime repraehenditur Ioannes a praeceptore meo Magistro Trombeta nostre aetatis in metaphysicae speculationibus viro emeritissimo; nei theoremata: Trombeta excellens in scientia divina et preceptor meus  venerandus; e nella quaestio an gravia et levia  etc. del ms. Magliabechiano, segnalatomi dall'amico Garin: quantumcumque, ut dicebat magister meus Trombeta, Franciscus de Neritono NARDO dixerit. Che egli poi avesse a maestro anche Ibernico è attestato dal francescano Girelli sulla fine del suo trattato de speciebus intelligibilibus diretto contro Zimara: Ipse 3  Su di lui, V. sopra,  il saggio autem forte erravit propter amorem magistri sui, qui fuit Hibernicus. Non sappiamo con certezza quand'egli comincia a insegnare come lettore pubblico; poiché le lezioni In primuni Posteriorum del Cod. Ambros. D. log inf., potrebbero essere state tenute privatamente o anche pubblicamente in anni precedenti al dottorato in filosofia, come mi risulta essere intervenuto a Padova  per il mantovano Triaca, per Molino di  Rovigo e per Trapolin. In fine d’una lezione sul  primo libro degl’analitici posteriori accade di leggere questo curioso invito in versi: Scire volunt onines,  niercedem solvere nemo: hoc dixit noster qui claret in orbe Zimarra. In catedra manens, dixit prò omnibus una: solvite, precor, omnes, si vultis doceri. In domino testor, magnum sumpsisse  laborem; hac prò doctrina, propriam vendidisse casellam. E in margine: Quare vobis dico: si librum Posteriorum vultis ut aperiam, solvite, praecor, omnes. Ma non dovette passar molto dalla laurea, che fu assunto alla lettura straordinaria di filosofia naturale. Intanto, per procacciarsi da vivere e poter continuare gli studi, cura per gl’eredi  di Scoto l'edizione delle quaestiones in  duodecim  II. metaphysicae di Jandum, arricchendola di citazioni e note marginali. L'edizione  scotina, licenziata, oltre alle note marginali, reca in appendice alcune opere originali che possiamo considerare tra le prime del nostro. La prima è una diffusa quaestio de principio individuationis ad intentionem  Averrois et Aristotelis, di ben venti colonne. Essa è dedicata Magnifico ac excellenti  artium  Doctori domino Mocionigo patricio veneto. Questo M.cus et doctissimus vir,  D. Mocenico, Leonardi, filli olim  serenissimi principis venetiarum Mocenici, era stato proclamato dottore in  artihus nella cattedrale di  Padova, con grande  solennità, come s'addice al suo alto rango, assistentibus  M.cis  et  Cl.mis  dominis  Thoma Mocenigo praetore, patruo,  et  Trivisano equite praefecto urbis Paduae, avunculo, et aliorum praestantissimorum doctorum, scholarium, civiiim et praelatorum corona, per Rev.um  D. Episcopum il bellunese Barozzi, eius domino vicario recitante. E ciò dopo essere stato esaminato per Venerandum Collegium artium et medicinae Doctorum, e post longas lucubrationes et scholasticos labores et publicas disputationes ac varia virtutis et doctrinae suae experimenta. Primo promotore  del dottorato era stato Trapolin, che anche questa volta conferì al neo dottore le insegne del grado. Nella dedica Zimara parla del nodo d' indissolubile amicizia che lo lega al Mocenigo. In realtà erano stati ambedue alunni del Trapolin e del Pomponazzi, insieme al gobeto Venier, a Surian e a Contarini,  artium scholares, i quali nel verbale del dottorato del  Mocenigo  figurano da   testimoni. Nella stessa dedica il nostro accenna al turbamento del suo animo pelle notizie che gli giungevano da S. Pietro in Galatina, saccheggiata dal ritorno delle milizie per cacciarne le galli. Pluribus profecto quam promiseram magnifìcientiam vestram speculationibus donassem, nisi iniqua fortuna PATRIAM MEAM Sanctum Petrum de Galatinis, militibus populationi dedisset. Alla quaestio de principio individuationis tengon dietro l’annotationes in Gandavensem  super quaestionihus metaphysicae  eleganter discussae in via LIZIO et sui magni commentatoris Averrois, anch'esse dedicate ad Mocionigum. Su molti punti Zimara riprende con semplici note marginali il modo come Jandun espone il pensiero d'Averroè. Ma su altri punti le sue riserve esigevano maggiore spazio che non fosse quello d'una breve nota; perciò aggiunse al volume questa seconda appendice, ove espone con ben maggiore ampiezza le ragioni del suo dissenso dall'averroista di Jandun, la cui interpretazione della dottrina averroistica aveva suscitato aspre critiche da parte degl’averroisti padovani e bolognesi, tanto che Pico giudica che egli, ferme in omnibus quaesitis philosophiae, doctrinam Averrois corrupit omnino et depravavit Conclus. secundum  Avenroem. Intento di quest’annotationes è dunque quello di stabilire qual è il vero pensiero del commentatore arabbo. Ma nel far ciò, il filosofo di Galatina si diffonde talora sino a ri-esaminare a  fondo l'argomento discusso e a scrivere un vero e proprio trattato, come fa a proposito della questione  del libro, in una disquisizione di ben oltre 26 colonne. Una terza appendice è formata dalla quaestio de triplici causalitate intelligentiae, concernente la natura, la dipendenza e la finalità dell’intelligenze celesti secundum Aristotelis et sui Commentatoris Averrois sententiam, problema dibattutissimo, intorno al quale Zimara, come già Brabante, difende la causalità efficiente di Dio contro  quegl’averroisti che, come l'eremitano Rimini, la negano. Una frase in principio: vidi plures tempore meo, philosophantes, parrebbe indicare che la  quaestio fu  scritta anteriormente. Con questo volume,  che si diffuse rapidamente in tutta Europa, Zimara di San Pietro in Galatina in terra di Otranto si presenta agli studiosi di filosofia come un interprete agguerrito e acuto del pensiero d'Aristotele e del suo grande e fedele commentatore Averroè, in un momento quando il suo maestro e dipoi avversario, il mantovano Pomponazzi, non aveva ancora stampato una sola riga. Non tutti accettarono, si capisce, l'esegesi dell'Otrantino, com'era chiamato a Padova, anzi molti presero a impugnarla, su questo  o quell'argomento; ma a nessuno era consentito ignorarla. Nello  stesso anno in cui cura l'edizione della metafisica dell'averroista di Jandun, ne prepara altresì quella delle quaestiones super parvis naturalibus, pello stesso editore  veneziano, dedicandola  a  Montagnana, professore di medicina nello Studio patavino e appartenente a una celebre famiglia di medici padovani. La qual dedica m' indurrebbe quasi a sospettare che egli si sta preparando al  dottorato, adulando con lodi sperticate, come era d'uso, un membro del Sacro Collegio degli Artisti e Medici, che aveva il diritto di farsi promotore della grazia, del tentativo e infine dell'esame  privato, nonché quello di conferire le insegne dottorali al candidato. In appendice a questo volume, Zimara  stampa  la quaestio de moventis  identitate et moti ad intentionem LIZIO subtiliter  et resolute Patavii discussa, e la dedica a Capitani, figlio del chiarissimo medico, per riconoscenza dell'appoggio che ne aveva avuto: cui denique quicquid dignitatis in patavino GYMNASIO nuper assecutus sum, uni acceptum refero. Dello stesso periodo, perché ricordata nelle solutiones Super de  anima, Contr. sul  comm.  è  anche la quaestio qua species intelligihiles ad mentem  Averrois defenduntur ad magnificum patritium Venetum Anfonium Surianum, pubblicata  da Storcila e incorporata  nel tractatus  adversus  quaestionem  M.  Ant.  Zimarae de speciehus intelligibilihus, Venezia, del  francescano Girelli, alunno di Pomponazzi. Zimara prende risolutamente posizione contro Achillini, il quale nega le famose specie intelligibili, d'accordo in ciò col  carmelitano Baconthorpe e Gand. D'Achillini dice anzi quel che Averroè, De caelo, comm., aveva detto d'Avicenna, quod videlicet parvitas exercitationis ipsius viri in naturalibus et bona confidentia in proprio ingenio deduxit ipsum ad maximos errores. L'argomento era stato discussoa  Padova da Pomponazzi, il quale non si mostrò meno aspro contro Achillini; e proprio Surian ce ne  ha tramandata la quaestio nel codice della Bibl. di Napoli. Un'altra e piu ampia riportazione si trova in altro ms. della  stessa  biblioteca. Dalle controversie tra i vari  interpreti  d'Averroè, trassero vantaggio gl’avversari dell'averroismo, per insinuare che il gran commento formicola di contradizioni, e che neppure Aristotele ne era immune. Sebbene Pomponazzi non rifuggisse dal dirsi  talora averroista o commentista, nel senso che egli, seguendo una consuetudine di Padova e di Bologna, legge il testo del LIZIO e il commento d'Averroè che l’accompagna, e sulla  parafrasi e discussione dell'uno e dell'altro conduce la lezione, non di meno, con tutto il rispetto pell'uno e  pell'altro, non esita a mettere in evidenza le incertezze e le contradizioni del commentatore arabbo,  al quale non risparmia le sue critiche e i suoi sarcasmi. Discepolo del Peretto  mantovano, Zimara, che per diversi anni ne segue le lezioni, si propone di scolpare tanto Averroè quanto il LIZIO dalle contradizioni ad essi attribuite e di mostrare ch’esse potevano, con qualche sottile distinzione – GRICE IMPLICATURA --, risolversi nel modo più plausibile. Nascemp così le solutiones  contradictionum in dictis Averrois che nella prima redazione uscirono, precedute dalla quaestio de primo cognito, a Venezia, con dedica al patrizio veneziano, magnifico Contareno magnifici domini Caroli filio, al quale Pomponazzi dedica il De immortalitate animae, e che era versatissimo negli studi della filosofia del LIZIO. Pochi giorni prima gh aveva dedicato i trattati logici di  Aristotele col commento d'Averroè, da lui curati per gl’eredi di Scoto a Venezia. La  quaestio de primo cognito si riallaccia alle lezioni di Zimara sul prologo della fisica del LIZIO. L'autore d’essa discute ampiamente e critica l’interpretazioni che del testo del LIZIO dano Burleo e Rimini, dalla parte dei nominale, poi quelle di Scoto ed AQUINO, e infine oppone ad esse quella che  giudica più conforme al commento d'Averroè. Le solutiones sono opera composta a tavolino, succisivis horis ac tumultuarie. Ma che Zimara  prende di mira in particolare il Peretto, del quale si tace il nome, è messo in evidenza dalla lettera, stampata del volume, coll’intestazione Sylvius Laurentius a portu caballensis clarissimo artium et medicine doctori Marco Antonio sanctipetrinati  et hidruntino, ere publico in GYMNASIO PATAVINO philosophiam profitenti, la quale porta la data ex patavio. Questo ammiratore e forse discepolo dell'otrantino ricorda appunto, che Petrus mantuanus noster philosophantium nunc primi fere nominis, publico auditorio profiteri solet, hoc Averroi esse genuinum, ut, cum IMPLICITA omnibus viribus nervisque EXPLICARE contendit et adnititur, maxime IMPLICAT, eoque fertur, diffidente conscientia, quo denique ipsum impetus errabunde opinionis impellit. Del che egli pensa fossero d’incolpare gl’amanuensi e gli stampatori del commento averroistico, per incuria dei quali circola nelle scuole pieno d’errori— GRICE INDICATIVE CONDITIONALS --. Ma non soltanto a Pomponazzi intende opporsi  Zimara, sì  anche a Jandun, Rimini, Burleo, Achillini, e Bacilieri, che, a suo avviso, con errate interpretazioni, fanno cadere in contradizione il commentatore arabo. Pomponazzi,  che  non condivideva con Zimara ed Achillini la fiducia nell'infallibilità d'Averroè, scrolla le spalle ed osa negare la stessa fiducia perfino al LIZIO, pur ritenuto d’ALIGHIERI  maestro e duca dell'umana ragione, e dagl’averroisti regula in natura et exemplar quod natura invenit ad demonstrandum ultimam perfectionem humanam. Le contradizioni d’Averroè hanno il loro fondamento in non poche contradizioni del testo aristotelico, che si fanno sempre più palesi colle nuove traduzioni del periodo umanistico. Perciò Zimara riprende in mano il libretto, e ne prepar un'edizione più completa, con  l'aggiunta di nuove contradizioni ch'egli s'adopra a risolvere, associando nel  titolo alle contradizioni del commentatore quelle del filosofo: solutiones contradictionum in dictis LIZIO et Averrois. Dalla lettera di Silvio Lorenzo da Porto appare che Zimara, dottore in artibus, professa pubblicamente filosofia naturale nello studio patavino, occupando evidentemente una delle due letture  straordinarie col modico stipendio di 47 ducati d'argento, secondo Facciolati, Fasti  gymn.  patav., ed è naturale che aspira ad esser promosso alla lettura ORDINARIA – GRICE ORDINARY AND EXTRA-ORDINARY LANGUAGE --. Ora era rimasta vacante la lettura ORDINARIA secundo loco che aveva tenuto Achillini, richiamato sulla sua cattedra a Bologna. Se la cattedra  vacante fosse stata assegnata al  sanpetrinate, questi sarebbe venuto ad essere il concorrente diretto, cioè l'antagonista, di Pomponazzi, che occupa la cattedra ORDINARIA primo loco,  e sebbene non è cittadino padovano, è stato aggregato al sacro collegio degl’artisti della città. Ma per riuscire ad avere il posto ambito Zimara avrebbe dovuto vincere l’ostilità che s’era creato colle  polemiche ingaggiate contro il Peretto, il quale gode di grande stima nello studio patavino, e contro Achillini, del quale era ben vivo il ricordo. Provvedere a coprire la cattedra ORDINARIA rimasta vacante era compito del senato veneziano; e gl’aspiranti s'eran dati da fare per procacciarsi autorevoli appoggi fra i membri di questo, che ne discusse nella riunione. Le proposte fatte furon  tre o quattro. Zorzi propone Torre, fiol dil quondam missier maistro Hironimo da Verona, qual à leto e leze in philosophia. Pixani, savio a terra ferma, mette di condur missier Marco d’Otranto, che etiam leze in philosophia extraordinarie. Emo propone  Sexa che è a Napoli, o ver Carensio, padovano, ma che insegna filosofia a Ferrara, e che ritornerà in patria a ricoprire una delle  cattedre. È interessante vedere che fra gl’aspiranti era anche Sexa,  Nifo -- da  Sessa --  il quale aveva già coperto la cattedra ORDINARIA di filosofia PRIMO loco a  Padova, e n'era partito, a quanto pare, per litigi coi colleghi. Ora egli non cessa di brigare per tornarvi, ma pretende uno stipendio che il senato veneziano non era disposto a pagargli. Anselmi, console di Venezia a Napoli, informa di lì a poco, che il Sexa  voj vegnir a  Padova a lezer im philosophia. El qual dice voi ducati 500 e non mancho, perché dice è il primo homo dil mondo, e a Napoli leze et medica; sì che non avendo ditti danari, non voi vegnir. Sanudo. Ma appena qualche giorno dopo si dichiara disposto a venire per 400 ducati all'anno, con ferma di tre anni. Queste manovre di Nifo dovettero  esser note a Pomponazzi, che nel già citato commento al De anima prende ad attaccarlo con rinnovata virulenza. Dopo Emo, parla Pisani. Vista la difficoltà d’addivenire a un accordo e di far prevalere il suo candidato, Pisani ri-piega sulla proposta d’indusiar, e così è presa l’indusia di 8 ballote. Sanudo, Diarii, e Zimara dove rassegnarsi a rimanere alla lettura straordinaria. Né mi consta  che egli fosse promosso nel quinquennio immediatamente successivo. La guerra contro la lega di Cambra ebbe gravi conseguenze per lo studio padovano. Le truppe imperiali al comando di Trissino entrano in città, e lo stesso giorno viene a morte Trapolin. Per il momento, cioè per qualche mese, il turbamento dell'ordine pubblico non fu grande; si tennero ancora esami, e Pomponazzi,  per esempio, figura ancora come  promotore in un dottorato. Il peggio venne dopo, quando i veneziani ri-occuparono il castello, e cominciarono i saccheggi e le vendette contro coloro che di buon animo o contro voglia s'eran compromessi coi tedeschi. Una delle famiglie maggiormente colpite fu quella dei Trapolin. Alberto e Roberto, fratelli del filosofo, sono presi prigionieri nella  ri-conquista del castello. Ma già due giorni prima le loro case e quella d’un altro loro fratello, Nicolò, sono saccheggiate. Ed anche la casa di Pietro, che era nella contrada di san Leonardo, non lontano dai Carmini, non fu risparmiata, I SUOI SCRITTI DISPERSI, e il figlio Giulio fatto prigioniero e spedito a Venezia con altri compagni. Il governo veneziano fu abbastanza clemente con  molti di coloro che s'erano sottomessi al dominio imperiale su Padova; ma fu implacabile con quattro dei maggiori responsabili di favoreggiamento, che manda al capestro. Primo era Alberto Trapolin, fo fradello di misser Pietro dotor excellentissimo, el qual Alberto era di  XVI al governo di Padoa, homo di gran inzegno, et anche suo avo fo apichato a Padoa a tempo della novità di  misier Marsilio di Carrara. Il secondo era Lodovico  Conte. Il terzo Bertuzi Bagaroto, dotor, qual lezeva puhlice in iure canonico. Il quarto, Jacomo da Lion, dotor, el quale fé' la oration all' imperator, quando se deteno i padoani, nella qual dice gran mal  de'veneziani. Sanudo. Fu in questo periodo di rappresaglie e specialmente  quando le truppe imperiali tornano ad  assediare la  città,  che molti cittadini s’allontano da Padova e insieme ad essi molti maestri dello studio. Fra questi certamente anche Pomponazzi, il quale sulla sua cattedra di Padova non fa più ritorno. E Zimara?  Si dice d’alcuni che lo studio rimane CHIUSO per anni. Ciò non è del tutto esatto. Dagl’ada graduum presso  l'archivio esistente della curia vescovile di Padova, risulta, per esempio, in modo  indubbio, che Tomasis, figlio del  chirurgo, fa il dottorato in artibus, che fa il dottorato Marco Mantova, che Oldoini fa anch'egli il dottorato in artihus, e che s'addottora in artihus il  magnifico  Francesco del fu Morosini. Sappiamo ugualmente d’altri conferimenti di LAUREA in  arti. Lo studio patavino, dunque, anche negl’anni successivi e ai fatti accennati, continua a funzionare; ma  evidentemente in modo ridotto, e meno intensa fu la sua vita. Ciò si constata in modo palpabile esaminando gli stessi Ada gradimm, e più ancora gl’atti del sacro collegio degl’artisti, arch. dell’univ. di Padova, presso quel rettorato, ove è un salto. Di Zimara nessuna traccia in questi atti,  se ha N. ben veduto. Pare, dunque, che anche lui se ne fosse andato. Dove? L'edizione dei quodliheta  dell'Hervaeus che usce a Venezia, per Arrivabenum, ed è curata e postillata da Zimara, fa pensare che questi fosse a Venezia. Ma la lettera colla quale dedica la sua fatica allo zio Pietro Bonuso induce N. a dubitarne. Dice infatti in essa che già d’anni è lontano dalla  patria. E aggiunge. Ego enim, postquam Patavium, bonarum artium fontem, applicui, ita impensam die noctuque philosophie studio operam navavi, ut hinc recesserim nunquam. Anno tamen elapso sarcinulas collegeram, accinxeram me itineri ad te advolaturus, quando, preter spem, accademia nostra ad dignissimam me philosophie lectionem totis cervicibus succollavit. Ora s’egli  si laurea in artibus, bisogna pensare che a Padova fosse andato almeno un quattro anni  prima, cioè al  più tardi. La  lettera dovrebbe quindi essere. E i conti infatti tornano: anno elapso, cioè egli dovette essere chiamato, preter spem, alla lettura straordinaria di filosofia naturale. Sebbene dunque l'edizione dei qiiodlibeta d’Hervaeus usce alla luce, essa era già stata preparata e consegnata all'editore veneziano. Alla guerra contro la lega di Cambrai tenne dietro quella della lega sacra, e la Lombardia, la  Romagna e 1'Emilia furon corse da milizie galle, e papali. Lasciata Padova, ove aveva nutrito la speranza di farsi strada e d’accrescere lo splendore della sua famiglia, non fu facile al povero filosofo trovarsi un'altra cattedra a Ferrara o a Bologna, com'era stato facile al Peretto mantovano. Perciò egli dove decidersi a ritornare fra i suoi a S. Pietro in Galatina, ove effettivamente lo  troviamo sindaco e già ammogliato con una tal Porzia, secondo le notizie raccolte d’Arcudi e Papadia, i quali prendono queste notizie dalla cronaca di S. Pietro in Galatina lasciata manoscritta dal filosofo Arcudi. Prima di ri-metter piede nella terra natale, o appena vi fu arrivato, egli dove pensare a propiziarsi Castrioto, duca di Ferrandina, sotto la cui giurisdizione si trova S. Pietro in Galatina. A quest'uopo mette insieme il curioso trattatello dei problemata e lo dedica al principe. Non consta a N. che lo fa stampare; N. ne conosce solo l'edizione che ne fu fatta a Venezia ed altre posteriori. Nella dedica appunto al duca di Ferrandina egli dice d’ammirare in lui sopratutto charitatem qua literatos amplecteris, hac tempestate qua oh bellorum importunitates pax una cum  litteris inferire visa est. Siamo dunque negl’anni che tengon. E poiché Castrioto muore, il libretto è certamente anterior. Sindaco della piccola sua città  natale. Marcantonio si trova a rappresentare quella comunità nella cauta ma energica difesa delle istituzioni e dei privilegi d’essa contro le soperchierie di Castrioto, successo a Giovanni. Intanto gli nasce il figlio Teofilo, del quale  diremo fra poco. Arcudi parla anche d'un altro figlio avuto prima, Nicolò, il quale è dottore in leggi a Roma, ove testa. Altri due figli dovettero nascergli più  tardi. Ma le cure familiari e quelle pubbliche non lo distolsero del tutto dagli studi. Usceno a Venezia, curate da lui, pegl’eredi di Scoto, le seguenti opere d’Alberto Magno in via LIZIO  philosophi theologique profundissimi:  naturalia ac supernaturalia, cioè la fisica, il De generatione et corruptione, il De metheoris, il De mineralihus, il DE ANIMA, il De intellectu et intelligibili – GRICE AUSTIN WARNOCK DE SENSV ET SENSIBILI – DE INTELLECTU ET INTELLIGIBILI -- e la metafisica, accompagnati da molte annotazioni marginali; i parva naturalia e gl’opuscula nella dedica a Venier del  fu  Cristoforo,  Zimara pare Galatina  letterata,  Genova. dichiarare che le sue castigationes et lucubrationes si limitano al De causis, ma verosimilmente sue sono anche quelle apposte al De natura locorum; e le Due partes Summe de quatuor coèvis. Nell'edizione di quest'ultima opera, Zimara è detto philosophiam Padue publice profitentem, espressione che  forse va intesa così dum  philosophiam Padue publice profitebatur. Poiché sembra poco probabile che in quegli anni egli fosse tornato a Padova. Dov'è, dunque? Quasi certamente a Salerno, chiamatovi da quel principe Sanseverino che ama circondarsi di uomini dotti e da impulso al ri-fiorire degli studi nella sua città. Infatti nella dedica allo stesso Sanseverino dei theoremata compiuti e pubblicati a Napoli,  egli dice. Animadverti hoc ipsum superioribus annis dum philosophiam theoricamque medicinae publice in tua Salerno profiterer. A Salerno insegna anche Nifo, dopo che lascia Padova. Zimara accenna ad un insegnamento di più anni in questa città, e ci fa sapere che, oltre alla filosofìa, vi professa anche la medicina teorica. Tuttavia il suo animo è rivolto a Padova. Dopo i  fatti dei quali abbiamo fatto cenno, lo studio padovano conduce per più anni una vita stentata. Gli scolari sono molto diminuiti, non essendo attratti da maestri di grande rinomanza. La città, che dall'affluenza della popolazione scolastica traeva lustro e vantaggio, reclama a gran voce che si provvede sollecitamente al bisogno, pel ri-fiorire dell'università, perché sia ritorna il studio come è prima. Sanudo. E agl’oratori padovani  che questo chiedano con insistenza è risposto dal PRINCIPE: sono contenti, e si pratichi di condur li dotori, perché nostra inten6 Però riferisce Sanudo, che Loredan, capitanio a Padova, venuto in collegio a Venezia, informa come nello studio di Padova sono a quel  momento 22 dotori che leze artisti  e 26 giuristi, e porta una letera per certo dotor verìa a lezer. Scrive ha fato perteghe  21  mila 800. Se per avventura questo dotor è Zimara, bisogna pensare che egli s’è sobbarcato al lungo viaggio a Venezia, sia per sorvegliare la stampa d’Alberto Magno, sia per condurre in porto le trattative pella lettura a Padova. zion è di ritornar il studio; la quale assicurazione è rinnovata. Anzi, narra Sanudo che, dovendosi comenzar il studio a Padoa, fo eletti tre doctori, quali  dovessero praticar condur li doctori a lezer che fusseno excelienti. I quali doctori sono questi: sier Zorzi Pixani, sier Marin Zorzi, et sier Antonio Zustinian. Sono ballotati in collegio i rotuli dei maestri chiamati a leggere – GRICE, UNIVERSITY LECTURER --  sia nella facoltà di legge come in quella delle arti e medicina. Pare ormai che le cose si metteno bene. Pella filosofia al  secondo loco, è chiamato  da Ferrara PRISCIANO (vedasi) ed è promosso il veronese BAGOLINO (vedasi). Ma il duca estense sollecita Prisciano a tornare a lezer a Ferrara; se non che il maestro di lì a poco muore, ed è necessario provvedere alla sua successione. Riferisce Sanudo, fo scrito a Roma all’orator nostro, come de lì si ritrova Montesdoch, qual leze l'ordinaria di philosophia,  il qual alias desidera venir a lezer a Padoa al primo loco: per tanto, avendo optima fama, vedi si'il persevera in voler venir, et concludi con più avantazo el poi  etc. Questo maestro, ancor poco conosciuto, è collega d’Achillini e più tardi di Pomponazzi a Bologna, ma abbandona quella città. N. non sa dove è andato. Sanudo ora ci fa sapere ch’è andato LETTORE DI FILOSOFIA – GRICE UNIVERSITY LECTURER -- lettore di filosofia a Roma, non essendo stato accolto a Padova. Mentre si cerca d’avviar pratiche per  condurre Montedosch, pare si fosse pensato anche al mantoan, cioè a POMPONAZZI ch’è a BOLOGNA; e il consigliere Minio suggerisce il nome di PORRO, che legge filosofia a Pavia, ov'era stato alunno di Bacilieri. Sanudo. Ma li studenti,  nell'incertezza di’avere valenti  maestri, abbandonano Padova e anche quelli che s'apparecchiano al dottorato andano a conventar altrove, in barba alla legge, quando sono sudditi della serenissima. Sicché i rettori di Padova, Zorzi, podestà, e Contarini, capitanio, scriveno il studio va in mina, per non v’esser doctori che lezano, e li scolari vanno via, e li nostri subditi, non stimando le  leze, non voleno più star, non avendo doctori dai quali possano udir. L'allarme induce i savi del consiglio e terra ferma a prendere una decisione sulla proposta di condurre a lezer nil studio di Padoa domino Montesdocha, leze  a Roma, alla lettura dil primo locho di philosophia, cum salario fiorini 600 all'anno. E domino Zimara, San  Petrinas, di terra d’Otranto, leze a Salerno alla  ordinaria di teorica overo pratica di medicina, con salario fiorini 300 all'anno. Presa la decisione, le trattative con Montesdoch sono portate sollecitamente a termine. Quelle invece con Zimara andaron pelle lunghe. Coll'andata a Padova di Montedosch, che gode di meritata  fama, lo studio parve ri-fiorire. Il  che fa piacere al governo veneziano, che s'affretta ad informare i due rettori di  Padova come li riformatori dil studio, che sono allora Pisani,  Bragadin,  Justinian, par habino auto aviso domino Marco d’Otranto è per venir, però a visi li scolari. Se non che, a questo punto, debbo segnalare un'indicazione che N. trova nel già citato cod. Ambros. S. Q., e che presenta qualche difficoltà per accordarsi coll’indicazioni precedenti. In questo codice, prima della Quaestio  de regressu, attribuita a Zimara, ma che invece è di Pomponazzi, come ho detto, v'è anche una quaestio d’immortalitate animae domini  ZIMARA venetiis discussa corani duce et  senatoribus, la quale è cosa diversa dalla quaestio sullo stesso argomento nel cod. parigino, Bibl. Nationale, ms. lat., di cui N. dice più giù. La quaestio ambrosiana è assai più succinta. In essa son ricordati il  cardinale di  S. Domenico, cioè il Gaetano, et praeceptor meus, che è Pomponazzi. Alla fine si legge. Gratias itaque ago dominationibus vestris quae dignatae sunt nostrae lectioni adesse. Haec dieta sufficiant de ista difficillima quaestione, et fuit punctus Pascatis domini nostri Iesu christi. finis. Orbene la Pasqua cadde non il 31 marzo, ma 1'8 aprile. Invece l'anno  successivo la pasqua  cadde proprio 22 l'ultimo di marzo. Dunque nel manoscritto ambrosiano che è una copia di mano di fra Zaccaria da  Milano, v'è certamente un errore  di trascrizione. Supponendo che pella pasqua Zimara è venuto da Salerno a Venezia, per saggiare il terreno, egli potrebbe avere avuto abboccamenti coi riformatori dello studio, onde conoscere meglio le condizioni ch’il consiglio è  disposto a fargh, parendogli pochi 300 fiorini; e quindi, ri-partito per Salerno, in maggio avrebbe fatto sapere d’esser disposto ad accettarle e ad assumere l' insegnamento a Padova. Tutto questo, ben inteso, presupponendo che la quaestio veneziana d’immortalitate animae sia davvero di Zimara, Ma ormai era tardi, poiché, mentre al primo luogo legge l'ordinaria di filosofìa  Montesdoch,  al secondo luogo era stato chiamato da  Pavia Porro. Per il  momento Zimara  dove rinunziare a Padova e re-starsene a Salerno. Ma lo troviamo lettore di metafisica nelle scuole pubbliche di S. Lorenzo a Napoli, Ciò appare dalla expiicit dei theoremata usciti a Napoli a questa data, con un epigramma di Gravina. Compievi hoc opus Neapoli, dum scientiam divinam publico stipendio  legerem apud sanctum Laurentium, sub regimine Reverendi patris Fratris Antonini d’Antorosa de Neapoli cui ego plurimum debeo. A Napoli forse egli era già l'anno precedente, quando, secondo Arcudi e  Papadia, il filosofo e il suo conterraneo, il giurista Vernaleone, sarebbero stati inviati dalla comunità di Galatina, per protestare presso il vice-re contro i soprusi di Castrioto, e per  chiedere che fossero rispettati i suoi privilegi.  Arcudi anzi riferisce una lettera di Zimara. Nobilibus magnificisque viris sindico et regimini universitatis S. Petri in Galatina, per esortare i suoi concittadini a mantenersi calmi ed attendere con fiducia. Ma anche da Napoli il suo pensiero dove esser rivolto a Padova; e l'occasione di tornarvi si presenta quando Montesdoch chiede al senato  veneziana licenza d’andarsene, e questo glie l'accordò. Bembo in due lettere a Rannusio ci fa sapere, non senza amarezza, come le cose andarono. Montesdoch a Padova è tenuto in grande considerazione ed era riuscito a farsi un nome, secondo la testimonianza di Bembo, quale non aveva avuto prima. Ma non debbono essergli mancate accuse pella sua spregiudicatezza nell’interpretare  il LIZIO, sì da parte degl’averroisti sì da parte dei teologi, se è vero quanto egli stesso ci fa sapere in una lezione sul De  anima, Parigi, Bibl. Nation., ms. lat. Cum isti fratres vident philosophum, dicunt: haereticus est; ut mihi olim accidit, dum disputarem in capitulo generali fratrum S. Dominici; et quia eos male tractabam, dixerunt die, me esse haereticum. Non so se per queste ragioni,  oppure, come insinua o IMPLICA Bembo, nella lettera a Rannusio, per ottenere l'offerta d'un aumento di stipendio, senza farne aperta richiesta, il maestro chiede licenza d'andarsene altrove. Bembo, che pure era informato dei maneggi per condurre Montesdoch a Pisa, ove poi effettivamente anda collo stipendio di 800 fiorini, spera che coll'offerta di cento ducati d'aumento lo si potesse trattenere con vantaggio dello Studio padovano, poiché dopo la morte di Pomponazzi si prevede uno spopolamento dello studio bolognese. Se Montedosch resta, questo anno averemo qui la maggior parte degl’artisti dello studio di Bologna. E già Gonzaga, fratello del Marchese, che è stato forse tre anni o più a Bologna per udire Perette, fa cercar casa qui, per venir ad udir costui. Ma  le cose non andarono secondo il suggerimento e il desiderio del prelato, che arriva a cose fatte; poiché Sanudo ci fa sapere che era già stato posto, per li ditti, Savii del Conscio e  Savii di terra ferma, condur a lezer in ditto Studio di Padoa in philosophia domino Marco di Otranto, qual ha lecto in molti Studi, videlicet nella lectione de philosophia, per do anni di fermo et uno de rispetto  in libertà della Signoria nostra con salario di fiorini 450 all'anno. La decisione rimasta segreta dove divulgarsi alla  fine opere, Venezia, e Rannusio non tarda a informarne l'amico. Il quale gli risponde da Padova esprimendogli il suo disappunto. Da questa lettera si rileva che responsabili del negato aumento a Montesdoch e della chiamata di Zimara sono i due patrizi veneziani Zorzi e  Bragadin, riformatori dello studio di Padova, i quali s’avvicendano per molti anni in questo ufficio con altri patrizi che fanno gli studi a Padova e v’hanno conseguito il titolo di dotor. E il risentimento di Bembo si rivolge specialmente contro il primo dei due riformatori. Marino ha voluto guastar questo bello ed onorato studio, di cui egli è guardiano; e gli è molto ben venuto fatto il  pensiero. Se le altre sue imprese così bene gli succederanno, sarà felicissimo. Non parlo di M. Francesco, percioché io intendo da ogni lato, che il voler condur qui codesto Otranto è solo invenzion di Marino, e non di lui. Il quale Otranto è già da ora tanto in odio di questi scolari tutti dall'un capo all'altro, che se ne ridono con isdegno. Perciocché dicono che ha dottrina tutta barbara e confusa, ed è semplice averroista; il quale autore a questi dì assai si lascia da parte dai buoni dottori ed attendesi alle sposizioni de' commenti Greci, ed a far progresso ne'testi. E costui pare che sia tutto barbaro e pieno di quella feccia di dottrina, che ora si fugge, come la mala ventura. Siate sicuro che questo povero studio quest'anno, quanto alle arti non avrà quattro scolari oltrequelli  del nostro dominio, che ci staranno mal lor grado, e sarà l'ultimo di tutti gli studi. E più giù: Questi sono i governi e giudicii di M. Marin Giorgio, che pare appunto, che porti odio a tutti quelli, che sanno le belle e buone lettere, o che le vogliano apparare e sapere. Anche di Foscarini, che più volte coprì la carica di riformatore dello Studio padovano e dimostrò rara dottrina nello esporre  a Venezia, nelle scuole di Rialto, le cose diffìcili del LIZIO e d’Averrois il gran commentatore, Bembo pronunzia, in una lettera allo stesso Rannusio, un giudizio analogo: il qual Foscarini non so come par che sempre abbia avuto in odio tutte le buone lettere in ogni facoltà.  ZhNO,  Giorn. de' Letterati d'Italia. Opere. Bisogna però riconoscere che, l'una e l'altra volta, Bembo scrive con  l'animo irritato, pelle difficoltà che, tanto Zorzi quanto Foscarini, opponeno a due suoi raccomandati. A questo s'aggiunga ch’il patriziato veneziano è stato in gran parte EDUCATO, PER QUANTO CONCERNE LA FILOSOFIA, alla tradizione del LIZIO averroistica, e che a questa si mostra assai attaccato, come provano numerosi documenti. Bembo, invece, viene dalla scuola di  retorica ed è insomma un umanista, e piuttosto che sobbarcarsi allo studio della filosofia  de LIZIO averroistica,  rinunzia al titolo di dottore in artihus, del quale invece s'adorna suo padre,  Bernardo, dotor e cavalier. In lui l'avversione pel LIZIO  e l'averroismo, ereditata da Petrarca, è, potremmo dire, congenita. Come gran parte degl’umanisti, egli non ha mai il gusto per i problemi  della filosofia e della scienza che appassionano i maestri e gli scolari della facoltà dell’arti. Il suo aspro giudizio su codesto Otranto è espressione d’un conflitto più vasto, non ancora risolto, nel pensiero del ri-nascimento, che vide co-abitare tra le mura della stessa città Bembo e Zimara. Titolare della lettura ordinaria di filosofia  [i.a  poTrf)  nxXq  Seuxépac?  yoù  acù(jLaTOct.S£CTt ^coaig) è detta uscire fuori di sé {slq    e^co  Trpotcóv), con frase che curiosamente ricorda un'analoga espressione di Hegel. La mente che permane in se stessa, in un atto contemplativo che dura eterno, è identificata da Simplicio con quello che fu  detto 1'intelletto agente che è atto sostanziale per sua natura e non intende ora sì ora no, come s'esprime il LIZIO;  invece la mente in  quanto esce fuori – GARIN (vedasi),  PICO (vedasi). Vita e dottrina, R. università degli studi di Firenze, facoltà di filosofia;  Firenze;  N.,  Brabante nel  pensiero  del ri-nascimento italiano. Roma, Edizioni Italiane; Individualità e immortalità nell'averroismo e AQUINO, Archivio di filosofia. Organo dell' Istituto di studi filosofici, vol.  dedicato al problema dell'immortalità, Roma.  Brab. Simplicio. LIZIO De  anima, di sé s'identifica coll'intelletto in potenza o intelletto possibile o passivo. Il conoscere umano comincia dall'esperienza sensibile, e consiste in una liberazione progressiva dalla passività e nel ritorno, àvaSpo^xv, alla pura contemplazione del mondo ideale. Questo concetto d’un intelletto che permane in se stesso, e, uscendo da sé, s'unisce al mondo  della sensibilità per ritornare a sé, in un circolo eterno, seduce il signore della Mirandola, intento a risolvere il problema averroistico della copulatio, ossia del congiungimento dell'unico intelletto coll’individuo, che era stato il problema di Sigieri, anzi dello stesso  Averroè.  Questo problema dove essere assillante nel suo animo. Nifo narra a questo proposito l'episodio d'un incontro  con lui e d’una discussione. Il Suessano, che professa filosofia a Padova, aveva avuto dal suo alunno Bernardo, di famiglia patrizia veneziana, un esemplare della Destrttctio destructionum – SPERANZA GRICE METHOD IN PHILOSOPHICAL PSCYCHOLOGY SEMINARIO --  Algazelis d’Averroè, che pochi conoscevano, e sta preparandone un commento che è stampato a Venezia. Un passo d’Algazele ferma a.lungo l'attenzione di lui. Dice il filosofo arabo. Forte aliquis diceret, quod opinio Platonis est vera, videlicet quod anima est una et antiqua, et dividitiir divisione corponim, et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur. Due cose sono notevoli in questo passo d'Algazele: anzitutto, che la dottrina dell'unità dell'intelletto venga attribuita a Platone;  indi, che vi s'accenni alla possibilità, intravista da alcuni, di conciliare la tesi dell'unità con quella della molteplicità numerica e individuale delle anime. Ora Nifo racconta com'egli, abbattutosi nel conte della Mirandola, che insieme a lui era diretto in dihgenza alla volta di Bologna, ebbe a palesargli i suoi  dubbi su quest'argomento. E il Mirandolano, che evidentemente la pensa come  di Platone riferisce Algazele, cerca di far capire il suo pensiero al com  Simplicio, N., Introduzione  ad Aquino, trattato sull'unità dell'intelletto contro gl’averroisti. Firenze,  Sansoni] pagno di viaggio con questo curioso paragone. Come per costruire una volta o un arco fa mestieri di quella impalcatura di legno che li sostenga e che dicesi centina; ma poi, quando son costruiti, la volta e  l'arco si reggon da sé, senz'armatura; così una sola idea di tutte l’anime sorregge ed aiuta ognuna d’esse a venire all'esistenza, via via che per virtù di generazione si formano i loro corpi; quando poi IL CORPO VIVENTE è già formato, rimane in esso un'ombra o vestigio che dicesi anima. Alla morte del corpo, l’anime singole ritornano al loro semenzaio, che è quell'unica idea della  quale, nella loro individualità particolare, sono ombra, vestigio e riflesso. Per Platone dunque, quale era inteso d’alcuni prima d'Averroè, e quale piace a Pico d' intenderlo, tutte le anime singole sono un'anima sola nella loro radice; sono invece molte, in quanto suoi germogli nei corpi, ossia in quanto l'anima che è una in sé si comunica e si propaga negl'individui della specie umana,  uscendo, come dice Simplicio, fuori di sé. Anche a fare un po' di tara sui particolari' del racconto di Nifo, la sostanza del racconto sembra conforme allo spirito della filosofia pichiana, nel momento in cui il Mirandolano, senza rinnegare il suo averroismo del periodo padovano, s' industria di svolgerlo in senso platonico. Non saprei se da  Pico o d’altri il Suessano  ha notizia del  commento di Simplicio al De anima. Certo è che egli ricorda più volte l'interpretazione simpliciana della dottrina aristotelica in opere composte a Padova. Una di queste sono i Collectanea super lihros de anima, che Nifo appronta pella pubblicazione e mandato a Miliani, patrizio partenopeo, coll’intento che n’accogliesse la dedica, e all'abate Salinatore, suo concittadino, per averne il  giudizio  Essi sono pubblicati, con dedica di Nifo a Mihani, dall'editore veneziano Calcidonio, mentre l'autore, se la sua asserzione merita fede, aveva Nifo, In librum Destructio destructionum Averrois commentari!, disp., dub. Collectanea sono stampati da Nifo una prima volta, e di nuovo insieme al suo commento. L'ultimo dei collectanea, assai prolisso, ma ricco d'importanti notizie,  riguarda il famoso De anima, e la non meno famosa digressione d'Averroè intorno a questo testo stabilito di non darli alla luce prima che fossero trascorsi i anni oraziani dalla loro composizione; sì che si può pensare che essi siano una delle prime fatiche del suessano. Ora in principio di questi Collectanea, Nifo accenna alla questione dibattuta fra gl’espositori, cui si riferisce la seconda  delle conclusiones di Pico secundum Simplicium, di quale intelletto Aristotele intenda parlare in  questa parte della sua opera. Verum circa intentionem huius tertii apud expositores fuit difficultas non parva. Primi enim expositores, quos impugnare videtur lamblicus, sentire videntur intentionem huius esse de intellectu imparticipabili, qui actu est summus ac VITA essentialiter optima  et per se ab ANIMA separabihs. Ad quos obiicit lamblicus et inquit. Quidnam et qualis separabilis ab ANIMA intellectus, et quod prima substantia et impartibilis et optima VITA et summus actus et idem intellegibile et intellectio et intellectus et eternitas et perfectio et quies et terminus et causa omnium, Metaphysice dictum est. Non ergo et hic de Deo pertractandum. Sed hoc lamblici  argumentum pace sua nihil est. Ideo et aliter lamblicus inquit. Magis vero nunc qualis quis A NOSTRA ANIMA participatus intellectus dicendum. Sed quid velit lamblicus, SimpHcius laborat exponere. Ubi debes scire, quod duplex est intellectus: participatus et imparticipatus. Omnis enim forma, scilicet quae idea dicitur, indivisibilis est et  terminus seipso; anima autem est divisibilis,  ut reflexa ipsius denotat actio: erit ergo ANIMA hominis VITA secundum se partibilis ac divisibilis. Verum, prout intellectu participat, in impartibilitatem cadit ac in terminum et indivisionem. Erit ergo ANIMA hominis VITA hominis, cuius intellectus est forma. ANIMA enim ipsa in-dividua est in CORPORE, ut IL PORTICO inquiunt. Ut vero particeps est intellectus, impartibilis ac  indivisibilis redditur partitione et reditione. Differt vero intellectus participatus ab imparticipato: ille enim non manet in se, sed alterius anime est forma; imparticipatus autem in se manet, ac per se separatus est et terminus. Et  sic imaginatur aliud esse animam, et aliud intellectum, Iamblicus; ANIMA enim VITA est animalis humani; intellectus vero forma erit anime. Sed quoniam  Iamblicus non videtur differre a Plotino, ideo, ut melius Iamblici opinio clarescat, Plotini sententiam expedit enarrare. Erit ergo ordo: deus forma est intellectus; intellectus Ciò è dichiarato da Nifo alla fine della prefazione premessa all'edizione Simplicio Simplicio, vero anime; ANIMA RATIONALIS VIVI HUMANI. Erit ergo intentio, apud Iamblicum, huius libri de intellectu  participato, qui forma est anime rationalis, que homo est, platonice  loquendo – ACCADEMIC WAY OF SPEAKING MANNER OF SPEECH CODE GRICE --. Alitar et post hunc Simplicius. Intentionem enim huius libri de anima rationali dicit esse. Imaginatur enim aliud esse VITAM HOMINIS, et aliud rationalem animam, et aliud animam totam ipsius. VITAM enim appellat ipse  cum prioribus intentionem hominis, scilicet animalis humani, que est actus et perfectio specilìcans hominem; rationalis vero anima est actus huius anime, sicut lumen diaphani; ex quibus duobus resultat tota anima hominis. Erunt ergo anime humane partes due, scilicet rationalis anima et VITA ipsa, qxie simul totam hominis animam constituunt. Est autem apud ipsum duplex intellectus, scilicet quo ad divina copulatur anima, et hic forte agens est intellectus; alter quo ad materialia, et hic quandoque potestate et imperfectus existit, non quia in se non intelligit, sed quoniam ab alio scientiam habet, ut a primo, et respectu hominis quandoque et perfectus est et completus, et hoc quando perfecte toti homini  unitur. Erit ergo intentio huius libri loqui de parte, id est de ANIMA RATIONALI, qua anima scilicet hominis intelligit et sapit; id est, de rationali anima, que PARS est anime hominis, scrutandum. In questo passo dei Collecianea, a parte l'interpretazione più o meno esatta che Nifo ci dà del pensiero di Simplicio, è certo che vi sono frasi prese alla lettera dal commento di questo. Ora,  nel commento che il Suessano reca a termine, maestro a Pisa, avendo egli modificato il suo modo d'intendere, ci fa questa confessione. Animadverte, tamen in Collectaneis nos dixisse, de mente Simplicii, intentionem LIZIO hic esse de ANIMA RATIONALI que est PARS ANIME HUMANAE, cum in greco eum non viderim tunc. At postquam eum legi in proprio fonte, reperi eum  opinari ut dictum est, et non ut in Collectaneis dixi. E non di meno il commento di Simplicio è ricordato e discusso parecchie volte negli stessi  Collecianea, con espressioni le quali non lasciano dubbio che l'opera del commentatore greco è familiare a Nifo. Se questi pertanto non la possede in greco, vuol dire che la possede tradotta. Questa traduzione, anteriore a quella di FASOLO,  l’è sconosciuta a N.. Essa 40  Nifo, De anima, Venezia, Collect. ad  t. e. i. Nifo,  comm. ad t. e. i. ad ogni modo dove essere molto imperfetta, sì d’accrescere l’oscurità che sono già nel testo greco. Nifo poi dove affrontare la lettura di Simplicio coll'animo di trovarvi una conferma alle proprie idee sigieriane. Egli stesso confessa d’avere per lungo tempo aderito alla dottrina d’Averroè  nell'interpretazione che di questa da Sigieri nel Tractatus de intellectu scritto in risposta al tractatus de unitate intellectus d’AQUINO. I capisaldi d questa dottrina, che Nifo dichiara d'avere attinto al trattato di Sigieri, sono i seguenti. L'intelletto possibile è unico per tutta la specie umana; esso, per attuare tutta la sua potenza, ha bisogno di trovarsi unito in ogni momento a una moltitudine d'individui umani che gli forniscono le specie sensibili, senza delle quali esso niente può intendere; l'unione tra l’intelletto possibile e LA FACOLTÀ COGITATIVA, che è la più alta facoltà dell'ANIMA sensitiva, è un'unione sostanziale, e non semplicemente accidentale, come pensano altr’averroisti, sì che può dirsi che l'uno e l'altra son parti ond'è costituita L’ANIMA RAZIONALE dell'uomo; l'anima  razionale, costituita dall'unione della facoltà cogitativa dell’anima sensitiva coll’intelletto, che in sé è unico, può dirsi veramente forma  informante, e non soltanto assistente dell'uomo, tale cioè che dà a questo il suo essere – GRICE IZZING AND HAZZING -- di animale ragionevole, contrariamente a quanto asserivano altr’averroisti, i quali sosteneno che l'anima  intellettiva è soltanto forma assistente. Questa dottrina sigieriana è presentata da Nifo come schietta farina del sacco averroistico, senza che sia fatto il nome di Sigieri né quello di Simplicio, nel commento che il suessano scrive a Padova sulla metafìsica nell'esposizione della Destructio destructionum  disp.  dub. quaestio. Invece nel De intellectu essa è esposta due volte è presentata  come dottrina di Simplicio, e come dottrina di Sigieri tendente a trovare una via di mezzo inter latinos et averroycos. Siccome m'è già accaduto di richiamare l'attenzione sulla dottrina che Nifo attribuisce a Sigieri, non è forse inutile che con essa si raffronti questo riassunto che nella stessa opera il suessano N., Brab. I luoghi di Nifo sono riuniti nel volume di N. ora citato. ci ammannisce,  ancora una volta, del pensiero di Simplicio, prima d’averne conosciuto il commento  in proprio fonte. Si RATIONALES ANIMAE erunt plures et intellectus unus, sic Simplicii erit positio. Imaginatur enim Simplicius, ex intellectu et omnibus praecedentibus formis, in corpore humano praeviis, constitui rationalem animam, quae quidam est totum quoddam constituens in esse hominem.  Et quoniam cogitativa  seu SENSITIVA ANIMA praecedens est multiplicata, procul dubio rationalis anima est numerata per corpora. Quemadmodum enim materia est una privatione formarum in se, et tamen per formas partitur et fit altera alteraque, sicut altera atque altera est forma; sic intellectus unus potentiae fit alius atque alius, prout alteri atque alteri sensitivae unitur secundum  esse; et sic fiunt plures animae rationales  secundum corpora, licet intellectus sit unus. Et si dicas: Ergo rationalis anima est corruptibilis, concedunt rationalem animam esse corruptibilem totam ratione partis, quae est totum praecedens eam in corpore humano; tamen intellectus in se incorruptibilis est. Est enim una anima numero unius hominis: cuius una pars est intellectus incorruptibilis,  et altera pars est totum quod praecedit, scilicet sensitiva et vegetativa, quae est unum faciens cum intellectu. Et sic totum id est corruptibile ratione praecedentis partis; intellectus autem sempiternus. Et hoc sentire videtur LIZIO. Divmornm dicens. In quibusdam enim nihil prohibet; ut si est anima tale; non omnis, idest tota, sed intellectus; omnem namque impossibile est forsan. Ecce  quo pacto LIZIO dicit totam animam esse corruptibilem, sed intellectus permanet. Et si dicis: Quando corrumpitur totum, ubi remanet intellectus? dicunt quidam quod remanet in se, sicut materia: quando enim generatur homo, statim accipit intellectum tanquam partem animae suae; et quando corrumpitur, perdit animam, licet intellectus remaneat. Et apud Simplicium salvatur multitudo  rationalium animarum, et quomodo rationalis anima dat esse homini, et salvatur sempiternitas intellectus liane positionem multi credunt esse mentem ACCADEMIA, quemadmodum Algazel. Inquit enim. Et forte aliquis diceret, quod opinio accademia est vera, quod anima est una et antiqua, et dividitur divisione corporum; et in corporea separatione redit ad suam radicem et unitur.  Haec ille in Destructio destructionuììi, dubio octavo primae  disputationis. Ubi  Averroes, in solutione illius  dubii, inquit. Et ideo anima Petri et anima Gui- LIZIO,  Metaph. Allo stesso modo intende questo luogo del LIZIO  Nifo, In duodecinmm Metaphysices LIZIO et  Aver. ad Antoniiim lustinianum Patritium Venetiim  Venetiis;  ma la prima edizione a spese di Al. Calcidonio è). In quest'opera degl’ultimi anni del suo soggiorno padovano, Nifo  è ancora s sieriano, ma  non cita Simplicio. lelmi quodammodo possunt dici una et eadem, ut puta ex parte formae, et sunt multae alio modo, videlicet respectu subiectorum. Et ibidem, in solutione dubii ait. Omnes communiter opinati sunt, quod ANIMAE innovatio est relativa, scilicet quod haec innovatio  est eius adiunctio cum CORPOREIS possibiliter dictam adiunctionem recipientibus, eo modo quo praeparationes et potestates speculorum recipiunt adiunctionem solis radiorum. Ergo ex mente Averrois positio haec videtur esse, et non tantum Simplicii. Idem etiam sentire videtur Averroes comm.  duo-decimi divinorum. Inquit enim. Et ex hoc quidem apparet bene, quod LIZIO opinatur  quod forma hominum, in eo quod sunt homines, non est nisi per continuationem eorum cum intellectu, quod declaratur in libro De anima. Ecce quo pacto piane positionem hanc Simplicii sentit Averroes, occasione horum verborum et multorum aliorum. Aliqui credunt positionem hanc esse intentione in Averrois, scilicet quod RATIONALIS ANIMA sit composita ex intellectu potentiae  et toto praecedente, scilicet VEGETATIVO SENSITIVOque: ex quibus terminatur ac conficitur forma quaedam simplex, quae actu est VEGETATIVA, SENSITIVA, AC RATIONALIS; quae forma sit hominis, secundum esse multiplicata per homines ac numerata, licet intellectus sit unus in se, ut diximus. Questo Nifo scrive prima di conoscere il testo greco di Simplicio; ma anche  quando ha tra mano l'esposizione simpliciana del De anima nella lingua originale, e ne trasse vantaggio per recare a  termine, insegnante a Pisa, il suo commento  sull'opera del LIZIO, stampato insieme ai Collectanea, corresse, sì, molti errori e inesattezze in cui era incorso nelle opere giovanili, ma per quel che si riferisce all'interpretazione della dottrina di Simplicio intorno all'unità dell'intelletto possibile e al modo di unirsi di questo coll'anima sensitiva, rimane fermo nell'opinione che la tesi del commentatore greco è sostanzialmente identica con quella d'Averroè. E sebbene fosse ormai trascorso un ventennio da che lascia lo studio padovano, il ricordo di quegli anni lontani, in cui gli pareva d'aver trovato nella dottrina di Sigieri un modo plausibile di risolvere gl’argomenti d’AQUINO, e di Sigieri discute con PICO, sembra ad un tratto ridestarsi, sebbene in modo molto confuso, nella sua mente. Simplicius arbitratus est omnium hominum intellectum unum numero esse; rationales vero animas prò hominum numero  N., Sigieri  di  Brab. IL COMMENTO DI SIMPLICIO AL DE ANIMA multiplicari. Non desunt qui positionem hanc Avverei tribuant, ut Rogerius et Suggerius  uterque Bacconitanus, AQUINO-que coetanei. Hi enim in eorum libellis, quos adversus AQUINO scripserunt prò defensione Averrois, non modo positionem hanc Averroi, sed omnibus graecis expositoribus attribuerunt. Questo inestricabile garbuglio di nomi e d’idee è tutto quello che Nifo, divenuto ormai sequace d’AQUINO a modo suo e conte palatino, col privilegio di fregiarsi del titolo di Medices, conferitogli da Leone ricorda del suo insegnamento a Padova. Ma è un ricordo che diventa di giorno in giorno più sbiadito e confuso nel suo spirito abbagliato dallo sfarzo dell’aule principesche e tutto preso dalla brama di procacciarsi privilegi ed onori, senza celare le tardive fiammelle che accende nel suo cuore il seducente  aspetto di qualche bella cortigiana. Anche quando Nifo ne è partito, a Padova si continua per molto tempo a studiare il commento di Simplicio al De anima e ad interpretarne il pensiero in senso averroistico. CASTELLANI (vedasi) da Faenza, che a Ferrara ha per maestro il bresciano MAGGI (vedasi) o Madio, alessandrista, narra com'egli trova il commento di Simplicio oscuro ed  involuto nella maniera d'esprimersi, e che anche dopo la seconda e la terza lettura gli rimanevano parecchi dubbi. Ma avendo occasione di recarsi a Padova, trova in questo studio uomini eminenti nello studio della filosofia, che gli chiarirono appieno le sue dubbiezze: e Ita sane complura Simplicii tenebricosa dieta illustrarunt claraque et apertissima reddiderunt. Quale idea CASTELLANI (vedasi)  si è fatta della dottrina di Simplicio intorno all’ANIMA umana, dopo averne discusso coi dotti padovani, si può capire da questa esposizione che  egli luLii  Castellanii, Faventini, In  libros LIZIO de humano intellectii disputationes sive lucidissimi commentarii ex doctrina christianorum auciorum ac philosophorum antiquoriim descripti. Ad Cosmum Medicem Florentinorum  ac Senensiuni ducem. Venetiis, ne fa e che giova conoscere. Simplicius igitur, atque ii qui illuni praecipue sectantur et eius sententiam explicant, humanam mentem unani tantum numero esse dicunt, istamque in intelligentiarum ordinem collocant; tametsi eam longe omnium infimam et humano orbi assistere arbitrantur. Quam etiam homini nequaquam dare esse affirmant ita loquuntur  philosophi, et saepe eorum verbis facilioris doctrinae gratia uti nos oportebit; sed aliud statuunt genus ANIMAE, quam COGITATIVAM [GRICE POTCH AND COTCH] vocant, a quo informatur homo. Ex ANIMA COGITATIVA enim et CORPORE organico, tanquam ex materia et forma, conflatur homo; ex mente et homine, tanquam ex nauta – GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL -- et navi, nobilius quoddam atque  divinum compositum oritur, quippe quod intellectus nobilissimam ac divinam tantum homini operationem praebet. Come già Nifo, dunque, anche questi maestri padovani del tempo di CASTELLANI (vedasi), fanno risalire a Simplicio la tesi averroistica dell'unità dell'intelletto. Ma mentre il suessano attribuiva a Simplicio la tesi  sigieriana, un tempo difesa da NICOLETTI e,  piu tardi, d’Achillini, BACILIERI (vedasi) e TAIAPIETRA (vedasi), secondo la quale l’intelletto unico s'unisce all’ANIMA COGITATIVA in modo da formare con questa una sola anima individuale e razionale che, tutta intera, è forma dell'uomo e dà a questo il suo essere d’uomo, i padovani cui accenna il faentino riteneno, al contrario,  che l'intelletto s'unisce all’ANIMA COGNITATIVA soltanto come forma assistente e non come forma informante, ossia, secondo l'espressione del LIZIO, sicut nauta --  GRICE THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL – navi. Continua poi Castellani, sviluppando concetti accennati anche in alcune delle stampata a Parigi, in Officina Christiani Wecheli, ispirandosi al Bessarione,  osserva molto giustamente che coloro che hanno bisogno di confermare la loro fede coll’autorità del LIZIO non sembrano aver molta fiducia nella parola di Cristo. E un altro italiano sequace del LIZIO, ma non averroista, bensì alessandrista,  Giulio CASTELLANI (vedasi) da Faenza, dice che coloro ch’esitano a prender posizione e a dichiarare il loro pensiero per ciò che riguarda i  problemi dello spirito umano, per paura di trovarsi in contrasto colla fede,  profecto huiusmodi homines ignorare videntur, quam christiana fìdes et charitas a philosophandi ratione distet, et quam nullius sint ponderis LIZIO inventa et argumentationes ad sanctissimae religionis nostrae decreta labefactanda. E conclude con una lingua da gran galantuomo, senza falsi pudori. Audacter  igitur etiam  possumus DE ANIMI nostri substantia ac perpetuitate disserere, perpendereque diligenter quid de eo discernendum voluerit LIZIO. Si quideni cum nos philosophamus, ex aliorum sententia loquimur, semperque, ut christiani, sacrarum – GRICE NON HUMANIORES -- litterarum preciosissima monumenta pie colenda et observanda supponimus. Ecco dunque a che cosa  si riduce la così detta dottrina della doppia verità, della quale si sono scandalizzati gli storici della filosofìa. Non se ne scandalizzarono invece gl'inquisitori dell'eretica  pravità; ai quali interessa mediocremente di sapere come la pensa LIZIO. Ad essi basta di sapere che sia gl’averroisti che gl’alessandristi non ponevano in discussione le verità rivelate, bensì la dottrina del LIZIO. Che  se poi il LIZIO non s'accorda alla fede di Cristo, tanto peggio per lui; e tanto peggio per chi lasciava Cristo pel LIZIO. S'oda, per esempio, quest'avvertenza che Loredan, patrizio veneziano, rivolge al lettore nell'atto di congedare pella stampa il suo commento al De anima condotto secondo lo spirito alessandrista di POMPONAZZI, di PORZIO, e di CASTELLANI, e dedicato al  serenissimo duca d'Urbino, Montefeltro. Pie lector, haec mea commentarla pie legito, et tantum mentem philosophi hic interpretari scito; et me interpretem  christianum et sanctae romanae ecclesiae filium esse advertito, et prò domino nostro Iesu et ecclesia mori paratum habeto; LIZIO christianum non extitisse notato, nec ipsum christiane scripsisse nec christiane expositum observato.  Fidem christi dei et dei filli tot tantisque miraculis firmatam inspicito, auctoritate LIZIO non indigeto, et si quae veritatem catholicam turbantia legeris, tamquam falsa et ab LIZIO impio prolata prò firmo et indubitato habeto tenetoque. Vale. Perciò l’autorità ecclesiastiche hanno finito per acquetarsi a siffatte dichiarazioni, e lasciarono sia agl’averroisti che agl’alessandristi la più ampia  libertà di discussione e di critica. Le difficoltà che i studiosi d’ALIGHIERI trovano ad intendere come ALIGHIERI mette nel suo paradiso, a fianco d’AQUINO,  un averroista qual è Brabante, e farne l'elogio ch’ALIGHIERI fa pronunciare allo stesso Aquino, derivano da due cose. Primo, dal non aver capito la particolare natura della filosofia d’ALIGHIERI. Secondo, dal non aver  capito che cosa è l'averroismo. Questi commentatori d’ALIGHIERI, invece di guardare alla figurazione d’ALIGHIERI in se stessa e in rapporto alla filosofia del poeta che pone Averrois che'1 gran commento feo tra gli spiriti magni del nobile castello, si son lasciati forviare dalle raffigurazioni cui accennavo in principio, e nelle quali Averroè è prostrato nella polvere ai piedi d’AQUINO. A queste figurazioni d'ispirazione domenicana e dei sequaci d’AQUINO pare opporsi invece quella d'ispirazione  agostiniana che Giusto dipinge nella cappella dei cortelieri annessa alla chiesa degl’eremitani a Padova, ove insegna RIMINI. Dalle descrizioni che ne lascia Schedel, in questo affresco di Menabuoi Averroè è dipinto a fianco di Maestro Alberto da Padova, teologo eremitano,  e del beato Giovanni della LANA (vedasi) da  Bologna, filosofo anch'esso eremitano. Questo affresco deve avere impressionato l’eremitano NICOLETTI che reduce anch'egli, al pari di RIMINI, dalle scuole di Oxford e Parigi, e salito sulla cattedra di filosofia nelle scuole annesse al convento agostiniano di Padova, ispira il suo insegnamento alla dottrina sigeriana, sforzandosi di  dimostrare in che modo l'intelletto, unico per tutta la specie umana, riesce ad individualizzarsi nei singoli. Alla stessa dottrina sigeriana s'ispirano PICO (vedasi), ACHILLINI, NIFO (si veda), BACILIERI (vedasi) e altri. L'averroismo che ormai pare avere esaurita la sua vitalità a Parigi ed a Oxford, sopraffatto dallo scotismo e dall'occamismo, s'è ridotto ormai nelle sue due ultime  fortezze di Padova e di BOLOGNA. Accade ancora di trovare qualche altro averroista altrove, come PRASSICIO (vedasi) a Napoli, che intervenne nella polemica fra Pomponazzi e Nifo. Ma nel suo rigido attaccamento al testo averroistico, egli parla una lingua che si fa di giorno in giorno più incomprensibile. Anche a Bologna, ove l'averroismo sigeriano trova in ACHILLINI un  difensore ardito e destro, non ha in Boccadiferro un successore degno di tanto maestro. A Padova invece l'averroismo prende a rinnovarsi, sotto la spinta dell’accademia. E uscita a Treviso la traduzione che BARBARO fa delle parafrasi di Temistio. A questo interprete bizantino e a Teofrasto, Averroè stesso fa risalire la dottrina dell'unità dell'intelletto. Non fa quindi meraviglia che gli  averroisti si poneno a studiare con particolare interesse la parafrasi temistiana del De anima, nella traduzione di Barbaro, visto che la traduzione medievale di Moerbeke è diventata estremamente rara, e del resto è oltremodo ostica all'orecchio degl’umanisti. Ma assai più della parafrasi di Temistio, contribuisce al rinnovamento dell'averroismo padovano la conoscenza del commento di  Simplicio al De anima, rimasto sconosciuto ai  medievali. Il primo che, a mio parere, conosce ed  usa il commento di Simplicio al De anima è PICO, il quale n’estrasse ben nove tesi delle 900 preparate pella disputa da tenere a Roma, che poi non ha luogo. Il commento di Simplicio dove attirare l'attenzione di Pico, perché pare contenere un elemento che puo essere prezioso a risolvere  il problema centrale dell'averroismo e che è il problema centrale di tutta la filosofia, e cioè: in che modo l’intelletto che è un principio di conoscenza universale e che nella sua natura trascende l'individuo, si comunica a questo, puntualizzandosi nello spazio e nel tempo. Come N. dimostra più volte, il significato storico ed il valore filosofico dell'averroismo consiste appunto nello sforzo  di risolvere questo problema, che, posto dai medievali in termini, se vogliamo, contingenti e per noi inconsueti, è il problema eterno della filosofia. Il trattato di Brabante, De intellectu, scritto in risposta al trattato d’AQUINO contro gl’averroisti, questo trattato di Sigieri che si legge ancora a Padova, suggerisce al signore della Mirandola, studente a Padova ed averroista, una soluzione della quale s’ha l'accenno in due delle conclusiones secundum  Averroem. D’un lato, L’ANIMA INTELLETTIVA è una sola in ogni uomo. Dall'altro, sembra possibile a Pico, d’un punto di vista  strettamente  averroistico, che la MIA anima, così particolarmente MIA da distinguersi dall'anima d’ogni ALTRO uomo, possa conservare la sua individualità -- anche dopo la morte. L'elemento prezioso che il commento di Simplicio fornisce a Pico, consiste nell'idea, derivata da Proclo e Giambhco, d’un intelletto che, uno in sé, è capace di parteciparsi, uscendo fuori di sé, in una discesa progressiva verso le seconde VITE, cioè  LA VITA VEGETALE e quella ANIMALE o SENSITIVA, per poi ri-tornare in sé, in un circolo eterno che ricorda, anche nella curiosa  coincidenza dell'espressione verbale, il processo di HEGEL dell'idea in sé che, uscita fuori di sé, ritorna a sé come spirito. Non è il caso d'indugiarmi piu oltre; ma N. non puo non ricordare la curiosa immagine che Pico suggerisce a Nifo, professore a Padova, durante il viaggio che insieme hanno a fare diretti entrambi a BOLOGNA. L'unità dell'intelletto umano non è altro che l'unità  dell'idea platonica che si comunica ai singoli rimanendo, in se stessa, una, indivisibile e immoltiplicabile. Ma, nel comunicarsi ai singoli, essa lascia in questi un'impronta e un vestigio che permane e costituisce l’individualità dei singoli. E, per rendere il suo concetto, il mirandolano ricorre a questo paragone. Come per costruire un arco o una volta è necessaria quell'impalcatura che  chiamano centina. Ma quando l'arco o la volta sono costruiti, si reggono da sé, senza bisogno di sostegno. Così L’ANIMA individuale è una partecipazione dell'anima universale, la quale nel CORPO d’ogni individuo umano lascia un'impronta in cui consiste l'individualità d’ogni uomo. In tal modo il mirandolano non ripudia affatto il suo averroismo del periodo padovano; ma anzi  l'approfondisce e lo giustifica con un concetto accademico, sì che il problema, nel quale si dibatteno senza via d'uscita gl’averroisti, pare avviato alla  soluzione. NIFO (vedasi),  professore a Padova, uomo di vasta erudizione, ma confusionario e pretenzioso, crede in un primo momento d’aver trovato nel commento di Simplicio la piena conferma alla tesi sigeriana che egli c’attesta d’aver accolto e poi con molta disinvoltura abbandonato. La vivacità chiassosa ed arrogante che Nifo mette nel difendere le proprie idee e nel combattere l’altrui, contribuisce ad attirare l'attenzione sul commento di Simplicio, del quale frattanto è preparata l'edizione in greco che usce a Venezia presso i Manuzio. Colui che pur senza condividere l’idee di Nifo, anzi combattendole  apertamente, si da con ardore a studiare il commento di Simplicio al  De anima, è PASSERI, professore di filosofia nello studio di Padova. Di costui ci resta un importante commento al De anima, pubblicato a Venezia, ad opera di fedeli alievi che si giovano dei manoscritti lasciati dal maestro. Altre due redazioni dello stesso corso, tenuto in anni diversi, ci restano manoscritte nella  vaticana. Averroista, PASSERI ritene di poter proclamare il pieno accordo fr’Averroè e il divino Simplicio, sia sulla tesi dell'unità dell'intelletto, sia su quella che vuole, contro la corrente sigeriana di Nifo, L’ANIMA RAZIONALE forma assistente e non inerente o informante del CORPO umano. Inoltre, egli constata l'accordo tra il commentatore greco e quello arabo anche su altri  punti, segnatamente sulla conoscenza. Nel far ciò, egli s’adoperava a sviluppare alcuni motivi accademici che realmente sono latenti nel pensiero averroistico. Naturalmente PASSERI è uno dei più  risoluti avversari dell'alessandrismo, e riprende per proprio conto, come  altr’averroisti, la polemica contro POMPONAZZI (si veda) e PORZIO (si veda), i quali, al pari di MAGGI,  di LANDÒ e di CASTELLANI, si sono dichiarati per Alessandro d'Afrodisia. L'avvicinamento d’Averroè a Simplicio, mentre fornisce nuove armi agl’averroisti, sembra per un momento smussare l'antagonismo tra la filosofìa  del LIZIO e quella dell’ACCADEMIA, la quale ha in Ficino un sagace rinnovatore. La scuola di PASSERI pare anzi aver trovato nel platonismo la soluzione di quelle difficoltà, che sono lo scoglio contro il quale l'averroismo dove naufragare. L'entusiasmo dei discepoli incoraggia ed asseconda l'opera del maestro. Fra questi merita d’essere segnalato FASOLO (vedasi), professore di lettere umane nello studio padovano. È allievo di Genua e ben tre  volte aveva udito il maestro esporre il De anima, quando conduce a termine la traduzione in latino del commento di Simplicio sul trattato del LIZIO, stampata a Venezia. Nella lettera indirizzata agl’alunni di Genua, e premessa alla traduzione di Simplicio, FASOLO (vedasi), dopo aver loro ricordato, come il maestro sole a tutti gl’altri commentatori del LIZIO anteporre Averroè e  Simplicio, afferma che tutto quanto v'è di buono nell'arabo questi 1'ha appreso dal commentatore greco. E sebbene egli riconosca, che, su alcuni punti, non s'arriva a capire il LIZIO senza il commento averroistico, tuttavia ne mette in rilievo lo stile, più che disadorno, irto, oscuro, barbarico, mentre l'esposizione di Simplicio è piana, senza ambiguità, ed elegante. Forte di questa  constatazione, e più ancora dell'esempio del maestro, che non si stanca di lodare la divina esposizione dell'interprete greco, FASOLO (vedasi) rivolge una calda esortazione ai suoi condiscepoli, perché vogliano, ora che il commento di Simplicio è reso facilmente accessibile a tutti, cessare di logorarsi il cervello sulle pagine scabrose d’Averroè, e s'affidino invece all'espositore greco. Si  buttino pur via tutti gl’altri commenti, quelli d'Alberto Magno, di COLONNA, di Burleo, di Suessano e d'altri insieme a quello d'Averroè, e si studi invece di giorno e di notte soltanto Simphcio: alios negligite; Simplicium unum vobis die noctuque versandum proponite w. Questo vivace appello rivolto dall'umanista padovano a cacciar dalle scuole Averroè, è fatto, a dir vero, più in  nome dell'eleganza e del buon gusto letterario, che non nel nome della filosofìa; e pochi l'accolsero. Sicché Averroè continu ad essere stampato, letto e discusso in utramque partem nelle scuole di filosofia. Ma quell'appello, ad ogni modo, è significativo del disgusto che comincia così apertamente a manifestarsi pell'averroismo ormai prossimo al tramonto. Chi crede che a questo  tramonto abbiano contribuito lo spirito della contro-riforma e i divieti ecclesiastici, s' inganna. Chiarito ormai quello che è il significato dell'averroismo come sistema interpretativo del pensiero del LIZIO, è riconosciuta tanto agl’averroisti quanto agl’alessandristi la più spregiudicata libertà di discussione delle loro dottrine filosofiche. Se qualche tentativo è fatto, da parte di qualche zelante, di limitare siffatta libertà, si tratta di zelo eccessivo e d’eccezioni sporadiche. L'averroismo volse al tramonto, perché al tramonto volgeva ormai il LIZIO, del quale l'averroismo pretende d'essere la più fedele interpretazione. Il LIZIO a sua volta finiva per interna dissoluzione, sotto i colpi della critica occamistica, la quale, svalutando la conoscenza astrattiva, mette in evidenza  lo pseudo matematismo dei procedimenti gnoseologici che sono alla base del sistema del LIZIO della natura, e addita nella conoscenza intuitiva lo strumento della ricerca scientifica. La stessa opposizione tra ciò che è vero per fede e quello che è da pensare secondo la filosofia, se pur in qualche modo giova a rivendicare la libertà della critica entro i confini della filosofia  aristotehca,  finì per rendere sempre più estraneo al cristianesimo l’aristotelismo averroistico, il quale si rivela incapace di sistemare l'esperienza religiosa che trae impulso dal vangelo. L’ACCADEMIA invece era parso a Ficino una specie di propedeutica al cristianesimo, sì che sembra agevole sviluppare in senso cristiano i motivi religiosi che racchiudeva. S'aggiunga a questo l'asperità d’una  lingua che lacera l’orecchie abituate dall'umanesimo all'armonia e al numero della retorica classica. Ma quello che determina il crollo definitivo dell'aristoterlismo e dell'averroismo, fu il nascere d’una nuova filosofia della natura, fondata su un nuovo metodo di ricerca scientifica: la logica dell'esperienza. Mentre i precursori di Copernico, d’Oresme in poi, avevano rimesso in discussione l'antica ipotesi pitagorica del moto della terra, l'averroista bolognese ACHILLINI (vedasi) combatte perfino, come troppo ardita, la dottrina tolemaica degl’eccentrici e degl’epicicli, per ritornare a quella aristotelica delle sfere concentriche alla terra, considerata il centro immobile dell'universo. E mentre alcuni scolastici avevano dimostrato la possibilità d’un universo infinito creato da  Dio, ed avevano preparato la via al Cusano e a BRUNO (si veda), gl’averroisti  continuano ancora a sostenere che il mondo non s’estende al di là dell'ottava sfera o, tutt'al più, del primo mobile, che Dio stesso, nella sua onnipotenza, non puo creare altri mondi diversi da questo, e che il moto del primo mobile è un movimento assoluto, come punti di riferimento assoluti sono, per loro,  il centro della terra e la convessità della prima sfera. Questa angusta concezione dell'universo fisico crolla come un castello di carte, il giorno in cui, col dialogo della cena delle ceneri e con quello Dell'universo infinito e mondi, il concetto dell'infinito fa irruzione nella filosofia della natura e conduce alla scoperta della relatività di tutte le determinazioni spaziali e temporali. L'averroismo  fu sepolto sotto le rovine della fisica aristotelica. Ed anche il tentativo di PICO (vedasi) e di Genua di svolgere taluni motivi del pensiero averroistico in senso platonico, coll'aiuto del commento di Temistio e di Simplicio e sopratutto col sussidio di Plotino, non valse a salvare 1'averroismo come sistema. Per ciò che si riferisce al commento di Simplicio, nel quale avevano riposto le  loro speranze Genua ed i suoi padovani, non passarono molti anni che PICCOLOMINI (si veda), il quale dopo la morte di Genua ne occupa la cattedra fino al suo ritiro, potè dimostrare, con un accurato esame dell'opera del commentatore greco, che la dottrina di Simplicio, al pari di quella di Proclo, di Giamblico e di Prisciano Lido, non  s'accorda affatto, come avevano preteso il  Genua e Nifo, colla teoria averroistica dell'unità dell'intelletto. E se nell'averroismo v'erano effettivamente quei motivi platonici che ne svolse Pico, ciò che dell'averroismo sopravisse e, mettiamo pure, sopravive alla dissoluzione del sistema, ha finito per fondersi col pensiero platonico successivo. Lo stesso problema del rapporto dell'intelletto coll’individuo, ossia del valore universale  dell'intendere e dell'individualità dell'atto che intende, che è il problema centrale dell'avveroismo medievale e del rinascimento, s'è rivelato mal posto, pei termini nei quali era enunciato, e conveniva mutare i termini per trovarne la soluzione. Bruno Nardi. Nardi. Keywords: dantesco, Alighieri, animo, Pomponazzi, Virgilio, Enea, inferno, il concetto d’animo, la filosofia romana nel secolo d’augusto – il secolo d’oro della filosofia romana – il secolo augusteo, pico, abano. Refs.: H. P. Grice, “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate,” The Swimming-Pool Library. – Luigi Speranza, “Grice e Nardi: il paradiso filosofico” --.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nasta: la ragione conversazionale e la setta di Caulonia -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Caulonia). Filosofo italiano. Caulonia, Reggio Calabria, Calabri. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide, “Vita di Pitagora.” Grice: “Cicerone argues: Nasta spoke Greek; therefore, he was no Roman!” – Nasta.

 

Luigi Speranza -- Grice e Natoli: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’uomo tragico – origini dell’antropologia romana -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Patti). Filosofo italiano. Patti, Messina, Sicilia. Grice: “I like Natoli. He philosophises on the ‘uomo tragico’ at the source of western civilisation, and also the experience of ‘pain’ at the source of it.” Si laurea a Milano, dove ha trascorso gli anni nel Collegio Augustinianum. Insegna a Venezia e Filosofia della politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano.  Attualmente è Professore di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca.  Attività accademica In particolare, Salvatore Natoli è il propugnatore di un'etica neopagana che, riprendendo elementi del pensiero greco (in particolare, il senso del tragico), riesca a fondare una felicità terrena, nella consapevolezza dei limiti dell'uomo e del suo essere necessariamente un ente finito, in contrapposizione con la tradizione cristiana.  Filosofia del dolore Una particolare e approfondita analisi sul tema del dolore è stata condotta da Natoli in diverse sue opere.  Il dolore è parte essenziale della vita e per gli antichi filosofi greci era l'altra faccia della felicità:  «I greci si sentono parte e momento della più grande e generale natura, crudele e insieme divina, si sentono momento di quest'eterno e irrefrenabile fluire, ove non vi è differenza tra bene e male allo stesso modo in cui il dolore si volge nella gioia e la gioia nel dolore»  La natura infatti dava la vita e nello stesso tempo crudelmente la toglieva. Il dolore in realtà fa parte della vita ma non la nega: il dolore può essere vissuto e reso sopportabile se chi soffre percepisce non la pietà dell'altro ma che la sua sofferenza è importante per chi entra in rapporto con lui e con la sua sofferenza. Se chi soffre si sente importante per qualcuno, anche se soffre ha motivo di vivere. Se non è importante per nessuno può lasciarsi prendere dalla morte.  Secondo Natoli l'esperienza del dolore ha due aspetti: uno oggettivo, il danno («Nel momento in cui la sofferenza è motivata attraverso la colpa, colui che soffre non solo patisce il danno, ma ne diviene anche il responsabile»); e uno soggettivo, cioè come viene vissuta e motivata la sofferenza. La stessa sofferenza è interpretata in modo differente da diverse culture: per alcune il dolore fa parte della contingenza del mondo fenomenico, dell'apparenza per altre invece, è vissuto intensamente come ad esempio nel cristianesimo dove al dolore viene associata la redenzione. Vi è una circolarità tra il dolore e il senso che fa sì che, pur essendo il dolore universale, ad ognuno appartenga un dolore diverso.  Vi è dunque un senso del dolore e un non senso che il dolore causa. Il dolore infatti contraddice la ragione che non sa darsi spiegazione del perché il dolore abbia colpito proprio quell'individuo e per quali colpe quello abbia commesso e, infine, perché il dolore travagli il mondo. Il tentativo di rispondere a queste fondamentali domande fa sì che l'individuo scopra nuove forze in lui che generino un vittorioso uomo nuovo che, partendo dall'esperienza del dolore, s'interroghi sul senso dell'esistere, tenendo sempre presente però, che il dolore può segnare anche una definitiva sconfitta.  Nel dolore l'uomo può scoprire le sue possibilità di crescita ma questo non vuol dire disprezzare il piacere, sostenendo che questo, invece, ottunde gli animi. Il piacere invece affina la sensibilità come accade per chi ascolta frequentemente una buona musica. Il piacere invece è negativo quando diventa «monomaniaco, eccessivo, quando, anziché sviluppare la sensibilità, la fossilizza in un punto di eccessiva stimolazione. E l'eccessivo stimolo distrugge l'organo.» A differenza del piacere, dell'amore che è dialogo tra due, che è espansivo e affabulatorio anche quando è silenzioso, l'esperienza del dolore chiude il singolo nella sua individualità e incomunicabilità, poiché «il corpo sano sente il mondo, il corpo malato sente il corpo. E quindi il corpo diventa una barriera tra il proprio desiderio, l'universo delle possibilità, e la realizzabilità delle medesime possibilità.»  Sebbene il dolore sia "insensato" si cerca di spiegarlo con le parole spesso inutili ed allora si cerca dapprima la parola "efficace" che offre la tecnica o la parola "efficace" della preghiera, della fede, che non annulla il dolore, ma dà una speranza nel miracolo. L'efficace uso della parola per spiegare il dolore fa sì che gli uomini trovino conforto nella comune sofferenza, in quella universalità del dolore dove però ognuno rimane nella sua singolarità di senso. La parola efficace della tecnica per un verso ha alleviato il dolore ma per un altro può creare delle condizioni di vita tali per cui la stessa tecnica controlla il dolore senza togliere la malattia, creando così un'esistenza prolungata senza futuro sotto la continua incombenza della morte:  «A partire dal Settecento, ma ancor più nel corso dell’Ottocento, la tecnica è stata sempre di più associata alle filosofie del progresso: infatti ha emancipato gli uomini dai vincoli naturali, ha ridotto il peso della fatica, ha attenuato il dolore, ha accresciuto il benessere, ha conteso lo spazio alla morte differendola sempre di più… ma la tecnica, oggi, è nelle condizioni di interferire in modo profondo nei processi naturali modificandone i cicli…»  Una soluzione all'inevitabilità del dolore può essere l'adesione a un nuovo paganesimo secondo l'antica visione greca dell'accettazione dell'esistenza del finito e della morte dell'uomo.  «Il cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.»  Anche il cristianesimo infatti teorizza l'uomo finito, ma non essere naturale destinato alla morte, ma come creatura di Dio. Per il cristiano la vita finita condotta secondo il dovere porta all'accettazione della morte come passaggio a Dio. Per il neopaganesimo la vita finita è degna di essere vissuta senza speranza di infinitezza ma vivendola secondo un ethos, che non è dovere di obbedire a un comando morale con la speranza di un premio eterno, ma buona e spontanea abitudine di una condotta consapevole dell'universale fragilità umana.  Saggi: “Soggetto e fondamento” -- studi su Aristotele e Cartesio (Padova, Antenore); “La critica del linguaggio” (Venezia, Marsilio); “Ermeneutica e genealogia -- filosofia e metodo” (Milano, Feltrinelli); “L'esperienza del dolore -- le forme del patire” (Milano, Feltrinelli); “Gentile” (Torino, Boringhieri); “Vita buona vita felice -- scritti di etica e politica” (Milano, Feltrinelli); “Teatro filosofico -- gli scenari del sapere tra linguaggio e storia” (Milano, Feltrinelli); “L'incessante meraviglia -- filosofia, espressione, verità” (Milano, Lanfranchi); “La felicità -- saggio di teoria degli affetti” (Milano, Feltrinelli); “I nuovi pagani” (Milano, Saggiatore); “Dizionario dei vizi e delle virtù” (Milano, Feltrinelli); “La politica e il dolore” (Roma, EL); “Soggetto e fondamento. Il sapere dell'origine e la scientificità della filosofia” (Milano, Mondadori); “Delle cose ultime e penultime” (Milano, Mondadori); “Natura, poesia, filosofia” (Milano, Mondadori); “Progresso e catastrophe -- dinamiche della modernità” (Milano, Marinotti); “Dio e il divino” (Brescia, Morcelliana); “La politica e la virtù” (Roma, Lavoro); “La felicità di questa vita -- esperienza del mondo e stagioni dell'esistenza” (Milano, Mondadori); “L'attimo fuggente o della felicità” (Roma, Edup); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Il cristianesimo di un non credente” (Magnano, Qiqajon); “Libertà e destino nella tragedia” (Brescia, Morcelliana); “Stare al mondo -- escursioni nel tempo presente” (Milano, Feltrinelli); “Parole della filosofia o dell’arte di meditare” (Milano, Feltrinelli); “La verità in gioco” (Milano, Feltrinelli); “Guida alla formazione del carattere” (Brescia, Morcelliana); “Sul male assoluto -- nichilismo e idoli nel Novecento” (Brescia, Morcelliana); “I dilemmi della speranza” (Molfetta, La Meridiana); “La salvezza senza fede” (Milano, Feltrinelli); “La mia filosofia -- forme del mondo e saggezza del vivere” (Pisa, Ets); “L'attimo fuggente e la stabilità del bene – la Lettera a Meneceo sulla felicità di Epicuro (Roma, Edup); “Edipo e Giobbe -- contraddizione e paradosso” (Brescia, Morcelliana); “Dialogo sui novissimi” (Troina, Città Aperta); “Il crollo del mondo -- apocalisse ed escatologia” (Brescia, Morcelliana); “L'edificazione di sé -- istruzioni sulla vita interiore” (Roma-Bari, Laterza); “Il buon uso del mondo -- agire nell'età del rischio” (Milano, Mondadori); “Figure d'Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger (Milano, AlboVersorio); “Eros e philia” (Milano, AlboVersorio); “Nietzsche e il teatro della filosofia” (Milano, Feltrinelli); “Le parole ultime -- dialogo sui problemi del fine vita” (Bari, Dedalo); “I comandamenti: non ti farai idolo né imagine” (Bologna, Mulino); “Le verità del corpo” (Milano, AlboVersorio) – IL CORPO -- Sperare oggi (Trento, Margine); “Le virtù dei Giusti e l'identità dell'Europa -- la salvezza senza fede” (Feltrinelli); “Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche. Il senso del dolore.  In L'esperienza del dolore.  L'esperienza del dolore nell'età della tecnica. Siamo finiti. E anche la tecnica lo è, da Europa,  I Nuovi pagani, Saggiatore, Milano, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Intervista per Il Rasoio di Occam, Video intervista su Asia, su asia. Dov'è la vittoria? “l'Italia civile che resta minoranza” intervista di, Il Fatto Quotidiano. Salvatore Natoli. Natoli. Keywords: uomo tragico, origini dell’antropologia romana, Gentile, corpo. Chora di Platone, antropologia degl’italiani, filosofia siciliana, Gentile filosofo italiano --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Natoli” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nausito: la ragione conversazionale della scuola di Firenze, pre-romana -- Roma – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. A Pythagorean – cited by Giamblico, “Vita di Pitagora.” He rescues Eubulo di Messina, another Pythagorean, from pirates. Grice: “Cicerone argues: Nausito speaks Greek; he is, therefore, no Roman!” – Nausito.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nearco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia.  A Pythagorean, he plays host to CATONE (si veda) Maggiore when Catone recaptures Taranto from the Carthaginians. Grice: “When in Athens, and although he knew some basic Greek, Catone refused to speak it – and demanded an interpreter. I assume he demanded an interpreter when he was asking for his breakfast at Nearco’s!” --. Nearco.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nicoletti: la ragione conversazionale -- quadratura ed implicatura conversazionale – la scuola d’Udine -- filosofia friulana -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo friulano – filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia Giulia. – Grice: “His diagramme for ‘arbor porphyriana’ is also brilliant – ending with “Plato,” “Socrates.”” -- Grice: “I especially like his squaring the square of opposition!” -- Grice: “A veritable genius, this Nicoletti.” -- Not under ‘Venezia’! -- paolo di venezia: philosopher, the son of Andrea Nicola, of Venice He was born in Fliuli Venezia Giulia, a hermit of Saint Augustine O.E.S.A., he spent three years as a student at St. John’s, where the order of St. Augustine had a ‘studium generale,’ at Oxford and taught at Padova, where he became a doctor of arts. Paolo also held appointments at the universities of Parma, Siena, and Bologna. Paolo is active in the administration of his order, holding various high offices. He composed ommentaries on several logical, ethical, and physical works of Aristotle. His name is connected especially with his best-selling “Logica parva.” Over 150 manuscripts survive, and more than forty printed editions of it were made,  His huge sequel, “Logica magna,” is a flop. These Oxford-influenced tracts contributed to the favourable climate enjoyed by Oxonian semantics in northern Italian universities. Grice: “My favourite of Paul’s tracts is his “Sophismata aurea”how peaceful for a philosopher to die while commentingon Aristotle’s “De anima.”!” His nom de plum is “Paulus Venetus.”— Paolo da Venezia  Nota disambigua.svg Disambiguazione"Paolo Veneto" rimanda qui. Se stai cercando lo scrittore e vescovo nato a Venezia, vedi Paolino Minorita.  Paolo da Venezia in una stampa Professore Paolo da Venezia, o Paolo Veneto, vero nome N. (Udine), filosofo. Eremitano, studente all'Oxford e docente a Padova ove ebbe tra gli allievi Paolo Della Pergola. Divenne ambasciatore veneto presso la corte polacca. Per le sue idee teologiche e esiliato a Ravenna ma, dopo, gli fu consentito di tornare a Padova.  Seguace di Occam e Brabante e autore di vari trattati, tra cui alcuni commenti al Lizio. Il suo trattato “Logica magna” e utilizzato come testo di insegnamento della logica a Padova e può essere considerato la maggiore opera di logica formale prodotta dal medioevo.  Opere: “Logica,” “Commenti alle opere di Aristotele” “Expositio in libros Posteriorum Aristotelis,” “Expositio super VIII libros Physicorum necnon super Commento Averrois,” “Expositio super libros De generatione et corruptione” “Lectura super librum De Anima” “Conclusiones Ethicorum” “Conclusiones Politicorum” “Expositio super Praedicabilia et Praedicamenta.” “Scritti sulla logica: Logica Parva or Tractatus Summularum, “Logica Magna”; “Quadratura”; “Sophismata Aurea. Altre opere: “Super Primum Sententiarum Johannis de Ripa Lecturae Abbreviatio,” “Summa philosophiæ naturalis,” “De compositione mundi. Quaestiones adversus Judaeos. Sermones. N Dizionario di Filosofia Treccani, riferimenti in.  Vedi Pergola,  Dizionario di Filosofia Treccani. Garin, Storia della filosofia italiana, Edizione CDE su licenza della Giulio Einaudi editore, Milano, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario di Filosofia Treccani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Conti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Conti: Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo medioevo. Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma, Nuovi studi storici, Perreiah: "A Biographical Introduction to N, Augustiniana.  N. Logica, Venetiis, Imperatore, Imperatore,  Gori, Filosofico, Conti, Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information,  Stanford. Filosofia.  DIZIONARIO BIOGRAFICO DEI FRIULANI PAOLO DI NICOLETTO PAOLO DI NICOLETTO (? - 1429) AGOSTINIANO, TEOLOGO, FILOSOFO Informazioni Udine † 15 giugno 1429, Padova Forma alternativa Paolo Veneto Attività agostiniano, teologo, filosofo Luoghi di attivi  tà Venezia, Oxford, Padova, Buda, Ulma, Cracovia, Kosice, Siena, Bologna, Perugia Immagine del soggetto Paolo di Nicoletto in cattedra (Venezia, Biblioteca nazionale marciana, ms. Lat. VI, 123 [2464], f. 162v).  Come per la maggior parte dei protagonisti della vita intellettuale nell’epoca di mezzo, anche per l’udinese P. di N., più noto come Paolo Veneto, disponiamo di poche informazioni sicure relative alle sue origini. Nacque certamente a Udine, negli anni intorno al 1370, da Nicoletto del fu Antonio di Venezia, stabilitosi nel capoluogo del Friuli per lo meno dal 1352, quando fece richiesta della cittadinanza, ottenuta il 21 marzo 1361. Il nome della madre, Elena, privo peraltro di ulteriori informazioni, ci perviene da un’indicazione di Antonio Joppi, a tutt’oggi comunque non suffragata da prove documentarie. Uno tra i suoi primi biografi, il notaio cividalese Marcantonio Nicoletti (1536-1596), lo ascrive alla propria famiglia, che deriverebbe da un Nicoletto la cui sepoltura, nel chiostro domenicano di S. Pietro Martire, risalente al tempo del patriarca Antonio Caetani, era ornata di un’iscrizione con le insegne nobiliari. Antonio Joppi identifica quest’iscrizione, in seguito andata perduta, con quella descritta in una nota manoscritta in calce ad un’edizione latina di Platone, relativa ad un «Nicolettus de Broio auctor de Venetiis». Secondo questa linea di eruditi, dunque, P. sarebbe membro della nobile famiglia dei Nicoletti di Udine, poi di Cividale, le cui vicende furono ricostruite da Francesco di Manzano nel 1894. Probabilmente negli anni intorno al 1383 P. fu accolto nell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, presso il convento di S. Stefano a Venezia. Qui egli compì il suo noviziato e la prima formazione culturale sino al 9 dicembre 1387, quando il priore generale dell’ordine Bartolomeo da Venezia lo assegnò come studente al convento dei Ss. Filippo e Giacomo di Padova, sede dello “studium generale” della provincia della Marca Trevigiana. Di lì a pochi anni, il 31 agosto 1390, il priore generale destinò P., insieme con il cugino più anziano Paolo Francesco da Venezia, come studente “de gratia” (cioè a spese della provincia, e non dell’Ordine), allo “studium generale” di Oxford, per intraprendere il percorso di studi avanzati che doveva condurlo al magistero in teologia. In quegli anni lo scisma d’Occidente aveva infatti reso difficile per gli studenti italiani il compimento degli studi superiori presso l’università di Parigi, di obbedienza avignonese: pochi anni prima lo stesso Bartolomeo da Venezia aveva in effetti precluso formalmente questa possibilità agli studenti agostiniani. Durante il triennio di permanenza ad Oxford P. ebbe la possibilità di conoscere ed approfondire gli sviluppi più recenti ed avanzati dell’insegnamento filosofico e di quello logico in particolare. Tornato a Padova, sempre insieme al cugino, mise a frutto questa esperienza nel corso del suo insegnamento come “cursor”, probabilmente dal 1393 al 1396, e poi come “lector”, sino al 1401. Risale a questi anni la composizione delle sue opere logiche più fortunate, la Logica parva e la Logica magna. La prima, diffusa ancor oggi in oltre 80 codici e in 25 edizioni a stampa, è un manuale sintetico, ma molto aggiornato, composto sul modello dei manuali inglesi contemporanei, che arrivò negli anni a contendere il primato nel settore alle duecentesche Summulae logicales di Pietro Ispano e fu persino reso obbligatorio nel curriculum universitario padovano dal Senato di Venezia nel 1496. La seconda, molto più estesa, conobbe invece una diffusione assai più limitata, anche perché, rivolgendosi agli specialisti, forniva un panorama approfondito e molto dettagliato di tutte le più recenti dottrine logiche. Testimonianza in quegli stessi anni (1396-1397) dell’interesse immediato che le novità importate da P. seppero suscitare si riscontra nel carteggio di Pietro Tomasi, studente a Padova e poi “magister” di filosofia a Pavia, che si rivolse al suocero Gian Ludovico Lambertazzi, professore di diritto presso lo studio padovano, e allo stesso Paolo Francesco di Venezia per ottenere copie delle due opere ancora in corso di redazione. Fu con tutta probabilità a Padova che P. trascorse i primi anni del XV secolo, impegnato a completare il suo curriculum accademico con un’intensa attività didattica e di studio. Frutto del suo lavoro di baccelliere in teologia fu la Super primum Sententiarum Iohannis de Ripae lecturae abbreviatio, terminata prima del 1402, mentre al suo insegnamento in arti e in filosofia (anch’esso parte dei doveri di un baccelliere in teologia) si debbono ricondurre varie opere di carattere esegetico, come le Conclusiones Ethicorum, le Conclusiones Politicorum, le Conclusiones Posteriorum Analyticorum e probabilmente anche due opere logiche come la Quadratura e i Sophismata. Il suo primo grande commento aristotelico, la Lectura super libros Posteriorum Analyticorum, fu compiuto nel 1406, quando già P. aveva ottenuto il grado di “magister artium et theologiae”. A quest’opera logica fecero seguito, rispettivamente nel 1408 e nel 1409, due opere di filosofia naturale: la Summa philosophiae naturalis e l’Expositio superPhysicam Aristotelis. A partire dal 1408 troviamo il teologo agostiniano tra i promotori dello studio padovano, quindi l’inizio del suo insegnamento universitario deve essere collocato prima di questa data (in precedenza la sua attività didattica si era svolta all’interno dello studio agostiniano di Padova). Nel periodo che va dal 1408 al 1420 egli compare regolarmente, sempre nel ruolo di promotore, nei registri delle lauree padovane, con le sole eccezioni degli anni 1409, 1412 e 1419. Tra coloro, oltre una trentina, che ottennero i gradi sotto il suo magistero si annoverano i patrizi veneti Nicolò Contarini, Pietro Giustiniani e Marco Lippomano, il benedettino Giovanni Michiel, l’umanista e scienziato Giovanni Fontana. Suoi studenti furono inoltre il medico Michele Savonarola, il giurista Ludovico Foscarini e Giovanni Antonio da Imola, che gli succederà sulla cattedra padovana. Oltre a dedicarsi ad un’intensa attività accademica, in questi anni P. assunse anche responsabilità all’interno della sua congregazione ecclesiastica, cominciando da quella più elevata: il primo di maggio 1409, poco più di un mese prima di essere deposto dal concilio di Pisa, il pontefice Gregorio XII, il veneziano Angelo Correr, lo nominò vicario generale dell’ordine agostiniano. Nulla si sa della sua attività da lui svolta in questa carica e neppure se nei mesi successivi egli fosse al seguito del papa al concilio di Cividale. È noto invece che pochi mesi dopo, nel febbraio 1410, forse in conseguenza del declino politico di Gregorio XII, rassegnò il suo incarico. Nel medesimo periodo, tuttavia, P. fu anche priore provinciale della Marca Trevigiana e come tale, per ordine del Consiglio dei Dieci di Venezia, comminò il 28 agosto 1409 la pena del carcere al confratello Simone da Ancona, reo di aver continuato a sostenere il pontefice deposto a Pisa. In breve tempo le relazioni di P. con il governo della Serenissima si fecero ancora più strette: verso la fine del 1409 fu inviato come “orator” a Buda presso il re d’Ungheria e re dei Romani Sigismondo del Lussemburgo, allora diviso da un’aspra contesa con la Repubblica Veneta per il dominio della Dalmazia, con l’incarico di preparare il terreno per un’ambasceria ufficiale che doveva tentare un accordo. Il suo soggiorno presso la capitale ungherese ebbe termine nel gennaio 1410, ma nel luglio dello stesso anno il governo veneto utilizzò nuovamente i suoi servizi come ambasciatore a Ulma in Germania e presso Federico duca d’Austria e conte del Tirolo. In seguito a questi incarichi la Serenissima compensò P. con la somma di cento ducati e con il sostegno nel conseguimento della cattedra padovana retta in quel momento da Biagio Pelacani da Parma. L’anno successivo quest’ultimo lasciò in effetti lo studio padovano per quello parmense e l’agostiniano fu nominato al suo posto. Ancor più importante la missione che fu affidata a P. il 23 gennaio 1412: in un momento assai critico per la Repubblica Veneta, con le truppe imperiali di Sigismondo che occupavano il Friuli, egli fu inviato presso la corte di Ladislao Iagellone, re di Polonia, con l’incarico di fare il possibile per stabilire con la Polonia un’alleanza in funzione anti-ungherese, così da stringere Sigismondo da sud e da nord e forzarlo ad abbandonare la sua impresa italiana. Le istruzioni diplomatiche contenevano anche la raccomandazione di manifestare al re polacco la piena disponibilità di Venezia a sostenerlo, nel caso questi volesse lanciarsi a sua volta nell’avventura imperiale. P. giunse a Cracoviaprobabilmente a fine febbraio o inizio marzo 1412, poi a fine marzo si trasferì a Kosice, in Slovacchia, dove si trovavano re Iagellone e re Sigismondo, che avevano già firmato un accordo. Il risultato di questa prima fase dell’ambasceria fu di ottenere l’offerta da parte del re polacco di fungere da mediatore tra Venezia e Sigismondo per dirimere la questione della Dalmazia. P. rientrò a Veneziaprima del 10 maggio, ma fu subito rimandato dal re polacco, in quel momento a Buda alla corte di Sigismondo, visto il credito che era riuscito a guadagnarsi presso di lui. L’agostiniano si unì quindi agli ambasciatori Tommaso Mocenigo e Antonio Contarini, che dovevano trattare la pace con Sigismondo, ma nonostante l’appoggio di re Iagellone l’iniziativa diplomatica non poté che constatare l’impossibilità di trovare uno spazio di mediazione tra i due contendenti e a fine giugno 1412 l’ambasceria fu di ritorno a Venezia. P. appariva ormai aver raggiunto in questi anni notevoli traguardi: titolare di una cattedra prestigiosa nell’ateneo padovano, ben noto negli ambienti accademici per la sua dottrina e le sue opere, autorevole rappresentante del proprio ordine, poteva per di più vantare una notevole esperienza diplomatica ed importanti relazioni a Venezia e nelle corti dell’Europa centro-orientale. La sua attività di commentatore aristotelico proseguiva inoltre alacremente: sono da ascrivere probabilmente a questo periodo, vale a dire tra il 1410 e il 1420, uno Scriptum superlibros De anima, una Expositio super De generatione et corruptione e la monumentale Lectura super libros Metaphysicorum. Ma improvvisamente nel 1415 la sua fortuna accademica e politica cominciò a subire qualche contraccolpo: il 6 giugno il senato veneziano votò una censura che colpiva P., insieme con il medico Antonio Cermisone, per essersi assentato da Padova e dai propri doveri accademici senza permesso; tre mesi dopo il Consiglio dei Dieci lo invitò a discolparsi da accuse (non meglio precisate) e gli proibì di lasciare Padova senza una licenza espressa del consiglio stesso; ancora, un anno dopo, nel maggio 1416 la richiesta di P. di ottenere la licenza fu respinta e solo nel giugno dello stesso anno fu concessa, in considerazione dei doveri concernenti la sua carica di priore provinciale, ma con la condizione che non si recasse a Costanza o in altro luogo dove si fosse celebrato il concilio. Le circostanze di questi provvedimenti disciplinari non sono ulteriormente note, ma forniscono l’informazione che P. era nuovamente divenuto priore provinciale della Marca Trevigiana (lo era già dagli ultimi mesi del 1414) e soprattutto che non godeva più della fiducia di Venezia, che non lo voleva presente al concilio. Peraltro l’anno successivo il senato veneziano, con un atto certamente onorifico, gli concesse il privilegio di indossare il berretto nero dei patrizi, privilegio poi esteso, alla sua morte, a tutti i membri del convento di S. Stefano. Di lì a qualche anno, tuttavia, i rapporti di P. con il governo della repubblica veneta si guastarono irrimediabilmente. Per motivi che permangono tuttora ignoti il teologo agostiniano, nuovamente eletto priore provinciale dal capitolo dell’ordine tenuto a Ferrara nel maggio 1420, venne sottoposto ad un procedimento disciplinare da parte del Consiglio dei Dieci che si concluse in settembre con il suo bando quinquennale a Ravenna, da estendere a dieci anni qualora avesse infranto il divieto di riattraversare anzitempo i confini del dominio veneto. P. chiese ed ottenne una proroga di un mese, allo scopo di rimettere nelle mani del priore generale Agostino Favaroni le questioni connesse con la sua carica di provinciale, poi nell’ottobre 1420 fu assegnato dal generale al convento di Siena e gli fu concessa la licenza di insegnare nello studio di quella città. Da quel momento P. non rimise più piede in territorio veneziano fino ad un anno prima di morire. A Siena rimase per quattro anni; in questo periodo i suoi biografi, e per primo Cristoforo Barzizza che tenne la sua orazione funebre presso lo studio patavino, collocano un episodio in cui P. avrebbe agito come un inquisitore, sfidando e sconfiggendo in una disputa l’eretico Francesco Porcario, forse un fraticello, che finì per questo sul rogo. Il Barzizza parla a questo proposito anche di uno scritto antiereticale di P., di cui sinora tuttavia non sono state rinvenute tracce. Venne designato reggente dello studio agostiniano di Siena; redasse per la prima volta un testamento, in cui lasciava al convento padovano i suoi libri e titoli veneziani («de camera imprestitorum comunis Venetiarum»), che egli deteneva su licenza del priore generale, per il valore di mille ducati d’oro, come forma di risarcimento per i gravami e le spese che detto convento aveva dovuto sopportare per la sua lunga permanenza, nonostante il suo convento nativo fosse quello veneziano di S. Stefano. P. venne assegnato al convento di Bologna, con licenza di insegnare nello studio cittadino in qualsiasi materia. Durante il soggiorno felsineo si ricorda una sua disputa con il maestro Nicolò Fava, valente filosofo e dialettico di inclinazioni dottrinali opposte a quelle di P. La sua permanenza a Bologna tuttavia non durò a lungo, poiché già nell’ottobre 1424 fu assegnato al convento di Perugia, nuovamente con licenza di insegnare presso lo studio cittadino. Gli anni successivi, a Perugia, videro P. impegnato in attività didattiche (gli fu concesso ad esempio di esaminare alcuni studenti agostiniani per il conferimento del titolo di “lector”) e nella stesura del suo ultimo commento aristotelico, l’Expositio super Universalia Porphyrii et super Praedicamenta Aristotelis. I registri dell’ordine agostiniano informano inoltre che P. redasse una seconda versione del suo testamento, in cui furono aggiunti come beneficiari la sorella Lucia e il confratello e assistente Nicola da Treviso, e che il primo di agosto dello stesso anno gli fu concessa licenza di recarsi a Roma ogni volta che i suoi lavori lo rendessero necessario. In occasione delle dimissioni del priore di Perugia, gli fu conferito l’incarico di reggere il convento durante la vacanza e di scegliere il nuovo priore ed inoltre a lui toccò di svolgere la funzione di visitatore presso lo stesso convento e quello di Todi. Infine, nel giugno 1428, in seguito ad una supplica fatta pervenire insieme con la raccomandazione del cardinale di S. Croce, il Consiglio dei Dieci di Venezia revocò finalmente il bando comminato otto anni prima e P. poté far ritorno a Padova e riprendere il suo insegnamento, anche se soltanto per pochi mesi, giacché il 15 giugno 1429, mentre teneva il corso sul De anima di Aristotele, morì. Oltre alle opere sopra ricordate, rilevanti soprattutto la sua attività di commentatore aristotelico e di maestro di teologia, P. lasciò anche una raccolta di Sermones quadragesimales, uno scritto antigiudaico, le Quaestiones XXII de messia adversus Judaeos, un’opera mariologica, il De conceptione Beatissimae Virginis Mariae, una versione latina della Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo e diverse orazioni. Secondo il giudizio di Alessandro Conti, il più recente studioso del suo pensiero, P. fu «il più importante pensatore italiano del suo tempo ed uno dei più importanti ed interessanti logici del medioevo». La sua fama e le sue opere contribuirono a fare dello studio patavino un centro intellettuale di rinomanza europea; le sue dottrine, improntate al realismo degli universali in ambito ontologico e ad una linea vicina a quella dell’aristotelismo moderato di Alberto Magno e d’Aquino nel campo della filosofia naturale, innescarono in Italia un dibattito scientifico i cui sviluppi condussero nel corso del XV secolo ad un rinnovamento dell’orizzonte culturale europeo.  CHIUDIAndrea Tabarroni Bibliografia M. NICOLETTI, Vita dei tre Paoli, ms BCU, Joppi.  F. MOMIGLIANO, Paolo Veneto e le correnti del pensiero religioso e filosofico del suo tempo (Contributo alla Storia della filosofia del secolo XV), Udine, Tipografia G.B. Doretti estratto dagli «Atti dell’Accademia di Udine CESSI, Alcune notizie su N., «Bollettino del Museo civico di Padova GENTILE, Intorno alla biografia di N., in Studi sul Rinascimento, Firenze, Sansoni, BOTTIN, Logica e filosofia naturale nelle opere di Paolo Veneto, in Scienza e filosofia all’Università di Padova nel Quattrocento, a cura di A. POPPI, Trieste, LintPERREIAH, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green (Ohio), Bowling Green State Universiy; S. DE FANTI, La missione diplomatica di Paolo Veneto al re di Polonia: il decisivo contributo polacco allaconoscenza della biografia del Nicoletti, in Memor fui dierum antiquorum. Studi in memoria di Luigi De Biasio, a cura di P.C. IOLY ZORATTINI - A.M. CAPRONI, con la collab. di A. STEFANUTTI, Udine, Campanotto; A.D. CONTI, Essenza e verità. Forme e strutture del reale in Paolo Veneto e nel pensiero filosofico del tardo medioevo, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 1996; C. FROVA - R. NIGRI, Un’orazione universitaria di Paolo Veneto, «Annali di storia delle università italiane; N., Super primum sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio. Liber 1, ed. crit. parz. F. RUELLO, Firenze, Edizioni del Galluzzo; N., Logica Parva. First Critical Edition from the Manuscripts with Introduction andCommentary, ed. A.R. PERREIAH, Leiden-Boston-Köln, Brill LOGICA PAVLI rectam atgemendatam. Additis quotationibus Postilis ad textus declaratione. Necnon Tabulao figuris. VENETI HABES INHOC ENCHIRIDIO summam totius Dialecticæ, mira quad a brevitatem atos facilitate ad utilitatem stude tium conscriptam ab eximioætatis suæ magistro Paulo Veneto Nupero diligenti studio cor Venetes EMANUELE ITECA NAZ GOMA ME YOLL .pkrior dla Lohan Somerilatarei long   COMO0Io (ICO? CO ? ri 1 1 ROMA ni logica OLUTELY A parva. A Pauli Veneti Heremita Onspiciens librorum quorundam magnitudinem redium constituentem in animo studerium nec non et aliorum nimiam brevitatem quibus nulla se ethica re est annexa doctrina. Ideo volens cap.s. et medium retinere utriusg sapiensnam 5.ethic, turam extremt, compendium utile construxi iuveni t.co.6. ВB bus pluribus diui sum tractatibus,  Quorum primus summularum tradit notitiam. Septimus contra primum obiicit, solutionem ad dens responfiuam. Quia ergo doctrina quecuncka communiori ut ait t-C.4 . PHILOSOPHUS in prohemio phylic. sumic exordsum, ideo Dislot tractatus primus terminum sic diffinies incipitapriori. miningp De definitione termini et eius divisione quide. i.  II suppositionum declarat mareriam. III consequentiarum ostendit doctrinam. IV terminorum vim instruir probativam. V ligandi regulam docet obligatiuam. VI insolubilia solvendi dar artem et viam. VIII tertium fortificat prationem argumentativa. cap. 1. prio. c. TERMINUS EST SIGNUM ORATIONIS CONSTITUTIVUM. Et BOEZIO ut pars propinquae iusdem, ut: “homo”,lyani in. 1, de mal. Et notanter dicitur propinqua quia oratione vocatur “dictio”, remota vocatur litera vel syllaba, di 2. ecin. i Dstio igitur et non litera uel syllaba, est terminus. defyllo. Terminum quidam est per cate. T differē. Tio habet partes propinquas et remotas, propinquatop.c. 2    cius vide SIGNIFICATIVUS est ile qui per se sumptus nihil representat --: ut s. “me,” “te,” “omnis”, “nullus,” “quilibet”, “quicunque”, “alter”, et consimiles. Terminorum quidam si secunda significant naturaliter et quidam AD PLACITUM.Termi divisio p nus naturaliter si significans est ille qui apud omnes eius qua vide de m efd RE-PRAESENTATIVUS, sicut ly “homo“animal", in primor mente. Terminus AD PLACITUM significans est ille qui ye.c.i.et NON apud OMNES eiusdem est re-praesentativus sicut ille ipsum. Terminus “homo” in voce vel in scripto, qui apud nosft. B Paul. sin significat ‘hominem’, sed apud alias nationes nihil significant, ut sunt greci (“anthropos,” “aner”). Reefo.Terminorum quidam est categorematicus, et quida3 S.colū. SYNcategorematicus.Terminus categorematicus est pri. diui. ticularia particulariter. Præpositiones determinatsub certocafu. Aduerbiauerbum, et coniunctiones ha minum.i.rem quæ non est terminus datoque effet,ficut TRACTATVS Secunduz se significativus, quidamnon.Terminus perle signi Voety fancarious est ile qui per se sumptus aliquid re-praesen mologiã tasuely “homo,” ly “animal”. Terminus non per se signi ille quitam perle quam cum alio habet proprium fie Tertia significatum – ut: “homo”: siueen imponatur in oratio divisione, lieu extra, semper significar ‘hominem’. Terminus Dehac SYNcategorematicus est terminus habens officium qui vide la perfesumptus nullius est significativus. ut signa distric tiusilo.butiva – ut: “omnis”, “nullus”, et signa particularia – ut: ali mafo. 2. “aliquis”, “alter”, et præpositiones (“to”), et adverbial et coniuctiones. Signa namqz distributiua habent officium, fal.3.quia determinant distributive, universalia yłr, et par bent coniungere terminus vel orationes. Terminorum quidam est prime intentio Pau.lo.nis, et quidam secundæ intentionis. Terminus primæ ma, sol. intentionis est terminus mentalis significans non ter D“homo, significat sor. et pla. quorum nullus potest esse terminus. Terminus autem secunde intentionis est terminus mentalis significans solum modo terminum A vel propositionem, ut ili termini mentales, nomen, verbum, participium, propositio, oratio et huius modi. Nis est terminus vocalis vel scriptus significans solum B modo terminum vel propositionem utili termini vocales vel scripti, nomen, verbum participium, athuius modi. Terminorum quidam funcin complexi, et quidam complexi. Terminus in 6.diui complexus vocatur dictio – ut: lylapis,ly lignum. Sed fioVide terminus complexus est oratio – ut: “homo [est] albus”, lor. et Paul.in placo, deum effe. et huiusmodi. De nomine. liter considerat: ideo de his restat deffnitiones assignare. NOMEN est terminus significativus lo.ma.f. SINE TEMPORE cuius nulla pars aliquid significat separa dissintta – ut: “homo”.  In ifta definitione ponitur terminus lotionoie cogeneris, quia omne nomem est terminus. et non econ proqua verso: dicitur significatiuus, quia termini non significativi depri non funt nomina apud logicum, licet bene apud grammaticum – ut: “omnis”, “nullus”,  et similia. Dicitur ‘sine tempore’, ad differentiam verbi et participia, quæ significant *cum* tempore. Ponitur: ‘cuius D nula pars aliquid significant separata’ -- ad diferentiam orationis, cuius partes significant separate mo pyo er.c.c  Terminorum quidam eat s.diuifio prime impositionis, quidam secundæ.Terminus prime impositionis est terminus vocalis vel sriptus signi Boe.in ficans non terminum -- ut “homo”, et  “animal” in voce vel in scripto.Terminus autem secundam impositio. In princ. L3 Via de nominee et uerbo ex quibus oratio с componitur et propositio, logicus principa . Defini. V uuset extremorum unitiuus, cuius nulla pars aliquid significar separata, ut “curre” c vel dispur i io b i. tar. Ec dicitur primo, temporaliter significativus, ad eric. i. tiw oro pin . p i disnes positum cum apposito sicut verbum. ceterg autem par trcuiæ ponuntur. Sicut in deffinitione nominis. Ratio est terminus significativus, cuius ali- B garlicant separatę. Orationum alia perfecta, alia hewide Dcoratione. qua pars aliquid significant separata, ut “homo [est] albus” deữeffe. Vltima particular ponitur ad Piroca Jüfferentiam nominis et verbiquorum partes non fi cite suz etc . cogeneris, quia omnis propositio est oratio et col.1. cipit quæ non sunt propositiones non obstante quod ilum generat IN ANIMO AUDITORI si – ut: “Homo currit.” Or a boviti imperfecta. Oratio perfecta est ila quæ perfectum len no Ide uim uce cio imperfecta est ila quæ imperfectum sensum gene. ferinõis rat, Notandum quò d tres sunt species orationis perfectæ quia orationum perfectarum. Alia INDICATIVA – ut: “Homo currit” . Alia est oratio imperativa – ut: “doceioannem.” Alia ed incelreligie ineis oratio optative – ut: “Utinam essem bonus logicus”. fint ap te nate. VERBUM est terminus temporaliter significati differentiam nominis quod significat sine tempore. Secundo dicitur, et extremorum uniciuus: ad differentia participium quod significar cum tempore, sed non unitfup 0 -3 gñare fectū sen bus vide ilo, ma. fol. Propositio eit oratio indicatiua verum vel falsum significans – ut: “Homo currit” -- ponitur oratio lo non e converso. Secundo dicitur indicativa. quia Cola indicari va est propositio, non autem imperativa nec optativa.Vicimoannectitur: verum vel falsum significans: propcer tales orationes. Cortes potest, plato in PS pro qui    alia categorica alia hypothetica. Propositio ca divisio. Categorica est ila quæ habet subiectum prædicatum et Vide in copulam tanquam principales partes fui – ut: “Homo est animal.” l o,m a . f o animal. Subiectum est ly “homo”, prædicatum uero,101.col, ly “animal”. Copula illud verbum “est”: quia coniungit tum. Dicitur quod habet IMPLICATUM prædicatum. vide licet,ły “currens” quod patet in resolvendo illud uerbum “currit.” -- in: sum currens, es currens, est currens, et suum participium. Subiectum est de quo aliquid dicitur – ut: “homo”. Prædicatum vero quod dicitur de altero – ut: “animal.” Sed copula Quid (u bicctuz semper est verbum substantivum: “sum currens”, “es currens vel hom”, “est homo et currens.” De quidp. propositione hypothetica posterius dicetur ad cuius tum et C differentiam point urilla particula: principales partes quid co . D sint indicatiue. Quia non significant verum nec falsum. Diffini cum sint orations imperfectæ. Ca. 6. luifiones sub propositione contentas sequitur D numerare. Propositionum Prima subiectum cum predicato. B rir est propositio categorica et non habet prædica. Solutio Et si dicatur “homo cur . Dubo . fui.quia principales partes hypotheticæ non sunt pula, subiectum et prædicatum: sed plures categoricęut. Propoli diuifiotionum categoricarum alia affirmativa, alia negativa. Propositio categorica affirmatiua est ila in ligiex.i. qua verbum principale affirmatur, ut “Homo currit.” Propositio categorica negativa est illa in qua  er: Tertia bum principale negatur – ut: “Homo NON currit” S. Propositionum categori:Diffusi carumalia vera, alia falsa. Propositio categorica ue us&hac ra est ila cuius primarium et adequatum signifi-materia carð est verum – ut: “Tu es homo.” Hæc enim est uera. “Tu es vide in homo.” quiate esse hominem est verum.Voco filoma. divisio A tio. i. gi her. C. 5. . a4 1  mo. Cetera autem significate, utte esse animal, teelic substantiam, et huius modi, sunt significate secundaria, et pones illa non dicitur propositio vera nec falsa. Propositio categorica falsa est illa cuius primariam et adequatum significatum est falsum – ut: “Tu es asinus.” ria, alia contingens. Propositio necessaria est ila, cuius primarium et adequatum significatum est necessarium – ut: “Deus est.” Propositio contingens est illa cuius significatum primarium et adequatum est contigens – ut: “Tu es homo”. Et voco significatum contingens ilud C quod in differenter potesse se verum vel falsum. Propositionum categoricarum alia alicuius uide.i. quantitatis, alia nullius. Propofitio categorica alicu prior.n.ius quantitates est illa quæ est universalis, particularis, .in pri, indefinita, vel singularis. Propositio universalis est illa in qua subởcitur terminus communis signo universali determinatus – ut: “Omnis homo currit”. Terminum communem voco in presenti nomen appellativum et pronome pluralis numeri. Signa universalia sunt ista: “omnis,” “nullus,” “quilibet,” unus gfavteros, ncuter, quails D. :.libet, quantusliber, et huius modi. Propositio particularis est illa in qua subiicitur terminus comunis igno  4. diui afol.significatum primarium et adequatum propositionis, u r e a a d f. quod est simile orationi infinitive vel coniunctiue il 267.secundlius. undete esse hominem, vel q “Tu es homo.”, diciturfiA dępris. Significatum primarium et adequatum illius, “Tu es homo.” Propositionum categoricarum alia fio vide possibilis, alia impossibilis. Propofitio categorica por ilo.ma.fibilis eft illa cuius primarium et adequatum significatum est possible – ut: “Tu curris.” Propositio categorica et adequatūfi. usa ad impossibilis est illa cuius PRIMARIUM SIGNIFICATUM est impossibile – ut: “Homo est asinus.” Propositionum categoricarum alia ne cella   larem, nomen proprium aut pronomen demonstravi Suum singularis numeri, ut: “iste”, “ista”, “istud”. Ex quibus fe B quitur iam quæ est caregorica nullius quantitatis. Et dicitur quod illa quæ non est universalis, nec particularis, nec indefinita, nec singularis -- ut exclusive et exceptivæ et re-duplicative, videlicet, “Tantum homo currit, omnis homo preterfor. mouetur, “Omnis homo in quantum homo est animal”. Luxta primam secunda Qualis, ne, ue laf, u. Quanta, par, in, fin, Prima pars sic intelligitur, quod ad interrogationem de propositionc factam r Quæ respondetur categorica, vel hypothetica. Secunda autem asserit quod ad interrogatione factam per Qualis? Respondetur affirmatiua vel negatiua. Sed in tertia denotata a quod ad interrogationem factam g Quan tarmñdcatur, universalis, particularis indefinita, ucl singularis, et hoc fm exigentiam propositionis propositę. De duabus alijs pposition am divisionibus. Ræterfu pradictas diuisiones dugalią declaran- Prima cur. Propositionum categorica divisio – ut: “Homo currit.” Propositio categorica modalis est illa in qua ponitur aliquis modus -- ut possibile est sor, cur particulari determinatus – ut: “Aliquis homo disputant.” Si Idem in gna particularia sunt ista: “aliquis,” “quidam”, “alter”, reli7. tract. A quus, et huiusmodi. Propositio indefinita est illa in huius in qua subijcicur terminus communis SINE aliquo signo – ut: c.i.& in “Homo est animal.” Propositio singularis est ila inqua lo.ma. . fubijcitur terminus discretus, vel terminus comiscum . col. pronomine demonstratiuo singularis numeri. Exem :4. plumprimi. sor.currit. Exemplum fecundi: “Ille homo disputat.” Voco autem terminum discretum vel singu. с P. ultimam divifiones ponitur iste versus. Querca, uel ră alia dein efle, alia modalis. Propositio catego Dricadein efic est illa in qua non ponitur aliquis modus   1:  Figura de in effe.  r e r e .Modi autem sunt sex . c possibile, impossibile ne Seconda. necessarium, contingens verum et falsum. Propositionum modalium: quædam est in sensu diviso et quædam in sensu composito. Propositio modalis in sensu diviso est ila in qua modus mediat inter accusativum casum et verbum infinitivi modi – ut: “Fortem possibile est currere.” Propofitio modalis in sensu composito est illa in qua modus totaliter præcedit, vel finaliter sub sequitur – ut: “Deum esse est necessarium.” Impossibile est hominem esse asinum. Ex his divisionibus originantur tres figuræ. Quarum prima dicitur de in effe. Secunda modalis de sensu diviso fchabés admodum primæ. Tertia modalis de sensu composito: leda cæteris disperata. Quartum declarationes ha besin exemplo hic posito. A G libet ho currit. adaz hó ñ currit, Nurbo de currit. Lontraric. Contadictorie dictorie subalterne, subalterne Figura: demesse Gulltra gda3 ha cuifit,  subcontrarie   reasu diuisio  Contrarie Nullum hoie3 possibile est! curtcit . Contradictorie Sub-alterne Sub-alterne de sensu dictorie Lörra mine polee curitie . Modalis de sensu diviso. sub-contraric Modalis de sensu composito. Nec currere est los. Impose est currere for sub-alterne Contra sub-alterne dictorie Aliquem, ho Contrarie de sensu composito: Fig. Loncra . dictonic Contingens et por, non currere Figura Que libet ho minepole? currere . Pole for currtre, A liquê home minē ñ pole est currere, sub-contraric   Secunda præcise proeodemuelpro eisdem, sunt contrariæ in figura – ut: “Quilibet homo currit,” “Nullus homo currit.” Particularis affirmatiua et  particularis negativa de consimilibus subiectis prædicatis et copulis, supponentibus precise proeodemuel pro eisdem sunt sub-contrariæ in figura – ut: “Quidam homo B Tertia currir, etquidā homo non currit. Universalis affirmativa et  particularis negativa, ucl universalis negativa et particularis affirmativa. de consimilibus subiectis predicatis et copulis, supponentibus. precisepro eodem vel pro cisdem, fu Tabula omnium capitulorum huius logicæ primus est de mentis summulis quiconti De syllogismo: Tractatus secundus est determis. Car.Ź Cap. primă de definitioc De verbo 3 6 De diuifione propofi. De figuris propositio pothetica po. copu. ne ciusdem. cn ūt materialiter etqñ PERSONALITER De propositione hy. De ampliationibus  po. disiuncti. 15 De praedicabilibus Tractatus tertius. de eiusdem di relativorum net De oratione De propositione norum quando fuppo num deuppolitionibus có De cognitione termi De appellationib De converfionetibus supponis et  de diuisio De suppositione per de natur appõnuz sonali tractatus divisa De nomine tionum  De duabus alös diui De supposition ma. de equipollentős de signis confunden de propositione hy de relativis proqui bussupponunc De propositione hy. De modo supponen  cinens C fionibus propõnuzs teriali et de diuisione DE DECEM PRAEDICAMENTA de decem prædica, consequentősconti. de resolubi de propositionibus Tractatus quintus est tionc obligationis et De obiectionibus co tradictasreg. TABVLA uo tionc consequentiæ et De hypo. descriptibio eorum divisionibus De regulis generalibus consequentiæ for  De gradu pofitiuocô malis De regulis con. for. q De gradu comparati  De regulis poenespropositiones quáras Delydiffert positions non quan De exceptivis De ly necessario et contingenter parabiliter sõpto poncs superius, atq  De gradu superlati -minos pertinentes et De ly incipit et defi : impertinentes  nir  nens. De officialibus pro De defini libus. po. de reg. eius.  inferius De regulis poncs pro De exclusiuis universalibus De convertibilitate uo. tas Dedecem lis alñsregu De ly totus positioncs hypotheticas De ab æterno De infinitum de probationibus ter obligatory artis: De reduplicativis De regulis poencster De immediate De semper De regu.pancs pro tinens minorum continens. De deffic go cioc insolubilib? et di s Obiectiones cöcrare tra insolubilia Obiectiones contradi  milibus propositioni bus regulas huius de defin De obiectionibus có finitioncs .hui?  De exclusivis insolu De insolubili difiun- ulti. ca.contra modos mi. De insolubili particu  huiuspri De insolubilibus no é de obic Obiectiones contra Obiectiones addicta est de obiectionibus contra De obiectionibus factis contra re propositionum huiusprimitrac. De Amilibus et diffig Obiectiones contra pr De deposition ibuster Obiectiones contra re minorum Tractatus Sextus De insolubili uniuer Cali bus bilibus riuo ctivo figurarum apparentibus Obiectio. Gulasprimo et gulas huiuspri de insolubilibus Obiectiones contra dif  habens. .huius uifioncciusdem. Gulas huiuspri lari vel indefinito  mitra. de predicabili. De insolubili copula. trac.in maceria syllogismorum n a contra dicta huiuscertñ.tra, inm a Štionibus factis con   car . las.huius terti las. huius terti tracta. Venetijs ExpensisheredumLucæ TABVLA teria consequentiară, tracta. tëtracta. Obiectacontraregu Obiectacontraregu tracta. las, huiustertij las. huiusterto tracta Antonñ Iunte Florentini  Registrum illaiquaiferi predicaturde terrogatoez factapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť totaratio quafuperi pzedicaturdein quareficpdicaturde illiseq? feriozivelecóuersofzquod éppziapafsioilliustermini dictiévľoriadealiquod illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin vniuoc'pze iquappuúvelaccñspzedir. Dicabilisdeplib ieoquod caturde genere fpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuoidiuiduoautepuerfo Eréplüpzimi:vtbóèrifibil dirurindecepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimueltpredicarsitu lub bileéhoalbueaial.Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl'me teri’lb alubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatioefriaťė mi? coup” subcocpozecosp? praedicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato a dicamentivtbóestaial.pze, aialifpes specialis simahoľ dicat ioautaccica est piedi afinuszlbiftisfua idiuidua carioterminox diuersoz pze foztesz plato. bzunellus fa dicamentorum vt homo é ale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tu est pdicamentu quátitutis liquúdicitureffeillequicon Lui generalisfimúeftquäti. tinerillúznecóuerfoficutli tasfubý sunt duo genera aial respectuisti terminihó alterna ärnulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz? di bocaliquidvltra. Lermin’in scretu primi generisiftefür feriozad reliquú dicitur effe fpetieslinea superficiescoz illequi continent urabeo. nnó pustempus locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftiustermini bomo. hiclocus. Secundigeneris Lozpozea Jnco:pozea infinitesuntfdeties. f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumeltpaffiovelpafsibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuzestforma nozuFmsubzlupza. Etdiui, vetcircaaliquidpitasfigura  us trinarius quaterna rizë Animatum Jnanimatuz indiuiduaverofunthicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicament z qualitatiscu iusgeneraliffimum est quali Lozpus insensibile Rationale irrationale. Tas fubquofuntquattuo: ge Animal rationale nera subalterna: non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eft naturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies.boc cozpusboc rempus Primi generis speties fune Quintum predicament em grāmaticalogi cazrhetorica dicamétuació iscuiusgener quaq individua sunt becgrå rasubalteznafuntfer quozu matica logicab rbetorica. Nullu ėsuperiusad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspéssunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz cozrupere equáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uidua funt fic generareboiez cum. quarú idiuidua suntheç fic corruperee quum Iertijz dulcedobiamaritudohocal quartigeneris spessuntau. bumhocnigp buius modi. Gere in longudi minuereila Quarti generis species sut tum. quozumindiuiduafffic circulus triangulus quadra auger eilögumficdiminuer gulus2 huiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generisspés uidua funt. biccirculus.bicfunt cale facerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuidua funtficcalefa Quartii predicamétü Ċpdi cerefic frigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris species funtmouct fur ralissimú eft relatio vel ada. Súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttriagenera( diuiduafuntficmouerefurfu alterailebita, zsup2 ficmoueredeorfum. Sertus Primum est caparatio.Se predicamétaé predicaméruz cuduzé fuppofitio. Lertiuzė paffioniscu generatiffimu supposition primigenerisfpe estp  dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actum ca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumzverbúinfinitiuimodi timam diuifiones ponitifte vt foztempoffibileé currere versus. Quecavelip.qualif propositio modatisisenfu nevelaf. vquanta. parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitp ad i taliter pcedirvei finaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumef Teénecessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozica vel ipothetica. Se effe asinum. Erbis diuifio cudaaur asseritquodaditer nibus origináturtresfigure rogationé factamoqualisre quanpriaordeieffe. Seci, fpondetur affirmatiuavľne damodalisofenfudiuisore gatiua. seditertiadenotat habens ad moduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantare spodeatvniuerfaľ pofito fiacefisdispata qua particularis indefinita vel fin ruideclaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. Uifiones duealie decla    Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer. Contradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibile eft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne   Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecunde figurebere ptnll? bócurrit. necieptra  gulegeneralespriaé dictorie.Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalis affirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne.Disbó currit7 quida b?fubiectis7predicatisfup bomocurrit. qztermininifup ponétib”precisepeodévét ponunt precisepzoeodevĽp proeisdéfuntatrarieifigu, eisdez. Znona. n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó  currit. 2nllur provtroq; reru.Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularisnegatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituantur propofitoea infiguraitaquattuoz ponétib?pcirepeodévelp alijsregulisipfarumcogno, cirdez suntcontrarieifigu fciturlerseu natura. quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo prima eftianonestpossibile nócurrit. Lertiaregľaviuě duo ztraria effefimulvera falis affirmatiuaapricularis benefimulfalsa.Primapars negatiavelvlisnegatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatisfupponen funt fimulfalfa. Quilibzboè tib?pcirepeodezvelpejsó albus znullusboestalb”.Et sunt tradictoneifigura,vt iafimiliter Dmne animaleft quilibzbócurriteqdábóñ bomocnulluzaialefthomo curritP.ull'bócurrit?qui Secunda regula eftiftanon dåbócurrit.Quartaregla eftpoffibileduofubcötraria vniuersalis affirmatiazpti effefimulfalsa. fedbenefim culari saffirmatia. Etviuer, vera. Patet pars prima ifin salis negatiuaa particularis gulis discurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probaturquoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal se peodez velpeisdezftit 16 bus. Aliquis bono n eft alby alternein figura.vtglibzbó Aliquod animal eft homo. Et currit gdambó currit. Dar aliquod animal non eft homo lus homo currit. gdazbol Tertia regulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimulveravelfimulfalf.  L madiuifio eftiftaterminori vocaturlravelfyllaba. Pzie distributi abiitofficiuq2dtē 25boral definitio, sebutcomienicu damagnitudiez caritus eft ilequi permitesperjeigranasoatione. Tedium cóftitué aligdrepritatveuboliaial. kupindistan'tbeineciligaya tezinajoftudentiuznecno terminiple fignificatius Pericarione perforsales aliornimia; breuitatez.gbɔ eft ilequi perfe sumptusni, beit perqúemymim nulla fereeftanera doctrina. Bil representatproisnulluseftpermainang Ideo volensmediuftinere 7files. Secundadiuifio eft, vtriusq zsapiésnäzertremi. iftatermiogquidazsignifi, ppendium vtilecostruriiuue cantnaturalrzquidãadpla nibɔplurib, diuisuztractati, citum. Lerminusnatural'rfi bus.quorprimusfuimularu gnificansestile quiapooés traditnotitia. Secud fuppo . eiusdeestrepsentatiuusficut firionú declaratmateriá.ter ti-pregntia non dit doctrina. Po AD PLACITVM significansé il Quartus terminoqviistruit lequinóapudoéseiusdez é pbatiua. Quint’ligidiregu, representatiu'ficurilletermi lazdocetobligatiuaz.Sert? nusbó in voce vel in scripto isolubiliafoluendidarartem apud nos significatboiem. via. Septimus atraprimú apoaliquascertasnatoer obijcitfolutione zaddensre, nibil significat vt f untgreci: fpófiuaz. Dct aubotertium bebrei. Zertia diffinito é ifta fodificarpróem argunitati, Q termino kquidaeftcatbe uá. Quiag doctrinaque cun, gozematiczgdáfincathego acoiozivtaitphusinpzo rematic termi’cathegoze, bemio physicozum füiteros, maticuseftillegtampiezz duuideo tractatuspzim’ter/ cialiob3 ppziùfignificatum mũiico funitsicipapioi otlibófue.v. ponarinó eft tibölianimalinte. Lermi? Gential uit diferenmis. ut box Florin simp prout firepmimusi Cedex gramaticaj. Lorical   minátdistributiver particu! complerus eftozó vthomo laria particulariter Õpofitio alborozes platodeuzeffe nesdeterminatfbcertocâu 2buiusmodiic. Aduerbia verbúzcõiúctóes Uia noier verbo er biitcõiungere terminosvel quibus ozatio compoi ozóes quarta diuifio est ia tur ppofitiologicus pzici. g terminoxquidaz eftpziei paliter cófiderar. Jdeo'dbil tentiois.7 quidábeitencois reftat diffinitiones ad-signare Terminus pe intentónis eft Homéest terminus signift terminus mentalis significaf catiu? Fineté pozecuiusnulla nonterminu. i. réānonéter parsaliquidfignificatseper minusdatoq effetficutlibó ratavthomo. In iadiffinite significatsoz tem z platoné. å poif terminus locogencris. Ruinulluspot effe terminus. q2oc nomen est terminus.e Lerminusaütbe itentóisé nóego. diciturfignificatinis terminus mentalis significát quia termininó significatui solimo terminil ppofitone non sunt noia apud logicilicz ptilitermini mentalesnon bi apud gramaticivtomis verbti participiúppofio nullus similia. Tertio di, zbuiusmodi.Qüitadiuifio citurfie tempore addiffere, est istag terminoz quidãcst tiñverbia participüa SIGNIS pe IMPOSITIONIS quidife. ter ficant cum tempore. Duar minus pe impositois estteri toponit cuiusnullaparsali nus voca vel scriptusfigni quidfignificata ddifferentia ficansnoterminu.vtlibóz orationis cuiuspartesfigni, liaialivoceveliscripto.ter ficät. (Uerbúeftterminato min’autem se impositionis eft požaliter figificatiu?zertre terminus vocalis vel script? monvnitiuuscuiusnullap8 significas solúī modoterminu aliquid significat separatave vel propositione vtilitermi currit vel disputato icifpria nirocales vel scriptinomen mo temporaliter significati, verbti participitizhuium ói uusad differentiam nominis Serta diuifio eft ifta. Termi quod significat fine tempore non quidifuntincópleri 29 Secundo dicitur ertremo damcompleri. Terminusin rumvnitiuusaddifferentia complerus vocaturdictiovt participü quodfignificatcií lilapislilignum. Izterminus tempože. sed non vnitfuppo fituscum appofitoficurvero quenonfuntppofitionesno · bum. cetereatparticťepo obftáteqa fintindicatie q?i nuiturficur toenois. Significant verum nec falsum . P Ropofitioeftoratioi dicitur.vtbomo predicatuz, puma,plicare Progofito catbegozicaet prodicaria, madevenirate Alia iperfecta . Diario pfec bignier parte dignins e.me,ose ista quebetßbiectuzzpiedichuo ublitt taeftila queperfectu fenfi catu copula generat animo auditous. partes tanös pzincipaler, peplicireutimplicie. vtbomocurrit. sui.vthomo eltaial. i), Etfidicarurbomo currite Horá dumotres funtspe propofitio catbegozicaznon Dratioefttérmin'lignifi cumfintozationesiperfecte catiu? Cuius aliqua pars ali quidfignificat. Vt boalb?de uz effe. Ulria particula poni turaddifferentia nominis? Propofitionu zaliacaibego verbi. grumpartesnonfigni rica:Aliaypothetica. ficant. Dzationuzaliapfecta ibiectumes tubomo predica Diario imperfectaestilla tum verolianimal.7 copula aiperfectuzfenly;generari illud verbumestq:coniungit animo audito us vt bomoal fbiectum cumpzedicato. busdeumeffe d Juisiones1 opposito ne contentas segtur nuerare Pria eft ifta 5 cies orationis perfecte Drationuzperfectar. alia indicatiuavthomo currit babz predicatum dicitur qa babz implicicum predicatuz v z li currens quod patzinreroí alia imperatiua. ptooce joannem . Aliaoptatiua. Desum eseltasuum participiu uendo illud verbum curritin vtinameffembonus logicus Subiectuz estoe& aliquidad fubiecit”alori fal veroqd fümfignificás.vtbô animal. Sed copula fempererspularerreigitpilianca. currit. poniturozatolocoge verbuzfbftátiuü. l.luzeselt veteteaiomm neris.q:oisppofitioestoza De propofitione yporbeti-inwirtelde eius. tioetnoneguerro. Secundo capofteriusdiceruraddif, dicitur indicativa quod sola diferentiam cuius ponitur il la catiuaeitppofitio.nonátim particulaprincipalespartes peratianecoptatiua.Ulrimo fui. annectitur verumvelfalsuz Secunda oiuifioeftifta. fignificansproptertalesoza Propofirionuz cabegozi, tiones foztespór. platoicipit car. Alia affirmatiua aliane facit, egineris, matiua eft ilaiquaibupäin num cathegozicarum aliane kleinesitimplicies  apaleaffirmat öcbócurrit. ceffariaaliacontingens,ppo diferencia Presidurijgezo pzopo çatbegozica negatifitione cefariae ftilacuius artean = uaeftillai qobiipricipalene primarium zadequarumfigi gáf. Vt: “Homo currit.” Tertia ficatum est neceffariumvtoe divisio est iappofitouzcatheus est.popofitiocontingens goricaralia veraalia falsa. Eftilacuiu sfignificatumpzi, Propocatbegozicaveraéila mariumza dequatumeftcó tui? pzimariuzadeqtuligni tingensvttues bomo. Etvo ficaruié verúztuesbobecco fignificatumcontingensil n. Eltperatues hóq2reeffe lud quodindifferenterpotest boiezcftveru.Uocosignifi esseverumvelfalsum.Sex catu primaritiza deq tuppo tadiuifiopropofitionumca! fitionisqó eftfimileorationi thegozicaruzaliaalicui'quă ifinitiuevel piúctie illius. vn ' titatis alia nullius. P2opo ca deteeffeboiem velqotues 'thegozicaalicuiusquantitati bódicitfignificatu;primari estillaque évniuersalispar uza de quatúilliustuesbó ticularis indefinita vel singu ceteraåt significata vt teeffe laris. Flop. vniuersalise aialteefe Tbstantia7huiul, ilainqua fubijciturerminosnasdistri mõisunt significata secuidaria comunis figno vniuersalides  gacia.Prop cathegõicaaffer Quintàdiuifio.propofitior burinemobil 7penesillai diciep povera terminatus vtomnisbócursliepy. necfalla. Propocathegorica rit. Terminuzcómunemvoco falfa eft illacui? pzimarius7 inprentinomenappellatiuuz adequatü significatum estfal fumvttuesarinus pionomen pluralis numeri Signa vnüerfaliafuntiaoil Quarta diuisioppónuzca nullus quilibet vnus quis qz thegou caşialiapoffibilisali vterq; neuter qualislibzquá aipossibilir.ppocathegorica tufliberzhuiuf modi. pzopofi poffibiliseftilacui'paimari tioparticularis eftillainqua uz?adeqrufignificatúépor iubijcitur terminuscóisfigno fibile vt tu curris particulari determinatus vt Propofitio cathegoricai, aliquisbo difputat. Signap, poffibiliscst¡la cuiuspama ticularia funeiaaligs gdå al rium7 ad equariifignificatus terreliqu’rbui?mór.pzopo eftiposibilevebóěafinus indcfinitacfiillaiqualbijcie feprobatio: ctfromloco Fifolo terminuscómunisfinealiafip Reterfupiadictasdi gno:ytbomo estanimal. Propofitio fingulariséil, rantur.Primaeiftappofiti lainquafubijciturterminus onucatbegozicap.altadeief discret? Vel termino coniunif realiamodalis. Propofitio cumpnomine demostratiuo cathegozica deielleèillaiä fingularis numeri. Ermprimi non ponituraliquis modus. ut  Toutescurrit. ermfiillebo vtbỏcurrit. Diopofitioca disputar. Uocoautemtermi, thegorcamodali scillaina num discretumpelfingularé ponituraliquismod?vtpof nompoziùautp nomenomo fibileefoxtemcurrer. Modiy Scromodi ftratiuú singularis numeri vt autem suntf erscilicet porsi, ifteiftaistud. Erquib? fequi biler impossibileneceflariu turiamqueécatbegozicanĽ contingensverum falsum liusquantitaris 7diciturgil Secundadiuifio p:opositi laanoé vniuersalis necpar onum modaliumquedamcst ticularisneci definitanecfin infenfudiuiso quedazifer gularisvterclu fiue ercep sucomposito Propositio motiue vztantumbocurrit.om dalisinfenfudiuitocillaiä nisbomopzeterfoztemoue modus mediatiter actumca tur. Jurtaprimamfamzvi, sumz verbúinfinitiuimodi timam diuifionesponitifte vtfoztempo ffibileécurrere versus. Quecavelip. qualif Propofitio modatisisenfu* nevelaf. vquanta.parifin. cópofitoéilaiquamod’to Dama psficitelligitpad i taliterpcedirveifinaliter16 terrogatione depłopolinóe fegturvtdeumefTeé necessa facta gquerespondeturcar rium. Impoflibileé bominė tbegozicavel ipothetica. Se effeafinum. Erbisdiuifio cudaaurasseritquodaditer nibusorigináturtresfigure rogationéfactamoqualisre quanpriaordeieffe.Seci, fpondetur affirmatiuavľne da modalis ofenfu diuisore gatiua. Sed itertiadenotat habens admoduprime.ter, qad interrogatione factaze tiaveroormodąlisofenfu2 quantarespodeatvniuerfaľ pofitofiacefisdispata qua particularis indefinitavelfin rui declaratóesbes ierobic gularis. hocfecundum eri inferiuspofito.: gètiáppoitoisppofité är zo Sequuntur figure. visiones duealie decla    Quidam bó curri Quetz bõiez poffibile eft currere Weceffe eft roz currere Subcötrarie Lontrarie Contrarte Subcötrarie currer C Lontradictorie Qutuber bomo currit Lontrarie Duídå bo. non currit Lörigesest foz.ñ Aliquesboinem Aliquéboiez poffibile eft. Có posibile eftcurrere poffibileeft soz. currer Subcontrarie Mullus bomocurrit. Impoffibilee Tozcurrere Lontradictorie dictozie Lontra Lontradictoria Snbalterne Subalterne Subalterne Hullu boiez poffibileeft. currere currere ditozie Lontra Lontraditozie Subalterne   Intigiturtåpueq funtcontrarieoisbocurrit fecundefigurebere ptnll? bócurrit. necieptra  gulegeneralespriaé dictorie. Disbócurrit2gda tita. Uniuerfalisaffirmatiua bononcurrit. neciftefubala zvniuerfalıf negatiadepfitt terne. Disbó currit7quida b?fubiectis7 predicatisfup bomocurrit.qztermininifup ponétib” precisepeodévét ponuntprecisepzoeodevĽp proeisdé funtatrarieifigu, eisdez. Znona.n.fbinfuppóit ra. vtglibzbó currit. 2nllur provtroq; reru. Jnaliavero' bocurrit.Secidaregťaeft particularis affirmaria et pro masculino tantum Scutqua tuozfgula particularis negatia de pfimi lib ?fubiectis 7 pdicatis fup. fituanturpropofitoea in figura ita quattuoz ponétib? pcirepeodévelp alijsregulisipfarum cogno, cirdezsuntcontrarieifigu fciturlerseu natura.quarum ra.vtgdabócurrit?qdåbo primaeftianonestpossibile nócurrit. Lertia regľaviuě duoztraria effefimulvera falisaffirmatiuaa pricularis benefimulfalsa. Primapars negatia velvlis negatiazp patzinductiei nomnibus. Et ticularisaffirmatiaopfilibö fecundaprobatuz.quoniazia fiectisz pdicatis fupponen funtfimulfalfa. Quilibzboè tib pcirepeodezvelpejsó albusznullusboestalb”. Et sunt tradictonei figura,vt iafimiliter Dmneanimaleft quilibzbó curriteqdábóñ bomocnulluzaialeft homo curritP. ull'bócurrit?qui Secundaregulaeftiftanon dåbócurrit.  Quartaregla eft poffibileduofubcötraria vniuerfalisaffirmatiazpti effefimulfalsa.fedbenefim cularis affirmatia. Etviuer, vera. Patetparsprima ifin salis negatiuaa particularis gulisdiscurrendo. fecunda. negatiuade pfitib lbiectis probatur quoniamistafuntfi 2predicatis fupponétib?pci mulvera.Aliquishomocal sepeodezvelpeisdezftit16 bus. Aliquis bononeftalby alterneinfigura. vt glibzbó Aliquodanimalefthomo.Et currit2gdambócurrit. Dar aliquod animalnonefthomo lusbomocurrit. 2gdazbol Tertiaregulaeftifta. Honė mononcurrit Expdictis fegturgilenó effefimul veravelfimulfalfa poffibileouo contradictoria patetifta reguladifcurrédo alter. Hecranonfoludefuit Pfingťaptradironia. Quar primevelfecüdefigureimo taregulaeft14. Sivniuerfaľ tertie.Etvocoibinegatio eft vera fuapticularis velin ne prepofitaquandocolligit definitafibifubalternaeftde modofuemod?pzecedarfi ralnego. Unfib effetvera uesequatur.7 postpofitaqui gizboestalb?6fikreffzver coniungiturverboinfinitiui raaligshoestalbosznóez modi. eréplüpzimi.nópofsi. q:iadefactobe veraaliquis bileésoz.curreredelsoz.cur hoéalbɔ.znóiaquilzboeft rerenóé poffibileereplúfi albɔ.Eteodémódicodenei possibileésoz. nócurrerevel funtregule. quorpria reequiuale tiftiptingenscft eftia. Hegpäepofitafacitz foz. nócurrergpumă regula quipollerefuocótradictozio EthneceffeeTo2. Non currer viinoquil; bocurritequalet equiualetiftiimpossibileest isti.Aligshónócurrit.Etnó soz. Currerr recundam regur nullus homo currit equiualz isti lam zifta non nece f l e e soz . ni aliquishomo currit. Eurrer cquiual; huic possibi Secundaraeftistanegató leésoz.currergtertiamrei poftpofitafacitegpoller fuo gulamzita dicaturdecete contrariopbaf. näiftaquils risquibuscunq3 quare7c. bomo noncurritequipollet SDnuerfioeitcranspofi ufti nullus homo currit. 2nul tiosubiectiinpzedicar lushomononcurritequipol rum7 econuerfo:vtbomoé ictifti quilibet homo currit. Animal animal é homo. Etlý Lertiaregulaeftistanega diuiditur in conversione fimi rio prepofitaz postpositatai plicemperacciisopercorra cit equipollere suofubalter, pofitionem. Lonuerfiofim no. Vnde bnon quilibethoñ pleresttranspositiosubieci curritequipolletistialiquis in predicatú 7e2°manentee bomocurrit. Etifta nonnul: Adem qualitateaquantitate lusbomononcurritequipol vtnulluanimalcurritnulluz letifti aliquis homo non cur curr ése animal. Lonuerfiog rit.Undeversus. Precótra, acadésetranspofitiosubiec dic. Post contraprepostaz.sb tiipredicatu epomanteca gatiuisquare 7c. roz. nó currere èpossibile .6 Quipollentia rumtres ergo non neceffeesoz. curre demqlitarefzmutataquanti uerfavera?Querfensfalfa. tate. vtoishó estaialaliqd Håbé per aaliqrolanoné aialébo. Lóuerfiopptrapo fbftárianullarojaernte7ti fitioneeträf posiectiipdica befalsaaliqui fubstätianon tiire converso manéteeadem énonrosaq2 suutradictori qualitaterquitirate. kmura uzé vertivžoisnonfubftan tistermisfinitisi terminosi tia ;estrora. finitosvtquoddaaialficurs Lotradictiopuerfiõefim ritqodano currensnóénon pliciarguiťpaiofic'becéve aialUtatfciafáfponóhis ranullusbõémuliē.zbecē puerhonib? puertatponun falfa nulla mulieré bóigif, furistiosus, Feci simpliciter Secuido becéveranull?ce puertifeuapacci. Altopcon cusvid; ens:7becefalfanul traficfitpuerfiotota.Jng? lumensvidetcecúergorc. ponúťquattuorlrevocales Lertio ßéveranuloom ? S.a.e.1.0.2fignificatplezar éibbiezljéfatfanullusbó firmatiaz. 2vlemnegatiuaz éidomogac. Adpzim DICIE i.pticularezvelidefinităaf, giftanó suapuertens.fzia firmatiua.o.veropticulare; nulla mulieré aligfbó.qioz velidefinitanegatiua. Luš effephilis limitatioipuerté dicitfecifimplr.i. plisnega teripuersa.Ad63picogi tiua7 pticularis affirmatiua fitde sbiecto pdicatu.qziicft puertütfimplr.puertiťeua p:edicatúlyens13lyvidens pacci.i, vlis negariazplis ens. ióficpuertiéšnullüvi affirmatiua puertufp accñs densensécecii.Ad tertium Artopara. i.vlis affirmatia difimiliterquiaiépuertens zpticularisvelidefinitane ei?Izianullüensiboiecdo gatiuacouertuntpoponem. m?. vľiainullobõieédom? Harzuerfionúsimplerévti quianon debétterminimuta lioz.q2vniuerfaliterfipuerfa recafumquarerc. é vera puertens é vera 7 eco plures cathcgoricar ipuerfióepaccñsestpuerfa coniunctaspnotam conditio falla. vtbeaialchó.2pueri nis copulationis difiunctiois tensveraboéaisl. Jnquer velalicuiistarumequiualen fioneveropatrapènemécó tez.Vttuesbóituefanimal  uerfo.lzñéita i puersione p accideiis velpatraponez:ná р Ropofitioypothe, ticaeftillaģb abet   Iresigitfuntfpesypotheti Deimpoffibilitatepossibly CARnoequälente sifigifica, litate neceffitatezcoringen, do'ozaditionaťcopulatia  tiaeiusdemnonopzdicerea difitictia. Alievero vt localiterqzoiscóditionilisvera cális ztörať nó funtypotheeftneceffariazoisfalraéim tice. fzcathegorice.Propofi poffibilis. Hulla atitestque tioaditionalisèillaiäjiun fitcótigens.iftereguledicte gun et plures catbegoziceper suntdecóditionalidenomia noriaditionisvtfituesbó taalyfiquarezi. tuesaial. Propofitionü con ditionalium alia affirmati uaalianegatia.Propoaditic Dpulatiua eftillaque onalis affirmatiua éillaiqua babetplures cathego 5nórepared afirmaturnotaəditoiserel ricas gnota copulationisiui plüpofitúest. Londitionalis cemcõitictas. vttuesboiz negatiua estillaiquanotacó ditionisnegatur vtnonfitu eshotuesafinus 7brempp batper affirmatiua. Adveri ratezcóditional affirmatiue requiriťzfufficitg oppofitú tusedes. Dzopofitionúcopu latiuarumalia affirmatiuaa lianegatiua. Affirmatiuae illainquanota copulationis affirmatur eremplumpofitu eft. Hegatiua per oeltillai quanotacopulationisnegaE pritisrepugnetåtecedentivt fitues bótuesanimal.bec vt non tues bomoztuesasi vera eft quista repugnanttu nus. csbomo tunoessial. An Et semper negariua proba tecedés vocatillappoqim turper affirmatiuam. mediate sequiturnotãcóditi Åd veritatem copulatiue onis: cófeques veroeftalta. Afirmatiuer equiriturquam f'meibad itaotuesboeftafcedens? Libet partemerreveramvtcu tuesaialest consequens.Ad eshomoatuesanimal. falfitatezconditionalis affir, Et adf alfitatem copulati, matiuer equirit. 2fufficitque affirmatiue fufficitvnam "sistemahor oppofitum cófequentis ftét partemeffefalsa; vttues behurinefrom cumancedente vifituesbó atucurris.  tu sedes. Hec aut ftant fimul Bd possibilitatem copula tuesbomoztunofedes.ió tiuerequiritur qualibetpar itaconditionaliseft falsa. técepossibiléznll'ä altériiz tatomagis welalijs   Jhiunctiuaeftillaique Deus évelfoztesmouef. Ere coñitigüturplescathe pltiftvttues P'tunones.Et itbegorica. gozicepnotazdi functionis; adcótingentiaeiusdemrege Detuesbomoveltuesafin? Ritur qualibet partemeffeco Propositionúdifuciuarú tingentezznulla alteri repu alia affirmatiuaalia negatia gnarenecét contradictoria il; disunctiva affirmativa éil, laqvtantirpseftalbɔl'ipfe a inqua affirmatur notadi currit. Ponitur tertiapartir litctóisvtpatuit. negatiade culaqebecdifiunctiuaeftne roeftillai quanota difiuctó ceffariatunoesbóveltues aditsiplānis negaturprñtuesboľ aial.ztinullapsalterirepu notá quodtuescapza. zbecsemppbat gnatzõlibyéatigés. lzboc firdresinsme affirmatiuagneceffetnega ióqzcötradictoriaptiuzre, Lisantca tiuanifipponeretnegatóvt pugnátvzt uesbó7tunes Forrit pattunonesafinusveltunoes aial. veldicatomeliusqad foipropofitioneapza. Affirmatiua estq2nul neceffitates difilactiverequi laillannegationumtranfitin rifzfufficitcoplatiuafacta notam difiunctionis.  tropugnante poribilem.eremplüpzimivt tuesafinus. Etadfalfitatem tuesbo ztucurris. Szadi, eilisre quiritur qualspartem possibilitatemei?fufficitvna effefalfamvttucurrisl'nul partezeffeipossibiléautvná lusbaculusstatinangulo. alterii copoisibilez. eremplu Md posibilitatem difüctie figutcomke partesplenepost primivttu curris. 7tuésafi, affirmatiuefufficitvnaj par tilesramom nus.erempluzkivttuésztu temeffepossibilem. Vt homo ferposibilisetideopom nes. Ad neceffitatez. copla eftafinusvelantichristuseftfuficitermedpogriner tiueregrit quamlib; premer Sed ad impoffibilitate eius ludvorbi uficiompor seneceffaria; vtboestaialz requirif qualibet partéeffe tot dimimurront14éria de’eit. Etadarigentiazip impoffibilem vt homoeftafialiudfornogri. husregriť zfufficitynapzar nusvelnullusdeuseft. tezelleptingentez.alteraatt Adneceffitatemdifiunctie ni pofsibilez nec eidéicópofi affirmative fufficitvnazpar bilemvttucurris7tuesbó temeffeneceffaria;veliuicé pel deus eftz tucurris. cótradici. Eréplum pzimivt de partibɔcontradictozijser} Ad Veritate zoifiuctiueaf, fe impoffibile z. Etadcontin Röme ftiguduozycótrario afirmatiuefuficitvnazparte gentiamcopulatiuafacta siune imposfibilealiud effeveram. pttu.cshomop gtib oppofitisfitcótiges, metafarim #coco scadcon coinout:fed quo hoc eftueru, cuno filin ilascopilgrimur, fatke porousopofiris,codicarilkidekie Erionisdifnightutplan qnoradiinch omnis,Admiños vilpropofiriones, congle:fed l Frelsabond murgiipropa Mit Saint Erine et filace prolaindao importinisdefinitiva entrare difusique significatia sseéincóueniensa Popu-rarios gudwors contrario zeliuniecorigens unum idiom conigat et difiurgatriper Sadcuila copulatiua falton Iparibusopofieasofusdeles in diversors Et iceforcimoodradilosiaoliikaepoksidaé estimat arhdheof magister bisin coligititommdig ogdifinitivaerit Drinsers. viétime quod propria fueimpropriauide itq,amibe“pareddfentnene ožnnimado props liéefetwimmign ruenhomo neltuesani   bec.n.éneceffariatunocur iusmodi, ris. vel tu moueris . q becco Lermin e quoc e termin ? pulatia éipoffibiťtucurrif fimplerplura fignificarFzdi tunomoueris.Etbecéptin uerfasrationes ficutlicanis géstucurrisvľtunomoue ghignificatcanelatrabilefi ris.q2 beccopulatiuaéptin, duscelestez piscémarinuz. Genstunócurris tumoue zbocdiuerfisrationibus. risfecúduregulasdatasde Paedicabile fecúdomó fti copulatiuis. mifvideliczcóiterzp ergoétermin?vnwoc?pze. prie Predicabilecóiterfup túiterminoaptus. natusde aliquopdicari. zfictātermi nuscõis finglaristacói dicabilisingddeplerib?ori tibus(pe. ptaialpredicatur deboiezdeafinogorritfpe ineoqdquidqzaditerroga plerusqizplerusdiciepze tionezfacta; perquideftbo dicabile. Sippziesicfumen velafin? rndeturqeltaial. do difinit. Paedicabilee ter Ben'oiuiditur. naquodda minouiuoc'apt nat deplu estgenus gnälifsimu. zquod rib?pzedicari. ficnull?ieri damgenussbalternum nusfingularisnec tráfcedes Benus generaliffimúéter autpofit? Dicitur pzedicabiming ficégen?qd nopot lefeuvniuersaleqóidéė.q2 essespecies. ytfubftátia. Be null’ralisestterin vniuoclis nus subalternúeftterminus Undetermin’vniuoc'est quificeft genusqdpóteffe termin? fimpler plura signifi species vtaial.eeniz genus cásfm vnicáraionezficutli respectuhominis speciesde boqo significatfoztezplato rorespectucorporis té oiađuagiftcataF5bác Spesestterminusvniuo/ rationeať raroale. Perboccus nó fupremuspzedicabil qodiciturterminus fimpler ercluduttermini3 pofiti. sed significans pla ercluditter minumfingularezzvnicara tione ercludit terminu trásce détez. videlzensaligdzbu iad plib?vtlibópdicatur aloztez placóeieoqd aditērogatöezfactapgdest foz telvpťlatorideurgébő Spéfoiuiditur q2qdazeft specialissimazadå Malterna  Segfcapituluopdicabilib? Faria videlzgen? speciediffe"Redicabiledupťrfu rentiáppriazaccides. Sen? ptú diuidit iquinqz vniuer Spēs Balternaetermina cutlialbuqapredicatur. de cu'filspeciespóreffegen? Boieieoqd qualeaccicale vtanimal. qzaditëroğröezfactaequa Spésspecialiffimaéteri lisehódlafin?pótpuenien nusqcum fitfpesnópóteê terrñderiqdalb?.2bocno genus. vt bóvel aliter conuertibiliter. Quia nó con Spės spalissimaétermin? uertiturlialbuaialiq°illoz, vniuocuspdicabilisigdde Suffitientiapdicabiliūbe plurib'orñtıb nuerofolum turistomó quoë vleautest znotáterdiciturfoluiq2liai piedicabile effentialiteraut alnéspéss pálissima.ztúert accíítaliter termin?vniuoc? predicabilir Si effentialrautigdauti igddeplib’orntib?núero quale. Siiqualeilludéoria 22defostez placóeiznofoi Siigd autdeplurib'orīti, làdeorñtib?nuero.qzitd e b?sperilludeitgen?.autde orñtib’spé. vtdeboierlebe přib?orritib? nuero Toluet: Differentiaéterin’viuoc? illudéspés. Siveroepdica paedicabiťde plib”iquale bileaccnraťrautgiqualeac cénale.vtroaleqapdicatur cntalepuerribľrz. illudėp ocfoztez platoneieoqaqle pri. veliqualeacclitaleno qzaditërogatóemfactaper puertibiťr.2 illud éaccñs.er qualisest fortes respondetur predictispotpuiciafitper quod eft rationalis. dicato directavľ idirecta er Peopriú eftterinviuoc fentiaľbľaccñcať. Predica Þdicabilisdeplib’ieoquod tiodirectaeiaiqafupipze quale accñtalepuertiběrut dicaturdefuoiferiozi. Debo rifibileqapdicatdesozteet éaial. Paedicatioidirectaé platbeieoqdqualeqzadin illai quaiferi’predicaturde terrogatoezfactapqualise fuosuperiozi.vtaialeftbo. sozesvť platopueniéterrñ Predicatio eéntialiséillai deturq rifibiť.7 totaratio quafuperi’pzedicaturdein quarefic pdicaturdeilliseq? Feriozi velecóuersofz quod éppziapafsio illius termini dictiév ľoriadeali q°illon bomo cum quo conucrtitur. Si predicatio accítaliséila Acchrétēmin’vniuoc'pze iqua  ppuúvelaccñspzedir. dicabilisdeplib”ieoquod caturde generefpeciezpria quale accắtaleipuertiblrfi bľfuo idiuiduo autepuerfo Eréplüpzimi: vtbóèrifibil dirurin decepdicasca. Quo Paialéalbu. exéplusivrrifi rupzimuelt predicarsitu lub bileéhoalbueaial. Etpfiľr státiecul generaliffimúébic dedriaz idiuiduo dicafl me teri’lbalubàpoiturhicter li’oicaturg pdicatio efriaťė mi? coup”.subcocpozecosp pdicatio terminoz eiusdez saiatu sub cozpoze aiato ať dicamenti vtbóestaial. pze, aiali fpess pecialissimahoľ dicatioautaccicať eft piedi afinuszlbiftisfuaidiuidua cario terminox diuerfoz pze foztesz plato. bzunellusfa dicamentorum vt homo éale uellus. Secundum predicame bus. Termin superiora dre tú eft pdicamentu quátitutis liquúdicitur effeillequicon Lui' generalis fimúeftquäti. tinerillúzne converso sicut li tasfubý funt duo genera aial respectuisti terminihó alternaär nulluestsuperius qz significat quicgdile?cuz adreliquúvz continuuz?di bocaliquid vltra. Lermin’in scretu. Primi generis iftefür feriozadreliquú dicitur effe fpeties linea superficiescoz illequi cótineturabeo. nnó pustempus?locus.qR:bec ecouerfovtliforesrespectu funtindiuiduabiliuea fupfi iftius termini bomo. hiclocus. Secundi generis Lozpozea Jnco: pozea infinitesuntfdeties.f.binari, Lozpus aiatum rius trinarius et cetera. Redicamentu zestcoő ciumelt passio vel passibilis dinario pluriuztermi, qualitas. Quartuz est forma nozu Fmsubzlupza. Etdiui, vetcirca aliquid pitas figura  us trinarius quaternarizë Animatum Jnanimatuz individua vero funt hicbina Sensibile Animal Tertium piedicamentum è predicamentuz qualitatiscu iusgeneraliffimum estquali Lozpus Jnsensibile Rarionale Jrrationale. tasfubquofuntquattuo:ge Animal rationale nera subalterna non sebabe Socrates Plato rio. Secundum eftnaturalis p potentia vel impotentia. Ier Substantia tia secundum sub z fupza. pzi mortalis Jmmortalis mumest habitusveldispofi, Domo cies. boc cozpusboc rempus Primi generis spetiesfune Quintum predicamétoem grāmatica logicaz rhetorica dica métuacióis cuius gener quaqindividuasuntbecgrå rasubaltez nafuntfer. quozu matica logicab rbetorica. Nulluė superius ad reliquum Lertijgenerisfpessunto risspés sunt. generarehoiez redoamaritudo. albunigruz ?cozrupereequáquayindir calidúz frigidubuidum zfic uiduafuntfic generare boiez cum. quarú idiuidua sunt heç ficcorrupereequum.Iertijz dulcedo biamaritudohocal quarti generis (pessuntau. Bumhocnigp buiusmodi. gereinlongudiminuereila Quartigeneris fpeciessut tum. Quozum indiuiduafffic circulus triangulus quadra augereilögumficdiminuer gulushuiufmodiquarúidi inlatu. Quiti generis spés uidua funt. biccirculusbicfunt calefacerez frigefacere triangulushicquadrágulus. Quar idiuiduafuntficcalefa Quarti i predicamétü Ċpdi cereficfrigefacer. Sertigo, camerurelatóis. Lui'gene. Neris fpeciesfuntmouct fur ralissimúeftrelatiovelada. súmo ueredeorsumquaruin liquidfbåfunttria genera( dividua sunt ficmo uerefurfu altera ilebita, 16zsupa fic movere deorfum. Sertus Primum estcaparatio. Se predicaméta é predicaméruz cuduzéfuppofitio. Lertiuzė paffioniscu’generatiffimu fuppofitio.primigenerisfpe estpassio. Etb fi Ľrfergene tiessuntvicinusequale?li, rafbalternarisebūtia ;sub milequarumindiuidua sunt. zsupaav; generari corrupia hicvicinusbocequalezboc ugeridiminuialterari7fzlo fimile dñszmagister. qxidiuidua quúconīpiäri diduasütir, süthicprbiconszbicmagi tuboiezgenerariftueqmco Tertijgeneris (péssútfili? rūpi. Iertüzquarti generis fuus discipľ? quaruiidiui; spetiessuntaugeriinlon duasuntbicfili? bicferubic gúdiminuiilatu quani diui. piscipulus. dua funt ficaugeriilogu fic cumouči. primi7figeneris, Secridi generis spēsfuitpr fpessúthominez generarie Secundi generis spėssunt v3generarecourtīge augere OU Rzmolle. quarüindiuidua diminuerealterare. cfmlo, funt hoc durumboc molle. Cu mouere.Primiz figener -- b  Logica Parva: Critical Edition from the Manuscripts with Introduction and Commentary, Perreiah, Leiden: Brill; Logica magna, Venezia: Albertinus Vercellensis, Octavianus Scotus; Logica magna: Tractatus de suppositionibus, Perreiah, St. Bonaventure, NY: The Franciscan Institute; Logica magna: Part I, Fascicule 1: Tractatus de terminis, Kretzmann, Oxford; Logica magna: Part I, Fascicule 8: Tractatus de necessitate et contingentia futurorum, Williams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 3: Tractatus de hypotheticis, Broadie; Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 4: Capitula de conditionali et de rationali, Hughes Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 6: Tractatus de veritate et falsistate propositionis et tractatus de significato propositionis, Punta, Adams, Oxford; Logica magna: Part II, Fascicule 8: Tractatus de obligationibus, Ashworth, Oxford; Sophismata aurea, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Super I Sententiarum Johannis de Ripa lecturae abbreviatio, prologus, Ruello, Firenze, Olschki; Expositio in duodecim libros Metaphisice Aristotelis, Liber VII, in Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden, Brill; Expositio in libros Posteriorum Aristotelis, Venezia, Hildesheim: Olms, Summa Philosophiæ Naturalis, Venezia; Expositio super octo libros Physicorum necnon super commento Averrois, Venezia;  Expositio super libros De generatione et corruptione, Venezia: Bonetus Locatellus, Octavianus Scotus; Scriptum super libros De anima, Venezia; Quaestio de universalibus, extant in nine mss. There is a partial transcription from ms. Paris, BN 6433B in Conti,  Sharpe: Quaestio super universalia, Firenze, Olschki; Lectura super libros Metaphysicorum, extant in two mss. (The ms. used here for the quotations is Pavia, Biblioteca Universitaria, fondo Aldini; Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis, Venezia. Amerini, AQUINO (si veda), Alexander of Alexandria and N. on the Nature of Essence, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Alessandro di Alessandria come fonte di N.. Il caso degli accidenti eucaristici,”Picenum Seraphicum, N. on the nature of the Possible Intellect, Musco; Ashworth, A Note on N. and the Oxford Logica” Medioevo; Bertagna, N.’s commentary on the Posterior Analytics, Musco; Bochenski, A History of Formal Logic, Thomas (trans.), Notre Dame, IN: University of Notre Dame; Bottin, Proposizioni condizionali, consequentiae e PARADOSSI DELL’IMPLICAZIONE [cf. Grice, Strawson] in N.” Medioevo; La scienza degl’occamisti: La scienza tardo medievale dalle origini del paradigma nominalista alla rivoluzione scientifica, Rimini: Maggioli; N. e il problema degl’universali, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padua: Antenore; Logica e filosofia naturale nelle opere di N., Scienza e filosofia a Padova nel Quattrocento, Padova: Antenore; Conti, A. Note sulla Expositio super Universalia Porphyrii et Artem Veterem Aristotelis di N.: Analogie e differenze con i corrispondenti commenti di Burley,” Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Universali e analisi della predicazione in N., Teoria; Il problema della conoscibilità del singolare nella gnoseologia di N.,” Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano; Il sofisma di N.: Sortes in quantum homo est animal, Read, Sophisms in Medieval Logic and Grammar, Dordrecht: Kluwer; Esistenza e verità: forme e strutture del reale in N. e nel pensiero filosofico del tardo Medioevo, Rome: Edizioni dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo; N. on Individuation”, Recherches de Théologie et Philosophie médiévales; N.’s Theory of Divine Ideas and its Sources”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; Complexe significabile and Truth in RIMINI (si veda) and N.”, Maierù/Valente, Medieval Theories on Assertive and non-Assertive Language, Firenze, Olschki; Opinion on Universals and Predication in Late Middle Ages: Sharpe’s and N.s Theories Compared”, Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale; N.’s Commentary on the Metaphysics”, Amerini-Galluzzo, A Companion to the Latin Medieval Commentaries on Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Materia prima e rationes seminales negli scritti di metafisica di N., Medioevo; Galluzzo, The Medieval Reception of Book Zeta of Aristotle’s Metaphysics, Leiden: Brill; Garin, Storia della filosofia italiana, Torino: Einaudi; Gili, L., N. on the Definition of Accidents,” Rivista di Filosofia Neo-Scolastica; Karger, La supposition materielle comme suppositions significative: N., PERGOLA (si veda), Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Kretzmann, Medieval logicians on the Meaning of the Proposition”, The Journal of Philosophy; Kuksewicz, N. e la sua teoria dell’anima, Olivieri, Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova: Antenore; Loisi, L’immaginazione nel commento al De anima di N.,” Schola Salernitana, Mugnai, La expositio reduplicativarum chez Burleigh et N., Maierù, English Logic in Italy, Naples: Bibliopolis; Musco, Compagno, Agostino, Musotto, Universality of Reason, Plurality of Philosophies in the Middle Ages, Palermo: Officina di Studi Medievali; Nardi, N. e l’averroismo padovano, Saggi sull’averroismo padovano dal secolo XIV al XVI, Florence: Sansoni; Nuchelmans, Theories of the Proposition: Ancient and Medieval Conceptions of the Bearers of Truth and Falsity, Amsterdam: North-Holland; Medieval Problems concerning Substitutivity (N., Logica Magna, Abrusci, Casari, Mugnai, Storia della Logica: San Gimignano, Bologna: CLUEB; Pagallo, Nota sulla Logica di N.: la critica alla dottrina del complexe significabile di RIMINI (si veda), Congresso di Filosofia, Florence: Sansoni; Paladini, Why Errors of the Senses Cannot Occur: N.’s Direct Realism”, Studi sull’Aristotelismo Medievale; Perreiah, Insolubilia in the Logica parva of N.,” Medioevo, N.: A Bibliographical Guide, Bowling Green, Ohio: Philosophy Documentation Center. 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Luigi Speranza -- Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercato). Filosofo italiano. Mercato, Napoli, Campania. Allievo di ALIOTTA (si veda), con il quale si è laureato a Napoli prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo.   L'intensità con cui Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è concretizzato dapprima nello studio dell'allontanamento di SCIACCA (si veda) dall'attualismo poi in testi quali: “Giovanni Gentile,” “L'estetica di Gentile,” e “Gentile educatore.”  Innumerevoli sono gli scritti dedicati all'idealismo hegeliano, tra cui i saggi “La presenza di Hegel,” “Ricerche e meditazioni hegeliane,” e “Hegel nel Novecento,” e le traduzioni di opere hegeliane come “La vita di Gesù” e “Le orbite dei pianeti.”  A queste traduzioni si aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e sociologico.   Ha ricevuto il Premio San Gerolamo.  A N. si deve anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana, come quelle di Emo, Michelstaedter ed Evola.   La sua carriera lo ha visto professore di Storia della filosofia in alcune delle più importanti università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico universitario.  Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il «Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix-Huitième Siècle», «L'Enseignement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic Studies». Collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e «il Giornale».  Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam («Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Pellicani («La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione» della Armando Editore.  Gli è stato assegnato, a Palermo, dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Nietzsche fondata da Fallica, il «Premio Nietzsche».  Saggista sempre molto prolifico, ha continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani, il De persona. L'indomabilità dell'individuo e Problema Europa: Unità politiche e molteplicità culturali. N. Sciacca: dall'attualismo alla filosofia dell'integralità, Edizioni di Ethica, Forlì.  Collegamenti esterni  N., la voce in Enciclopedie, Treccani L'Enciclopedia italiana. Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Ultima modifica 1 anno fa di un utente anonimo Bertrando Spaventa filosofo italiano Michele Federico Sciacca filosofo italiano Idealismo italiano Corrente filosofica predominante in Italia nella prima metà del XX secolo. Antimo Negri. Parole chiave: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Negri,” The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Negri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Padova). Filosofo Padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto. Grice: “Only in Italy a philosopher philosophises on Pinocchio!” -- Grice: “I like his idea of a new ‘grammar of politics,’ even if he uses the extravagant metaphor, delightful though, ‘fabbrica di porcellana’. He has a gift for metaphor, sure!” – Grice: “’la lenta ginestra’ to qualify Leopardi’s ontology is genial!” -- Grice: “Negri reminds me of ‘pinko Oxford’!” Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, fu uno dei maggiori teorici del marxismo operaista. Dagli anni ottanta in poi, si dedicò invece allo studio del pensiero politico di Baruch Spinoza, contribuendo, insieme a Louis Althusser e Gilles Deleuze, alla sua riscoperta teorica. In collaborazione poi con Michael Hardt, ha scritto libri molto influenti nella Teoria politica contemporanea.  Accanto alla sua attività teorica, ha svolto una intensa attività di militanza politica, come co-fondatore e teorico militante delle organizzazioni della sinistra extraparlamentare Potere Operaio e Autonomia Operaia. A causa della sua attività politica è stato incarcerato e processato, all'interno del processo 7 aprile, con l'accusa di aver partecipato ad atti terroristici e d'insurrezione armata. Venne, tuttavia, assolto da queste imputazioni, per poi venire condannato a XII anni di carcere per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. Saggi: “Stato e diritto -- la genesi illuministica della filosofia giuridica e politica” (Padova, Milani); “Lo storicismo” (Milano, Feltrinelli); “Forma giuridica” (Padova, Milani); “Flosofia del diritto” (Bari, Laterza); “Il concetto di partito politico” (Padova, Moderna); “Lo stato piano e il comune” (Milano, Feltrinelli); “Il concetto d’integrazione nella storia di Italia” (Milano, Giuffrè); “Il concetto di stato” (Milano);  “Il capitale e lo stato”, “Della ragionevole ideologia” (Milano, Feltrinelli); “Incidenza di Hegel. Napoli, Morano, Enciclopedia Feltrinelli Fischer); Scienze politiche, (Stato e politica), Milano, Feltrinelli); L’organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); Partito operaio contro il lavoro, in S. Bologna, P. Carpignano, N., “Crisi e organizzazione operaia” (Milano, Feltrinelli); “I proletariato” Proletari e Stato. L’autonomia operaia e compromesso storico, Milano, Feltrinelli); “La fabbrica della strategia” Padova, “Cooperativa libraria editrice degli studenti di Padova, Collettivo editoriale librirossi, La forma Stato, per la critica dell'economia politica della Costituzione italiana” (Milano, Feltrinelli); “Il problema dello stato e sul rapporto fra demo-crazia e sociali-smo” Milano, Unicopli-Cuem, “Il dominio e il sabotaggio: sul metodo marxista della trasformazione sociale,” Milano, Feltrinelli,  “Manifattura, società borghese, ideologia: Una polemica sulla struttura e la sovra-struttura,” Roma, Savelli, Marx oltre Marx [Grice, “Grice oltre Grice”]. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Milano, Feltrinelli, “ Dall'operaio massa all'operaio sociale. sull'operaismo, Milano, Multhipla, “Comunismo e guerra,” Milano, Feltrinelli, Politica di classe: il motore e la forma. Le cinque campagne oggi. Milano, Machina Libri, “Otto Dix,” Milano, Studio d'arte Grafica, “L'anomalia selvaggia: potere e potenza in Spinoza” (Milano, Feltrinelli);“Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione,” Milano, Feltrinelli, Pipe-line. Lettere da Rebibbia, Torino, Einaudi,  Boutang, Diario di un'evasione, Cremona, Pizzoni, Le verità nomadi: lo spazio di libertà” (Roma, Pellicani); “Fabbriche del soggetto: profili, protesi, transiti, macchine, paradossi, passaggi, sovversione, sistemi, potenze: appunti per un dispositivo ontologico, in "XXI secolo. Bimestrale di politica e cultura", “Lenta ginestra: l'ontologia di Leopardi, Milano, Sugar, “Fine secolo. Un manifesto per l'operaio sociale. Milano, Sugar,” “Arte e multitude” (Milano, Politi, “Il lavoro di Giobbe. Il famoso testo biblico come parabola del lavoro umano, Milano, Sugar); “Il potere costituente. Ssulle alternative del moderno, Carnago, Sugar, Spinoza sovversivo. Variazioni (in)attuali” (Roma, Pellicani, “Dioniso, o lo stato postmoderno” (Roma, Manifestolibri);  L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata” (Roma, Castelvecchi); “I libri del rogo, Roma, Castelvecchi); Partito operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione materiale; La costituzione del tempo. Prolegomeni. Orologi del capitale e liberazione comunista” (Roma, Manifestolibri); Spinoza (Roma, DeriveApprodi, Contiene: S Democrazia ed eternità in Spinoza); “Sogni Incubi”, L’incubo, Visioni. Politica e conflitti nella crisi della società del lavoro” (Milano, Lineacoop, La sovversione” (Roma, Liberal, Kairòs, alma venus, multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso” (Roma, Manifestolibri, Desiderio del mostro. Dal circo al laboratorio alla politica, a cura di e con Fadini e Wolfe, Roma, Il manifesto, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, con Hardt, Milano, Rizzoli,  Europa politica. [Ragioni di una necessità], a cura di e con Friese e Wagner, Roma, Manifestolibri, Luciano Ferrari); “Bravo ritratto di un cattivo maestro. Con alcuni cenni sulla sua epoca” (Roma, Manifestolibri); “L'Europa e l'impero. Riflessioni su un processo costituente, Roma, Manifestolibri); “Moltitudine e impero, Soveria Mannelli, Rubbettino, Il ritorno. Quasi un'autobiografia” (Milano, Rizzoli, Guide); “Impero e dintorni” (Milano, Cortina); “Moltitudine. Guerra e democrazia nell’ordine imperiale” (Milano, Rizzoli); “La differenza italiana” (Roma, Nottetempo); Movimenti nell'impero. Passaggi e paesaggi, Milano, Cortina, Global. Biopotere e lotte” Roma, Manifestolibri, Goodbye Mr Socialism, Milano, Feltrinelli, Settanta (Roma, Derive); Approdi, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Milano, Feltrinelli, Dalla fabbrica alla metropoli” (Roma, Datanews,  Il lavoro nella Costituzione” (Verona, Ombre Corte, Dentro/contro il diritto sovrano. Dallo Stato dei partiti ai movimenti della governance” (Verona, Ombre Corte,  Comune. Oltre il privato ed il pubblico, (Grice: “Cf. Grice on ‘common language’ and ‘private language’”) Milano, Rizzoli,  Inventare il comune, Roma, Derive Approdi, Il comune in rivolta. Sul potere costituente delle lotte (Verona, Ombre Corte); “Questo non è un Manifesto” (Milano, Feltrinelli); “Spinoza e noi, Milano-Udine, Mimesis); “Fabbriche del soggetto. Archivio (Verona, Ombre corte); Arte e multitudo (Roma, DeriveApprodi); “Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Milano, Ponte alle Grazie, Assemblea, Milano, Ponte alle Grazie, Da Genova a domani. Storia di un comunista, Milano, Ponte alle Grazie.  Che l'Europa politica sia necessaria, è chiaro per le ragioni stesse che ne hanno determinato l'attuale processo costitutivo: la ricerca della pace fra le nazioni che la compongono, lo spazio economico comu-ne, la comune determinazione culturale, ecc. Ma che l'Europa sia necessaria sembra evidenziarsi con molta forza anche da altre ragioni, non più semplicemente statiche ma dinamiche, non più solo storiche ma politiche ed attuali. La necessità dell'Europa nasce dal confronto con la messa in forma del mercato globale, cioè dal confronto con il processo di costituzione imperiale che sta realizzandosi.  Nell'impero, essendo impensabile una democrazia assoluta (un uomo uguale un voto); essendo del pari assai dubbia, quando non si tratti di pura mistificazione o illusione, l'immagine di una società civile globale, sarà infatti necessario delimitare uno spazio che consenta l'espressione e la decisione democratiche della molti-tudine, nonché la sua organizzazione politica.  Ora, lo spazio politico europeo (costituito su una continuità culturale lunga e singolare e una dinamica costituzionale specifica)  sembra corrispondere a quella necessaria delimitazione. lo non so se in questo spazio sia possibile pensare un soggetto politico adeguato alle dimensioni dell'impero. Quel che è certo è che fuori da questo spazio, e senza un soggetto adeguato, non c'è più democrazia per l'Europa.  Se queste sono le condizioni nelle quali dobbiamo muoverci,  interroghiamoci qui di seguito.  È possibile costruire questo spazio? E possibile costruire, in questo spazio, un soggetto politico che si confronti agli altri nell'impe-ro? O, meglio, che si confronti con gli altri a proposito dell egemonia imperiale? E possibile una unione politica che ne valza la pena?  A noi non sembra che si possa dare risposta positiva a questi interrogativi se si consente alle posizioni che oggi sono prevalenti nella discussione politica europea. Alcune di queste posizioni appartengono al dibattito comunitario (1), altre partecipano del dibattito politico sull'Unione (2).Ora le pesizioni che attengono al dibattito comunitario, si pongono fra gli estremi di questa alternativa:  1,1 La Comunità curopes come pura area di mercato e regolazione di questa:  12 la Cawumira euroyea cme Confederazione ti Stati-nazio-  È chiaro che in eninambi questi casi la Comunità europea è disgonata come una subornizzazione imperiale, ovvero come una delle enganizazioni deventrate nella piramide imperiale. In questo caso l'unione politica non produce né democrazia né una nuova sagrettività all'interno dell'Impero.  Si obierta tuttavis, da qualche voce, che assumendo la «deter-  minante mititares come pil importante di quelia cconomica si  potrebbe sovrarre l'Europa alla funzione subaltema cui l'Impero la  destina Cio surebbe tuttavia vero salo alla condizione, manifesta-  mente tale, che l'Europa potare immectatamente presentarsi, nel sua insieme, come potenza militare. Ma enca non si presenta casi: amalmente la determinazione militare è separata, gestita dai singoli  Sti-narione. Di conseguenza proprio quando ci si riterisce alla deter-  munante militure, si finisoe per escludere / Euroga da ogri collocario  ne o ruelo decisivi nell'ambito imperiale. So poi l'insistenza sulla determinante mitare forse semplicemente un trucco per rattermare la centralità dello Stato-nazione nella realtà europea ed internaziona-le, allora l'efficacia dell'obiezione verrebbe del tutto meno.  Un'altra altemativa si disegna quando si considerino le posizioni che partecipano del dibattito politico sull'Unione: L'Unione politica europea è da un lato, in questa prospet-tiva, considerata come un Super Stato giuridico-amministrativo  (msomna, un Impera nell Impero);  22 in altra foma l'Unione europea può anche enere immaginata  (come spesso avviene nel diburtito arruale) come una Costituzione senza Stato, ovvero come una struttura statale caratterizzata da numerosi  Iivelli di organizzazione piuttosto che promona da un centro sovrano.  Si tratta, in entrambi i casi, di una figura costituzionale sparia  orvero chi una macchina sebole del potere costituente. Sono, queste  ultime figure, entrambe canuterizzate da un deficit democratico pesantissimo. In 2.1 lUnione curopea sembra essere affidata ad una magistratura buroeritica che produce le istituzioni come con-  seguenza di una dinamica fonzionalista. In 22 | Unione curopea e  consenata a macchinazioni pelitico-giuridiche piuttosto similt a  quelle che reggevano l'amministrazione del Sacro Romano ImperoGermanico e riconducibili alla combinazione di una architettura puffendorfiana e dell'immaginazione reazionaria del romanticismo.  Secondo alcuni giuristi, tuttavia, si dovrebbe riporre fiducia nei dispositivi giuridici dell'Unione Europea esistenti. Una volta messi in moto, essi potrebbero funzionare come «potere costituente» di una nuova sovranità europea. Questo potere costituente «spurio» può essere, a parere dei giuristi, prodotto sia da un'attività istituzionale intera (le Corti europee) sia dall'effettività del combinato sussidiario delle istituzioni europee e degli Stati confederati. Le burocrazie interne alla comunità divengono cosi il «deus ex machina» che non solo supplisce al deficit costituzionale ma ne prepara il superamento. Queste ipotesi non sembrano credibili. Esse infatti prevedono una sorta di governance costituente, difficilmente ipotizzabile in una situazione caratterizzata, a) oltre che dal deficit democratico di base, b) da conflitti certi fra le élites europee, e) da pressioni contrarie, e/o distruttive, esercitate dalle élites imperiali, americane, russe, ecc.  In ogni caso, qualora la discussione politica e costituente continuasse in questi termini, forse avremo un'Unione Europea... Ma non ne varrà la pena, perché essa sarà, dal lato dei governanti, completamente subordinata al comando imperiale; dal lato dei governa-ti, bloccata, chiusa in una passività che potrà trovare solo vacue vie di fuga, di rivolta o di repressione.  A quali altre condizioni è dunque possibile un Europa politica che ne valga la pena?  Essa è possibile solo se il progetto dell'Unione e quello di una mobilitazione democratica della moltitudine europea sono concomitanti ed agiscono con forza dirompente a livello e nelle dimensioni dell'impero tutto intero. Voglio dire che un'Europa politica (che ne valga la pena) è possibile solo se la moltitudine europea è sollecitata alla costituzione dell'unione politica attraverso la mobilitazione di strati sociali potenti (sia nella produzione di merci che nella espressione di valori), di strati sociali che vogliono dunque con l'Europa, più libertà qui e nel mondo.  Vale forse dunque la pena qui di sottolineare che quel che dovrebbe interessare coloro che vogliono un'Europa politica, non è tanto la costituzione di un demos quanto la produzione di un soggetto politico. Ma far uscire un soggetto politico dalla moltitudine, dunque costruire un'Europa politica che ne valga la pena, non sarà possibile se non vi saranno divisione, lotta, decisione di valori di libertà.  Ci sia permessa una breve parentesi. L'Europa era stanca quando, dopo un secolo di guerre fratricide, a metà del secolo ven-tesimo l'antica utopia cosmopolita venne riproposta e riformulata nel progetto politico dell'Europa unita. Il paradosso di questa decisione fu di essere animata piuttosto da necessità strategiche nella lotta contro il comunismo sovietico che da una effettiva ricerca di unità politi-ca, di solidarietà economica e di ricomposizione costituzionale. I federalisti europei si batterono a lungo contro queste insufficienze, ma furono sempre prigionieri del quadro strategico precostituito. In particolare, esso escludeva la sinistra e le masse proletarie dal progetto europeo. Una divisione di classe sovradetermina dunque il progetto europeo e preesiste alla sua attualità. Un demos europeo non sarà dunque possibile costruirlo se non si scava dentro questa preistoria e, al limite, se non si riattivano realisticamente quelle profonde divisioni, al fine - laddove sia possibile - di superarle. In ogni caso, si tratta di prendere in considerazione i conflitti (passati ed attuali) perché solo questa considerazione potrà permettere di articolare, nel presente, eventuali convergenze politiche. La fine della Guerra Fredda, di per sé, non risolve nulla, a meno di pensare che nel conflitto internazionale di allora non fosse in qualche modo incluso il conflitto di classe. Di contro, lo sviluppo negli anni '90 delle tendenze imperiali rischia di accentuare (come si è cominciato a vedere) alterative molto caratterizzate alla costruzione dell'unità europea da parte degli Stati-nazio-ne. Il Regno Unito gioca pesantemente come arma euroscettica il proprio ruolo di alleato privilegiato, nella politica finanziaria e militare, degli Usa. Le altre potenze europee guardano con sospetto la supremazia continentale della Rft unificata. Ecc., ecc. Se si vuole superare questa situazione, il dibattito sull'Europa, ed il riconoscimento del suo farsi da parte dei popoli che la costituiscono, dovrà attraversare nuove fasi di confronto e di espressione alternativa di valori, di opzio-ni, di tendenze. Senza bagnarsi in queste scadenze di vita e di sangue, sarà difficile procedere nel dibattito europeo...  Chi ha dunque interesse all'Europa politica unita? Chi è il soggetto europeo? Sono quelle popolazioni e quegli strati sociali che vogliono costruire una democrazia assoluta a livello di impero. Che si propongono come contro-Impero.  Insomma, si tratta di quegli strati produttivi (più o meno pro-letari) che necessariamente (per ragioni dettate dalla natura della loro forza produttiva) chiedono:  uno statuto di cittadinanza sempre più universale, ovvero la più ampia mobilità per sé e per gli altri; reddito garantito, ovvero la possibilità materiale, per le moltitudini, di essere flessibili nella produzione di ricchezza e nellariproduzione della vita; c) la proprietà comune dei mezzi di produzione: s'intende, dei nuovi mezzi di produzione. Se infatti il lavoratore intellettuale non ha la proprietà del proprio utensile di lavoro, cioè del cervello, allora non è più nemmeno un proletario ma uno schiavo. Si vuole dunque la libertà.  C'è un nuovo proletariato che è stato creato dal nuovo modo di produzione capitalistico. E una moltitudine che, nella postmodemità, si aggrega e ricompone nei più diversi luoghi produttivi - infatti, ogni attività è diventata un luogo da quando la localizzazione capitalista della produzione è diventata un non-luogo, da quando la fabbrica for-dista si è dissolta nella società postfordista. E un esodo permanente ed alternativo, dove un proletariato immateriale e precario si dispiega e si scontra, dentro il quadro della globalizzazione, con l'Impero. Sarà possibile affidare a questo proletariato europeo, come linea di esodo, il progetto Europa? Insomma, porlo contro tutti i tentativi di fare dell'Europa una grande potenza sovrana, un super-potere capitalisti-co, un blocco di forze conservatrici (verdi o gialle, nere o rosse che sia-no)? Insomma qui si chiede un Europa di gente intelligente e povera, divertente e mobile, che sconquassa ogni assetto di potere costituito.  Può cominciare attraverso l'Europa una marcia zapatista della forza-lavoro intellettuale? Europa delle regioni, Europa delle Nazioni, Europa provincia imperiale, ecc., ecc.: e se, di contro, cominciassimo a parlare dell'Europa come non-iuogo rivoluzionano nell Impero?  Vale la pena di sottolineare che le condizioni qui poste rap presentano un diagramma nella costituzione non solo politica ma biopolitica dell'Europa unita. Dico «biopolitica», perché oggi le condizioni giuridiche universali (della citradinanza, del reddito, della proprietà comune) costituiscono la precondizione, ovvero il substrato ontologico, dell'esercizio stesso della libertà. La politica ha investito la vita cosi come la vita ha investito il politico: nella costituzione dell'Europa unita questo rapporto non può che essere ritenuto fondamentale ed irreversibile.  Per concludere provvisoriamente, mi sembra dunque che si debba dire:  un soggetto europeo (e con esso un'Unione europea che valga la pena) potrà essere formato solo da una nuova sinistra europea. La questione della costruzione dell'unità europea e quella della formazione di una nuova sinistra sono sincroniche.  Il nuovo soggetto europeo non rifiuta dunque la globalizza-zione, anzi, costruisce l'Europa politica come luogo dal quale parla-re contro la globalizzazione, nella globalizzazione, qualificandosi (a partire dallo spazio europeo) come contropotere rispetto all'egemo-  nia capitalistica nell'Impero.  Per ravvivare la discussione è forse qui utile proporre una reminiscenza del «potere costituente», e di come esso potrebbe agire, se immaginassimo l'Europa come «anello debole» nella catena del dominio imperiale, e quindi la costituzione unitaria dell'Europa come prodotto di una vera e propria «guerra civile» all'interno dell'Impero.  Al fine di dare realistica base a queste ipotesi, è necessario assumere che il comando imperiale non è per nessuna ragione disponibile ad ammettere un'Europa unita (ed unita a partire dalle nuove forze sociali antagoniste) come «contropotere» nella globalizzazione. Questo rifiuto è organizzato e rappresentato da frazioni importanti del capitale globale e trova la sua base nel conservatorismo della destra americana e nel pensiero unico del liberalismo mondiale. L«unilatera-lismo» americano non è solo «americano» ma capitalista, conservatore e reazionario. La grande metamorfosi imperiale ha sconvolto i parametri tradizionali della scienza politica e del diritto pubblico, e ha spinto importanti frazioni del capitale collettivo (globale) verso un accanito conservatorismo. L'«unilateralismo» è un tentativo di bloccare ogni movimento delle moltitudini e di fissare su condizioni immutabili il dominio del grande capitale sull'Impero. Da questo punto di vista, la proposta di un'Europa unita, che sappia (perché altrimenti non potrebbe trovarsi unita) dare spazio alle nuove forze sociali che la rivoluzione del modo di produrre ha creato - bene, questo, i padroni dell'Impero, i governi della destra e il capitale collettivo non lo voglio-  no. Bisogna dunque che si apra una lotta dura su queste alternative e che ci si impegni attorno ad essa su un programma di trasformazioni radicali. Solo in questo caso l'Europa potri diventare reale: e, diventando reale, presentarsi come «anello debole» della costituzione imperiale e quindi possibilità di nuova libertà per le moltitudini.  Ma ritorniamo al centro politico del nostro dibattito e discutiamo altre obiezioni. All'obiezione che l'iniziativa capitalista (neoliberale) nel costruire un Europa sub-imperiale è già troppo avanzata perché, a questa anticipazione, possa darsi qualsiasi risposta (dunque l'unica possibilità è la difesa degli Stati-nazione),  si deve rispondere: la resistenza nazionale non è più possi-bile, lo Stato-nazione (anche confederato) è già del tutto assorbito nelle dinamiche imperiali... Quindi c'è possibilità solo di rilanciare la lotta nell'Impero. La rivendicazione di «realismo» non consistenella propaganda della ritirata alla Kutusov, né nelle pratiche dell' «curoscetticismo», bensi nell'insistenza (anche in situazioni di ritardo, di sconfitta...) sulla costruzione di alternative globali che possono dar luogo ad eventi di rottura.  Noi dunque diciamo: puntiamo sulla costruzione di una sinistra (nuova) a livello europeo, piuttosto che su ogni altro obiettivo.  Sulla via della costruzione di questa (e dell'Europa) noi possiamo/dobbiamo investire il non-luogo imperiale, in maniera sov-versiva.  All'obiezione che l'Europa è povera, che non ha materie prime né petrolio, che ha una finanza ed una moneta completamente subordinate al mercato mondiale, che non ha la bomba né la capacità di decidere della guerra, ecc..  si deve rispondere che l'Europa è ricca di forza-invenzione e di forme di vita. Nella depossessione di materie prime, nella debolezza finanziaria e monetaria, nella estrema impotenza militare, non è la reinvenzione del «demos» o una solidarietà antica (demotica) che pre-miano, ma piuttosto una nuova immaginazione biopolitica che, nel rapporto con la mobilità tellurica dei lavoratori e dei poveri e la mobilitazione delle nuove intelligenze, si faccia esodo dalla miseria delle forme economiche e politiche della modernità. Ciò detto, è necessario sottolineare il fatto che ogni qual vol-ta, dall'inizio degli anni 70, l'Europa ha cercato di operare un passaggio istituzionale decisivo, sempre si sono tempestivamente determinate acute situazioni di crisi. Esse hanno avuto origine nel ventre molle dell'Impero, in quel Medio Oriente dove si forma il prezzo di uno dei beni essenziali dell'Europa, il petrolio, e dove dominano i governi più reazionari del pianeta. Questa coincidenza non può non essere presa in considerazione da una sinistra europeista. Essa deve aver coscienza che costruire l'Europa significa lottare, ad un tempo, contro coloro che fanno il prezzo del petrolio e contro i governi reazionari del  Medio Oriente, contro i Talebani del dollaro e quelli del petrolio. Per approfondire l'intera argomentazione fin qui condotta e rafforzare le conclusioni (l'Europa politica unita non dovrà essere tanto una nuova figura della sovranità quanto una «macchina da guerra» per l'estensione dei nuovi diritti fondamentali ai soggetti dell'Impero) vale la pena di aggiungere qualche riflessione sulmodello europeo di solidarietà sociale ovvero sul rapporto che si stende, nella tradizione e nell'avvenire, tra il diritto del lavoro e la costituzione europea.  Per trattare di questo tema penso che dovremo, prima di tutto, ricordare quanto sia ambiguo il riferimento ad un modello europeo di solidarietà sociale: un modello che, avendo trovato le sue origini nell'Obrigkeitstaat bismarckiano o nel rozzo sociologismo della III Republique, si è sempre caratterizzato (dal punto di vista giuridico) nella forma della subordinazione, (dal punto di vista economico) nel calcolo del costo di riproduzione della forma lavoro (del salario diffe-rito), (dal punto di vista politico) in funzione della pace sociale e del consolidamento dell'autorità statale - ed è stato spesso tradotto in solidarietà imperialista o bellica... Gli Istituti Nazionali per la Previdenza Sociale hanno linanziato gran parte delle guerre del X.X seco-lo. In esse s'è esaltata la disciplina biopolitica dello Stato-nazione, quella che ben si conclude nel nazional socialismo.  Ciò detto, resta tuttavia da aggiungere che il modello europeo di Welfare ed il diritto del lavoro che gli si incastonava dentro, sono venuti man mano registrando i movimenti antagonisti della forza lavo-  TO.  È sulla base delle lotte dei lavoratori che Welfare e diritto del lavoro si sono man mano, in Europa, emancipati dalle determinazioni corporative, populiste, colonialiste, imperialiste che li avevano percorsi.  È così che siamo arrivati ad un momento, fra i '60 e i '70, nel quale ci siamo illusi che il modello europeo si fosse liberato dalle sue iniziali condizioni, che dunque Sinzheimer avesse vinto e che l'ambiguità del modello europeo di solidarietà potesse definitivamente fondarsi su - e nutrire - la democrazia.  Non è stato così...  A partire dagli anni 70, le conquiste democratiche del Welfare europeo sono state scontrate dal neoliberismo ed i loro effetti spesso neutralizzati. I metodi della repressione hanno annullato forze altrimenti irresistibili e le hanno piegate alla sovradeterminazione del mercato globale, politicamente riconosciuto come potenza autonoma:  D'altra parte l'attività del diritto del lavoro «all'europea» è stata assai disturbata, quando non sia stata colpita nei suoi stessi presupposti. Ché infatti, se il suo progresso era conflittuale, legato alle lotte di un soggetto forza-lavoro (che aveva ottenuto riconoscimento costituzionale), ora questo soggetto (il sindacato) non era stato solo attaccato nella sua figura istituzionale, rappresentativa,ma gli erano state sottratte le condizioni di esistenza, Chiamiamo: postfordismo la situazione nella quale il sostrato ontologico (classe operaia) e la figura politica (sindacato) del conflitto industriale non esistono più come attore centrale.  Che cosa significa più, nel postfordismo, parlare di un modello (di una tradizione) europeo di solidarietà sociale quando (senza insistere sulle differenze ma supponendo omogeneità) le condizioni stesse della continuità non sembrano più darsi?  Che cosa significa, in assenza di un soggetto conflittuale forte, in condizioni ormai definitivamente stabilizzate di flessibilità e di mobilità della forza lavoro produttiva, riattualizzare o reinventare un diritto del lavoro su scala continentale?  E nella globalizzazione dei mercati, che cosa significa accostare Labour Law e European Constitution? Talora ho l'impressione che si dovrebbe fare come Roosevelt all'inizio del New Deal: imporre per decreto un nuovo soggetto sindacale per permettere la messa in forma di un nuovo Welfare: ma come è immaginabile oggi un tale disegno?  Ad accrescere le difficoltà di dar risposta a questi quesiti insorge un altro tema/problema: quello dell'immigrazione.  Nelle condizioni di globalità dei mercati, questo problema (è bene precisarlo) non si «aggiunge» a quello della regolazione (giuri-dica o politica) della forza lavoro indigena: gli è, al contrario, con-sustanziale  sia dal punto di vista dell'economia industriale (disponibi-  lità indefinita e costo limite zero del lavoro)  - sia dal punto di vista delle politiche budgetarie (pensioni-stiche, assistenziali, scolastiche e formative, sociali in genere...)  Sarebbe interessante qui riferirsi a, ed insieme forzare, quella categoria «frontiera» che Balibar - nei suoi ultimissimi scritti - considera ormai più ampia di «Stato-nazione». E comunque sparare a zero sull'attuale concetto di cittadinanza immobilizzato su spazi ormai derisori per la vita di un uomo qualunque e del suo bisogno di lavorare...  Di qui altre due questioni, alle quali siamo introdotti dal problema dell'immigrazione, ma che non hanno rilevanza semplicemente in questa prospettiva. La prima è: come viene configurandosi il controllo biopolitico sulla forza lavoro postfordista, mobile e flessibile, indigena o nomade?  E poi: come potrà un diritto del lavoro (su scala europea)  determinare un'eccezione (su scala globale) contro il controllo bio-  politico e la gerarchizzazione imperiale della forza lavoro?Antonio Negri. Keywords: implicature, potere-potenza, l’incubo, la differenza italiana, grammatica politica, assemblea, Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Negri," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Neri: l’implicatura conversazionale dell’aporia della realizazione – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “Neri is an interesting philosopher – he speaks of the aporia of the realization, which is intriguing, and considers that ‘objectivism’ started with Galileo, which is realistic!” Professore a Verona. Allievo di Banfi e Paci, rappresenta una delle ultime sintesi della Scuola di Milano, di cui riprende alcuni dei temi portanti: ricerca fenomenologica, analisi storico-politica, studi estetici. Rispetto ai suoi maestri, del cui pensiero è stato uno dei maggiori interpreti, sviluppa un percorso di ricerca originale, caratterizzato da una critica delle ideologie del Novecento e dei loro fallimenti, e da una lettura non dogmatica della storia contemporanea, volta a metterne in luce discontinuità e aporie. Forte di un'indole scettica e fedele al principio dell'epoché fenomenologica, Neri ha ripercorso le vicende della dialettica marxista, focalizzando in particolare la sua attenzione sull'Europa centro-orientale, e sulle varie forme di controcondotta e dissenso che, a partire dagli anni sessanta, sono andati germinando in quel contesto storico. I suoi autori di riferimento Husserl e Merleau-Ponty, Bloch e Lukács, Kosík e Kołakowskirivelano la tensione intellettuale tra ricerca teoretica e storica che ha caratterizzato il lavoro di Neri, dalle principali monografie, ai saggi su aut aut e Il filo rosso, fino al materiale inedito conservato presso l'Archivio N., da pochi anni istituito presso l'Università degli Studi di Milano.  Durante gli anni universitari, trascorsi tra Pavia e Milano, Neri ha l'occasione di frequentare gli ultimi corsi di Banfi, ormai lontano dalla fenomenologia e intento a perfezionare (e radicalizzare) il suo umanesimo di stampo marxista, e dell'ancor giovane Enzo Paci che, in quegli stessi anni di dopoguerra, intraprende un confronto innovativo con gli esiti della ricerca husserliana, e in particolare con i contenuti della Crisi delle scienze europee, oggetto di numerosi corsi. Proprio questo "apprendistato fenomenologico", secondo l'espressione di Fausti, ha consentito a N. di acquisire un metodo di ricerca che lo ha accompagnato, non solo nei suoi studi delle opere di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka (dei quali traduce e cura varie pubblicazioni), ma, più in generale, nell'analisi del pensiero storico e politico novecentesco. A questi interessi va ad aggiungersi quello per l'arte e l'estetica, decisivo in questi primi anni, e dovuto in particolare agli insegnamenti di Formaggio, con cui N. si laureò. Neri continuerà a interessarsi a questi temi anche negli anni successivi, dedicando diversi scritti a Panofsky (della cui Prospettiva come forma simbolica cura nell'edizione) e a Caravaggio, e interrogandosi sul rapporto tra fenomenologia ed estetica.  Agli anni di studio, segue una fase di ricerca che lo porterà nei primi anni sessanta a Praga, ospite dell'Accademia delle Scienze della Cecoslovacchia e, in seguito, negli Stati Uniti d'America, dove è visiting scholar a Pennsylvania. A Praga, Neri entra in contatto con la giovane generazione di intellettuali cechi che, in questi anni cruciali, portano avanti l'idea di riformare il socialismo dal suo interno, a partire da una profonda reinterpretazione del materialismo e della prassi marxiana. È grazie a N. che in Italia si diffondono le opere di Kosík e di Patočka che, pur così profondamente diversi, condividono con Neri l'interesse per la fenomenologia e la politica. Durante la sua esperienza americana, N. dedica a Marx una serie di lezioni e conferenze, i cui testi inediti, facenti parte del Fondo N., sono conservati presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Analizzando il pensiero di Marx, N. si rifà in particolar modo, oltre che all'insegnamento di Kosík, agli scritti di Petrović e alla scuola jugoslava legata alla rivista Praxis. Tornato in Italia, inizia un lungo periodo di insegnamento a Verona, durante il quale incentra i suoi corsi sulla fenomenologia post-husserliana, su Bloch, sull'idea filosofica di Europa e la sua eredità, a seguito del fallimento dei principali progetti politici novecenteschi. Escono in questi anni le sue opere più note: “Aporie della realizzazione”, sulla filosofia e l'ideologia dei paesi del socialismo realizzato, e “Crisi e costruzione della storia”, dedicato, ancora una volta, al maestro Banfi.  In più occasioni, manifesta il suo debito nei confronti dei suoi maestri milanesi, per averlo iniziato allo studio della fenomenologia. In tal senso, il passaggio dall'insegnamento di Banfi a quello di Paci è decisivo. «Al centro non era piùscrive Neri poco prima di morire, ricordando quegli anniil "disperato razionalismo" del fondatore della fenomenologia: il fuoco della rilettura era diventato il "mondo della vita" e la critica dell'obbiettivismo moderno». Un pensiero che ben si presta a una generazione di giovani studiosi che, durante gli anni sessanta, si raccolgono intorno a Paci, desiderosi di affinare un pensiero che consenta di riguadagnare un sguardo disincantato, ma non indifferente, sulla realtà sociale e culturale circostante, contro «l'asfissiante razionalismo» di Banfi e, più in generale, contro l'impronta culturale del PCI.  Neri rientra in questa nuova leva di studiosi e in questi termini si possono interpretare anche i suoi studi fenomenologici. «Con il tema del mondo della vitaribadisce N., in un altro tra i suoi scritti più tardila fenomenologia mostrava di saper affrontare i problemi posti dalle scienze storiche e sociali, dall'antropologia culturale e infine anche dal pensiero marxista». L'esempio di Paci, tuttavia, che cercò a tutti gli effetti di coniugare metodo fenomenologico e dialettica marxista, è seguito dall'allievo solo parzialmente, lasciando la sua impronta più visibile nel volume Prassi e conoscenza, una cui parte è dedicata ai critici marxisti della fenomenologia. Col passare del tempo, tuttavia, Neri adotta una posizione di sempre più evidente rottura, prediligendo a qualsiasi tentativo conciliatorio una critica fenomenologica del socialismo realizzato e delle sue distorsioni. A tal proposito, il confronto con Kosík e il dissenso, all'interno del socialismo reale, giocano un ruolo di primo piano.  Come si evince dalla sua “Aporie della realizzazione,” distingue due fasi e due generazioni di filosofi, all'interno della complessa crisi del socialismo in costruzione. Da una parte, la prima generazione è rappresentata da Lukács e da Ernst Bloch. Proprio al pensiero di quest'ultimo, alle sue concezioni di storia e di utopia e ai suoi numerosi ripensamenti, Neri dedica una lunga analisi, che tornerà periodicamente anche negli anni successivi, come testimoniano i programmi dei suoi corsi universitari. A Bloch è ispirato, d'altronde, il titolo del libro, che N. ricava da una pagina di Principio speranza. È all'interno della dialettica tra realtà e realizzazione, tra condizione presente e speranza futura, che N. individua l'andatura del socialismo reale, della sua filosofia e della sua ideologia. Solo con la seconda generazione di filosofi, tuttavia, le aporie della realizzazione socialista vengono veramente al pettine; la malinconia di Bloch cede infatti il passo allo sguardo scettico di Kołakowski e al tentativo di Kosík di rileggere la dialettica marxista in termini concreti, al di là di ogni deriva ideologica. Dello stesso tenore è anche il libro su Banfi, Crisi e costruzione della storia, di pochi anni successivo, in cui N. si confronta con lo stesso tema della realizzazione, inteso stavolta nei termini del tentativo banfiano di costruire un percorso storico su basi razionali, oltre la crisi della civiltà moderna, verso una nuova prospettiva umanistica. Alla luce del ritratto offertoci da Neri, che si concentra in particolare sugli anni trenta, intesi come momento cruciale per lo sviluppo della teoria banfiana, emerge un'immagine di Banfi particolarmente complessa, nella quale la svolta ideologica e l'adesione al comunismo non offuscano il perdurare di uno spirito critico e di una prospettiva europea, che si sviluppa al di là dei particolarismi delle filosofie nazionali.  L'Archivio N. -- è stato creato presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano l'Archivio N. In tale archivio è raccolta un'imponente quantità di materiali inediti, che comprendono riflessioni, appunti per corsi e seminari, annotazioni di viaggio, corrispondenze. Sono considerati di particolare rilievo, in vista di futuri studi sul pensiero filosofico di N., i 149 quaderni, contenenti le riflessioni del filosofo, dalla metà degli anni cinquanta, fino alla sua morte. Attraverso la lettura di questi scritti, ora completamente consultabili e in corso di digitalizzazione, è possibile chiarire il rapporto e gli scambi di Neri con altri rappresentanti della filosofia milanese: da Banfi a Paci, da Dal Pra a Preti. Grande importanza rivestono anche i commenti in presa diretta su alcuni tra i più rilevanti avvenimenti storici del Novecento: dall'invasione sovietica dell'Ungheria, alla Primavera di Praga, fino al crollo del socialismo reale. A ciò si aggiungono le riflessioni sul ruolo della filosofia nella società, sul modo e l'opportunità di insegnarla, e sulla sua tenuta, di fronte alle scosse della storia.  Saggi: : “La fenomenologia della prassi  (Milano, Feltrinelli); “Il partito socialista italiano” (Milano, Feltrinelli); “Crisi e costruzione della storia” (Napoli, Bibliopolis); “Il sensibile, la storia, l'arte” (Verona, Ombre Corte, F. Tava, su Open Commons of Phenomenology. G. Scaramuzza, Presentazione, in Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, Materiali di Estetica, Archivi. su sba.unimi. degli scritti di in aut aut, n. Atti della Giornata di Studio e di Testimonianze svoltasi presso la Fondazione Corrente, Milano, in Materiali di Estetica, Quando tra noi  Ricordo, amici, colleghi e studenti, Pizzighettone, Viciguerra, L. Fausti, Tra scepsi e storia. Un percorso filosofico, Milano, UNICOPLI,. L.Frigerio e E.  Mazzolani, Iin Sistema Università,  A. Vigorelli, Fenomenologia e storia. A partire da Patocka: itinerario filosofico, in Leussein,  F.  Tava, Open Commons of Phenomenology. sba.unimi. Fondo librario. Grice: Mussolini used to say that Garibadi spoke of the ‘popolo’ while he speaks of the ‘nazione’ – and a nazione has a plusvalue over popolo. Il popolo e l’asino, l’asino e il popolo utile paziente e bastonato. Grice: “Neri made a great contribution or the spreading of Husserl’s interpretation of their own Galileo n Italy. Who is this Jew to tell us anything about our glorious Pisan? Husserl saw Gailei as a Platonist. Neri made a translation of Husserl’s essay on Galileo and included in a saggio with the title GALILEO in it – in this way, he gathered the attention of every Italian philosophical Galileian!” Grice: “Perhaps the best introduction to Italian socialist politics are the commentaries Neri made to the cartoons in the asino, which he entitled, bitingly, the bite of the ass!” Grice: “Oddly, bite is an attribute of ass – when a retrospective of the cartoons was held, the cliché journalese when ‘satira morente’ -- -- estetica di Diderot, senso e sensibile, il sensibile, la sensazione, il Galileo di Husserl. Guido Davide Neri, su sba.unimi. Neri. Keywords: aporia della realizzazione, il mordo dell’asino, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Neri” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Nerone: il melodramma di Boito -- Roma – la scuola d’Anzio -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Anzio). Filosofo italiano. Anzio, Roma, Lazio. Filosofo epicureo e imperatore romano. Demetrio Lacon dedicated a philosophical essay to Nerone, making it extremely like that Nerone was himself a follower of the doctrines of The Garden. ao ss  TN  Bo ZA SI gia   SE  er ES  7 VIS    \ Rai COSI Sega pr e da ansa Mi, pe sud o,  e RICORDI MILANO 1( @ISERI (mpradigeile) POS \  DI Li ‘A DG DI 8 li 7  LALA Ss INI  (EL fn ra SI ;  CS ‘ pi”  x "n ':   lr” t DS Ù Ì  N ? Ò FINE Nine  {UMBERTO PIZZI BULOGNA Via Zamboni Imprimé en Italie BOITO TRAGEDIA IN IV ATTI AUMENTO COMPRESO LE PERSONE DELLA TRAGEDIA: NERONE  SIMON MAGO FANUÈL ASTERIA RUBRIA TIGELLINO GOBRIAS DOSITÈO PERSIDE CERINTO IL TEMPIERE TERPNOS PRIMO VIANDANTE SECONDO VIANDANTE LO SCHIAVO AMMONITORE I VARII AGGRUPPAMENTI DEL CORO: Ambubaje - Fanciulle Gaditane - Acclamatori - Cavalieri Augustani - Liberti - Fautori di parte frasina - Fautori di parte azzurra Popolo Schiavi Plebe Senatori Una compagnia di Artisti Dionisiaci, Tre decurie di Guardie Germane Eneatori Sacerdoti del Tempio di Simon Mago - Matrone - Classarii - Pretoriani - Cristiani Aurighi della fazione verde - Aurighi della fazione azzurra. PANTOMIMI, DANZATRICI, APPARITORI: Una puella Gaditana L’ Arcigallo Un venditore d’idoli Un venditore di tavole  votive - Un mercante orientale Un flamine - L’auriga vincitore L’ auriga vinto Un lanista Due Mercurii Due Caronti Alcuni Etiopi Viandanti - Lettigarii - Clienti Servi Danzatrici Gaditane Corrieri Mauritani I due Consoli - Littori Preconi Due Tribuni della plebe Legionarii - Galli - Greci Rheti Indiani, Armeni, Egiziani, Fanciulli patrizii, Fanciulli cristiani, Fanciulli Asiatici, Cavalieri, Phaiangarii, Matrone, Marinai, Citaredi, Sistrati, Auledi, Ieroduli, Flabelliferi, Tre  Tempieri, Alcuni Decurioni, Alcuni Centurioni, Guardie Germane, Gladiatori, Alcuni bestiarii, Istrioni, Sagittarii. Tai   % VA  Il  bh  NI  E  fighe: Ri di ST Mr Acenta) MAN CI 1a  SOR MN LIERE T #1"Ri N. TIRA GGEDRARENCF OUATTPEROSTASITI PAROLE E MUSICA DI BOITO RicoRDI PRIMA MILANO, TEATRO ALLA SCALA  PERSONAGGI  N. Pertile; SIMON MAGO, Journet  E e Galeffi  MORERTA SC del 5 Raisa MERA e, » Bertana  ME UCINO n e e Pinza  BIRBRIAST: Nessi  O i a BERSIDE N. . Sig Mita Vasari  MINT ne, » BERLEMPIERENS e, i Venturini  PRIMO VIANDANTE.Tedeschi  SECONDO VIANDANTE Menni  LO SCHIAVO AMMONITORE Baracchi  MIS SOL INLLÎNI MAESTRO DIRETTORE E CONCERTATORE  TOSCANINI Maestri sostituti: CALUSIO – CLAUSETTI FORNARINI  FRIGERIO - RAGNI - ROSSI - RUFFO VOTTO  Maestro del Coro: VENEZIANI Maestro della Banda: MORRONE  Maestri suggeritori: PETRUCCI e DELEIDE  Coreografo : PRATESI - Prima ballerina: FORNAROLI Direttore della messa in scena: FORZANO  Direttore dell’allestimento scenico: CARAMBA Scene, costumi ed attrezzi su bozzetti di POGLIAGHI  Scenografo: MARCHIORO colla collaborazione di MAGNONI    Primo Violino di spalla: Giro MNastrucci  Primo dei secondi Violini: Odoardo Peretti Prima Viola: Koch  Primo Violoncello: Valisi - Primo Contrabbasso: Zfalo Caimi  Primo Flauto; Tassinari Ottavino: ATrevisan  Primo Oboe: Trapani  Corno Inglese: Ghignatti - Primo Clarinetto: Cancellieri  Clarone: Capredoni - Primo Fagotto: Mazzini Paltrinieri  Sarrussofono: Giuseppe Regarbagnati - Primo Corno: Michele Allegri  Prima Tromba: Edriondo Botti  Primo Trombone; UVsberto Montanari  Basso Tuba: Saverio Scorza - Prima Arpa: Giuseppina Sormani  Organo e Pianoforte: Antonino Votto - Celesta: Eduardo Fornarini  Xilofono, Sistro e Batteria: Augusto Bergami Gran Cassa e Piatti: Arancesco Veronesi Timpani: Barilli    ispettori del Palcoscenico: Duma e Cellini  Vice ispettore: Rocchi  Direttori del macchinario: Giovanni e Pericle Ansaldo  Costumi della Sartoria Teatrale Chiappa  Attrezzi della Ditta Aancazi et C. di Sormani Tragella et C. Gioielleria della Ditta Angelo Corbella  Parrucchieri: Biffi e Sartorio  Piume e Fiori della Ditta Virginia Ranzini Istrumenti musicali della Ditta Strumenti Musicali Bottali La è fa 9.41 TNT Hi  PI n RARI T IR  d wa  È Lal  AVALETCAUIT ATE PAIA  RO  i. È un campo situato (per chi va da Roma ad Albano) lungo il lato destro dell'Appia,  alla sesta pietra milliaria. La via segue una linea obliqua fra questo e gli altri  campi che si estendono dall’altro lato. La notte è nuvolosa. La luna pènetra a stento le dense nubi che la nascondono.  Sull’Appia e sulle sue tombe l’oscurità è appena diradata da un barlume cinereo  che non projetta ombre ; il campo nereggia più cupo.   Sul lato destro della via, dalla parte di Roma, s’innalza un grande sepolcro che si  prolunga nell’erba; gli si allinea d’accanto, progredendo verso Albano, una tomba  recente su cui sta per estinguersi una lampa funeraria. Tra questa tomba e il milliario lo spazio è libero; poi segue una pietra sepolcrale quadrata e, poco discosto  da questa, un vasto tumulo erboso che porta sul suo vertice le vestigia d’un’ara.  Altre tombe si schierano sulla fronte sinistra della via. Molti rottami d’antichi monumenti sono sparsi intorno al grande sepolcro ed ingombrano anche il breve spa-  zio che lo divide dalla tomba recente.   Fra questi ruderi un uomo, nelle tenebre, sta scavando una fossa. È Simon Mago.  Sul margine della via un altro uomo guarda, immobile come in vedetta, nella direzione d’Albano ; egli porta il cappuccio della lacerna sul capo. È Tigellino. La notte è piena di canti che giungono dalla vasta campagna, dalle lontananze  dell'Appia; frammenti di canzoni portati dal vento, dispersi dal vento.VOCI LONTANE E SULLA VIA Canto d’amore  Vola col vento,  a SIMON MAGO Torna col vento...  i?  E lui: Passa un viandante che va verso Roma TIGELLINO con una bisaccia a spalle ed un bastone.No. LA GUARDIA DEGL’ACQUEDOTTI SIMON MAGO lontanissima  Forse lo atterrì quel grido. Terza vigilia...TIGELLINO Odilo ancor, là... verso via Latina. SIMON MAGO  Pur ch’ei non l’oda!    TIGELLINO    È profonda la fossa? | SIMON MAGO Profonda. Ma dalla parte d’Albano s'è udito un  urlo di spavento: Tigellino sbalza sul-    la via e incontra Nerone fuggente, ravvolto in una toga funebre e che porta  un'urna cineraria fra le braccia. TIGELLINO  ‘ accorrendo al grido  Mio Signor N. ansando di terrore ed accennando dietro di sè: L'Enanidzlatt. TIGELLINO  dopo aver osservato È il tuo delirio.  N. No. La vidi...surse. Cinta di serpi... squassava una face...  Poi la ingojò la terra. TIGELLINO lo sorregge, lo fa sedere sulla pietra  sepolcrale che sta fra il milliario ed il  tumulo.    Qui ti posa.  TIGELLINO  Dove lasciasti il corteggio?  N.  A Boville. VOCE FERALE NEL LONTANO N.-Oreste il matricida Ancor più nel lontano risuona il canto  di "prima :  Canto d’amore  Vola col vento,  Torna col vento. Ricominciano le canzoni della notte.  Volano per l’aria le parole d’una stro-  fa amatoria di Petronio Dolce ridente Lalage. Giunge sull’Appia da Roma un’allegra comitiva al lume d’una torcia.  Vanno a passo vivo verso Albano. Risuona una voce con questo  epigramma Citarizzando scorda l'Impero... TIGELLINO  sottovoce, come parlando Balza il vento e ne porta le canzoni  Or dai monti, or dall’Urbe. N. trasalendo ed alzandosi    Ancor quel grido! TIGELLINO È la canzon d’un ebbro; porgi. Fa per prendere l’urna che N.  stringe fra le braccia.  N.  No.  lo l’urna porterò sino alla méta. N. entra nel campo coll’urna fra   le braccia. Tigellino al suo fianco lo guiderà fra le tenebre, lentamente.  Giunti alla fossa si arrestano. N. Simon. Mago dov'è?    Nerone depone l’urna sul suolo, presso  la fossa. SIMON MAGO  che non s’è mosso dal campo Qui supplicante  I Mani d’Agrippina. VOCI LONTANE  trasfondeva col bacio il iabro al  [labro...  l’anima errante progenie nova dal ciel...  . ave, anima. Una voce lugubre si sparge nella not-  te; s'odono queste parole: Voce dall'Oriente!  Voce dall’Occidente! seguite dal popolarissimo verso d’una  atellana: Torna Onesimo dai campi...  e dal grido ferale:  N.-Oreste il matricida N. subitamente, atterrito  AN! tu mi salva!  Lava il mio matricidio! Orrenda vita  Vivo, pe’ gioghi di Campania in fuga,  Meco traendo il delirio, le Eumenidi  Flagellatrici e lo spettro materno! SIMON MAGO Dagli insepolti corpi emanan larve.  Pronta è l’inferie. TIGELLINO  Finchè il rito dura,  Vigilerò. i  Poi s’avvicina a Simon Mago e con accento concitato, staccandolo da  Nerone, sommessamente gli dice :  Spingilo a Roma, incìta  L’audacia in lui; s’ei teme siam perduti.  Ritorna sulla via Appia e s’apposta presso la colonna milliaria. N.   prono sulla fossa ed immobile, incomincia come chi proferisce parole  preparate con arte:    Queste ad un lido fatal insepolte ceneri tolsi, Qui le trassi dove stende Roma sue tombe;  Sacro sempre fu ridonare agli estinti la patria.  S’inginocchia.    Ecco, mi prostro, m’atterro, m’accuso.   Se dei defunti lo spirto penètri   Nell’alme nostre, il mio contempla, madre,  Interno orror. quasi senza suono, inorridito e coprendosi il volto colle mani    lo son l’ultimo vivo  Di tua tragica stirpe, in me il Destino  Tutte aduna sue forze e le consuma. M’invade il Nume antico! È l’opra mia  L’opra del Fato! ergendosi fieramente    E ben dicea quel grido:  Io sono Oreste! PSA 0) Ho. d, PRI SIMON MAGO    E tua Tauride. N. intuendo con gioja il pensiero di  Simon Mago  ..è Roma!  Passa una famiglia di gladiatori; la  precede il lanista, riconoscibile alla  lunga ferula che impugna; gli sta a fianco uno schiavo con una lanterna. TIGELLINO Vanno silenziosi verso Roma.  dall’Appia, sommessamente ma energico  Zitti! Vien gente. sottovoce, ma concitato    Presto. N.  a Simon Mago, con ansia  T'affretta. Si sotterri l’urna. SIMON MAGO A te. N. esita ad afferrare l’urna. Paventi? N.  No. SIMON MAGO    Presto.    N.  angoscioso  M’ajuta.  Simon Mago lo ajuta a calar l’ urna  nella fossa. grescreazbiapiz indenni  DO SIMON MAGO    N.  Più profondo. Più profondo ancora.  Simon Mago comprime l’urna nella  buca; poi, con la vanga la copre di  terra finchè la fossa è ricolma. N. a Simon Mago È fatto?    SIMON MAGO  È fatto.    N. Nascondi la vanga.  Simon Mago va a nascondere la vanga  fra i ruderi, poi ritorna, prende dal-  l’acerra alcuni grani d’incenso, li spar-  ge sull’ara thuraria, immerge l’aspersorio nell’idria, raccoglie da terra il velo nero, lo distende. SIMON MAGO copre la testa e il viso di N. col  velo, insino al petto.    Ti copra l’atro vel. N. Ajuta! Ajuta  L’anima mia!    SIMON MAGO tracciando con l’aspersorio dei segni  arcani nell’aria  Redimo te! Ti prostra.  Amen rispondi.  N. tutto prosteso, toccando con la fronte  la terra, ripete:    Amen. Dalla via Latina giungono col vento gli antichi anapesti d’Ibycos: Eros vibra da l’umide ciglia lo stral  che riapre l’antica ferita d’amor. Passano sull’Appia due giovani viandanti; quello che canta poggia il braccio sulle spalle dell’aliro. Vanno verso Roma.  Ancora dalla via Latina s’odono gli  anapesti:    ...ed io fremo siccome l’ardente corsier  che ritorna alle gare del Circo. ì  H  ì  s  dI  ì i i  fl  È  I ANI IOTTZION LE  SIMON MAGO  Ti rialza.  Lo ajuta a sollevare il capo e îl petto, malo mantiene ancora genuflesso. Spargi i libami. La luna si fa più torbîda. Simon Mago s’affretta a porgere a Nerone  la tazza libatoria.  N. h I    E sangue? SIMON MAGO  È sangue; innaffiane la fossa,  E nel versar torci il volto.  N.   Ho paura.  La luna s’è rannuvolata. Nerone piglia la tazza, ma esita a versare    il sangue sulla fossa.  SIMON MAGO Versa. Coraggio N.    inclina la tazza, gira il capo e, attraverso il velo che lo copre, scorge  dietro di sè, fra il gran sepolcro e la tomba, una figura spettrale sorta  da sotterra, che innalza una face ardente ed ha il collo avviluppato da serpi come un’Erinni. A quella vista egli balza în piedi inorridito    e corre a ripararsi dietro il tumulo, gettando un grido: Orror! SIMON MAGO  (NANO  Dopo un attimo di sorpresa va a prosternarsi ai piedi dell'apparizione.  TIGELLINO  che ha udito le grida, vede quella sembianza d’Erinni ed esclama: D’onde uscì ? UN VIANDANTE  Qual grido?  UN ALTRO VIANDANTE  Olà! chi grida? TIG ELLINO  Via di qua! IL PRIMO VIANDANTE  Chi è costui ?  IL SECONDO VIANDANTE  Chi è costui?  IL PRIMO VIANDANTE  È Tigellino. N.  come attratto da un fascino verso quella figura ferale che lo guarda:    A sè m'attira. TIGELLINO    afferra Nerone al braccio sinistro e lo sforza a seguirlo al di là del  tumulo. Vieni Il velo, che copre il capo di N., cade. Appena il volto di N..  si scopre,  L’ ERINNI  drizza il braccio verso di lui e con un grido irruente lo nomina: N. N. fugge con Tigellino dalla parte di Albano. L’Erinni fa un passo per inseguirlo, ma il corpo di Simon Mago, prosternatole davanti   fra le tombe e î ruderi, le preclude ogni via ed essa rimane come im-   pietrita, col braccio teso, atrocemente pallida e cogli occhi sbarrati  e fissi sul tuinulo da dove è scomparso N.. La campagna è ancora immersa nelle tenebre; solo la face dell’Erinni  sparge un circuito di luce.  SIMON MAGO sempre genuflesso, a capo chino, osserva celatamente, girando in basso gli sguardi, se il campo e la via sono rimasti deserti; accerta-tosene, si rialza, afferra ai braccio quella figura atteggiata a stupore  catalettico e le dice, calmo: Sei colta. ARA fo L’ ERINNI (ASTERIA)  senza scuotersi, con voce incolore, come irasognata    Chi ama la morte  Toccar mi può. SIMON MAGO abbandonando il braccio d’Asteria, ma badando sempre ad impedirle  la via  Non sperar ch’io paventi.  L’idre al tuo collo attorte  O son morte o morenti. ASTERIA appoggia la face al sepolcro, appressa le mani al suo collare di serpi  e con gesto lento di minaccia risponde:  Sperder potrei la malìa che le assonna  E avventartele.  Simon Mago prende la face e la solleva per rischiarare la persona    d’Asteria. Asteria veste una specie di kalasiris egizia, a tinte fosche;  ha le braccia nude, i capelli nerissimi sparsi in molte trecce sottiti    SIMON MAGO    Donna  Strana ed audace, avernalmente bella,  Tu sembri al raggio di questa facella  Medusa, Ecate, Sfinge,  Fumenide o dimòne.  Chi sei? Chi cerchi? Qual forza ti spinge ?  Perchè insegui N.? ASTERIA    È il mio Nume e lo adoro! A notte cupa,  Quando negli antri del funereo suolo  Vagolo al pari di piagata lupa  Ululando il mio duolo,  lo lo invoco! Egli è l'Angelo crudel  Che popola di spettri le tenèbre,  Che scuote sulle plebi infami ed ebre  Il sublime flagel.  il mio Nume e lo adoro.  Sotto un vel ora apparve a me davante. Poi sparve là. Con un impulso subitaneo si slancia sulle tracce di Nerone, ma SIMON MAGO trattenendola a forza, l’arresta di colpo.  Ferma! o il tuo Dio ti sfugge. ASTERIA  dibattendosi dolorosamente fra le mani di Simon Mago  Vo’ seguirlo.... pietà! L’orror m’attira  Come un amante.... e nell’estasi vivo  De’ violenti sogni.... ebbra di pianto.  E son dell’idre incanto  E il colùbro m’allaccia e il sen mi cinge  E il petto mi rinserra  E stringe.... e lambe....  bduerra.ra  E nell’amplesso della viva spira  Sento ancora quel Dio che mi martira SIMON MAGO  Dove ancor lo scontrasti? ASTERIA  Sulle rive  D’Anxur, tre notti son. SIMON MAGO Ed ei nel viso [ha&scorta”? ASTERIA    Oh! come mi guardava fiso !  Ma il suo corsier impaurito il trasse  Lontan, fuggendo, al lume della luna.  Rimane ancora un poco assorta in ciò che descrisse.  Ma tu chi sei che dell’anime lasse  Tenti il facil segreto e il facil pianto? SIMON MAGO Son tal che rialzar può il volo infranto  Del sogno tuo. ASTERIA  Tu SIMON MAGO  Sì. Nessun mai sappia  Chi sei, nè ciò ch'io dissi. ASTERIA Mai. SIMON MAGO  raccoglie l’acerra. S’ asconda  Quest’ acerra. ASTERIA  indica a Simon Mago il posto da dov’essa è apparsa: Qui.  SIMON MAGO  Dove? Asteria prende la face e conduce Simon Mago fra le due tombe ove i  rottami nascondono un forame del suolo da cui si discende in una  cripta.  ASTERIA Qui, sotterra, E un antro oscuro d’ avelli cristiani   Che si riapre dietro a quei delùbri.  Dicendo queste ultime parole accenna ad una località oltre il tumulo,  verso Albano. Simon Mago depone l’acerra presso l'apertura della  cripta, poi va a raccogliere l’ara thuraria, il velo nero e l’idria in cui  pone la tazza c l’aspersorio e ritorna là ove discende; lascia cadere   gli oggetti nel forame della cripta, salvo l’acerra e il velo. SIMON MAGO    Dammi la face.    Asteria porge la face a Simon Mago che sta per discendere nel sot-  terraneo. SIMON MAGO Qui sarai domani  Col sol morente.    Scende due gradini e s’arresta.  Ascondi quei colùbri.    Così dicendo porge il velo nero ad Asteria che lo prende e lo bacia  e se ne avvolge il collo e il petto. Simon Mago, coll'acerra e la face,  è sceso nella cripta fino alla cintola. S’arresta ancora una volta per  dire ad Asteria:  Ma pensa al fato che invochi su te. Bada! il tuo Nume ha carezze omicide. ASTERIA. Amor che non uccide  Amor non è!    E s’abbandona sulla tomba che le sta dietro; quivi, giacente, rimane.  Simon Mago scende tre gradini della ‘cripta con la face in pugno e  scompare sotterra. Incominciano a diffondersi le prime trasparenze dell’alba. Il cielo si  rasserena. La profonda quiete dell’ora s’estende su tutta la campagna  romana. Una donna in bianca stola, Rubria, viene dalla parte di Roma, s’arre-   sta davanti alla tomba recente, estrae un’ampolla e la vuota nella   lampa funeraria; il lumignolo si ravviva e riarde. La donna s’inginocchia, inclina il capo sulla tomba, congiunge le mani e, nell’alto  \ silenzio che la circonda, prega così: RUBRIA  Padre nostro che sei ne’ cieli, sia  Benedetto il tuo nome. Venga il tuo Regno alla tua gente pia,  Sia fatto il tuo voler in terra, come   Nell’ Empiro immortale.   li nostro pane cotidian ne dona, Come noi perdoniam tu ne perdona. Fa ch'io riveda quel che m’abbandona. Liberaci dal male. ASTERIA che giace sulla stessa tomba dove l’altra ha pregato, con voce fievole  come un sospiro    O soave preghiera! RUBRIA  si alza, guarda dalla parte d’onde viene il sospiro e dice: Anima che sospiri, sorgi e spera. ASTERIA  lentamente sorgendo O divine parole!    RUBRIA  appressandosi ad Asteria colle mani sporte e offrendole fiori Spargiam insiem le rose e le viole  Sulla terra dei Santi. mani ZO SIT    ASTERIA  Il dono pio  Porgi. E prende, con movenze estatiche da sogno, i fiori e ne cosparge la  tontba, insieme a Rubria, e le zolle d’intorno; ma, giunta all’ultimo  fiore, esita, s’arresta, lotta un istante contro un impulso interno,  poi dice:  No.... no.... stuggir devo gl'incanti  Del tuo pregar. Io cerco un altro Iddio !  E fugge impetuosamente verso Albano. Rubria ritorna davanti alla  tomba a pregare. Un viandante, Fanuèl, passa sull’Appia, d’accosto a Rubria, la vede,  s’arresta, la guarda assorta nella sua preghiera. RUBRIA  solleva il capo, volge il viso, lo vede e lo nomina:  ‘ Fanuél!  FANUÈEL Non t’alzar. Il nostro addio  Sia questa prece che sale al Signore  Fra i bagliori dell’alba. Rubria ricomincia a pregare con intenso fervore. Fanuèl continua a  guardarla fissamente. RUBRIA  levando gli occhi pieni di lagrime al cielo  In te sperai! FANUEL con voce commossa Piangi ? Perchè ?  RUBRIA  Ho un peccato nel core. FANUEL  Lust?  RUBRIA  Fanuèl. Non ti vedrem, più? mai?  FANUÈL  Seguo mia stella verso ignoti porti.  guardandola fiso negli occhi  Confessa il tuo peccato.  RUBRIA    Perdonar mi saprai se tutta dico  La mia colpa? Mentre Funuèl sta per rispondere, s’avvede che l'apertura del sot-  terraneo si rischiara e che un uomo, con una face in mano, viene  salendo lentamente dalla cripta.    FANUÈL  sottovoce, a Rubria, indicando il posto Un agguato!  V’è un uom fra i nostri morti. Fa qualche passo nel campo per ravvisario.  (E Simon di Sebàste. RUBRIA  tutta sgomenta e a bassa voce  Il gran Nemico! FANUÈL  Corri dai nostri, va, narra gli avelli  Spiati. x  RUBRIA  guardandolo con ansia  btu  ‘ FANUEL Poichè un periglio incombe  lo resto coi fratelli.)    Rubria si vela il viso e s’avvia rapidamente dalla parte di Roma. La luce, mite ancora e senza raggi, a grado a grado discopre le cose   remote, gli edifici sparsi qua e là nel fondo della campagna, gli archi   del doppio acquedotto dell’aqua tepula e Marcia, qualche fastigio  dei monumenti sepolcrali della via Latina.   Molto lontano, forse dall’ottavo milliario, s’odono squillare, nel puro silenzio dell’alba, alcuni appelli di trombe.   Simon Mago, senza accorgersi d’essere osservato, s'è messo in ascolto,   si dirige verso il tumulo, lo sale insino alla cima e guarda attenta-  mente dal lato donde giungono gli squilli. FANUÈL    che ha seguîto collo sguardo ogni passo di Simon Mago, s’inoltra nel  campo e lo chiama:  Simon. SIMON MAGO  dal tumulo, volgendosi    Tu! Qui?! Gloria al tuo Dio dall’ alto  Di queste tombe!  Vieni e vedi.  Fanuèl. esita sorpreso, poi sale anch’ esso sul tumulo ov’ è Simon  Mago. Le trombe continuano a squillare. SIMON MAGO S' avanza una gran nube  Di turbe. Echeggian trionfali tube.  È il matricida, ei vien col suo corteo  D' istrioni e d’ Eumenidi all’ assalto  Del mondo reo,  Poi, con un gesto largo che abbraccia tutto l’orizzonte :  Pensa: i Reami, i popoli, le. Glorie,  Le corone, gli scettri, le Vittorie,  Tutti i raggi di Roma e di Nerone  Non son che luci moribonde e torbe  D’ innanzi al sogno mio, d’innanzi a te:  Sui sette colli un Tempio (o Visione !),  Un Tempio eterno che soggioghi l Orbe,  MinESSO l’altare ‘tu, Profeta. e’ Re.  . Tutto l'incenso che 1’ etere assorbe  Vapora, immensa nuvola, al tuo piè!    Guarda quaggiù. Pel sangue che l’inonda  L’arca d’oro di Cesare sprofonda,  Furibonda ruìna e precipizio.   Plebi nefande confuse nel vizio   Plaudono a Roma che canta e che crolla.  Tremano tutti: Cesare, la folla,   Le coorti. Fischiò dagli angiporti   Già il greculo rubel. Cadono i morti   Nel Circo e cadon nel triclinio i vivi   E i Numi in ciel! Ma tu su quei captivi  Del fango e della porpora distendi   Le tue mani, la tua virtù mi vendi;  Due Sovraumani vedrà il mondo allor!  Vendi il miracolo, t’ offro dell’ or. FANUÈL  scende dal tumulo e terribilmente esclama: Anàtema .su te! Maledizione!  L’oro tuo piombi teco in perdizione!    saran to” di è ide    SIMON MAGO    L’ira tua scagli invan contro il mio scherno,  Povero nunziator d’ un Regno eterno  Senz’ oro e senza eserciti. FANUÈL La condanna orrenda e forte  Or su te confermi il ciel:  colla massima veemenza    lo t'estirpo da Israel!    SIMON MAGO  Fra noi due c’è guerra a morte! Si sfidano collo sguardo come due fieri nemici prendendo due vie  opposte. Fanuèl ritorna sull’Appia e se ne va verso Roma. Simon  Mago scende dal tumulo e s’allontana dalla parte di Albano.    N. e Tigellino ritornano ‘da un sentiero dei campi e s’arrestano  al tumulo. La toga di Nerone, tutta scomposta, lascia vedere una mi-  rabile tunica oloserica tinta di porpora jacintina e sparsa di palme  d’oro. N. porta al braccio sinistro un’armilla di pelle di serpe  chiusa da una borchia di gemme. Ha, come Tigellino, un focale di  seta annodato intorno al collo, sul petto una collana d’ambra mista a  molti amuleti: dalla cintola gli pende un largo smeraldo ovale attac-  i cato ad una catenella di perle. N.  Nessun ci segue?    TIGELLINO  osserva il sentiero donde sono venuti.    No. Sosta il corteo  Lungo i campi di Persio. N. guarda paurosamente il sepolcro dove sorgeva Asteria. TIGELLINO  Ebbene ? Sparve.  N. sempre cogli occhi rivolti al sepolcro, cupamente    S’ergea fra Roma e me!  TIGELLINO  Andiam. Che guardi ?  A. Oli ren N. volge gli sguardi inquieti sul posto dove ha sotterrato l’urna ed  È esclama atterrito:    Si scorge il labbro della fossa!  Tigellino va a calpestare quelle zolle per disperdere le tracce del    seppellimento. Nerone lo ha seguìto. S'odono dalla parte di Roma dei  clamori lontani. TIGELLINO  prendendo per mano Nerone  Andiamo.  N. staccandosi da Tigellino e con grande agitazione  TIGELLINO  Fuggir? Dove?    N. Non so.  Dove migra il cantor trova una patria  E sola gloria è 1° Arte!  TIGELLINO E di che temi?  Crede il Senato al tuo messaggio, crede  Colta Agrippina ordendo la tua morte,  Poi da sè stessa uccisa.  N. Alla menzogna  Fingon dar fede. TIGELLINO E lor viltà ti giova. N. Se rivarco le mura a chi mi volgo? Al Senato? alla plebe?  TIGELLINO    che da qualche istante porge l'orecchio alle grida che s’avvicinano, corre sul tumulo, guarda verso Roma e  risponde: E luna e l’altro  Per te dall’ Urbe accorrono. N. atterrito e con sùbita ira Qual folgore  Sparse a Roma il clamor del mio  [ritorno? TIGELLINO  arditamente dal tumulo  lo.  N.  con maggior ira e minaccia  Tu, ribaldo? Violenza porti  Sui dubbii miei?  TIGELLINO  Si. Per salvarti. Mira! Si slega dal collo îl focale di seta rossa  e, mentre l’agita nell’aria, soggiunge:  A questo cenno il corteo s’ incammina.  Mentre Tigellino sventola ancora îl focale, s’ode squillare non lontano una   chiamata di bùccine come per un esercito in marcia. Dalla via di Roma i  clamori aumentano. TIGELLINO  scendendo dal tumulo  Ecco i corrieri Mauritani. Mira! N. Da ogni parte m’assalgono! TIGELLINO T'appressa. VOCI INDISTINTE  che si appressano da sinistra Ei s’appressa, esso è là, s'ode il  [clamor,  ALTRE VOCI  Ecco i Numidici corsieri.. Gioja!    Il Popolo irrompe in scena, restando  pur sempre sull’Appia e correndo verso Albano.  ALTRE ANCORA  Ei viene! ei viene! egli è là! egli  [è salvo!  Corri! s'ode il clamor! ei viene! è là!  Tre Precursori Mori, a cavallo, passano di galoppo sull’ Appia, risplendenti .  d’armille e di falère.    Ser IOGE    N. invaso da terrore si rannicchia fra il  gran sepolcro e i ruderi. Chi mi scorge m’uccide. TIGELLINO  avvicinandosi a N erone Ecco le schiere.  con grande concitazione  Se indugi sei perduto. N. rimanendo nascosto fra le tombe Ah! dove fuggirò? Chi mi nasconde? Tigellino abbassa il cappuccio della   lacerna sugli occhi e s’avvicina alla   via, ripartendo la sua vigilanza ora  sul corteo, ora su N. POPOLO  È salvo! Gioja!mALTRE VOCI  Corri! Corri! Ei vien! PRETORIANI  Largo, la via sgombrate POPOLO  Avanti, olà! ALTRI  Corri! là! Corri! là! Vengono gli Eneatori colle loro squillanti bùccine di bronzo. AUGUSTANI  Udite! Udite! Segue un vasto carro tratto da cavalli,  pomposamente ornato, dove stanno ag-  gruppate, gittando fiori e cantando, le  Ambubaje cinte il capo di mitre siriache. Le fanciulle Gaditane seguono la  teoria del corteo danzando e gettando  fiori. Portano incensieri, cetre e lire. AMBUBAJE  Apollo torna. Nubi di fior volino ai zeffiri, |’ lri  [baleni nell’ etere.  Apollo torna, e con esso  Tutto un esercito in danza.  Il corteo s’arresta fra fluttuazioni cou-  trarie. POPOLO Avanti! Avanti, olà!  Apollo torna.  Avanti! GOBRIAS  Torna Onesimo dai campi. POPOLO Largo alle schiere, largo!  Gioja! Gioja! TIGELLINO L’exaforo s’appressa, ivi ti crede  Il popolo clamante.  Odi le grida, scuotiti. PRETORIANI  Largo! Largo! Sgombrate !    Si ristabilisce l’ordine di marcia del  corteo. AMBUBAJE  AI colle! al collel  AI colle! La marcia nuovamente impedita s’arresta. POPOLO Fermi, olà! ALTRI  Avanti! Avanti! VOCI DIVERSE  Largo Largo al corteo !  Olà! L’amazzone Greca s'avanza. Largo agli Augustani! Giunge l’exaforo. La via sgombrate!  ll corteo si rimette în marcia. Preceduto dalle fanciulle Gaditane, passa un  gruppo di Phalangarii. Poriano sulle  spalle un fèrcolo su cui si innalza una    statua di rame, rappresentante una  Amazzone. TUTTI Apollo GOBRIAS  L’orco già da’ piè mi tira.  Le fila del corteo si spezzano ancora. PLEBE  Eilwieny  E giunto là!  Avanti! Gioja! nia e    N. Mi lascia. TIGELLINO L’eneator t'annuncia. N. Ecco, rinasco  Libero e forte. Andiam! DOSITÈO É là! B là! S’appressa!  Fendiam la calca! Ei vien! GOBRIAS  Fi torna, è salvo il Dio del Circo!  PLEBE È 1a!  È salvo il Dio dell’Odeo! Qui si ristabilisce ancora una volta   l’ordine di marcia del corieo. Passa   una turba confusa d’ Armeni, d’Etiodi,   d’Indiani, di Greci, d’Egiziani. Passa-   no alcune schiere di soldati ausiliarii   coi braconi alla barbara e passano dei  Rheti e dei Galli. GOBRIAS  Roscio risorto Novello Turpione! DOSITÈO  Tu snidi il Nilo, fendi l’Istmo, instauri  La terra e il mar. GOBRIAS  Trionfator d’ Armenia! POPOLO  Trionfator Eccelso Bello Forte Silenzio! È sacro il coro.  Passano Ambubaje e Augustani. AMBUBAJE E AUGUSTANI    Ave, Nerone, voce di Ciel,   Beata Roma che t’ode!   Canta, Apollo,   Canta l’ode d’amor non prima udita  [dal mondo! TUTTI Ave, N.! Canta lode d’amor! TIGELLINO Corri al trionfo! Affàcciati alla plebe! N. Ascolta.  TIGELLINO  Or su.  N. fa per avviarsi ardito verso l’Appia,  s’accorge di passare sulle zolle dov'è  sepolta l’urna e indietreggia. Ah! dove passo TIGELLINO  Corri dritto alla mèta.    N. Cantano i versi miei. Passano tre decurie di Guardie Germaniche.Fra le file dei soldati circolano parecchie Ambubaje 0 camminano  appajate ai soldati giojosamente. Frattanto si avanza un carro, tirato a mano da quattro schiavi, dove sono accatastati degli attrezzi teatrali. Dietro  al carro e d’intorno camminano gli i Artisti Dionisiaci che indossano le loro vesti teatrali. DIONISIACI L’ebra Mimàllone già diè fiato alla  [Bacchica tromba,    Doma un giogo di fior la lince, le [Mènadi ardenti Evion gridano ed Evion Peco  [remota ripete. TUTH  Evion! Evion! Evion! Evion!    Entra l’exaforo che s’avanza lentamente. I littori che lo precedono,   coi fasci laureati, respingono la folla. L’exaforo è portato da sei schiavi Etiopi, una corona di giovinetti asiatici lo circonda e una torma di  Pretoriani a cavallo lo segue. AUGUSTANI E DIONISIACI Ave, N., tua lieta stella splende. TIGELLINO    spinge N. verso la folla plaudente, poi corre sull’Appia e comanda ai littori: V’arrestate. VOCI  Chi è là? CATE BELEN e) ANTI  GOBRIAS Apri il velario.ALCUNE VOCI  Chi è là? ALTRE VOCI Apri il velario. ALTRE ANCORA  È Tigellino. LO SCHIAVO AMMONITORE Fortuna a tergo!  N.  în tunica di jacinto e d’oro irradiato dai primi raggi del sole  No! Fortuna in fronte ! Un grido di gioja irrompe dalla folla. TUTTI    Evion! Evion! Ah! Gioja! Gioja!  Almo Sol! Alma Roma! Ave, N.!  i giovinetti Asiatici schiudono le cortine della lettiga, mentre d’intorno a N. piovono fiori e nastri e fronde di palma e ghirlande,  fra le grida e gli squilli del trionfo.    Tutta la scena è irradiata dal sole.    REA REATO VIRA IRIDATA PEIZI TI DIE III DI IAT VET DOTI III IDA LT ANIRI DRE IRR SNNTI RIIATI o BIT ELI MED PRI ITLAI EN EDITE TEA TIRIZETI AI AT MIO DLE MITI INTEL DINT TTI ANTI TAL on:    tre n ct    I AT i PUT e    i 1 dr ale ì } # 4 4  x È Metz 1 A TT) 4 # à Meri LE:  a =» iL i IR ii Si Mie f i rr 1 i ZA  i è I i, Pal p # Ti \ G  / 7 La : PR”  4 Tr 9 PORGILOR i fi È  y "I i È i \ L'A Ma LA Mc ter DAS  4 DI în Las a  sani 1 LA:  ai ea RARA 4 Pi i | ta ’ La È { 9  a } E) i ì » = ERO hd  ‘ LEGIONE i un v  î : i P ; i ue veti al  METIS PORTEREMO ORE GIORIO RO TORO E O, mV» Pag ì È e PI ba ‘ I bia”, F Papi A vr.  meri Ce 4 A Ù  ui di E ll ; dirà a  È ; veli 4 k RL Fo A Het. #3) IT è VO, DA  i va i | PESSOA VT LA  i Me TI ant i A |  è el b<) - ; a” YA ada  Pi,, î # = . ue. ; i PI 4 bi}    TA ee Dart: AR e  i; i : i POT Si . Ca I Ci i Cva PR Dia, e x : I c ci phi ì  ù Ba Pi % i (0 hi 59  ‘9 4 Mr, i MRI né: ME n vt di:  ì Ù PI pad Pa LE Ù I Ti  h ì Cp I AP OI Uri e SR (ia i PRON  È n *A#C ‘ cia NIIA tia UA E 3 À i Mt  Da ° N pio 14' TC + ’ di Dr4 al a; e dti Da f Di mat ;  | SERVO LE AR AM e hg  IAT Pia y ra #74 RI : n) î ( i j INT di  hi ; ; |  È ; sd AAT Pan asa Det TA IR USE Me dea  PI i PO 4 x nà OI TIRO RT ETERO VA OE RTOTATO RO 18-00  i ì POINT i e fi A » 24 é ] LE  i î -  i ' U s [ A  e \ i P  È  i 4 pay:  Ù ;, dA me vi us  d abi rn a Lé, EN  q di A NOM Ds er:  PR    el Lia ni Must e LI  Ù ì 1°  Ni x  CAT ì  Vi  Li Ti  : i, ri ri Ù  Ì ì N )  x  L) Ve,  \ TREIA  ì  4 ì  È Î  t]  F)  %  VIQUOE MI;  a  î  Fi ju  : )  0 i)  1} il  VESTE  PI  } (N  ” ì  ;Î  u) P)  \l  )  i  i bei  È, ?  TARA, i Gi  i | i  4 e’»  "A    Eri aa ei Fa: i  I TORO OOO è DI  A CA ix eu 7g de  te PNRA, D  MENTA: 2. LI Pe, OA \ RI j at [on, ; là Pai ar RE ; sla; LE NUORA Ei  ] a, MAS su PARA  2  1°  ti A   va   RAI AK  Dpr)    Li {VI SI BRIT ATTI ABELE LE SAC NENTTALI I TIVI GI BPIREA TATA TIA ILE VE IDZ ANIA POI E III IE PERE SOTTO PDT E PATATE ALI LE BI 17 INC MERITA DL VITARA  FIA TIAL IATA MANI ATOIO DE IABISIETMA MIE MRI NIC DOO II VR TAIRIDI EI VETTO ZITTI PODICTI ESTATE PREIS IC IAA  ALSEZIONE CPI VT VALE Gio)  |  PI i ESITA TL II RATA, OLA DARNE CARINZIA TAV]  TRISEA NT PRI D arde IERLELIEVI SRI RIITTOTINE AMRITA    TA    ; sea? ° di  VT N},  ì, È  | A “i Ì “n e  db ANI  \ PG K  SI d ra  Ce Beta»  i ia Ì : NA ri f,  \ Ù parta  Ùi    SAVE, "a a L a a  COVE ON TT Y PR = MANI  Sa date  ae ka | p' Ln è  ) % di Pd Ul VA i Tee conse  E) arr un È Mirri, erre Dan  E $$ de alt  Il bat” è  i vas:  i fai  Rea PETE condi d; tI VP Ù  ci SESIZ: Dre rana “ o  repo nes ton oe erirzomee ERA <A Mirra 7  d SARI    CIRIE PI DAPIIA PEN ERI IENA EIBTATE DATRONEI ILVTI SVSTE GITE DELITTI RITI: sviene ETTER SPINTE AREACIRI EL BIEIIVTICA VARI    vi È    nica  È un tempio sotterraneo; visto nel senso longitudinale appare diviso in due parti.  Un'ampia cortina, tesa fra due pilastri addossati alle spalle d’un arco trasversale,  separa il sacrario, riservato ai sacerdoti ed ai loro misteri, dalla ce//a ove pregano i fedeli. La cella è affollata da gente d’ogni classe e d’ogni paese: Matrone adorne di ric-  chissime vesti, portanti in capo una preziosa ?24%24/ od altre acconciature sfarzose;  schiavi in rozza tunica, e, fra questi, alcuni colla fronte segnata dallo stigma dei  fuggitivarii; qualche liberto in pomposa lacerna dissimula, sotto dei nèi artificiali,  gli sfregi del volto; eleganti cavalieri ed aurighi d’ogni fazione. Di fianco all’ ingresso  un mercante d’idoli ed un venditore di tavole votive spacciano la loro merce. Un  tempiere sta presso al vassojo delle offerte. DITE DNTAZI EVA MIR TE DONIZETTI EA TOI IA ano D’un tratto la cortina si spalanca e si scopre agli occhi dei fedeli il sacrario. Tutti  coloro che stanno nella cella s'inginocchiano. Simon Mago, in manto e tiara d’argento,  col petto scintillante di gemme, sta sulla gradinata dell’altare e fra le mani, coperte  d’un drappo prezioso, tiene alto levato un calice d’oro. Un raggio fulgidissimo  scende dalla volta del tempio e illumina tutta la persona del Taumaturgo. Due  sacerdoti situati più basso sostengono, sotto il calice, un bacino d’oro. Altri otto  sacerdoti sono scaglionati sugli altri gradini fra le statue policrome, e la loro immobilità è tale che si confondono con queste. Quattro fiabelliferi ergono dietro il Mago  i loro flabelli di piume bianche; due 4ierodulîi reggono, colle braccia alzate al disopra  del capo, due urne d’oro da cui vaporano degli aromati fumanti. Un altro innalza  un vaso di bronzo su cui arde una fiammella turchina, un altro tiene aperto davanti  al petto un dittico dove sono tracciati dei simboli. Ai piedi della gradinata stanno schierati alcuni giovanetti con delle grandi arpe e  delle cetre e dei sistri. Presso i pilastri dell'arco sono appostati due tempieri, e nel  centro dell’arcata Gobrias. (giovane discepolo di Simon Mago) e Dositèo, vecchio  sacerdote, stanno rivolti verso la folla. Nella cella i devoti guardano, in atto d’ansiosa aspettazione, il calice raggiante.  D’un tratto un largo fiotto di sangue trabocca spumeggiando dal calice e cade nel  bacino sottoposto. Nello stesso momento sorge dal braciere ardente una densa colonna  di fumo che invade il sacrario e nasconde Simon Mago alla vista dei credenti. La  cortina si chiude; Dositèo e Gobrias sono rimasti al di là della cortina, sul limitare  della cella. SIINO ZARA SENTE DITTE AI    SPIRI    TREIA FIIOZIIUSAI DIRPTI SAOIITT RI ERENIITIA È  ielialieo e en i PARTA  IATA FINTA AADHRED ERO GMAT IMITA TOMICA VENTI LITI ZIZAIE DAL LEDA NI LATERIZI PE TARGA ZE RAISI ALITO ANA A TMNTRS IA A PIVA CELIO DRITTO TETI PIT AA ID LS ae 17 PrO {EDILI IDRICA IEEE I SORIA II TIA DITA terreni:    0 IRR DIGO IE III NILE DD DS TRE T TTI IRPI MATRICE NCAA LA! SIATE ITS AA TRLAEE EMILIA (NEL SACRARIO)    SIMON MAGO    a Gobrias, mentre î fedeli continuano  a cantare il loro salmo. Odi il fedel gregge mugghiar  L’incomprensibil càbbala al ciel. GOBRIAS colla tazza în mano e con piglio ilare  appressandosi a Sîimon Mago Vedi il festin sacro brillar! Sul lettisternio profuso è il vin!  Tempra il falernio succo la neve;  Voglio al divin scifo libar. Corre al desco ove coglie una tazza già  piena e poi ritorna nel gruppo. Dositèo  lo segue e lo imita.    PFA AA ARTCRI PRITAL A, DI IALIA IICIAICI MI TA I ALZO LI I MIINTPE CLIMA ORATORI FU FRI TI ALI ALTI EMPATIA TT R    IRE VAT PITRITTN AAT ZIALE LOSZAE PON TTT PAL RI SEA RA EDI TINTA I IZ IEZE DINI DI IONIO AITIIIIII VCO TATO ORICA TMT RITA TA MATTI (NELLA CELLA)  | I FEDELI inginocchiati  Stupor Portento GOBRIAS e DOSITÈO  | È compiuto il Mister. I FEDELI alzandosi disordinatamente  Miracolo Simon al ciel volò GOBRIAS i Preci ed offerte. Iltempiere girafra i fedeli con un piat-  ! to per raccogliere le offerte. ALCUNI FEDELI  Proùrche, Bythos, Sigeh, Logos, [ Anthropos, Zoè Noùs Ecclesia, Eccelsa Og-[doade; Gobrias entra nel sacrario seguito da  Dositèo. TUTTI Noi t’adoriamo. ALCUNI FEDELI Profondo Abisso, imperscrutata    [origine  i Degli Enti primi e immenso mar    [degli Esseri;  TUTTII    Noi t'adoriamo. 2a reo anti lar FIORIRE TAN LETI IONI TP INTO MATTI PATO: E DMN AT SCA TETI  i  FIOPETEERA SP RARI ZENO SII IERI LIDIA STASI INDIZI IE ETA TMTIRET RSI    Ma pria dal vergine labro si deve un Dio propizio la prima asper-  [gine con comica ipocrisia Pio sacrifizio che il suolo irrora Inclina leggermente il labro della taz-  za verso terra în atto di burlesca devozione e sparge qualche   poi ripiglia con Dositèo e Cerinto: occia di vino, Ma poi ch'è greve il nappo ancora, L’àugure beve dietro l’altar.  Tracanna tutto il vino d’un fiato. SIMON MAGO  Zitto! GOBRIAS Siam ilari, si. beva!  Ribeve, DOSITÈO e CERINTO Zitto SIMON MAGO  Zitto GOBRIAS  S'esilari l’alma! Si beva! SIMON MAGO  S'ode ancor l’inno. cortina. Gobrias è corso a spiare aitraverso la |SIMON MAGO  a Gobrias  Che tenti?    GOBRIAS RATORI MOIS NET ZITTA TEA O  Esploro, II ALTI GADGET TILT ELLA IVI su se ALCUNI FEDELI Per te preghiam, per te che gemi  [e sanguini   Nell’ombra eterna, agitabonda  [Prunikos ALCUNI FEDELI  In te speriam, in te, Divin Paràklito,  Disceso in terra col celeste Pneuma.  TUTTI In te speriamo. ALCUNI FEDELI In te crediam, nel tuo Mister, nel  [calice Cruento che in tua man fervendo  [imporpora. TUTTI    In te crediamo. FAI ISIONA TA LITRI MOTI DI IEEE TI ISLA NI NITTI RIA III ER i LATI ATINTATZ TA DEDICATI VA DIL TRITATI RATES ATI APREA TIVA DCI IPER LIDIA TAL ITOT DATATI ELI ORI DIARI STORIE NETTI rrà    GOBRIAS | Alcuni fedeli, nella cella, appendono   ; degli ex-voto alle ginocchia dell’idolo, SME FRANE altri depongono delle monete nel piat-   to delle offerte che sarà portato in giro   dal tempiere. Un vecchio col capo co-   perto da un palliolum che gli ripara   anche le spalle, e sorretto dauno schiavo, sale sul basamento dell’idolo. Guarda! Essi appendono votive  [tavole.  S’ode un tintinno d’argento e d’oro. SIMON MAGO Favole attendono, vendiam lor favole.    GOBRIAS    Presso la statua, sul plinto sacro  Del Nume un vecchio parla. I   RIZZI METTI TIE IENA ATRIA TITLES NADIA PMT A SNO GILLIAM LISTINI MESIA TI SIMON MAGO IL TEMPIERE  Che chiede ? | Date le offerte.  rase nes    Miane i SRD GOBRIAS    Parla all'orecchio del simulacro. SIMON MAGO ALCUNI FEDELI  Oh! quant'è fatua dell’uom la fede! Dell’effigiato Nume il bronzo o l’è-  Paura e speme e il Tempio impera. [bure Per te cammina, profetizza e palpita.    GOBRIAS e CERINTO    Cingiam la chioma coll’eliocriso. SIMON MAGO Nostro è chi teme, nostro è chi spera. | DEI  i Tutti al miracolo che li conquide Noi t'adoriamo  i. Drizzano i volti, l’animo e il canto. |   Pregate, stolti! Pregate! Intanto  L’àugure ride dietro l’altar. SIR TRN SEG ME ASI LZ BEL DITE MAS IERER IT MERITI PMI DEI ELIAA Gobrias beve presso il lettisternio. GOBRIAS e DOSITÈO  alternatamente No, senza riso non posson gli àuguri  Guardarsi in viso. Gobrias tracanna, poi corre al desco e  s’incorona comicamente brillo con una  ghirlanda di fiori gialli. CERINTO  a Gobrias Ah! Ah! AN! Bevi  SIMON MAGO ALCUNI FEDELI No, no, non ber! Pazzo cervel i Noi t’adoriamo!  Pronto a celiar. ! GOBRIAS Vo’ ber! Mio dritto quest'è Vo’ ber!  interrompendosi CERINTO  No, non déi ber! I SACERDOTI  Zitto laggiù! Zitto! Lo scempio cessiam! GOBRIAS Mio dritto Quest’ è.  ALCUNI FEDELI  Mo MAGO i Proàrche, Bythos, Sigeh, Logos, Nel tempio ci ascoltan. I [ Anthropos, Zoè, Noùs, Ecclesia, eccelsa Og-  [doade: SIMON MAGO  I SACERDOTI  Zitto Un gruppo di sacerdoti circonda Go- | TUTTI  i brias, tentando strappargli la tazza di mano; egli colle braccia alteladifende. Noi t'adoriamo Cerinto, Simon Mago e Dositèo non | È  | fanno parte del gruppo che assedia\ Il salmo nella cella è cessato; ritorna Gobrias. la calma anche nel sacrario.  | AUF IESE CARS MSA IMI DS LNLOIAABRI0R SO ER (000 INTO RAZOR RIO IAS PINZA F AVA RAO E    PINI A ITA TINTE TT SSN ZLATE ITA    CRI To ce een eee Li  e ee ene ai arri) VIII SALZA  È  PO i  LITTA NI ALTEA SIENA! I) OZZANO INTATTI ZIA AIIEIIZZ IA LEDA TIA EEA ADONE ZIE REALTA TOA N AOL AE eg    SIMON MAGO   a Gobrias   Non cantan più. Tu scaccia quelle genti   Pria che giunga N..  Gobrias corre allegramente verso la cortina che divide la cella. A Dosîtèo   Spegni le faci. Arda il sulfureo cero. A Cerinto, indicando il manto e la tiara    Riponi quella spoglia.    GOBRIAS  sul limitare della cella, rivolto alla folla    Ite, credenti, e nel varcar la soglia  Inchinatevi al Genio dell’Impero.  I fedeli si alzano, s’inchinano davanti la statua di N., alcuni vanno a baciare i piedi dell’idolo, altri abbassano il capo davanti la co-  lonna del serpente di bronzo e tutti escono dalla porta a sinistra.  Intanto Dositèo eseguisce gli ordini di Simon Mago: spegne i lumi,  accende un cero che sparge una luce verdastra e lo colloca ai piedi  della gradinata. SIMON MAGO  a Dositèo Dositèo, Precedimi nell’antro ond’io riempio D’oracoli la cella.  Sovra l’altare, iridescente stella,  Scintilli il prisma.  Gobrias, rimasto immobile sul plinto, corre a spiare dalla porta del  fondo.  Ai citaredi ed ai sistrati  E voi dall’ipogeo   Suscitate gli arcani echi del Tempio. Dositèo e tutti costoro escono dalla porta bassa dell’antrum. GOBRIAS  accorrendo nel sacrario  Giunge N. Simon Mago sale l’altare mentre Gobrias vuota un simpulum di vino.  Gobrias ripone il simpulum nel recipiente del vino e sale a salti la  gradinata. RI INERTI LI III TOI E RIOT DTD E TRIED DTA LINZ MIE € RATE, SID RITI  SIMON MAGO Tu qua ti nascondi. Apre l’uscio segreto e indica a Gobrias il nascondiglio dietro l’altare. Se il tuon del bronzo romba  Smuovi quel fulcro e tutto si sprofondi  L’altar nella sua tomba. Gobrias penetra nel nascondiglio. Simon Mago chiude l’uscio segreto  su Gobrias, poi ridiscende ed esce dalla porta dell’antrum. Ritorna  subito dopo tenendo Asteria per mano. La porta laterale della cella si  spalanca e discopre un'ala sontuosa ove si scorgono N., Tigellino,  Terpnos, e dietro d’essi alcuni Pretoriani e una decuria di Guardie  Germane. N. e Terpnos entrano nella cella, la cui porta subito si richiude.  SIMON MAGO  ad Asteria  Su quell’altar tu déi salir.  ASTERIA  Travolta Son ne’ misteri tuoi, ti seguo e tremo. SIMON MAGO N. qui t'adorerà. Lo ascolta. ASTERIA  Oh, sogno mio supremo! Oh, so- NERONE  [gno mio! accompagnato sulla cetra da Terpnos,  i canta:  Un supplicante attende e prega  SIMON MAGO Che il sacro vel per lui si schiuda.  Lo ascolta! Ei già t'implora. ASTERIA Ma sull’altar perchè  Tu aderger vuoi queste membra  [mortali? SIMON MAGO salendo la gradinata e conducendo a  forza Asteria riluttante insino all’altare Non indagar. Sali al tuo sogno! Sali!  ASTERIA  Pietà  SIMON MAGO Sali con me! Sali con me! ASTERIA  Fi m’ha nomata! SIMON MAGO  sottovoce Egli la Dea ti crede  Che sulla notte e sui terrori ha  [ regno.  Bada a te! Se ti sfugge solo un  [segno  Di tua mortalità, se scosti il piede  Da quest’ara e dal raggio che t’indìa,  Tutto crolla.  PRAIA II ATEI RTRT NATIA LIE TODI LONTANE TEA III BISTLIO LEI ZZATINA TIMO TITANIO MITI N. Placata alfin Ramnusia, in terra,  i Indulga; arrida Asteria in ciel. N., con un gesto appena accen-  i nato, congeda Terpnos che esce tosto  ‘dalla porta d’onde è entrato. N. rimane ginocchioni ad aspettare a capo chino, toccando amuleti appesi al  petto e applicandoli alla fronte.    ASTERIA    Mi danni alla tortura ! SIMON MAGO dopo aver cercato con un gesto di far tacere Asteria, le chiude colla  palma la bocca. Nell’antro ov’ io m’ascondo Tutto vedrò ed udrò. Tu, schiava mia,  Ravviva in lui la speme o la paura   E tuo schiavo sarà chi ha schiavo il mondo. Simon Mago scende. Asteria è rimasta sull’altare, soggiogata dalle  parole di Simon Mago, appoggiata all’ara, immobile. I}  î  ge  frenate rs  È DIPANA N DIZIA IE INIT ATA R TIRI I SILE NI LIDI MEDE RATE PERITI NETTI SITAFINIDI DI UTO RATIO ATER II TO LIMO TNTIZI ATER IRITRN IR DI LITI DIRI LATITANTE TL 2  Simon Mago schiude un poco la cortina e passa nella cella. Non ri-  mane altra luce che quella del cero e del braciere ardente; anche la  fiamma dell’ara è spenta. SIMON MAGO  a N., dopo socchiusa la cortina T'è concesso varcar l’occulta soglia. N. s’incammina, arriva sino al limite del sacrario e fa per entrare, ma Simon Mago lo arresta. SIMON MAGO  affrettatamente Erri. Col destro pie’ N. s’arresta sgomento e corregge il passo, ma non varca ancora  la soglia. T'inchina.  N. s’inchina. Passa.  N. varca la soglia. SIMON MAGO Gli sguardi abbassa.  Il tetro ammanto spoglia. N., a capo chino, eseguisce tutti i comandi di Simon Mago. Simon Mago lo conduce, tenendolo per mano, davanti allo specchio  magîco. La fioca luce del sacrario non arriva a illuminare Asteria. SIMON MAGO Ecco il magico specchio in cui rifrange  Sua luce astrale l’infinito Abisso.   Solo uno sguardo intensamente fisso  Giunge a discerner la spirtal falange.  Qui la vedrai, se tieni gli occhi intenti,  In quel baglior di porpora e d’elettro. Poscia, indicando lo scudo appeso accanto allo specchio e la mazza  di ferro, soggiunge:    E se uno spettro appar che ti spaventi,  Batti quel bronzo e sparirà lo spettro. Abbandona Nerone, solo, davanti allo specchio magico ed esce dalla  porta dell’antrum. ZEN } Un raggio iridescente scende dalla volta del Tempio e illumina Aste-  ria la cui immagine si riflette nello specchio. A  N.  Ah! sparisci!  Atterrito impugna il maglio di ferro e sta già per colpire lo scudo,  ma subito s’arresta. No No. Sei del miraglio  L’illusion. i  Avvicina lo smeraldo all'occhio.  Ma ben ti raffiguro. Strano mister. Par specchiato sembiante. S’avvicina, con intensa curiosità, allo specchio e lo tocca; abbandona  i lo smeraldo.  Ah! qual pallor sul suo volto.... e sul mio! Vediam.  Si volge e vede Asteria sull’altare.  Ahimè ! Inorridito fugge verso l'angolo opposto a quello dello specchio e si  copre gli occhi colle mani. Non m’accecar!  Porta la mano destra alle labbra in segno d’adorazione e, senza osare  d’alzare gli sguardi, si avvicina ai piedi della scalea e bacia il primo  gradino. Tremenda  Protettrice dei morti! Un giorno in Tauri  Tu promettesti pace a un matricida.  La stessa grazia imploro; inginocchiato su d’un ginocchio solo al par d’Oreste  Io non senza cagion la madre uccisi.  Dal suo spettro mi salva !  Ripiomba col volto sulla gradinata dell’altare.ASTERIA  sempre immota, fissandolo, con un accento languido di sogno Sorgi e spera.  N. sollevando la testa e gli occhi a poco a poco insino ad Asteria Oh! come viene a errar presso il mio core  La voce tua! Al par d’un bronzo echèo  Risponde il core.  Sorge lentamente e, guardando Asteria, si toglie dal collo il monile  di smeraldi; mentr'egli compie quest’atto, Asteria con eguale lentezza:  e cogli occhi fissi su Nerone si toglie dal collo le serpi avvolte e le  lascia cadere nella cista mystica che le sta d’accanto. PON ET NETTA MOVE IPO A REI RL! REATI PILATO E BILI VITTI RO ESITA EZIA NITTI TTI DAD e IN I TANARRE    DETTATI ATTI AES INIT ALII STI DIRITTI TIA PALI AIRIS PIL REA ISIS I TIRA IN DIETE USE NTI DET MA NTATZI MASO METZ LETTA EI MNT REIT PATRIA  N. Tu dal sen disnodi  La vivente lorica, io surgo e getto  L’offerta ai piedi tuoi. Getta la collana di smeraldi sul tripode dell’altare, alla portato deîla  iano d’Asteria. Poi, seguendo con lo sguardo le movenze d’Asteria.  prosegue: Ecco; la Dea si china.  Coglie il monil e il sen s'’ingemma. Bella  Fra i lividi smeraldi Scendi Scendi Sul sognator de’ prodigiosi imeni Come sciolta dal ciel cade una stella  Scendi vèér me, Selène! Ecate! Asteria |!  Vago Eòne lunar! Magica Iddia  Dai mille nomi, scendi! Ognun di quelli  Sarà un nome d’amor !   Ma immota resti,   Dea degli alti silenzi, al par dell’astro  D’onde tu migri nell’ore incantate.  No... nel tuo cor sangue umano non pulsa  Ma il freddo icore de’ Celesti. Guarda lo... rapito dal senso, amor spirante,  T'imploro S'è gettato sui gradini dell’altare sempre cogli occhi fissi in Asteria  e colle braccia tese verso di lei. Essa rimane immobile presso all’ara,  colla testa arrovesciata; come irrigidita dall’estasi. Oh! duolo! Una Immortal tu sei !  Donna ti voglio e anelante nei fremiti  Fieri del bacio! Ah! ch’io. non maledica  La tua Divinità! Già il sacrilegio  Portai su Vesta, allor che a forza avvinsi  Rubria, vergine sacra, a pie’ dell’ara Asteria si lascia sfuggire un breve grido. Nerone s'è rialzato €  prosegue: Ma delitto più nuovo e assai più forte  Consumerò Si slancia, salendo tre 0 quattro gradini, per afferrare Asteria. Scoppia  un fragore spaventoso come di bronzo terribilmente percosso e s'ode  dalla bocca spalancata del mostro che sorge dalla pareie dell’antru, FISICI: LA VOCE DELL’ORACOLO  N.-Oreste! N.  Asteria ! È Nello stesso tempo s'è spento il raggio che illuminava Asteria. Il sa;  crario ripiomba nell'oscurità.  N. ricade come fulminato sulla gradinata. Asteria, lentament$  scende qualche gradino, s’avvicina a N., chinandosi a poco a  poco, gli si rannicchia d’accosto, mezzo prostrata, mezzo seduta; î  due corpi si toccano. I loro volti riverberano, fra le tenebre, la livida  luce del cero e il riflesso della bragia. ASTERIA | N.. i  come sognando | lentamente fra le parole di Asteria    i Passa una bieca ora di febbre... un Cieca la salma nell’orror ripiomba... | [sogno...  ) ?   L’alma sull'alta vetta erra Tek Lo) | Sento..nell’aura cieca..in fondo  i i SI [all’ebbre  a le larve SA non | Parvenze il lento incubo nero.  orbe....m’invade il ciel... | [Oscilla: Al par delle spiranti anime il cero.i Lungo l’altar bagliori erranti volano. LA VOCE DELL’ORACOLO  N., fuggi ! N. Mugola un tetro suono entro il sacrario.  L’aura s'annugola ed ulula il tuono. Ma tu il nefario orror distruggi, Asteria;  Fida guardia tu se LA VOCE DELL’ORACOLO  N., fuggi N. senza sgomento, ad Asteria, con lentezza estatica  L’oracol grida invan su me, non temo.  sorridendo sicuro Vedi, riverso giacio agonizzando   Sotto i tuoi piedi... Ah! dammi il bacio... il bacio  Blando... lento... che muor col sogno e bea  L’alma e dissonna il senso O Amore BEI BRASIOA ZI FILI RINO RITA DIANE AZIO VOLI TRI TRE TITTI DUI RARI PARTI IM I RATEALE DORIA TORI TSEI SC ATRCIOZIA IT FATICA EACIAITIOC ANIA IGO INCI MELI TN VLAN TTT VIALI AI TEGIOIGI DI UTI AAICLIIICT I NETTO TI DIS TRTT VSLTAE TATTO ETICI CINZIA TN TITTI LATINO ENI ASTERIA  Oh! Amor!  Si baciano. LA VOCE DELL’ ORACOLO  sempre più tuonante TIP EISUTENTO iP  PR ESSERE Fuggi, N.!  N.  balzando in piedi, ad Asteria, terribilmente    Sciagura a te! Sei Donna!! Asteria sviene sui gradini dell’altare. POF DI DITTA LA VOCE DELL’ ORACOLO    ENTETANZA ASIA TATA Fuggi, N.!  N., in agguato, guarda attentamente dalla parte dell’antrum ONORI ITA Prcietruee N. sottovoce, origliando Spiato son, là. LA VOCE DELL’ ORACOLO Fuggi,  N.! N.  scendendo dalla gradinata, rivolto verso l’antrum Ruggi, Simon |! Afferra il cero e corre a cacciarlo violentemente, dalla parte della  fiamma, nella bocca dell’Oracolo.  DOSITEO  Aìta! i: N. ridendo È colto! Dietro la parete, attraverso una grande lastra di fengite, che si con-  fondeva cogli altri marmi, traspare un grande chiarore.  PIMOPI LAICO YIIEV A NSTIE IE DIA ATEI NATZIONE II LPPMLIVI LITIO III TP TITO TI OLA ERETTA SOZITINZAP RN SIDENTE STIPI. \SVISTIA TESA ZIE DATO PEDARA GRIP RARE GRATTTRT EP TETI TOA ATTI TI MALR SFENLI RIVILTDEL  N. par la vampa! Il chiostro insidioso  Crolli! Impugna la mazza di ferro e con un colpo violento spezza la lastra  di fengite che cade in frantumi. Attraverso lo squarcio della parete si  scorge Dositèo, svenuto sul pavimento dell’antrum, colla barba e le / i vesti în fiamme.  Ah! An! An! È Dositèo che arde! Accorrono sacerdoti a spegnere le fiamme sul corpo di Dositèo e con  grande agitazione lo trasportano in parte non vista del sacrario, a  destra. N. corre mella cella, ne spalanca la porta centrale, chiamando:  Pretoriani! Entrano tosto Tigellino, i Pretoriani, la decuria della Guardia Ger-  mana, Terpnos e i servi colle faci. N.  strappando le cortine del sacrario e gridando, invaso da un gajo furore;  Accorrete! Ecco! Mirate!  Squarcia il velo del sacrario.  Squarciato è il vel del Tempio! Ah! AN! si rida!  Non vi sfugga Simon, ei là s’asconde. Indica l’antrum. Tutti vi si precipitano, chi dall’uscio e chì dallo   squarcio del muro. Terpnos ha deposta una face accanto allo specchio. N. resta solo nel sacrario e colla mazza che gli è rimasta in mano   continua allegramente l’opera di distruzione. Si scaglia per primo  contro l’idolo-automa. N. Guerra agli Dei! S'allegra il gioco! Vediam che n’esce! Vediam, vediam!  E con un colpo di maglio io decapita e lo atterra. L’idolo cadendo  agita le braccia dinoccolate, si rompe e n’escono i congegni interni. Nodi, rotelle! Macchine da scena!Intanto Gobrias è uscito dal suo nascondiglio e, mezzo assonnato e   barcollante, contempla con grande stupefazione, dall’alto della gradinata d’ond’è sbucato, la ruina del sacrario, mentre Nerone atterra  un’altra statua. GOBRIAS  Eh! son briachi (incespica) i Numi! N.  D’onde sbuca costui?  d ; sa wcmerra sana ce iran» — rst Le o  RPBNISIBBIOERAT PODERE GA INVSSIO ERESSE I VELI SC LIE SEIERISPOBERI ODIO IOPPI ARR CIRONDAPO) RENI I MARI CES ESSO RE RIESI n fl  s / SIIT TTI ILI IIE O MTERI VITE TL FI  rare FIA DERE MA RE BIDET SR: SAT £   RICE TIT I RR ZI LIME TOA IA At ARTI ee | TIRA ZIO ICRTEE IO GIÙ TAIL LARIO TI GOBRIAS  Da quest’altare, Come il sorcio ridicolo del monte.  NERONE   Ebbrioso compar, tu assai mi piaci; T'ascrivo al mio Teatro. Gobrias s’inchina e scende incespicando.  GRIDA DALL’ANTRUM AI fiume! Al fiume! Rientrano tumultuosamente Tigellino, i Pretoriani, Terpnos, le Guar-  die Germane col loro Decurione, conducendo Simon Mago colle braccia legate. N.  a Simon Mago, deridendolo  O Gran Verbo di Dio!  al Decurione  Libero ei sia;  Costor dai ceppi han gloria.  a Simon Mago  O Paracleto! Già udii narrar di te che t'ergi a volo  Nell’aria. (ride) Ebben, ah! ah! tu volerai  Nel Circo il dì delle Lucarie. SIMON MAGO  sciolto dai ceppi SÌ. Purchè il sangue Cristian scorra in quel giorno. N. Tutto, purchè tu voli.  al Decurione, indicando Asteria che s’è riavuta:  Decurione!  Questa, degli angui amor, falsarda Erinni,  Incubo dei sepolcri, a morte! A morte Nel vivario dei serpi! Il Decurione e due Guardie afferrano Asteria.ASTERIA  dibattendosi angosciosamente Invan mi danni  E mentre la trascinano fuori dal Tempio ripete con accento disperato: Non morirò. Ma deh! per grazia, uccidimi!  lo non son che una povera errabonda   Sposa di serpi; alla mia razza il tosco Non è letal, mi cerca un’altra morte.  Liberati da me, perchè, se vivo,   Ti seguirò così, sempre, rapita   Dal volo del tuo turbine, travolta   Dal gurge tuo, perchè il mio Dio tu sei,  Perchè t’adoro N. Vedremo Al vivario Asteria è trascinata dai Pretoriani e dalle Guardie Germane fuori dal  Tempio. Il coro la insegue minaccioso.  CORO    AI vivario! al vivario! a morte! a morte! N.  piglia la cetra dalle mani di Terpnos, sale sull’altare ed esclama:  Or che 1 Numi son vinti, a me la cetra,  A me laltar! Gobrias prende dalla mensa una corona d’alloro e gliela porge. N. s’incorona. Gobrias, Tigellino, Terpnos, i Pretoriani si schierano  davanti all’altare. lo canto.  S'atteggia come l’Apollo Musagete e incomincia a preludiare.  PEA RA TTT ALT ERRO FIGATA PIENA ZITTI ANTISTANTE VIN SENI TII TTD AA ANTO ARAZZI CITATO AAT TDI LV ATTIENE PILA RENT TIVI TO STANCA CENACOLO AMT ZITTI TRAVE  Le DATE IE SITA RT iL LOZINI LATDLET AITITIIRE AIN A DI E    RARE, e A REC TTD ina 2 TINTI RIE SOSIO SR  API RL PI STRA ET LIS MIETTA TRAZIONE I a  " È n  i |  ; Ta) Neri  SIGEAN bi pine È  "O    PRA VA bd    Risp sr O pr) NAME "i Lia "IO, o,    = dI  i Ù i si  x *A/K ft  | NUIT MToMe n  L x } a SAL) Ù hi î I, fi  A i ru iù DIVI  { il DA ti,  ' et à  LI 4 p À  h Ò NZ ( NUCS  br AT,  i ing AL AA RIMINI,  ' si  x po da % 9 n DEGLI)  Ù SIIRITIEONE UA; ori pi  i { RISOTTO Do NAVI i  | MUNSTER E TTAGC La VITRO  A hi si E NALI p Ni; VETRI Nu È i MED? Mi toa)  Pa F ‘ À \ RA . Ù a n  = lo } V n a Pag 14 Ti vr : hi  \ ci n i LO Ù i È tI | l  K Y Î Li Li ; î 3 E Lù - vida Wa) quivi Mx  3) A LA Y -  Ù E À Li Lis ni o 19 M bi "i Di) x Vo oa DA VU  : ì i RT TIRO RT TA nn, ARI V  et Li % È n ir”, i aa Ir ay ) %  } ‘ i da fa o “i Ni hi l'aa th la LA | griji £ LC  } : î PA, PrO Pa  RO UO; AI i CA LT  t P Wii: î x î N  FCI : [CNIT   4 71 Fogar É f|  o 1 È nt INCA x i FIRE RSO, L'ARIA Coe i  4 :) = L.A al È i db: (x ad IR  \ 4 = 3 i LINATE, ?  i Ul 4 Un Pip USD -  at 53 pi  bi CoA Mure È  si LA Beba  A di CUR De) 4  i | À 41 J LI  È Ù LA) }  y LI F bei ti  È f x )  } | INA spit  Ù LA ti ì ai Vide) LA) PRATO A) . dj x È  a  L) » 4 LI ® fi co  fi \ 1800 / Dt  4 ì ì Hei) È  i ' é VITO, pil A  AI di RATE 1,  - x LI ki 4 o  n 4 #0 po €  . i i i  i LE 00 } n  ‘ “i x  iu %  x j ie è  pi A È * î  à 3 X ì  | 4  bo) ©  ì od \  ' hi L) N P  1a Il 1) A  . \ n ;  L: ai } U Ì 5 } I?  ) 5 i <#° [|  3 PRani bf MaI  R i a Sy ) Le  - iv 3 DES, idoli bi  ” il  È bi, i Ù  PA 1) 1 "ri pa  o a. Li l Ù  P] > " n 5  (i i  } i t  n  ni  AR hi | /  o x \  Ù ML)  T #  È BO sh Ì di  sil "VOR ;  N "a | \ A è  4 PUN Y di  +" n 7  " ? 3a  î n à fi "RADO agito  La i è n )  ; > x i LI 4  4 alt d {  RITA YO o LAI GAIA pia  vi re |\ RALE, ù 9) Ì i, pl  P, LI LAP  x t pr  A Si ) DIM hi  e » (daga î  + A È i i Miu  { WI Y î,  ‘ È Ù mi A PI vi  I i ®  do Lei È A è MO * " Ne gii Tute  ; VA Lì Ù 1) Di Ù)  ESESA  4 4 IRTONINNIOA i i  : È VA ni  \ È. t1 x  De \ dI Mi x “ va  a Ù at),  ti hi Fi L) 1) è TA LI È i RE ì hi PIT, N  si $ Ti PI pà ti É ne: AO PT  î ' DIFF AMeTT,) i \ snn ; Mg”  i l 3 A di i) AI) Fo ni PRA E, |  i Si Hb RUTTO Sarai ey ronernt pala nre, rat ai rt: pi 1g  SI ' LA y, - té Pi Ca  SILA ) o na i RA: ALI i 44 Ò  (4 LAN ( IRSA PIL] GRITTI  i i i ig Hut [eLt 1%  f U PARA | y i I  i A, » =    vec saio    cen L’orto dove s’adunano i Cristiani, nel suburbio di Roma, è illuminato dagli ultimi  riflessi del tramonto. A sinistra v'è un casolare con un vasto pergolato sostenuto  da quattro colonne. A destra v’è una fonte rustica sul cui margine di pietra è  deposta una ciotola e un’idria. Poco discosto v’è un sedile di rozzo legno. Dietro  alla fonte, e d’intorno, le zolle fiorite formano una leggera prominenza. Nel fondo  s'estende un uliveto. Sotto la pergola vi sono due tavole; una di queste ha la  forma d’un sigma lunare e porta i resti d’una cena frugale, l’altra è di quelle che  servono ai coronari per intessere ghirlande ed è piena di fiori e di fronde. Intorno I  a questa tavola stanno sedute parecchie donne ed alcuni fanciulli. Dall'altro lato  alcuni Cristiani circondano Fanuèl il quale è appoggiato al margine del fonte.  Un’aura di soave pace è diffusa su questa umile gente e sull’ orto. Un’immensa  attesa riempie le anime. FANUÈL  în atto di chi continua una narrazione udir pronte E vedendo le turbe ad   Salì sul monte, Le benedisse E disse: Beati i mansueti,   Perchè saranno della terra i Re.  LE DONNE CRISTIANE  ripetono sommessamente: Beati i mansueti. FANUÈL Beati quei che piangono, perchè  Saranno lieti. LE DONNE    Beati quei che piangono. FANUÈL Beati quei che vivono in desìo,  Perchè li udrà il Signore. GL’UOMINI  Beati FANUÈL Beati quelli che hanno puro il cuore, perchè vedran la gloria del Signore. PWOASCI  Beati FANUÈEL E beati, fra Vanime fedeli, Tutti gli afflitti, 1 poveri, gli oppressi,  Perchè per essi   È il Reame de’ Cieli. TUTE  Beati! Rubriîa esce dal casolare con una lampa in mano; è seguita da Perside  e da fanciulle che portano in grembo dei fiori sciolti e lì depongono  sulla tavola insieme agli altri. Tutte le donne si radunano intorno ai  fiori. Alcuni uomini vanno accanto alle donne, altri entrano nel caso-  lare, altri si disperdono nell'orto. Fanuèl, appoggiato ad una colonna  della vite, guarda Rubria. Incominciano a spargersi le prime ombre della notte. RUBRIA Vigiliamo. È la sera. Arde la face.  D’intorno ad essa ci aduniamo in pace.  Viene il Signore ma nessun sa quando;  Beati quei che troverà vegliando. Si mette fra le donne ed i fanciulli ad intrecciare ghirlande ed a cantare con essi una canzone. RUBRIA, PERSIDE, LE DONNE alternatamente A me i ligustri,  A te l’allor. Tuffiam le industri Mani nei fior. A me il ciclame  E l’asfodel, L'’aulente stame  E il tenue stel. Avrem corimbi D’edera inserti, Corone e nimbi,  Ghirlande e serti. A me il viburno  E l’amaranto. Rigira il canto  Mutando turno. Sua gioja espanda  La cantilena  Viva e serena  Come ghirlanda. OR! date a piene  Mani le rose Vigili spose,  Lo sposo viene. Spogliate i clivi, Le valli e gli orti!  Fiori sui vivi Fiori sui morti Fiori silvani  Gialli e vermigli OR! date gigli  A piene mani!  Casto segreto  D’amor ci leghi. Canti chi è lieto,  Chi è triste preghi Lieto è chi muore Nel Dio verace. Amore!  CISA Fede Amore! Amore! i Speranza!  ci pritaza erica nr    srendiina VIRNA STELLARI IRINA AZ IALIA TIZIA TRE  LIV NE PISA POR TINI ESTATI NOIA  negro ETRE LIETI) POS FRITTI ETTI LETT IIS CLI IE AMET Li  VITI en = PN LATITTE FRS, IAC IONI CREA PIATTO TODARO LAZ)  IT AETE TA ADEN IMEBIIREI LIE Ra STAI TANTI NLITTE PORA ONT Te ppie LL SIIT FIIEAIOI MIEI OASI METZIZIO EIA DNASIORISI E STIRIA TIZIO EE DO DIE I ITA MISSILI RITA PICCHI TE LISI IIZ SISSI RIENZO IAT IIIZORTTII DIE RIE PL ASTERIA] ! } | fievole, dal fondo  Pace. ALCUNI CRISTIANI  sommessamente cTsrEATI e en  Risponde il ciel ! (IbEEINDI  chinandosi e giungendo le mani Adoriamo! Fra gli alberi dell’uliveto si scorge una figura nera che s’avvicina  lentamente. È Asteria. ALCUNE DONNE  Un fantasima E fuggono tutti, tranne Fanuèl e Rubria. Asteria s’avanza come persona esausta e dolorosa. Giunta sul limite   dell’uliveto s’appoggia al tronco d’un albero, guardando il casolare. Le sue vesti sono lacere, non porta più le serbi intorno al collo; mormora, gemendo, parole interrotte.  ASTERIA Di pace una dolente a lor favella Crudeli ed essi fuggono. RUBRIA  ode i fievoli lamenti, accorre ad Asteria, la sorregge pietosamente e  la conduce a sedere presso la fonte dicendo: Sorella,  Che hai? tu gemil. Dimmi la tua pena. Oh! come tremi!  ASTERIA    vede il volto di Rubria rischiarato dalla lampa. Dolce Nazzarena SÌ tu se’ quella che il mio duol lenivi  Sull’Appia, orando, un dì, nella quiete  Dell’alba T'ho cercata tanto Ho sete. Rubria fa cenno a Fanubl, il quale s’affretta a riempire la ciotola coll’acqua del fonte e gliela porge. A ORTO Co ee vee te en e ee e ea ASTERIA  sorridendo a Rubria ed estraendo un fiore dal seno  Quest'è un tuo fiore. RUBRIA Bevi. Avvicina la tazza alle labbra dell’assetata. Asteria beve avidamente. Arsa languivi. Mentre Asteria alza le mani per sorreggere la tazza, si vedono le sue  braccia ferite e sanguinanti. Tu spargi sangue ASTERIA  dopo un lungo sorso, senza por mente all’osservazione di Rubria  Oh, il fresco umor dei rivi! sorridendo languidamente a Rubria e poi a Fanuèl;  a Rubria: Ma tu non seai. Vengo da dove non s’esce mai vivi Per salvarti. Per te mi svincolai  Dall’amplesso dell’idre.  mostrando le cicatrici Ecco i lor baci.  Rubria fa per bendare la ferita di Asteria.  Non m’ajutar. con parola sempre più concitata e ravvivandosi rapidamente    Questi attimi fugaci  Serba per te, te stessa ajuta, fuggi!  alzandosi Fuggite tutti! sulla vostra traccia  Vien Simon Mago. RUBRIA Spavento |! cari ARR SA SMR a ZII PETIZIONI ATI ETENT ATTI MALIGNA VAIO NT IISIRTARI PIGRI FICA EI TIGRI MM TOTI TITANI MILANI ABITI TA ITA! III TA LA PVASVDAT: OSCENI sN TT DA TTT TL LT e rene toe O EIA. x a serest PR LATTA x nti creni  SIOE ZIONI DANTE RITA AZ TI DI TATTICA OZ TTEELATIAA CEI ITA IZ RISO PIATTA IRAN NETTE AITINA IDATA EVO TOCI IL AE RR TANINTIZAZ CPTATZI CIOTTI IZZO TIZIA INIZIATI SEP AIA  I  Ù  s  |ASTERIA i I I var tenanionIE Distruggi  Ogni altra speme che non sia la fuga.  Tremendo egli è ! Bene udii la minaccia:  Ei vuol sangue cristiano. RUBRIA a Fanubl, atterrita  Il tuo Asteria si è già allontanata dalla parte dell’uliveto. RUBRIA  ad Asteria T'arresta ! ASTERIA  con subita veemenza e come spinta da un impeto invincibile Il riacceso mio dimon mi fuga Scompare tra gli alberi del fondo. RUBRIA    s’avvicina a Fanuèl che è rimasto presso al fonte e la guarda, immobile; dopo un momento d’ansioso silenzio Fanuèl Fanuèl Parla ti desta. ”  Salvati, per pietà! Tu indugi ancora? Vien! Fuggiam ! Fenda il mar l’agile prora E dia le vele al vento! L’infinita  Via del vol s'apre a noi, corri alla vita Vieni! mi suscita un Dio quest’alato FANUÈL  fissandola, immoto Confessa il tuo peccato. dopo un silenzio Non parli più? L’alato impeto muore  AI solo rammentarne?  Un dì m°hai detto: Ho un peccato nel cuore. SIRIO IEZZO IRIS IIRAIAIII REISER LTT.  RUBRIA  interrompendolo    Ed or te ne rammenti FANUÈEL A tutte l’ore  M’è quel tribolo fitto entro la carne Confessa.  RUBRIA No.  Pria fuggiam poi dirò Come potresti or tu quest’affannata  Anima interrogar sì che risponda Sàtana è là nel tenebrore,   Vuol la tua morte FANUÈL  Tutto ignoro di te, tutto, anche il nome.  Quando t’accolsi nella fe’ novella  Non te lo chiesi, ti chiamai : Sorella. M’odi ; ogni sera, mentre oriam, furtiva  Tu ne abbandoni; l’orma fuggitiva  Ove ten porti? ove? e perchè celarla?  Forse allor corri al tuo peccato ? Parla !  Parla! Consenti alfin (ti pregai tanto)  L’alto abbandon del lagrimato errore !  E un’estasi soave in fondo al pianto GOBRIAS con voce artefatta, nasale, dal timbro bieco dal folto dell’uliveto Pietà d’un cieco che la Grazia implora Del charisma Cristian ! RUBRIA  inorridita  Sàtana è qui!  Corre disperatamente alla tavola dove arde il lume. S'’arresta, guarda intorno, spegne il lume. Poi fra le tenebre ritorna verso Fanubl.    L'orto è immerso in una densa penombra.  S’intravvedono nel fondo Simon Mago e Gobrias poveramentie vestiti.  Simon Mago ha il capo coperto da una calàutica î cui lembi sciolti gli   mascherano tutto il viso. S'arrestano là dove finiscono gli alberi. SIMON MAGO sottovoce a Gobrias Va guardingo, attento esplora; guidami per mano. GOBRIAS prende la mano di Sìmon Mago e risponde sottovoce Nessun m’ode, è tarda l’ora. Qui s’attende invano. SIMON MAGO Ricomincia il tuo lamento GOBRIAS Ah! Pietà d’un cieco! RUBRIA SIMON MAGO sommessamente e con grande ansia a sempre sottovoce    Fanuèl che non si scuote Non l’ascoltar; quel cieco vaga- (Or t’inoltra lento, lento, cammi- [bondo Mi fa rabbrividir. Non l’ascoltar DI  st avvicinanando meco. GOBRIAS  con Simon Mago al casolare e gira intorno gli sguardi. Dilaniata strappo dal profondo Scerno due figure umane chiuse Cuore il mio grido e non ti vuoi  Odo un suon di voci arcane, di sin-  [salvar !)  SIMON MAGO {in bruno ammanto. SIMON MAGO [gulti e pianto.) rapidamente a Gobrias e sottovoce  Sigi    mi raffigura,    S'ei mi s'oppone, ad un mio cenno è colto. Tu corri allor nel Tempio a dar novella Ed agitar, coi nostri, la congiura  Dell’incendio. Se ajuto qui m'è tolto,  L’ultima audacia disperata è quella.) ETZZZZ TANA RIA ME PSI RITA TETI FOTI TO RL TAN RNA RIO + OR PREDICA ETA RIPARI NEI COPI DIO ZII TITO RATA LD AT VE UE EIUS LAI RI MD RUBRIA disperatamente, ma convocesommessa Mi guardi e taci? Che pensi? FANUÈL I  amaramente SIMON MAGO Che penso Va quando vedi ch’io mi scopro  È peccato d’amor il volto. RUBRIA D’amore immenso FANUÈL  Questa fu l’ora della grande angoscia S’avvicina, calmo, a Simon Mago, Rubria rimane presso la fonte. FANUÉL ad alta voce Che vuole il cieco SIMON MAGO a Gobrias Parla tu. GOBRIAS a Fanuèl La luce del charisma Cristian.  FANUÈL  terribilmente Così non sia!  Mago Simon, cieco e de’ ciechi Duce! dj   È  Ù \ONTSZE TIIPO LI OPZIONI IONA MUTI ET ATTIMI EDIZ) MSN LINA PIA III NI DTT Me OI III TOO EA TE DALIA DI TITOLI CPT ART DT  î SSN (AS    TEAM EEDE TAI EAZIANTZNGLTT POSTI NI FAZI PORTIERE ITINERE TIE E AITINA NEI AR NZIMECII AI ATI E PETTO BIO I ZI UT AMI SIDE BIZ SEDI VITE da TTI O SOG a 3 ITA LIETALITETE CESTRIIITI ME TECA IENA RETTA EPOCA LA Ende SERA ILE STATUE AL SIMON MAGO  atterrito si scopre il volto e si getta ai piedi di Fanuèl. Attèrrati a’ suoi pie’, anima mia. Gobrias s’è allontanato dall’orto. Rubria entra nel casolare e poco  dopo n’esce con alcuni Cristiani. Fra gli alberi del fondo si vede un  Centurione.  SIMON MAGO  sempre ai piedi di Fanuèl continua Furar tentai ciò che negasti, or prego.  La colpa mia rinnego, Tu sol mi puoi salvar, morte m’attende. Un’opra ch’ogni uman segno trascende  N. m’impone,   Non si sfugge a N.! Dove ch’io mova un Centurion mi spia.  Ma tu, Profeta del novello Eòne,   Tu, coi portenti della tua magìa,   Tu sol mi puoi salvar. FANUÈL  Così non sia!  Si vedono comparire dall’uliveto due decurie di Guardie Germane colloro Decurione ed alcuni Pretoriani accompagnati da portatori di fiaccole. SIMON MAGO  rialzandosi di colpo e indicando Fanuèl ai Pretoriani  A voi l’uom.  I CRISTIANI  si slanciano contro Simon Mago, gridando Morte SIMON MAGO  chiedendo ajuto alle guardie  Olà I CRISTIANI mentre lo afferrano Morte a Simone ! PERE e De FANUÈL interponendosi, con un gesto pacato, libera Simon Mago dall’assalto;  poi dice ai Cristiani:  Non resistete al malvagio. L’esempio  Ne diè il Signore. Il Signor sia con voi. Nessun chieda ragione  Se piace a Dio di far possente un empio  Per infrangerlo poi.Simon Mago s’allontana. Fanuèl ripiglia dolcemente Vivete in pace, e in concento soave  D'amore, mani aperte alla carezza. Sia sulle vostre labbra il bacio e l’Ave  E l’allegrezza. La giornata è compìta  Pel fratel vostro e il suo carco depone. Voi camminate in novità di vita  Ed in pienezza di Benedizione.  Oscurandosi Quando torna la sera, col mesto incanto delle rimembranze,  Unite anche il mio nome alla preghiera,  Unite anche il mio nome alle speranze.   trattenendo la commozione  V’amai dal dì che il cuor vostro ho raccolto,  Non so quale m’attenda ora crudel Ma so che più non vedrete il mio volto. I CRISTIANI  donne e uomini, gemendo Fanuèl Fanuèl FANUÈL  s’appressa al margine del fonte, poi soggiunge: Ed or, fratelli, io tocco questa pietra Come un altar, benedicendo a voi. I CRISTIANI  inginocchiandosi sotto îl gesto di Fanuèl  Amen RETTA IAN TENZA I TAMA LETI PILA DITO TINA E SRI IATA ITA TATA ATO AZZ DETRITI ATI ZZZ AAA III STRA ZZZ I I FANUÈL  entra în mezzo alla schiera dei Cristiani. V’abbraccio con un bacio santo.  Bacia alcuni uomini ed alcune donne.  Seguitemi cantando un lieto canto. Si avvia lentamente verso il fondo per darsi in mano alle guardie. RUBRIA  mettendosi davanti a, Fanuèl, mansueta e piangente Così tu lasci sulla mia pupilla  La lagrima cocente dell’addio FANUÈL Donna, ho le labbra di mortale argilla. Passa senza baciarla. Poi, vedendo che Rubria rimane in disparte,  lungi dalla schiera che lo segue, soggiunge: Qui sola resti? RUBRIA  subito, con voce appena sensibile  SÌ.  FANUÈL rivolto ai Cristiani che lo accompagnano  Cantate a Dio!  Le donne hanno raccolti tutti i fiori e li spargono davanti i passi di  Fanuèl, cantando e allontanandosi fra gli alberi dell’uliveto. RUBRIA con impeto e con tutto il fervore dell'anima, spargendo fiori davanti i  passi di Fanuèl Oh date a piene  Mani le rose interrompendosi con un singulto di dolore I CRISTIANI Vigili spose ANSA DITTA IRE FUSTI ZIBIDO LIT n RIOT DEE IE OELIERLI E SITI POTTE DEI SLERSSORIIA ANIA I6 SDONSSIOIZG N ISIEZO III ì cinrii ALTARE ERI AZIONA IATA nr    SIONI ASTANTI TIA II TIZIA AMI NL TERA IV ZII II DO RATTAZZI TLT RA RDATAI IZATFNTAI I VORII DTEIA TT AAF    Ln ara e ST GPTDT ELICA VOTATI LN DDT RIT ATI TSI ITINERE o e A È  CREARTI IE IEIRRIA MALARRIIRO E ARTT PONE A MRO II SOI EI CREO ERIC AREE ITA TELIT AIR TIAGO ASTE IE E RETE I RT MENA TITO EU RIETI TTI DIREI Ln TT TAM ma ter ie a. PERSIDE  Spogliate i clivi,  Le valli e gli orti!  Fiori sui vivi! I CRISTIANI  allontanandosi Fiori sui morti! Fiori silvani A piene mani Casto segreto d’amor ci leghi. Canti chi è lieto, Chi è triste preghi. Lieto è chi muore  Nel Dio verace. Amore Fede Amore LA CANZONE LONTANA Rubria è rimasta sola nell'orto. Il canto s’affievolisce allontanandosi. RUBRIA  dopo aver seguito collo sguardo il  i cammino dì Fanuèl  Sì, per salvarti. Ma il mio sogno  [è infranto.  S’accosta al margine del fonte e bacia  il posto della pietra toccato da lui. Si rialza. Tende l’orecchio verso la canzone cristiana che si sperde sempre più nella lontananza. Un sogno santo un dolce sogno fu  Laggiù, lontan, nella canzon che [muore,  L’odo ancor. RUBRIA  L’odo ancor e canta:  [amore ! Amore. sforzandosi d’afferrare gli ultimi suoni L’odo ancor. dopo un lungo silenzio, angosciosamente  Non l’odo più E cade ginocchioni. Ma RIM AA  NI VAIO QAVTI MALLINMA VO: IT RICA OS  NT e tane carl ieri ian ]  a MITA LIETI  }  Ì  i   tino.  19 a 0;  dI  iaia DS x LESLIE TENTA NA LIZ È  STATO LANE SAI LZ ATI  Si vede l'interno dell’oppidum fra i suoi grand’archi centrali, quello di destra che sbocca nell’arena e quello della f0r/a dompae, a sinistra, che s’apre verso il foro boario. In questo grande atrio ha sua foce un criptoportico che si prolunga nel fondo seguendo la lieve curva della fronte del circo; è chiuso, alla diritta di chi guarda, dal muro delle carceri, e la sua parete a mano manca è popolata di botteghe e di   taverne. Nella stessa parete, leggermente concava, si scorgono i primi gradini d’una scala interna che ascende alle precinzioni più alte.  Presso all’arco che sbocca nel circo si vede internarsi nel muro, di prospetto, il   primo ramo d’una scala che sale al podin. Un’ ampia nicchia, fiantheggiante la forfa pompae, accoglie la famosa scultura  Rodiana che rappresenta Zeto ed Anfione in atto d’avvincere Dirce alle corna d’un toro inferocito. La viva luce diurna entra dall’arco esterno nell’oppidurm. Ai pilastri degli archi è affisso l’editto dei giuochi. Vortici di folla irrompono da ogni lato. La maggior calca ferve intorno ad una  quadriga; quivi le fazioni del Circo si affrontano levando grida di trionfo e d’ira,  i agitando toghe e cappelli e pezzuole verdi ed azzurre. Parecchi brandiscono degli  stili, altri minacciano colle pugna gli avversarii. L’auriga, che ritorna vittorioso  dalla gara, porta i colori di parte prasiza, ha le redini attorte dietro la schiena e i  cavalli rivolti nella direzione del criptoportico, impugna un coltello per difendersi de CARE I AZZ RP LIRE DI TI O MAIOTZI DEDITI RZ DI n I prerreni FELICIA vano cavia nta PO TAZTI  ARE TATE dagl’assalitori. I VERDI  Gloria Vittoria GL’AZZURRI  Morte Morte Infamia I VERDI  . Scorpus! Gloria del Circo! A te la palma! GL’AZZURRI Furasti con perfida frode,  Furasti con perfida gara  La palma cruenta! I VERDI Vittoria Vittoria La folla vociferando segue la quadriga e s’interna nel criptoportico. Simon Mago, seguìto a distanza dal suo Centurione, incontra Gobrias  che viene dall’arena. GOBRIAS  a Simon Mago, scherzosamente, coll’inflessione particolare di chi  parla ridendo I Verdi han vinto, è salva Roma. SIMON MAGO  sottovoce a Gobrias Ebben GOBRIAS  sottovoce, dopo essersi appressato a Simon Mago, e rapidamente  Siam pronti. La fune incendiaria acoppierà verso il celio. SIMON MAGO sottovoce E chi la scaglia? GOBRIAS Asteria,  SIMON MAGO  con accento di grandz sorpresa Asteria?    GOBRIAS    Sì. Viva la trassi  Dal baratro de’ serpi ed or ti giova. SIMON MAGO M’odia, mi tradirà. TT RICIPIIA SLEALE TESTI TI A e e tnt ri I i nevi ia ceca mann ast romiiomito nea ra re ORTO PATIRE RR RI II LIONE DINI ONTE IIN  i $  i  GOBRIAS  con accento di chi rassicura Ama i Cristiani, Vorrà salvarli e te salva con essi. SIMON MAGO  dopo un momento di riflessione  Sai l’ordine de’ giuochi? GOBRIAS    indicando l’editto affisso ai pilastri della porta pompae ed avviandosi  a leggerlo    È là, si legge.  Dal fondo del portico sopraggiungono alcuni gladiatori armati per  combattere e disposti în ordine di parata; divisi per coppie, preceduti    da quattro Eneatori con trombe, da un porta-insegne, dal Lanista  e da un servo, entrano nel circo. GOBRIAS 1 gladiatori di Preneste - Passano.  Il supplizio di Dirce, pantomima Coi tori e i veitri e colla morte vera Di femmine Chrestiane. SIMON MAGO  interrompendo A mesi deve. GOBRIAS  continuando la lettura  Laurèolo in croce sbranato dagli orsi. SIMON MAGO  È Fanuèl. Continua. GOBRIAS  ferminando la lettura  Il volo d’Icaro con un gesto d’addio canzonatorio a Simon Mago Buon ti sia Se ne va correndo e scompare nella curva del criptoportico. Dal circo giungono grida di Euoè Euoè Euge Euge Macte Macte mentre un’ondata di folla entra correndo dall’esterno nell’Oppidum. Entra dalla porta d’ingresso una lettiga pomposissima  portata da quattro lettigarii. Una puella Gaditana esce dalla taverna  con alcuni suoi corteggiatori e si mette a danzare in mezzo al crocchio, sotto il criptoportico, una sua danzetta mite e lieve, al suono  di un corno, del tîmpano e di crotali, mentre un giovanetto, colla  doppia tibia alle labbra, l’accompagna. N. e Tigellino scendono la scala del podio e s’arrestano presso  all’arco del circo. N. Che vuoi dir? TIGELLINO  sommessamente Una congiura. N. Contro me? TIGELLINO Contro Roma. I Sacerdoti  Di Simon Mago, per sottrarlo a morte, pria che la torre ei salga ond’ei dovrìa slanciarsi a volo, incendieranno l’Urbe. La puella Gaditana col tibicino e coi liberti, continuando la danza, si eclissano nella curva del criptoportico. N. attento ai clamori del circo ed interrompendo Tigellino Taci. Le grida del circo giungono nell’oppidum da varie altezze e distanze,  seguite da risate e da urli, frammiste a squilli di buccine. GRIDA DAL CIRCO Non vuol morir! Pollice verso Ot,    So E  ibiza ea resin det m m m &m et VNDERITE ATTI TERZA RIAITZI SLI MET III NNT PRIA UNE RATE EEN    ALTRE VOCI  Basta! Vogliam le Dirci! MOLTE GRIDA  Uccidi A morte Segue un momento di tregua Tigellino se ne vale per ripigliare il racconto. TIGELLINO  Seguo lor traccia.  N. imperiosamente, interrompendo Tigellino Taci. Ricomincia il tumulto del circo; s’odono a diverse distanze le grida: Age jam Evax Ahè Ahè Euge Eho Eho Vogliam le Dirci TIGELLINO   I Pretoriani chiedono un cenno mio per afferrarli. N. ascoltando le grida del circo ACK VOCI DEL CIRCO No no no Basta TIGELLINO  risolutamente a Nerone, mentre continuano le grida    lo salvo Roma. Da ogni parte del Circo si odono le grida di Basta Le Dirci La Tragedia Basta N.  in uno scoppio di collera Taci! Non odi la plebe che rugge Voglion le Dirci S’aggira concitato verso il criptoportico. Sono entrati dalla taverna  Gobrias, Terpnos e Alitùro. Scorgendo Alitùro esclama: Olà Presto Alitùro S'affretti la tragedia, Alitùro esce correndo. A  Ì “ c s; i er 5 mero az sn OR E = REIT  FE DIET TREIA EDITO ISCRITTE DARI SA TRTE CETAA COEN EMILIA BOI DST AT ONTO ET CR ITA AE PIEVE LEI OPA LI RITZ NE TIA STRA TIZI NANI enna Dal fondo del criptoportico accorrono moltissimi pantomimi colle  maschere sul viso, portando grosse funi. Ad alcune guardie che sopraggiungono: E voi scacciate  Quei gladiatori. Allo spoliario i morti!  Date le Dirci al popolo Affaccendato come un ordinatore di spettacoli, chiede a Gobrias ed a  Terpnos con grande concitazione Son pronti i tori e le funi e le rocce del Citerone e i veltri e i sagittarii chiamando com forte voce I personaggi d’Anfione e Zeto I due personaggi si presentano Zeto porta una clava e delle funi,  Anfione una cetra. Ecco l’effige del supplizio. Guarda Tebe una Dirce ed io ne uccido cento. Cento aspetti ha la scena In scena ISTRIONI  In scena Tutti s'ingolfano nel criptoportico e scompajono. N. conduce da parte Tigellino e gli dice sommessamente, con calma  ironica: Astuto agrigentino, e non t’avvedi ch’'io già tutto sapea? Guai se all’incendio che m’offre il ciel t'opponi.Ciò ch’io struggo  Risorge. Il mondo è mio! Pria di N. nessun sapea quant’osar può chi regna. Dal fondo del portico s’avvicina lentamente un corteo strano ed atroce. Le donne cristiane, precedute da Fanuèl, vestite come la dirce del marmo rodiano, inghirlandate di verbene, colle mani legate e fra  le mani un tirso od altri emblemi bacchici, camminano fra due file di truci bestiarii che le percuotono a colpi di flagelli se quelle s’arrestano. Seguono alcuni Sagittarii in completo assetto di caccia con archi,  faretre e saette. Una frotta di pantomimi colia maschera muta sul viso chiude il corteo. Simon Mago ed ‘è suoi sacerdoti s’accaniscono contro Fanuèl e lo insultano mentre egli passa. Frattanto la più sordida plebe del circo s'è riversata nell’oppidum. N., presso la. porta pompae, attende cupidamente il passaggio  delle vittime. i TIRI ADATTA MISTI TI ICI FITUIZO TE LOVE TIRI I DT II PIE BROZZI BILIA RSI NA IRINA PREIS ZII SZ VI SIONI TIE ISORIZ VINILE DIZION SRIZZIA GIONE LEE: n: IAA III NANI MPIN ID RS ZI ZITTA LIE CIZ ANTI MOMAL TIIA PIACE ELP DZ MERZIA LA DIRTI TRADITA N TDI II ZI EN DEISAIIOP TRI E SEIT III TAG TOTI I SIIT AEATAS RISTAIC II AE SAMI SE SAT IZII LAT PM MELI DATI AREA) E DE Li LA PLEBE Morte Morte SIMON MAGO mostrando Fanuèl alla Plebe  Ecco il capo delia torma Le Dirci hanno varcato il portico e sono spinte dai bestiarii verso l’arena. SIMONIACI  Latra i tuoi salmi Abbaja Abbaja LA PLEBE $ | i ! TOGATI Raca  SIMON MAGO Raca Il suo vino è sangue. LA PLEBE  Abbaja A morte FANUÈL  con voce alta e serena Credo in un dio solo ed eterno.I cristiani e le cristiane ripetono fervorosamentie le parole di Fanuèl. SIMONIACI E PLEBE Abbaja Abbaja Latra Latra Sulla scala del podio è comparsa una Vestale. Ha il capo coperto dall’insula e il viso nascosto da un velo; ogni suo vestimento è bianco. Un littore co’ fasci abbassati la precede, un flàmine la segue. Giunta  all’ultimo gradino della discesa s’arresta, tende il braccio e la mano  verso Fanuèl. La folla, sorpresa, indietreggia. LA PLEBE Una Vestale ALCUNE VOCI FRA LA FOLLA Sien salvi Sien salvi SENI EE Mat de te I Lerma TT 1—Ih È* È*ÉÈI* O*èZIè @-@èEQIà Nei ste  Lean e MST ALP TAI RO TI SEZ ATTRATTI PIREO REMI II NEO LE ice APRITE RL EZIO TLOZ E ZU ML ARTI RANA TIPI TANA SORIA TTD MADAME DE I LI  PETER AT SIETE PAD IOE SIT IO APZIOT NTTSIT IA DAR TASTI AE ACE ONT NET SERENA RE NR DLE MAT TT DATA TERE CE e terribile e nelle prime parole un po’ ansimante per ira  Chi là dov’'io mi son osò parlar di clemenza? LA VESTALE  sempre colla mano tesa verso Fanuèl e immobile  Stende Vesta con me la man che riscatta le vite. N. lentamente, studiando ogni parola, mentre guarda a Vestale velata  collo smeraldo Ave, 0 Vergine sacra, scopri il volto, poi giura  (Legge è di Numa) che in questi rei non qui ad arte [t'imbatti.  LA VESTALE  con voce di persona atterrita  Una Vestale a giurar non s’astringe.  N. comuno scoppio di collera  Per Giove! Chi le strappa quel vel? SIMON MAGO Io. Il littore tenta d’interporsi co’ fasci, ma Simon Mago s’è già slanciato  sulla Vestale e le strappa il velo. ALCUNI  Sacrilegio ! FANUÈL la riconosce, accorre ad essa, discaccia Simon Mago ed esclama: Sorella! RUBRIA  Fanuè! Sviene fra le braccia di Fanuèl. SIMON MAGO È una cristiana.  Re I ATI OA PRIA RI, de Pa LA PLEBE  È una cristiana,  N.  ravvisandola, la nomina Rubria irridendo Ben tu svieni. SIMON MAGO  Morte LA PLEBE  A Porta Collina! Muoja! N.  Freneticamente Muoja Nel branco delle Dirci!  LA PLEBE  Sì. NERONE con un rapido cenno impone silenzio. Dopo una brevissima sospensio-  ne riprende solenne e tranquillo    Dal capo  L’insula sacra il flàmine le svelga Il Flàmine strappa dal capo di Rubria l’infula e la gitta. Cadan le vesti a brani. FANUÈL Io la difendo. I bestiarii si avventano su Rubria svenuta, le lacerano le vesti. Fanuèl è circondato dai sagittarii. La plebe s’accalca intorno, mentre due bdbestiarii sollevano Rubria sulle teste della folla ruggente e la trasportano nell’arena dove è spinto anche Fanuèl insieme alle Dirci e ai Cristiani che cantano con voce alta e serena. CRISTIANI e CRISTIANE Credo in un Dio solo ed eterno. SE = PRA DE RR ATTRA DI RI PEN TL ILAGIA SITA I TIPO EP ART è ATI DET AT SEA, ILS IN  I VIIITUE RI TANTE SIRREIO BAITA LINEA MODI IT de TIVA DE STLTIIIAI ER  LA PLEBE A morte Abbaja abbaja Raca Raca Morte N. con esaltazione Mano alle funi, alle belve, alle donne Tutte un Eroe denudator le abbranchi, Le avvinca nude in groppa al furiale Nembo de tauri, ebbre d’orror, fugate  Dai veltri in caccia, irte di dardi, esangui, Belle, riverse, i grembi al sol, nel raggio del concavo smeraldo agonizzanti.  N. si avvia al podio. Tutti i pantomimi sono entrati nel circo. Scorgendo Simon Mago o  E tu non voli? Ah! AN! La plebe sghignazza. N. indicando Simon Mago a Tigellino e ridendo Dalla torre dell’Oppido sia tosto  Slanciato in ciel. Non voli? Ascendi all’etere,  Agli astri, al sole! Icaro, vola! sino alla scaia di legname che sta a sinistra del criptoportico.  GOBRIAS, TIGELLINO, LA PLEBE  I ridendo, a Simon Mago, e beffandolo Vola, La guardia germana, afferrato Simon Mago, lo trascina rapidamente  I  Se sai volar Icaro, vola!  I SIMON MAGO si difende con tutte le sue forze; vede Gobrias e lo chiama in soccorso: Gobrias!  GOBRIAS Va! non temer! prolunga la difesa. mo  Correndo e ridendo s’allontana e scompare nel fondo del portico. DELIO NEVA PETRI SEEM ONE O LIMONI ENELA VD PIET A IOIZIETTIIA STET ZA DIE IMI TRITATA SLIDE SVITARE PILOT RIE DINI INIZIA DEVIATO TIENITI SIMON MAGO  implorando ajuto da Tigellino Mi salva TIGELLINO  rigidamente, ai Pretoriani  Sguainate l’armi SIMON MAGO  al colmo dello spavento Tregua La guardia germanica colle armi in pugno caccia Simon Mago, pungendolo e minacciandolo, sui gradini della torre dell’oppidum. N. Icaro, vola! Vola! Vola al sol! N. ridendo sempre più eccitato, entra nel circo. Nel circo non cessano i clamori: si odono le grida feroci A morte  le Dirci, Vogliamo la Tragedia, Non vuol morir! Pollice verso Ad un tratto s’odono degli urli di spavento che vengono dal fondo del  criptoportico e dalle parti più alte dell’edificio dove s’incomincia a  scorgere qualche cirro di fumo. Le grida di terrore aumentano e s’avvicinano. Il fumo penetra nell’oppidum e s’ode Gobrias che grida: L’incendio è nelle fornici Altre voci gridano Soccorso! Il circo divampa Salvate le donne Fuggi! Fuggi Di qua No Fermi Ajuto Attraverso le nubi dell’incendio si scorge la gente che fugge, che  s’urta, che cade. - Una fiumana di popolo irruente invade il cripto-portico, spinta verso lo sbocco della porta pompae. L’Oppidum non è più che una voragine di fumo. PA LED AZ SEPARATI ZA LIM NITAL TU TOA OL  SETS CRA Matte NOLI ARTDIR ATTI AE IO VITERTE NZIRISTI IL MATTEO II SAINT (ARIA E LEIREIREN LI IT ERI IRE TI GIONI NEREE DIREI ISEE ARI LIO NSAIIA N VT IERI TAI ZA SI PAR IENE ALT MT TRON ITA TRLNGTLAE FASI RZAZII RODA Pe agnaiì NATE fi  MARTI  Dich *  n o iu    09°) La  CAPA | VEL  \ Ti (i    SOTA IO ARAN CAIANO Riga Mt  COMBAT OO‘ hi si Lui OL i ge I pot ia Mati.    n r L\ ai pig nt AIR pa‘ICHARRTTA  dA Pa VV fi, / A Li bea  mi o We, Reit oi ja catia \ varo  i é È ); ld 4 N î  dI EIU MELA RI (A \ Mii 4 Dite a LAND.  ui s i La 5 q } Li i dl } WOOD N NAM MARS di VA ai to  Ò 4 \ x A A LI 1S t  « are A, tb, d % La SITA (RORI  \ ‘ Rf A RA | i \ 4 È 4 Wie I Li  pedi \ o ATI fe YALTA ti } PALI  ì Na ti FOA Md NEO aputtato N  } f i PR, A  AMOTITARE (RR ARES 4 I 1) ne o DAT | e  { : \  LUMI, TIAMIZAN A 1, CS NOIA  \ s l È .)  LI  $ D b  OT 1)  TÀ  (RI }  iù Mi  LI a ia  up È,  Pn ’  Î:  Î ti  NT [A  Pi Pal  AREA;  Si; ti vAViba ? \ A a s 1  POTRÀ  TA] Di] i  î Li TINTO    gf” SIORIT MISOLI E GPIZIEIE BITTE PEZZO DL LO ITA EAT NL A CETONA TOT UIL LT petedimenasa stai nn IZ: III È un sotterraneo del circo dove si depongono i morti. La luce riflessa d’una torcia che s’avvicina dirada a poco a poco le tenebre, rischiarando a destra il vano d’una  porta e la rampa d’una scala erta ed angusta. Un rombo lugùbre giunge dall’alto e ad intervalli uno scroscio come di cataste o di mura che ruinino. Asteria, con una fiaccola in mano, discende la scala; giunta alla soglia del sotterraneo s’arresta per illuminare chi la segue, ASTERIA Scendi. Fanuèl la raggiunge. Entrano insieme. Cerchiam fra i morti. FANUÈL  Orror di tomba  Emana lo spoliario.  S'ode ancor da quest’antro funerario  La gran vampa che romba. ASTERIA  Cerchiam. Incomincia ad aggirarsi lentamente guardando a terra lungo la parete  centrale. Al lume della torcia che tiene in mano s’intravvede, là dove  passa, la struttura irregolare del sotterraneo.    Fanuèl va frugando a sua volta nell'ombra lungo la parete di destra. Si parlano a distanza. DCO LI RESI SII PTTASTINTENITI IC AREE SITA SOLITA ‘i pe FANUÈL Cadde la prima, ASTERIA  vivamente    Allor qui giace.  Tardi per lei scoppiò da questa face  Il folgore incendiario! Fanuèl s'imbatte in un corpo, si china, lo tocca, riconosce al tatto  le fasce crurali d’un auriga. Va oltre.  Ecco là dei cadaveri.    Indica un gruppo di morti stesi a terra nell’angolo della parete sini-  stra. Fanuèl accorre e li guarda. FANUÈL Un reziario, due sanniti, un trace. ASTERIA  atterrita Simon Mago! FANUÈL  Ove? ASTERIA indicando con ribrezzo, senza accostarsi, iv cadavere di Simon Mago  gittato un po’ più lontano, in un’insenatura del muro Là. FANUÈL  dopo averlo guardato fissamente    Da Dio fu infranto. Abbominato sia. S'avvia verso il centro del sotterraneo. Il suolo è ingombro d'armi gladiatorie. ASTERIA  Cerchiam. Fanuèl scorge, sopra un letto funebre, giacente come una morta, una  donna în veste bianca. FANUÈL  chiamando con voce agitata Accorri. i BZ IiMRANZIAR TINA TIE I A  d  ASTERIA  accorre colia face. È lei? FANUÈL cade in ginocchio, posando la testa e le braccia sul corpo di Rubria. Martire mia! Gieltz, Respira, Vivrà Asteria appoggia la face ad una pietra vicina, poi corre dal lato sinistro del corpo di Rubria per ajutarila. Squarciale i panni Salvala Asteria, mentre Fanuèl parla, lacera la veste di Rubria sul fianco. È svenuta.  Cerca le sue ferite, Io l’ho veduta  Sanguinar nuda nel nembo infernale Salvala Cerca cerca sotto il core Là sotto il core la ferì lo strale D'un sagittario. aspettando ansiosamente  Ebben?  ASTERIA guardando la ferita di Rubria attraverso lo squarcio delle vesti Spavento Muore. FANUÈL Muore Non muoja qui non nell’orrore  Di quest’antro Fa per sollevarla e portarla altrove. ASTERIA  opponendosi con impeto La getti nella strage divampa il celio, arde il velabro, è l’odio d’un dio su Roma. Il circo è un mar di brage. Se la tocchi l’uccidi scoppia un fragore terribile sulla volta del sotterraneo. Crolla il podio Asteria ha visto qualche riflesso dell'incendio sulla scala d’onde scese  e la risale correndo e scompare mentre Rubria apre gli occhi. ALI RUBRIA Ah! FANUÈL tutto chino ‘presso di lei  Non temer, son con te. RUBRIA  trasognata Fanuèl.  Dove son? dove fui? Tu salvo Io viva L’anima mia fuggiva M’offusca un vel Colta da una reminiscenza d’orrore, getta un grido, si sforza di sollevare il capo. FANUÈL con grande dolcezza No. Una mano pia ti ricoperse con la bianca stola. Riposa. Oblia. RUBRIA  Chinar dovrei le mie ginocchia a terra d’innanzi a te. Tenta di sollevarsi, ricade. Son ferita non posso. FANUÈL Rubria RUBRIA  Pietà l’orror mi riafferra Il Mostro il turbin rosso. Viscere e carni Ascondimi M’ajuta!  FANUÈL  inorridito Fu il mio grido d’amor che t'ha perduta! (o  [4  sd  RL STT IRENE RIME ID TI III DI LTTE INT I RIINA TOR ILE TI i i  Ì  i  Ki  |  Ì  i 4  i  i  | RUBRIA D’amor io t'amo tanto dopo una breve pausa  Fanuèl morirò?  FANUÈL  seduto accosto a lei sullo stesso letto e posandote dolcemente la mano sulla testa e accarezzandole i capelli e la fronte PISTE STE SIT ATI RIETI PATITI LIO III O I TAI  sc Vivrai. RUBRIA  dolcemente SI SI Oh com'è buona e calda la carezza della tua man Bacia la mano di Fanuètl. PRANZI LETI TIT LIA pu PSI IL Più accanto a me più accanto. Così COSÌ.Tu m’insegnasti questa gran dolcezza  Di sorrider nel pianto. M’odi la morte A ogni attimo mi strugge Non pianger, Fanuèl, stringimi forte, Finchè mi stringi, l’anima non sfugge. $r O ALLE TA I Dopo un lungo riposo ed un silenzio di raccoglimento, soggiunge: Servivo un falso altar. Tutte le sere  Venìa' coll’ idria del mio tempio... al fonte  Dell’orto santo e dopo le preghiere tornavo all’atrio antico, a piè del monte tentai confonder nella stessa vampa l’ara ardente di Vesta e la pia lampa della vergine saggia. Ecco il peccata. Or tutto è confessato, attendo il tuo perdono. Tutta or mi sai, sorridimi. Monda e beata or sono. ERMETICA A FANUÈL alzandosi e ponendole le mani sulla fronte e baciandola, con soavissimo fervore, Benedizion d’ immenso amore accensa sul capo tuo col mio bacio si posa. I iituitiolititiiceste netti rie ss n ur si n  PRETI LTL DATI IE VIII RUBRIA sottovoce Fanuèl! Fanuèl! Estasi immensa! Fanuèl torna a sederlesi a lato. Rubria posa la testa sul petto di  Fanubl. FANUÈL Tu sei la sposa, l’egra mia sposa che sul cor mi giace. RUBRIA  Dimmi, ove siamo? FANUÈL In un asil di pace.  Dormi quieta. RUBRIA con voce sempre più fievole Sento che ascende l’ombra d’un vespero strano. Dammi. Fa degli sforzi per continuare a parlare; non può. FANUÈL Che vuoi? RUBRIA  con istento La mano. Fanuèl s’affretta a darle la mano. Narrami ancora, mentre m’addormento, del mar di Tiberiade, tranquilla onda che varca in Galilea. FANUÈL quasi cullandola  Laggiù, fra i giunchi di Genèsareth, oscilla ancor la barca ove pregò Gesù. Raccoglie Rubria sul suo petto. Quella cadenza languida di cuna invita a stormi i bimbi sulla prora. Dormi tranquilla, dormi. Meo: AIUTO SRL ZE MEIER DAI RUBRIA con un fil di voce Ancòra ancòra. FANUÈL. Lenta salìia dal Libano la luna, era quell’ora in cui sorgon gl’incanti. RUBRIA come un soffio, spegnendosi Ancòra ancòra. FANUÈL colle mani giunte e gl’occhi rivolti al cielo Escian le turbe oranti per la lunare aurora. Sente Rubria inerte fra le sue braccia, la chiama: Rubria. Asteria ritorna scendendo velocemente la ripida scala. Fanuèl continua a ricercare la vita sul cadavere di Rubria. ASTERIA L’ incendio ne avvolge, ogni scampo di là n'è tolto. Divampan le torri, crollano gli archi. Vede un uscio sprangato nella parete sinistra. Un lampo di speranza! Si slancia affannosa attraverso gli ingombri del suolo verso la porta d’uscita, leva la spranga, apre. Sei salvo. Ecco una porta. Esce un istante per esplorare; rientra. Libero è il passo sulla soglia d’onde è entrata  Accorri, accorri! FANUÈL sul cadavere di Rubria Morta. Asteria scuote Fanuèl e lo trascina insino all'uscita. VELA EDARISCAI RED RR  MR ARIE rat tn IRSISILI E I FTT ITANI EN AZZIONDANT TI FIATI DE e AR TANI PINNA DIR RE ENIT NIE ST Va CNMI TE  FANUÈL dalla soglia, con un ultimo sguardo Rubria, addio. Scompare dalla porta d’onde entrò Asteria. Asteria udendo quel nome ritorna vicino alla morta. ASTERIA con esirema violenza Rubria? Tu? Quella che il mio truce iddio ghermì sull’ara, tu, rispondi, tace. Lo spoliarium incomincia ad essere invaso dal fumo. Dimmi Pardor del suo bacio vorace verso cui tende spasimando il mio, poi, d’un tratto, con immensa pietà martire santa. S'inginocchia, estrae dol seno il fiore della via Appia e lo lascia cadere sulla morta dicendo: Pace, pace, pace. Si sprofonda una parte della volta. Asteria si salva fuggendo da dove è uscito Fanubl. DEAR er a i Ù detiia Told e ID i DITER) II RIETI EA ia AI PA a I HU LA n  PRI ARENA  QUARERAA LOGO ATSIRONT NO Id  vi NABLAPOTNO DO MUPh il ti  : UA NI  N i,  DA IRRCUn). i  N MLM sti  ci Mg AV  [RRIDIV UR UTA dl Mino, VA patria Ir Uli  Nati x MI Mu iva! VIBO  TIVI HA |î sit MATICOPO ANASROT TAMARA IMGRNNLI “n   I s Tua  Ld r ti  RS N  f Ii  DA 10  LR ITRIONT IR A IRIOVRARI Va; |ang ; \ DON  NT] D) A ONIRI Ù  IUSR (VERSA » Dieta Îl  i i aloni  RUBA N INIT i fi gue Al< Ù {UTI: D) dati. DA) y  LI î ANITA AMARARA ha] in  |glio ti w Mi ii dt Tu hi) anni LIMIULAA  Ti  Lava   NANI  GUAI  CORVI IOLANTÀ    IR00    ba    DI i LE  "RIA N  IRA 4 IA » Hu) 4 RO i MEU xi s/  OAV VR Dal O A  Mi TIC I LITRI  APIÙ Ù% Ù “INA SANT) HU  SEI Le SAR N UE STE  } vi DI a  IT   Ri MA ERCANE Uli a  SRI, DISLI. NNT Monni LI) i i Si  WATAG LL  f  Ti  î) dI  SITI RO Th T ti CR TITO  Mo k  1  LU ) È hl MIGRUAIZZO  Vi Word: ti "ili  Do toi È  dl  0A] NI  MAgLNIOd;  Da PUO ERA LA]  TAAZAMIT  Mot 4 pl De î  MOCCENTUCIV I dle  i ate PTT, K  He VARI    LIRE) ;)  7107 000! LATO:  AI ATC (4   #0  viti ; mg: pi  PUMP AA BOITO: “NERONE” IL MELODRAMMA. Lucio Domizio Enobarbo. Sepolto a Colle Pincio presso la tomba di famiglia dei Domizii Ahenobarbi Nerone.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nesi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – adulescentuli oratiuncula – Sono dalle celeste sphere Venere: perche  amore inspiro: dagl’elementi fuoco: perché  d’amore accendo da uoi con vocabul greco CHARITÀ chiamata: perché col mio ardore della GRAZIA della salute viso degni – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “I once had a fight with Nowell-Smith; he was saying that a philosopher should not be a moralist; I told him that by that token Nesi wasn’t one!” – “De moribus” Figlio di Francesco di Giovanni e di Nera di Giovanni Spinelli, si dedica interamente agli studi filosofici. Strinsge stretti rapporti con i principali umanisti fiorentini dell'epoca, tra cui ACCIAIUOLI e FICINO (si veda). Influenzato dall'operato di Savonarola, ricopre anche diverse cariche politiche. Altri saggi: “Adulescentuli oratiuncula”; “Orazione del corpo di Cristo”; “Orazione de Eucharestia” “ Orazione sull'umiltà” “Sulla carità”; “De moribus”; “De charitate”; “Oraculum de novo saeculo, Canzoniere, Poema. Treccan Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Obviously, Nesi is not having Davidson in mind. But Nesi is wrong in identifying GRAZIA with CHARITA, ‘greco vocabull” – this is an etymological blunder. The charities were indeed three – Eglea, Eufrosina, e Talia – and they danced mainly to eroticse Mars, or more frequently Giove and Mars together --. Of course the expression ‘gratia’ is not cognate! – For Davidson, charity is what the Italians refer to ‘carità’, formed out of ‘carus’ – the spelling with ‘ch’ is a French corruption! So to be charitable, in Davidson’s interpretation, is to be kind, caro. Not graceful! --. Grice: “If Davidson doesn’t know his Greek mythology, that’s not my fault --. Instead of his singular principle of charities, I will take the liberty to sub-divide it into three maxims – The first maxim refers to the first charity, Aglae: splendour; thes second maxim refers to the second charity, Eufrosina, mirth; the third maxim refers to the third charity, Talia, cheer. In Kantian format, these counsels of prudence become: be splendorous – or try to make your conversational move one that is splendorous; be merry – or try to make your conversational move one that will carry mirth to your co-conversationalist; and ‘be cheerful’, try to make your conversational move one as if it was spawned by Thalia!” -- Giovanni Nesi. Nesi. Keywords: adulescentuli oratiuncula, principle of charity, Davidson on charity on Grice. Who was the first Englishman to use ‘charity’ as a hermeneutic principle? Butler. Grice speaks of self-love and benevolence. Benevolence – and charity? Grice is not so much concerned with Beneficenza or Malificenza, but with Benevolenza, and Malevolenza – where does charity fit? What was Ciceronian for charity. What is pre-Christian about charity? Charisma, charitas, folk etymological confusion here – caritativo – carita – caro, “le tre carità in armónico conubio” “tre carità”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nesi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nicolao: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Among his pupils are the two sons that Marc’Antonio has with Cleopatra. He writes a biography of Ottaviano, and the two became friends.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nifo: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale ludicra – la scuola di Sessa -- filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sessa). Filosofo italiano. Sessa, Caserta, Campania. Grice: “I like Nifo; first, because he wrote a treatise he called ‘ludicrous rhetoric;’ second, because he tried to refute Pomponazzi against the mortality of the soul – surely the soul is ‘mortal’ is a category mistake --.” Alla corte di Carlo V (L. Toro, Sessa Aurunca). Studia Padova sotto Vernia. Insegna a Padova, Napoli, Roma e Pisa, guadagnando una fama tale da essere incaricato e pagato da Leone X di difendere l’immortalità dell’animo di Leone X contro gl’attacchi di Pomponazzi e degli alessandristi. Ricompensato con la nomina a conte palatino con il diritto di assumere il cognome del Papa, Medici. La sua prima filosofia si ispira ad Averroè, modifica poi la propria visione giungendo a posizioni più vicine al domma romano. Pubblica un'edizione delle opere di Averroè corredate di un commento compatibile con la sua nuova posizione. Nella grande controversia con gli alessandristi si oppose alla tesi di Pomponazzi per il quale l'animo razionale non e separabile dal corpo materiale e, dunque, la morte di questo porta con sé anche la scomparsa dell'anima. Sostenne, invece, che l'animo di Leone X, quale parte dell'intelletto assoluto, non e distruttibile e alla morte del corpo di Leone X si fonde in un'unità eterna. Tra i suoi allievi, presso Salerno, tra gli altri, ricordiamo, Rosselli, filosofo calabrese autore di un testo molto controverso, Apologeticus adversos cucullatos (Parma), in cui cerca di affermare le sue dottrine che tendono a discostarsi da quello del suo maestro. Lo si ritiene protagonista di un curioso episodio. Pubblica il trattato “De regnandi peritia” (la perizia di regnare), che alcuni ritengono essere un plagio del più noto “Il Principe” di Machiavelli del cui manoscritto e venuto in possesso. Gli e conferita la cittadinanza onoraria di Napoli ed iessa e estesa ai figli ed agli eredi in perpetuo.A lui è dedicato il Convitto Nazionale di Sessa Aurunca, della quale e anche sindaco. Saggi:“Liber de intellectu”; “De immortalitate animi”; “De infinitate primi motoris quaestio” [cf. Bruno, Galilei, Novaro, infinito]; “Opuscula moralia et politica”; “Dialectica ludicra,” “De regnandi peritia.”  Furono poi più volte ripubblicati, in quanto ampiamente diffusi, i suoi numerosi commentari su Aristotele, di cui i più importanti sono “Aristotelis de generatione et corruptione liber N. philosopho Suessano interprete et expositore”; “Expositiones in libros de sophisticos elenchis Aristotelis”; “Expositiones in omnes libros de Historia animalim, de partibus animalium et earum causis ac de Generatione animalium, In libris Aristotelis meteorologicis commentaria” (Venezia, Ottaviano Scoto); Physicorum auscultationum Aristotelis libri octo”; “Super Libros Priorum Aristotelis”; “Commentarium in III libros Aristotelis De anima”; “Dilucidarium metaphysicarum disputationum in Aristotelis Deum et quatuor libros metaphysicarum”. “Dialectica ludicra”. Biblioteca del Convitto, Dialectica; “Dialectica ludicra”; “In libris Aristotelis meteorologicis commentaria”; “In libros Aristotelis De generatione et corruptione interpretationes et commentaria, Biblioteca del Convitto Nifo di Sessa Aurunca; “In libros Aristotelis de generatione et corruptione interpretationes et commentaria.  G. Gabrieli, "Raccolta Storica dei Comuni", Istituto di Studi Atellani, Sant'Arpino, C.  De Lellis, Discorsi delle Famiglie Nobili del Regno di Napoli, Napoli, G. Paci, G. Marco, I sindaci della città di Sessa, Sessa Aurunca, Zano. La filosofia nella corte (Milano, Bompiani). Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, G. Marco, G. Parolino, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Minturno, Caramanica, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, E. De Bellis, Il pensiero logico, Galatina, Congedo, Ennio De Bellis, Aspetti storiografici e metodologici, Galatina, Congedo, E. ellis,  Collana Quaderni di “Rinascimento”. Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento (Firenze, Olschki); A. Poppi, I liceii di Padova, Dizionario biografico degli italiani, Ratisbona. Grice: “I enjoyed Nifo’s rambling on dreaming – quite an complement for Descartes on clear and distinct perception!” Grice: “Part of my cooperative principle is based on Nifo – echoing Aristotle rather than Kant. Or rather echoing Kantotle. In this case, it’s Aristotle’s key concept of a ‘virtue’ – a collective virtue, like solidarity, lies at the bottom of my conversational principle of cooperation. The virtue is ONE of course, which is good. Each maxim then attends to some virtue. Nifo is better than Castiglione in that his Italian is better. He relies on Cicero, rather than on this or that court poet! So there’s VERITAS, HONESTAS, CARITAS, and the rest. Each is seen as a virtue, and the point is to find the ‘middle point’ or mesotes. A bore is a bore but if you include this or that ‘implicatura ludicra’, two gentlemen can enjoy a nice conversation. Nifo is having the Northern Italian courts in mind, away from that nefarious influence of the Pope, who had paid him to demonstrate the immortality of his soul! The virtue model of conversation is an interestin gone – “De re aulica” is the way Nifo considers this, and he makes interesting observations on how to attain a middle way, i.e .how to win frineds and lose enemies!” –Of course there are overlaps. My model is Kantian, but what is a counsel of prudence if not a nod to Aristotle’s virtue of prudentia – the principle is thus a principle of conversationl conviviality, urbanity --. There are conceptual problems with a purely Aristotelian model, rather than Ariskantian one. One is not after VIRTUE, but the MESOTES – So the ideal is not to be searched for. It’s not pure HONESTAS, but that which fits civil conversation. Oddly, Italians were more concerned with ‘vitii’, which due to their Roman dogmatic assumptions, they correlate with ‘vice’. For each vice, we should not look for the VIRTUE, but to the MESOTES --. Kant could not make head or tail of this!  PORTET primum colituere quid  Abri materia:  nomen Co quid verbum: deinde quid eji negatio, quidue effirmatio: atque  enuntiatio or oratio.  MISSIS  ventofis exor-  dijs: breuibus LIZIO quid pertractare vult proponit. Nam rei intentio: et subiectum apud graecos ide  funt: differunta; ratione. Vt enim fubiectum habet rationem finis, intentio nuncupatur, ve vero habet rationem materia: in qua propria infunt accidentia, subiectum, fue materia à noftris appellatur. Eft autem intentio libri prefentis, fubictum, fiue materia enun-tiatio ipla: cuius partes constitutiva, que integrales dicuntur, fünt nomen et verbum. Prima vero et prima-riz pecies sunt affirmatio de negation. Genus autem enuntiationis est oratio. Hanc igitur intentionem proponit, et inquit{ Primum oportet conflituere}hoc eft definire{quid nome et quid verbum,ve integrales par tes enuntiationis, verbum illudf oportet} non dicit necessitatem simpliciter, sed conditione. nam fi de enuntiatione per tractaturus est, opus est ve primo de nomine, deg; verbo percurrat. {Deinde} 8e quati fecundo lo coquid eit negatio, quidue affirmatio? tanquam primaria enuntationis species atque, tertio quid/enuntiatio} quid {& oratio} enuntiatio quidem ve intentio, subiectum, ac materia: oratio vero vt genus fubicâi.  Multa graci, vt Ammonius, Philoponus: et latini, vt  BOEZIO (si veda) et AQUINO (si veda) contendunt. circa feriem verborom: qua, quia ventofa sunt, ad commodumé; non multum accepta, hac fufficiant. Boetius hiclubie-  iedle.  ctum,materiam ac intentionem libri ait efle interpretationem. Nam inscriptio libri ab cius intentioneficri  obilimer es affolet, vt inquit Philoponus in primo Priorum. Obij-  ire Dertrum.  ciunt côtra quidem viri clarissimi, qui subtiles perhi-  bentur. Nam interpretatio vel fumitur pro VOCE ARTICVLATA CVM INTENTIONE QVICQVAM SIGNIFICANDA PROLATA,  vel pro voce articulata prolata ad signiticandum esse vel non esse, primum quidem non. nam tunc effet nimis commune, effet enim compositis et simplicibus commune quoddam. Hoc autem falsum eft, quia hber hic eit de medijs. Nec secundum, quia liberhic non eit de  Secunda põ.  voce, sed de intentione voces. Propter ha enuntia-  Confutatie. tionem in mente fubiectum efle fingunt. Hacpueri. lia funt, nec digna nostra disputatione. Verum fipfi  chuntiationem mentalem subiectum esse fatentur, ad quem de vocali, vel scripta inquirere attinebit? Pro-  enie quid.  pter hac quod graece “ermenia” appellatur, latine sive “enuntiatio,” sive, “interpretatio” dicatur, ide eft. Et de hac eft liber præsens, de mentali quidem ve quod, de vocali vel scripta, vt SIGNVM, de re vero vt caula. Nam veritas in voce est ve SIGNVM, in mente vt subiectum, in re vt in caufi, vt dicit Ammonius, necaliter Boctius (entit.Multa alia dici folêt, qua quia facilia, pretermittimus. Excufaio nottri enim frequenter circa facilia fimbrias dilatant,  circa vero ardua et occulta voces fummittunt. Tu vero a nobis contrarium expeêtabis, quantum videlicet a nobis fieri poteft.  Sunt quidomigitur ea que in uoce, carum, que IN ANIMA PASSIONVM NOTE. iEt que feribuntur, corum que in noce. Et  рета луна  quemadmodum nec littere omnibus cadem, fie nee noces cedem.  diete scriptura  med nico  De nomine, de di verbo, chuntiatione, ac oratione.  pertractare propofuit, ante tamen quam de his prole- Cản de veche  quatur, quadam communia de vocibus, scripturis, ac  TI ferime  ANIMA PASSIONIBVS intercipit, fed de caufa intercepti  babetsr.  ambigunt expofitores. Herminius necesitatem illus ny-  Canfa Hervnd  modi intercepti fuifleautumat, vt propofita rei com-  modum infinuaret. Sed hoc ftare non poteft. na vtilitatis commodiue narratio prohemij pais est, vt LIZIO. in  Rhetoricis tradit. fumus autem nuncipfo in tractatu, quod verbú igitur innuit. Porphyrius interpofitz rei  Confa Perply  caulam propter veterum difienfus circa vocum figni-  ry•  ficationes, inquit. nam veterum quida voces, formas, fue IDEAS SIGNIFICARE credidere, alij CONCEPTIONES, alij  SENSVS fenfation esúcipfas, alij res exiftentes. quia igitur  Ariftoteles de nomine deá, verbo pertractaturus erat, contrarias di politiones, ac aduerfa impedimenta eli-dendo, veteri quaftioni generatim curfimé; fatisfecit.  Sed nec hoc itare potett. Primo quod quafio hac Cofitaio.  partem ad quamlibet definita, que difturus eft de no mine et verbo, non impedit. Secundo hac res eit gravis, eltés altioris negocij, tranfcenditg; limina præsentis voluminis, quum de ideis, deá; formis contendat.  Melius igitur cum Alexandro, Ammoniog; fontien dum, quod Ariftoteles hac praaccipit. Tum ve genus  Expofitie cane  definiendarum rerum colligat. Tum differentiam có-, Fa) Secunda ve fitutivam, videlicet, g› nomen verbum quaque ad placitum ignificent. Tum differentiam difcretiuam,  vidclicet, vt nomen fine vero et falso, enuntiatio, et ora tio cum vero vel falso. Hac enim Arift. animaduertens quedam communia de vocibus, scripturis, ac PASSIONIBVS preaccipit. Affumitigitur quatuor ad pralentem Que LIZIO pertractationem conferentia, res videlicet, conceptiones, voces, atque litteras. Oportet autem primo petere hac quatuor non fruftra ele, fed aliquem propterfi-nem.fiquidem neg; natura, negars aliquid fruftra fa ciant. Secundo petimus horum quatuor, duo effena-  tura lefe habentia, vt res conceptionesá; duo vero po-  Prima Petitio. fitione, vt voces et littera. Veigitur fcias qua horum  Secunde.  natura fe habeant, quaue politione, ponit praceptum Preceptum,  ciusinodi, e qua aque omnes cadem funt, hac natura se habent, qua vero non apud omnes eadem, hec pa-fitionefe habent. Huius precepti prima pars co patet,  a natura in cunétis niformis est et fimilis. Pofitio vero cuariat. Qua ere quum res 8e conceptiones apud omnes erdem fist, natura fe habent, voces vero &e lit-tera, quum cuarient, pofitione habentur.  Arguitigi- Syllogi frang lit  tur, quecung; funtalorum SIGNA VEL NOTE, positionefe  habent. VOCES et scripta SVNT NOTA VEL SIGNA ALIORVM. nam VOCES SVNT NOTÆ CONCEPTIONVM,  cum. Igitur, voces et scripta sunt positione. praponit mi norem.d.{Sunt quide igif ea, qua in voce cuiufmodi  funt nomina et verba-fearum quin anima palsionum notz, et que feribuntur] Svnt NOTÆ SIVE SIGNA: {corú que  in voce} Hec vt minor quali concludit, et inquit. (Er} hoc verbum in greca coltructione, quicquid graci fen tiất, vim habet lape illativam apud LIZIO. quafi dicat. {Igitur quemadmodum nec littera omnibus ex dem, fic nec voces eedem}verbum, {ic} in verbis gracis non est, sed ex vi constructionis sub audiendum. Secunda igitur pracepti pars perficua, videlicet, ep ea que in voce, et que icribuntur, politione fe habent. Aliter intelligi poteft, vt dicemus.  Queritur verbum illud,  Dulintio:2•  figitur} quo modo tenct. Expolitor latinus ait dixiffe igur, quali ex premifsis concludens hune. videlicet. in modum de nomine deé; verbo per tractandum, nomina et verba voces funt. igitur de vocibus per traêtandum. Graeci omnes verbum illud efle notim executionis, de non illationis, affirmant, quod mihi conuenien-  Secanda dula tius eft. Quarit secundo Ammonius cur primo è vocibus, quamè rebus sermocinari capit. Dicendum de eis primo, tanquamà magis huic libro conueniétibus,  Tertia dubs quicquid Ammonius dicat. Querit terto Porphynius cur dixit {Sunt quidem igitur ca que in voce}& non, {funt quide igitur voces; Itéd cur no dixit litter vti,  REsPanpb  fea que feribuntur, dicit. Porphyrius vuleg nomen et verbum funt partes orationis. prolatz eft enim oratio  prolata totum quoddam integrale ex nomine &verbo  conftitutum.nomen vero et verbum fcripta partes ora tionis fcripta, et qí partes funt in toto magis quam contra, totum in partibus, nam continet totum partes,  et no econtra. Idcircoinquitffunt quide igitur ea, qua  funt in voce} hoc eft nomé et verbum, que funt in yo ce, hoc elt oratione prolata vt partes fearum que funt IN ANIMA PASSIONVM NOTÆ, &e ea que feribuntur f videli... cet nomen et verbum in scripta oratione {corum quie  Confitatio.  funtin voce.} Sed hac expolitio ridenda eft. Tum pri mo, quia cum ditficultate intelligitur partes eile in toto, elle in enim non competit partibus nill improprie quarto Phylica auscultationis, clt autem loquendum veplures. secundo Topicorum. Tum quia in tam exiguo sermone æquivocaret de eflein. Nam dum dicit  ¿corú qua funti n anima} fumit effein. vna ratione, dã dicet fea que in voce} alia ratione. Similiratione errant qui volunt esse in capi vt inferius continetur in quo  fuo fuperiori. Nam primo in verbo effe in, acciperetur proprie lecundo vero improprie.  Quare melius effe  in, in vtrog; codem modo accipiendum est. Nam nomen et verbum funtin voce vt in subiecto, vt i res artificialis in re naturali. erit igitur lenfus {funt quidem igitur ea qua in vocef vt nomen et verbum, qua in vo cebarent, vt in materia et fubiecto, NOTE carú PASSIONVM QVÆ IN ANIMA SVNT, etiam ve in materia 8e fubie-Eto. Nam conftat tune Ariftotelem non aquiuocaffe  verboillo effe in. Quarit quarto Ammonius cur Arift.  Querte dubi» ait paísionum, pathema enim grace palsio eit, palsio  aurem affectus. modo affeCtus non eft conceptio, fiue fimilitudo, quam LIZIO intelligit. Dicendumgtria. videlicet similitudo, CONCEPTIO et PASSIO idem Salstio funt, alia tamen ratione CONCEPTIO enim et intelletio vt intelligédi principium, est ratio: ve veroà reipla de-rivatur, similitudo sive species, vt intellectum ipsum perficit, PASSIO vnde et intelligere et sentire in quodam pati faltem perfective confiftit, ve dicit in his qua de anima. vnde qui verbum graecum naBorar in latinum conüertunt “AFFECTVVM,” nee grieciliant, nec graecam constructionem (entiunt. Quinto quarunt, mul  2uinte duMk  taefiein voce, qua non sunt PASSIONVM NOTE, v gravitas, acuitas, et ACCENTVS [H. P. Grice on STRESS as non-propositional], et id genus. Dicendum propositionem LIZIO indefinite effe legendam, non autem vniversaliter. Sexto petijt. vtrum yt ea, quein vo  Sexta duba.  ce note funt eorum que in anima, ita ca que feribuntur, corum qua in voce. Respondet Alexander go lic,  wleeRGie  et tunclittera est legenda fie{ funt quidem igitur ca qua in vece, earum que in ánima PASSIONVM note, quem-  admodum qua icibuntur, corum qua in voce. Nam  verbum illud sa graecum, quod latine frequentilsi-mein et convertitur. Interdum Alexander vult apud graecos accipi pro nota similitudinis, ve proficut, vel quemadmodum, &id genus. Hec Alexan. diceret.  Huic obijcit Porphyrius. Primo, quia ad simplicem obiedia Pore fenfum nihil addi oportet. Secundo, quia in tam breui flore.  ordine, tamque brevi oratione non est partitio intercidenda. Tertio, fita lehabent que scribuntur ad voces, ve voces ad ea, que in anima, tune ve voces varijs litteris permutantur, fie PASSIONES VARIIS vocibus cua-riabuntur. Mibi videtur cum Alexandro et Alpaxio, Lupi proprie &ita secundo modo exponi potelt, vt LIZIO pro-lequendo de nomine verbog; primo colligat inter voces et scripta convenientias. Secundo INTER RES ET PASSIONES. Voces igitur et scripta conveniunt primo guam-bo sunt ve SIGNA, voces quidem conceptionum, scripta vero vocum. Secundo o vt voces non sunt omnibus ezdem, ita scripta. Inquit, {fint quidé igitur qua in vo cetearum qua in anima, PASSIONVM NOTE et qua feri-bütur, corum qua in voce. jQuare voces et scripta conveniunt in hoc q ambo funt vt NOTE SIVE SIGNA. Ethec ell prima convenientia. Deinde subfcribit secundam. d.{8 quemadmodum qua feribuntur non cadem om nibus, fieneg; voces exdem. fHac eit secunda convenientia. Dixit autem fin ANIMA} quod graece elt psyche, et non in intellectu, quoniam intellectus etiam ad diuinum refertur, aut pincellectus novas PASSIONES non fufcipit, sed de his in libro nostro de intellectu, et de anima. Ea ergo, qua sunt in voce et ca qua funt in feriptis conteniunt primo e AMBO NOTA AC SIGNA SVNT. Secundo omnibus cadem non sunt.  Tune ad obiedta con-  Defryle fle.  tra Alexandrum. Ad primum dicendum illum simplicem sensum esse potentia et virtute amplum et composituim. Similiter si oratio est brevis, compendio efe oblonga. Ad hectèrtium argumentum probat ibi no esse in toto similitudinem, sed in parte efe potelt, vt  Alexander fentit.  Quorum tamen be note primo, cedem omnibus pafrio=- Serptere nes anime funtiet quoram bac similitudines, res iam ecdem.  Debis quidem igiur: dietum ef in his que de Anima, altes vius enim bec sunt negocif.  Capit LIZIO, vt Alexander dicebat, ponere  Cim.j.  differentiam inter ca que positione talia sunt, et ca que natura talia. Ea qua in voce et ca qua scribuntur, positione talia funt. Nune vero qu ANIMA PASSIONES  et resfint natura tales, declarat. Potest autem textus esse pra-milla, et por esse simplex narratio. Siquidem pramif-  f, syllogifnus erit, que eadem apud oes: sunt per naturam talia-natura.n. vt Ammonius inquit, est vniformis semper. PASSIONES ET RES EADEM APVD OMNES. Igitur, natura tales crunt De syllogilmo accepit minorem est  in textu. Si vero est narratio tín, elt tune secunda pars differentia, et inquit. {Quorum ti he nota primo:fune PASSIONES ANIMA oibus eadem: et quorum ha similitudinestres iam eadem } funt. Igitur, PASSIONES ET RES OMNIBVS EADEM. 8e ita tales per naturam. Hac fortaf-fe expositione LIZIO, verba examinádo : argumentum  Herminij contra Alexandrum imbecille est. Noenim  Alexã. vult o apud omnes fint paísiones eademi apud quos voces, ed vt dixi, g› vel tangat minorem, vel par-  2iPeply. tem differentiz secundam perficiat. Animadversione dignum Porphyrium in defendendo Alexandrum: affirmare guca quorum voces apud omnes cadem: 8e  ipsa sunt eadem et hoc generatim tam vniuucis ipsis,  quamaque vocis. Devaio vcis quidem cxipsorum no  minum ratione conflat. De a quiuocis vero, QVONIAM ANIMVS AVDENTIS SEMPER fibi nomen ad significationem debitam, adquamúe A PROFERENTE EMITTITVR [H. P. Grice, UTTERER and REPICPIENT or ADDRESSEE], ac-  Confutatis cipit. Sed hoc ftare non poteit. nunquam enim æquivoca propositio esset distinguenda, nam ANIMVS AVSCVLTANTIS SEMPER cam conformiter animo proferentis  Вкуб Нас.  acciperet. Hermenius aliter sermones LIZIO, intelli  Nam VOCES SIGNIFICANT PASSIONES PRIMO ET SECVNDO RES, PASSIONES autem, tantum  Crufidatio. res decernunt. Sed hoc ftare non potest, primo quod  Arittote. dixithac, non igitur lapide efiet hic repetendum. Secundo verbum illud eadem ad quid adderetur? Ellet enim inutile, nifi LIZIO com munepafsioni-  Dubitais: bus et rebus fumat, vt dicit Alexan. Sed tune dices ad quid verbum illud {primo jadditurAlexander vuleno mina SIGNIFICARE PASSIONES AC RES, vt nomen iftud homo 8e naturam ipsam hominis existentem, et eius CONCEPTIONEM SIGNIFICET. verum quia nomen num aque primo duo fignificare non poteft, idcirco LIZIO adijcit  ¿primo., Nã ea nomina, qua in voce sunt, PRIMO PASSIONES Cantre Alex.  fones SIGNIFICANT, SECVNDO vero RES. Recentiores obii ciunt nam ordo significationum est iuxta ordinem conceptionum. Sed RES PRIVS INTELLIGITVR, quam cius PASSIO. Igitur, PRIVS voce significatur. Ad hac nomen semper predicatur de sua SIGNIFICATIONE. Nomen illud “homo” non prædicatur DE HOMINIS CONCEPTIONE. Igitur, [cf. Grice, ‘shaggy’ does not mean, ‘what the utterer thinks is shaggy] il-  Difesie Ale lam non significat.  Dici potell pro Alexandro ep nomen in voce primo primitate, vrita dicam, subordinationis PASSIONES PRIMO SIGNIFICABIT. Primitate auré ap-  Tradraiale prebélions, res primo, Quaretextus debet stare. Quo rum tamen ha primo} non autem {primorum.} Nam graecus codex habet protos et non proton. Vbi enim proton legerctur, vt fortalle BOEZIO (si veda) noster habebat in latinum primorum eifet convertendum. Collige igitur inter hzequatuor ordinem: quz leri-  buntur SIGNIFICANT ea que in voce, qua in voce, eas PASSIONES QVA IN ANIMA qua in anima, ea que in re con-  A.D,Th.  fiftunt. Licet non fit ordo effentialis, nam qua feribun tur, et in voce funt, poflunt eque primo PASSIONES SIGNIFICARE, quum cripture pro supplemento vocum sint adinuente. Verum quia res hac ad modum est laboriosa, ac difficilis, tranimittit nos ad librum de anima. Est autem quemadmodum in anima aliquotiens quidem  intellectus fine vero falsoque, aliquotiens autem iam cuire. celfe est horum alteran incife fie c in noce. Cirea  compositionem enim er dinifionem e/t neritas atque falsitas.  Haltenus hac communiter de ijs quatuor accepit,  vt nomina et verba efle in voce et ad placitum fignif-cativa colligat: Tum vt genus primum: Tum vt communem habeat differentiam illorum, cú quibus et ora-  tio et enuntiatio ipfa conueniunt. Est enini oratio et enuntiatio in voce et  EX IMPOSITIONE AVT PLACITO SIGNIFICANTES et per eiufmodi genus communemé; différentiam differt à rebus ipfis conceptionibusé; Nuncau-tem ipfa lignificare fine vero et falfo declarat, vt vide-  licet secundam colligat illorum differentiam, aut, Alexandro placet, ostendit enuntiationem significare cum vero falsoque -- vt per hoc etiam et enuntiationis differen tiam colligat, notin nominis. Et licet littera pofsit multipliciter ad formam fyllogifmi reduci, ve facilius res in  telligatur littere syllogilmus non eft aliter formandus,  nifi veiacet.Ideo inquit. Est autem quemadmodumin  Sylingl/was. th  anima aliquotiens quidem intellectus fine vero et fat-  fo, aliquotiens autem cui neceffe eft horum altcrum in-  effe, hoc elt aut verum aut falfum, fic et in voce:hac eft maior. Addit et ipfam minorem dicens, circa compofi  tionem enim et divisioné intellectuales est veritas atque falfitas. Sed circa simplicium intelligentiam, neg; veritas neg; falsitas. Igitur in voce etiam circa compofitionem vel diuifionem crit veritas aut falfitas circa simplicitatem neg; fic neg; fic. Et fic habetur totus syllogismus, per quem habebitur, vt dicemus in textu proximo, gy nomina ipfa et verba ab enútiatione differút.na nomina 8e verba fimplicia funt, et fic crunt fine vero  et fallo, enútiatio compo aut diuifio: igitur cú vero aut fallo. Et ita habentur genus et differentiz nominum et verborum. Quantú vero ad verba graca attinet noc-ma graece, latine est, tum intellectus, cum conceptus, et  gativa. Simplex vt hominis autequi. Et discursivus -- vt  syllogilmus. Modo patet verum vel falsum esse in compositione. Simplicia vero effe abfq; vero et falso. Hac  quo ad verba.  cus fità fimili tín, velà fimili et caufa. Refondet expo  fitor ab Ammonio accipiens hanc manifeftationem ef  Le non tín à fimili, fed etiam à caulà, quam effetusipfe imitatur. Eft enim intellectus caufs, qua vero in voce  effectus. Sed hoc farenon poteft. quia non videtur cofatio non enim vt materia, autforma: quia conceptus nulla-  tenus funt aliquid vocum,nec corum que in vocenec  vt fnis,nam finis vult esse vitimum, vt fecundo aufcul.  shafin  tationis phyfica dicitur. Modo conceptus eft prior et  voce et vocum veritate. Nec vtagens, nam ab co gires  eft veinon eft oratio dicitur vera aut falla, vtab agen-te,vt dicitur in predicamentis. Ideo vt frequenter di-  Selotie proprie  ximus verü et falfum funt in intellectu vt in fubiedo, in voce aut fcriptis, vt in figno, in rebus vt in caula. Vis  igitur arguendi non eit demontratiua, fed dialectica à  fimili tantum. Multa adijci pollunt, que ab expositoribus tum graecis, tum latinis perquire. Hac enim ra- ptim scribimus. Nomina quidem igitur ipsa aut verba consimilia furt fi-ne compositione co divisione intellectui – ut: “homo” vel “album”  wwFajd quando non additur aliquid; nam nondum falum aut стт  eff. Huius autem fignum hoc eft. hircoceruus er enim significat aliquid quidem sed nondum verum aliquid ant falsum,  mifi esse aut non esse addatur aut simpliciter, vel secundum tempus,  Hac litera poteft introduci vno modo vt fit conclu  fio, quomodo expofitor induxit, innilus forfitan verbo illatiuo igitur, Alio modo  poteit inducis vt fit  minor syllogifmi, fub accepti sub syllogifmo princi-pali: qui fic erat. compofitio vel diuifio in intellectu funt cum vero et falso, intellectus line compofitione et diuilione nec font cum vero nec cum fallo, ex  quo voluit habere hanc conclufionem, in vocefunt quedam cum vero vel falso, quadam non cum ve.. ro aut falso. modo addit minorem dicens, nomina ipsa verba similia funt intellectui, qui elt line compositione et divisione. hoc eft nomina et verba sunt voces fimplices: fubaudi conclusionem. igitur fignificantabiq vero de falso. Illa itaque particula illativa  igitur, addita elt vt notaretur conclulionem contine-  ninhac minori, propterea fupplet exemplum dicens: vthoc nomenhomo aut album quando non additur aliquid, nam nullo illis addito, nondum corum, ali-  Sigum,  qued falfum, aut verum eft.  Rem hane Ariltoteles confirmare videtur figno, quod poteft loco à maiori fic formari. fi aliquod no-men fé folo fignificat cum vero aut falfo maxime effet  hircoceruus.  Tunc dat oppofitum confequentis di.  cens: fed nondum verum aliquid aut falfum: nifi elle  aut non efle addatur. et hocaut fimpliciter, aut fecundum tempus. Sicigitur patet nomina et verba feor-fum accepta fignificare, &e non cum vero aut fallo.  Dubitationer. Sed circa verba textus quarunt primo cur vius eft nomine compofito, et non entis, Huius caufe poflunt ef-  Prima confa  feplures: vt è verbis Ammonij excipi poteft. Primo.  quia nomina ciulmodi videntur potifsimum falfitaté significare: propter partium incompofsibilitatem.  Secundo vt innucret nonfolum nomina fimplicia ad  veritatem fignificandam egere verbo, fed etiam noni  Tatia naipfa compofita. Tertio vutur exemplo in filtis, vt  innueret veritarem non folum reperiri in rebus, fed in  Secida duba, his qua funt ab intellectu folo. Secundo quarunt cur  ait compolitionem fignificare cum vero vel falso: et non significare verum vel falsum . Similiter et nomi-na lignificare fine vero et fallo, et non ait nomina non  Significate ch  fignincare verum aut fallum. Dici potelt e difterunt  di fignificare verum, et fignificare cum vero. Nam hoc  nomen verum fignificat verum, vt hoc nomen falfum significat falsum. quia significant fe: non tamen cum vero: quia fuum significatum non significant cum ve-  Tertiedubi, ro, aut fallo : nili addatur verbum. Tertio quarunt  quid LIZIO vult per limpliciter, aut iccudum tem Primarifie pus? Reipondent guidam primo o verbum prafens  interdum dicit efle simpliciter vt fubitantiam, ut cum  dicitur deus elt.Quandog; tempus tantum, ur dics elt.  Dixit igitur aut fimpliciter, aut fecundum tempus propter hac. Sed hac expolitio non placet. Nam LIZIO loquitur de esse et non effe generatim vt funt note  extremorum: que abftrahunt ab his. Expofitor aliterait tempus præsens elie simpliciter. Catera ut prateritum ac futurum elle fecundum quid:hoc cit fecun-dum tempus. Sed hac expofitio forte non valeto quia Confutaie quelibet differêtia temporis eft tempus fecundü quid. Quoniam per aliquid differt ab alijs differentijs. Aliter Ammonius, quod verbum porcitaccipidu-  pliciter. vno modo abfolute, ve eft, fuit, vel erit,alio  Prepria falatie  modo cum aduerbijs temporis: eft nunc, fuit heri, erit cras. Primo modo dicitur simpliciter. Secundo modo  dicitur lecundú tempus,fed vtcung; fit. Textus pater.  Sed contra hac dubitant nonnulli recentiores. vi-  2wste  detur enim nomen vel verbum fignificare cum vero aut falfo. Primo, quia AD PLACITVM SIGNIFICANT. Igitur posibile eft vnum nomen imponi ad significandum idem q deus elt. Sed casu posito illa significat cum ve ro vel falso igitur nomen vipote A.aut a. Secundo hac eft vna copulativa vera, “Omnis homo est risibilis” 8e econtra. Modo hoc elle non potelt nili verbum ccon-tra significet cú vero vel falso. Sorticole in rehac di Prime palitio. feordant. Nam quidam corum voluerunt ciulmodi no mina, vt.a.vel.a. lignificare polle cum vero aut falfo, et confequenter concedunt elle enuntiationes aut pro politiones.Hoc probant. quia concedenda aut negan-da funt enuntiationes vel propofitiones: fed hac funt concedenda vel neganda, aut dubitanda. Igitur funt Secunda pifio enuntiationes. Alij timpliciter calus hofce nullatenus amitunt, et ita negant a. efle propolitionem. vel verum, aut falfum fignificare vt per verba LIZIO vi-detur, et per rationem:quia funt implicia: qua nunquam cum vero,aut fallo fignificant, nili addatur effe vel son efle.  Sed hac folutio ftare non potelt: quia vbig; LIZIO accepit litteras pro enuntiationibus: vt in  do priorum frequenter. Alij concedunt hos cafus,  quod videlicet. s. vel.a, possunt, fignificare cum vero vel falso: fed dicunt ciulmodi non effe enuntiationes, aut propolitiones, quia non fignificant cum vero vel falfo per modum complexi. Sed hoc videtur dificile. nam cuicung; competit ratio fignificandi ci debetur modus. Quare fi his competit ratio significandi complexa, criam et modus debebitur. Propter hec videtur Refepreprie.  mihi elle dicendum nomina et verba quo ad primam corum impositionem non fignificare nifi incomple-xum,neque cum vero, neque cum falso. Quo vero ad novam impositionem, cum fint AD PLACITVM possunt fignificare cum vero vel falfo, nunguam tamen erunt propolitiones, aut enuntiationes. Propterea non valet. A significat cum verovel fasfo, igitur est propofitio aut enuntiatio. Oportet enim addere in antecedente g significet ex prima impositione, et non ex nova institutione. Etper hac verba LIZIO et Alexandri rationes poflunt moderari.  DE NOMINE:  Quad fit npe  usJrparata  Cum interpoluit communia quedam, e quibus de genus et differétias nominis nancifci pollet, núc de no mineipfo aggreditur.  Sed videtur ordinem cuertif-  se, nam in lbro priorum egit de propofitione antequá  deter-determino, modo ita fe habet nomen ad enuntiatio nem, vt terminus ad propofitionem.  Secuido, do-  Etrina debet ènotiori incipere. Sed nobis funt prius notatota, vt in physica traditur auscultatione, igitur prius ab enuntiatione, que est totum, quam è nomine &e verbo: que funt illius partes. Et fi de nomine 8 verbo prius quam de enuntiatione ipla, cur prius è no-mine? Ad primum quicquid, velint veteres graeci, LIZIO in prioribus refolutorie procelsiffe,ideo è compolitis procesit. Nune vero compofitorie, ideo  è partibus.  Ad fecundum Esculanus fingit nomen  elleve materiam, verbum verovt formam. fed quia materia precedit formam, ideo è nomine.  Sed hoeftare non potest: quoniam materia non eft fcibilis, nifi per analogiam ad formam, vt in auscultatione physica di tum eft. Igitur èforma ipsa, et con-  Saunde An sequenter è verbo procedendum esset. Ammonius  ait nomen ipfum fubftantiz modum detinere, verbum  Confilatio.  vero accidentis. Modo substantia efo prior accidente. Necimihi placet hoci quia lubitantia non nifiper cognitionem accidentium cognofcitur. Ideo dicen-dum nomen ideo effeprius tradandum, quia facilius cognolatur. nam verbum abique ipfo nomine co-gnolci non poteft. Significat enim esse: quod fine extremis non eft intelligere. At nomen iptüm cum fit absolutum quoddam: intelligi potelt abíque verbo.  Quantum autem ad verba  dicibus inventur ounquodlatine el, tum grur, sco  ergo et rationabiliter profecto, ve videlicetannotaret  definitionem ciulmod ex diuifione proxime factacol  lectam effe. Hac enim est regula definitionum inue-niendarü, vt Sexto Topicorum traditur. et fecundo po  Iteriorum, vt poft dinifionem fiat partium compofitio. vti conclusio. Qua ratione procefsit hic. Diximus enim voces anima pafsiones lignificare: 8c cum nomina pal fonesilliumodi delignent: voces crunt fignificatiur.  Vode genus ipfüm Ariftoteles naCtus eft. Dechiratum eft etiam omne SIGNIFICANS EX POSITIONE ET NON NATVRA  SIGNIFICARE AD PLACITVM. Quod graece est fythece latina FEDVS, PACTVM [– cf. Grice’s High-Way Code, Deutero-Esperanto], INSTITVTIO, AVT PLACITVM. Sed cum  constet nomina significare EX POSITIONE, iu re AD PLACITVM SIGNIFICANT. Rurfum declaratum est nomen significare fine vero et falso: omne autem sic significans est sine tempore significativvm: 8e quius nulla pars se or-  ipum significat. LIZIO itaque hac omnia considerant, per modum consequentis definitionem nominis deduxit. Multa alia hic recentiores addunt, que, quia patent omittimus. Pater  In nomine nim, quod et equiferus: equas ipse nühil  mis se refien ac  erple mibel fio  per se significat, quemadmodum in hac oratione, equus  Eficant.  e Jerus.  Erat vitima definitionis pars, e nulla nominis particula seorfum separata aliquid significet nunc illam exponit. Et maniseltat hanc vitimam definitionis particulam in nominibus compositis. in quibus, vt inquit  Ammonius, minus videtur, vt quasi syllogizet è maiori ad minus. Nam in hoc nomine, quod est equiferus, pars hac “ferus”, aut equus feorfum nihil fignificat: quemadmodum in hac oratione: “Eqvvs sft ferus”,  aut eqvvs ferus.  Quantum ad graeca verba attinet, verbum equiferus graece elt “calippus”, à “calos”, quod latina est “bonus,” et “hippus”, ‘equus’, sed quia minus sonat “equibonus”, ve-equiferus, BOEZIO et alii tranftulerunt “equiferus”, Et vbi  BOEZIO (si veda) transulit “ferus” ipsüm nihil per se significat.  Graece legitur “equus”, sed non refert. Amplius verbum illud quemadmodum in hac oratione “equus ferus”: potest legi cum verbo, sic: “Eqvvs eft ferus” et abíq; verbo: “Eqvvs ferus.” Solum enim vült habere quod pars nominis et si significet feorfuminon ita significat, sicut quan do crat in oratione. In capit autem particulam definitionis vitimam exponere: quia, vt ex Ammonio colligitur, hac particula eft vt caterarum finis, e omnibus principalior. Modo finis est intentione primus, de ctiam cognitione.  Verum non quemadmodum in simplicibus nominibus, fie fe habet etiam incompositis. In illis enim millo modo  Neminir coi +  liet part frar  pars est significativa, in bis nero unt quidem, sed mullius separata sut in eo nomine, quod est “eqviferus”, particula “fervs.” Sed dices igirur nomina simplicia et nomina com-  Cảm. 8.  posita non differunt. Ideo respondet, quod differunt. Quia in simplicibus nominibus pars nullo modocit significativa neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam: at in compositis videtur quidem ali  hil feorfum significat. Quantum ad graecam litteram attinet verbum illud vuir, graece est vouleta. Melius tamen, vt mihi videtur, sonat apparet, aut videtur. nam nomina composita, ex quo imposita sunt a conceptione composita, videtur quod illorum partes seorfum aliquid significent. Nomina vero implicia, cum instituta sint à conceptione simplici, partes corum feor-fum nec significant, nec significare videntur.  Ex  his poteit syllogilmus fsc componi. nullius nomini simplicis nulius nominis compositi pars significatie- separata: omne nomen aut simplex, aut compositum: igitur nullius nominis pars significat separata. Minor fupponitur. Prima pars maioris et secunda declarate funt in textu.  Sed querit vtrum alicuius nominis pars significet separata? Et videtur quod sic. Quia cuiuslibet com. nis separata fie pofiti ex pluribus nominibus pars significat separa-  дерест.  ta. Sed aliqua nomina componuntur ex pluribus nominibus vt “eqvifervs,” de id genus. Omnesad quæstionem et graeci et latini conveniunt partes nominis comparari posse ad totius compositi intellectum, aut in ter fe. Primo modo nulla significat separata, nif in oratione homo est bonus. Seorfum enim illud idem partes ha significant, quod in oratione tota significabant.  Et hoc modo intelligit LIZIO. Nam licet “eqvvs” et “ferus” forfum aliquid significet, no ntamen ad intellecum totius. Propterea inquit Ammonius, nullum nomen componi pluribus è nominibus, quatenus nomina sunt, sed quatenus tranfeunt in vim syllabarum. “Eqvvs” enim et “ferus” in hoc nomine “eqvifervs,” syllabarum vices detinent. Averroes autem in paraphrafehu solsin AuT-jusloci vtitur alijs verbis, quéd partes nominis nunquam per se significant separata, sed per accidens: quod est dicere: non quatenus sunt partes nominis,  sed quatenus scorsvm sunt, transeunt in 'vim non  num. At in oratione partes feorfum idem significant, quod in oratione, quia vtrobique quatenus nomina funt.  Xamine fint  Ad placition uero: quoniam mullum nomen eft fus natue  Pady fo,ud ra ann ed eun fo significantnang or illieratifoni, ue  qui ferarum: quorum tamen nullum eit nomen.  Nune tertiam explanat definitionis partem. Nam primam, quod nomen fit vox et significativa ex his, que communiteraccepit, vult elle manifeltam. Illam  vero, quod finetempore ex definitione verbideclara-  bit. reftat igitur vt tertiam exponat.  Quantum vero ad graeca verba attinct, animaduerte, quod. verbum verbotransferendo littera LIZIO eft, SECVNDVM PLACITVM vero: quoniam natura nominum nihil elt, fed cum fit NOTA, nota cnim graece eft SYMBOLVM, latine etiam SIGNVM. Sed cum hac litera ad verbum translata minimefonet, ideo tranftuli AD PLACITVM vero: quoniam nullum nomen eit lua A NATVRA SIGNVM, sed cum sit EX INSTITVTO. Hoc enim differt &à rebus, de AB ANIME PASSIONIBVS, vt diximus. Et quod natura fignificans non sit nomen exemplo à fonisani-malium perluadet, de inquit. Significant nanque fua  natura et illiterati font, ve qui FERARVM: quorum ta-men proprer significationem, quam habent naturat lem y nullum est nomen. Igitur, NOMEN AB INSTITVTO SIGNVM ESSE DEBET: 8 hae ratio valet, fue fit locus à  findliun/ contrario, fiue fit locus è simil, sive aliter.  Animinomme son maduerte quod animalium tom dicuntur “agrammatoi”, hoc elt “illiterate.” Quoniam scribi non possunt: de A NATVRA SIGNIFICANT. Quia codem modo est in omnibus animalibus. Habet enim a natura animal ipsum per fuz vocis sonum SIGNIFICARE AFFECTVM [Cf. Grice on Darwin, The expression of emotion in man and animals]. Quare propter duo ciufmodifoninomen eifenon pofiunt. rum quia illiterati, tum quia è natura. Recte igitur diêtum est ad placitum.  Mouent qualtionem ex Alexandro talem. verba sunt voces, voces sunt nomina; igitur, verba funt nomina, conclufso falsa: et non pro maiori, igitur pro minori. Respondet Ammonius, quod nomen et verbum sunt voces secundum materiam, vt archa est lignum fecundum materiam. Materia enim nominis et verbià natura est, vz VOX. Forma autem nominis ab arte atque institutione, ve archa . quo quidem ad materiam a natura eit, quo vero ad formam ab inititutione ac arte. Sic nomen quo ad materiam est res naturalis, quo ad formam est res ab ar-teevtigitur non valet, hgnum est à natura, ianua est lignum; igitur, ianua est à natura. Obijcit autem huie Ammonius: quoniam si nomen est ab insttitutione, de non a natura: tunc SIGNVM aptius in nominis definitione caderet quam vox.  Respondet ipse hoc  esse factum: quia in definitione accidentis in concreto debet poni subicectum loco generis, et accidens pro differentia. At cum nomen accidens sit voci, ideo di citur nomen est vox Sed hzc repontio nen mihi placet. Primo, quia li nomen esset forma artificialis, tunc esset quid additum voci. Hoc autem falsum elt. Nam aut erit substantia, aut accidens i non substantia vt patet. si accidens: non absolutum, ve patet. nec relativvm: quia tunc esset relatio realis. nam fundamentum reale est ve vox ‹ terminus realis vt RES SIGNIFICATA. Amplius nomen videtur absttractum. igitur in definitione debet cadere subiectum in obliquo.  Selatio apris, Videtur igitur mihi nomen ipsum nihil aliud esseni-li VOCEM ARTICVLATAM CVM INTENTIONE SIGNIFICANDI ALIQVID PROLATA [H. P. Grice: “He uttered x thereby intenind to mean that p”]. Vt enim vrina est SIGNVM SANITATIS nullo addito sibi: sed quatenus ab intellectu efficitur SIGNVM SANITATIS. Sic vox est nomen nullo addito. Sed quatenus ab intellectu instituitur AD SIGNIFICANDVM. Sin-dapfus enim non nomen est. Sed si AD SIGNIFICANDVM INSTITUITVR: fiet NOTA SIVE SIGNVM: qua ratione nomen fet vt BOEZIO (si veda) inquit, &e hoc inquit LIZIO cum ait: quoniam naturaliter nomen mhil est: fedi quando fit NOTA, et ita nomen est vox fecundum materiam et formam sic instituta vel sgnums  Tunc ad argumentum Alexandri dicerem ibi elie deceptionem propter accidens: vt non sequitur homo est animal, animal cit dictio. Igitur, homo est dictio. Aut non fequitar. homo est animal, animal est genus. Igitur, homo est  genus. Variatur enim veforticola fentuntlippositio. Nam, in prima, “animal” supponit formaliter, in fecunda materialiter cideo non valet.. Sed dubitát graci.  nam LIZIO ait nominum naturaliter nihil efle . hoc eit nominum significatio non est naturalis. ACCADEMIA vero et Soctates in CRATILO volunt nomina e natura ipsa esse. Etita ifti font contranj: quod apud graecos habeturre motum.  Circa hane dubitationem quidam, vt Ammonius  Pelitiones.  Narrat, voluerunt nomina esse simpliciter de omnino  ab institutione: et nullatcnus e natura, cuius opinionis fuerunt Hermogenes: e discretus Diodorus.  Alay diserunt nomina elle simpliciter A NATVRA, quatenus sunt rerum naturales SIMILITVDINES. Cuius positionis fuerunt CRATILO haredeus: atque Heraclitus  ephesius.  Ammonius voluit nomina ipsa esse naturalia quantim ad etymologiam . nam omne nomen  vult esse impositum è proprietate repertainre. vt lapis quasi pedemledens: et petra quasi pedetrita.  Quantum vero ad significationem ipsam ab institutione sunt, Et ficinter hos duos confultat.  Et si dicitur viam rem naturalem plura nomina habere.  Respondet, quia à diversis proprietatibus nomina  diversa nancilcitur.  Sed pacchorum hoc ftarenon  potest. Primo, quia tunc nullum esset æquivocum à calui, nam omne nomen significaret a proprietate rei, et ficcanis esset analogum, et non æquivocum casu.  Secundo vtin natura accidunt casus, quorum nulla causa potett darinili per accidens, ita et in arte. de per consequens possunt dari nominaà calu, nullaque rerum proprietate.  Er videtur hac sententia LIZIO ani primo elenchorum voi inquit. nomina quidem finita funt, &e ora tionum multitudo, res autem numero infinita: necef-  fe cit igitur plura eandem orationem et vnum nomen fignificare.  Propter quod mihi videtur elie dicen-  Solitie proprie  dum in vniuocis et fpeciebus nomina effe omniaim- polita fint, «*  quineca nen 2  mologia: licer in multis illa nos lateat. In aquiuocis vero et fingularibus nomina effe cafu affero. Vnde BOEZIO (si veda) in pradicamentis. commento primo. inquit. æquivocorum alia sunt casa, alia consilio: casu ve  Alexander Priami filius : e Alexander magnus. Augustinus Aurelius: e Auguitinus Niphus [“His favourite example was his self!” – H. P. Grice]. Casus enim id egitvt idem trilque nomen imponcretur. Du-  fint in mente,  bitant forticole : vtrum nomen in mente fit nomen. Videtur quod non per LIZIO definitionem. namnomen eft vox. In mente autem nulla eft vox. Pro ala parte eft quod nomen prima et fecunda, vt di-cunt, intentionis est in mente. Amplius in mente eft cnuntiatio,fed omnis enuntiatio conftat ex nomine et verbo. Igitur in mente funt nomina& verba.  al mio fal cendum apud Boetium in pradicamentis, capite de  fubftantia. in mentenon elle orationem, et per consequens nec enuntiationem. Id autem, cui fubordi-  natur oratio fiue enuntiatio graceefologus, latine in-  terior ratio appellatur. Enuntiatio vero ipfa grace elt  - exologus : hoc eit exterior ratio. Apud enim graecos logus est communis rationi et orationi. Apud nos vero interior ratio vno nomine vocatur vt ratio, ex-terior ratio vero oratio. Tunc dico in mentenec effe enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba, fed bene conceptiones compositas et simplices. Compositas quidem quibus orationes fiue enun  tiationes ipfe fubordinantur, fimplices vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non effe nomina neque verba: fed fignificationes, quibus  Nullum oft no  hacfubordinantur.  Ad argumenta in contrarium  fecie, fa patet folutio i nellam enim elt nomen prima autfe. cunda intentionis, licet fit nomen prima aut secunda impositionis. Onine enim nonien cit ab impositione. Ad secundum patet folutio in mente  eitratio, in voce oratio fue enuntiatio, qua ratio-  nilubordinatur.  Ipfion vero non bomo, non nomenet,, fed nel neque  Nenfe onbi  nomen pofitum ift, quo ipfum appellare opertet. Nes  в finE не  que enim e/t oratio, neque negatio, fed nomen nocetur ambiguum. O goniam fimiliter in quolibet eft, co co quod  +/, c co guod non eft.  Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus ef-  fentnomina. Nam his competit definitio data.  Refpondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus.  nominum: et lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-  Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt nomina.  Secundo  quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc eft fecundum.  Hec perordinem declarat, et primo quod nonfit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con -  uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negativam. ideo probans secundum inquit. Neque enim eft oratio,  seque negatio. Deinde probat primum: et fingit il-  li nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum:  quia vt dicit, et quod eft, et quod non eit in oratio-ne rerum fine difcrimine vllo lignificat: 8 hocinquit.  Quoniam fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. Hircocervvs enim non homo est, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aorilton: quod latine non eft infinitum. Nomina cim graeca fune diuersa. Graeci enim infinitum dicunt apeiron. Ambiguum quod indifferens cft ac innominatum aori-nomen est vox. In mente autem nulla est vox. Pro ala parte est quod nomen prima et fecunda, vt dicunt, intentionis est in mente. Amplius in mente est enuntiatio, fed omnis enuntiatio constat ex nomine et verbo. Igitur, in mente sunt nomina et verba.  al mio fal cendum apud BOEZIO (si veda) in pradicamentis, capite de  subftantia. in mentenon elle orationem, et per consquens nec enuntiationem. Id autem, cui subordinatur oratio sive enuntiatio graece “esologus”, latine INTERIOR RATIO appellatur. Enuntiatio vero ipsa graece est “exologus,” hoc eit: EXTERIOR RATIO. Apud enim graecos “logus” est communis rationi et orationi. Apud nos vero INTERIOR RATIO vno nomine vocatur vt ratio, EXTERIOR RATIO vero oratio. Tunc dico in mente nec esse enuntiationem, nec orationem, nec nomina nec verba -- sed bene CONCEPTIONES compositas et simplices. Compotitas quidem quibus orationes sive enuntiationes ipse subordinantur, simplices vero quibus nomina et verba: et ita concedo in mente non esse nomina neque verba – SED SIGNIFICATIONES, quibus  Nullum oft no  hac subordinantur.  Ad argumenta in contrarium  fecie, fa patet solutio i nellam enim est nomen prima aut secunda intentionis, licet sit nomen prima aut secunda impolisionis. Onine enim nomen cit ab impositione. Ad secundum patet solutio in mente  eit ratio, in voce oratio sive enuntiatio, qua rationi subordinatur.  Ipfion vero non bomo, non nomenet, sed nel neque  Nenfe onbi  nomen positum ift, quo ipsum appellare opertet.  Nes  в finE не  que enim e/t oratio, neque negatio, sed nomen nocetur ambiguum. O goniam similiter in quolibet eft, co co quod  +/, c co guod non eft.  Obijcict autem qui(piam definitioni datz, quod tunnonhomo, et id genus, Catonis et id genus essent nomina [FLATVS VOCIS]. Nam his competit definition data.  Respondet LIZIO de excludit duo à ratione nominis, primo nomen ambiguum, fecundo cafus.  nominum: et lic definitioni date oportet fupplere duasillas particulas, Gdebeat elle perfefta, vr di-  Accipit igitur duo - primum quod non homo et catera id genus non funt nomina.  Secundo  quod ijs talibus non elt voum impofitum nomen. et hocinquit, ipfúm vero non homo non nomen cit, hoc eft primum,fed vel neque nomen pofitum elt, quo iplum appellare oporteat. hoc est secundum.  Hec perordinem declarat, et primo quod non fit el nomen impofitum. Videturenim cum duobus con -  uenire. cum oratione propter complexionem : et cum negatione propter particulam negatiuam. ideo probans fecundum inquit. Neque enim est oratio,  seque negatio. Deinde probat primum: et fingit illi nomen, quo nunc appellari liceat et inquit. fed no-men fit aut vocetur, fi fingere liceat ambiguum:  quia vt dicit, et quod est, et quod non eit in oratione rerum fine difcrimine vllo significat: 8 hocinquit. Quoniam fimiliter in quolibet eit, et co quod elt: o co quod non et. HIRCOCERVVS enim non homo eft, Becquus etiam non homo. Quantum vero ad graeca verba attinet ambiguum graece est aoriston: quod latine non est infinitum. Nomina cim graeca fune diversa. Graaci enim “infinitum” dicunt “apeiron”. Ambiguum quod indifferens est ac innominatum aori-guum propter quandam indifferentiam ad id quod  eft et ad id quod non eft: et per hoc differtà nomine communi i quod licet fit indifferens, non nisi is que funt fub eo indifferens eft.  Differt tamen  aoriftatio tranfcendentis ab aoriltatione termini predicamentalis: quia acriftatio tranfcendens eft fecundum quid illa pradicamentalis fimpliciter, vt  didum eft.  Echa dubitatio.  Querunt ctiam, vtrum enuntiatio pofsit aoriftari? Iamblicus Platonicus orationem fiue enuntiationem aoriftari polle contendit propter aorilta-  tionem fubieti aut predicati fue nominis aut ver-  Viram aratio  bi, motus fortalle, quia quod parti contingit inef-  valea infni fe, toti quoque accidit: ve quinto Physicorum hafari.  betur, vbi enim capiti crifpitudo inest, et homini  inesse necesse eft.  Confatatio,  Sed hoc fare non poteft. ait enim neque enim oratio neque negatio eft: sed omnis finita. Rurfus in capitulo de nomine de verbo nomen 8e vetbum aoriftari afferit, nullbi tamen orationem. Balutio sprie. Tenendum igitur nullam orationemi nollamque cnuntiationem aoriftari posse. Tuno ad rationem pro iamblico dico quod omne quod parti inest ne-  Oratienen pir cefle est toti inesse. Non tamen quicquid partem infuir. de nomina, necesse eft totum ipsum denominare:  nam albedo dentes denominat athiopis,  nequa-  quam athiopem. Dubitant et ad huc forticola: quia videtur nomen ambiguum esse nomen: quia  valet est nomen ambiguum tigitur nomen ab inferiori ad suum superius.  Respondendum non valere: ficut non valct, est homo mortuus: igitur homo . itemque nec valet,  eft albus dentes: igitur albus.  Non enim argui -  tur ab inferiori ad fuperius, sed a secundum quid  ad fimpliciter.  olioul cafir  a nomicie rine  Ipsum nero “Philonis”, aut “Philoni”, co catera id genus non minima fant, sed nominis casus. ratio autem cius in  alits  quidem est cadem, quancuam differunt.  Nam est, aut fuit, aut crit addideris, neque verum neque falsum est. nomen uero ipsum  semper,  “Philonis” est, aut non est, non dum verum aut falsum dices. Quidam, vt PORTICO, casus esse nomina, et rectum  esse casum concedunt.  Rectum quidem casum,  quia e mente ipsà cadit: et ab ipso cateri casus. obliqua vero nomina, quoniam voces sunt SIGNIFICATI un AD PLACITVM sine tempore. Excludit igitur casus ipsos è nominis ratione, et inquit, ipsum vero “Philonis” aut “Philoni” NON NOMINA SVN: sed nominis casus – H. P. Grice: “Ryle – with his ‘Fido’-Fido theory of meaning – woud agree! -- Addir tamen convenientiam inter casus et nomina, et differentiam: et inquit, ratio quidem cius,  hoc est nominis: qua pauloante generatim AD-SIGNATA est, in aljs quidem eadem est: quasi dicat,  quod ratio generalis nomini, qua proxime AD-SIGNATA est, vna eit nomini ipsi, atque casibus quan-quam differant. nam cum ipsis casibus est, aut fuit sut crit addideris, neque verum neque falsum eit, nomini vero ipsi, cum supple addideris, semper verum aut falfum dices. ve “Philonis” ipf est, aut non est cum addes, nondum enim verum aut falsüm dices. Nomen igitur et casus nominum conveniunt  in ratione nominis generali, differunt autem et quoniam nomen addieum verbo cit., semper reddit orationem aut veram aut falsam.  Ex his vult habere Definitie LIZIO, hanc esse nominis definitionem. nomen est pajada. VOX SIGNIFICATIVA AD PLACITVM, cuius nulla pars significat separata, determinata, atque recta: per hanc rationem habetur tota nominis essentia. Per hac patet solutio ad rationem PORTICO. licet enim rectus cadatè mente, non propter hoe dicitur casus. dicetur enim etiam verbum habere casus: sed id dicitur casus, qui ab alio cadit per inflexionem, vt BOEZIO (si veda) et Ammonius addüt. Curvero vsus Dubiationes est verbo substantivo, curúc generalem pramifit nominis rationem, Ammonius, è quo expofitor no- Iter accepit, facile declarat: nam substantivo vius est, quia cum cateris verbis cafus faciunt nonnunquam orationes veras. Pramilit vero rationem generalem, quia doarina incipit ab vniversaliori, adiecit specialiorem, vt generalem compleret. Animaduertendum quod Auerroes, in paraphrase buius capituli velle videtur quod tam nomina ambigua, qua vocat infinita, quam cafus nominum, sint nomina: de hoc ideo dicit, quia vult nomen dividi in hac. Omne autem diuifum predicatur de dividentibus. Sed quia hoc videtur contradicere ver bis Ariftotelis pro verificatione littera : vult hac non effe dicenda nomina absoluta, nam propter excellentiam videtur rectum nomen: et determinatum nomen esse nomina: quia videlicet in illis nominis ratio praftantius faluatur: et ita vule hac elle nomina non privationes nominum, licet abfolute dum nomen profertur de potioribus intelligatur. quemadmodum accidens eft ens, et substantia est ens: verum ens absolute intelligitur principaliter de substantia. Principaliter igiturnomen dicitur dere-eis et determinatis fiue finitis, licet communiter de verifque dicatur. Multa captiunculatoreshiefa-bulantur, qua cum puerilia sint, pratereunda elle diludico.  Multa quoque de nominis dittinatione Ammonius addit: que cum fint potius gram-matica dieta, grammaticis relinquantur. Hac de nomine. Ratio uero est vox significativa, cuius partium alis qua separata significatina est, ut dicio: sed non ut affirmatio, uelati “homo” significat quidem aliquid, non autem quoniam fie, aut non fit: sed crit affirmatio aut negatio fi quicquam fibi adideris ana vero hominis fllaba mullatenus significat, non enim in hac dictione “sorex”, “rex” significat sed tantum nunc vox est:i n compositis vero signifiacat aliquid sed ut diximus non pro fc.  Сет.  Illud, vt diximus, quod principal hic perquiritur, elt enuntiatio: huius partes et materia nomen, videlicet. et verbum declarata sunt, pars vero veforma, qua eit ofo, nunc declarator cur vero, vt Ammonius dubitat, non co ordine rem affecutus eit quo in prohemio pol-Nas licebatur, dictum est. Anima ducrtendumigitur, gno  mini et verbo et ofoni cóia sunt vox, SIGNIFICARE, ET NON PER NATVRAM, SED AD PLACITVM, vtrum vero catera particula, vt fine t pe, vel cum tpe, an rete et determinate fucaoriftice, ii ex diftis patet : differt aut oño ab vtroque: qm illius pars significativa est ve dictio, nois vero de verbi non nili per accis, vt diximus,  in definitione praterijt an A NATVRA SIT ofo ipsa SIGNIFICATIVA, an AD PLACITVM, quia de hoc erit poftea difputatio. Apponit ait illa duo vt q fit vos et fignificativa, vt habeat genus. proximum,adiecit cuius pars fignificat vt dictio, &c nó vt afirmatio vthabeat differentiam: qua differt è nomine et verbo.  Prime dubs.  Sed ad intellm huius definitionis dubitemus de lin-  An oratio fit gulis. Et primo, vtrum ofo fit vox: et videtur o nó: ofo  Refonio fer non est una vox sigitur non est vox. Antecedens arguitur: oratio eit muita voces – MVLTA VOCES NON SVNT UNA VOX; sigitur; oratio non est una vox. Rident forticula concedédo e oratio elt multa uoces, de ulterius p plu res sive multe voces sunt vox fuc una sola uox, quem admodum plures hoies sunt unus solus hó, et oita fit probant: quoniamhac vox est una sola vox, et illa vox est una sola vox. Igitur hac vox, et illa vox sunt una sola vox. Sed hac vox et illa vox sunt plures voces. Igitur, plures voces sunt una sola vox: et fie concedút plu res voces esse unam solam vocem divisive, utd iêum elt. Sed dices contra hos, quia li plures voces sunt una sola vox, igitur per conversionem in parte una sola vox esset plures voces. Amplius plures voces non sunt hae una sola vox, nec illa una sola vox; igitur, nulla una sola vox: et per consequens plures voces non sunt vna sola  Definio, vox.. Respondêt forticola et defendunt partem fuam 9 pradicatum illius propositionis, plures voces sunt vna sola vox, confunditur propter vim copulationis, qua includitur in verbo illo plures. Refoluitur. n. plares lie, et illa 8e illa, vt diximus, mo nota copulationis habetvim confundendi, dita negant conversionem, quia variatur suppofitio. In prima illa particula “vox” supponit confufe; in secunda determinate. Et si dicatur quomodo convertitur, quare ipsos, quia est extra propositum. Ad fedam dicunt, eplares voces nulla vna sola vox sunt, qí nec illa nec hae. cum quo ti flatg plures voces fint vna sola vox, qí in hac, iste terminus “vox” stat confusetín, in illa determinate aut diferete: pP quod ha non contradicunt plures voces sunt vna fola vox, et plures voces nulla vna sola vox sunt, cum termini non codem modo supponant. Quanquam hac fint  acute dicta, et non possantim probari, fcasno esse LIZIO di (ta, nec necellaria, nec in talibus captiun-colis debemus detineri. Multi. n. vt logicam feruêtad vaguem amittunt philosophiam, et mora in his impe-dit hominem feire veritatem. LIZIO igitur dicerent op oratio est vna vox vnitate verbi, de ficpôt dici plures voces simplices, na vero composita ex ilis proprer vnitatem verbi. Aliqui dubitant fecundo cur di . Secunda duba. xit in neutro genere, cuius partium aliquid significant Contra The. separatim, et non dixit cuius pars aliqua signiticat separata. Hac dubitatio procedit ex ignorantia graecorú verborum In graaca .n. ;ingua pars, que graece “meros” dicitur, neutri est generis, ideo ad nos debetvenire, cuius partium aliqua separata significat s &rita poderatio expositoris frivola est, vt multa alia. Tertio dubitat Tetie dubi. Afpafius contra illam particulam ve dictio, qi alicui competit definitum, cui non competit definitio. Na hypothetica est oratio, 8e tó partes cius significant, vt orationes. Ridet Porphyrius hic esse diffinitam solam orationem simplicem, co quia prior in omnibus reperitur: cui relponfioni etiam Alpafium confentire ferüt.  Obijcit huic, vt mihi videtur, BOEZIO (si veda): on definitum  non debetelle in plusquam dehnitio, Igitur cum oratio  sit communis simplici et compolita: dehnitio etiam di cit esse communis. Sed hac rônon cogit: dicerent. n.  gy licetortio quatenus oratio sit cois simplici et composite, ta quatenus hic defcibitur non converit nisi  simplici perle, quia cotrafte et no coiter hic defcribit. Miliusigif contradico eis: quia LIZIO poftea diuidet  oionem in enuntiativa, et non enuntiativa, et enuntiati  uam rurfus diuidet per simplicem et compositam: et nullibi iam ipsam compositam definit alia definitione, igi tur vult cam effehic definitam. Secundo oño comper  sinato  tit vniuoca, simplici, et composita: igitur debet dari vna definitio communis vniuoca, et nullibi dedit llamsigi  turefiet mancus. Alex, vero et Ammonius refpondét  Refienfie.s.  p hac definitio eft cois omnibus vt iplum definitum: namêt oratio compolita haber partes que lignificant, vt dictio. Huic opponuntalij ve Philoponus et Syrianus, quia Arift.ait vt ditio:& non vtalfirmatio.mo ofo compofita habet partes qua fignificantut affirmatio:et ita male adiecifiet, et non ut affirmatio. Alij  foluunt o dietum philofophi debet intelligi luppiendo fic, ut dictio neceffario, et no necellario ut affirmatio, et sic competit omnibus. Ego aut dico pace tantorum fe/priepre dixerim o LIZIO dixit ut dictio: qin licet partes oratio-nis compofita fint orationes, th non ut orationes, fed ut dictiones lignificant feparata: &c hocfatis. Dubitát Quarte dubie quarto, curadiecit ut dictio et non ut aftirmatio, fatis  chim fuifet dicere ut diêtio, nunquam enim dictio elt  afirmatio. Repondent quidamiquia LIZIO folitus est  nonnunquam dictionem pro affirmatione accipere:  ne igitur ufus impediat, fuppleuit et non ut aftirmatio: et SIGNANTER ait, et non ur affirmatio, quia negatio addit ad affirmationem, propterca fi non ut affirmatio  fatis habetur etiam ep nec ut negatio. Hac refponlio  fic dia, f el alicuius expolitoris graeci, tacco, gán ipli yerbaverba LIZIO melius intelligút, et verecundú est pugnare contra graecos de verbis gracis. Hoeti non tace-  botg vbig; LIZIO di diftione vocat - gracce phafim vocat:affirmationé vero cataphafim. Sin aliter no me mini me legitie, no ti nego cataphalim compon ex ca-  Nie apria ta et phalis. Ideo dico et fuppleuit nó vt aftirmatio, ad  DE-NOTANDUM partes orationis vt dixi posse significare vt af-firmatio: sed LIZIO, vult no licintelligere led quatenus  habent vim dictionis. Hoc. n. fuppleuit propter orationes compositas: cuius partes funt affirmationes: sed non vr affirmationes: sed vt dictiones significant. Viti mo quarit Philoponus: vtrú hc definitio competat solum orationi perfetta? Ridito foli perfeta hec competitiqí partes non dicuntur nifi in relatione ad totú: totum aût et perfectú ide: et cú oratio hie definiatur in relatione ad partes, videf rationabiliterhie dehnin  vt perfecta.  Sed contra obijcit BOEZIO primo: quia  omne comositü haber partes, cum aúttam pertecta g impertecta habeat partes:rationabiliter qualibet crit  totú et perfecti. Secundo tune partes orationis et cu  iufg compositi no essent partes nifi in sine compositionis: quia tunc folum compofitum dicitur effe copofitú. Mihi videf orationes ha non militent: quia nó dicit aliquid cópolitum, nili propter forma et materia, cum orationi imperfetta defit aut forma aut materia, aliter effet pfecta, rationabiliter no dicit compolitú nec totum: Tunc ad rationes dico: ep oratio imperfecta no eft totum, qui vel caret verbo fimpliciter vel verbo principali: 8 p consequens caret forma: 8e ficnec eit  compositum nec totá, fed quada, vocum multitudo. Ad secundum dico, partés non sunt partes nisi pofti est ipsum tot,ante enim dicunt partes in potétia mlngitur  intellectus altu componat subiectum et pradicatim cum verbo. nô erit adtu totü: et ficnce actu partes, et fic concedo id ad quod deducit, Melius igit cótra illos poteft obijci, gin ftatim oratione hic definitam fubdiuidit perfectam et imperfecta: qui rem incogrue egillet, nifi  Definitio ena»  vtrig; hãc definitioné elle coem voluiflet. Colligeigi  innis abfoluta tur definitioné oratio vero est VOX SIGNIFICATIVA, cuius  partiú aliqua fignificativa eft feparata: vt di tio, &e non staffirmatio: hoc eft significatione simplici, non compolita, aut similia. Ori aût aliquid significare vt pars pot esse dupliciters aur pars copofita, ve in hypotheti-cataut ve syllaba, vt in voce composita, idco duo facit, Primo declarat o pars ofonis lignificat nó vt pars co polita, videlicet,no vtaffirmatio vel negatio.Secundo o nec vel syllaba. De primo inquit veluti homo fignifi cat quidé aliquid, nó aút fignificat o eft aut non est, sed erit affirmatio aut negatio si sibi quici addideris, hoc  eit verbu solu. Et ficper exemplu patet prima pars. Deinde declarat secunda, et inquit.vna verohois fyllaba nullatenus fignificat:quod probat p exemplú et locú à maiori: et inquit. No.n.in hac diétione “forex”, “rex” significat, sed tín vox eit sola, no habens vim significan-  Cotra, tu dices: quia in compositis ve in “hircoceru” sgnificat pars. Ridet in compostis noibus significat aliquid ipsa pars feorium, sed, vt diximus, non pro se ad intellectum totius, cuius erat pars. Sicigif patet ou pars orationis nec significat vt pars compolita, nec vt syllaba Oratio igitur eft vox significativa cuius partiú propin quarú aliqua est significativa separata per se quidem vt dictio, non autem semper vt affirmatio vel negatio. Ордір пра од. Et auten oratio onnis significat ina quidem, non tamen ut inferanientam, sed quem ad miodom dictum est secundum imturaxin  institutionem.  Syllogizabat ACADEMIA in co libro, qui CRATILO inferibi Cámag. tur, ofoné esse NATVRA, ET NON INSTITVTIONE sic. oro est instrumentum virtutis interptativa naturaliter nobis ine-  xiltétis. Per ipsam.n. SIGNIFICAMVS – “We, the utterers” (Grice) -- aia affectiones, ceu Pitevais, per instrumentum. omne aüt instrumentum virtutis naturalis eft natura: veluti virtutis viGuz oculi, auditiua au res:& eid genus. igif ofo NATVRA, SED NON INSTITUTIONE est -- hic erat ACCADEMIA fyllogifmus. Huicridet LIZIO et consentit maiori. negat tá minore.nam virtutis interpreta  tiug primü inftrumentú et proprium est pulmo, guttur,  dentes, lingua, et id genus: qua NATVRALIA sunt. ofo vero est effectus illius virtutis mediamtibus illis instrumétis et ita minor falsa est. Inquit. Eft aút ofo ois significati-  ua quidé, non tamen ve instrumentú, sed quéadmodá di etü eft )fm institutione, et ita ACADEMIA minor falsa est.  Quantum vero ad verba graca attinet organon, vult  BOEZIO (si veda) esse pofitú pro natura:quia (vt dictú ett) Pla-to omnium artiú inftrumeta fm naturam ipfari artiú cófiltere ponebat: et ita erit sensus o ofo significat no ve instrumentum. hoc est naturo Jed/vt diatü eft in capitulo de nome) fm synthecen, hoc eft Pm inititutione,  Gue placita Gue fodus, Giue paciú. Melius ait LIZIO organon no pro natura pofuit, sed pro inftrumen to:quia perhoc(vt Ammonius et Alex.aiunt) LIZIO minorem ACADEMIA negareintendit. Sed adhucfo lutio LIZIO non videtur tuta. ACADEMIA n.quidam  Hermippus et Numenius obijciút.na idem videtur de effectu. Oratio.n. effectus eft virtutis naturalis per in oratio ipfa natura crit. Secundo, ofo est inftrumentú intellectus, qui eft virtus naturalis. nam intelleêtus ora  tionefignificat, syllogismo, qui ofo elt, ratiocinatur:  definitione, que rurfus oratio eft, definir.Sed vefupra.  omne virtutis naturalis in trumenté eft natura. igitur  oro natura erit, non aut inititutione. Ad hac Ammonius tolutioneinnuit o quéadmodú in tripudio motus ipsea natura est, modificatio illius (vtita dicã) ab inflitutione et artificio, ita in oratione voces sive soni natura sunt, modificationes vero institutione : et ita quatenus voces sive soni ofones natura sunt, quatenus  tales voces institutione formanf.  Tuncad rationépri  mam maior falsa est. poteft enim aliquis esse effettus virtutis naturalis per instrumenta naturalia ve tripudia  et esse institutione. Ad secundum ait Ammonius (p intellectus non cit natura: quonia nullius corporisaCus  est: sed quasi SVPRA NATVRA et sic nihil prohibet virtutis SVPRA NATVRAM esse eflectú institutione.  Sedhzcre-  fponfio ftare non pot: quia faltem intellectus est virtus naturalis: distinguendo NATVRALE CONTRA ARTEM. Igitur effectus suus debet esse naturalis -- vt distinguitur contra Artem. Propterea dicendum o artificialium principivm imsoltio peria mediarú eil  VOLVNTAS. He enim est immediata causa institutionum et propterea gg concurrant intellectus  et naturalia intrumenta virtutis interpretatiuz, quia  tamen ola subiacent VOLVNTATI, ideo inslitutione sunt ET NON NATVRA et hoc nefcivit explicare Ammonius, licet forte hoc voluerit balbutiri. Alexander aphrodifius  R5 Ales.  enititur probare orationem esse institutione: quia cuius qualibet pars est insttitutione, totum institutione oft, sed orationis partes vt nomen et verbum institutione sunt: igie tota oratio. Hac ratio pace sua petere videtur, quia Plato et Socra in lib. CRATILO volvere etiam nomina et verba NATVRALITER SIGNIFICARE. Amplius similis qualtio est de nome et verbo: qn ipsa sint effectus virtu  Ri melier.  tis NATVRALIS instrumenta naturalia.  Ideo melius a SIGNO idé probari pót: que apud diverfos sunt diuería institutione esse vident. id. n. QVOD NATVRALE EST SEMPER EST VNIFORME sed orones apud DIVERSAS LINGVAS diuer-fie spectantur, gaide SIGNIFICENT, itur NON NATVRA, sed  Dubitationes  institutione sunt: et hac est sua mel forratio.  Sed circa hac recentiores ambigunt, trú nomen, quod SIGNIFICAT ALIQVID, SI IMPONATVR DE NOVO AD SIGNIFICANDUM ALIUD, remaneat IDEM NOMEN, verbi causa, ifud nomen “homo” significat Socratem et Platonem, verum si ponatur AD SIGNIFICANDUM IDEM QVOD “EQVVS” remaneat IDEM nomen. Secunda dubitatio, vtrum oratio, que de no no imponitur AD SIGNIFICANDO ALIVD primo significabat, vt hc oratio, “homo eit animal” -- dato  prina rideat non nulli recentiorum g nomen impositum de novo ALITER AD SIGNIFICANDVM et significabat NON EST IDEM NOMEN. Hoc probant exemplo: quia sicut ex variatione forma artificialis resultat alia arg; alia res artificialis, ita ex variatione fignification resultabút  Confutatis.  alia atg; alia nomina. Sed hac positio stare non pót. Prima quia ad variationem cius quod de foris de per accidens accedit nihil debet variari: sed nomen et verbum SIGNIFICANT EX VOLVNTATEM,ita go significatio deforis accidit nomini et verbo, igitur nomen per illius variationem non variabitur.  Amplius li ad variationé signification varientur nomina, ad convenientia erit eadem. Igitur “homo” et “anthropus” erunt vnum nomen:  Selatio pra quod nemo dixit. Ideo dicendum, ey nullatenus varia-pris  tur nomen: licet varietur significatio cum illa fit accidens ipsi nomini. Pót tamen dici variatum extrinicce, qué-ad modum colúna sit dextra vel finiitra ipso animali va riato. nec valet: significatio formalis variatur, igif nomen, quia illa est fibi extrinseca, sicut colúna dextreitas. Ad rationem dico e variata forma artificialis in. trinfece variatur res artificialis: modo non sic est in nominibus. Ad secundam midentidem o oratio de novo imposita, significandum non complexum, vim habet dictionis. Hoc absolute dictum est falsum – QVIA VOLO “HOMO” SIGNIFICET MIHI equi bos animal, et facio hanc propositionem: “Homo est bos” -- patet o qualibet dictio et pars significat ve dictio, igif tota non significar ve di  Etio. Amplius hac oratio de nouofic significans est oratios igitur partes cius significát ve ditiones per deffinitionem datam. Propterea dico quod oratio pôt imponi ad significandum aliquod complexum de non o dupliciter. Vno modo ponendo o partes significent, ex quarum significatione resultet significatio totius, hoc modo significat vt oratio, ve argumenta cogunt. alio modo ponendo q oratio significet, primo illud complexum de novo nihil de partibus afteredo, hoc eit non p hoc e significatio cius resultet ex significatione nova partium. Et hoc modo bene dicunt g› significat vt dictio, quoniam sua significatio non resultat ex significatione partium: quo in casu non erit oratio, licet partes lint noia: nec propositio, licet significet complexum, sed dictio erit tín, de hac re supra disputatum eit.  Everationibus  Enuntiativa vero non omnis, sed illa, in qua verum aut falsum est, non ait in omnibus el:ucluti deprecativa oratio quidem e/ft, fed neg, neraneg; falsa cetere quide igitur relin quantur, nam ad Oratoria, aut poeflm illarum magis consideratio attinet: enuntiativa vero presentis contemplationis ed.  Divisio enuntiationis, vt BOEZIO est autor, hac ra-  Cim ao.  tione sit fumpta oratione pro genere, ofonum alia im períecta, vt – “Plato in Lycio,” Alia vero pfecta - perfeita  vero(filiceat bimebrem facere.) Alia enuntiatiuv, alia  non enuntiativa qua e; diuisio, ideo p alterum membrum  negativum dat, oi subdividentibus mêbris genus cõe nomen non haber.nó enuntiatiue vero alia elt depreca ciua, ve adfit letitia bacchus dator. Alia imperativa: vt accipe, daé; fidé. Alia interrogatiua, vt quo temeri pe-des?an quo via ducit in vrbemiAlia vocatiua, vt o qui rex hoiumo; deûg, aternis regis imperijs. Enuntiativa  Faree mane  vero elt vt dies eft:dies no elt. No countiativari vero fie.  {pecies expofitor reducit adtres. on illa quinqueor-  dinata lunt ve vnus ex intellectu alterius dirigaf:quod quidem in tribus sit modis. Primo adattédendü men te, et ad hoc oratio deferuit vocativa. Secundo ad re-fondendum voce, et ad hoc facit interrogativa. Tertio ad exequédum opere, quod etiá trifaria fit, aut pex prefsionem defiderij, et ad hoc facit optativa, vel refpa  Etu superioris, et ad hoc facit depcativa: autrelpediu inferioris, et ad hoc facit imperativa. Siquis aut vellet poffet reducere etia has ad bimêbré, qua res cú non multum côferat, fit hoc fatis. LIZIO.itaq; mirabile brevitate vtens: vt Ammo inquit. tria facit fere infimul. orationem dividit, enunciativa definit: intentioné ad  spēm altringit. Dividés ofonem ait. enuntiatita vero non ois. Et lic innuit orationú aliá elle enuntiatiui, alia non enuntiativa. Deinde innuens definitioné inquit.  sed illa in qua verum vel falsum est. eft igit ENVNTIATIO ORATIO IN QVA VEL VERVM VEL FALSVM EST. Ve vero clarior esset hac definitio subscribit differentia, qua differtà ca teris. Qua in definitione posita est, et inquit. non aútin cibus est veri, videlicet vel falsum, veluti depracativa oratio et cretera id genus oro quidé est, sed neqi VERA, nco; falsa. Deinde abijciés à consideratione piti orationes nó enuntiatiuas aftringit intentione in fp.m. Nã huculo; de partibus interpretationis: et de cólipfa oratione locutus est. Et inquit. catera quidé igitur relinquantur, ná ad ORATORIA SIVE RHETORICA, aut poesim sive poeticam magis illarum confideratio attinet. Enuntia-tia vero pátis contemplationis est, qua {pés est ofonis potionhuius vero species sunt affirmatio et negatio. Hac igitur sunt que LIZIO breuibus cóplexus eft. Quantum vero ad verba graeca attinet verum vel falsum C falsum in enuntiatione sunt, in intellectu, atque: rebus. Inre film, bus quidem vt in causa, gn ab eo quod res eft vel non  est enuntiatio sit aut vera aut falsa. Inintellectu vero, quia intellectus subie tú oium verorum, et ita in intellectu sunt vti in subiecto. In ENUNTIATIONE VERO IPSA SVNT IN SIGNO, ceu SANITAS IN VRINA. Sed lupradictis emer gút dubitationes. Prima, videf o LIZIO male definierit enuntiationé per verum vel falsum: qi verum vel falsum aur sunt dfia, aut propria siquidé propria non erit bona  definitio. si dria, tunc contituit ipés: 8cita p suas spés definisset. Secunda cur solum de enuntiatione est consideratio. Logica.n. est (cia cois, igit de oibus. T'ertia de propositione tra @af in lib. priori, et in lib. polteriori. git non hic de enuntiatione: cuidem fint. Ad primá rádet Ammonius, g enútiationé signanter definit p verum vel falsum: quia lunt fines clus: et definitio dat p finé multotiens. totiens. Vel dici pot, g sunt ve propria, qua ponuntur loco differentiz, qua nobis latet, etiam si sint differentia et constituunt /pês genus definiri per pés tieri potest,  vt dicit Alexandrus quando vel differentia latent: aut ge-nusnon sit penitus vnivocum. Ad secundam ridet  Theophraltus philosophus o omnis oratio aut instituta ordinatad; est ad auscultatione auditionege: aut res ipsas. si ad auscultationes ato; auditiones, sic pertinet ad rhetorem atque poetam, vt ACCADEMIA ofidit in phedro. et Socrates plilebo. Si vero ad res, fie enuntiatio inflita ta est ad librum posteriorú et ad feiam: et ita crit propria huic considerationi. Ad tertiá dici pot, enuntiatio differta propositionesm propolitio ordinatur  ad syllogismus, et quatenus ordinaé ad syliogismum dicitur propositio, qua si ordinaf ad demonsirationem,  ca. sed si ad syllogilmum limpir vocat propositio absolute. Enuntiatio vero dicit quatenus subordinat intelleêtui p voces exprimentis de rebus verum falsumume. Et ita diffèrunt quia enuntiatio est extra menté ti in voce aut scripto: propositio extra et intra menté, Enuntiatio etia dici pot propositio, et conclulso, et problema: problema in dialectico syllogilmo, conclusio in demonstratione, itêá; dici põt qualtio: et id genus: propositio non nili premissa. Hac ti latius explicabuntur in libro priorum et pofteriorú Quarút rurlus forticola, an eiusmodi propositiones, tonat, corufcat, lego et id genus funt enütiationes. Secudo an difterat dicere, ego lego,  ego Augustinus scribo, et dicere lego,icnbo. Ad primam rident non nulli forticole quilliulmodi propositiones, nec sunt orationes, nec enuntiationes: benetn sunt complexa quedam in virtute. Moventur aurem argumento pillarú vna pars vipote SUBIECTI EST IN MENTE – videlicet: “ego.” [Grice: “Those Latins dropped pronouns!”] Alia vero in voce, vipote pradicatá. enutatio at de ois ofo est penitus in voce vel scripto  et c ita ciusmodi esse non possint orones vel enttiatio-  Cofittiones. Sed ifti delirt penitus. Nã ciufmodi funt in voce aut feripto: et in eis eft verum vel falfum: igitur enuntiationes.Hac.n.fuit LIZIO definitio. Neccon-  perfe pres tra cos alter arguo: sünt. n.hac defe derifibilia. Anima duerte igit g› ciulmodi sunt enuntiationes, qui verba sunt subiectum et predicatum et copula, in ilta distione lego -- aut ambulas: est subiectum vi prima vel secunda:  pfone verbi, qua sua natura illá importat. Est pradica-  qua sunt pronomina et prima et SECUNDA PERSONA, deno tatur affectio aliqua sive pracilio quadá, verbi causa  cum dicit ego Augustinus Scribo, denotatur qua  -- ut solus scribo, aut nullus ita bene scribit. Et tunc iuxta hanc re  bit. Tenet captiúcula per regulá. Secunda, non valet: “Ego, Augustinus, curro” -- igié ego sum. Ef.n. antecedens verum vi ego solus curreré: consequens vero falsums  sit deus ego sum qui sumqi alia a deo vel non sunt,  vel nonita bene. Bene tamen concedent hasfum, es,id genus. Sed ilti propter captiunculas lepe tradunE in pueriles fabulas. Hac. n. rilu digna fatis funt. Nãdá dico ego fum vel tu esaut in his volunt effe intelligen da fubielta, aut non.fi no: igitur erit aliqua cnuntia-tio pfeêta, et non cum subieto. Si vero volunt esse subie- Ea intelligenda. sed intellectus pót explicare voce om ne quod concipit: et non aliter pót, ( dicendo: “ego sum: vel tu es,” igitur “es” æquivalet “sum.” Et ego sum : es et tu es. Secundo, tunc hec esset nugatoria tin deus est: tín ego scribo: et id genus, Propterca vide mihi lilliulmo-di ofones non differre quantum ad rem: sed solum qua ad  vium thetoricum atque: ornatum. quo. n. Ad veritatem  idem est dicere “tu es,” et es, “ego scribo,” et scribo. Ad dunttamen rhetores pronomina ipsà prima et secunda persona nónung emphaticos: veluti illud Maro-nis: Me ne incapto desistere viêta? fub illo pronomine, “me,” intellexit reginam deorum, et fororé, et Iovis coniugem. Similiter Cicero. Ego omni officio ac potius pietate erga te catenis satisfacio. sub illo pronomie, “ego”: feillum talem qui cum Ientulo familiarissime vixit, et qui tot beneficia ab eo acceperat intellexit. Addunt igitur rhetores eiusmodi ad amplitudinem licet quoad  propositionum veritatem, quam logicus considerat,  nulla sit differentia – cf. G. N. Leech on H. P. Grice as proposing a CONVERSATIONAL RHETORIC – not a conversational DIALETTICA. Et hoc modo intelligendum est illud Prisciani grammatici. Hae fatis. Et autem una prima oratio enuntiativa, affirmatio, dea  Enuncidiona  inceps negatio: cater e ucro omnes coniuncione sunt und. aliu est voafim  alie con.  Necesse et autem omnem orationem enuntiativam esse ex  alia vere cum  verbo, dut casu verbi quando o hominis ratio nif refm pes ee.: “est”, aut “fuit”, aut “erit,” aut tale aliquid adyciatur nequag oras  per afpr.  tio crantistina si Qgaobren an quoddam se or nonmul  ta “animal, resibile, bipes”? Neque enim quis propinque di»  Pie: Mete.  C- Mar.  cuntur: una crit. Erit alterius boc trafare negoay. Coniucniunt expositores et graeci et latini, g› definitá  Сетьат enuntiatione nunc dinidat LIZIO: et volút gi LIZIO brevibus duas divisiones enuntiationis explicet: quarum vna est o enuntiationum quedam est vna simplex, quedam vna coniunctione. Qua expositor eo approbarge etiam in rebus aliquid est vnvm simplex -- vt indivisibile, aut continuum, alteri colligatione, aut compositione, aut ordine, Secunda vero vt expositor ait subdivisio est enuntiationis vniusin affirmatione et negationem. Vnderecétiores volunt divisiones esse huismodi enuntiationum quadam est cathegorica, quadam hypothetica sive CONDICIONALIS. Cathegoricarum alia est affirmativa, alia negativa. Mouct BOEZIO dubitatione /vtri id quod ait prima ad affirmationé referaf, vt lit posterior negatio, An id quodait prima ad simplicem retulerit orationem: vt secunda sit que ex ofonibus iungif. Hac BOEZIO quæstio resolvit in tres. Prima verum divisio enuntiationis p vna et coniunctione vna sit prior divisione p affirmationem et negationem. Secunda vervm affirmatio sit prior negatione. Tertia vtrvm simplex sit prior coniuncta. Ridet Andivltemi expositor, è quo accepcrút recétiores: g prima divisio.  ciatie in visena  enuntiationis sit per cathegoricam sive vna simplice et hy [ne vnom fit gri] potheticam CONDICIONALEM sive coniunctione vnam. Huius ratio ab expositore colligit, quia prima entis divisio est per vnvm et multa Igiê prima enuntiationis divisio esse debet similiter. Alia vero divisio est potius subdivisio enuntiationis simplicis. Sed pace horum dixerim hoc stare non pot, gi eriá hypothetica o CONDICIONALIS siue coniunctione vna est affirmatiua vel negatiua. I giê no divisio secunda sive sub-divisio alerius uel. P erit, guat fit per firm tiun et negationem. Secundo errant recentiores qi volunt hanc divisionem esse per cathegorica et hypothetica sive CONDICIONALIS: qi tune sola condicionalis esset coniunctione vna. Am  mo.n. et BOEZIO volunt hypotheticam no esse nili duobus modis s aut condicionalem, aut disiunctivam qua ét species conditionalis est vt dicemus. Vñ et grace hypothelis conditio cit. Igit hypothetica condicionalis est tm. Ideo dicendum ad primão hac dua divisiones  enuntiationis aquales conertibiles cú ipsa sunt. Vt.n.  ens dividitur per vú et multa: 8e per adiú Se potentia et  id genus. Qu oe ens aut est vnum, aut multa. Similr o€ ens aut actu aut potentia. Sicois cúciatio aut vina simplex aut coniuncta. Et ois etiam aut affirmativa aut negativa. Etita equales sunt divisiones euimodito non vna sub-divisio alterius. Dico secundo hac diviso p vnam et coniunctione voi no est divisio per cathegoricam et hypothetica sive CONDICIONALIS, Nô.n.vt BOEZIO et Ammo, aiút:  cathegoricum opponi hypothetico: sed coniunctione  vni. Eit aut coniunctio non vno ma: sed interdi copulatione, interdüt pe, interdum leco, et id genus. Ha.n.  sunt coniunctione vnz, pn sol exoritur, diescit: quia  coniunguntur coninctione tpis He hmilr, vbi tu disputas, Socrates iacet, et aliz eiusmodi. Que ti non sunt  hypothetica. Recte igitur LIZIO verbo côiori vtens,  dicit catera vero oes coniunctione fune vna: et non di-  ateet secteasoes se apoiteacas Ad ed am sepondet  Animo.g affirmatio solum ex parte vocis sit prior  Additie expo negatione quia est simplicior. Nam negativa enuntiatio affirmatiua addit particulam negativa. Expolitor aûradiecit duas alias rones, et affirmatio sit prior ex parte intellectus, om affirmatiua significat compositionem intellectus, negativa slignificat divisione. mỡ compositio est prior divisione, cum non sit divisio nisi compositori. Sed o ex parte rei: qi affirmatio significat esse, negatio non esse modo cile et vir habitus na-  esfuttio addi turali prior est PRIVATIONE (cf. Grice, “Negation and privation”). Sed hac additiono placet  Prima quidem non: om a pari diuto elet pior compositione gi non cit compositio nisi divisiorum. Am plus vt diot Ammo, affirmatio et negatio quo ad compositione et vitatem non difterurit: qu veragi eli composta ex verbo de noie. Lacetilla dicatur divisio reri.  Secunda vero minime sgi PRIVATIO  naturatr pracedic  habitü, vt de in Predacamentis Prius. nicatulus cocus  elta viders, et ita fatis citrelponio Amo.( BOEZIO Simplee  stiam approbat. Ad tertiai rádet BOEZIO gi enúcia-  enantiatie fie  tio smplex eit naturatlis/ At coniuncta pon sit vna  nili pofitióne et quali ab extrinieco. Sed quod elbra-turale prius eft eo qdi pofitione eli tale ‹ aurefimplicé  tiationis limpiscis voitas eltà natura, etiá ipla crita na  tura.eadem.n.ratio.eft entis,&evnius:proponitionis&  voius: ve di in elenchis. Sed Arifto.ait contra Plaroné nullam afonem e/lea natura. Igitur vé hacexpolitio contra Ariltot. Propterca dico, go via inuentiua, quee compositione agitur, simplex enunciatio prior sit, via vero anayitica hoc sit resolutoria composita sit priortim  plici. sed qi LIZIO inilto lib.eltinuentiuus, iurelim  Litera exp.  plicem praponit. Inquit igitur, est aut vna prima oratio enuntiatiua affirmatio et midens ad particuli, prima (ubicribit, deinceps negatio: gaipla negatio voce posterior est. Ad particulam illam vna, midens aitalia vero coniunctione sunt vna. ve hypothetica &id ge-  Duli Mexi, nus. Sed adhue elt dubitatio Alex videlicet, vtrum divisio enuntiationis per affirmationem et negationem sit generis in species. Secunda est dubitatio Ammonij:  Scle tran  vtrum hec sive enunciatio fue propositio fol existente super terram dies est, sit simplex, aut coniunctione vna. espondet Alexander qudiuisio enunciationis per Rie Ani. affirmationem de negationem non ellet generis in species: qinin genere non eltordo, in enunciatione elt  ordo. Refpondet Ammonius, et BOEZIO, et expositor o bene vna porest esse altera prior comparatione facta inter fe vt in numeris patet. Sed comparatione adter-  tin: vt poread coc genus nullus est ordogi aqualter  funt orones veri vel falli participes, qua eit definitio enuntiationis et hec responsio potelt stare, Scias tá q BOEZIO et Ammonius inter afiarmationem et negationem nullum alium volüt ordinem, nili prolationis et vocum. Expolitoralios affert, quos deiecimus. Ad Ri. ad/elam. Secundam dici por quod illa elt coniunctione vna: ablatiuus absolutus resoluitur per coniunctionem alig, vt dicunt grammatici. Hee de divisionibus colliguné. Expõ secunda  Deinde vt Ammonius et BOEZIO introducút. LIZIO, vo- partisprime lens disputare de affirmatione et negatione: que sunt species enunciationis. pramititquoddam vulead fer monem de illis, videlicet, pois enunciatio conftat ex verbo, videlicet, presentis t pistaut casu verbi: q' est preteriti aut futuri. Tacuit verbum infinitum, ve ait Ammo. Tum quia principaliter de afhrmatione loquetur: tum vel maxime, quia coordinatur cum negativo. haber. hictim co fere cádem vim. Sed dubitat Ammo. curpreteriit nomen. pót.n.imo constat enunciatio ex nomine de RECTO, vt fol oritur: et cafu cius, yt me tedet scribere. Respondet primo hoc esse pratermilium: ga potett esse enuntiatio, de non ex noie vel casu nois: vt: “Kire tum nihil est”: vbi verbum est subiectum. Nulla ri enunciatio elle põe line verbo, aut verbi casu. Hec responsio non valet: em vérba illa in enuntiatione nomina funt. Propterea Porphyrius philofophus, qué BOEZIO (equit, volie prater mififeipfum nomen: quía verbum est principalior pars, cum sit pars formalis, quafito-tius enuntiationis compositiva. Signum aut aftert /to-ta oro à pradicato, o est verbum nomen mancilcitur. dicitur. n. cathegorica, hoceit PREDICATIVA. Hac eit Exp5  propria.  vna exposítio, qua stare pór.Mihi tá videtur o LIZIO refondeat quattioni tacite, dixit. n. efic enuntiationú alteram limplicé, alteram coniunctione vnam. Lo quis abifciet. ois enunciatio coltat,ex verbo, verbü aut im portar compositionem, j fine extremis non efintelligere. Igitur ois enuntiatio di composita. Cuirídet q ois enútiatio eft composita ex nomine e verbo. Sed di simplex quia non ex pluribus enuntiationibus constat. Veluti  hacfi solesoritr, dies efliqua pluribus conltatoronibus.Et tunc continucilitera fic: licet enuntiationú fitédam fimplex, necefle efi tá oem oroné enunciatiua  esse ex verbo, aut casu verbigitur de simplex simplicitate opposita compositioni ex pluribus enunciationibus. Et hac est expórectior. Primo, ga illa particula Apprebatio ex ADVERSATIVA (ait) poni non tolet sic obiter, nili ad obic Peitionis, Etiones tacitas tollendas. Sedo, quia interpositio fuif-  fetnimis casualis et nopetinens. Tacuic aut nomen:  dú à maion liciga fiqua oro cét enunciativa line verbo maxime ellet definitio. Mo ingt, on et hois to, nitripm “est”, aut “fui”, auv “erit” :aut tale aligd adiiciat, nequai ofo enunciativa sit. Igié ois enunciativa ofo ex verbo constare debet. Sed qni de definitione locutuselt, et qualtio  de vitate cius elt alterius negocij, ideo se excufat, interponit tamen consutationé cuiufda falf ráfionis. Di  cebant enim quiddam, ep definitio est vna, quia partes propinquius iacent. Inquit. quamobre vnum fit et non  multa “animal, ressibile, bipes.” Interponit solutionem falsam: et inquit, negi enim quia propinque dicuntur: vna crit. Tunc redit ad excusationem, quali dicés, quare  Natabile.  vnvm sit definitio erit alterius hoc tractar negocij. Aiadverfione dignum, vt declarat BOEZIO et Ammonius ad vnitatem definitionis elle necessaria partiú propinqui tatem, quia bi partes longo interuallo cocila profer rent, definitio nó ellet vaa. Neigit credat hanc elle cau fam vera, remouit illa &e tranfmilerit nos ad septimum et octavum meta.  Etlicet de vnitate definitionis LIZIO.  Dubitatio.  Rifie T bre.  tralmiferit nos ad metaphyficá, Dubitant expositores graeci que eit causa vnitatis definitionis Ridet Theophratus in libro de affirmatione et negatione, e definitio est una ratione fubicati: quod definit. Secundo propter partium proximam constitutionem. Obij-ciunt contra Theophrast, quia tunc definitio no esset vna per se, qín ellet vna ratione fubie ti, et ita ratione extrinseca Secundo, quia tuc oia accidentia essent, vnvm essentialiter, quia funtin vno subiecto, vel faltéca, qua  effent in vao fubicCo. Ammonius affert duas causas. Prima elt partiú vicinitas. Secunda vero est, quia in re est aliquid loco materia, aliquid loco forma. et cum  inter hac nihil medvet, rationabiliter faciunt definitionem nam: Sed ambo pollunt bene dicere, quia Vt Auerroes ait in, g-mera. com.4a. dehnitio vno modo potest fumi vtinfirmenum, quo intellectus inducitur ad intelligendas essentias rerum, de cú instrumentum fumat vnitatem afine. Finis aut est definiti essentia, iure ab vitate definiti definitio crit vna. Et sic recte Theophraftus ait. Altero vero fumi potelt yt etipfarei eilentia, que cum refultet ex vitima diffe-  rentia sive vitima forma, que cil vtmusaCtus, ficbe-  Dubitatin The  ne Ammonius ait. Sed le res non est hic tractanda, vi bene LIZIO. Dubitatetia Themitius primo posse. quia videtur a definitio sit enuntiatio, quia est species ponis immediatz, vt ait LIZIO hic autem vult  non esse enuntiationem. Hanc qualtionem multi fol uere enituntur, quosin pripo polte confutamus, nunc  vero Philoponi expositione afferimus, g› definitio pa-test colderari vt premilla, et e sic eit propositio et enuntiatio, vt LIZIO vultibi. Alo modo vt terminus, et lic loquitur LIZIO hic iquia vt sic non est ENUNTIATIVA ORATIO, sed terminus vt dicit.  Elait una ORATIO ENUNTIATIVA, dutes que unm SIGNIFICAT aut es que coniunione est uns. Plures vero esse que plu a co non un significat. Aut ee que sine coniuntione sunt.  Cim. as.  Expositores fere ois volunt LIZIO divisionem pre-politam nunc exponere, quod, vt mihi videtur, stare non potest Addit-n, mónulla mébra que non pdiuilit  Primarupt.  Confutatin,  Ideo LIZIO divisione enuntiationis rurfus núc alio modo ordit, qua hac forma reducit. Enuntiationú, alia est vna. Alia plures, yna bifaria dicit, hac quidem simpliciter,illa vero Fm quid vr dicemus. Plures rurfus biari:  en quide plures, ga piura et no vnvm SIGNIFICAT, ille plures, ga line coniunctione multe sunt. Huius secunda divisionis prima pars prima parti prima divilionis ad-  Prime duba. versat. Secunda vero pars ciude, secunda illius modi. Referfie Ambigút que diviso sit hac? Ridet et lane fapide gpeltdiuifioziquinoci infigaificata/ve i hodiniderdt  in verum, et e marmore, nã lola enuntiatio vna est enuntiatio, plures vero fune vna platione, et METAPHORICA (“You’re the cream in my coffee”). Secundo dubitant quid LIZIO, velit p enuntiationem vnam limpir, et vnam fm qd: quid g; p plures imptir:  Secunda dabi.  et plures fm quid. Ad hac BOEZIO et Ammo cocorditer rident: et volut eo vnitas et multitudo referan ad enú Referacãs.  tiationis signantiam. Simplicitas vero et compo ad voces. Ex his fiunt lex coniugationes: quarum dua sunt impossibiles, quatuor possibiles: vt figura declarat. Eninciations coniugationes fer: quatuor possibiles,  o due impossibiles. Vna Polis Simplex sgod Lmpof  Impossibilis  Polis  Composita Polis Plures Erita vna simplex est, felt vna fimpir, vt ho eft ro- nale. cit. o. na quo ad lignantiam.Simplex vero quo ad voces vna vero composita eit vna Pm gd, vt lifol vritur – ut: “Dies est.” “Socrates disputat et Plato legit” e id genus. Hec. n. de vna fm gd, quia colutione vna. Plures etia bifaria  funt: plures composita contra primum membrum, vt g incon-lucta sunt tales, vt: “Socrates legit,” “Plato disputat.” LIZIO mo uef. sunt. n. plures et composite fm voces. Plures vero simplices – ut: “Canis latrat.” cit quide plures signatu, vocibus vero slimplex. Simil mo hoc: “AIACE pugnavit cum ETTORE.  Multin. fuere Aiaces. Hec quo opponit ad fam membrum. Sed huic obiicit expositor. Frimo, quia p defunitione: qua interponit vi distinguere inter oratione, 9  significat vni, et gelt voa coniunctione. Secuco, quia  supra dixit, gp est vnvm quoddam et non multa aial grefsibile BIPES: quod vero est coniunctione vnvm o est vnvm, et non multa, sed eit vnvm ex multis. Sed ifterones frivole sunt.  Prima qdem, ga non difigit inter vna, et coniunctione vna: sed inter vna simplice, g tubintellexit in primo membro, et vna coniuctione. Adicam dico upenes aliud  accipif vaitas enuntiationis et definitionis hic et ibi. Qía hic fumit vnitas a significatum multitudo etia. Ibi aliter  vdisimus. Terio dubitantois – “Homo vel equus currit” -- est vna fimplex, aut vna composita. Similt Plato athenielslapiés academic est in lycio LIZIO LYCIO r est vna simplex, vel  vna composita. Silr ois – “Homo lieft bos mugit, et Socrates et Plato disputant” sunt ne vna simplices ? an vna composi-tel Quiced velnt BOEZIO, Porphyrius, Ammonius: et ali. dico g glibet harum est vna simplex. Nã verbum  elt vnu, a quio lumit vnitas enuntiandi. Prima gdem vna  de subiecto disiuncto, iccúda una de subiecto composito.  Tertia vna de SUBIECTO CONDICIONATO. Quarta vero vna de subiecto copulato, et ita qualibet est vna simplex. Quantum vero ad verba attinet adiccit et no vnü quali dicat propositio sine enuntiatio est vna simplex,  de plures plures qua fignificane plura, et non vnum.  Q in vt Ammonius inquit, sunt enuntiationes plures de aliquo vniversali, vt aial g “Ressibile bipes est homo.” Potest enim resolvi hac in plures, sed quia continent sub aiali, sunt vna. Propterea ait. 8e no vaú pp tales enuntiationes. Aut dici potvt Porphyrius philosophus ait hoc esse di tú ad differentia enuntiation, qua fumüt definitione pro subieêto, aut pro pradicato. Na videntur multa significare: sed in re vera vnum significant.  Esenciatio fi  Nomen quidem igitur aut verbum didio sit solum. Cum non contingat utis, qui voce aliquid significet, fie dicat, ut cauntier: fue INTERROGANTE ALIQUO, sive non, sed ipse profert. Videtur o LIZIO inferat ve per particulam illariua defignar. Videtur vero gy dubitatione excludat, vé per  Icriem verborum haberi pot. Est.n.dubitatio talis, quia  dictum et enuntiationem esse nã ab vnitate significatus, sed nomen aut verbum vaú significat. Igitur enuntiatio vna erit nomen vnum, aut verbum vnum. Solvit de volt ‹pis, qui profert nomen aut verbum vnum,  vum dicit, et is etiam qui protert enuntiationem vna,  vuû dicitil ed non eodem modo. Nã dicens nomen vel verbum, dicit nú prolatite, et non enuntiative, at is qui  enuntiatione vá dicit, vnvm dicit enuntiatiue. quatenus enuntiat voú de vno, aut remouet vnú ab vno. Et hoc inquit {nome quide igitor aur verbum dictio fitlo- cu non contingat vtis qui VOCE aliquid signiticat  sic dicat vt enuntict, sed contingit ve sic dicat vt profe rat tifadiecit fue interrogante aliquo, fue non inter-  rogante aliquo,g qui aliquid nomine aut verbo fignificat poteft dicere vt enuntict aliquo interrogante, vt fiquis petat quis hodie venenum bibit, et refpon deatur Socrates. Patet e is qui dixit Socrates: enuntia uit: 8 hoc quia precefsit interrogatio. vbi autem nulla pretuisset interrogatio, dicens Socrates em, NON enuntia uit, sed protulit ditaxat. Igitur enuntiatio differtà verbo hue noie: gi enuntiationem SIGNIFICAT viium de vno enuntiative, live precedat, liue non precedat interrogatio. At nomen vel verbú pót enuntiare nú de vno solum precedente interrogatione. Propterca air cum non contingat vis qui voce aliquid SIGNIFICAT, sic di.  cat vt enuntict, line interrogate aliquo, fite nullo, hoc  est vt enuntict in omni casu. ham non nisi vbi prace-filet interrogatio, sed ipse ita dicit ve in omni casu PROFERAT nû. Er lie differt enuntiatio a verbo et nomine, Harum vero hee quidem est simplex enuntiatio, sclut que  Tutto imples, aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo enuntiat, illa vero ex his composita: acluti ca oratio quedam que (ane componitur. Ammonius vule vt LIZIO sub-dividat eas enuntiationes, quas dicimus aut INTERROGANTE aliquo, aut quas volumes dicere per nos ipsos. Sed hoc est repcte-reidem pluries: quod non conucnit LIZIO. Melius igitur divisionis pradicte membra exponit per exempla. Er inquit, harum vero hac quide est simplex enuntiiatio, velut per exempla ca, que aliquid de aliquo, aut aliquid ab aliquo subaudi enuntiat. Hoc est ve affirmatio – “Socrates est academicus,” aut negation – ut: “Socrates non est timidus.” Illa vero cit qua ex his componitur, quod trifariam ft, vt Ammonius ait, videlicer, aut ex ambabus affirmationibus,aut ambabus negationibus, ved ex alter afirmatione, altra negatione. Cuius exemplum fabdit,  et cinquiti veluti es oratio quizdam, qua fane componitur, fupple ex duabus affirmationibus – ut: “AIACE pugnavit et ULISSE fürit.” Ex duabos negationibus – ut: “Plato non est crudelis: et Socrates non est avarus.” Aut ex vna affirmatione, 8e altera negatione, vt: “PLATONE eit in lycio LYCIO LIZIO et Socrates non in academia.” Et ita per exempla paret divilso et membra divisionis.  Est autem simplex enuntiatio vox que SIGNIFICAT aliquid Iniciato quid  «/Je de aliquo, aut non esse, modo quo tempora distinguitur.  Alexander aphrodifius exponit LIZIO nunc  Cin 35-  definire simplicem enuntiationem, qua ait definifle species. Argumento,  enuntiatio no genus cit illari, sed veluti æquivocum quodda. Hac Aspalius ratione hac confirmat: quia eo modo hic LIZIO enuntiationem definit, quo primo priorum descripsit propositionem: ed illic sic propositionem descriplit, propositio est oratio affirmativa vel negativa alicuius de aliquo, aut alicuius ab aliquot igitur de timiliter enuntiationem describere debet. Obijcit autem Ammonius, vt fumit expositor, quia statim LIZIO definiens affirmationem et negationem ponit enuntiationem, et non vt differentia migitur vt genus. Et ita non æquivocum, sed genus erit illarum, et per consequens non definiendum per species. Porphyrius philosophus cum Alexandro volens LIZIO definire enuntiationem simplicem, ait non per species dehnifle, sed per virtutes affirmationis de negationis, efie enim &e non, elle non sunt pecies enuntiationis, sed virtutes affirmationis et negationis. Sed obijcit expositor, quoniam sicut in definitione generis non debent poni species. Ita neg; ea qua sunt propria specierum: MODO SIGNIFICARE esse, proprium est affirmationi, SIGNIFICARE non esse negationi. Igitur non debent poni in definitione generis. BOEZIO autem quafihac miscens vult LIZIO Espibe. lemfimul dividere enuntiationem simplicem, &e definire, vt intelligenti pateti& longis verbis exponit.  Sed hoc expositor refellit, quia si enuntiatio simul definiretur et divideretur, cum mon videatur definiri nifiatt per species, aut per virtutes specierum, necessario cum dicere oportebit vel vt Alexander, vel vt Porphyrius. Com Ammonio vero expositor sentit, &enos  quod; sentimus, videlicet, gi LIZIO enuntiatione simplicem in duas differentias dividit, vt inde definitiones pécicrum näcifcatur. Et inquiteft autem simplex enunrtiatio, lupple omnis, aur que SIGNIFICAT aliquid esse de aliquo, quod ad affirmationem atunet, aut que SIGNIFICAT aliquid non esse de aliquo, quod ad negatione nde ne intelligatur solum de prasenti tempore, sub-scribit modo quo tempora distinguuntur, quasi dicat;  etiam in aljs verbi temporibus.  Hac vero divisio vt  expositor sentit non est enuntiationis in species, sed in differentiaa specificas, non enim ait quod enuntiatio est affirmatio vel negatio, sed VOX SIGNIFICATIVA cius quod est esse, qua est dificrentia affirmationis specifica, vel eius quod est non esse, que tangitur differentia specifica negationis. Propter hac ex his differentiis subscribet specierum descriptiones.  Hac  est optima expositio. Verum illa Alexandri non est de-rifibilis? Propterea primo debes scire Alexandrum voluisse enuntiationem, non esse simpliciter æquivocum sed ANALOGVM, quasi analogia genus dicitur  analogum speciebus Septimo physica auscultationis.  Hac enim analogia perfecti ad imperfectum rationi generis non repugnat. Viterius animaduertendum enuntiationem posse bifariam definiti a prioris, et e sic in pracedentibns definit LIZIO nullas in eius definitione addendo species: aut a posteriori. Et hoc dupliciter vel per ea que intellectui competunt: et ita per species acceptas a vero e falso, superius descripsit, aut per ea que rebus conveniunt, et e ita describit hic icú di cit enuntiatio simplex VOX EST QUA SIGNIFICAT ALIQUID DE ALIQUO ESSE, VEL NON ESSE. Vox enim loco generis accipitur. SIGNIFICANS esse vel non esse loco differentir a posteriori accepta Et hac elt mens Alexandri: que mulcum confsnat littera. Tunc ad argumentum contra Alexandrum patet solutio. Non enim negat enuntiationem esse genus: sed ait esse analogum etiam.  Per hac patetrefponfio ad illud contra Porphyriú.  Pofiunt enim poni in definitione generis propria fpc-cierü:no quidé in definitione propter quid, sed in definitione quia: et a posteriori.  Similiter ad illud contra BOEZIO, simul.n. definit vt notat illud genus vox et dividit ve notat differentia accepta à virtutibus, hoc  De bypatbetis  est propriis specierum. Credunt forticola LIZIO-  củ.  lem per simplice intelligere categoricam, et per com  Prima pofiria.  ciatio sit cathegorica, vel bye  que in, gua a pluril categorias confans con.- etetica. sunctione vna eit: de quonia plures categorica, possunt coniungi pluribus modis, {queda enim per nota causa, vt quia Socrates bibit venenum, fuit fortis: Aliz  moritur, fepelitur. Et possunt etiam coniung: plures categorica innumeris fere modis; Ideo hypothetice secundum iltos funt fera innumera. Quare ois enuntiatio, qua expliribus conflatenutiationibus el hypothetica. Et sic inductio, exemplum, et enthymema: atgi syllogilmus: et caetera id genus cum sint enuntiationes coniunte per notam illationis, omnes sunt hypothetica. Alij ponun thypotheticarum, fex species sive modos -- vt conditionialem, copulatiua, disiunctiua. Tertia põ.  causalé, temporalem; demú et locale. Sorticole côiter aiunt TRES esse species vt: CO-ORDINANS: copulativam (p e q), disiunctivam (p o q) et SUB-ORDINANS: conditionalem: (si p, q). Nam cateras ad has reduci contendút. Theophrastus vero et Eudemus volunt hypotheticam oêm esse conditionalem et nullá alia nisi conditionalem. Huic BOEZIO assentit in primo Topicorum suorum vbi air CONDICIONALES PROPOSITIONES esse, quas graeci hypotheticas (SUPPOSITIO – suppositiva -- vocant. Amplius in libro de syllogismis hypotheticis ait CONDICIONALEM ENUNTIATIONE fortiri speciem et nomen ab hypothesi graece, latine CONDICIO sive SUPPOSITIO. R urfus LIZIO in libro priorum vult ex hypotheticis enuntiationibus costitui syllogismos hypotheticos. Constat autem per ipsum non nisi ex CONDICIONALIBVS. CONDICIONALIVM vero graci duas tradunt species altera eltquam continua vocat.  Velifol exoritur: dies est super nos. Altera est: qua disontinua nuncupant, ve: “vel tu es, vel tu non es.” Oua CONDICIONALIS discontinua appellatur, quia posita CONDICIONE ep non sis, sequitur te non esse, cumitag; nihil ponat inesse, CONDICIONALIS eriticum inter partes difun  Al formi que  Etio signetur discontinua appellatur. Haceit mês om  Riends,  nnium graecorum et BOEZIO) vbi gi. Qua ratione sit ve hypothetica 6t lpés enutiationis coniunta. Nec cathegorica dividit contra hypotheticam sive CONDICIONALEM sed potius cotra conjuntam. Consequenter videridá de pebus condiciona: De peba con discontinue. Et dicendum vt Ammonius e BOEZIO fen tiunt péspofie enumerari aut penes qualitaté cathegoricarum è quibus constat, aut penes forma, que habetur ex vi notz CONDICIONIS. Si penes qualitate partium: tunc sunt quatuor species. Prima ex categoricis AMBABVS AFFIRMATIVIS: vel – ut: “SI sol lucet, dies est.” Secunda ex ambabus negativis –vt: “SI non est animal, non est homo.” Tertia ex prima affirmativa, et secunda negativa – vt: “SI dies est, nox non est.” Quarta ex prima negativa et secunda afirmatiua -- vt: “SI dies non est, nox est  pecies colligantur ex nota CONDICIONIS/ {Ouonihac nota si potest trifariam fumi. aut pure CONDICIONALITER – vt: “SI habere homeri, suderé: Aut permissiva, vofiad me veneris, mille basia dabot aut illative – vt: “SI dies est, sol lucet harum trium tertia est in viu graecorum: et proprie CONDICIONALIS continua.  Consequenter quaramus penes quid atrenditur affirmatio vel negatio CONDICIONALIS continua. Respondent recentiores o nota CONDICIONIS est tanqui FORMA CONDICIONALIS: quoniam e forma qualitas profici fcif sicut è materia ipsa quantitastiure ea dicitur negativa, cuius CONDICIONIS nota negatur. Contra vero aftirmativa, cuius CONDICIONIS nota affirmatur. Qua ratione fievequalibetharum sit negatiua: non SI dies est,  sol lucet. Itemá; non dies est, SI sol lucet. Rurfus, dies est: non filo lucet. In his .n.oibus semper CONDICIONIS nota negatur. BOEZIO vero in de hypotheticis PiBu.  affirmatione vel negatione naciscitur ex qualitate consequentis. Vult enim CONDICIONALE esse negativus etiam si solum consequens negatur. Hac enim est negativa.  ficit. a. non el. s. Hac affirmativa. f nonel. A. c. s.  Hac positio persuaderi pot, qín vis tota hypothetica est in illatione consequentis. Hypothetica enim nihil po nit inesse, sed solum afferit illationem. Igitur negatio debet esse supra consequens, vbi vis illationis habetur. Sed dices quales crunt ha, non SI DIES EST, sol est or tus. et soleftortus SI DIES EST. Videtur mihi ep etia  Dulltitie.  ciulimodi sunt negativg gm in omnnibus ijs vis negationis [Contra BOEZIO] exercetur supra consequente ipso. Et pro tanto sunt negative pro quanto consequens negatur. Non per hoc quia CONDICIONIS nota negatur, sed quia consequens negatur lequi ex ANTE-CEDENTE. Quare apud BOEZIO potest CONDICIONALIS esse negativa trifariam, aut per CONDICIONIS negationem, aut per negationis prepositione: aut per negationem consequentis. Et de quantitate  agamus Sorticola tenent CONDICIONALE continua nullius esse quantitatis, gri quantitas est CONDICIO subiectei. Modo illa non est ex subiecto et pradicato, quare crit ois non quanta. Probabiliter teneri potest omnem  CONDICIONALEM continuam esse quanta Ex hoc a quantitate consequentis.Vocat coim LIZIO syllogilmorum hos vniversales, hos particulares. et hoc a quantitate conclusionis. Igitur cum CONDICIONALIS continua sit vt enthymema potest dici quanta ab cius consequentis quantitate. E tita hac vniversalis, cuius consequens est vniversale, illa particularis simili ratione. Hac quidem erit vniversalis, fi ois homo currit. ois homo mo-  roes feptimo phyfica aufcultationis, comméto fecundo vule aliquam conditionalem effe veram, cuius an tecedens et confequens funt imposibilia: aliquã effe fallam, cuius antecedés 8e cófequés funt neceflaria. Etita renet conditionalem diuidi per verum et falfum.  Pro hac politione arguút recétiores, cotradictoria  diuidunt omnem enuntiatione fm verum et falium.  vt dicit LIZIO primo priorum: sed conditionalis continua habet contraditorium quia poteft negari et affirmari Igitur est vera vel falsa. Secundo cuiufli-bet côtraditorij altera pars eft vera et e altera falla. Hec funt contradictoria, SI dies est, sol lucet. Etnon SI dies est, sol lucet. Igitur altera vera et altera falla. Et e gdguid dicatur, equitur conditionalem esse veram ve lfalsam c  Confitatio.  Sed hac positio stare non potelt: quia vt dicitur in predicamentis ab eo quod res eit vel no eit, oratio dicitur vera aut falsa. Sed hypothetica nibil ponit in eile, aut in non esse. Igitur non poteft dici vera vel falsa.  Propria ph.  Propter hac videtur mihi faluo meliori iudicio quod nulla hypothetica debet dici vera vel falsa, sed bene necessaria vel contingens, quam quidam vocant bonam aut mala. Reêtius necessariam aut contingente, sive  impossibilem. Et hac est intentio Boeuj vbigi-  Tune ad rationes dico. Ad primum, e contradiêto  riu in hypotheticis non cadem ratione accipit veluti in  Simplicibus, na in simphcibus deltruit veritate vel falsitaté, hoc est id quod est in re, vel quod non est in re. In hypotheticis vero destruit necesitatem vel impolsibilitatem illationis. Etita contradicere est fere ÆQVI-voce. Tuncad formam dico, g› contraditoria dividunt verum et falsum in cathegoricis, in hypotheticis necessaria aut impossibile. Et hoc satis. Similiter ad secundam. contraditoriorü enim de necesitate alterum est verum, alterum falsum in cathegoricist in hypotheticis vero alterum necessarium, alterum impoisibile, vel  cotingens, hoc est non necessarium.  Et de conditionali discontinua agamus, quag; disjuntiva dicif. Et primo dicamus o qualibet pars disiunctiva potesse consequens, ve dicédo: “Tu es, vel tu non es.” Quamqua BOEZIO veatur vig; DVABVS disjuncttionis notis, ve “Vel tu es, vel tu non es.” Et hoc ve notetur nihil poni inesse, nec in prima nec in secunda [but cf. Grice on the metier of ‘or’ as providing pis aller answer to a scenario where alternates are equally topically apt and held to be liable to being truth.] Dico igitur o quelibet potest esse consequens. Nam: “Vel movetur VEL quiescit” -- pot habere consequens altera indifferenter, quia SI non movetur  De fimuis quiescit; et SI non quiescit, mouetur. Tunc dicendum  e disiunctiva solum est negativa vel affirmatiua per negationem propositam. Causa est, quia quicquid reneatur pro consequente, intelligetur negatum, quod non est  De quantite, ita in ipsa conditionali continua. Secundo dico aliqua est vniversalis, et aliqua particularis. Sed non à quititate alterius enuntiationis sed quoties amba sunt eiusdem quantitatis. Causa elst, quia quelibet pot elie  consequens, vigitur tenuetur quantitas consequentis,  Dabitatis. oportet ambas esse ciulde rationis  Sed dies velom.  ne.n. est: vel quoddam. a. esse quanta est ista. Dici potelt go hac est alcuius quantitatis in se, quonia ilius cuius quantitatis est ab ea cathegorica, que fumetur pro consequente: Actu vero est disiunctiva vniversalis, de disiunctiva Etiuz particularis. Nechae contradicunt. Pontenim vna  met disiunctiva esse vniversalis et particularis hac ratione, videlicet, disiunctiva vniuvríalis, et disiunctiva ctia particularis. De sariste.  De veritate vero et falsitate ita sentienda, veluti de conditionali continua. Cum.n. disiunctiva sit conditionalis, et conditionalis nihil ponat inesse, in re nulla erit vera, 8e nulla falsa, sed qualibet disiunctiva erit aut necessaria AVT impossibilis, sive possibilis SIVE contingens. Et de æquipollentijs negatiavrum dicamus. Et  quamquam recentiores mula dica, mihi videur, e negatio praposita toti coditionali AVT nota conditionis, AVT consequenti, facit æquipollere copulative coltitut ex antecedente conditionalis et opposito consequentis verbi causa, si homo est animal eft. Siquis praponens negationem dixerit non si homo cit animal est. Hanc VULT SIGNIFICARE: homo est et non est animal. Similiter hac, non si dies est, sol lucet, æquipollet huie, et e dies est: et sol non lucet. Huius causa est, ga conditio non ponit inesse, copulatio vero ponit, quare cum particula negativa neget conditionem, ponit copulationem, et cum neget consequens, vi est vis omnis, ponet etiam oppositum consequentis. Simil ratione: “non vel mouetur vel quiescit,” æquipollet copulativa conslitutz ex oppositis ambarum cathegoricari, videlicer, et non mouetur, et e non quiescit. Causa vero quare negatio preposite disiunctiva facit æquipollere vel ponit copulationem, ele quia copulatio ponit inesse. Verum ponit contradictorium ambarum partium, quia in discontinua qualibet pars potesse consequens, ideo cuiuslibet partis oppositum debet ponere. In continua vero eit consequens determinatem ideo ponit solum oppositum consequentis. Hac de liypotheticis ad mentem grecorum expositorim volui dixille. Nam ab LIZIO pauca habemus. Sorticola vero, cum studiorum fuorum finis sit ostentatio, non esse, muita dicunt in confusione veritatis, que pretereun da funticum in illis non sit felicitas, neqad falicitaté  praparent De enuntiationibus vero coniun Ctis grure  gula funt in numerg, non cit núc prefens per tractatio, verum si ocium dabitur, ad importunitates forticola-  rumatg: captiunculatorum interdum occurremus: ac  quid peripatetice ficientiendun circa corum captine  culas et cauillos exponemus.  Nunc vero de his lit di  Ctum intantum. Agostino Nifo. Nifo. Keywords: ludica, ludicra, intellectus, animo intelligere, nous, intellectus passivus, intellectus activus, intellectus agens, intellectus possibilis, intellectus passibilis, what is so ludicrious about dialectis?– Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Nifo: la dialettica ludrica”, Grice, “Dreaming” – Malcolm, “Dreaming” --. – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nigidio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Friend of Cicerone. He enjoys a great reputation for learning. However, he is on the wrong side of the civil war between Pompeo and GIULIO (si veda) Cesare, and Cesare sends him into exile. He is particularly interested in Pythagoreanism and is a leading figure in its revival in Rome. He specialises in the mystical side of Pythagoreanism and is credited with occult powers. Publio Nigidio Figulo. Grice e Figulo – Roma – Filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Publio Nigidio Figulo e una personalità assai notevole. Senatore, pretore e ascoltatissimo consigliere di Cicerone nel momento critico della congiura di Catilina. Nella guerra civile, si schiera col partito di Pompeo e dopo la sconfitta di questo vive in esilio. Nella vita politica Occupa sempre posizioni secondarie. Ha fama notevole per l'ampiezza del suo sapere che lo fa ritenere il più dotto dei romani al pari di Varrone, che però lo superava per ampiezza di cultura. Cicerone afferma che fa risorgere le credenze della setta di Crotona come dottrina filosofica. Ma effettivamente era riapparso come Neo-Pitagorismo in Alessandria, tanto è vero che ad esso appartenne Bolos di Mendes, o Bolos Democrito. Quindi l’affermazione di Cicerone su lui si limita al mondo romano. Raccogge intorno à sè un circolo di 'croonesi' che permise ai suol nemici personali di parlare di una factio. Il suo sforzo di fondere l'insegnamento della setta di Crotona (nel quale vede la verità su filosofia, astronomia e scienze occulte -- con credenze, oltrechè romane, etrusche. Suscita l'accusa di infedeltà alla 'religione' o culto ufficiale dello stato romano. Sembra che coltiva l'astrologia e la magia e che predice al padre di Ottaviano che il figlio che allora gli era nato avrebbe dominato il mondo. Di lui si ricordano i seguenti scritti: "Commentarii grammatici," di almeno 29 libri; "De gestu" -- una monografia retorica."De dis" -- di cui è citato il 1. 199, è un tentativo di rappresentare tutto il pantheon romano. Precede un’opera simile di Varrone, che ne offusca il ricordoi si. Vi notano intuizioni stoiche. E dubbio l'influsso di Posidonio. Chiari invece e l'influsso etrusco e astrologici; "De extis," si diffonde sull'arte augurale etrusca."Augurium privatum" in almeno 2 libri. È dubbia l'attribuzione a lui di un libro Sulla interpretazione dei sogni.  Uno scritto "De ventis" comprendeva almeno 4 libri.  Si cita di lui il 4° libro di un'opera "De animalibus" e il 4° di un "De hominum natura". È probabile abbia composto un "De terris" che sembra fosse un’opera di geografia astrologica.  La "Sphaera" di lui e un saggio di astronomia e di astrologia che includede una Sphaera graecanica (descriziene delle costellazioni greco-romana) e anche una "sphaera barbarica," colla descrizione delle costellazione di altri popoli. Probabilmente conteneva predizioni astrologiche.  Le tendenze mistiche, religiose e superstiziose che dominano in lui dovevano conservarsi in tutto il Neo-Pitagorismo posteriore. Publio Nigidio Figulo. Figulo. Nigidio

 

Luigi Speranza -- Grice e Ninone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotona e la sua causa -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. One of the leaders of the anti-Pythagorean movement in Crotone. He claims that the Pythagoreans are elitist and anti-democratic. He also claims to have a knowledge of their secret teachings and published it in an essay. However, according to Giamblico, N. Knows nothing of what the sect teaches and his essay is ‘a work of pure invention.’

 

Luigi Speranza -- Grice e Nisio: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia molisena -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bojano). Filosofo italiano. Samnium, Bojano, Campobasso, Molise. A pupil of Panezio. Nisio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nizolio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Brescello -- filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescello).   Filosofo italiano. Brescello, Reggio Emilia, Emilia Romagna. Grice: “I read Nizolio and it’s like reading myself!” – Insegna a Brescia e Parma. Pubblica il lessico Observationes in M. Tullium CICERONE, Brescia, il Thesaurus CICERONE, Venezia, Facciolati, e il lexicon CICERONE, Venezia, Facciolati. Ha una lunga polemica con MAIORAGIO per una critica portata da quest'ultimo a CICERONE che, iniziata con la Epistola ad M. A. Majoragium, prosegue con l'antapologia e si conclude con i De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, Parma, scritto contro gli scholastici, che interessarono Leibniz al punto che questi li fa ristampare premettendogli il titolo Anti-barbarus Philosophicus, sive philosophia scholasticorum impugnata, con una prefazione ed una lettera a Thomasius sulla dottrina del LIZIO, Francofurti, Roma, Bocca. E chiamato da Gonzaga a Sabbioneta. Contemporaneamente alle critiche di Ramo alla logica dei lizii, anche per lui occorre sostituire all'astrattezza di quella logica un pensiero che sia concretamente legato al reale, e a questo scopo la strada maestra sta nel ritrovare i processi del pensiero direttamente nella struttura grammaticale dell’italiano. Individua cinque principi per fare della buona filosofia. Il primo principio generale della verità e della buona filosofia consiste nella conoscenza della lingua romana, in cui sono espressi quei saggi filosofici. Il secondo principio è la conoscenza di quei precetti che si trovano nella grammatica e nella retorica di CICERONE, sostituendo la grammatica e la retorica alla metafisica, ontologia, o filosofia speculativa, dal momento che il metafisico si e preoccupato solo di ricercare il vero, senza occuparsi dell’utile, il necessario, o il pertinente delle cose trattate. Il terzo principio consiste nell’interpretare il filosofo antico come CATONE IL CENSORE, o Cicerone, o Antonino, e nello sforzarsi di comprendere il modo con il quale il popolo romano si esprime, essendoci verità in quella schiettezza – Grice: ‘slightness” -- di linguaggio. Il quarto principio generale del vero è il libero, e la vera licenza delle opinioni e del giudizio su qualunque argomento, in contro ogni domma, come richiede il vero e il naturale. Non devono essere dunque CICERONE o ANTONINO  nostril maestri, ma i cinque sensi, l'intelligenza, il pensiero, la memoria, l'uso e l'esperienza delle cose.  Il quinto principio afferma che, oltre a esporre ogni tesi con la chiarezza della lingua comune – l’italiano volgare, senza introdurre nel discorso oscurità (avoid obscurity of expression, be perspicuous [sic], avoid unnecessary prolixity [sic] o sottigliezze, occorre non trattare problemi che non hanno realtà. Esempi di invenzioni filosofichi prive di oggettività sono la idea platonica e la tesi del reale dell’universalie. Infatti, il reale è costituito soltanto da singoli individui e questi devono essere indagati non attraverso la loro natura propria e privata, ma attraverso la loro comune e continua successione. Si fa filosofia non astraendo, ossia togliendo da una singola realtà quel quid che viene poi analizzato come se esso fosse reale, ma comprendendo, ossia considerando insieme il singolo reale. L'universale è una vana e finta astrazione che deriva invece dalla comprensione di ogni singolare di ogni genere, accolto insieme con un atto solo, senza astrazione intellettiva, ma con il solo ausilio di un'intelligenza che comprende il singolare. In sostanza, noi non possiamo distaccare, con un'operazione dell'intelletto, un universale da ogni singolare, ma semmai passare dall'individuale al collettivo. L'operazione consiste nel sostituire alla dialettica la retorica e alla logica la grammatica ma, pur mettendo in rilievo i difetti della logica classica, non riesce a fondare una nuova logica efficace e persuasiva. Saggi: Garin, Rossi, Vasoli, Testi umanistici su la retorica; Testi editi e inediti su retorica e dialettica di N., e Ramo, Milano, Bocca  N. in CICERONE observationes Caelii Secundi Curionis labore et industria secundo atque iterum locupletatae, perpolitae et restitutae. Ejusdem libellus, in quo vulgaria quaedam verba et parum Latina, ad purissimam CICERONE consuetudinem emendantur, ab eodem Caelio, s.c. limatus et auctus; Dizionario biografico degl’italiani. Ballestri, Massimiliano. Milano, Cosmo, Battistella, umanista e filosofo, Treviso, Zoppelli, Il rinnovamento scientifico moderno, Como, Meroni, Rossi,  La celebrazione della rettorica e la polemica anti-metafisica del De Principiis in La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Banfi, Milano, Bocca; Fink, Logica aristotelica Universale Idea. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Calogero, Dizionario di filosofia. Grice: “I was slightly disappointed when I got hold of Nizolio’s overadvertised masterpiece, the “Lexicon Ciceronianum;” while Urmson liked it, I found it more to be a common-or-garden dictionary. I did not care for philosophical concepts, seeing that he starts wih “A”, ‘the first letter of the alphabet,’ as N. defines it. So, I went straight to the third tome – heavy as they are, and reprinted in London for use at public schools –‘adolescens’ – to ROMA, ROMANVS, ROMVLVS. As for his advice as to deal with the longitudinal unity of philosophy and his rhetorical, ‘Plato is my friend but a better friend is truth,’ I can’t believe it coming from one who dedicated his life to TRACE every little ‘idiom’ (slogans as the London edition has it) uttered by Cicero! While I would expect praise against the barbarian scholastic from Roger Bacon, it sounds hypocritical coming from Leibniz. By N.’s standard, Leibniz was a barbarian his self. The scholastics actually saved the books from the flames of the Longobards and the Eastern Goths (earlier on) Roma, Contr. RuJ. Romain montibus posita, et convalUbus, ccenacolis sublata atque suspensa. de Div. Certahant, Urbem  Romam  Uemamne  vocdrent, Post  led. in  Sen. Roma arx omnium terrarum. De Pet Cons. Roma civitas CK nationnm conventu constituta. de Onu. Roma domus virtutis, imperii et dgnitatis. Roma domid Uum imperii et gloris. Roma luxorbisterraruhi, et arx onuuum gentium. Div. Bmoul sexennioj post Veios captos a GaUis capta. Rome et reges augnres, et postea privati eodem sacerdotio prsediti, lem pub. Regionum autoritate rexemnt. Qu. Fr. Roma, ubi tanta arrogantia est, tam immoderate libertas, tam infinita hominum centia. Redu Romam Fonteu cansa. Idns Qu. de Nat. Roma in terries nihU meUns. Inoer. Romam conditam 01 vmpiadis sestss anno tertio. Romani. Pro Leg.Man. Romani præter ctiteras gentes laudis et gloriæ avidi. Romani cives facti siculi lege Antoni L. Fara. Romani veteres atque urbau sales. Tus. Romani serius quam GffKci poeticam acceperant Di.  Romaia nihU in bello sineextis agebant nihU d<»B& sine auspiciis. Off. Romani toscoianos, equos, volscos, sabinos, Hemicos, victoria parta non modo conservarunt, sed etiaro in ciritatem acceperant Pro Mur. Romani tempora voluptatis laborisque dispelrtiunt, etc. Tus. Romani omnia aut invenerant per se sapientius, quam Greciaut accepta ab illis fcicerant meliora. Div. Romani omnibut rebus agendis, quod bonnm, faustum, felix, fortunamque esset prefabantur. Pro Cnc. Romani eos vendere solebant, qui mUites facti non essent de Ora. Romani minos qoam liitm Utteris studebant Pro Leg. Man. Romani omnibus navalibus puffuis Carthagienses vicerant Aoad. Romanorum antiqua juris jurandi formulaet consuetudo. de Or. Romanoram ingenia raultnm csBteris liomiaibos omnium gentium prsstiterunt Snavitassemkonis Atticoram et Romanomm propiia. Tosc. Apod priscos Romanos morem honc epolaram fiijsseantor est Cato in Originibus, ut deincepi, qui aocobaient, canerent ad tibiam virorom daroram Uodes atqoe virtutes Romanos, a, uro. de Nat Romana  RO JaiioteIbBoa«t, <f«aUs8oif2li« $.S.Fo paU RoaiaBi ovnk religio in ftcrt etin anspida diyia. Popalnm Boaunun nan DJ saasnon Sn defendenda ropnb.sed Sn pUndendo cooso Bieie. Bum non nodo Romano bomini, sed ne Perse qwden coiqaam tolerabile. Fam. Bomaoo nsoae oommendare. Romano more feqni. de Orat et Ver. Romani ladL Att. Nu Bc Romanas res aedpe. Romilla, iribus. t. cont Ral. Respondit, Romilla tribo se initiam esse £se-tnram. I, Tribos. Romalos, li, Qutnntti. Romalam qu banc aibem condidit, ad deos immortales benerolentia famaqae sastulimas. de L.Roawhis post exoessum suum dixit Proculo Jolio, se deom esse, et Qaoinum vocartem plumaae sibi dedicari ia eo loco jussit Romuhis quem iaauratum m Capitolio pamun ac lacttntem, uberibos lopiais inhiantem fuisse meministis. OfF. Peccavit igitar, paoe vel Qoirini toI Bomali  du Eerim. de D. Romuhis  puldier. Ih, Romulus urbm auspicato oodidit Roamlus non solom aospieato Romam condidit, sed etiam optimos augur feit de N. Romnlos auspicBs, Numa sacris constitatb, fandamenta jeeit ostiSB dTitatii. Off. Romulus, cum ci visom csset utilios solum, quam cum altero regnarefiratrem interemit De Or. Roma Jns consitto magis et sapientfaqaam doqueotia usns est S. Div. Romolas et Remus com altrice bdhui vi folminis idi oooddeiant Romulis et Remus ambo augures fberant Roorali  stataa  decoelo taeta. Som. Ronmlo moriente deficere sd  bommibas  eatingaiqao visus est. Summatim quanam fine principia generalia veritatis investigande, recteque philosophandi. Item in summa quanasmint princigpeianeralia pseudo-philosophorum et perverse philosophandi. De generali omnium nominum divisione in substantiva, adjectiva propria appellativa, deq; eorum proprietatibus et differentia, nginguam facisusque inbuncdicmab ullo traditisaut cognitis, contra pseudophilosophos. De nominibus propriis et appellativis, tam cole&li vis quam simplicibus non cola Letivis, ac decorum proprietatibus et diferentis, contra philosophastros. s. Deus) 0 (sem (falsis. De denominativis reliquis capitibus Ante predicamentora, vel supervalaneis vel. Universalia realia etiam five raese concedantur, tamen non fuisse facienda quin. Que numeross ed velunumtantum, hoc est, GENUS, vel plura quam quinque hoc est, septem veloflo, adiecto communi, simils, contrario, arque substantia. De nominibus substantivis et adiectivis. De eorum proprietatibus ac diferentis, contra pseudo-philosophos. De generaliomnium rerum divisione oratoria pera et deila pseudo-philosophorum falsa, simul quede voce universi anni versalis et in summa de falsirate universaslium realium ut vocant. Universalia realia nec propter scientias artes quetradendas, nec propter syllogismos eocateras argumentations formandas, nec propler predications superiorum de inferioribus faciendas necessario ese ponenda contra pseudo-philosophos. Universalia realta vere in rerum naturaese non posse. Co propter canone c, uirea Etiffime dicunt nominales. Cintra sultam illam realium opinionem de universalibus realibus, quorum rationes omnes plusquam in aneslabefaltaneur. Um suffi.ientia, quam vocant. De toris, et corum divisionibus, compositionibus quepere, contra falsissimam dialecticorum de his omnibus doctrinam. De vere philosophico e oratorio genere et de vera eius definitione. Contra falsum genus dialecticum et falsam cius definitionem. De vera specie oratoria et vera ejus definitione, contra falsam speciem dialecticam et falsam illius definitionem. De vera diferentia et vero proprio philosophicis oratoriis do simulde eisdem adversariorum vel falfsis vel inutilibus. De accidente vero quid esmedin constanter definite et simul pauca quadam de falsis universalibus, eorum vanis questionibus in universum. De preceptis dividendi et definiendi oratoriis veris et dialecticis falis. De homonymis et synonymis grammaticorum veris quid vere sint et quis verus eoru mufus, contra stultaila aquivocado analoga dialecticorum. Ele tantum modo unum et summum et verum á generalisimum genus oralo rium, quod est, genus rerum sex autem s a transcendentia Dialecticorum, decem pre dilamenia LIZIO et tria VALLA (si veda) falsa. Quam ob levem causam LIZIO CATEGORIAS fore predicamenta decem ponenda existima verii et quam non re et tetria tantum Vallusta rucrit, simul quo pacto nosar borem generica ma Porphyri analonge diversam, faciendam arbitramur. GENUS rerum vere in duas rantum species divide in substantias et qualitates, omnia alia accidentium dialecticorum pradicamenta sub qualitate generalitan quamo verascius specie spere contineri. Simul de falsa universali. De o sem. De qualitate generali et omnibus e iustam comparata quam absoluta speciebus, praferrimquede qualitate speciali, quantum different a speciebus accidentium dialectic corum et singularim quærario de causa diversitatis. De nominibus scientia arris quid APUD LATINOS communite rad proprie significe ne, u quormo dis virum que corum accipiatur et denique; quibus differentis attes elit entia mnter sed iftinguantur, contra falsas scientias et artes pseudo-philosophorum, (falla. De generali scientiarum do atrium divisione nostrar era, et pseudo-philosophorum. De errales LIZIO in generali philosophia divisione admflis. Dialectica minter scientias ariesnecut universalem nec ut particularem ul lum omni nolo cum habere pose sed tanquam non modo falsams ed etiam in utslem de sua pervacuam ex omni arti nm do scientiarum numero ejiciendam. Metaphysicam inter scientias Cartesnecut universalem nec ut parricularem ul lumomn inolo, um habere pose, sed tanquam partim falsam, parlim inutlim, partim super vacuam ab omni artium scientiarum numero removendam. De comprehensione universo rufm singularium vere philosophica de oratoria et simul de abstractınoe universalium pseudo-philodophia et BARBARA contrafallam LIZIO doctrinam falso de ceniis, abstrahentiam non efemendacsum. Oratoriam esse facultatem vere generalem, grammaticam sub se primo, deinde reliqua somnesarl es screntias vere continentem, ium partese jus majores breviter ex ponuntur omnes, o cidem, qua a pseudo-philosophis unique fuerunt ablatare stituuntur. De sophisticis elenchis ab LIZIO in rhetoricam non recte introductis et delio bro sophisticorum elenchorum quid senciendum, Que et quot fintea, quarequiruntur cascientise artibus, ex quibu spendetac fitomnis eorum dividio definition o distinctio, contra falfam de eisdem rebus Pseudo-philosophorum doctrinam. De utilibus et veris argumentis de que utili vero eorum iam tradendorum, quam usurpandorum modo, conira partim sulum purtom inutilem ipsorum doctrinam ab LIZIO traduam in libro Topicorum. De definitionibus nominis et verbido orarionis grammaticorum veris. Pseudo-philosophorum falsis, condealis, queab LIZIO falso vel inutiliter in libro Sepienpenveids traduntur. Dentilibus et veris argumeniationibus, de queutilido vero carum usu, contrainu tolemdo vana LIZIO decudem rebus doctrinam traditam in libris analyticorum. De falsa demonstratione et falsa scientia et falsa sapientia pseudo-philosophorum simul de inutili falsoque posteriorum analyticorum libro. De vanitate eorum, qua a recentioribus dialedicis appellantur parva logicalia. Libros qus hodie sub LIZIO nomine leguntur plerosque non vere essesri Roselicos, sed subdititios con adulterinos, contra communem pseudo-philosophorum opinionem. De ACCADEMIA, LIZIO, Galeno, Porfirio. Deomnibus LIZIO interpretibus Græcis et LATINIS: reviter quid sentiendum rectte philosophaturis. De ratione philosophandi o de corrigendis instaurandisque; Philosophia studis, qua nunc maxima exparte perveriæ corruptsaunt. N. stammt aus Brescello in Reggio d’Emilia. Als Geburtsjahrà wird allgemein und als Todesjahr angegeben. Indes ist diese Berechnung nach der Untersuchung Batistellas auf Grund inschriftlicher Argumentation um ein Dezennium zu spät angesetzt. Demzufolge lebte N. Ueber seine ersten Lebensjahre und Studien ist nichts bekannt. Finden wir ihn am Hofe des Grafen Gambarra, eines eifrigen Beschützers und Pflegers der Wissenschaften. Ihm widmete auch N. seine erste, abgefasste Schrift, die Observationes in CICERONE. Nachdem er eine lange Zeit als Hauslehrer  in der gräflichen Familie tätig gewesen,  kam er als professor in Parma. Wurde er, bereits, als Leiter an die von dem Herzog Vespasiano Gonzaga neuerrichtete Universität zu Sabbioneta berufen. N. war damals ein weithin berühmter Gelehrter: un vecchio consumato negli studi dell’eloquenza e della filosofia, chiaro per molte opere, vittorioso nelle concertazioni letterarie e per lungo usu di leggere sulle cattedre delle città più cospicue praticissimo, di cui la memoria nei fasti dell’italica letteratura, non perirà giammai. Altersschwäche und ein sich immer mehr verschlimmerndes Augenleiden hemmten den Greis gewaltig in dem schweren Berufe, den er auf sich geladen hatte. Schon ereilte ihn der Tod, ob zu  Sabbioneta, oder in seiner Heimat Brescello, lässt sich nicht bestimmen. Vergl. Jöcher, Gelehrtenlexicon sub N. Suppl.,  der sehr ungenau ist. Ausführl. biographische Notizen bringt Batistella: N. Batist. Bat.  Bat. Die Tätigkeit des N. erstreckte sich zunächst nur auf das Gebiet der klassischen Sprachen. Er beschäftigte sich mit der Interpretation  griechischer und lateinischer Autoren, vor allem des CICERONE. Mit rastlosem Fleiss verband er einen kritischen und vor allem natürlichen Sinn. Aus dem letzterem Umstand erklärt sich auch wohl der realistische Standpunkt, den er in philosophischer Hinsicht verfocht. Zu eigentlich philosophischen Spekulationen kam N. erst spät und zwar durch einen mehr äusseren Umstand. Während seines Aufenhaltes zu Parma geriet er in einenheftigen Streit mit MAJORAGIO (si veda), professor der Eloquenz in Mailand. Es handelte sich in der Hauptsache um zwei Fragen: Lateinischer Stil und Philosophie, CICERONE und il LIZIO. Majoragio war wie N.  ein grosser Verehrer CICERONE, jedoch zog er der eklektischen Philosophie desselben die reine Lehre des LIZIO vor und vertrat die Ansicht, dass man die Philosophie CICERONE  mit der des LIZIO  in Einklang bringen  könne. N. dagegen strebte dahin,  den LIZIO  für immer zu verbannen, indem er mit Ueberzeugung den Standpunkt von der falschen und unnützlichen Doktrin LIZIO vertrat. Diesem Streit, der auf beiden Seitem unerbittlich und unwürdig geführt wurde, machte schliesslich der Tod MAJORAGIO ein Ende. Bat. Le opere ei giudizi dei eritici. Bat. Bat. La polemica con MAJORAGIO vergl. femer Gerh. Phil. und N. in seiner Vorrede zum anti-barbarus, ad Lectores contra MAJORAGIO. Bat. Bat N. soll in Jahren nicht recht haben schlafen können!  (Jöcher  a.  a,  0.) non solum calamo et chartis venenatisimis, sed etiam putrido et fœtenti illo ore suo contra vitam et mores nostros usque in hunc diem deblateravit et deblaterat, N. ad lectores in De veris  principiis, ipse MAJORAGIO  qui licet, de magnis et obscuris philosophiæ rebus loqui conetur,  tarnen vere est acocfoc, et tantum seit de philosophia quantum asinus de musica, Vorrede. MAJORAGIO hatte auf die Angriffe des N. eine apologia erscheinen lassen, die N. mit einer anti-apologia erwiderte. Es folgte nun seitens MAJORAGIO reprehensionum  libri contra N.,  worauf  N.  mit seinem anti-barbarus philosophicus antwortete. Seine AngriflFe fasste N. dann noch einmal zusammen in seiner Schrift:  De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos In der Hauptsache war N. mehr gelehrter Humanist als philosophischer Denker oder Kenner der älteren Philosophie. Sein Eifer für die Beförderung der klassischen  Latinität veranlasste ihn zur Abfassung einer Reihe von Werken, die uns ein Bild geben von seiner bewunderungewürdigen Arbeitskraft. Nur die wichtigsten seien genannt. Als sein Hauptwerk ist wohl anzusehen ein Thesaurus sive latinæ linguæ Lexicon, das, wie auch die meisten der anderen Werke, zahlreiche Neuauflagen erlebte. Das genannte Werk war bereits unter dem Titel Observationes in CICERONE,  dann als Apparatus latinæ locutionis und endlich als Thesaurus CICERONE  in Venedig, und erweitert von Zanchi gedruckt wonien, erschien es zu Frankfurt und zu Padua mit beigedruckten CICERONE  Phrasen, die nicht von N. stammen. Ausserdem verfasste er die bereits erwähnte antiapologia pro CICERONE et Oratoribus contra MAJORAGIO Ciceromastigen, ferner Defensiones locorum aliquot CICERONE contra disquisitione Calcagnini,Venedig, und übersetzte aus dem Griechischen ins Lateinische Galeni explanatio obsoletarum vocum Hippocratis. Fällt  die Herausgabe des Werkes, welches das vollständige philosophische System des N. enthält und mit vollem Titel lautet: De veris principiis et vera ratione philosophandi contra pseudo-philosophos, in quibus statuuntur ferme omnia vera verarum ar- Bat. Bat. tium et scientiarura principia, refutatis et rejectis prope Omnibus Dialecticorum et Metaphysicorura principiis falsis, et præterea refutantur fere omnes MAJORAGIO objectationes contra eundem N. usque in hanc diem editæ. Parma apud Viottum, Schon die Titel der Werke beweisen, dass die Tätigkeit des N.  eine mehr philologische als philosophische gewesen ist. In der ersteren Eigenschaft hat er daher auch stets warme Anerkennung gefunden.  Cælius Secundus, ein späterer Herausgeber seiner Observationes, nennt ihn im proœmium einen gelehrten Mann, der sich unstreitiges Verdienst um die lateinische Sprache erworben. N.  quasi Deus aliquis linguæ latinæ tanquam universitatem quandam fabricatus est, quam postea hominibus non solum ntendam, verum etiam excolendam tradidit Aehnlich äussert sich Simon Grynacus in der Vorrede zum Thesaurus CICERONE des N. Videtur hie vir in hoc uuo opere, postquam delectum latinæ dictionis, ne promiscue hauriremus, puritatemve linguæ confunderemus, optimum egit, simul et viam loquendi certam post hac et expeditam monstrasse et vim ac copiam sermonis Latii totius omnem effudisse et CICERONE libros nunc deum legendos omnibus exhibuisse. Einer seiner Verehrer H. Fröhlich besingt das Lob des italienischen Humanisten begeistert in dem Ruhmespoem N. quem thesaurum congessit in unum, ex latiæ linguæ fönte, labore gravi: Tro)anas longe gazas superare memento, jjFortunas Crassi, divitiasque Midæ. Für die Philosophie ist N. hauptsächlich von Bedeutung, weil er der einzige Grammatiker ist, der Schule gemacht hat in der Philosophie und ferner als erster unter den filosofi razionali in Italien ausführhch gehandelt hat Ton  der Dottrina metodica. Um indes den Philosophen N. ganz nach Verdienst würdigen zu können, muss man die Zeit, in der er lebte, in Rechnung ziehen. G.  Bat. Daselbst auch die übrigen kleineren Schriften. Siehe Bat Die Renaissance ist in philosophischer Hinsicht charakterisiert durch die grosse Armut selbständiger philosophischer Spekulation und durch vorläufiges Fortwuchern der scholastischen Philosophie. Daneben kommen als positive Momente einerseits die Erneuerung antiker Systeme, vor allem ein von den humanistischen Philologen in engster Anlehnung an CICERONE gezüchteter Eklekticismus, andererseits eine mit der letzten Erscheinung eng zusammenhängende rhetorische Behandlung der Philosophie, speziell der Logik in Betracht. Die neologischen Humanisten mussten den Schriften CICERONE  wegen der Schönheit ihrer sprachlichen Form gegenüber dem entstellten und verwilderten LIZIO der spätscholastischen Philosophie mit ihrer dunklen und vielfach sinnlosen Diktion den Vorzug geben. Daher sehen wir alle Philosophen der Renaissance in dem Streben, durch Beseitigung der sinnlosen Auswüchse den reinen und ursprünglichen LIZIO für den literarischen Betrieb der Logik wiederherzustellen und schliesslich die logische Disziplin zu einer rhetorischen umzugestalten, einig gehen. Galt der Scholastik LIZIO derp hilosophus xat' l^o-/'»]v, als Norm in jeder strittigen Sache, so bekämpfen die Humanisten, wie jeden Autoritätsglauben,vor  allem die Ausschliesslichkeit, mit welcher man überhaupt nur  dem LIZIO,  den man noch dazu in entstellter Form in Händen habe, Wert beilege.  Als Massstab  und  Norm will man vielmehr den eigenen gesunden Menschen-verstand und die fünf Sinne gelten lassen. Und in diesem Gesichtspunkte haben wir die Brücke zu der sensualistisch-nominalistischen Tendenz, die gleichfalls mehr oder weniger die Philosophen der Renaissance insgesamt beherrscht. Neben dem Italiener N. kommen hier als bedeutende Vertreter der Renaissance-Philosophie in Betracht der Römer VALLA (si veda), und Agricola. N.  bringt die Bestrebungen seiner Vorgänger zu einem gewissen systematischen Abschluss, sich grösstenteils an sie anschliessend, vielfach dieselben aber auch kritisierend. Von seinen Werken mass er selbst dem anti-barbarus Philosophicus die Hauptbedeutung zu, da er in ihm eine Reformatio Philosophiæ bewirkt zu haben meinte. Aber dennoch erntete er gerade durch seinen Index CICERONE seine Berühmtheit, während seine Philosophie schon beim Entstehen kaum dem Ersticken entging. Philosophia  N.  prope in ipso partu suffocationem aegre  effugit. Das Geschick des in tenui labor, at tenuis non gloria bei  N. begründet Leibniz durch den Umstand, dass N.   in  Italien  schrieb,  wo damals LIZIO und die Scholastiker in allzu tyrannischer Weise herrschten. Leibniz ist der Ansicht, dass nunmehr seine Zeit, wo man wenigstens zugebe, dass auch ein LIZIO irren könne, auch den Verdiensten eines N. gerecht werden könne. Welche  Wertschätzung  Leibniz  selbst  dem  italienischen  Philosophen  entgegenbrachte,  beweisen  ausser  der von ihm besorgten zweimaligen Herausgabe des anti-barbarus die zahlreichen Anmerkungen, dieer in den Text hineinsetzte, sowie die Abhandlungen, die er im Anschluss an die Edition des N.  Werkes  erscheinen  liess. Unter ihnen ist die ausführlichste und wichtigste die sogenannte Dissertation über den philosophischen Stil, Dissertatio  Præliminaris de alienorum operum editione, de philosophica dictione, de lapsibus N.,  wie Leibniz sie betitelt. Er schickte dieselbe nebst einer Widmung an den Baron von Boineburg, ausserdem einen Brief an Thomasius über die Versöhnung des LIZIO mit der neuen Philosophie De LIZIO recentioribus reconciliabili, sowie Exzerpte aus Briefen des Thomasius ad Editorem, Leibniz, der eigentlichen Abhandlung des N. voraus. G. Q. vel hoc saltem in confesso est, LIZIO errare posse. Renhissanoe and Philosophie. Leibniz'  üebereinstiramung  mit N. Die  philosophische Diktion. Gerade die Schrift des N. musste Leibniz besonders anziehen; war doch desselben Massstab in der Beurteilung und Behandlung fremder Autoren derjenigen unseres Leibniz so durchaus ähnlich. Auch N.  knüpfte an die  Scholastik, die Alten, vor  allem  LIZIO, an, übernahm das viele Gute, das sich bei ihnen fand und besserte und reinigte, wo es ihm gut und notwendig schien. In dieser Behandlungsweise fremder Autoren sieht Leibniz ein Hauptverdienst des N.; er hält ihn daher den Philosophen seiner Zeit entgegen, die nur darauf bedacht seien,  sich ausschliesslich mit ihren eigenen Gedanken-erfindungen zu befassen. Ein gleiches Mass von Uebereinstimmung mit N. bekundet Leibniz in der Beurteilung oder vielmehr Verurteilung der Scholastik. Mit Recht musste seiner Ansicht nach N. nach dem Studium des stofflich vielseitigen und stilistisch glänzenden CICERONE die scholastische Behandlungsweise, die mit ihren Finsternissen und ihrem geringen Gehalt an Nützlichem irgendwelcher Art jeglicher elegantia entbehrte, verachten. Zwar sucht Leibniz, die Scholastiker in Schutz nehmend, ihre Fehler und Schwächen zu entschuldigen mit den damaligen ungünstigen Zeitverhältnissen. Welchen Wert er aber im Innersten seines Herzens der Scholastik beimisst, beweisen die zornigen Vorwürfe, die er denen macht, die noch jetzt, nachdem die Früchte gefunden, lieber die Eicheln essenwoll en und mehr sich versündigen durch ihren Eigensinn als durch Unwissenheit. Ihnen Gerh. Ritter G. vgl. auch G. hält er entgegen den unvergleichlichen Verulamius und die übrigen ausgezeichneten Männer unter den Neueren,  die die Philosophie ex æreis divagationibus aut etiam spatio imaginario ad terram hanc nostram et usum vitae revocaverunt. Im Zeitalter der Erneuerung der Wissenschaften,  so behauptet  Leibniz, hat es viele Gelehrte gegeben,  die gegen die barbarische Diktion der Vulgärphilosophen zu Felde zogen, aber es war bei ihnen mehr ein Carpere als ein Emendare. Die einen jammerten, andere mahnten und gaben Ratschläge, wieder andere donnerten gegendie scholastischen Philosophen und nannten sich im Gegensatz zu ihnen Reales, aber sie unterliessen es, die Sache selbst in die Hand zu nehmen. Da sei es nun N. gewesen, der mit Eifer und Fleiss und, wenn man ihn läse, mit solcher efficacia wie kein anderer Schriftsteller sich wirklich damit befasst habe, den Boden der Philosophie von jenen spinæ verborum von Grund aus zu säubern. Er verdiene es daher als exemplum dictionis philosophicæ reformatæ und zwar, soweit es für die Logik, das vestibulum philosophiæ, gelte, angesehen zu werden. Leibniz knüpfthieran den Wunsch, dass in seiner an Talenten so reichen Zeit sich Männer finden möchten,  das Werk  des  N. für  die  übrigen Teile der Philosophie fortzusetzen. Er selbst würde,  wie er hinzufügt, sich dieser Aufgabe unterziehen, wenn er sich nicht teils durch andere Studien daran verhindert sähe, teils aber fürchten müsse, anderen, die dieselbe Sache besser leisten möchten, vorzugreifen. Diese Einwendungen halten ihn jedoch nicht ab, auf die N. Erörterungen wenigstens im allgemeinen einzugehen und ihnen Neues hinzuzufügen. Rühmend hebt G. Ueber das Verhältnis Leibnizens zur Scholastik siehe: Jasper, Leibniz und die Scholastik, Leipzig, ferner Rintelen Leibnizens Beziehungren zur Scholastik, München, besonders G. Leibniz hervor, wie N. überall nicht nur fordere, sondern auch selbst in Anwendung bringe eine dicendi ratio naturalis et propria, simplex et perspicua, et ab omni detorsione et fuco libera, et facilis et popularis et e media sumta, et congrua rebus, et luce sua juvans potius memoriam quam Judicium inani acumine confundens. N. stellt fünf allgemeine Prinzipien des rechten Philosophierens auf, die aber, wie Leibniz bemerkt, mehr auf  die Rede als auf das Denken Bezug nehmen. Als erste Bedingung fordert er die Kenntnis des Griechischenund des Lateinischen, als zweites das Vertrautsein mit den Vorschriften und Lehren, die sich bei den Grammatikern und Rhetoren finden,  ferner drittens eine umfassende und andauernde Lektüre der besten griechischen und lateinischen Autoren und die Kenntnis des allgemeinen Sprachgebrauchs  sowohl, soweit es die obigen betriflft, als auch des Volkes,  das nach Horaz die Gewalt und Bestimmung hat  über die Norm der Redeweise. Ein viertes Prinzip ist die Freiheit und wahre Willkür im Denken und Urteilen über alle Dinge. Jeder, der richtig philosophieren will, darf keiner bestimmten philosophischen Sekte anhängen, sondern  soll vielmehr seinen eigenen fünf Sinnen, seiner Intelligenz und der Erfahrung als seinen alleinigen Lehrern undAutoritäten folgen. Endlich fordert  N. als letzte und fünfte Bedingung, dass man nicht abweiche von der gewöhnlichen und bei allen  G.  N.  C.  Siehe  auch N. nemini fas est, ut Græci dieunt, ovofAaxoTto-.sIv, hoc est, nova nomina tingere, nisi populo Atque ideo dialectici non recte faciunt sed maximum committunt vitium, qui primum impudenter et barbare nominant res a se non inventas et ab aliis ante nominatas, ut exempli gratia, quæ grammatici et oratores jam inde a principio vocaverunt nomina, verba, adjectiva, substantiva, supposita, apposita, propositiones, assumptiones et plurima alia huiusmodi, ipsi prætermissis et rejectis penitus nominibus antiquis et rectis. appellant terminos, copulas, concreta, abstracta, subjecta, prædicata, maiores, minores et alia id genus sexcenta. Gelehrten üblichen Redeweise, nicht za kurz oder dunkel schreibe oder lese, keine quæstiones inconsistentes, nichts Paradoxes oder Ungebräuchliches oder Neues in die Philosophie einführe, falls letzteres nicht unbedingt nötig ist. Besonderen Nachdruck legt N. darauf,  dass ja nicht die mos scribendi et loquendi a populi ac vulgarium lo-  [N. allem den dialektischen, und metaphysischen und wo immer er handele von seinen mehr als monströsen genera, species, secundæ substantiæ, universalia realia, abstractio, demonstratio u. s. w., verdiene er den höchsten Tadel. In summa behauptet er von LIZIO: ubi bene dicit nihil melius, ubi male nihil peius posse excogitari) Auch diese Ansicht des N. teilt  Leibniz  durchaus nicht. Er behauptet im Gegenteil, dass er fest überzeugt sei von der genuitas operum LIZIO, was auch sagen mögen N., PICO (si veda), Petrus, Ramus u. a. Die Gründe, die N. angibt, sind ihm nicht durchschlagend. CICERONE,  auf  den  sich  Nizolius  in  erster  Linie  als  Gewährsmann  stütze,  könne  nicht  als  solcher  gelten. Denn es sei nichverwunderlich, dass ein Mann wie CICERONE als Politiker und Vielbeschäftigter -- infinitis  curis  obrutus -- die Gedanken gerade der feinsinnigsten Philosophen (subtilissimi cuiusdam Philosophi) flüchtig gelesen und daher nicht genügend verstanden habe CICERONE  (hie) duo dicit, primum communem esse sententiam quod sint LIZIO, deinde non negat esse LIZIO,  sed saltem conicit,  posse fortasse esse filii. Hæc vero a possibili coniectura communi illorum quoque temporum sententiae nihil præjudicare debet. Ihm, Leibniz, selbst ist die Echtheit der Schriften LIZIO  vollständig verbürgt durch jene perfecta  hypothesium inter se Harmonia et aequalis ubique methodus velocissiraæ subtilitatis. In seinem Briefe an Thomasius') De LIZIO recentioribus  reconciliabili schreibt  Leibniz: Quæ LIZIO de materia, forma, privatione, natura, loco infinito tempore, motu, ratiocinatur, pleraque certa et demonstrata sunt,  hoc uno fere demto, quæ de impossibilitate vacui et motus in vacuo  asserit. De cetero reliqua pleraque LIZIO Disputata nemo fere sanus in dubium vocabit. N. Adnotatio. Q. Nizzoli. Mario Alberto Nizolio. Nizolio. Keywords: Cicerone, lexicon ciceronianus, Antonino, Leibniz’s ‘anti-barbaro’. – Refs.: Luigi Speranza: Grice e Nizolio: il thesaurus ciceronianus” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Noce: l’implicatura conversazionale – la scuola di Pistoia -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo toscano. Filosofo italiano. Pistoia, Toscana. Grice: “Only in Italy, philosophy and history are so connected; it would be as if we at Oxford after the war would be only concerned with understanding Churchill!” Grice: “For us, to do linguistic philosophy was to get away from post-tramautic stress disorder acquired during what Winthrop stupidly called the ‘phoney’ war!” – Grice: “It’s not difficult to understand why Noce’s notes on Gentile were only published posthumously!” -- essential Italian philosopher. «Certo i cattolici hanno un vizio maledetto: pensare alla forza della modernità e ignorare come questa modernità, nei limiti in cui pensa di voler negare la trascendenza religiosa, attraversi oggi la sua massima crisi, riconosciuta anche da certi scrittori laici.»  (Risposte alla scristianità, da Il Sabato). Ttitolare della cattedra di "Storia delle dottrine politiche" all'Università La Sapienza di Roma.  Studioso del razionalismo cartesiano e del pensiero moderno (Hegel, Marx), analizzò le radici filosofiche e teologiche della crisi della modernità, ricostruendo con cura le contraddizioni interne dell'immanentismo.  Argomentò l'incompatibilità tra marxismo, umanesimo, ed altri sistemi di pensiero che propugnavano la liberazione secolare dell'uomo e la dottrina cristiana (affermò: "solo il Redentore può emancipare"). Sostenne tenacemente, per tali motivi, l'impossibilità del dialogo tra cattolici e comunisti e previde il "suicidio della rivoluzione". Studioso del fascismo, sostenne che tale ideologia fosse peraltro in continuità con il comunismo e fosse anch'esso un momento della secolarizzazione della modernità. Sostenne, inoltre, l'esistenza di molti punti di contatto tra il fascismo e il pensiero dei sessantottini.  Filosofo della politica, preconizzò la crisi del socialismo reale, mentre esso viveva la sua massima espansione a livello mondiale. Argomentò che tale sistema, da una parte applicava coerentemente la filosofia di Marx, ma dall'altra negava le premesse del marxismo: ciò in quantomostrava N. lo stesso sistema di Marx si basava sulla contraddizione tra dialettica e materialismo storico. Ribadiva infine la necessità dei valori di verità e di moralità.  Figlio di un ufficiale dell'esercito e di Rosalia Pratis, savonese discendente di una famiglia nobile savoiarda. L'anno dopo la madre si trasferisce con il figlio a Savona e, allo scoppio della guerra mondiale, a Torino, presso una zia materna. A Torino, Augusto svolge tutta la sua carriera di studi: dapprima al noto liceo D'Azeglio, frequentato da alcuni dei futuri protagonisti della vita politica e culturale della città e della nazione (Bobbio, Mila, Pajetta, Pavese, Balbo e altri), poi all'Università degli Studi di Torino, Facoltà di Lettere e Filosofia, allievo di Faggi, Juvalta e Mazzantini con il quale si laurea con una tesi su Malebranche. Inizia quindi a insegnare presso istituti superiori (Novi Ligure, Assisi, Mondovì), mentre sviluppa la sua attività di studio anche con soggiorni all'estero. Legge con entusiasmo Umanesimo integrale di Jacques Maritain, che rafforza in lui, tra l'altro, una sempre più convinta opposizione al fascismo. Cerca invano di farsi trasferire a Torino e di accedere qui alla carriera universitaria. Si trasferisce a Roma per un distacco propostogli dall'amico Castelli. A Roma frequenta Franco Rodano che, con Felice Balbo e altri, anima l'esperienza di «Sinistra Cristiana», un tentativo di conciliazione di comunismo e Cristianesimo da quale Del Noce resta per breve tempo affascinato. Viene accolta la sua richiesta di trasferimento presso un istituto superiore di Torino, dove torna a risiedere. Accompagna all'insegnamento un'intensa attività di studio e di collaborazione a diversi periodici, tra cui Cronache Sociali che gli dà occasione di incontrare Dossetti.  Scrive e pubblica il saggio La non filosofia di Marx, che ripubblicherà vent'anni dopo nella sua opera maggiore (Il problema dell'ateismo) e nel quale fissa i termini complessivi della sua interpretazione del marxismo. Nello stesso anno cura l'edizione italiana di Concupiscentia irresistibilis di Šestov. Inizia la collaborazione alla Enciclopedia filosofica del Centro Studi Filosofici di Gallarate, diretta da Luigi Pareyson. Distaccato a Bologna presso il centro di documentazione diretto da Giuseppe Dossetti. Nel capoluogo emiliano frequenta Matteucci e collabora stabilmente al neonato periodico «Il Mulino». Scrive su Ordine Civile, rivista animata da Bozzo, e altri alcuni saggi, uno dei quali, «Idee per l'interpretazione del fascismo», sarà all'origine delle future revisioni storiografiche di Felice e Nolte. Partecipa al convegno organizzato dalla Democrazia Cristiana a Santa Margherita Ligure con una relazione intitolata L'incidenza della cultura sulla politica nella presente situazione italiana: sugli stessi temi N. intratterrà per anni un rapporto difficile con il partito cattolico (altri interventi nei convegni di San Pellegrino e di Lucca. Partecipa a un concorso a cattedra a Trieste, ma non ottiene il posto. Pubblica Il problema dell'ateismo e l'anno successivo Riforma cattolica e filosofia moderna, Cartesio. Partecipa alla «Giornata rensiana» con una relazione intitolata Giuseppe Rensi fra Leopardi e Pascal. Ovvero l'autocritica dell'ateismo negativo in Rensi, nella quale espone la sua fondamentale fenomenologia del pessimismo come pensiero religioso. Nello stesso anno vince il concorso per una cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea a Trieste, dove divenne Professore. In quell'anno esce L'epoca della secolarizzazione, che raccoglie molti dei saggi e degli interventi degli anni sessanta. Si realizza il tanto atteso trasferimento a Roma, dove, all'Università "La Sapienza", insegna prima Storia delle dottrine politiche e poi dal Filosofia della politica.  Si infittisce la sua collaborazione a riviste e periodici, sui quali interviene anche riguardo all'attualità politica e culturale. Diresse la collana «Documenti di cultura moderna», dell'editore torinese Borla (poi passata alla Rusconi) proponendo al pubblico italiano autori come Corte, Burkhardt, Pelayo, Sedlmayr e Voegelin. Partecipa vivacemente al dibattito sul divorzio. Dopo la metà degli anni settanta inizia il rapporto con gli universitari di Comunione e Liberazione partecipando a convegni e incontri promossi dal Movimento Popolare. Pubblica il saggio Il suicidio della rivoluzione, dedicato al compimento e alla dissoluzione del marxismo. Con Il cattolico comunista chiude i conti con l'esperienza di Rodano (che nel frattempo ha lasciato la DC per il PCI) e dei teorici della conciliazione tra Cattolicesimo e marxismo. Inizia anche la collaborazione continuativa con il settimanale «Il Sabato» e contribuisce alla creazione della rivista 30 giorni, di cui rimarrà stabile collaboratore. Nello stesso anno viene candidato come indipendente nelle liste della Democrazia Cristiana per il Senato: primo dei non eletti, entrerà in Senato l'anno successivo a seguito della morte di un collega. Viene insignito del «Premio Internazionale Medaglia d'Oro al merito della Cultura Cattolica. Riceve il premio Nazionale di Cultura nel Giornalismo: la penna d'oro. Viene premiato dal Meeting di Rimini. Muore a Roma. È tumulato nel Famedio del cimitero di Savigliano. Esce “Gentile”, che raccoglie diversi saggi sul padre dell'attualismo, sul fascismo e sul suo significato nella storia, frutto di decenni di studi e rielaborazioni. L'archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a Savigliano dalla fondazione Centro Studi N., sorta nei primi anni novanta, diretta prima da G. Ramacciotti, poi da Mercadante, da Riconda, e Randone. In “Il problema dell'ateismo” N. inizia l'analisi della storia della filosofia moderna invertendo il paradigma storicistico e positivistico che nel progressismo aveva la sua cifra comune. Il filosofo afferma infatti che tale paradigma di illuministica origine ha come prima condizione d'esistenza la postulazione dell'ateismo come necessità del progredire dei sistemi filosofici e delle scienze a prescindere dalla teologia cristiana, cioè a prescindere dalla Scolastica, anzi in più o meno esplicita opposizione alla Scolastica.  La tesi che Del Noce intende dimostrare in questa sua opera è -come evidenzia appunto il titolo- la considerazione dell'ateismo non più come «necessità» bensì come «problema» della modernità, il cui ultimo, coerente e necessario sbocco è appunto il nichilismo post-nietzscheano distaccato ormai da qualsiasi riflessione filosofica e sfociato in una pura forma di vita, in puro way of life di distruzione e auto-distruzione dell'uomo. Del Noce pone quindi innanzitutto una distinzione fra tre diverse forme di ateismo, ovvero fra l'ateismo positivo o politico diurno, i cui esempi perfetti sono stati l'illuminismo di un Diderot o l'umanesimo di un Feuerbach, l'ateismo negativo o nichilistico («notturno»), esemplificato invece dalla filosofia di Schopenhauer, e infine l'ateismo tragico, detto anche «follia filosofica», cioè la forma più rara e particolare di ateismo che N. trova solo in due casi in tutta la storia della filosofia, ovvero in Nietzsche e in Jules Lequier.  Posta questa propedeutica distinzione, Del Noce inizia l'anamnesi del pensiero filosofico moderno per rintracciare la genesi di ogni forma di ateismo, impossibile da pensarsi per la filosofia antica come dimostra il fatto che anche la filosofia epicurea -considerata comunemente come ateistica- ammetteva in realtà l'esistenza degli dèi. Per N. appare evidente che la crisi della Scolastica medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che proprio colui che aveva intenzione di riformarla -cioè Cartesio- fu invece colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni metafisiche che il filosofo francese -allievo dei Gesuiti- tentò di riproporre una nuova prova dell'esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il dio-logos con la Natura impersonale e senza ordine.  In realtà però Cartesio, nel suo sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo e considerando così le idee dei semplici «contenuti della mente». In altre parole se l'idea di Dio, quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant'Anselmo secondo la quale non è lecito aggiungere il predicato dell'esistenza alla perfezione dell'idea se non per un paralogismo. N. in sintesi ha mostrato come il tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha come punto centrale l'idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell'ontologia a quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico all'idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non contro Sant'Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire necessariamente la «perfezione» dell'esistenza dall'idea dell'Essere con ogni perfezione, cioè dall'idea di Dio. Prosegue la sua analisi mostrando quindi come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei, già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano e aggiunge inoltre che proprio Cartesio, fiero avversario del libertinismo dilagante nel suo tempo, fu colui che tradusse l'ateismo libertinistico e irrazionalistico nella sua forma razionalizzata, cioè nell'illuminismo, che sarebbe stato appunto un libertinismo razionalistico. Si noti che Del Noce non pone giudizi sulla persona di Cartesio, e anzi sottolinea come al suo tempo egli si poteva davvero credere il grande condottiero vincitore della battaglia culturale del Cristianesimo contro il libertinismo, ma ciò perché non era riuscito a prevedere una forma di ateismo non-irrazionalistico e non-relativistico quale fu appunto l'illuminismo settecentesco, che non si limitò più ad opporsi alla Scolastica ma che formò una propria dogmatica visione della storia in cui il Cristianesimo, rappresentato dalle leggende nere del Medioevo, era stato solo un ostacolo per lo «sviluppo» e l'«emancipazione» dell'umanità (si tenga presenta la definizione kantiana di illuminismo).  Da Cartesio in poi sono comunque due i percorsi filosofici che partono e che sviluppano i due aspetti compresenti in Cartesio, ovvero l'illuminismo e lo spiritualismo: da una parte infatti Condillac, Kant, Condorcet, fino a Hegel e Marx riceveranno il lascito propriamente razionalistico e sensu lato materialistico di Cartesio, dall'altra invece Pascal, Malebranche, VICO (si veda) e infine SERBATI saranno gli eredi del suo patrimonio spiritualistico, inteso questo come filosofia di accordo fra ragione naturale e fede cristiana, posta la distanza epistemologica dalla Scolastica; famosa ed illuminante è a questo proposito la teoria della «visione in Dio» di Malebranche, nonché la distinzione pascaliana fra il divino dei filosofi e Dio padre (IVPITER) dei romani. Andando comunque alla radice del problema del tradimento della metafisica cristiana (Tomismo) da parte di Cartesio e del conseguente illuminismo, N. individua come unica possibile condizione per tale tradimento il rifiuto del peccato originale come male metafisico e quindi il rifiuto dello «status naturae lapsae» di cui proprio il Cristo sarebbe il redentore: senza alcuna natura umana da redimere, cioè senzanecessità di alcun redentore, il razionalismo ha sostituito il peccato con l'ignoranza e Dio con la ragion critica, rifacendosi così ad un pelagianesimo laicizzato che da solo rende possibile una qualsiasi forma di ateismo. Egli nota, infine, che avendo rifiutato la radice metafisica del male se ne è dovuta cercare quella fisica o psicofisica, secondo gli schemi ideologici che nel Novecento avrebbero reso la psicanalisi e la psicologia gli elementi complementari allo scientismo per una completa e non riduttiva visione del mondo senza Dio, e per una definitiva «ateologizzazione» della ragione.  Compimento e dissoluzione del marxismo Riguardo al marxismo e alla sua interpretazione Del Noce scrisse due opere, ovvero Il cattolico comunista e Il suicidio della rivoluzione, che costituiscono la continuazione de Il problema dell'ateismo in quanto in esse il filosofo analizza più dettagliatamente solo una delle linee filosofiche originate da Cartesio, quella razionalistica, cioè quella che nella storia moderna fu vincente nella sua estensione politica, nel tentativo di trovare e di dimostrare la continuità necessaria fra razionalismo, materialismo, marxismo e infine nichilismo, quest'ultimo inteso come cifra problematica della civiltà postmoderna.  La giustificazione epistemologica di questa analisi è data dal fatto incontestabile che la storia del Novecento inizia da un fatto filosofico, ovvero dal passaggio della filosofia marxiana in azione politica, ovvero dalla coerentizzazione di quella che N. definisce la «non-filosofia di Marx»: da ciò appare non solo giustificato ma anche necessario portarsi sul piano storico della filosofia per comprenderne il suo portato teoretico, e così disinnescarne il suo sostrato ideologico. Si affianca a diversi filosofi, quali ad esempio Voegelin, per rintracciare l'inizio della cosiddetta secolarizzazione, il cui compimento sarebbe stato appunto il marxismo e poi il nichilismo, nel sequestro della nozione di «progresso» da parte di filosofie laiche dalla teologia di Gioacchino da Fiore, o meglio dall'interpretazione di tale teologia: ben nota è infatti la distinzione gioachimita nelle tre età della storia, l'Età di Dio-Padre (Ebraismo), l'Età di Dio-Figlio (Cristianesimo) e infine l'Età di Dio-Spirito che avrebbe dovuto superare i «limiti» del Cristianesimo ed estendere l'elezione e la salvezza in modo universale.  Di tale teologia mistica e profetica si appropriò lo gnosticismo sviluppatosi in seno al Cristianesimo stesso ed estesosi pian piano oltre i confini delle filosofie razionalistiche del Settecento e soprattutto dell'Ottocento. N. nota infatti una sorta di dialettica nata all'interno dell'illuminismo settecentesco non tanto fra atei e deisti bensì fra rivoluzionari e conservatori, ovvero fra il puro giacobinismo ghigliottinatore dell'«ancien Régime» e il progressismo che caratterizzò invece la fase dell'illuminismo dopo la degenerazione della rivoluzione francese in Terrore, ovvero la fase dei cosiddetti ideologues, fra i quali Cabanis e Condorcet. Il punto attorno a cui si sviluppava tale dialettica fu appunto la differente filosofia della storia che aveva caratterizzato l'illuminismo pre-rivoluzionario e l'illuminismo post-rivoluzionario, in quanto il primo aveva escluso una qualsiasi evoluzione storica e necessaria dell'umanità e aveva anzi condannato il Medioevo con la storiografia della leggenda nera, mentre il secondo aveva invece rivalutato l'intera storia pre-illuministica (sia pagana che cristiana) considerandola come momento dialettico necessario pur se negativo della storia universale.  In questo senso N. ha potuto mettere in parallelo l'opposizione fra illuminismo giacobino e spiritualismo in Francia e quella fra kantismo e hegelismo in Germania, ove spiritualismo e hegelismo sono state filosofie vincenti in quanto hanno assorbito in sé il momento rivoluzionario e negativo dell'illuminismo per poi superarlo nella formazione di quella filosofia della storia che ebbe certo in Hegel il suo culmine. Riguardo al binomio illuminismo-spiritualismo la critica vincente del secondo sul primo è stata quella di un estremo e insostenibile riduzionismo rappresentato dal sensismo di Condillac, in altre parole è stata la critica di ridurre la comprensione del mondo al pari di ciò che lo stesso illuminismo aveva accusato la religione di aver fatto. In questo contesto è la nascita della visione sociologica del mondo a rappresentare il tentativo di superare questa aporia illuministica senza tuttavia dover ritornare alla metafisica tradizionale: N. insomma sostiene il trapasso dell'illuminismo in socialismo, non a caso nato in Francia, intesa questa come dottrina che dell'illuminismo mantiene il carattere utopistico (socialismo utopistico) e quindi anti-tradizionalistico, ma ne sconfessa invece il deprecabile riduzionismo che ancora non permetteva un'adeguata analisi della società ai fini della rivoluzione politica.  In Germania invece la dialettica fra kantismo e hegelismo, con netta vittoria dell'hegelismo, ha come punto di svolta la riconsiderazione hegeliana della storia come storia dell'Assoluto -- storia di Dio --, secondo il ben noto schema gioachimita che vedeva in ogni momento storico un grado dimanifestazione dell'Assoluto, e quindi «necessario» pur nella sua negatività. In questo senso Hegel è colui che diede forma alla corrente tradizionalistica dell'illuminismo, ove la tradizione non è più peròcome per Tommaso d'Aquinol'insieme delle verità eterne e immutabili che solcano trasversalmente la dimensione temporale mediante il passaggio delle generazioni, ma è bensì la struttura dialettica eterna che necessita l'evoluzione delle verità, e quindi la sua temporalizzazione.  Per questo N. afferma che l'idealismo hegeliano ebbe nei confronti del kantismo la medesima funzione che in Francia ebbe il positivismo comtiano nei confronti del socialismo utopistico: egli ricorda la critica di Comte nei confronti dell'illuminismo settecentesco, la sua rivalutazione della tradizione (in senso dialettico), nonché la celeberrima teoria degli stadi che costituisceancora una voltauna forma secolarizzata della teologia gioachimita. È dopo questa dettagliata analisi che Del Noce innesta il discorso sul marxismo, il quale appunto si configuròper stessa ammissione di Marxcome ripresa critica di Hegel attraverso la filtrazione di Feuerbach e della sinistra hegeliana (celebri sono le marxiane Tesi su Feuerbach) e come fusione fra la dialettica hegeliana e la politica del socialismo utopistico: alla base del cosiddetto socialismo scientifico rimane ancora il desiderio di palingenesi politica propria di Saint-Simon o di Fourier, ma onde evitare il risibile utopismo di questi ultimi ad esso Marx applicò la dialettica hegeliana con cui solamente si sarebbe potuto analizzare il capitalismo e prevederne così il necessario fallimento.  A tal punto però l'analisi marxiana di come potrà nascere la società comunista introduce l'elemento di distacco non solo dall'idealismo hegeliano ma anche dalla filosofia stessa, ovvero la necessità di tradurre il pensiero analitico in azione politica e di affidare alla storia invece che alla ragione il compito di dimostrare la verità delle tesi marxiane. In questo N. si riallaccia a una lunga storiografia socialista, uno dei cui esponenti più noti è per esempio Lukács, che afferma la stretta e necessaria continuità fra filosofia di Marx e di Engels, politica di Lenin e politica di Stalin, senza concedere alcuna differenza né alcuna opposizione fra socialismo reale e socialismo ideale (quasi a guisa di giustificazione storica). Il fattore fondamentale di continuità fra Marx e Lenin è infatti quella struttura tipicamente gnostica che equalizza il male all'ignoranza e il bene alla conoscenza e quindi divide il genere umano fra la massa degli ignoranti e la ristretta cerchia degl’lluminati, che nella riflessione leniniana erano gli intellettuali borghesi che per una non spiegata differenza dal resto della borghesia avrebbero potuto e dovuto guidare la rivoluzione; in questo senso la politica leniniana, poi proseguita coerentemente nella politica staliniana, sarebbe stata l'incarnazione perfetta nonché l'unica incarnazione possibile della filosofia marxiana, e non invece -come è tesi di una certa apologetica socialista- un tradimento di Marx.  Ancora una volta si rifà a una lunga storiografia critica nel considerare il marxismo non come una filosofia ma come una religione, ma a ciò egli aggiunge la dimostrazione non del suo carattere di religione civile bensì di religione gnostica: in tal modo il marxismo leninista sarebbe davvero il compimento del razionalismo ove quest'ultimo è inteso come gnosticismo laico, religione non di Dio ma dell'Idea/ideale che non ha bisogno dell'Incarnazione di un Dio-Uomo in quanto l'uomo stesso avrebbe potuto e dovuto far incarnare tale Idea nel mondo attraverso la sua azione. Questo è il senso dell'appellativo delnociano di «non-filosofia» per il marxismo, giacché la contemplazione metafisica in esso viene interamente assorbita dall'azione politica, in quanto per Marx la politica è la vera metafisica al pari di come per Nietzsche lo è la morale.  Eppure è proprio questo punto a costituire secondo N. la contraddizione fondamentale interna al marxismo e quindi la causa prima del suo fallimento storico: se infatti la «riconciliazione con la realtà» iniziata da Hegel, proseguita da Feurbach a portata a compimento da Marx deve rivoltare l'intera comprensione del mondo in trasformazione del mondo, cioè in rivoluzione, allora in ciò non rimane giustificato il riferimento ideologico all'avvenire come sede immaginifica della società comunista, ovvero non rimane giustificato il carattere ancora religioso del marxismo per cui esso ha sostituito il futuro all'eternità e il lavoro dell'uomo alla redenzione del dio-uomo. Il fallimento storico del comunismo, quindi, sarebbe stato non solo la dimostrazione sperimentale della falsità delle teorie marxiane ma anche il coerente compimento del marxismo come auto-distruggersi nella sua forma di religione. Con ciò si spiegherebbe per N. l'attivismo comunista nonché la graduale decadenza del socialismo nel mondo fino alla sua profetizzata fine, simboleggiata dalla caduta del Muro di Berlino. È propria di lui infatti la teoria secondo cui il compimento e la dissoluzione del marxismo non siano due momenti separati o addirittura opposti, ma siano bensì il medesimo momento dispiegato coerentemente nel tempo.  L'interpretazione del fascismo Sul fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue opere, partendo appunto dalle opinioni comuni e molte volte ideologiche degli storici nei confronti del fascismo e delineando una struttura paradigmatica tanto controversa quanto precisa e fondata. È a partire dalla definizione data dallo storico tedesco Nolte di ogni movimento fascista come «resistenza contro la trascendenza», intesa come trascendenza storica e non metafisica, che N. sottolinea la continuità fra questo serio giudizio e la communis opinio del fascismo come movimento reazionario, per questo tradizionalista e nazionalista, e per converso di ogni forma di tradizionalismo e di nazionalismo come rimando implicito e forse inconscio al fascismo.  Di questo fa una critica serrata, facendo notare innanzitutto le origini culturali dei due fondatori del fascismo, cioè Gentile e MUSSOLINI, come antitetiche rispetto a ogni forma di politica reazionaria, tradizionalista e nazionalista e come invece affini rispetto al socialismo, del quale Mussolini in particolare fu un esponente. Si noti che l'obiettivo che N. intende colpire e abbattere è quella generale concezione del fascismo come momento singolare e controcorrente rispetto all'intera storia moderna, dalla rivoluzione francese in poi, mentre ciò che intende mostrare è la continuità quasi necessaria che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo confluire nel socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» che pone l'accento, essendo questo un concetto base del marxismo che però, attraverso l'incontro mussoliniano con la tedesca «filosofia dello Spirito» risorgente in Italia, dovette radicalmente trasformarsi e portarsi dal livello sociale della «classe» a quello personale del «soggetto».  È insomma l'incontro intellettuale di Mussolini con la filosofia di Gentile ad aver reso necessaria la trasformazione della rivoluzione in un senso non più finalistico o escatologico (come era nel marxismo puro, il cui fine è appunto la società comunista) ma in un senso propriamente attivistico e lato sensu solipsistico, in termini gentiliani cioè attualistico. Con ciò N. può connettere la psicologia di Mussolini con il vero e proprio formalismo pratico del fascismo, il quale non aveva in realtà alcun contenuto definito, ma proclamava bensì una forma di azione tanto vaga e generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale (anche il proletariato) e di frangia ideologica, in alcuni momenti persino quella marxistica.  Il concetto di «rivoluzione» infatti contiene in sé già un termine finale ben preciso verso cui lo stato attuale del mondo andrebbe rivoluzionato, mentre nella politica fascista il termine rivoluzione deve necessariamente essere sostituito dal termine «riforma» (si pensi appunto alla riforma Gentile) in senso non più tradizionale, cioè come ri-formare ciò che è stato de-formato, bensì in senso creazionale, cioè come dare una nuova forma (indefinita) alle antiche cose, perciò rimane un concetto molto affine a quello di marxistico di rivoluzione, e permette l'affiancamento ideale dell'attualismo gentiliano al modernismo teologico fiorente a quel tempo e condannato come eresia dalla Chiesa. Saggi: “Teologia della storia” (Torino, Filosofia); “La solitudine di Faggi” (Torino, Filosofia); “L'incidenza della cultura sulla politica italiana, Cultura e libertà” (Roma, 5 lune); “A-teismo” (Bologna, Mulino); “Riforma e filosofia” (Bologna, Mulino, Brescia); “In contra del domma cattolico-romano” (Torino, Erasmo); “Contra il domma cattolico-romano” (Milano, UIPC); “L'amore di Dio” (Torino, Borla); “Il secolare” (Milano, Giuffrè); “Il partito comunista italiano” (Roma, Europea); “Il suicidio di un rivoluzionario” (Milano, Rusconi); “I comunisti” (Milano, Rusconi); “L'interpretazione trans-politica della storia contemporanea,” Napoli, Guida, “Secolarizzazione e crisi della modernità” (Napoli, Benincasa); “Gentile: per una interpretazione FILOSOFICA del fascismo” (Bologna, Mulino); “Da Cartesio a Serbati” -- Scritti vari di filosofia,” Milano, Giuffrè); “Esistenza e libertà.” Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, italiano Faggi, Martinetti, italiano Rensi, italiano Juvalta, italiao Mazzantini, italiano Castelli, italiano Capograssi” (Milano, Giuffrè); “Rivoluzione, Risorgimento, Tradizione”; Scritti su l'Europa e altri, Milano, Giuffrè); “I cattolici e il progressismo,”  Milano, Leonardo, “Fascismo e anti-fascismo: errori della cultura” (Milano, Leonardo); “Il laico”; Scritti su Il sabato (e vari, anche inediti), Milano, Giuffrè); Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea. Leone XIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II” (Roma, Studium); “Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, “ I. Mina, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli); “Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea” (Morcelliana, Brescia.). N. insegna nel capoluogo piemontese. Bozzo. N., il filosofo della libertà politica). N., «Idee per l'interpretazione del fascismo», Ordine Civile. E tra i componenti del comitato promotore del referendum abrogativo antidivorzista) e più tardi sull'aborto.  premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii. wordpress. Armellini, Razionalità e storia, in Il pensiero politico, Roma, Aracne editrice, Borghesi, N.. La legittimazione critica del moderno. Marietti, Genova-Milano.[collegamento interrotto] Luca Del Pozzo, Filosofia cristiana e politica, Pagine, I libri del Borghese, Roma, Fumagalli, Gnosi moderna e secolarizzazione nell'analisi di Samek Lodovici ed N., PUSC, (scaricabile in PDF dal sito sergiofumagalli) Gian Franco Lami, La tradizione, Angeli, Milano, Marietti, Genova-Milano. Enciclopedia ItalianaV Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ratto, Ipotesi sul fondamento dell'essenza dissolutiva del marxismo e del fascismo, in Boscoceduo. La rivoluzione comincia dal principio, Sanremo, EBK Edizioni Leudoteca, Riili, N. interprete del Marxismo. L'ateismo, la gnosi, il dialogo con Volpe e Goldmann, in Centotalleri, Saonara, il prato, Tibursi, Il pensiero di N. come Teoria sociale, in Andrea Millefiorini, Fenomenologia del disordine. Prospettive sull'irrazionale nella riflessione sociologica italiana, Societas, Roma, Nuova Cultura, Xavier Tilliette, Omaggi. Filosofi italiani del nostro tempo, traduzione di Sansonetti, Brescia, Morcelliana, Natascia Villani, Marxismo ateismo secolarizzazione. Dialogo aperto con N., in Pensiero giurdico. Saggi, Napoli, Editoriale Scientifica,  Augusto Del Noce, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Repertori Bibliografici, su centenariodelnoce). La metafisica civile: ontologismo e liberalismo dalla rivista telematica di filosofia Dialeghesthai. P. Ratto, Laicità e Democrazia: da N. a Giotto, su Bosco Ceduo,  Democrazia e modernità in N., articolo dal mensile 30Giorni. L'inseparabilità dei Tre. La modernità, di Andrea Fiamma Centro Culturale,//centrodelnoce. Fondazione //fondazione augustodelnoce.net. centenariodelnoce. Articoli di N. «Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna» da Studi Cattolici. «L'errore di Mounier» da Il Tempo. «Risposte alla scristianità» da Il Sabato. «La sconfitta del modernismo» da Il Tempo. «La morale comune dell'Ottocento e la morale di oggi», tratto da Il problema della morale oggi. «Rivoluzione gramsciana», tratto da Il suicidio della rivoluzione. «Origini dell'indifferenza morale» da Il Tempo. «Le origini dell'indifferenza religiosa» da Il Tempo. «Religione civile e secolarizzazione» da Il Tempo. «Un dramma europeo: il dissenso cattolico» da Corriere della Sera. «Questi poveri cattolici minacciati dal suicidio» da Il Sabato «In stato di porno-assedio»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «La più grande vergogna del nostro secolo» da Il Sabato. «Fu vera gloria? La resistenza 40 anni dopo»[collegamento interrotto], tratto da Litterae Communionis. «Una colomba, non un santo (caso Bukarin)» da Il Sabato. «Intensità d'una gran illusione (Dossetti e dossettismo)»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «L'antifascismo di comodo» da Corriere della Sera. «Togliatti? Un perfetto gramsciano. Polemica su Gramsci»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Il nazi contagio» da Il Sabato. «La morale catto-comunista» da Il Sabato. «Abbasso Mazzini» da Il Sabato. «I lumi sull'Italia»[collegamento interrotto] da Il Sabato. «Recensione del romanzo di Benson "Il Padrone del mondo"» dal mensile 30Giorni. «Filo rosso da Mosca a Berlino (Hitler-Stalin)» da Il Sabato. Le connessioni tra filosofia e politica da Il Tempo. Pci, l'impossibile conversione» tratto da Prospettive nel mondo. Grice: “Unfortunately, Noce is a philosopher, like me. We cannot lay word on history. Had Hitler won, I wouldn’t have joined Austin’s Play Group. Being Italian, Noce thinks different. He thinks history is guided by philosophical principes. It wasn’t Mussolini’s charisma that led the populace, but Gentile’s attualismo puro. He makes a good point about the distinction between Hitler and Mussolini. Hitler is a Protestant, Mussolini ain’t! Most in Mussolini’s circle were just as heathen as those in Hitler’s circle – different heathenism, though. No Odin, but Giove. Not Siegrfied, but Enea! Noce does not know the first thing about this. He never socialized with any of the people he is philosophizing about. In any case, there’s Garibaldi, which is a stain to Italian history. Italians, and a Ligurian friend of mine can testify to this, never wanted the UNITY. It was forced ON them. So it’s only natural that Gentile and Noce regard the UNITY brought by Risorgimento (alla Fichte Hegel, and the idea of the NATION) that was furthered by Mussolini. Mussolini did use Garibaldi imagery – saying that his movement was ‘garibalismo puro’ – but although he (Mussolini) did write a little thing about Nietzsche, you won’t find his name in ‘dizionari di flosofia’!”  Non si può dire che a Del Noce sia mancato il coraggio di   proporre ipotesi interpretative del pensiero contemporaneo  anche in radicale antitesi con la pubblicistica corrente e con  gli intellettuali più ascoltati dal potere culturale dominante.  Come si è visto a proposito del marxismo, la nettezza del  giudizio critico non è mai venuta meno e non ha mai ceduto  ad attenuazioni, nemmeno nel caso di una vicinanza amicale  con i suoi interlocutori.    Nel caso dell’interpretazione del fascismo N.  esprime un simile coraggio e propone sin dagli anni Sessanta  (ma brevi testi dell’immediato dopoguerra documentano già  la stessa lucidità)! un’interpretazione originale, solidamente  argomentata e assolutamente controcorrente. Anche in  questo caso, come in quello del marxismo, N.  procede da una considerazione attenta del fascismo che ne  faccia emergere le specificità culturali, lo renda  identificabile e ne faccia perciò comprendere le ascendenze  più o meno evidenti. Quest'opera di studio e di approfondimento dei  contenuti del fascismo è già un aspetto rilevante  dell’interpretazione, dal momento che, ancora oggi il fascismo è stato  rappresentato da una parte come una sorta di barbarie  irrazionale e oscura, dall’altra come l’esito della coalizione di  tutte le forze conservatrici e reazionarie a difesa di interessi  particolari. In questa prospettiva il fascismo viene  identificato come un’entità a sé stante e, nel contempo,  caratterizzato come male assoluto, mitizzato come un abisso  di negatività al di fuori di qualsiasi analisi critica e storica.  Da ultimo, trasformato in una sorta di essenza, il fascismo  diviene la categoria alla quale ricondurre tutti gli aspetti  legati alla tradizione, alla metafisica, al tema dell’autorità  ecc., secondo uno schema per cui non si può affermare la  tradizione senza essere nel contempo, almeno  incoattivamente, fascisti e repressivi. AI contrario, per N. il fascismo è un momento di  quel percorso verso l’ateismo (descritto nei capitoli  precedenti) in cui consiste lo sviluppo del razionalismo e  che può essere designato più opportunamente come  secolarizzazione, per intendere quel tentativo di creare una  società nella quale non ci sia più traccia dell’idea di Dio. Il  fascismo ha perciò una radice culturale precisa, situabile in  quel processo di decomposizione dell’idealismo che ha  inizio con il marxismo. È questo il punto più incandescente dell’analisi di N.: il fascismo si presenta come un tentativo  rivoluzionario di origine marxista, nel quale il marxismo  viene corretto per essere inverato, cioè per essere  effettivamente realizzato. In altre parole, tra marxismo e  fascismo c'è un legame profondo e intrinseco: nel percorso  del razionalismo che porta a una progressiva  secolarizzazione del mondo, l’ideale rivoluzionario tende ad  assumere il ruolo sociale occupato precedentemente dalla religione. In questo quadro, secondo N., la  rivoluzione può assumere due forme: quella marxista, che si  fonda, come si è visto, sul materialismo e sulla sua opera  decostruttiva; oppure quella attualista, che è una  interpretazione dell’ideale rivoluzionario da un punto di  vista soggettivo-spiritualistico, che assume le caratteristiche  di una filosofia del divenire e della prassi e rifiuta il  materialismo marxista. La spiegazione del fenomeno fascista trova perciò in  Gentile una figura centrale, attraverso la quale N. mette in evidenza il nesso storico e teorico tra  idealismo e fascismo. Per comprendere questo nesso, però,  occorre che venga pienamente riconosciuta la complessità e  profondità di pensiero di Gentile, più spesso relegato a personaggio di propaganda e di apparato. D. non  solo riconosce in Gentile una figura chiave del pensiero  italiano, ma nel suo pensiero coglie una svolta epocale,  quella del tentato inveramento del marxismo: perciò in esso  egli vede il compiersi per l'Occidente del percorso razionalistico del pensiero che così fortemente ha determinato le sorti dell’epoca contemporanea. Gentile intende recuperare lo spirito risorgimentale e  connetterlo con l’ideale rivoluzionario, sganciandolo perciò  dal quel presupposto naturalismo e materialismo che  rappresentavano ai suoi occhi un limite nella comprensione  del vero spirito idealistico. È in questa temperie culturale  che avviene l’incontro con Mussolini. N. è certo attento nel precisare che i fenomeni  storici si verificano per una complessa serie di fattori che  non possono essere ridotti a uno schema concettuale. Tuttavia quando nelle sue analisi parla di incontro intende evidenziare non solo l’incrociarsi di percorsi  biografici e storici, ma anche il congiungersi, si potrebbe  dire fatale, di indirizzi di pensiero che per consonanza e  necessità logica danno luogo a un connubio creativo. Nel  caso del rapporto tra Gentile e il fascismo come regime N. parla, per esempio, di armonia prestabilita, quasi a  evidenziare una sorta di attrazione fatale che ha  compenetrato traiettorie di pensiero che avevano origini  distinte. Mussolini infatti era anch’egli incamminato verso una  revisione del marxismo, a partire dalla critica al socialismo  riformista, sebbene con una coscienza filosofica assai più  sbiadita rispetto a quella di Gentile. L’incontro avviene  perciò sul terreno comune della volontà di ripresa dello  spirito rivoluzionario, in una chiave però compatibile con la  tradizione risorgimentale italiana. All’interno di questa  struttura significativa, certamente gioca poi un ruolo  determinante la personalità di Mussolini, che se è senz'altro  molto meno permeata di coscienza critica e culturale, è  tuttavia perfetta espressione  esistenziale-politica di  quell’ansia rivoluzionaria che si traduce in attivismo come  pura affermazione di potenza e in solipsismo, inteso come  soggettivismo assoluto, incapace di cogliere la realtà esterna  in sé sussistente se non in funzione del proprio processo di  autoaffermazione. Si comprende dunque perché N. abbia parlato  spesso di fascismo come errore della cultura e non errore  contro la cultura (interpretazione, come si è visto, dominante  nell'ultimo cinquantennio). Esso si configura non come  fenomeno estemporaneo di improvviso impazzimento della  società italiana succube di forze oscurantiste, ma segna un passo decisivo di quell'epoca della secolarizzazione che  contraddistingue l'evoluzione ultima del razionalismo  moderno e che, secondo N., ha il suo inizio con  l’opera rivoluzionaria di Lenin come colui che ha più  coerentemente inteso realizzare il farsi mondo della filosofia  secondo quanto prospettato da Marx. In questo senso, tra  l’altro, si comprende perché sia senz’altro errato  interpretare il fascismo come fenomeno reazionario e  conservatore; in esso agisce la volontà di interpretazione  dello spirito rivoluzionario nel modo più radicale, per il  quale la tradizione e l’identità storica rappresentano puri  strumenti per l’affermazione dell’azione trasformatrice, che  sarà perciò inevitabilmente violenta e inesorabile. Ma in Italia, negli stessi anni in cui andava formandosi il  fascismo, vi è un altro pensatore che lavora alla revisione del  marxismo per elaborare una concezione rivoluzionaria  capace di realizzare effettivamente una nuova società: è Gramsci. Anche in questo caso N. dimostra  un’acutezza interpretativa unica, nonché coraggio nel  presentare le sue ipotesi. Egli infatti mette a punto una serie di studi che  confluiranno poi in un volume intitolato I/ suicidio della  rivoluzione, nel quale Gramsci è presentato come colui che,  nel tentativo di riformare il marxismo, incontra in realtà  l’attualismo e trasforma l'ideale rivoluzionario marxista in  una filosofia della prassi perfettamente funzionale e coerente  con il realizzarsi del nichilismo. Gramsci, perciò, identificato  in quegli anni come il vero punto di riferimento  dell’antifascismo marxista e nume tutelare per il realizzarsi  del marxismo nei paesi occidentali, viene presentato da N. come un autore gentiliano. Che cosa è infatti la revisione gramsciana del marxismo se non il rifiuto del suo  materialismo e del suo economicismo, per fondare una  filosofia della prassi che porti a realizzare la rivoluzione  prospettata dal marxismo a partire da una lotta per  l'egemonia culturale messa in atto dagli intellettuali  militanti? Secondo N. non è più marxismo, ma  filosofia della prassi con tutti i caratteri dell’attualismo.    In che senso allora N. parla di suicidio della  rivoluzione? Precisamente nel senso per cui, nel proseguire  il suo progetto rivoluzionario a partire da una filosofia della  prassi non materialista, Gramsci riduce il pensiero a  ideologia strumentale per l’affermazione del potere,  svincolandolo da qualsiasi riferimento alla verità. Pensiero  senza verità, pura affermazione di potenza, e perciò  nichilismo, approdo coerente di quell’impeto rivoluzionario  che però ottiene il suo opposto proprio attraverso il  costituirsi del predominio sociale di una classe borghese  cinica e disincantata. Diciamo che Gramsci rappresenta il  paradigma italiano di quella dissoluzione dell’idealismo e  del marxismo che, per l’eterogenesi dei fini di cui s'è detto,  nel compiersi realizza l'opposto di quanto si era proposto. Il primo testo del capitolo è una conferenza confluita in L’epoca della secolarizzazione, che propone una  definizione storica generale del fascismo e consente uno  sguardo sintetico d’insieme sull’interpretazione di N. delle figure di Gentile e di Mussolini. Il secondo testo è il capitolo secondo de I/ suzcidio della  rivoluzione, che imposta l’assunto fondamentale del libro,  soprattutto nel mostrare la vicinanza filosofica tra Gentile e  Gramsci. Appunti per una definizione storica del fascismo. Il fondamento del progressismo, così nella sua forma di  illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è  un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su  una zona della storia contemporanea, quella dell'Europa fra  le due guerre. Ora, l'attitudine contraddittoria a cui ha  dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di  millenarismo negativistico, porta al problema della sua  revisione. Si badi bene: non si tratta menomamente di  mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; si  tratta, invece, di vedere quali posizioni ideali siano state  coinvolte nella sua catastrofe.    È il primo saggio che tenta un’esaustiva  comprensione storico-filosofica del fascismo come fenomeno epocale, quello di NOLTE?  Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione  rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella  secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti  sotto il concetto generale di controrivoluzione. Visto nel suo  aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il  fascismo sarebbe per Nolte una disposizione di «resistenza  contro la trascendenza», termine con cui intende non la  trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suol chiamare  «trascendenza orizzontale»,  trascendimento storico,  insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue forme, è il nemico, deve essere individuato nella libertà  verso l'infinito» che, «innata nell’individuo e reale  nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si  conosce e si ama». Sul piano più strettamente politico  questa «resistenza contro la trascendenza» si affermerà  come lotta sino alla morte contro i movimenti che la  rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là  dell'ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si  dovrebbe perciò parlare di un’essenza comune che si  sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a  seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche,  culturali. Le principali di queste forme costituirebbero  altrettanti gradi; così Nolte ha delineato una linea unitaria di  sviluppo, il cui primo grado sarebbe rappresentato  dall’Action frangaise, il secondo dal fascismo italiano, il terzo  dal nazismo. Come è facile osservare, una tale  interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo  cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti  dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo  assorbito dalla causa dei progressisti; e secondo cui ogni  atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più  inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una  possibilità fascista. Ciò che però caratterizza la sua opera, è  che questo giudizio non condiziona la ricerca, come  presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato  di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua  importanza: perché la rigorosa messa in forma di un giudizio  corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili.    Anzitutto, da che cosa egli si trova portato a parlare di  un’«epoca del fascismo? Da questo: è esistito un periodo in  cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stesse delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica;  isolazionismo americano, socialismo in un solo Paese per cui  la Russia ridivenne una terra incognita ai limiti del  mondo) l'Europa, pur dopo quell’anno, in cui la  prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto  di stati nazionali, poteva nuovamente considerare se stessa  come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli  avvenimenti mondiali. Ora, poiché «si deve denominare  un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche,  sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli  avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo,  ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l'epoca delle  guerre mondiali epoca del fascismo»; termine che «presenta  il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto, e di  non presentarsi al pari della parola nazionalsocialismo con una pretesa contenutistica non  però giustificata. Col dare una tale definizione dell’epoca, Nolte non  pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi,  di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da  rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di  brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del  massimo suo potere. Ma, su questo punto,  avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto  accento valutativo. Così Mann nel define il fascismo come «una malattia del nostro tempo,  che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può  dirsi immune». Così, nella nota opera La distruzione della  ragione Lukacs ha indicato «nello sviluppo spirituale e  politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito del  mondo capitalistico. Bastano già queste citazioni per vedere il posto che  l’opera di Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo.  Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso liberale,  della malattia morale e dopo quella marxista. Luk4cs  aveva parlato di una linea unitaria di processo verso  l’irrazionalismo da Schelling a Hitler», includendovi tutti i  pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel.  Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità,  Nolte dissente soprattutto per quel che riguarda il  prefascismo di Weber, e naturalmente il dissenso su  questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che  riguarda l’intera linea indicata da Lukacs. Forse — non ho  verificato quest'idea — il suo libro potrebbe esser definito  come un rifacimento per l'Europa intera di quello che  Lukacs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato  però da uno scrittore su cui è stata forte l'influenza di Weber. Ora, nello stesso giro di tempo in cui Nolte scriveva il suo  libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una  definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando  però a prospettive diverse. Infatti, nel saggio di N., Il problema dell’ateismo, definie la peculiarità della storia  contemporanea per il suo carattere di storia filosofica. Il mio  punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era  semplice: se si riconosce un carattere  genuinamente  filosofico all'opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la  sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una  filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella  realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica)  opposta a quella di un mondo che diventa filosofia  nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può  essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista,  essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia  precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi. Non  soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo;   una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è  per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione  efficace a trasformare la società e il mondo; e per  riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi  parve di doverla definire come l’età dell’espansione  dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa,  parlare d’epoca della secolarizzazione, servendomi di un  termine che ora è divenuto corrente. Secolarizzazione e dr O ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta;  ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa  età vuol essere — processo verso una situazione in cui si  possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e  siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest'epoca,  prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della  mia preferenza.    Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir  definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può  essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una  rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra  possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente  europea e parlare di un’«epoca del fascismo». Bisognerà  invece parlare del «momento fascista» dell’epoca della  secolarizzazione. Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti  come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in  relazione al fenomeno delle religioni secolari, che  accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo  profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria  delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte  di Stalin. Fascismo e nazismo appartengono interamente al  periodo sacrale; fenomeno nuovo che caratterizza in  maniera precipua il periodo «profano» è la società opulenta.  Anche qui azzardando un'ipotesi, mi pare si possa dire  che Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione  dell’Action francaise rispetto al radicalismo e quella del  nazismo rispetto al comunismo. Non vorrò negare che la  simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è  infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo  la continuazione e lo svolgimento dell’Aczion frangaise che  nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi  sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando  deve trattare del termine medio tra Action francaise e  nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel  considerarlo, infatti, egli accentua, molto giustamente, i  tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose  affinità tra Mussolini e Lenin. Si avrebbe dunque, nel  momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel  momento iniziale (Action francaise) e di nuovo scompare nel  momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è  almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di  fascismo?   Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si  possano sussumere sotto il comune concetto di  controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la  trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti  all’ispirazione dottrinaria dell’Action francaise, come il  fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una  stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda  delle condizioni culturali ed economiche dei Paesi in cui si  era realizzata, o se invece l’attenzione debba  prevalentemente venir portata sulle differenze. Se ci si mette  in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità  interpretative. Si devono distinguere qualitativamente i  movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo,  riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi  fenomeni? 2) Si deve invece parlare di fascismo e di  nazismo, come di fenomeni per essenza diversi? Come si  vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di  affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al  fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre  altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante  dei regimi autoritari.  La distinzione così di fascismo come di nazismo dal  nazionalismo propriamente detto può essere stabilita  facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un  tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un'eredità,  quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a  valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli  soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò si  può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta  idea della tradizione). ! Il fascismo concepisce invece la  nazione non più come un'eredità di valori, ma come un  divenire di potenza. A diversità del nazionalismo, la storia  non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione  continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione  su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels, che  riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il  primo movimento che avesse combattuto marxismo e  comunismo da un punto di vista non reazionario; * sta in ciò  la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler  mantenne sempre per Mussolini. Assai più che i tratti comuni importano però le differenze.  In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere  storicamente definito come la piena realizzazione e il  completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha  accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e  dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx  (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito  rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di  Mussolini è il miglior documento per lo studio dell’idea di  rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e  connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa nei primi decenni del Novecento. La successiva biografia di Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi  sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata  l’attenzione: che fu fondato da colui che giustamente può  essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra  mondiale, del comunismo europeo; che l’ascesa di  Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della  cultura idealistica, che l'avvento del fascismo ha coinciso  con l'epoca del completo successo di questa cultura, che vi è  una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e  dell’altra;  che questa cultura idealistica italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, che segna l’europeizzarsi della cultura italiana. Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava  alla figura di Lenin, punto ben visto da Nolte, ma non sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella distinzione tra il vivo e il morto in Marx che la cultura  idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di  fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità  inscindibile tra materialismo radicale e azione  rivoluzionaria, rifiutato.    La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata da Nolte:  «Se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi  da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del  partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il  primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista  europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei  la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del  bolscevismo russo, formatosi, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni  caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del comunismo italiano postbellico egli fu anche il promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta  intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della  vittoria fascista. Il suo “volontarismo”, che a torto si è  tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è  che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale  volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la  teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto  analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del decorso spontaneo. Dove è giusto parlare di analogia,  non di ortodossia marxista. Il «volontarismo» di Mussolini  non è la «dialettica» di Lenin; è il rifiuto del materialismo  marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del  materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista.    Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa  l'atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più  rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella  liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato  dal momento materialistico e dall’utopistico? L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è  stata detta «non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi  della filosofia» di Lenin, autentico definitore su questo  punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai  chiara. Sotto un primo riguardo il momento materialistico  significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere;  sotto il secondo assai più importante — che implica la  conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero  utopistico nel pensiero rivoluzionario è intrinseco alla  finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta  all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica  nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto  il pensiero dell’uomo è praxzs, attività sensitiva umana,  pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la  sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale  materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo. Separato dal materialismo, lo spirito rivoluzionario si  converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si  suol dire con un termine diventato logoro perché sciupato  nelle abitudini del parlare comune, «attivismo»; tensione  verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine,  con la conseguente retrocessione dei valori che, invece di  dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come  strumenti che possono promuoverla. Ma non basta: la logica  che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della  personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il  conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti  cessano di essere fini in se stessi per diventare puri  strumenti e ostacoli. Questo disconoscimento è però altra  cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del  disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di  eseguire quel che la legge morale comanda; nel caso, invece,  dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli  altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso  parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di  solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che  l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di  solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica,  il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto. La  totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a  togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra  che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che  proietto davanti a me per superarlo. Sul termine si potrà  discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini  non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta  sempre che l’anarchismo cerca l'abolizione del potere, e  invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria,  perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini  abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di  comunista. A me pare che partendo da una fenomenologia  dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti  contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha  giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini!  Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di  personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se  medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore  di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un  significato morale, un valore che non fosse provvisorio,  strumentale, tattico. Partiamo dal primo, dal personalismo.  Bene Cantimori lo ha delineato. Questo senso  della potenza, questa volontà di predominio che lo fa  identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo  fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della  lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà,  consapevolezza e affermazione della propria individualità...  e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente  presente, cosciente della propria volontà e della propria  individualità, continuerà sempre: l’identificazione spontanea  con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale  consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in  dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza  ottenute». Per sé, l’identificazione con la causa del proprio  popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae  la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di  predominio, in un protagonismo politico che è  consapevolezza e affermazione della propria personalità; che  altro può significare questo se non un’identificazione che si  opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una  specie di assorbimento, per così dire, del popolo in sé? Di  qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui:  l'esclusivo e feroce culto di se medesimo, l'eccezionale  energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il  male, il nessun indizio di senso del diritto. Rispetto a cui è  da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di  Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si  potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella  disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza  di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di  autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel  disconoscimento della personalità morale degli altri. Qui è  anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il  liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva  insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza  della finalità ultima dell’azione gli concedeva infatti una  disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo,  ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore  che non fosse appunto provvisorio e tattico. Di qui l’altra  contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che  come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva  esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa  azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà  dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c'era una  realtà storica nuova, il Regno d’Italia, e fu  Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo  rapporto, veramente l’antiCavour.   Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui  Mussolini non poteva essere un «capo»; ciò, però, non già  perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, «il tipo  concentrato del piccolo borghese italiano», ma in ragione proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a  trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli  altri come una forza di cui disporre. Da ciò anche la  continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui  si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze  con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di  contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si  davano per tali. Onde perfettamente De Felice ha scritto  che «credendo così di essere l’arbitro di tutto, non si  accorgeva che, di compromesso in compromesso, il suo  margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica  delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo  soffoca progressivamente, e lo riduceva a un piccolo  Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i  muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di  spire che lentamente lo avrebbero soffocato. Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua  incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il  ricorso al pessimismo di MACHIAVELLI per sentire questa  solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio a MACHIAVELLI è tra le pagine che meglio illuminano  la sua personalità. Né c’è difficoltà a intendere come  potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di  parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa, e  l’incapacità di colloquiare con gli uomini in quanto singoli, e  di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della  Psicologia delle folle di Le Bon; gli rivelava i meccanismi che  determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella  tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi  interventi. Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’élite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi  uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro  volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo  essere le coscienze più diritte.    Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre  un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in  Mussolini la personalità solipsista allo stato puro. Con  l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei  tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la  psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà  dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria,  pensata come contraddittoria col materialismo; dalla  irrazionalizzazione, se si vuol dir così, della posizione  rivoluzionaria. È a questo punto che deve esser posto il problema del  rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però  guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della  cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e  ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in  quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice  demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento,  a seconda della possibilità di successo; di cui poi è  specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al socialismo o all’interventismo democratico. Certo, non  poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò  contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche,  e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in  relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto  questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e  quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del  socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava;  del marxismo ripensato nella cultura positivistica di fine  Ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai  rivoluzionari. Perciò anch’egli fu detto e si disse  volentieri idealista perché «aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò a infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della  violenza di Sorel, l'intuizione di Bergson, il prammatismo, il  misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni  era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo. È  il noto giudizio di Croce, non inesatto, ma tuttavia  generico, e che per questa genericità rischia di sviare. Maggior significato si deve dare alla rievocazione,  singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustra a De Begnac il processo che l’aveva  portato più di vent'anni prima alla fondazione dei Fasci di  combattimento. Le guide spirituali erano rimaste indietro  di mille anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della  lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una  sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un  libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma  pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il  suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad  un qualche interesse alla vita. VITI, MARCO, EINAUDI,  RICCI e, soprattutto, PANTALEONI e Pareto. Sorel sembrava  appartenere ad altra età, ormai. GENTILE preparava la strada  a chi come me avesse desiderato camminare su di essa. Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che Mussolini abbia  guardato a Gentile, anche se questi, particolarmente dopo  Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come  indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di  Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini «fascista»  succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti  della disputa italiana sul marxismo teorico, CROCE e Sorel,  non gli parlavano più. Mentre invece la sua veduta sul  momento storico si incontrava con quella di Gentile. Ora, la  veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può  separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua  volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con  la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista come  l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso  dell'incontro di Gentile e Mussolini. Presenta certo degli  aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il  Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per  il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di  un’influenza di Nietzsche, come pure degli altri autori che  possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel,  Pareto, Le Bon. Genericamente possiamo dire che fu un incontro per  negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era  travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per  l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a  modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel  riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le  stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo. Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno  di una legittimazione culturale. Facilmente si è portati da ciò  al pensiero di un'illusione del filosofo, accortamente captata  dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e  la conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come  Gentile possono venir detti eretici rispetto al marxismo, è  strettamente simile. È giudizio ormai corrente che quel  primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla  filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx) non  è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può  infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissociato  dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo  definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo. È una posizione che deve venir vista come unica, perché  non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di  ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che  aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra  storica), e meno che mai, si intende, a quella  dell’intransigentismo diciannovista. Fu egli l’unico a vedere  in Mussolini non già una forza atta a servire o per il  consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito  a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di  compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che  pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, O  l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli,  debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma  ultima di questa sua interpretazione. Anche quando tutto  indicava che il fascismo stava per concludersi in una  catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l'impegno a restar fedele  nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento  della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso converrà  prender le mosse dallo saggio su Origini e  dottrina del fascismo. La data è molto importante. Esso  appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con  il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si  era messo all'opposizione, ma dopo che aveva ragionato i  motivi di questa nella Storsa d’Italia. Il primo paragrafo si intitola Le due anime del popolo italiano prima della guerra, e contiene un’interpretazione  estremamente significativa dell’interventismo e della  partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale. Alla  vigilia e all’indomani della guerra l'animo non era concorde  perché «c'erano nell’anima italiana due correnti affatto  diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da  quasi due decenni e si contrastavano il campo  accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che  richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale  col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare  del vinto, quel che è conservabile». La partecipazione  italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente  come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte  risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale: entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione,  dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la  Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e  militari, se non economici, che queste annessioni avrebbero  potuto arrecare... In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi  più per fortuna che per valore dei suoi figli... Cementare la  Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i  cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa  passione, una comune speranza... Cementarla, questa  Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di  muoversi e di volere, e farsi valere e pesare nel mondo, ed  entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con  una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua  originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e  al’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla  dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile  che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il  sacrifizio. Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione  democratica della Prima guerra mondiale, come lotta per la  libertà delle Nazioni, all'impostazione fascista, e l’insieme  del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo  fascista; insomma, tra il fascismo e quello che  successivamente prenderà nuova forma come Partito  d’azione. Com’erano definite queste due Italie? «I neutralisti  stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione  morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla  bilancia. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia  giolittiana, la seconda dell’Italia mazziniana; ed è appunto  nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il  suo incontro con Mussolini. Mazziniano (quest’ultimo) di  quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua  Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per  riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più  recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista. Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla  separazione tra nazionalismo e fascismo: «Sta in ciò che per  il nazionalismo la nazione è un'entità che trascende la  volontà e la personalità dell'individuo, perché concepita  come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla  coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino  a farla esistere, a crearla. L'individuo nel nazionalismo  diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo  antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o  condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve  vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e  l'individuo si immedesimano, o meglio sono termini  inseparabili di una sintesi necessaria». In breve, quel che  caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal  nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da  cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce  nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori,  nazionalisti e tradizionalisti? Lo stesso atteggiamento viene  da lui assunto nei riguardi della monarchia; nel nazionalismo  essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo  di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per  Gentile «tutto che pareva già in essere, e quasi un legato  ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista,  che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo  gli autori».   Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un  puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del  Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi  scritti, espressa già nella prefazione a SERBATI e Gioberti; e SERBATI e Gioberti e La filosofia di Marx sono due  libri inseparabili. Gentile era ossessionato dal termine di «riforma» al modo  in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma  della dialettica, riforma della scuola, riforma dello stato,  ecc.; ma il termine di riforma significava per lui non già  rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma  attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è  più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di  riforma ordinariamente inteso. E la sua filosofia è veramente  inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica,  continuazione in certo senso di quella riforma cattolica  giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del  modernismo; né ha senso per lui come puro sistema  speculativo, indipendentemente da questa riforma. Egli è  l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea  che va da BRUNO a Gioberti, né del resto egli presentò la sua  filosofia in altro modo; e in certo senso può anche venir  detto l’ultimo dei risorgimentali. Gentile curiosamente ritrova la figura del filosofo  politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e  Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può  essere espresso nella formula che segue: il marxismo  separato dal materialismo e il giobertismo separato dal  platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano. Da ciò  era arrivato a un’interpretazione del Risorgimento che si  ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione  e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però,  per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si  stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si  può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese  come rivoluzione compiuta, così Gentile pensa al  Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto. Dal  mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità  di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni  che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo  stesso nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale  scossa avesse rappresentato per lui la Prima guerra  mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare  il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in  cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale. Ebbe  allora l'impressione che le cose venissero a lui, confermando  la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione,  onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la  marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e  Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi  di religione, in cui l'accento cade sull’impostazione di una  politica religiosa.    Possiamo così renderci conto della necessità  dell'incontro. Era naturale che Gentile pensasse che come  egli, a partire dalla critica teorica di Marx, aveva incontrato  il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per  Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del  marxismo.”   Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non  moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle  illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima non debba esser  posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se  portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il  maggior filosofo italiano del tempo.  D'altra parte non può non essere senza significato il fatto  che le stesse critiche fondamentali mosse contro  l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come  criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che  Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini  si formò di Gentile? È un tema, questo, che non è stato  ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può  pensare che egli non abbia troppo gradito di venir  considerato come lo strumento di una riforma religioso-  politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i  termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie.  Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da  parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del  Fascismo; così mi è sembrato molto significativo  quell’accenno nella conversazione con De Begnac, avvenuta  in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge.  Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.    Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il  fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione  rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare  dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo  teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni dell’Ottocento  e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione  filosofica. Naturalmente, questa definizione non concerne  che la sua forza, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la  sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra  mondiale, il modo in cui avvenne l'intervento, Caporetto, la  trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito  della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso,  ecc.    Come si inserisce in quella che prima si è chiamata  l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve  essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si  badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il  richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar  confermare la validità della soluzione fascista). Ma il termine  alternativa («o loro o noi») può essere inteso in due sensi:  quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in  una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se  Mussolini poté pensare a una prossima  fascistizzazione del mondo. A mio giudizio, è in questo  secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la  differenza tra fascismo e nazismo. Due  uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la  vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve  riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente  sincero. Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua  giustificazione storica, nel senso di condizione della sua  possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto  realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto  arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni. Il constatare però che il fascismo sia fallito come rivoluzione non equivale a  dire che debba esser considerato come fenomeno  reazionario; né a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini  avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria.  Ma la considerazione dell’esito non può servire come  criterio per la definizione dell’inizio. Chi, per esempio, dice  che il comunismo è fallito perché ha portato a una nuova  classe, più oppressiva di ogni altra, non vuol certamente  dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione  reazionaria. Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il  giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali  tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio,  il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche. Quel  che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo  propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori  religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme  antiprotestante e in posizione eretica rispetto al  cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile,  al tentativo di inveramento idealistico del marxismo. AI solito, si risponderà che nessuno pretende realmente  affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo  degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che  nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione  di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non  che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello,  non si ragioni cozze se l'epoca nuova, affermatasi dopo la sua  caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del  nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è  sempre considerato come un fascista più o meno  consapevole, o quasi sempre inconscio; e «fascismo» è fatto  sinonimo di «repressività». Non vorrò certo accomunare a  simili personaggi uno studioso della serietà di Nolte, e sono  ben certo che il suo intendimento è tutt'altro, ma è un fatto che la formula di resistenza contro la trascendenza facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di «spirito di  repressività. Per il significato di quanto ho detto, valga un  esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia  trovato un sostegno valido in quella parte del mondo  cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si  può ben ammettere che un'illusione vi fu, in molti dei suoi  componenti; obbedienti a quella visione cattolica  dell’«antimoderno» che coinvolgeva in una condanna  globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò  la critica del modernismo, e che effettivamente e prevalente (come dimenticare che diede  anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo  combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il  socialismo, ed era destinato a esaurirsi in questa lotta,  lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica. Se  questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per  costoro, di un'illusione; in illusioni rispetto al fascismo  caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché  una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la  loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile:  quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che  abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega  come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del  nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su  di lu (anche Salvemini e Gramsci, al tempo  dell’intervento!). Si è voluto qui mostrare come invece  l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può  essere considerato come il più coerente dei modernisti (in  polemica con altri modernisti per questa sua coerenza)? sia  stata intellettualmente obbligata. È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come  interiormente obbligata l'adesione dei tradizionalisti, di  qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da  illusioni quella degli assertori dello spirito di modernità. E  proprio contro quest'idea, solidificatasi ormai come  abitudine mentale, che il presente discorso è diretto.    Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia  sempre sinonimo di poszzività. Idea, se ben si osserva, che è  intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa  conferisce un significato magico, di parola-forza, al termine  rivoluzione; oggi quasi sempre, come perfettamente osserva  Monnerot, «la parola “rivoluzione” è presa en donne part;  quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca. Re: Gentile e Gramsci, alcune premesse sono necessarie. In che senso dico  prego intendere quanto scrivo alla  lettera  che il pensiero di Gentile rappresenta una svolta di  capitale importanza nella storia della filosofia, in un senso la  più importante del Novecento, e lo dico senza essere per  nulla gentiliano?    In quello che ha portato all'estremo non soltanto, come  normalmente si dice, l’idealismo o la sua forma  soggettivistica, ma la filosofia del primato del divenire,  chiarendone l'esito antimetafisico. È nel suo pensiero che si  trovano, portate all'estremo, tutte le possibili linee del  pensiero antimetafisico. Gentile ha stabilito, cioè, il rapporto  di necessità che intercorre tra la coerenza rigorosa della  filosofia del divenire, e la più radicale negazione della  metafisica. Parlare perciò di una svolta gentiliana della storia della filosofia» significa questo: la sua considerazione  ci permette di giudicare tutte le forme di pensiero  antimetafisico anteriori o successive, e di motivare le ragioni  per cui non possono venire affermate dopo l’attualismo.  Con l'aggiunta: il suo pensiero si svolge interamente entro la  filosofia del primato del divenire; perciò, se si pensa  concluda in uno scacco, permette anche di definire,  facendola almeno intravedere controluce, quella sola linea in  cui il pensiero metafisico può venire ripresentato! O, in  altre parole: la sua grandezza resta identica, per la svolta che condiziona, sia che si parli di successo come di scacco. Che  la mia persuasione sia la seconda, non ha ora importanza. La rivendicata «classicità» di Gentile, dopo un lungo  periodo di oblio, non significa perciò che il suo pensiero appartenga al passato, anzi! Riflettiamo sulle due sue prime  opere che, per la loro data, possono essere considerate come i due ultimi grandi libri di filosofia apparsi  nell'Ottocento, e in cui tutto il suo pensiero successivo si  trova già virtualmente precontenuto, Rosmini e GIOBERTI e  La filosofia di Marx. Ho già dimostrato altra volta come la  sua filosofia, suscettibile di essere definita, se vista  nell'angolo visuale della prima, come «la riforma cattolica  giobertiana resa coerente attraverso lo hegelismo,  rappresenti il punto ultimo, soltanto ora raggiunto da coloro  che si definiscono nuovi teologi, del modernismo religioso. Per quel che riguarda la seconda ho già accennato — ma  devo confessare che il mio pensiero al riguardo non era  ancora, al tempo in cui ne scrissi, sufficientemente  chiaro — alla sua definizione come punto ultimo a cui deve  giungere lo svolgimento dello hegelismo nella forma della  filosofia della prassi; quindi come un oltre-marxismo rispetto a cui il marxismo non si trova nella possibilità di  rispondere.    Si dirà che, la sua fortuna anche qui in  Italia — e si era trattato, del resto, di un successo che aveva  avuto scarsa eco oltre frontiera — è andata costantemente  declinando rispetto a quella di Heidegger, e che  l’arretramento è avvenuto senza resistenza: sintomo, questo,  di cui è superfluo sottolineare l’estrema significatività. È  vero, ma, se ben si guarda, la visione heideggeriana della  storia della filosofia, quale emerge dal libro su Nietzsche,  coincide singolarmente con quella proposta da Gentile, ma  con segno rovesciato: è, cioè, letta come processo verso il  nichilismo. In questo senso, penso sia possibile dire che la  filosofia di Heidegger è la verità della filosofia di Gentile,  quella verità di cui Gentile non si accorse; o che la filosofia  di Gentile è la conferma ante litteram della diagnosi di  Heidegger. Ma è appunto questo che le conferisce la sua  eccezionale importanza attuale; è attraverso il suo studio che  possiamo renderci conto della profondità della crisi del  pensiero teologico-metafisico e delle sue radici. D'altra  parte, la posizione di Gentile (e di Gramsci) nello hegelo-  marxismo può apparire ulteriore a quella di Lukdcs.  Continuamente su Lukécs grava infatti l'ombra di  Heidegger come versione del suo pensiero in forma di  filosofia speculativa; per sottrarsi deve tornare, come fa nell’introduzione alla nuova edizione della sua opera  principale Storia e coscienza di classe, al materialismo  dialettico engelsiano. Cioè proprio quella forma di pensiero  nella cui critica, svolta ne La filosofia di Marx, è uno dei  convergenti punti di partenza dell’ attualismo. Tratterò in questa occasione della questione seguente: se  la proposizione: «La filosofia di Gentile è il punto ultimo  dello svolgimento dello hegelismo in termini di filosofia  della prassi», sia suscettibile di dimostrazione. Ci troviamo  per affrontarla in una posizione privilegiata in ragione  dell’esistenza dell’opera del «marxista dopo la filosofia dello  Spirito», Gramsci. Uso il termine filosofia dello spirito, invece di altre sigle — neoidealismo, neohegelismo,  eccetera — come perfettamente adeguato rispetto alle  negazioni che lo specificano. Quella filosofia italiana che  genericamente viene detta idealistica, e che è la prima  filosofia dopo Marx che sia sorta nel mondo facendo  inizialmente i conti col marxismo, non può infatti venir  caratterizzata altrimenti che come «filosofia dello Spirito»:  contro la metafisica per la negazione dell’intuizione  intellettuale, contro il positivismo, per la sua subordinazione  alla metafisica, che lo costringe a esprimersi come  naturalismo. In questo senso generale la filosofia dello spirito abbraccia così l’opera di Croce come quella di  Gentile. Il rapporto col marxismo è patente: al modo del  Marx filosofo, CROCE e GENTILE rifiutano così Platone come  Democrito, così l’idealismo metafisico come il materialismo  naturalistico. Per raggiungere la piena coerenza in questo  assunto, rifiutano anche il materialismo di Marx. Il successo  del neomarxismo in Italia dopo la «filosofia dello Spirito»  non può quindi venir inteso come un accidente, dato che è  la riapertura di un problema interno al suo processo di  costituzione. Quanto al neomarxismo di Gramsci, vuol essere la riaffermazione di Marx dopo la filosofia dello spirito,  correttamente intesa come riforma dello hegelismo quale si  rendeva necessaria dopo il marxismo, o come tentativo di  vittoria sul marxismo, all’interno della riforma dello  hegelismo. Vuole portare cioè il marxismo al massimo rigore  critico, liberandolo da tutte le incrostazioni positivistico-naturalistiche, o paleomaterialistiche o giusnaturalistiche o  neokantiane. Il suo problema è rigorosamente filosofico,  dato che la vittoria del marxismo è legata per lui alla prova  della sua verità filosofica. Rivoluzione e filosofia vera fanno  per lui tutt'uno. Si può enunciare perciò il suo problema nei  termini seguenti: come la rivoluzione mondiale, perché  totale, è possibile? È noto come su questo neomarxismo circolino due  giudizi opposti. Per il primo sarebbe la forma più rigorosa  che il marxismo abbia raggiunto in Occidente e l’unica che  possa dar luogo a una prassi politica capace di portare al  successo i partiti comunisti occidentali. Per il secondo  sarebbe una sorta di marxismo diminuito, accompagnante il  processo di dissoluzione della rivoluzione come sua  involuzione borghese, condizione dell’affermarsi della  nuova classe borghese quale che possa essere il successo del  suo partito, giudizio che fu portato alle conseguenze estreme  da un comunista non secondo a nessuno per integrità  morale, BORDGIA (si veda). Entrambe le vedute sono vere; ma  quel che può sembrare paradossale e curioso (ma si  dimostrerà come non lo sia) è che la prima è vera per il non  marxista e non comunista, la seconda per i marxisti e  comunisti autentici. Per anticipare brevemente quel che è il  mio punto di vista, dirò che vedo nel gramscismo non già il  marxismo contagiato da influenze filosofiche estranee, ma la sola forma in cui esso può riaffermarsi dopo la «filosofia  dello Spirito»; questa posizione non può però venire  assimilata a uno sviluppo del marxismo, e la realtà storica a  cui può dar luogo è ben diversa da quella significata nel PRINCIPIO SPERANZA. Ma, d’altra parte, è inutile cercare  dopo Gramsci un miglior» marxismo, a cui corrisponda  una più adeguata politica. Ricordiamo per brevissimo accenno le tesi del marxismo  antigramsciano. Esse hanno a punto di partenza i giudizi di  chi prende posto nella storia contemporanea come il più  intransigente moralista in nome del marxismo letterale e del  comunismo nella sua versione ideale, BORDIGA (si veda), e  hanno trovato la più rigorosa espressione filosofica in uno  dei migliori libri che sul pensatore sardo siano stati scritti,  quello del marxista eterodosso Riechers.  Riechers, che pure non mostra di avere una conoscenza  approfondita del pensiero gentiliamo (al punto di  accomunare la posizione di Gentile nei riguardi del  marxismo a quella di Rodolfo Mondolfo), tuttavia, sul piano  teorico critica Gramsci per aver sostituito al materialismo  marxiano un idealismo soggettivo di stampo kantiano-fichtiano, piuttosto che hegeliano, a cui corrisponderebbe  sul piano politico una curiosa vicinanza al fascismo di  sinistra. Scrive, infatti: «Questi fascisti di sinistra la  maggior parte dei quali confluì dopo la fine del dominio  fascista nel socialismo e nel comunismo, hanno soltanto da  sostituire l'attributo fascista con quello di democratico,  socialista o comunista, per scoprire negli scritti di Gramsci  una posizione analoga alla loro. Tolto il tono polemico, la  frase può essere intesa nel senso seguente: il neomarxismo di Gramsci appartiene a una rivoluzione ulteriore al leninismo,  di cui fascismo e postfascismo sono momenti che si avversano mortalmente, ma nello stesso orizzonte; e lo  stesso vedere nel fascismo un delitto, proprio degli  antifascisti, è posizione di chi deve chiamare delitto un  errore perché partecipa dello stesso errore. Orbene, uno  studio approfondito di Gentile può perfezionare la tesi del  Riechers, portandola a un altro significato che coinvolge la critica anche dell’eterodossia marxista. La questione che ho proposto mi porta a una serie di tesi  la cui enunciazione può sembrare sconcertante, anzi  stupefacente. Soltanto la discussione del tema Gentile-Gramsci ci  mette in grado di formulare adeguatamente le categorie  interpretative della storia contemporanea. Con la sua discussione giungiamo al momento  conclusivo di quella che suol venir detta interpretazione  transpolitica della storia contemporanea, cioè quella che  privilegia, in detta storia, come l’essenziale, il momento  filosofico; o che è attenta al parallelismo tra filosofia e  politica come tratto nuovo che la specifica. Possiamo parlare in questo senso di un paradigma  italiano, decisivo per una lettura veramente adeguata di  detta storia (dato che Gentile e Gramsci possono trovare  spiegazioni soltanto nella storia del pensiero italiano).  Si tratta, del resto, di paradossi soltanto apparenti. Il  carattere che accomuna le filosofie di Marx e di Gentile è di  essere, entrambe, svolgimenti dello hegelismo nel senso  della filosofia della prassi. Di questi svolgimenti, quale il più rigoroso? Il pensiero di Gramsci, che ha presenti entrambe  le filosofie, e che è guidato dalla più ferma intenzione di  riaffermare il marxismo, ci dà la possibilità di una soluzione  rigorosa della questione. Ma perché ho parlato altresì delle categorie interpretative  della storia contemporanea, e della possibilità di graduare,  nella sterminata letteratura sull’argomento, il momento di  verità delle varie tesi, solo a partire dalla soluzione di tale  problema? Nel suo aspetto rivoluzionario la storia  contemporanea non è altro che il passaggio alla realtà di  queste due filosofie della prassi. La rivoluzione  marxleninista e le sue eresie, per un verso; per l’altro, l’idea  di una rivoluzione occidentale ulteriore alla rivoluzione  russa, in quanto adeguata a paesi superiori per civiltà e  cultura, o per essere più esatti, per grado di  modernizzazione. Non a caso questa idea maturò  soprattutto in Italia in relazione così al tentativo di riforma  dello hegelismo come all’interventismo rivoluzionario (la  guerra come rivoluzione, o per la rivoluzione) e incontrò la  filosofia di Gentile, anche se assunse poi forme opposte fino alla morte (ma la lotta fino alla morte caratterizza pure le  forme divergenti sorte sull’orizzonte del marxleninismo).  Poniamo ora si riesca a dimostrare — ed è l’assunto che mi  propongo — che il neomarxismo di Gramsci non è più  marxismo nella misura in cui cede all’attualismo. Avremo  che la politica che esso promuove prende posto in una  rivoluzione ulteriore alla marxleninista, non già, cosa che  Gramsci avrebbe ammesso, o anzi a cui esplicitamente  lavorò (da ciò il suo dissenso con lo stalinismo), perché il  modello russo non può essere trasportato identico nei Paesi  occidentali, ma perché 07 più marxista. La domanda che sorge è se, nonostante l'opposizione mortale, non si debba  vedere una continuità tra il periodo fascista e il postfascista,  come continuità di un processo di dissoluzione. In termini  filosofici, se la filosofia del primato del divenire, dopo aver  elaborato il concetto di rivoluzione totale, giunta al suo  punto ultimo, non lo rovesci in quello di dissoluzione, di  processo verso il nichilismo.  Trasportiamo la considerazione sul piano mondiale. Se  l’attualismo è la forma filosoficamente rigorosa della  filosofia della prassi, il marxleninismo si risolve in ideologia,  nel senso di strumento di potenza (ossia, Lenin ha  trasformato il marxismo in ideologia). Perciò la rivoluzione  che esso ha promosso ha dato luogo alla forma estrema  dell’imperialismo (questo è il senso profondo, filosofico, con  cui si può render ragione del fatto dell’imperialismo  sovietico, al di là delle intenzioni di dirigenti). Viceversa, la  forma filosoficamente più rigorosa, non realizza la  rivoluzione, ma il suo opposto. Questo aspetto della storia contemporanea non deve però  produrre meraviglia, né far pensare all’irrazionale se si  osserva il fatto che la contraddizione della filosofia della  prassi, come termine ultimo della filosofia del primato del  divenire, non può esplicarsi che storicamente e  praticamente. È    In dipendenza delle considerazioni sinora svolte, la  trattazione presente deve articolarsi in tre punti. Gramsci pensa di poter risalire da Croce a Marx,  perché la filosofia di Croce sarebbe il tentativo, fallito, di  ritraduzione del marxismo in forma di filosofia speculativa.  Ossia, egli pensa di aver compreso il segreto di CROCE. Questi aveva presentato l’avversario contro cui muoveva,  ora come il positivismo, ora come la filosofia teologizzante,  o anzi, come il genere filosofia senz'altro (con la proposta  della sostituzione della metodologia alla filosofia), ora come  l’irrazionalismo: Gramsci dice che è serzpre soprattutto il  marxismo, e che quello di Croce è l’unico tentativo serio di  vincerlo. Per cui, dopo il suo fallimento, il marxismo  emergerebbe nella sua forma più rigorosa. In questa asserzione c’è del vero nel senso che la filosofia  di Croce è una «ritraduzione in forma di filosofia  speculativa di un’altra filosofia». Ma quest'altra filosofia è la  filosofia della prassi di Marx o invece quella di Gentile? Si  può dimostrare come sia questa seconda. Gramsci dunque,  nel suo lavoro di «ritraduzione storicizzante» non incontra  Marx, ma invece Gentile, pur credendo di incontrare Marx.  Questa tesi può avere la sua riprova nel fatto che le  novità del pensiero di Gramsci rispetto a Marx o rispetto a  Lenin — novità che nessuno può negare — non possono  trovare spiegazione come sviluppo del marxismo o del  marxleninismo, mentre invece si accordano con la forma  gentiliana della filosofia della prassi (rappresentano il  cedimento rispetto a essa. Come può dunque Gramsci essersi illuso di aver  ritrovato il marxismo, se anche un marxismo diverso dal  marxismo volgare e, per quel che riguarda la lettera, anche  dalle formulazioni criticamente elaborate? Occorre  distinguere la filosofia della prassi’ gentiliana,  dall’interpretazione che lo stesso Gentile ne aveva dato e  dalla politica con cui l’aveva connessa. Effettivamente anche  un’altra ne è possibile, quella svolta da Gramsci. Si tratta  quindi di porre in chiaro come nell’attualismo, e più precisamente nella veduta attualista della storia della  filosofia, ci siano possibilità politiche diverse: l'una porta il  risorgimentale Gentile all’adesione al fascismo, l’altra al  rivoluzionario Gramsci. Si tratta, tuttavia, di una rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione: il nome di questa rivoluzione  che si rovescia in dissoluzione è: «contestazione. Non è un  caso che Gramsci sia forse l’unico filosofo marxista la cui  fama abbia resistito alla contestazione nelle sue forme  anarchiche, o si sia anzi successivamente consolidata. Se dunque Gramsci ha ragione nello scrivere che «la  filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò  non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è  tutta la trascendenza e la teologia, ha poi storicamente  torto nell’identificare col marxismo la filosofia della prassi  che egli avrebbe ritradotto. Ha parimenti torto nell’idea  dell’ossessione del marxismo, raffigurato come avversario  sempre presente alla mente di Croce, anche se ossessione  quasi sempre sottaciuta; perché la tentazione rivoluzionario-  marxista era stata accesa in Croce da Labriola, e poi criticata  senza troppa difficoltà in questa forma labrioliana, e i motivi  della critica rivoluzionaria si erano rovesciati nella critica  della mentalità radicale, e nell'accordo, su questo punto, con  Sorel. Come dalla critica di Labriola fosse riportato allo  Herbart, ho detto altrove: non più, per la verità, come al  moralista che nella prima gioventù gli aveva fornito un  purismo etico, giovevole come un’armatura, onde egli mi  rivestiva contro il disfacimento dell’etica operato  dall’associazionismo, dallo psicologismo e dall’evoluzionismo e dall’utilitarismo che stava sempre nel  fondo di questi tentativi, ma al filosofo che aveva sentito  l’importanza della distinzione; e affermato una linea che  porta Croce attraverso il riconoscimento dell’autonomia del  momento economico alla hegeliana riconciliazione con la  realtà. Intenzione — sinora, per quel che so, non segnalata,  ma che la corrispondenza rende chiara del Gentile de La  filosofia di Marx è di portarlo al suo pensiero attraverso una  considerazione del marxismo più profonda di quella di  Labriola, condizionante una critica più rigorosa di quella di  Croce; segnalandogli una filosofia di Marx più profonda di  quella dell’antDibring, a cui Labriola sostanzialmente si  atteneva. Si sono dette le ragioni, profonde per riguardo alle  esigenze spirituali, che portarono Croce alla filosofia, tali da  spiegare perché questo tentativo doveva andare fallito;  separando Croce le accettate critica dell’intuito metafisico e  affermazione del formalismo — che rendono possibile  anzitutto la costruzione di un'estetica liberata a un tempo  dalla metafisica e dal naturalismo dalla filosofia della  prassi. In quegli anni Labriola e Gentile  si contendono CROCE, senza riuscire completamente né l’uno  né l’altro nel loro intento; e senza intendere appieno, né  l’uno né l’altro, le ragioni della resistenza. Dunque l'esame, preciso al mio credere, anche se  rapidamente accennato, dei rapporti tra la filosofia di Croce  e di Gentile, porta a dire che Gramsci, nella sua  ritraduzione, avrebbe dovuto ritrovare Gentile, o ripensare  in forma attualistica il marxismo, dato che la filosofia di  Croce è l’esatta traduzione in termini di filosofia speculativa,  non del pensiero di Marx, ma di quello di Gentile. Avrebbe  dovuto: il condizionale dimostra che quanto abbiamo detto non è ancora una prova sufficiente del suo attualismo. Potrebbe infatti darsi che Gramsci avesse condotto un  parallelo tra lo storicismo marxiano e il crociano, mostrando  la superiorità del primo, e avesse poi voluto far coincidere  questa ricerca con la dimostrazione che il ripensamento  italiano dello hegelismo doveva logicamente concludere con  la riaffermazione del marxismo. Le due ricerche potrebbero  essere di diritto autonome, e l’eventuale insuccesso della  seconda non inciderebbe sulla valutazione della prima. Non  è tuttavia così, e realmente quel che Gramsci chiama  marxismo è il risultato coerente della ritraduzione di Croce,  così coerente da ricostruire dopo il crocianesimo  l’attualismo, come se procedesse dalla traduzione al testo  originale. Possiamo convincercene attraverso varie vie. La  prima è la coincidenza puntuale tra la critica gramsciana  dello storicismo di Croce e la gentiliana. La seconda è la  formulazione nuova che in Gramsci trova il concetto  marxiano di società civile, con le sue implicazioni, tra cui  quella dell'abbandono dell’economismo e del materialismo  marxiani. La terza è la posizione rispetto a Labriola, #  inconsapevolmente identica a quella di Gentile. Si può dire  che l’invito che questi aveva rivolto a Croce sia stato invece  recepito da Gramsci. La quarta è il modo in cui è inteso il  blocco storico. La quinta è il giudizio sulla funzione capitale  accordata alla filosofia italiana nel processo di  modernizzazione rivoluzionaria. La sesta, la differenza da  Lenin rispetto alla nozione di egemonia.   Per gli ultimi cinque di questi punti, se ne trova la miglior  conferma in uno scritto che Norberto Bobbio ha dedicato a  Gramsci e la concezione della società civile e che è il più  penetrante nella linea, per dir così, gramsciano-azionista, che è anche accettata, sostanzialmente, in quanto riforma  del marxismo e del leninismo che è insieme loro sviluppo,  dal comunismo occidentale. Da uno studioso di cui è nota la  scarsissima simpatia per Gentile e che non pone infatti la  domanda essenziale: se quella che pur chiama «la profonda  innovazione che Gramsci introduce in tutta la tradizione  marxista possa essere considerata uno sviluppo del  pensiero marxiano, o risulti invece dall’accettazione della  critica gentiliana, inconsapevole, ma necessaria, dato  l'assunto di tradurre in linguaggio storicizzato il pensiero  speculativo di Croce. È piccante osservare come le  precisazioni testualmente esatte del filosofo italiano più  avverso a Gentile rappresentino le tappe per la  dimostrazione rigorosa del cedimento in Gramsci della  filosofia della prassi marxiana rispetto alla gentiliana.    Cominciamo con l’osservare come la critica gramsciana  dello storicismo crociano coincida puntualmente con quella  svolta da Gentile. Che cosa dice infatti Gramsci? Che al  divenire Croce ha sostituito il «concetto» del divenire; che  questa sostituzione coincide con quella del divenire reale  con un divenire dipinto; che la «non definitività» della  filosofia ricopre di fatto la definitività della società  liberale, apparentemente aperta allo sviluppo, in realtà  chiusa alla trasformazione rivoluzionaria; che, insomma, per  usare un linguaggio lukAcsiano, Croce ha semplicemente  sostituito all’apologetica diretta dell'ordine esistente  un’apologetica indiretta. Che lo storicismo di CROCE,  come storicismo separato dalla filosofia della prassi e  dall’unità di pensiero e di azione, è uno storicismo chiuso al  futuro. Se passiamo a considerare quel saggio in cui Gentile  conclude definitivamente i suoi conti con CROCE, Storicismo e Storicismo, riscontriamo una corrispondenza  perfetta. Gentile parla dello storicismo crociano come  appoggiato a fondamenta semplicemente dipinte, perché  all’interno di un realismo e di un naturalismo presupposti;  così da essere uno storicismo della realtà conclusa in cui «il  futuro preveduto o comunque pensato come un qualunque  possibile futuro, è logicamente un passato rispetto al  pensiero che lo raffigura nel sistema necessario della logica. Passiamo ora all’innovazione profonda che Gramsci  introduce in tutta la tradizione marxista, e che non ha in  questa precedenti. Sta nella diversa concezione della società  civile vista come appartenente non al momento della  struttura, ma a quello della sovrastruttura; cioè per Marx la  società civile, intesa come «il vero focolare, il teatro di ogni  storia», comprende secondo la definizione dell’Ideologia  tedesca, poi ripresa nella Critica dell’economia politica, tutto  il complesso delle relazioni materiali fra gli individui  all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze  produttive.& Affermazioni che sono la premessa della  celebre definizione della Critica dell'economia politica. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la  struttura economica della società, ossia la base reale sulla  quale si eleva una struttura giuridica e politica e alla quale  corrispondono forze determinanti della coscienza sociale. Nella scuola marxista si può trattare dell’azione reciproca  tra struttura e sovrastruttura, ma non abolire il primato della  struttura, con la teoria materialistica del riflesso (le idee  come riflesso). Se, come Gramsci, si intende invece per  «società civile» tutto il complesso delle relazioni ideologico-  culturali della vita spirituale, si rimette la dialettica sulla  testa, sia pure in modo diverso da quello che aveva fatto Hegel. La storia non è più, in primo luogo, storia  economica, ma storia delle concezioni del mondo, storia  della filosofia. È quel che attesta il passo gramsciano così  frequentemente citato, secondo cui «la filosofia della prassi  è il coronamento di tutto questo movimento di riforma  intellettuale e morale, dialettizzato nel contrasto tra cultura  popolare e alta cultura. Corrisponde al nesso Riforma  protestante più Rivoluzione francese; è una filosofia che è  anche una politica e una politica che è anche filosofia».&  Detto questo, le altre novità gramsciane che BOBBIO mette in  luce con tanta precisione non possono servire ad altro che a  illuminare meglio la coincidenza tra il distacco di Gramsci  da Marx e da Lenin (non soltanto nella lettera), e la sua,  certamente non voluta né consapevole, subordinazione  all’attualismo. Sembra che Gramsci ripercorra il processo di pensiero di GENTILE da La filosofia di Marx alla prolusione palermitana sul concetto di storia della filosofia, in cui la storia,  in obbedienza, per così dire, al mondo rimesso sulla testa  nel giovanile libro su Marx, viene risolta nella storia della  filosofia. Con la conseguenza, per Gramsci, che il concetto  «borghese» di «modernità» si sostituisce alla versione  rivoluzionaria del concetto di «materialismo»; e sulla base  della «modernità» si ha poi l’incontro tipicamente  gramsciano tra la borghesia progressiva e il comunismo,  quell’incontro così severamente giudicato da BORDIGA (si veda), ma  non da Bordiga soltanto.   La novità rispetto all’idea della società civile è correlativa  all’abbandono dell’oggettivismo di Labriola, come pure BOBBIO acutamente avverte, senza però osservare che  avviene esattamente nei termini che Gentile auspicava. Per LABRIOLA la tesi che «le idee non nascono dal cielo» era  equivalente alla loro spiegazione a partire dalla struttura  economica, secondo la notissima sua frase per cui la  struttura economica determina 77 primzo luogo e per diretto i  modi di regolazione e di soggezione degli uomini verso gli  uomini (il diritto, la morale, lo stato), 1 secondo luogo e per  indiretto gli obiettivi della fantasia e del pensiero, nella produzione della religione e della scienza». Le idee non  nascono dal cielo neanche per Gentile e per Gramsci; ma le  concezioni del mondo hanno rispetto alle istituzioni una  funzione primaria; non sono giustificazioni postume di un  potere, ma forme creatrici di nuova storia. Ora, questo era  appunto il senso del congedo del materialismo marxiano —  dell’ antDibring in nome dell’elemento più positivo e  rigorosamente critico delle tesi — proposto dal Gentile anti-Labriola. La concezione gramsciana della società civile porta  alla critica dell’economismo a cui consegue quella del  materialismo. Marxismo dissociato da materialismo e da  economismo; ma non è una definizione che vale esattamente  per l’attualismo? Con un paradosso soltanto apparente si  potrebbe giungere a dire che il rimprovero mosso a Croce  da Gramsci è di non avere, in quei lontani anni, ascoltato    Gentile. Passiamo a un quarto punto, a quella nozione di blocco  storico, in cui, benché gli accenni contenuti negli scritti  gramsciani siano scarsissimi, si suol riconoscere il nucleo  fondamentale» del gramscismo. Ebbene, in due di questi  pochi passi si dice che nel «blocco storico» le forze materiali  sono il contenuto e le ideologie la forma, affermazione a cui  Gramsci pensa di dover immediatamente aggiungere che la  distinzione di forma e di contenuto è meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero  concepibili storicamente senza forma e le ideologie  sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali;  così che l’unità-distinzione tra la struttura e la sovrastruttura  viene esemplata su quella tra la natura e lo spirito. Frasi di  cui è inutile sottolineare l'accento attualistico. Consideriamo poi la curiosa affermazione gramsciana sul  primato italiano nella promozione della rivoluzione  comunista a rivoluzione mondiale. Per lui, la missione del  popolo italiano è nella ripresa «del cosmopolitismo romano  e medioevale, ma nella forma più moderna e avanzata» non  in quella nazionalistica rivolta al passato. Quanto a dire è  nella continuazione, nella forma che si è detto, della filosofia  dello Spirito italiana, vista da lui come il punto più alto  sinora raggiunto dal pensiero, che il marxismo si eleva alla  sua forma rigorosamente critica, condizione del carattere  mondiale della rivoluzione. Anche se non mi sembra si possano addurre passi precisi  al riguardo, ho l’impressione che il nuovo concetto di  società civile ha tra l’altro la funzione di permettere,  attraverso una giustificazione filosofica, la fondazione in  linea di diritto della novità del leninismo rispetto a Marx: la  nozione di egemonia, ossia l’idea del partito come  strumento rivoluzionario permanente. Il leninismo aveva  parlato dell’egemonia come «direzione politica», andando in  ciò oltre al marxismo nella direzione volontaristica e  partitica; per Gramsci bisogna subordinare questa direzione  politica alla direzione culturale. Si potrebbe dire che il  progresso politico di Lenin su Marx importa filosoficamente  per Gramsci un nuovo concetto di «società civile» che può  trovare il suo fondamento solo nel passaggio dalla prima alla seconda forma di filosofia della prassi: è questo un punto  che meriterebbe di venire svolto con particolare attenzione.  Anche se non si possono trovare citazioni precise, credo si  possa considerare pensiero centrale di Gramsci quello che la  riforma teorica del marxismo conseguente alla riforma  italiana del pensiero classico tedesco rende anche possibile  la riforma politico-culturale del leninismo. Altrimenti — non  sembra arbitrario attribuire questo pensiero a Gramsci — si  va fatalmente a cadere nelle due opposte deviazioni, quella  di Stalin e quella di Trockij. Perché si può dire che in  entrambe egli dovesse vedere la conseguenza del non risolto  problema leninista; nello stalinismo prendeva la forma della  subordinazione della teoria alla pratica, con la conseguenza  della trasformazione del marxismo in un’ideologia di potere  che doveva, in definitiva, portare al social-imperialismo. Quanto al trockismo, la giusta esigenza di non troncare il  processo rivoluzionario non poteva trovare soddisfazione  sino a che non si fosse elaborata una filosofia rivoluzionaria  con significato veramente mondiale.    La priorità della direzione politica poteva cioè portare alla  formazione di una volontà collettiva, nel senso di volontà  universale, solo a condizione che fosse subordinata a una  concezione del mondo, non più usata strumentalmente, ma  valida perché vera, tale da imporsi agli intellettuali. Ciò  aveva portato alla delusione degli stessi intellettuali marxisti  occidentali rispetto al comunismo russo, e alla loro  solidarietà con gli intellettuali liberi o socialdemocratici  nella convinzione che la rivoluzione marxleninista fosse  fenomeno russo e non inizio della rivoluzione mondiale. Come reazione di Gramsci a questa impressione deve essere  inteso quel passo ricordato dianzi sulla missione del popolo italiano. La rivoluzione mondiale deve, cioè, procedere  dall’Italia: in dipendenza di quella rielaborazione veramente  critica del marxismo, che sarà il risultato di quell’opera fr  ewig [per sempre] a cui egli si accinge dopo la sconfitta  politica e a cui lavora negli anni del carcere. Il lungo giro che si è percorso ci riporta, certificandole,  alle ipotesi pronunziate all’inizio. È frequente il discorso  sull’insuperabilità della crisi che il marxismo non può  confessare, e che non può confessare perché è insuperabile.  Ora, soltanto #/ necessario cedimento di Gramsci rispetto a  Gentile ci permette di definire questa insuperabilità.  Davanti alla filosofia dello spirito italiana non ci sono per  il marxismo filosofico che due vie: o respingere  assolutamente tale filosofia dalla storia del pensiero,@ o  trasformarsi nel senso gramsciano. Finché si porti  l’attenzione sul solo Croce, la tesi del marxismo di Gramsci  può ancora, e sia pure con un po’ di difficoltà, essere  sostenuta: il suo è uno dei vari modi in cui può essere  sostenuta entro il marxismo la tesi dell’unità di struttura e di  soprastruttura; il gramscismo può anzi essere visto come la  forma più liberale che il marxismo sia suscettibile di  assumere. Le cose cambiano completamente, come si è  visto, quando si ponga il problema del rapporto con  l’attualismo. D'altra parte evitare questi conti è impossibile  perché sia marxismo che attualismo si presentano come  l’esito della filosofia classica tedesca. Bisognerebbe  dimostrare che l’attualismo è un’involuzione, ma dove  ravvisare l'elemento involgente? La considerazione del modo con cui Gentile incontra il punto nodale del pensiero  marxiano, tronca anzi ogni possibile discorso  sull’involuzione attualistica dello hegelismo nel giobertismo,  nell’ideologia italiana, eccetera; tutti i discorsi del  cattaneismo oggi corrente. A partire dal rapporto Gramsci-Gentile viene così anche  definito il limite del marxismo di sinistra antigramsciano.  Ha ragione quando afferma che il neomarxismo di Gramsci  non è effettivamente più marxismo; non però perché  contagiato da influenze che avrebbe subito, in qualche  modo passivamente, dall'ambiente culturale, o perché il  modo di pensare del suo autore non sia stato rigoroso: si  deve invece dire che rappresenta esattamente quel che il  marxismo deve diventare quando vuol prendere posizione  rispetto alla «filosofia dello Spirito» italiana. Meglio ancora:  come già si è visto, l’originalità incontestabile del pensiero  gramsciano, quel che ne fa il più notevole tra i commenti  filosofici al marxleninismo, sta nel fatto che, richiamandosi a LABRIOLA (si veda), ha posto il problema dell’autosufficienza del marxismo, necessaria perché la rivoluzione non venga  riassorbita nel vecchio mondo; da ciò l’eccezionale  importanza che, a mio giudizio, ha il suo scacco. La critica  di sinistra non può procedere oltre dopo il rilievo del  nonmarxismo di Gramsci: la sua verità rispetto a giudizi di  fatto abbisogna di una diversa giustificazione teorica.  Questo marxismo di sinistra respinge il Diazzat come  ideologia, e respinge insieme il gramscismo e, senza dubbio,  le sue osservazioni sono molto pertinenti per quel che  riguarda le conseguenze pratico-politiche del gramscismo. Non sa tuttavia indicare la forma di marxismo critico che  possa venir sostituita alla posizione di GRAMSCI; ed è dogmatico nella convinzione, ancora, di una rivoluzione nel  senso del marxismo dopo che ha rifiutato e deve rifiutare  tutte le forme in cui sinora si è realizzata o si propone.  Quanto si è detto porta al non piccolo risultato del  riconoscimento di un’impotenza non superabile. La vera formulazione della crisi insuperabile del  marxismo teorico riguarda dunque il fatto se sia coinvolto  nello scacco dell’attualismo, da intendere non come scacco-  fallimento, ma come scacco-occasione di una svolta nella  storia del pensiero. Ogni altra critica appare esterna rispetto  a questa: che mostra come, percorrendo lo svolgimento  dello hegelismo nella forma della filosofia della prassi, non si  possa evitare l’attualismo come momento ultimo. Di quale  portata sia questa critica ci accorgiamo considerando come  quella che si potrebbe chiamare «prigionia gramsciana del  marxismo nell’attualismo» porti a rovesciare la rivoluzione,  nel senso marxiano del termine, in dissoluzione. Non è  senza significato che oggi si affacci l’idea che la  contestazione (definibile appunto come rovesciamento della  rivoluzione in dissoluzione) abbia compiuto un’opera  selettiva tra i teorici del marxismo, risparmiando il solo  Gramsci come elaboratore dell’unica strategia capace di  render possibile il passaggio al comunismo nei Paesi  occidentali. Ma come spiegare le opposte disposizioni politiche di GENTILE e di GRAMSCI? Analizzare così il particolare fascismo  di GENTILE come il comunismo di Gramsci può portare a una  visione della storia contemporanea diversa dalle abituali.  Nelle relazioni che ho ascoltato mi è sembrato di sentire una  certa reticenza nei riguardi del fascismo di Gentile, quasi si  trattasse di un tema su cui fosse preferibile non insistere. Bisogna riconoscere che se fascismo vuol dire credere nella  funzione cosmico-storica della personalità di Mussolini,  nessuno fu fascista come Gentile. Come spiegare dunque,  data la prossimità di posizioni filosofiche, il fascismo di  Gentile e l’antifascismo di Gramsci? Cominciamo perciò col considerare a priori le possibilità  politiche contenute nell’attualismo, per passare poi al  riscontro testuale. Tali possibilità sono due, la  risorgimentale” e la rivoluzionaria. La prima si imparenta  alla sua interpretazione in termini di «filosofia cristiana». La  grande cesura nella storia sarebbe rappresentata dal  cristianesimo = che il processo dell’oggettiviimo al  soggettivismo della filosofia cristiana libererebbe dalla rete,  in cui si trovò impigliato, del pensiero greco. A partire da  questo e in relazione alla sua critica del materialismo  marxiano, da lui associato con l’idea rivoluzionaria, GENTILE  può pensare a un Marx oltrepassato in GIOBERTI (si veda), e all’idea di  rivoluzione oltrepassata in quella di Risorgimento, elevata a  vera e propria categoria filosofica. Risorgimento che viene  conseguentemente definito attraverso l’antitesi radicale alle  posizioni descritte ne La filosofia di Marx come conseguenti  al materialismo: ateismo, sensismo, individualismo e  amoralismo, spirito rivoluzionario, negazione della  tradizione. Da ciò lo sganciamento totale del Risorgimento  dall’illuminismo e dallo spirito della Rivoluzione francese e  la sua connessione con la Restaurazione, nel senso di vera  restaurazione, restaurazione del divino. Intesa però non  come semplice riaffermazione del passato, ma come ripresa  e affinamento di una tradizione, dopo che essa era stata  messa in crisi, così che potremmo complessivamente dire  che per Gentile spirito risorgimentale ha il significato di riaffermata religione di SPIRITO (si veda), come spiritualismo  purificato da ogni traccia di naturalismo e di  soprannaturalismo insieme, essendo il soprannaturalismo  per lui, per così dire, una forma di naturalismo iperuranico. Se separiamo però l’attualismo dal suo carattere  «cattolico» o dall’interpretazione religiosa che il suo autore  gli aveva dato, esso assume un carattere rivoluzionario, per  quel che riguarda la sua posizione nella storia della filosofia  (particolarmente visibile, per esempio, nella prolusione  pisana L'esperienza pura e la realtà storica). Ossia:  tutte le concezioni del mondo prima dell’attualismo si sono  mosse nell'orizzonte di una realtà e di una verità  presupposte; certamente la storia del pensiero è quella di un  processo di erosione della concezione oggettivistica e  trascendentistica, e con ciò prepara la «maturità dei tempi»;  ciò non toglie però il salto tra esse, e il rigoroso  immanentismo. L’attualismo non è soltanto il punto d’arrivo  di un processo millenario, ma una rivoluzione; e il passo  ricordato del giovane Gramsci mostra come egli vi vedesse  questo; la rivoluzione filosofica attualista, perfezionamento  del marxismo, poteva ben congiungersi con la rivoluzione  comunista, negatrice delle formulazioni riformistiche o  evoluzionistiche del marxismo. Finora abbiamo parlato dell’attualismo interpretato da  Gramsci in senso rivoluzionario. Proponiamoci ora la  domanda inversa: l’interpretazione in termini di attualismo,  di soggettivistica filosofia della prassi, non porta al  rovesciamento dell’idea di rivoluzione in quella di  dissoluzione? Cioè al nichilismo che è il termine esatto per  indicare questo rovesciamento? A parlare del nichilismo  non può non venire in mente la diagnosi di Nietzsche: l'avventura della rivoluzione a contatto con l’attualismo può servire a mostrare che l’idea rivoluzionaria non riesce a  sormontare il nichilismo. È qui che si manifesta  massimamente quell’enorme potere di negatività, che è il  proprio dell’attualismo. Con un bisticcio di parole, direi che  l’attualismo è oggi attuale, o torna a esserlo, proprio per  questo motivo. La trasposizione sovrastrutturalistica mette  in primo piano la figura dell’intellettuale; e si sa quanta  importanza la sua definizione abbia assunto per GRAMSCI. Ora, si consideri: l'influenza gramsciana nell’ultimo quarto  del Novecento è stata enorme, solo paragonabile a quella  della cultura idealistica nel primo; ma i tipi di intellettuale  che oggi prevalgono sono quello del dissacratore o demistificatore e quello dell’esperto o del tecnico;  quale rapporto hanno con la figura gramsciana  dell’intellettuale organico? Rispondo che sono il frutto  della sua decomposizione. All’intellettuale era assegnata da GRAMSCI una funzione un po’ simile a quella che Marx  assegnava al proletariato: quella di chi, liberando se stesso,  libera il mondo. La decomposizione lo trasforma in  funzionario dell’industria culturale, dipendente da una  classe di potere che ha bisogno così dell’intellettuale  dissacratore (quale custode del nichilismo) come dell'esperto aziendale. Il processo che vi ha portato non è  del resto difficile da ricostruire, per via negativa. Come si  configura, infatti, questo intellettuale? Messo da parte  l’economismo, l'opposizione diventerà quella tra intellettuali  tradizionali e intellettuali progressivi. Come storicisti, questi  non potranno più parlare in nome di un socialismo  utopistico; neppure però di un socialismo scientifico, dato  l’abbandono dell’aspetto materialistico-economicistico, oggettivistico, del marxismo. Semplicemente in nome della  storia come processo di autotrascendimento. L’interpretazione dell’attualismo in chiave illuministica  porterà a una sorta d’illuminismo dopo il marxismo,  dunque a un illuminismo «senza diritto naturale», con la  conseguenza che l’intellettuale progressivo prenderà la  figura dell’intellettuale dissacratore: del devalorizzatore dei  valori finora considerati come supremi. Quella rivoluzione  per erosione, e non per rottura brusca, che è poi la «guerra  di posizione» sostenuta da Gramsci, come tecnica  rivoluzionaria, alla «guerra di movimento», si risolve in una  dissoluzione entro l'ordine dato, che viene privato dei  valori ideali che lo fondano, così che viene chiusa la via a  una loro riaffermazione purificata. GRAMSCI, naturalmente, non ha il minimo sospetto di  questo possibile esito del suo pensiero. Si può garantire che  avrebbe detestato gli intellettuali profittatori dei connubi tra  marxismo, psicanalisi di sinistra e decadentismo sadico. Ci si  può render conto di questa assenza di previsione, se si pensa  alle circostanze politiche che furono l’occasione della sua  riflessione filosofica. In GRAMSCI ordinovista c’è la  persuasione della solidarietà tra la nuova cultura italiana e la  rivoluzione socialista, nella forma in cui avrebbe potuto  attuarsi in Italia. Ed ecco che si verifica il fenomeno affatto  imprevisto del fascismo che attrae a sé il consenso della  maggior parte di questa cultura; in diversi gradi, ma  praticamente è sufficiente il giudizio della sua minore  pericolosità rispetto a quella presentata dal comunismo. Per  il Gramsci dei Quaderni del carcere si tratta di riguadagnare  all’antifascismo la cultura del Novecento italiano, attraverso  l’unica via possibile: la dimostrazione che lo sviluppo coerente del suo motivo più originale deve portarla  all'incontro col marxismo autentico, o, per dir meglio, alla  sua scoperta. SPIRITO dice che GENTILE è il  creatore del fascismo. Si tratta di una frase forse un po’ a  punta, ma che è vera, quando venga bene intesa. Senza la  cultura gentiliana il fascismo non avrebbe potuto prender  forma. Ebbene, si deve dire che GRAMSCI e il creatore  dell’antifascismo, quando lo si distingua dall’opposizione  mossa in nome del prefascismo (quella di CROCE, per  esempio). Sempre presente nei Quaderni è l’immagine del  fascismo come del nemico che si deve evertere; è quindi  naturale che, trasportato in una situazione in cui il fascismo  non sussiste più, l’antifascismo non possa esplicarsi che  come fenomeno dissolutivo. Per esprimere tutto in una  rapida formula, direi che, visti nella loro radice filosofica,  fascismo e antifascismo sono i due aspetti in cui quella  filosofia della prassi che è l’attualismo si dirompe nel farsi  mondo. Ritorniamo al punto già accennato, sul vincolo necessario  che unisce, nel marxismo, materialismo e idea della  rivoluzione totale. Il pensiero di GRAMSCI, in quanto vuole  assegnare al termine materialismo un significato soltanto  metaforico (al di là del mondo storico non c’è nulla), ne è la  completa riprova: la funzione primaria data agli intellettuali  come all'elemento attivo e unificante e al partito moderno Principe come intellettuale collettivo porta in realtà alla  captazione borghese-illuministico-modernista.   Osserviamo infatti. In questa concezione storicistica gli  intellettuali possono operare soltanto come dissolutori delle  verità eterne, svolgenti perciò una critica che include quella  dell'aspetto escatologico del marxismo. Il momento negativo del pensiero rivoluzionario si dissocia così dal  positivo e si fa negazione, piuttosto che dell’ordine esistente,  dei valori ideali che lo legittimavano. Esercita un’azione  dissolutiva che non distrugge le classi, ma porta al dominio  di una nuova classe, che tratta ogni idea come strumento di  potere. Il processo è quindi da uno stadio all’altro, più  razionalmente organizzato, del dominio di classe. Si trova una precisa conferma a questa tesi se si porta  attenzione alle cose più pertinenti che siano state scritte  negli ultimi anni, così su GRAMSCI come su GENTILE. Così, è  stato giustamente osservato da Riechers come il socialismo si  riduca fondamentalmente per GRAMSCI a un modo di  produzione capitalistica separato dalla figura  dell’imprenditore e in cui il funzionamento del piano è  controllato dagl’intellettuali organici (la nuova classe);  e che per lui sembra esistere un’economia indifferente alle  classi, il cui sviluppo naturalmente positivo si trova impedito  da retrivi gruppi sociali. Per un verso, dunque, rivoluzione è scissione completa col vecchio mondo, e tutto il suo  lavoro è svolto a definire l’idea, in questo significato  scissionistico; di fatto, questa purificata idea rivoluzionaria è  destinata a rovesciarsi nel senso che si è detto.  [sal Si potrebbe dire che negli atteggiamenti storico-politici  opposti di GENTILE e di GRAMSCI si conclude la polemica tra MAZZINI e Marx. Si conclude però nel modo più singolare,  estremamente istruttivo così per il pensiero filosofico come  per il politico. Marx aveva stabilito la solidarietà tra filosofia  della prassi, rivoluzione totale e materialismo; l’approfondimento gentiliano della filosofia della prassi  porta alla cancellazione del materialismo; GRAMSCI tenta  vanamente di ristabilire il concetto di rivoluzione totale  dopo la riforma gentiliana della filosofia della prassi. CROCE pensa che nelle discussioni italiane il marxismo teorico avesse subito la sua critica  decisiva, fornendo in pari tempo l’occasione al pensiero  italiano di portarsi al livello più alto del pensiero mondiale.  È un giudizio da rettificare piuttosto che da escludere; a  parte la consapevolezza che egli stesso o altri abbiano  potuto averne, il protagonista della grande e insolubile crisi  del marxismo teorico è GENTILE. E la crisi avviene  effettivamente in Italia attraverso la rottura non conciliabile  tra l’opera rigorosamente teorica di GRAMSCI e quella di  BORDIGA (si veda), che è costretta al marxismo letterale, e non può  raggiungere una formulazione teorica seria, proprio perché  non ha affrontato Gentile, ma che è nonostante ciò  sufficiente per mettere in rilievo il non marxismo di  GRAMSCI. O, per concludere: l’attualismo è l’autocritica,  all’interno della filosofia della prassi dopo Hegel, dell’idea  marxiana della rivoluzione totale, autocritica che si esprime  nella forma di rovesciamento nell’opposto. Il pensiero di  GRAMSCI ne è la decisiva conferma. Se è vera la prospettiva  che ho enunciato nel mio libro su I/ problema dell’ateismo,  secondo cui il razionalismo, inteso come negazione senza  prove del soprannaturale, deve concludere sull’idea della  rivoluzione totale, l’attualismo è la prova del suo scacco. In  ciò il senso della svolta decisiva che la filosofia di GENTILE  rappresenta. Augusto Del Noce. Noce. Keywords: saggio su Gentile e il fascismo, Faggi, Serbati, Spir, Vidari, Rensi, Martinetti, Juvalta, Massantini, Catelli, Capograssi. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e del Noce," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Noferi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della setta di Firenze – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina -- filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo Fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Important Italian philosopher, especially influential at what Grice called Italy’s Oxford, i. e. Firenze“Palla Strozzi was more a mentor than a philosopher, but I would consider him both a Grecian and Griceian in spirit.” alla Strozzi   Palla e Lorenzo Strozzi. Dettaglio dell'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Grazie alla ricchezza accumulata nelle ultime generazioni dalla sua famiglia, il padre puo far istruire il figlio da filosofi, e grazie all'interesse e all'intelligenza, divenne di fatto uno dei più fini uomini di cultura fiorentini. Ricco e colto, commissiona numerose opere d'arte, tra le quali la Cappella N. nella Basilica di Santa Trinita, opera di Brunelleschi e Ghiberti. La cappella, progetto irrealizzato da N., venne fatta erigere in la sua memoria e ne ospita la sepoltura monumentale. Per questo ambiente commissiona l'Adorazione dei Magi a Gentile da Fabriano e la Deposizione dalla Croce a L. Monaco, terminata poi da Beato Angelico che ne fece uno dei suoi capolavori. Collezionista di libri rari e conoscitore del greco e del latino, si trova nvischiato nell'opposizione strenua contro Cosimo de' Medici. Cosimo e l'uomo che per la prima volta si e di fatto preso tutto il potere cittadino, grazie a un sistema di clientelismo con uomini chiave alla guida degli uffici della repubblica di Firenze. Davanti a lui solo due strade sono possibili: l'alleanza accettando un ruolo subordinato o lo scontro frontale. Forte della sua ricchezza e fiero della propria cultura, e a capo della fazione anti-medicea assieme ad un altro oligarca indomabile, Albizi. La fortuna arriva alla sua fazione, riuscendo ad ottenere prima l'incarcerazione di de’ Medici, poi la dichiarazione del medesimo come magnate, cioè tiranno, ed il suo conseguente esilio da Firenze. Il suo obiettivo comunque non e tanto l'eliminazione di un avversario, ma la restaurazione della “liberta”. In questo e diverso d’Albizi.  Intanto de’ Medici manda già segni di prepararsi a un ri-entro, che avvenne puntuale al cambio di governo con il veloce avvicendamento dei gonfalonieri. Tra i primi provvedimenti vi è proprio la vendetta sugli avversari, con l’esilio del filosofo e d’Albizi. In questo de’ Medici e favorito anche dall'appoggio popolare che lui e la sua casata si sono saputi conquistare. Quindi parte per Padova. Il suo palazzo a Padova e un ritrovo di filosofi, nel periodo d'oro quando la città veneta era uno dei centri culturali più notevoli della penisola italiana, per certi risultati artistici più importante della stessa Firenze. Si pensi ai capolavori lasciati proprio da due fiorentini come Giotto o Donatello.  Lascia la sua raccolta di libri rari, arricchita ulteriormente durante il suo soggiorno padovano, al monastero di Santa Giustina. Muore a Padova nel suo palazzo verso il Prato della Valle. Sepolto nella vicina chiesa di Santa Maria di Betlemme. Cavaliere dello Speron d'oro nastrino per uniforme ordinaria cavaliere dello speron d'oro  Marcello Vannucci, Le grandi famiglie di Firenze, Roma, Newton Compton, Palmarocchi, La famiglia Strozzi, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “His main claim to philosophical fame is in his character- unlike Alibizi’s and indeed Medici. He loved freedom, and chose to settle in Padova, although his roots were well in Firenze. He built hiw palace in Padova in Prato del Vallo to gather philosophers, since what’s the good of knowing the classics if you cannot converse? He never touched a university! His ‘bibliotheca’ is legendary! Strozzi-Noferi. Noferi. Keywords: “Beautiful painting (by Gentile da Fabriano) of Noferi. Very Italian in an exotic sort of way!” – Grice. Refs.:Luigi Speranza, "Grice e Strozzi-Noferi -- Grecian, Griceian," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Nola: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’urina – la scuola di Crotone -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Crotone, Calabria. Gice: “At Oxford, we are proud of our philosophy, at Bologna, and in Italy in general, they are proud of their physicians, as they call them – students of nature!”. Di origini napoletane e zio di Molisi, insegna per lungo tempo a Napoli. Discepolo di Altomare, divenne noto per suo saggio, “Quod sedimentum sanorum, aegrorumque corporum non sit eiusdem speciei adversus Ferdinandum Cassanum et alios contrarium sentientes.” Cf. Marruncelli, Elementi dell'arte di ragionare in medicina” (Napoli, Gabinetto); S.  Renzi, “Storia della medicina” (Napoli, Filiatre-Sebezio); Adalberto Pazzini, La Calabria nella storia della medicina, Roma); Lavoro critico (Bari, Dedalo). La Famiglia dei N.. Molise, Archivio storico di Crotone.  1, quem ad modum Ciuitates tunc optime gubernātur, (vt inquit Platoin lib. de Philo. cùm iniustidant pænas: perin so& impudenter, impugnant, accontra dicunt, optimèquoquereor, et scientiæ, et artesse haberent. Nam veras CLARISS. ALTIMARI discipulo, Auctore. Med. Doctore scientias ac artes perfetè, et breui cuns et isaffequiliceret: at queitaetia muerè scientes, acoptimos artifices fieri. Nuncueròcumlex falso contradicentibus statuta nullafit, no immeritòe inoptimosuiros, arbitror, impurissimum quen queac in eruditum iuuenem inuehiandere et admodum paucos vere scientes, artifices quereperiri, cum& passim scribere omnibus liceat, et unicuique sententiam ferre apud vulgus. Adde, quòdnefcio quo fato datum etiam fit quibusdam, easdem docere artes, ac publicè profiter i, qui uel omnino inertes fint, aut parumeas intelligant: cùm ueròne sciant, scire autem seputant, mirum non est fidgeipfierrent, et alios aberrarecogant. Quandoquidem oporteret (utinquitidem Plato in Alcib.) eos qui aliquid doftursiunt, priufquam doceant, intelligere, fix OVOD SANORVM AEGRORVMQVE SEDIMENTVM IOANNE Andrea Nola Crotoniata Artium et bique   fuoq; martese dimenti ueritate mueftigauitad Hippo. es Gal. sententiam quemadmodumo non nulla alia nonminu sad artem medicam utilia quàm necessaria, ut in reliqus fuis scriptis palàmestuidere:) Sedcum hacfole clariorafint, pateant quecun&tis artis medicæ candidatis, quirenera medicisunt, nedum in uniuersa Italia, uerum etiam into tafere Europa in colentibus; mea approbationenon indigent. Attem puseft ut adiftorum ignorantiam castigandam, ac in numeros errores patefaciendos, accedamus. Nos uero eo, quo scriptifunt, ordine, eos animaduertemus, etiam fiad sedimentorum naturam manifestandam non conferant; ut discant studiosiquam maxime', nedum Artis medis ca, sed philosophia, et dialeticæ fe imperitosese oftendant; quanto veliuore impulsitali ascribere conatifuerint. Cum vero futurun fitut hominem reprehendamin doctum, ftolidum, opinione sua sapientem, nugis interin erudite siuuenes uersatum in uniuersauita, queso, candidiß. lector, liceat mihi uerbis huius ignorantiam castigare asperio nibus, quibus ego ut ialioquinon foleo. Cum primimin prima pagellahicuirdă nassettum Plusquam commentatoris, tum etiam Neotericorum opinionem de sedimento quiz whipseait, quamuis. Iaftenturf copumattigile, longèalijs falluntur Sedimentum SANORUM ægrorumý; corp. biqueconsentire, e nondissidere: hæcetenim bonos decet præcepto ses utipfeait. quod sita fieretnequehic incognitus nescio quis Cassanus, tam fuisse taudaxs atque impudens, ut feuerisoppo neret, nifiexilis esset, quiomnem funditus pudorem exuerunt, neque afuis præceptoribus male eruditusac impulsus, eorumtamen opinio ne sapientibus totausus fuissetscriberenugas. Quas omnes passimin minibus artis medicecandidatis, seclusoliuore, manifestare conabor, quod huiu suiri ignorantia, simul quete meritas castigetur. difcantque reliquiin posterum quàmmalum sitoptimis, aceruditiß. virisindies utilia, Artisg; medicæ apprimè necessaria, et verissima scribentibus; O ut summatim dicam, universam pene medicinam illustrantibus, falso contradicere. Non autem, uteaquæa doctissimoac Clariss. Alti maro præceptore meo de sedimenti in urinis scripta sunttuear, sunt et enim ad eòscitèacdo Et é conscripta, ég hæc, et reliquaomniaque hactenus in luce medidit, acualidiß. auctoritatibus et rationibus comprobata, ut nedumiftorum uirorumnugas non curent, sed quorumuis etiam aliorum do tiffimorum, si quæ essent contradictiones paruifaciant, ipsea; primus omnium quosuiderim, propria inuentione cumque 1 cumque neutri, fuo optimo iudicio, ueritate mattigerint, et fimulli. Uore percitus eosdem recentiores scriptores calumniasset, quorumnca quidem calciamentasoluere dignus esset, eisque falso tribueret cunéta quaibitemerenarrat cõfestim, utipfeait. In fecüda ueritatë protulit quam desedimentosentit, quæquantiss catea terroribus, quantumus averitatealienafit, et Gal. sententia demonstrabimus, ubialios prius ciuserroresin eadem secunda pag. conscriptos, manifeftauerimus: Aitetenim {senolle tempus conterere circa urine generationis modă. Giovanni Andrea de Nola. Nola. Keywords: Crotone, Plato, Nola-Molise, corpus sanum, focal unification, Owen, Pantzig, brennpunktbedeutung, Grice, Aristotle, Metafisica, ‘unificazione focale’ – universale: ‘sanitas’ instantiazione: corpus sanum, corpi sani. Refs.: “Grice e Nola” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Sperana -- Grice e Noto: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di IVPITER – la scuola di Noto -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pollina). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Pollina, Palermo, Sicilia. Grice: “Italian philosophers, must be for St. Peter, who DIED there – are obsessed with God – Noto wrote his thesis on that, evidence and lack thereof for God – the part concerining the refutation for those who deny evidence is fascinating! And typically of an Italian philosopher, he narrows down his research to ‘secolo XIII,’ where we at England and Oxford hardly existed!”Fa gli studi ginnasiali al Convento di Giaccherino e al Convento del Bosco ai Frati. Vestì il saio francescano a Fucecchio e professò. Studia filosofia a Lucca, Bosco ai Frati, il Convento di San Vivaldo, Fiesole, Siena e il Convento di Sargiano. Emise i voti a Fiesole e fu ordinato sacerdote a Siena. Andò a Parigi e frequentò l’Istituto Cattolico, la Sorbona e il Collège de France. Conseguì il Dottorato in filosofia e il Diploma di studi superiori alla Sorbona. Essendo andato a Londra per alcuni mesi ebbe il Diploma di lingua inglese che in seguito perfezionò tornando ogni anno a Londra nel periodo estivo. Pubblicò la tesi di laurea “L’evidenza di Dio nella filosofia" (Ed. MILANI, Padova). Si imbarca per l’Egitto e si stabilì a Ghiza dove insegnò. Lì ricoprì gli incarichi di Guardiano e Maestro dei Chierici. Torna in Italia e fu per un anno direttore di un grande hotel di Montecatini Terme. Si trasfere a Figline Valdarno per l’insegnamento all’Istituto Ficino. Si iscrisse alla Università Cattolica dove conseguì il Dottorato in filosofia valido in Italia. Aveva iniziato l’insegnamento della lingua inglese alla scuola per infermieri dell’ospedale di Figline e un corso serale per adulti. Crea un laboratorio linguistico per facilitare e perfezionare l’apprendimento delle lingue. Deceduto nell’Ospedale di Figline Valdarno per edemapolmonare acuto da miocardite in diabetico. Affetto da grave forma di diabete, si era sentito male nella notte dell’11 novembre, ma dopo aver prolungato il riposo mattutino aveva tenuto lezione fino a mezzogiorno. Prese allora poco cibo e tornò a riposarsi. Alle 18 andò alla preghiera comune e alle 18.30 tenne il corso di lingua inglese per adulti. Alle 20 mentre era a tavola fu chiamato il medico cardiologo che ordinò il ricovero urgente in ospedale. Qui la sua vita è stata stroncata da un complesso attacco cardiaco polmonare.  Ai funerali, presieduti dal Padre Provinciale nella Chiesa di San Francesco in Figline erano presenti tanti religiosi e sacerdoti, i parenti, molte suore oltre che un grande pubblico di studenti e popolo che riempiva la chiesa. È stato sepolto nel cimitero di Montemurlo. Convento di Giaccherino Convento del Bosco ai Frati Convento di San Vivaldo Convento di Sargiano Montemurlo  L'evidenza di Dio nella filosofia del secolo XIII. Grice: “Noto is playing with his surname. There’s no ‘significare’ in Italian. They use ‘notare’ – Now, how is God signified? When Cicero said ‘god’ he meant Jupiter. Ask Ganymede: The literal truth is Ganymede was killed in self-inflicted accidental with a boomerang. Her mother said: “His corpse is here, but he was raped by Giove --. Taking this narrative literally – Ganymede was RAPED, so the rape is the way the god gets ‘noted’. Noto. Keywords: IVPITER -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Noto” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Novara: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Euclide – la scuola di Novara -- filosofia piemontese – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Novara).  Filosofo italianao. Novara, Piemonte. m. Viterbo.  matematico, astronomo e astrologo italiano. Tra i più importanti scienziati e matematic (anche Bacone lo cita come uno dei più grandi matematici a lui contemporanei), Campano è conosciuto anche come Johannes Campanus (che è tuttavia anche il nome di un Johannes Campanus anabattista belga del Cinquecento).   Elementa geometriae, Campano da Novara Tetragonismus idest circuli quadratura. Pubblicato un'edizione degl’Elementa geometriae d’Euclide ed un importante commento all'opera, introducendo un sistema di calcolo degli angoli del pentagono. Il testo e utilizzato per circa due secoli e sarà stampato a Venezia (Preclarissimus liber elementorum Euclidis). L'opera si basa su una traduzione in lingua araba dell'originale testo greco. N. ha inoltre probabilmente presente la traduzione latina eseguita da Bath. Cappellano di papa Urbano IV (in un documento delle Curia pontificia se ne attesta la presenza e se ne parla come di uno dei quattro migliori matematici viventi) e medico personale di papa Bonifacio VIII e viaggia in Arabia e in Spagna. Su ordine dello stesso Urbano IV egli si occupa anche di astronomia e realizzerà la Theorica Planetarum, nella quale descrisse geometricamente i moti dei pianeti e il modo per realizzare un planetario. I dati sui pianeti sono tratti dall'Almagesto e dalle Tavole Toledane dell'astronomo arabo Azarquiel (al-Zarqālī).  Dopo trent'anni di presenza nella curia pontificia a contatto con i maggiori filosofi naturali dell'epoca, raccolse un enorme patrimonio immobiliare, stimato alla morte da un ambasciatore aragonese in più di 12 000 fiorini: una ricchezza legata con ogni probabilità alla sua attività di medico. Negli ambienti curiali fu assai fortunata una benefica pillola da lui fabbricata, di cui poi si lesse la ricetta nel Breviarium Praticae. Si ricorda anche una sua splendida dimora presso Viterbo, in una zona di bagni termali, nella quale abitò negli ultimi anni della sua vita.  Di lui ci restano l'Abbreviatio equatorii planetarum, il Canon pro minutionibus et purgationibus, il Computus maior, il Tractatus de sphera, il De computo ecclesiastico, un Calendarium, i commenti ad Euclide e all'Almagesto. Secondo una recente ipotesi sarebbe a lui attribuibile anche lo Speculum astronomiae, importantissimo catalogo di opere astrologiche, che distingueva magia lecita dall'illecita. Da lui prende il nome un sistema di domificazione in astrologia. Gli è inoltre stato intitolato il cratere Campano, all'estremo sud-occidentale del Mare Nubium, sulla Luna.  Parte di questo testo proviene dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Francis S.Benjamin Jr., G.J. Toomer, N. and Medieval Platenary Theory, The University of Wisconsin Press, N. (et alii), Tetragonismus idest circuli quadratura, Impressum Venetiis, per Ioan. Bapti. Sessa, Agostino Paravicini Bagliani, N., Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vacca, N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Campanus, su Enciclopedia Britannica, ALCUIN, Università di Ratisbona. Modifica su Wikidata (EN) Campano da Novara, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Portale Astrologia   Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani Astronomi italiani Astrologi italiani Nati a Novara Morti a Viterbo Astronomi medievali [altre]. Giovanni Campano da Novara. Novara.  

 

Luigi Speranza -- Grice e Novaro: la ragione conversazionale e implicatura conversazionale ligure -- l’infinito del ponente – la scuola di Diano Maria -- filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Maria). Filosofo ligure. Filosofo italiano. Diano Maria, Liguria. Grice: “Novaro comes from my favourite area in Italy, “La riviera ligure”!” Grice: “Novaro wrote a nice little treatise on the nature of the infinite – a concept which fascinates me!” --Fratello di Novaro, nacque da famiglia economicamente agiata e dopo aver condotto brillantemente gli studi liceali, ottenendo la laurea a Torino. Si stabilì a Oneglia dove fu assessore comunale per il partito socialista. Dopo avere per breve tempo insegnato nel locale liceo, con i fratelli si occupò dell'industria olearia intestata alla madre Paolina Sasso.  Pur dedito all'attività imprenditoriale fece parte attiva della vita letteraria dei primo anni del Novecento e fondò la rivista “La Riviera Ligure,” da lui diretta fino alla sua cessazione. Ospitò nel suo giornale filosofi come Pascoli, Roccatagliata, Jahier, Boine e Sbarbaro.  Scrisse saggi di carattere filosofico e raccolse tutte le sue poesie, che hanno come tema principale il bellissimo paesaggio ligure, in un volume intitolato Murmuri ed echi che vide le stampe. Fu anche il curatore dell'edizione delle opere di Boine che sentiva affine negli interessi soprattutto di carattere etico.  Saggi: “Finito ed iinfinito” (Roma, Balbi), “Murmuro ed echo” (Napoli, Ricciardi) – cf. Grice, “Implicatura ecoica” --; “All'insegna del pesce d'oro” (Genova, Devoto). Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La Riviera Ligure Nicolas Malebranche. Tra Diano Marina e Oneglia: i luoghi dei fratelli Novaro, su parchiculturali. Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Scheda biografica nel sito della Fondazione Mario Novaro, Genova, su Fondazione novaro. Se il concetto di “infinito” è stato dal sorgere della filosofia italiana, uno degl’oggetti più costanti degl’uomini, il progresso verso una definitiva soluzione delle difficoltà che esso presenta non e tuttavia che straordinariamente lento. A ciò à sopratutto contribuito il rilegare, come a priori, l’infinito fuori del campo appunto della filosofia e si considera il regresso all’infinito una fallacia. Poiché quando si ammette senz’altro che, essendo l’uomo finite, non si può pretendere eh' esso arrivi a comprendere l’infinito. Hobbes, De corpore; Descartes, Principien, ediz. Kirclimann, GALILEI, Opere (Milano); Locke, Essay on humane Underslaning, ediz. Ward, World Library, Hume, Treatise, ediz. Selby-Bigge, cfr. anche Jevons, Principia of Science. S’è già troncata la questione senza neanche avei’la posta. S’è lasciato intatto il mistero che sembra  involgerla. Già tutti i concetti che in qualche modo ha una stretta attinenza con altri concetti ontologici dovettero per questo attendere a lungo prima di venir  trattati in corretto modo analitico. La oscurità misteriosa del concetto di “infinito” si ripercorse naturalmente negli oggetti nei quali esso poteva trovare applicazione, come il tempo, lo spazio, la materia, l’universo, l’essere. Anzi si comincia dapprima ad accorgersi delle difficoltà del concetto di “infinito” non cosi in astratto, ma nell’esame degli oggetti ai quali la infinitezza pare doversi attribuire. Tanti secoli prima della ripresa della questione per  Locke, trattarono il problema con sommo acume dialettico i veliani de Velia. Sugli veliani e la loro importanza, vedi specialmente la “Kritische Geschichte der Philosophie” di Dùhring. Le difficoltà che conduceno al veliano a negare la realtà dello spazio non sono punto illusori. Cantor, “Geschichte der Matematik”. Bei ihnen [i tropi  dei veliani] handelt es sich um Schwierigkeiten, denen in der That-wcder der Philosoph noch der Mathematiker in aller Strenge gerecht  werden Kann Zwei Jakrtausend und mehr haben an dieser zàhen Speise gekaut, und es ware unbillig von den Veliani des funften vorcbristlichen Iabrhunderts zu verlangen, dass sie in Klarbeit gewesen seien iiber Dinge, welche freilich anders ausgesprocben noch Streitigkeiten unserer Gegenwart bilden. Nò altre furono quelle che spinsero poi Kant ai risultati  della estetica trascendentale. Sebbene più d’uno storico della filosofia davanti ai tropi di quell’ acutissimo filosofo sentendo l’imbarazzo suo a confutarli, stima poterli chiamare sofismi o false sottigliezze che chi le esaminasse da vicino e colla necessaria acutezza non dovrebbe tardare a riconoscere evidentemente per tali. E più  d’uno nel confutarli à seguito, come Zeller, Aristotele che in questo se in altro mai fu infelicissimo. Aristotele crede di confutare il veliano (V. anche  Apelt, Beitrdge sur Geschichte der Grieschischen Philosophie, Leipzig) col dire che la dimostrazione data dal veliano riposa sulla falsa  et  i matematici, i quali spaventati dalle contraddizioni  svelate dai veliani avevano dovuto per forza rinunciare  a far uso del concetto di “infinito” e lasciar tanto tempo infruttuoso l’ardimento di Antifontem continuarono a  lungo ad aiutarsi altrimenti per non derogare alla rigorosa esattezza delle loro dimostrazioni, Cosi il concetto d’”infinito” non compare mai esplicitamente nella geometria degl’antichi. E Archimede ha seguaci anche dopo che il calcolo infinitesimale ha chiaramente mostrati i suoi  cosi fecondi vantaggi. Ragione principale di ciò e il non  avere l’autore stesso del concetto di “infinitesimo”, saputo mai nè pienamente giustificarlo, nè dargli  un denotato preciso, si che egli molte volte ha a espri supposizione che il tempo consti di singoli momenti (ex -J 5 v aio Èrtovi  come se la critica del velino non valesse indifferentemente tanto per  il continuo dello spazio che per quello del tempo stesso. Cfr. Cantor. Er (Aristotele) lòst das Paradoxon der Duschlaufung dieser unendlich vielen Raum-punkte in endlicher Zeit, durch das neue Paradoxon, dass innerhalb der endlichen Zeit unendlich viele Zeittheile von unendlich Kleiner Dauer anzunehmen seien. Sul concetto di “infinito” in Aristotele vedi specialmente “Phys.”, De Coelo. Il LIZIO dà una divisione dei vari generi di infinito, che come sempre  0 spessissimo presso lui è più una spiegazione di parole che di concetti. Inoltre è la sua trattazione oscura e affatto manchevole. Aristotele non accetta che l’infinito *potenziale*, il quale nasce dal non trovar la  nostra immaginazione alcun limite così nel togliere come nell’aggiungere. Rifiuta l’infinito attuale. L’infinito, dice Aristotele, non è grandezza  nè à parti così, come il suono è per sò invisibile (Phys., Ili, 4 ). Non  esiste dunque in realtà, perchè non v’ è grandezza cui possa attribuirsi. Ma la contraddizione che Aristotele crede dover evitare rigettando il  concetto dell’infinito attuale è appunto nascosta invece in quello del continuo. Altrimenti Aristotele non avrebbe così leggermente creduto di aver superate le difficoltà dei veliani. li Montucla, Histoire cles recherches sur la quadrature du eercìe. Paris, Hankel, Zur Geschickte der Matliematik ivi Alterthum und Mitelaltcr.] juersi sulla sua nozione in modo affatto contradittorio. E se i filosofi non riuscirono a chiarire i loro concetti  riguardanti l’infinito trascurando la maggior parte di  aiutarsi con un esame accurato dalle difficoltà che incontrano anche i matematici, questi dal canto loro si  sono del pari in grau parte appagati dei risultati, senza sentire troppo acuto il bisogno di rendersi conto esatto dei concetti dei quali hanno a fare un continuo uso. Che anzi per le difficoltà, oscurità o contraddizioni dell infinito tranquillamente si rimettevano Leibniz, anche quando si esprime più razionalmente intorno ai concetti infinitesimali, conserva pur sempre in fondo una evidente ambiguità sulla natura generale del concetto d’“infinito”. Lascia infatti  alla ontologia, senza risolverla Leibniz stesso, la questione se si diano  propriamente degl’infinitamente piccoli rigorosi. E cosi tiene pure per indifferente considerare per tali gl’infinitesimi o soltanto per arbitrariamente piccoli. Leibniz inclina però più a tenere l’infinito rigoroso per una finzione. Leibniz, Opera omnia, ed. Dutens e Leibniz; il/af/iema</se/»e Schriften, Gerhardt  I', dove Leibniz pare considerare gli infinitesimi come quantità finite variabili e cfr. Gerhardt, Erdmann, dove egli parrebbe ammettere l’infinitesimo *attuale*. In altri luoghi, Leibniz è affatto incerto; ed. Dutens, Gerhardt, e vedi specialmente un passo  ivi. Infatti dopo l’adottamento del calcolo, una delle prime accademie d Europa, quella di Berlino, presieduta  da uno dei più grandi matematici, da Lagrange, apriva un concorso sul concetto dell’infinito. Dice tra altro ai concorrenti. On demande […] une thdorie clairc et precise de ce qu’ on appelle ‘influì en mathcmati jue. On sait que la haute geometrie fait un usage  continuel des infiniment grands et des infiniinent petits. Cependant les  geomètres et meme les analystes anciens, ont eviti* soicneusement tòut  ce qui approche de l’infini, et des grands analystes modernes avouent  que les termes grawleur infmie sont contradictoires. L’Acad^mie sou-  haitc donc qu’ on explique comment on a déduit tant de theorèmes  vrais d une supposition contradictoire. Nouveaux Mémoires de l’Acad.  des Sciences. Berlin. come molti si rimettono tuttora, all’ongologia. L’unico filosofo dal quale si sarebbe potuto aspettare qualche  dilucidazione definitiva, Corate, il quale era tanto versato nelle matematiche e che di esse à dato una cosi  bella e tuttora insuperata sistematica trattazion generale,  non solo non fa fare un passo alla questione, ma neppure seppe bastantemente apprezzare i grandi meriti del lavoro di Carnot, il quale prepara la soluzione definitiva. Solo Locke e Kant sono cosi i filosofi che fanno verso di essa un passo decisivo. Kant però si direbbè che lo fa in senso reazionario, chè se Locke avesse decisamente cangiato  li suo metodo empirico e psicologico con un metodo critico, come egli in realtà è qualche volta inconsapevolmente vicino a fare, avrebbe egli stesso còlto 1’ultimo futto della sua fine analisi. Ad ogni modo è merito di  Locke, oltre aver risolto l’infinitamente piccolo e grande  nel processo formale dell’animo, l’aver dimostrato come  un tale concetto sia solo propriamente applicabile a grandezze, al numero, al tempo ed allo spazio. Con ciò ogni  nebuloso abuso scolastico e metafisico di esso, era reso impossibile, e ogni sua applicazione ad altro che a concetti di grandezze diventava una pura metafora. Rilacendosi da Locke e approfittando della luce che Carnot getta sulla natura dell’infinitesimo, il  Duhnng à finalmente completata la razionalizzazione di  [ Leibniz, passo citato, Gerhardt e Montucla, Histoire  des mathématiques. Quanto alle questioni che l’ontologia può  sollevare sul concetto dell’infinito, il matematico “a droit de ne  s en pas plus embarasser que des disputes des physiciens sur la naure de 1 etendue et du movement.” Locke, On human Umlerst., questo concetto. L’infinito assoluto ha però Diihring  costantemente rifiutato come la più assurda contraddizione in tutti i suoi saggi filosofici. Soltanto-  nell’ultima suo saggio filosofico arriva egli ad una luminosa distinzione dell’infinito *assoluto* dal infinito relativo. La  sua dimostrazione è però geometrica, e non  insieme algebraica. Manca quindi di generalità. Cosi si  spiega come Diihring ritenga ancor ora inammissibile l’applicazione dell infinito al tempo, che egli à assurdamente e colla più gran forza di convinzione fatto finito nel passato. Diihring vide che ove il concetto di infinito  non viene dapprima reso chiaro e incontradittorio nella  matematica, la rocca in apparenza più forte rimarrebbe in piedi a difesa del mistificante concetto. La nozione di infinito non è però specificamente formale. Il concetto d’infinito appartiene a quel campo della filosofia ‘speziale’, in cui anno comuni le radici o i principi e la matematica e la logica. La. soluzione di un problema cosi universale non può esser diversa, ove esso venga formulato con la dovuta astrazione ed esattezza, sia che la si cerchi nel campo piu astratto dell’ontologia della concezione universale dell’*essere*, sia  che la si cerchi nel campo dell’algebra. Non   [Nat Uri iche Dialéktik -- questo libro d’oro di puro criticismo, la cui prima edizione è esaurita da molti anni senza che Diihring si decida a ri-pubblicarlo, malgrado il viro desiderio di molti  suoi ammiratori, quali per un esempio v. Gizicky e Riebl. Vedi  specialmente dello stesso, nei “ Xeue Grundmitteln u. Erfindungen zur  Analysis, ecc. il capitolo terzo. L’analisi critica dell’infinitesimo ivi  data riassumiamo noi brevemente nel numero seguente, modificandola  però nel senso della corretta legge del numero determinato. V. sotto. Cursus der Philosophie; Logik und KVssenschaftstheorie, è un differente problema quello di Senone di Velia, da  quello che occupa a cosi grande distanza di tempo i matematici dal seicento in poi. In tutti i problemi riguardanti il concetto di “infinito”, le difficoltà ànno la loro comune radice nella contraddizione fondamentale nascente dalla posizione di un infinito numericamente dato e compiuto nel *finito* stesso. Cosi l’infinitesimo, e già prima  l’indisivibile di CAVALIERI, e pensato assurdamente quale  risultato di una infinita divisione, o come l’elemento più  piccolo d’ogni grandezza assegnabile, di cui si integra  ogni grandezza finita. Più piccolo di qualunque quantità  data e pensato l’infinitamente piccolo, e maggior d’ogni  data grandezza l’infinitamente grande, arrivando anche  qui ad una infinità compiuta, come raggiungibile per via di una sintesi successiva. Tra lo zero e una comunque  piccola grandezza dovrebbe dunque esistere qualcosa di  intermedio. Questa ibrida quantità non dovrebbe esser zero ma neppure perù una determinata quantità per quanto arbitrariamente piccola. Essa dovrebbe esser minore d’ogni quantità assegnabile o qualcosa che esprima l’ultimo irraggiungibile grado di piccolezza immaginabile e prima dello zero. Minore d’ogni quantità assegna- [Modificando la nozione di GALILEI di “momento”, già Hobbes define il conatus (concetto che doveva poi diventare il fondamento  della teoria newtoniana), il moto lungo uno spazio minore di qualsiasi  assegnato. Hobbes conserva, però, malgrado l’equivoca definizione, come dell infinitamente grande (De Corpore) cosi dell’infinitesimo un giusto concetto. Di quest’ultimo haa intesa infatti  a essenziale relatività. V. De Corpore.  Delimemus CONATUM esse motum per spatium et tempus minus q’uam quarn  bile è però soltanto lo zero; una quantità non può venir immaginata oltre ogni assegnabile grandezza. Tra  la quantità e lo zero non vi è cotesta assurda finzione.  A meno che il dire “minor d’ogni data quantità” abbia quod datar, id est determinatur, sine expositione vel numero assignatur  ìaest per punctum. Ad eius definitiouis explicationem meminisse oportet  per punctum non intelligi id quod quantitatcm nullam habet, sive quod  nulla ratione potest dividi (niliil enim est eiusmodi in rerum natura)  sed id cuius quantità non consideratili-, hoc est cuius neque quantitas neque pars ulta inter demonstrandum computatur. Ita ut punctum non  habeatur prò IN-DIVISIBILI. Sed prò IN-DIVISO. Sicut edam instans sumendum est prò tempore IN-DIVISO non prò IN-DIVIS-IBILE. Similiter Conatus ita  mtelhgendus est, ut sit quidem motus sed ita ut neque tempori in quo fìt  neque lineai per quam fit quantitas, ullam comparationem habeat in demonstratione cum quantitate temporis vel line cuius ipsa est pars. Quanquam  sicut punctum cura puncto, ita conatus cum Canata comparaci potest et  unus altero maior vel minor reperiri.Poisson ammette invece nel modo più esplicito l’assurdo concetto dell infinitesimo di cui sopra è parola. Un infiniment petit est une grandeur moindre que toute grandcur donnée de  la meme nature. On est conduit naturellement a ridde des infiniment  petits, lorsqu’on considère les variations successives d’une grandeur  soumise à la loi de continuiti. Ainsi, le temps croit par des degrés  mo.ndres qu’ aucun intervalle qu’on puisse assigner, quelque petit  quii soit. Les espaces parcourus par le différents points d’un corps  croissent aussi par des infiniment petits, car chaque point ne peut  fi er d une posdion à une autre, sans traverser touts les positions  intermédiaires, et l’on ne saurait assigner aucune distance, aussi petite  qu on voudrn, entre deux positions successives. Les infiniment petits ont donc une existence rielle, et ne sont pus seulement un mo.ven d’investigation imagini par les giometres. Traile de mécanique, Bruxelles) l’er questa ragione non pochi matematici, quali Bernouille  “oto^amente Eulero, pensarono l’infinitesimo come assolutamente nullo. Anche GALILEI, sebbene con altro linguaggio, scompone il  continuo esteso in infiniti punti inestesi o nulli senza però trovar  poi il modo di farlo generare da quelli. V. GALILEI Opere. Sopra gli atomi non quanti di lui vedi Lasswitz, Galileis Thieorie der  Materie, 1 lerteljahrsschrift f wiss. Philosph.,  a riferirsi non a qualcosa di effettivo o di dato, ma al nostro animo -- il nostro volere -- come ragione della infinita divisibilità, potendo noi sempre supporre una quantità più piccola di ogni qualunque piccola quantità data.  Come nella serie dei numeri noi possiamo (prova Peano) farci un concetto dell’infinito aggiungimento di unità a unità, cosi  possiamo farcene uno della possibile divisione dell'unità all’infinito. Un tal concetto non rimane tuttavia che il campo d’una operazione che non può per la sua natura venir mai compiuta. La infinita divisione come la infinita addizione non possono mai senza contraddizione considerarsi come eseguite. Non si può con un salto oltrepassare un’infinità di operazioni, ponendo l’ultima come già compiuta, che invece non può mai essere. Ciò che esiste o è dato numericamente quale totalità non può esser che in numero determinato. Un numero infinito come qualcosa di dato o compiuto nel finito medesimo è un CONCEPTO IMPOSSIBILE perchè vorrebbe porre ciò che insieme viene a negare. Ammesso dunque che abbia a dirsi di una quantità che essa è minore d’ogni possibile quantità data, ciò potrà solo razionalmente indicare che è pur sempre possibile suppor quella come ancor più pioti) È questa la legge formulata da Diihring sotto il nome di legge del numero determinato (Gesetz der bestimmten Anzahl). Cfr. Kant: Kritikd. reinen Vcrn.  edizione Kirchmann. Sohald etwas als quantum discretum  angenommen wird, so ist die Menge der Einheiten darin bestimmt,  daher auch jederzeit einer Zahl gleich. Diihring però, e qui sta  il grave errore della sua teoria dell’infinito, à tralasciato come iKant di aggiungere che tale legge à valore appunto, come diciamo  noi, solo in riguardo a grandezze che si lasciano concepire come totalità, ossia in riguardo a grandezze comprese tra limiti. cola di una qualunque data comunque già piccola per  sè. La illimitatezza riposa sul concetto della infinita  possibilità della ripetizione, non è dunque un concetto di effettività, ma di mera possibilità.  Il moto nevi realizza come si crederebbe l’assurdità di una infinita divisione o di una infinità di parti nel  finito. Moto non è che il concetto di ciò che la stessa cosa si trova seguentemente prima in un luogo e poi in un altro. Nostro APPARATO SENSORIALE non fa che abbracciare un dato numero di posizioni diverse, e l’animo non trova altro che il fatto ossia la cangiata posizione. Noi non possiamo formarci nè pretendere altro chiaro concetto che quello del passaggio da un punto all’altro. Possiamo solo, ove ce ne sia l’animo, INTER-POLARE delle posizioni intermedie a piacere senza limite alcuno. Ma effettivamente  nè la natura nè noi possiamo fis:arne altro che un numero determinato. È una illusione il credere che un punto, ad esempio, nel muoversi in linea retta vei’so un altro  punto fisso, e trascorrendo secondo il concetto comune di un movimento assolutamente continuo, per ogni posizione, trascorra con ciò effettivamente, se posso dir cosi, per ogni grado di piccolezza. La posizione di infiniti punti distinti in una determinata estensione è sempre e solo una possibilità ma non mai un fatto compiuto. Di due punti immediatamente aderenti NOI ABBIAMO ASSOLUTAMENTE CONCETTO ALCUNO. Punti inestesi o coincidono,  o hanno una posizione diversa, e allora anche una determinata distanza. 11 punte non può che passare da uno ad un altro punto, comunque noi idealmente possiamo astrarre da cotesti trapassi e considerare unicamente la infinita possibilità (li posizioni diverse. La stessa illusione  è nel dire che una quantità cresce per gradi minori di ogni comunque piccola grandezza data. E vero che m  matematica le quantità continue crescono per gradi e che  ogni nuovo incremento elementare possiamo immarginarcelo già per sè stesso composto di ancor più piccoli incrementi elementari all’infinito. Ma oltre che nella realtà  bisogni. Che esistano dei limiti a questa illimitatezza che  è solo della facoltà del nostro ANIMO, è anche vero che le  quantità non constano di elementi per sè esistenti, e che  invece noi solo distinguiamo in esse delle divisioni e stabiliamo dei limiti che per sè non sono dati. Il concetto di continuità ne involge uno infinitesimale che però inchiude solo la possibilità di un infinito porre di limiti,  ma non una infinità di limiti posti. Esso è quindi come  quello dell’infiuitamente piccolo un concetto di pura posibilità.  La illimitatezza nella scomponibilità in parti che possono in ogni caso venir fatte ancora più piccole che una  qualunque piccola grandezza data, e dunque ciò che di  razionale s’ à a sostituire al concetto nebuloso dell’ infinitamente piccolo. Con ciò viene evitata quella ipostasi o per cosi dire insostanziazione di un modo di azione  del nostro animo, o di una mera possibilità, la quale è inchiusa nel falso concetto della grandezza minore di  ogni altra assegnabile, come di qualcosa realmente esistente quasi mèta irraggiungibile ma pur reale di una  infinità di operazioni. Non esiste un ultimo piccolo o  infinitesimo, ma solo una infinita possibilità di rimpicciolimento.  1 Si deve dunque pensare che il differenziale è nel calcolo una grandezza finita relativamente piccola, la quale nel complesso delle operazioni può e deve rappresentare  ad arbitrio ogni grado di piccolezza. Si tratta per eempio, dice Diihring, di una lunghezza. Può questa, come  infinitamente piccolo, essere secondo le circostanze un  milionesimo di millimetro ovvero una distanza solare.  L’essenziale non istà in queste eventuali determinazioni,  ma nel pensiero che in luogo di quella grandezza, scelta in relazione a un tutto come parte insignificante, possano  nelle operazioni sostituirsi altre ed altre senza limite  alcuno sempre più piccole verso lo zero. L’ infinito  o la illimitatezza non è dunque ipostasiata nel differenziale, si bene sta nel nostro animo che questa grandezza rappresenta qualunque grado di piccolezza oltre il suo. Razionalizzato cosi il concetto fondamentale del  calcolo, non à più ragione quella ripugnanza che i migliori matematici anno sempre sentito per quella oscura ipotesi o idea falsa, come la chiama Lagrange, dell’infinitamente piccolo. L’analisi è dunque, dice Diihring, un calcolo d’ approssimazione, ma si noti bene-  non di semplice approssimazione, bensì di approssimazione infinita. I sensi trascurano nel piccolo le quantità  insignificanti che loro NON SONO più PERCETTIBILI, e se fatti  più acuti procederebbero del pari in analoghe proporzioni; cosi fa il calcolo nel trascurare quantità che nelle   [l'reyeinet: Étude sur la métaphysique du haul calcul. Cfr. Carnot : Reflexions sur la métaphysique du calcili infinitesima!, Comte: Cours de philosophie positive] loro funzioni darebbero in ultimo per risultato una grandezza che per la sua ultima piccolezza non à importanza  alcuna. Accanto a quantità finite si trascura nel risultato  e con ragione, un infinitamente piccolo, poiché è nella  sna natura di poter venire senza fine rimpicciolito verso  lo zero. Idealmente c’ è dunque un abisso tra l’infinitesimo  e lo zero. Non quello ma questo è il limite dell’ infinito  rimpiccoliinento, e prima dello zero non vi sono che quantità in realtà sempre finite, comunque possano secondo il bisogno venir supposte sempre più piccole verso  di esso. D’altra parte nella direzione opposta dell’ infiniitamente grande si à analogamente a distinguere tra   [Non altro significa il luminoso concetto di Carnot delle equazioni imperfette. Tuttavia Carnot non arriva a dar l’ultima chiarezza alla  nozione dell’infinitesimo. Infatti non avrebbe altrimenti creduto vi fosse  bisogno (per dimostrare come i risultati del calcolo in apparenza soltanto approssimativi, siano in realtà esatti) oltre che della considerazione dell’arbitrarietà del differenziale, anche di una dimostrazione della compensazione degli errori. Comte poi frantese affatto ciò che  di veramente importante e duraturo conteneva lo scritto di Carnot,  e ravvisa così il merito di lui appunto nella dimostrazione della compensazione degli errori (Cours de philosophie positive), la  teoria invece dell’arbitrarietà del’infinitesimo la trova più sottile che solida. l concetto della rigida uguaglianza degl’antichi venne definitivamente superato con Leibnitz e Newton. Ciò che però  non venne schiarito e rimase oggetto di tutte le lunghe innumerevoli  dispute a cui diede luogo il calcolo differenziale, e un giusto concetto di ciò che avesse a indicare la trascuranza, nelle equazioni, dell’infinitamente piccolo. Dopo Carnot la relatività del concetto del differenziale s’è sempre più fatta strada nelle menti dei matematici. Ma non  basta questo a razionalizzare l’infinitesimo. Dove colla relatività di  esso si ammette però ancora (v. ad es. Montucla : Histoire des maih.) che questo possa divenir minore d’ogni quantità assegnabile, s’è pur sempre lontani da una esatta concezione.  questo e 1’ infinito assoluto o transfinito. Qui cometa si à una differenza qualitativa: nell’ un caso si à ancora a fare con delle grandezze, nell’ altro il concetto  proprio di grandezza è scomparso.  Il non aver distinto questi due concetti non à forse  meno contribuito della contraddizione di un infinito compiuto nel finito stesso, implicato nel falso concetto del  differenziale e del continuo, a rendere cosi pieno di supposte insolubili difficoltà il problema di cui ci occupiamo. All’infinitamente piccolo risponde perfettamente l’infinitamente grande. Abbiamo qui un accrescimento senza  fine come là un illimitato rimpicciolimento. In entrambi  i casi ci è data la norma di un’operazione che non deve poter mai venir considerata come compiuta, poiché essa  deve rispondere alla illimitata possibilità di ripetizione-  del nostro animo, con la quale dunque non c’è grandezza per quanto piccola o grande di cui non si possa  sempre raggiungere un’altra ancora più piccola o grande. Attribuito ad una data grandezza il concetto di infinitamente grande non indica quindi altro che essa, comunque già grande, può senza fine venir considerata  ancor sempre più grande secondo il bisogno. In ogni  aso non sarà però ella mai altro che finite. Come la  nostra sintesi benché non abbia limite, pure in fatti non può  -- Chiamo infinito assoluto o trans-finito – tras-finito, a distinzione dell't/t/unVo  relativo (infinitamente piccolo o grande), ciò che Diihring dice illimitato (Unbegrcnzt) [LIMITATO/NON-LIMITATO] e Cantor, e dietro lui Wundt e Lasswitz  chiamano appunto transfinito o tras-finito (<o ). Del resto una volta riconosciute queste differenze essenziali, nulla impedisce di adoperare anche solo e indifferentemente l’espressione “infinito”, lasciando al contesto conversazionale l’ulteriore  specificazione. mai esercitarsi che nel finito. Anche l’infinitamente grande  è un concetto di mera possibilità e non mai di effettività. Non è quindi propriamente applicabile ad alcuna grandezza determinata. La serie progressiva dei numeri nella sua illimitata addibilità è il più chiaro esempio dell’infinitamente grande. Noi non possiamo mai arrivare  ad un ultimo membro delle serie, perchè la possibilità  di aggiungerne altri riman sempre la medesima. E nella  natura dell’infinitamente grande di non poter venir mai compiuto. La illimitatezza non è neppur qui data oggettivamente, ma sta invece in questo che la grandezza infinitamente grande può rappresentare ad arbitrio una  grandezza sempre maggiore oltre la sua. Inteso cosi è senz’altro chiaro che rinfinitamente  grande non è un infinito in atto e non può senza contraddizione venir scambiato con questo. L’aver confuse l’infinito assoluto o transfinito o trasfinito o illimitato coll’infinitamente grande  è appunto la cagione che condusse chi mirava a un esatto [Locke, On bum. Underst, Our idea of infinity  being, as I think, an endless growing idea, biit the idea of any quantity our soul kas being at that tirae terminated in tbat idea (l'or be it  as great as it will, it can be no greater than it is), to join infinity to it, is to adjust a standing measure to a growing bulk. We can bave no more the positive idea of a body infinitely little than we have thè idea of a body infinitelv great. Our conception of infinity being, as I may so say, a growing and “fugitive” concept, stili in a boundless  progression that can stop nowhere. Our conception of the infinity [...] return at least to that of number always to be added. But  thereby never amounts to any distinct idea of actual infinite parts. We bave, it is true, a clear idea of division, as often as we will  think of it. But thereby we have no more a clear idea of infinite parts  in matter than we have a clear idea of an infinite number, by  being able still to add numbers to any assigned nember we have. E chiaro concetto di quest’ultimo a rifiutare risolutamente  il primo, dopo averlo trovato incompatibile colla nozione  di quello. Mentre l’infinitamente grande esprime una illimitata possibilità, il transfinito o trasfinito esprime invece una effettività compiuta cui l’infinitamente grande non arriva  mai. Nel transfinito o trasfinito ogni grado di ingrandimento è già  anticipatamente dato. Esso è realmente maggiore di ogni  assegnabile grandezza, e dal finito non c’è modo di farlo  originare, sebbene ogni finito sia in esso. La facile obbiezione che nessuna grandezza è la più grande perchè  le possono sempre venir aggiunte altre unità, non tocca. L’infinito assoluto, ma solo una NOZIONE IRRAZIONALE  dell’infinitamente grande, partendo ella da un falso concetto  del transfinito o tras-finito, secondo il quale si avrebbe questo a lasciar  pensare come un tutto, ossia, contrariamente all’assunto, come finito. Il concetto di totalità applicato al transfinito o tras-finito è trascendente, benché tale non sia il transfinito o tras-finito per sé. Se l’infinito assoluto non può venir esaurito dalla sintesi empirica di nostro animo, non è questa una ragione per rifiutarne  il concetto : la sua natura consiste infatti appunto in ciò di NON POTER VENIR RAPPRESENTATO come una totalità ossia esaurito per mezzo di una sintesi empirica di nostro animo -- successiva delle sue  parti. – Cf. Speranza, ‘mise-en-abime’ – come violazione del prinzipio conversazionale – be brief. Rifiutarlo perchè non si lascia trascorrere da un  capo all altro, è rifiutare il transfinito perchè appunto  tale, ossia perchè non è finito, o perchè non si trovano endless divisibility giving us no more a clear and distinct idea of actuallv infinite parts than endless addibility, if I may so speak, gives us a clear and distinct idea of an actually infinite number, both  being only in a power stili of increasing thè nuinber, be it already as great as it will” ia esso le proprietà che dal suo concetto sono precisanente escluse. Mentre nell’infinitamente grande la sintesi empirica di nostro animo è  quella che aggiunge membro a membro. Nell’infinito assoluto troviamo noi sempre ogni ulteriore membro come già innanzi esistente prima che la nostra sintesi lo abbia  raggiunto, indipendentemente da essa. È dato quindi così il numero infinito, se “numero” può questo ancora chiamarsi – “As far as I know there are infinitely many stars” --, che è in realtà la negazione di esso e con ciò  di ogni determinazione nel grande. Il “numero” infinito  non è più nè ‘pari’ nè ‘dispari’, e neppur quindi aumentabile più, nè diminuibile. Esso è dunque qualcosa di affatto compiuto, al contrario dell’infinitamente grande che è in un continuo'flusso; e sta a questo come all’infinitamente piccolo sta lo zero. Come nello zero non c’è più  possibilità di rimpicciolimento, cosi non ce n’è più di ingrandimento nel transfinito o tras-finito. Questo è la negazione della  grandezza misurata nel grande, e lo zero la negazione della grandezza in generale e con ciò della grandezza  nella direzione deH’infinitamente piccolo. Lo zero come l’infinito assoluto sono non tanto quantitativamente quanto per qualità diversi da ogni altra grandezza. L’infinitamente piccolo e grande sono in un continuo flusso,  lo zero e il transfinito sono invece forme fisse ; il principio generativo dei primi non è applicabile ai secondi.  Dall’infìnitamente piccolo allo zero e dall’infinitamente  grande all’infinito assoluto c’è, a dir proprio, un salto. Duhring: Neue Grundmlttel, ecc. Lo zero e l’infinito assoluto o trasfinito si fanno dunque riscontro. Ed erra  «quindi Lasswitz che nega esserci qualcosa di corrispondente a que-  [Nel primo caso il passaggio sta non nel rimpiccilire all’infinito per successive divisioni la quantità piccola in modo che avanzi pur sempre un resto, ma nell’ultimo atto risolutivo col quale si sottrae interamente  il resto stesso. Nell’un caso si riman sempre nel campo dell’infinitamente piccolo, nell’altro si salta propriamente dalla quantità al nulla di essa. Una quantità non viene  mai esaurita col sottrarre ripetutamente anche all’infinito una nuova parte del sempre nuovo resto. Bsogna  togliere in ima volta l’intero resto altrimenti si avrà  una convergenza continua verso l’irraggiungibile zero, ma non mai propriamente lo zero. E solo in quest’ultimo caso sarebbe veramente esaurita la grandezza. Non  bisogna prender per esaustione reale una infinita approssimazione. Ciò che e l’ESAUSTIONE è solo tale fino ad un infinitamente piccolo. Ma  questo vien da essa lasciato inesaurito. L’saustione non à luogo che con un salto alla Peano, ossia con un vero  passaggio. La inter-polabilità infinita di posizioni tra  punto e punto non toglie che da posizione a posizione  il passaggio debba rimanere E come v’è un salto da un  punto a un altro in una linea, cosi v’è da un punto al  punto ultimo col quale la grandezza finisce. Solo col   st’ultimo. (Lasswitz: Zum Problem der Continuitdt, Philosoph. Monats -  hcfte); come pure e più erra Wundt che crede cadere nel differenziale ogni differenza essenziale tra l’infinito e il transfinito o trasfinito. Wundt: Kants Kosmologische Antinomien u. das Problem der  Unendlichke.it Philos. Studien: (che) das Intinitesimalsy.nhol ebenso gut in Siane einer unendlich zudenkenden Abnahme einer gegebener Grosse, wie im Sinne des bereits vollzogenen Processes-  dieser Abnahme gedacht werden kann. Hier fàllt niimlich ein wesen-  tlichcr Unterscbied des Infiniten und Transfiniten vollig hinweg. -- passaggio allo zero si à però un risultato differente non tanto per quantità quanto per qualità dagli altri. D’altra parte lo stesso risultato qualitativamente differente si à nel secondo caso del passaggio dall’infinitamente grande al transfinito o tras-finito. Praticamente si può concliiudere è vero dal caso dell’incoutro di due rette a distanza infinitamente grande al caso delle parallele, in quanto si astrae dallo sbaglio infinitamente piccolo, e si  pone come identico il risultato solo infinitamente approssimativo. In realtà però mentre il punto d'incontro si allontana infinitamente all’vvicinarsi delle due rette al  parallelismo senza raggiungerlo, raggiunto che questo sia, esso è scomparso, essendo per sè la infinita estensione della linea LA NEGAZIONE DELLA POSSIBILITa d'uu punto d’incontro, poiché questo le farebbe finite. Ed à luogo  allora quella illimitatezza od infinità assoluta della retta,  la quale è la negazione della grandezza misurata nel  grande, come lo zero è la negazione della grandezza in  generale. Un indubitabile significato si lascia dare al  transfinito o trasfinito, come vedremo in séguito soltanto nella serie infinita dei processi del tempo passato. Il nostro regresso che assume qui la forma dell’infinitamente grande, procede in base al transfinito o trasfinito della realtà, poiché esso trova  e suppone necessariamente come dati sempre piu membri  della serie di quelli che esso raggiunge. Se si fosse costretti a pensare l’universo infinito in estensione si avrebbe una seconda applicazione reale del nostro conti) Diihring, luogo citato.  «etto ; ma rimanendo insolubile la questione se la natura o L’UNIVERSO  o il numero dei stelle sia o no infinita, non si à che l’applicazione di esso  allo spazio puro. Ed ecco la dimostrazione che dà di questa Dtihring, colla quale egli stabilisce appunto la distinzione dell’infinito relativo dall’infinito assoluto. La tangente di un angolo che differisce da 90°  di una infinitamente piccola differenza, è come la rispettiva secante infinitamente grande. Ad ogni grado di riin-piccioliinento della differenza risponde un grado di ingrandimento della tangente e della secante dell’angolo. Cosi il punto in cui le linee si tagliano si fa sempre più  lontano. Rimane però sempre dato un incontro reale delle  linee fin che sia data una per quanto piccola divergenza  da 90°. Se si à invece una differenza uguale a zero ossia se non se ne à alcuna, non si à nemmanco più  propriamente una SECANTE nè una propria TANGENTE. Entrambe le linee loro corrispondenti non si tagliano più. Nel caso dello zero o, ciò che sarebbe lo stesso, per la  CO-SECANTE e la CO-TANGENTE di 0 non esiste più alcuna  grandezza, allo stesso modo che nello zero medesimo. Intatti la illimitatezza di una linea non è già una quantità della stessa j ella è invece l’assenza d’ogni determinazione quantitativa. In tal modo allo zero dall’una parte  corrisponde dall'altra l’illimitato non quanto (das grossenlose Unbegrenzte). Il caso dell’infinitamente grande  si distingue da quello dell’infinito assoluto per questo, che  la possibilità (della illimitata estensibilità) non figura  come per sè data, ma vien 'riferita alla nostra attività.Di pio quest’ultima possibilità vien sempre rappresentata coinè dipendente di un’altra, in modo che dall’infinito  rimpicciolimento e dal grado di questo dipende l’infinito  ingrandimento e rispettivo grado costantemente corrispondente Una distinzione simile a quella di Diihring à  fatto in riguardo all’infinito Cantor, seguito in ciò da Wundt e seguito pure, sebbene con qualche riserva,  da Lasswitz. Ad essa fa però assolutamente difetto quella spiccata razionalità che è la caratteristica della filosofia di Diihring. Crede Cantor che la serie dei  numeri si lasci pensare non solo come compiutamente- infinita, ma come compiuta totalità. Cantor stima che si  lasci pensar radunato in un tutto ogni numero intero positivo. L’aver sconosciuto l’inapplicabilità del concetto di totalità al transfinito o tras-finito è la cagione dell’assurda  nozione che s’è fatto Cantor di questo. Infatti perciò  à e Cantor potuto credere che il transfinito o trasfinito pnssa trovarsi  nel finito stesso quasi come suo sostrato, e servire cosi  alla spiegazione del continuo e del NUMERO IRRAZIONALE. Ma qui non si ferma Cantor : chè anzi la vera originalità della sua dottrina vede egli nelle differenze essenziali da lui trovate nel campo stesso dell’infinito assoluto. Si tratta infatti per lui sopratutto dell’ampliazione o proseguimento della reale serie dei numeri intieri  Duhrinq. Logik. Cantor: Grundlagen einer Mannichfaltigkeitslehre;  Zur Lehre vom Transfinite.] oltre l’infinito medesimo. Egli non ottiene solo un unico  numero intiero infinito, si bene una infinita serie di tali  numeri come benissimo tra loro distinti. Vi sarebbero cosi infinite classi di numeri ; la l a classe sarebbe la  serie dei numeri finiti 1. 2. 3... v..., ad essa terrebbe dietro la 2 a classe composta di successivi numeri intieri infiniti in ordine determinato. Dopo la 2 a si verrebbe alla  3 a e alla 4 a classe e cosi all’infinito. In tal modo naturalmente l'infinito propriamente detto (“das eigentlicbe  Unendliche”) non sarebbe ancora il vero infinito (“das walire Unendliche”) o l’assoluto. Chè anzi Cantor espressamente fa notare che in tal guisa non si arriverà  mai a un limite ultimo, e neppure a una sia pur soltanto approssimativa comprensione dell’assoluto, il quale solo  è un infinito non più oltre aumentabile. Con ciò il transfinito o trasfinito, quantunque determinato e maggiore d'ogni finito,  avrebbe assurdamente comune col finito il carattere della  illimitata aumentabilità. Cantor dà per esempio del transfinito o trasfinito la totalità dei numeri finiti, confessa però  non darsi, o almeno pel nostro animo, una totalità dei numeri transfiniti, ossia l’assoluto o il vero infinito  non poter venir concepito, quantunque necessariamente  postulato. Qui dunque ritorna la difficoltà del problema, e questa volta Cantor confessa di non saperla sciogliere. Con ciò dà Cantor stesso involontariamente la miglior critica della sua teoria dell'infinito. Il suo transfinito o trasfinito del resto non è in fondo altro che l’infinito dell’animo di Spinoza e BRUNO [ Grundlagen. Zur Lehre. Illusorie come la infinita totalità sono le altre proprietà clie Cantor crede dover attribuire ai suoi immaginari  numeri della nuova serie al  DI là DELL INFINITO. Cosi il non esser questi più soggetti alla LEGGE DI COMMUTAZIONE (p e q = q e p)  è una evidente ASSURDITà che rivela una inesatta concezione dell'infinito assoluto. Questo infatti è indifferente  in riguardo al più e al meno. Ad esso non si può nè aggiungere nè togliere, come quello che non si lascia originare per via di operazioni. Per poter ad esso aggiungere qualche cosa converrebbe pensarlo dato quale compiuta totalità. Dia è falso che l'infinito si lasci concepire in tal guise. Cosicché invece di operare con esso si opera inavvedutamente con una quantità pur essa finita. Il concetto formulato da Diihriug dell’infinito assoluto non è nella storia dell’ONTOLOGIA del tutto senza precedenti, per quanto la critica da lui fatta dell’infinitesimo possa assai più facilmente rannodarsi a  quella del Locke e di Ivant da una parte, e dall’altra  a quella di Carnot, che non si lasci questa sua nuova  distinzione rannodare a’ suoi precedenti storici (3). Veraci) Cantor: Grundlagen. Bradwardinus distingue nel suo trattato “De Continuo”, come espone Cantor (Geschichte d. Mathematik), “ zwei Unendlichkeiten, die “kathetische” und die “synkathetische”. “Katlietisch” oder  einfach unendlich ist eine Grosse die kein Ende hat.” Syn-kathetisch”  unendlich ist eine Griisse der gegenùber es eine endliche Gròsse giebt  und ein andsres gròsseres Endliche, und wieder Eines gròsser als  jenes Gròssere, und so oline dass ein Letzes sicb fiinde, welckes den  Abschluss bildete; aucli dieses ist immer eine Gròsse, aber nickt wenn  es mit Gròsserem verglicken wird. Man erkennt leicht dass das kathe-  tisck Unendliclie Bradwardinus das Ueberendliche oder Transfinite  ‘mente l’INFINITO POSITIVO di Descartes, di GIORDANO BRUNO e di Spinoza è un concetto che tradisce un’origine quasi del tutto-  ancora scolastica. L’infinito inteso coinè attributi necessario dell’essere è una concezione comune a BRUNO, e mostra chiara la sua derivazione da un altro concetto. Quantunque esso non ha in BRUNO questa sola origine ‘divino’.   unserer neuerer Philosophen ist, dem von Anfang an das Merkmal der Begrenztheit, welches deu endlichen Gròssen zukommt fehlt, wàhrcnd  das “synkathetisch” Unendliche mit den Endlosen oder Infinitcn ùbercin stimmt, welches aus der endlichen Grosse durcli unbegrenztes Wa-  chsen hervorgelit.  BRUNO capovolge la dottrina di Aristotele. Risolve arditamente e con grande acume il continuo ne’ minimi onde liberarsi dalle contraddizioni svelate da SENONE DI VELIA, come farà poi anche ma meno felicemente Hume, e accetta l’infinito nel grande: gli atomi e la infinità del mondo. (V. Acrotismus, citato dal TOCCO, Le opere di  BRUNO, p. liti: De Minimo). Devcsi però avvertire che il minimo è per BRUNO ancora una grandezza che ei pensa giustamente, come fa anche Hobbes, relativamente trascurabile nel calcolo. Il progresso infinito nelle divisioni è solo una continua possibilità  dell’animo, mai un’effettività. BRUNO non nega all’animo, all’immaginazione o alla ratio, a distinzione della mensì di poter ulteriormente suddividere il minimo all’infìnito, -- dum non promere subiectae credat con-  formia rei. — Intìnitae progressioni IMAGINATIONIS seu mathesis NATURA non respondet neque ullus usus ARTI-FICIALIS obsecundat.  De Min. Tuttavia anche alla matematica vorrebbe BRUNO dare una base atomistica, facendo valere pel concetto del corpo  matematico ciò che vale per quello del corpo fisico. In questo anzi  non sa BRUNO liberarsi dalla influenza dell’aristotelismo, pel quale ciò che vale della materia doveva naturalmente valere dello spazio. Il suo strano tentativo ricorda l’antica dottrina delle linee indivisibili  o atomiche di Senocrate, anch’essa stabilita per evitare le stesse contraddizioni del continuo messe in chiaro dalla critica dei veliani (V. nello scritto -epì à-riuiov ypaujLùv Apelt, Beitrcige z. Geschichte d.  Griech. Philosoph. dove ne è anche data la traduzione)  Della dottrina atomistica di BRUNO riconosce giustamente il merito Lasswitz (“ Bruno und die Atomistik”, Viertelsjahrsschift f. icissensch. Tuttavia alcune importanti considerazioni sono comuni al Cusano e a quest’ultimo sulla natura dell’infinito ossia sull’esistenza di un unico infinito in riguardo  al quale non possa esservi divisione possibile uè disuguaglianza se misurato immaginariamente da misure differenti. L’infinito assoluto considera poi Spinoza come dato nei noti due cerchi l’uno dei quali è dentro all’altro e che non si toccano nè sono concentrici, esempio  ricavato da Cartesio (Principii) e da Spinoza medesimo già illustrato nella esposizione dei principii cartesiani della filosofia. Ma come è impossibile che  la materia mossa tra due cerchi possa realmente dividersi all’infinito, cosi è impossibile farsi un concetto di una infinità assoluta di disuguaglianze come effettuata  dalla relazione di quelli. Poiché data questa infinità non  è nè può essere. Altrimenti la potremmo anche pensare effettuata in un qualunque segmento di linea da’suoi  punti infiniti. Una tale infinità non può cosi che venir riferita alla facoltà della nostra mente quale suo fondamento ; non può esser che un caso di infinita possibilità  come lo è quello dell'infinitamente grande. Philos.): “BRUNO hat darci» (lcn erkenntnisstheoretiscben Ausgangspunkt seiner Monadologie sicli das bleibendc Verdienst erworben,  den Atombegriff klar und wiederpruchslos dargestellt zu haben. So  lange das Atom nur als Letzes der Theilung gilt, blcibt es immer fraglich, ob man auf ein solches Kommen masse. Erst die Einsicht, dass  es ein Krfordcrniss dcs Erkennens istein Erstes der Znsammcnsetzung  zn liaben, macht den Atombegriff za einem nothwendigen.  Cusano, Dada ignoranza. Già Aristotele tiene per inapplicabile ad ogni grandezza l’intìnito attuale, ma perciò appunto ne aveva rifiutato  il concetto. Il caso (lei due cerchi si lascia ricondurre a quello d’ogni grandezza continua. Ora l’esame del continuo non  può per sè mai darci l’infinito assoluto ; il continuo riceve i termini che noi segniamo in esso senza lasciarsi  però mai esaurire da successive suddivisioni. Con ciò esso non ci dà che il campo di una regola d’operazioni infinite, rimanendo pur sempre finiti i risultati di queste. Che le parti del continuo non si lascino esprimere con alcun numero (nullo numero explicari possunt) indica solo che sarebbe, contradittorio pensare come raggiunto  il risultato d’una operazione infinita ossia da ripetersi senza fine. Il continuo non ci dà insomma che l’infinito  relativo. E così ciò che Spinoza distingue dall’infinitamente grande non è in realtà l’infinito assoluto. Esso è  soltanto lo stesso infinito relativo nella direzione opposta del primo, ossia nella direzione del piccolo. Ammette inoltre Spinoza che l’infinito propriamente detto può esser suscettibile di più e di meno. Ma non è esso allora cangiato nel finito? (2) e non dice egli altrove che  SPAVENTA, Saggi critici, seguendo Hegel trova la  distinzione dello Spinoza dell'infinito della immaginazione da quello dell’ANIMO veramente profonda, e ravvisava in questo ultimo fissato il concetto dell’infinito assoluto che trascende ogni determinazione. Infatti però esso non può rappresentare che lo stesso infinito della immaginazione. Vedi lettera XXIX. In complesso questa importante lettera parmi mostrare molta incertezza malgrado il tono suo dommatico e tanto sicuro. I due unici esempi che Spinoza porta dei molti che ei dice  avrebbe potuto addurre dell’infinito dell’ANIMO, non sono omo-genei. La infinità dei moti che furono, e la infinità delle disuguaglianze dei due cerchi non cadono sotto uno stesso concetto. Lo stesso abbiamo  notato del transfinito o trasfinito di Cantor, il quale dovrebbe del pari esprimere appunto e l’intervallo ( 0.1) come totalità infinita, e il complesso della serie dei numeri intieri positivi.  Etica, I, prop. XV.  è un assurdo che un infinito possa essere il doppio di  un altro? A questo assurdo risultato arrivano tutti quelli che pensano potersi DARE L’INFINITO NEL FINITO medesimo. Di Locke s’è visto qual razionale concetto egli ha dell’infinitamente piccolo e grande. Locke non sa tuttavia considerare l’infinito altro che nella illimitata addibilità e divisibilità, per cui non intese l’infinito assoluto. Locke analizza con una grande acutezza soltanto  le funzioni dell’ANIMO in riguardo all’infinito, non però il riscontro loro oggettivo. Infatti e questo per Locke ancora Dio, il quale oltre i confini raggiungibili dal nostro ANIMO coll’illimitato progresso, riempiva  tanto l’infinito del tempo che quello dello spazio. Ed  è cosi che Locke puo pensare esser l’idea positiva di infinito troppo ampia per una capacità finita e angusta come la nostra (2). Kant scioglie trionfalmente tutte le difficoltà che incontra Locke nell’esame dello spazio, e fissa  l’idealità di questo. Una idealità che se è conseguenza  delle stesse ragioni che l’avevano fatta necessaria ai veliani, à però, un significato e una giustificazione scientifica di gran lunga superiore. Ma quanto al concetto  proprio di infinito Kant non fa un passo oltre Locke. E neppure Hume e andato più oltre sulle tracce di  quest’ultimo. E’ non sa anzi per il metodo suo empirico apprezzare la bella trattazione lockiana dell’infinito,  in cui la funzione SINTETICA dell’animo trovava una cosi Locke: Essay on Human Under ai.  giusta e importante bencliè non del tutto consapevole  applicazione. Hume, senza esaminare particolarmente l’infinitamente grande, si volge in special modo a considerare  l’infinito nel piccolo. Ciò che più, come già BRUNO, imbarazza il grande scozzese è la considerazione della infinità nel continuo, ossia della infinita divisibilità, la quale egli non distingue dall’infinito esser diviso, ossia dalla infinita divisione effettuata. Il suo empirismo, confondendo il reale colla forma, lo porta a stabilire lo spazio come composto di punti visibili e sensibili (meno risolutamente però nella “Inquiry”) ; e il tempo della  somma dei minimi delle sensazioni. Come può, si domanda egli, un infinito numero di infinitamente piccoli  non dare una grandezza infinitamente grande? o, come  può un tal numero esser compreso allo stesso modo in  una data grandezza che in una doppia di quella? Come  può passare il tempo da un punto all’altro per un numero infinito di parti reali successivamente esaurientisi ? Sono in conclusione le stesse contraddizioni svelate dapprima da Senone di Velia, l’amato di Parmende. Senone conclude col negare lo spazio e il moto. Hume invece accusa L’ANIMO STESSO senza dare soluzione alcuna definitiva. L’aver confuso la forma col reale, e il non aver più acutamente  esaminate le funzioni sintetiche dell’ANIMO sono la ragione della infruttuosità delle sue ricerche sull’infinito. Locke è insomma l’unico tra’ filosofi moderni, o alti) Treaiise; Essays, edizione World Library. Exsai/s  (4; Hume: Essai/s.  meno sino a Diiliring, che segna un notevolissimo progresso nella razionalizzazione del concetto di infinito. D’altra parte tra’ matematici, dopo le lunghe discussioni sulla  natura dell’infinitesimo, si fa strada, è vero, con Carnot,  e con Cauchy, in séguito, l’opinione della arbitrarietà del differenziale, ma riman pur sempre come sfondo oscuro l’infinito esatto, una sfinge che i matematici dichiarano spettare AL ONTOLOGO di interrogare. E con ciò la mente è  ben lontana ancora dal trovarsi appagata. Con Gauss  poi, e dietro a lui con Riemann e con Steiner e con  tutti i geometri anti-euclidèi, la nebbia che avvolgeva l’infinito s’è fatta ancora più fitta, e rimarrà cosi quale  indizio dello spirito mistico dell'epoca nostra, la quale  non sente quel bisogno vivo e quell’amore della chiarezza  che cosi grande aveva il secolo decimottavo Nfe i filosofi del nostro secolo sono certo fatti per confortarci della mistica incertezza dei matematici e sbugiardare così il notato  carattere generale dello spirito del decimonono dicontro al secolo  precedente. (V. più sotto di Hamilton e Spencer n. 8). Dove l’universo, come presso Democrito e gl’epicurei, o presso BRUNO e Spinoza si stabilisce dommaticamente infinito, l’ONTOLOGIA non s’è ancor spogliata di  tutti gli elementi puramente poetici. Col criticismo moderno la questione della reale estensione dell’universo si  è fatta essenzialmente empirica. La illimitatezza della nostra concezione dello spazio non ci garantisce una infinità oggettiva materiale. Empiricamente non si lascia  dimostrare nè la finitezza nè la infinità dell'universo;  È chiaro che chi volesse supporre un riscontro materiale assolutamente completo della nostra concezione infinita dello spazio correrebbe dietro una chimera. La nostra rappresentazione dello spazio  il la sua spiegazione nella costante unità della coscienza e nella sua  libertà del porre e dell’oltrepassare continuamente il posto. Ora a  questa funzione de nostro ANIMO non si deve attribuire senz’altro un carattere oggettivo. Al contrario fa il Urtino infinito il mondo appunto perchè  è infinito lo spazio, ritenendo che la materia stia allo spazio come  questo a quella: “ e se non v’ha differenza tra spazio e spazio, non c’è nessuna ragione che solo quel breve tratto occupato dal nostro  sistema planetario sia pieno e tutto il resto dell’immenso spazio vuoto. „  Cfr. Schopenhauer (Die Welt als Wille ecc.). il quale commenta  gli argomenti affatto ineritici di BRUNO e vorrebbe farli servire a  dimostrare anche la infinità del tempo. altro che il finito noi non possiamo raggiungere e non  possiamo mai giudicare se altro non vi sia più oltre da  raggiungere nella realtà. Se essa stessa abbia o no dei  limiti come gli à costantemente la nostra RAPPRESENTAZIONE. L’infinito COME TALE non può diventar oggetto DELLA NOSTRA ESPERIENZA. Ma se questa è per la sua natura limitata, non perciò dobbiamo pensar limitata la realta inconscia. Il concetto nostro dell’universo sarebbe dunque sempre solo comparativo. Certo è però che praticamente l'universo sarà per noi costantemente finito, poiché altro che in limiti finiti non può venir da noi conosciuto. Il principio della costanza della materia e della forza  non basta, come crede Rielil, a dimostrare la finitezza della massa dell'universo. Seia massa si fa infinita,  dice Riehl, verrebbe a mancarle con ciò ogni determinazione quantitativa, il che è incompatibile col concetto stesso di massa. Ogni determinazione le mancherebbe però naturalmente se considerata solo nella sua trascendente totalità, non mai invece nel finite. Nè d’altro che di  masse finite può aver ad occuparsi l’uomo. Il grande  principio della costanza della materia e della forza, nota ancora Riehl, diventerebbe una mera e inutile TAUTOLOGIA, data la infinità loro. Non potendo evidentemente l’infinito venir nè aumentato nè sminuito. Neppur questo è giusto. Il principio in discorso sarebbe tautologico se stabilisse appunto la costanza della materia infinita come  tale. Non se, come esso fa, stabilisce quella del finito in essa datoci. Infatti la conservazione costante del finito [Riehl, Ber pMosoph. Kriticismus.  non è (lata analiticamente colla inalterabilità quantitativa dell’infinito, poiché come l’infinito non è toccato da  addizione o sottrazione, cosi potrebbe, posta infinita la materia, il finito in essa assolutamente crearsi o annichilarsi senza contraddizione alcuna. G. Mentre la estensione e la massa dell’universo sono presumibilmente finite, ma nessuna necessità apriorica od empirica ci sforza a pensarle piuttosto finite che infinite. In riguardo al tempo concorrono invece necessità  dell’esperienza e dell’ANIMO a farlo nel REGRESSO assolutamente infinito. Il problema cosmologico del tempo non à tuttavia avuto sinora una soluzione definitiva. A il tempo reale mai avuto principio? Vi fu nell'universo o nell’essere un primo cangiamento? E se il tempo non à avuto principio, ed è nel passato infinito, come  può senza contraddizione venir pensata cotesta sua infinità? Che il cangiamento abbia una volta cominciato è, per  il principio di causalità, impossibile ammettere. La ausa  di un cangiamento deve cercarsi a priori in un cangiamento anteriore e cosi via all’infinito. Un cangiamento  assoluto è empiricamente impossibile e a priori inconcepibile. Vi sono nell’essere ultime ragioni dei processi, ma  non ultime cause. In ogni punto del tempo è esistita la  serie delle variazioni. Non che nel concetto di sostanza  si trovi unita necessariamente coll’esistenza l’azione, come  crede il Rielil, e che non lasciandosi quindi  disgiungere il fare dell’essere dalla sua esistenza, venga  ad esser perciò inconcepibile la sostanza scompagnata dal  cangiaménto. Inconcepibile sarebbe solo una esistenza vuota, ossia scompagnata dalla essenza. La forza potrebbe  però concepirsi ovunque come in equilibrio stabile, e con  ciò l’universo come privo di ogni mutamento. Vi è una condizione del divenire cbe non entra mai  come membro nella serie causale -- è questa il fondamento  ultimo d’ogni fenomeno, la ragione della loro possibilità. Un tal fondamento riman quindi come fuori del tempo ossia veramente ETERNO, senza origine nè fine. Non è cosi dei cangiamenti o degli stati momentanei dell’essere. Lo stato precedente a un DATO momento nella serie molteplice dei cangiamenti, se fosse sempre esistito, non avrebbe  mai prodotto un effetto cbe si origina solo nel tempo;  auche quello deve dunque aver avuto una causa, e cosi  all’infinito. Delle cause non ve ne può essere una cbe da  sè inizi assolutamente una serie; ogni causa di cangiamento è essa stessa un cangiamento, e suppone con ciò  un’altra causa, un altro stato cbe la spieghi. Tutto è seguenza nella serie, e un principio assoluto è un assurdo. Una prima causa del cangiamento per cui avvenga qualcosa cbe anteriormente non era, non è in alcun modo a  connettersi coll’esperienza. La fine della primitiva quiete nell’ essere senza una causa che la faccia cessare è  un pensiero irrealizzabile. Esprimerebbe una spontaneità incomprensibile, anche formalmente, cbe noi non  possiamo accettare sensa derogare alle leggi della conoscenza e della natura. Come la legge della causalità non conduce fuori della causalità empirica (all’Assoluto), cosi non conduce fuori del cangiamento. Esenti da mutazione rimangono soltanto la sostanza  e le sue qualità originarie, ossia in generale gli elementi, per cui solo sou possibili le variazioni. La causalità è  applicabile unicamente ai cangiamenti, di modo che causa  di un cangiamento non può mai esser che un altro cangiamento, non una cosa come tale. E quindi unicamente  l’ideniico che sta a base del vario FENOMENICO che non  à nè causa nè ragione, se non quella almeno che con Schopenhauer potremmo chiamare la ragione dell’essere,  o di identita. La medesimezza con sè stesso è infatti la  ragione della sua eterna esistenza. Dove non c’è variazione non c’è causa da ricercare. Poiché causa non è  che la ragion reale del cangiamento. Una variazione che  non procedesse in base a qualcosa di stabile è un assurdo.  Degli elementi non si dà quindi nè generazione nè corruzione alcuna. L’essere non è mai causa; le cause che  la scienza rintraccia sono cangiamenti, e le leggi sono la  uniformità e costanza del loro succedersi. Tanto l’essere  universale quanto la materia e la forza sono fuori della  catena causale. Nn sono per sè causa, si bene la ragione  della connessione stessa causale. E cosi l’essere non si  può porre quale ultimo anello della causalità. Tanto il  più remoto fenomeno immaginabile quanto il presente  presupponendo l’essere, il fare dell’essere. Un sistema dinamico non può mai per sè stesso originarsi da un sistema STATICO, come neminanco può a  questo passare. Sempre le forze si son misurate a vicenda, ed elementi di esse si son fatti equilibrio ed altri ànno  prodotto dei cangiamenti col lavoro meccanico; ed equilibrio e lavoro sono sempre stati necessari da una parte  per conservare i cangiamenti lenti concretatisi, ossia in  generale le forme durevoli, e d’altra parte per alimentare la vicissitudine o la vita nell’essere. Il voler dunque trovare un principio della mutazione sarebbe lo stesso che  credere che la materia una volta non sia esistita. Il sorgere della coscienza a un dato momento nell'universo,  che il momento innanzi noi possiamo immaginare come  affatto privo di vita conscia, non è uua creazione assoluta, nè rappresenta una infrazione alle nostre leggi della conoscenza dell’animo. Perchè quell’apparizione della vita conscia noi  non l’abbiamo a pensare che come una combinazione di elementi, nè di elementi v'è creazione, poiché essi esistono eterni. Pensare la combinazione come occasionata  dallo svolgersi delle variazioni non à nulla di sovrannaturale. Certo la coscienza nella sua natura generale  non à causa; ad essa come agli elementi ultimi d’ogni  realtà è applicabile soltanto ciò che s’è detta la ragione  dell’essere. Altra è però la questione della sua fenomenologia- In questa come nella fenomenologia generale la  causalità à il suo regno. Se la coscienza al pensiero si  presenta come originata dal NULLA, gli è perchè le sue  cause, nella loro natura oggettiva materiale, non possono  in essa evidentemente comparire. Gli elementi di coscienza, o meglio le disposizioni alla coscienza nella realtà  inconscia sono ora come latenti o neutralizzate: una data  combinazione materiale ecco ne suscita la luce subitanea. Il sorgere del cangiamento in generale implicherebbe  invece una derogazione alla legge fondamentale dell’ANIMO; noi non lo possiamo in modo alcuno concepire, e la realtà empirica ci costringe ad ammettere il contrario. Il variabile non è per sè stesso intelligibile senza  un identico a sostrato. La identità dell’io come dà origine alla ragione logica cosi la dà a quella del cangiamento reale. Le diiferenze come tali non possono farsi contenuto della coscienza. Per esserlo anno a venir riferite a una totalità identica. Ammesso che cangiamenti  potessero avvenire senza conseguire ad altri, verrebbe a mancare la connessione dei fenomeni secondo leggi costanti. Il concetto di natura perderebbe la sua unità e l’ONTOLOGIA con ciò ogni fondamento. Le leggi dell’animo si incontrano invece con quelle della realtà. È chiaro che come l’animo è la condizione inevitabile  della esperienza, e con ciò del nostro mondo fenomenico,  cosi le sue leggi o funzioni generali devono anche di  quello esser leggi a priori, o assolutamente valide indipendentemente da ogni esperienza. Ciò non toglie tuttavia che coteste leggi possano venir trovate, come vengono in realtà, consone alla natura propria delle cose, ossia  non imposte loro direi quasi arbitrariamente, perchè nelle  cose sono le stesse leggi quantunque impensate. Che anzi  in riguardo al fatto dell'esperienza, in riguardo alla unità sistematica dell’essere e dell’ontologia, potrà trovarsi  necessario di veder nelle leggi che la coscienza applica a priori alle cose nuli’altro che un riverbero o meglio null’altro che l’espressione soggettiva delle determinazioni autonome della stessa realtà inconscia. Ponendo un principio del tempo reale e con ciò un  cominciamento delle causalità non si sfugge d’ altronde  alla domanda. E perchè non prima? Se il primo cangiamento non ebbe causa, o perchè è esso avvenuto solo, mettiamo,parecchi quadrilioni di secoli fa? È vero che non si ammette una causa che l’abbia chiamato all’esistenza, ma nemruanco si dice che qualche cosa l’abhia impedito di  nascere prima. Per questo, per quanto lo si allontani dal  presente, esso riesce sempre troppo vicino. Richiamarsi  alla originarietà dell'essere come fa Duliring, alla sua effettività indipendente da ogni pensiero e da ogni  ragione, richiamarsi alla natura della realtà inconscia, cui il pensiero non può mai ricevere completamente in  sè stesso, mai fondare in senso assoluto, ma soltanto ammettere come fatto, non è permesso quando intanto alla  stessa effettività della natura impensata dell’essere evidentemente si contraddice. Si contraddice, dico, poiché,  lasciando da parte l'analogia del pensiero che ammesso  il cangiamento non sa vedere come esso possa originarsi  in modo assoluto, noi non abbiamo in realtà conoscenza  alcuna di un cangiamento cui un altro non preceda, ogni cangiamento che apparentemente si presenta come  tale — il nuovo nell’evoluzione — noi lo riduciamo è  vero alle forze o forme, agli elementi costanti dell’essere de’ quali non c’è ragione a domandare. Ma il perchè della  loro manifestazione appunto in un tale momento e non  in altro, è nell’ininterrotto cangiamento collaterale, occasionai e in rapporto a quello. Ben possiamo invece richiamarci noi alla assoluta autonomia della realtà, che  nulla ammettiamo contro il suo reale manifestarsi, quando  diciamo che in senso assoluto non c’è una ragione del  perchè quest’oggi, poniamo, sia proprio ora e non sia  già stato in passato o non abbia piuttosto a venire in futuro, che v’è tanto poco ragione di questo suo essere  Logik. il, Wiscnschaftsftheorsie, presente che della esistenza stessa universale : dacché  come questa non à inai avuta fuori di sè la ragione del  suo essere, così nemmanco il suo fare, il suo divenire interno.   In qualunque punto del tempo noi fissiamo l’essere,  non lo troviamo mai privo di determinazioni, perchè queste sono autonome; e dal suo stato in dato momento dipende ogni sua ulteriore evoluzione ; come però non c’ è  un momento in cui l’essere non sia, nemmanco ve n’è uno  in cui esso non abbia un suo stato determinato. E cosi  che del divenire v’ è sempre la ragione in un divenire  anteriore, ma del divenire in senso assoluto, v’è tanto  poco un perchè quanto dei suoi durevoli elementi. In ciò che esiste è la ragione di ciò che esisterà ; in ciò  che à esistito la ragione di ciò che esiste. Nella originaria nebulosa è la ragione dell’attuale disposizione del sistema nostro solare, ed in altri processi cosmici ebbe  essa stessa la sua origine, i quali se la scienza non può  oggi rintracciare, non è però assolutamente impossibile  che un giorno ella trovi, e che ad ogni modo sono necessariamente avvenuti. Il cangiamento non à dunque avuto principio. Ed  ecco appunto dove sorgono specialmente gravi, e a molti  filosofi son parse insormontabili, le difficoltà del problema cosmologico del tempo. Si è sempre trovato, e  Cusanus, Opera, Complementura theologicum, Si  enim numerare possumus decem revolutiones praeteritas, et centum,  et mille, et omnes. Si quis dixerit non omnes esse numcrabiles, sed  practeriisse infinitas, et dixerit imam futuram revolutionem in futuro  anno, essent igitur tunc infinitae et una, quod est impossibile.  Bacone, Novum Organimi, odi/.. Fcllow, Ne-  Kant è il filosofo che più vi à attira’ o l'attenzione, che  ponendo la mancanza d’ogni principio nella serie regressiva delle cause, si viene conseguentemente ad ammettere che un’infinità di cause si sia esaurita, una infinità  di cangiamenti sia realmente tutta trascorsaci che contraddice al concetto di infinito, ed è quindi assurdo accettare. Non solo Kant, ma anche, tra gli altri, il più  acuto forse dei filosofi post-kantiani, Duliring trova qui una insuperabile contraddizione, ed è stato da essa spinto a stabilire che il cangiamento nel mondo abbia ad un dato punto cosi casualmente senza ragione  alcuna avuto un assoluto principio nell’essere, cosa evi-   quc. cogitari potest quomodo seternitas dofluxerit ad lume diem; cum distinctio illa, quae recipi consuerit. quod sit infinitum a parte ante et a parte post, nullo modo constarò possit; quia  inde sequeretur quod sit unum infinitum alio infinito maius, atque ut consumetur infinitum et vergat ad finitum. Hobbes, il quale  dichiara insolubile la questione dell’ infinito in riguardo al problema  cosmologico, ammette tuttavia cautamente la infinità del tempo nel  passato e non si lascia ritenere dalla contraddizione di un infinito maggiore di un altro che sarebbe data dalla relazione dell’infinito passato a momenti diversi della serie temporale. Non sa però pensar l’infinito assoluto in modo razionale poiché crede di vincere quella supposta  contraddizione obbiettando: « similis demonstratio est siquis ex co  quod numerorum parinm numerus sit infinitus, totidem esse conclu-  deretur numeros pares quod sunt simpliciter numeri, id est pares  et impares simul sumpti ». De corpore La impossiblità del “regressus in infinitum in causis efficienticibus” REGRESSUS IN INFINITUM -- e un principio riconosciuto della scolastica. È vero però che gli scolastici lo facevano ancor più che a dimostrare un principio del tempo, o, secondo loro, del mondo, servire a dimostrare (seguendo Aristotele nella sua  dimostrazione del PRIMO MOTORE) la necessità di una prima causa assoluta. ossia ontologica. Cfr. il libro apocrifo Idella “Metafisica” di Aristotele, secondo il quale non solo la serie delle cause nel passato, ma anche quella del futuro sarebbe contraddittoria. Cursus der Philosophie, Logik. luoghi citati. dentemente assurda, e tanto più per chi come lui è sur  un terreno affatto critico e scientifico. Io trovo al contrario che la illimitatezza della serie regressiva dei cangiamenti si lascia senza contraddizione alcuna concepire infinita o, più propriamente, assolutamente infinita. Dtlliring, non à compreso come l’infinito assoluto possa attribuirsi anche a ciò che è per sé numerabile. E cosi  alla infinità dei cangiamenti nel tempo ritroso, che è l’unico caso dove una tale applicazione sia necessaria, egli  à fatto invece quella ingiustificata della sua manchevole legge del numero determinato. La difficoltà da me superata sta in questo, cui nessuno, per quanto io mi sappia, à mai badato sin’ora. I cangiamenti infiniti di cui si discorre non involgono contraddizione perchè essi non sono nè furono mai dati come totalità, ossia come complesso di una serie infinita. Acciò la contraddizione esistesse, bisognerebbe che s’ammettesse tacitamente un principio del cangiamento. Di  fatti altrimenti nell’assenza d’ ogni principio come si può dire. Ora, in questo momento si è esaurita uua serie infinita di cangiamenti ? Ma da quando dunque?  Si pensa con un tratto indefinito di tempo di avvicinarsi di più all’ infinito del passato, mentre in-   -- Questa soluzione è gù brevemente enunciata nella mia “Lettera  filosofica” a I Simirenko” (Torino, Roux). Schopenhauer, Parcrga u. Paralipomena: Wenn  cin erster Anfang nicht gewesen wure, so tornite die jetzige reale  Gegenwart nicht erst, jetzt seyn, sondern wiire schou liingst gewesen,  dcnn zwischen ihr und dem ersten Anfange miisscn mir irgend einen.  jedoch bestimmten und begriinzten Zeitraum annehmen, der min aber,  wenn wir den Anfung liiugnen, d. h. ihn ins Unendliclic hinaufruckén,  mit hinaufriickt, ecc. ecc. E vece noi ne rimangbiaino sempre alla medesima distanza. Qualunque punto del tempo si scelga, anche milioni di  milioni di secoli addietro nel passato, noi siamo sempre tanto vicini lo stesso all’infinito di prima. Come noi  per quanto risalghiatno addietro non possiamo esaurire  l’infinito che fu, cosi non dobbiamo inavvertentemente  ammettere che l'essere sia ne’ suoi cangiamenti partito  da un punto per quanto distante da noi. Poiché in realtà  ogni e qualunque suo cangiamento ne à sempre avuti  dietro a sè una stessa infinità di altri. Non è che l’essere avendo dovuto compiere i cangiamenti in senso inverso di quello che noi tenghiamo nell’abbracciarli venga con ciò ad aver esaurito una infinità di variazioni. Il tempo nella sua durata bisogna considerarlo analogamente a una retta che in una direzione è assolutamente  infinita e nell’altra in ogni momento terminata, ma prolungabile a piacere all’infinito. Come non implica contraddizione far terminare a un punto una linea assolutamente infinita, cosi non la implica il passato assolutamente infinito che si termina nel presente e può prolungarsi senza limite nel futuro. L’errore di Kant e di Diiliring e di tanti altri sta  nel credere che posta la serie regressiva infinita si abbia con ciò una totalità infinita. L’infinito passato invece non è nè può essere un tutto, e non ammette quindi  alcuna determinazione numerica, pur contenendo in sè ogni  numero. Tale infinità non involge, come crede Diihring,  l'assurdo di una contata (o percorsa, come direbbe Kant) serie infinita (“den Widerspruch einer abgezàblten unendlicher Zalilenreihe”). In qual modo potrebbe una tal serie esser contata? Non s’accorge Diihring che con ciò  egli ammette già quello che ei vorrebbe dimostrare, ossia un principio del tempo reale? In verità è quella  serie non contata, ma innumerata e innumcrabile, ciò  che detto di un infinito non inchiude punto contraddizione. Il moto non à principio nel tempo, e: sino a un  punto qualunque del tempo è trascorsa una infinita serie di cangiamenti — non si equivalgono esattamente. Con  è trascorsa si vorrebbe tacitamente porre come dato ciò  che è impossibile a darsi. Di fatti la contraddizione  scompare subito che si dice: la serie dei cangiamenti nel passato è infinita. É trascorsa sembra rinchiudere l’idea di un punto iniziale della serie, dove (die  i cangiamenti non si possono considerare un tutto o come serie completa senza contraddire al concetto di ogni  assenza di principio. Una infinità di cangiamenti, una infinità  di momenti del tempo non è trascorsa, sibbene l’infinito  trascorre sempre, e in ogni momento è esistita la serie dei  processi. La successione perpetua è appunto la forma  della infinità del tempo. Se si dice che l’infinito è trascorso si scambia, a jiarlar esattamente, il suo concetto, ponendo  in vece sua quello del finito, o almeno si combinano insieme due concetti incongruenti. Poiché ammettendo che una infinità di movimenti è trascorsa o s’è esaurita nel  passato, noi raduniamo in un tutto ciò che per sua  natura non può mai venir radunato. Il concetto di infinito e quello di totalità sono incommensurabili.Una totalità è sempre raggiungibile con una sintesi successiva delle sue parti, non cosi l’infinito. Diciamo invece. Le serie dei cangiamenti del passato è infinita — quale  contraddizione nel pensare che ogni cangiamento avvenuto è stato preceduto da un altro? Dov’è qui l’assurdo  di un tatto infinito che avrebbe dietro a sè ogni momento del tempo? I fenomeni per sè non suppongono se non  i fenomeni che immediatamente li precedono ; e come non c’è qui contraddizione, cosi per quanto noi ci trasportiamo addietro nel tempo, mai la troveremo. Come à fatto il tempo reale a giungere all’ora  presente dall’infinito? È potuto giungere dall’ infinito  perchè non è mai partito. Se fosse a un dato punto partito non sarebbe potuto giungere. E tanto concepibile l’infinito verso il quale tende la serie che quello dal  quale essa procede. Nell’un caso e nell’altro si deve solo  avvertire di non fare un insieme o un complesso di ciò che non è mai dato come tale, ossia un insieme in cui ogni momento dell’ infinito fosse anticipatamente compreso. Kant nella prima ANTINOMIA spiega dapprima egli stesso che l’infinità di una serie consiste nel non poter questa venir mai compiuta per mezzo di una sintesi successiva  e che il CONCETTO di fatalità non è altro che la rappresi) Schopenhauer crede di sciogliere il sofisma Kantiano  con un altro sofisma, distinguendo tra assenza di principio e infinità  del tempo. Schopenhauer cosi infatti obbietta alla tesi della prima ANTINOMIA. Uebrigens besteht das Sophisma darin, dass statt der Anfangslosigkeit der  Reihe der Zustànde, ivovon zuerst die Rede, plutzlich die Endlosigkeit  (Unendliclikeit) derselben untergeschoben und nun bewiesen wird, was  Xiemand bezweifelt, dass dieser das Vollendetsein logisch widerspreclie  und dennocb jede Gegenwart das Ende de Vergangenheit sei. Das Ende  einer anfangslosen Reilic làsst sich aber immer denken, oline ihrer Anfangslosigkeit Abbruok zu tbun : wic sich aneli umgekehrt der Anfang einer endlosen Reihe denken làsst. “Die Welt als Wille” ecc. “Kritik der reinen Venunft”, ed.  Kirchmann p. 3G4, 3GG, 3G0. 4G  sentanone della sintesi completa delle sue parti. Dunque anche secondo lui dovrebbe il concetto di totalità  non esser applicabile ad una serie infinita. Tuttavia per  dimostrare che le cose coesistenti non possono essere infinite, alla loro infinita sostituisce egli appunto il concetto contradittorio di un tutto infinito. Ed à bel giuoco  nel rigettare quindi un tale assurdo. Ecco la sua dimostrazione . un tutto infinito per venir pensato tale dovrebbe  lasciarsi esaurire per mezzo di una sintesi successive. Ma l ’infinito non può mai venir cosi esaurito, dunque  una totalità infinita di cose coesistenti non può considerarsi come data. Insomma dice Kant : una infinità  non potrebbe venir numerata ossia non potrebbe esser  finita, dunque non può esser data; vien rigettato  l’infinito semplicemente perchè è altra cosa che il finito. Non l’nfinito per sè, solo l’infinito nel finito è realmente  un assurdo, poiché come tale dovrebbe esser necessariamente dato tutto. Ogni insieme di cose deve perciò contenere soltanto un numero finito di elementi numerabili. Ma  quanto al temilo non c’è ragione di negarne la infinità ;  numerabili sono i processi da un punto a un altro della  serie, non la serie stessa in senso assoluto, perchè ella  non è mai data come un tutto,   Is eli infinito assoluto o transfinito che è proprio del  tempo, non abbiamo più veramente una grandezza ma  1 assenza di essa, poiché è data la necessità della mancanza di un limite nel regrèsso, ed una tale mancanza  è oggettivamente mallevata come nello schema spaziale  della mente essa lo è soggettivamente. La ragione della  infinità dello schema spaziale, come di quella della serie dei numeri sta nel soggetto ; la infinità invece della serie causale à la sua ragione nell’ oggetto o nella realtà  estramentale. E appunto solo nell’infinito del tempo passato che si lascia necessariamente attuare un significato  reale del transfinito. Poiché una simile illimitatezza assoluta è bensi anche dello spazio, ma soltanto dello spazio ideale o matematico, in quanto questo viene ogget-  tivato e lo possibilità che realmente è solo nella funzione  mentale vien naturalmente considerata come oggettiva e  per sé esistente indipendentemente da noi. L’infinità del  passato non à, come tale, determinazione alcuna quantitativa, non si lascia esprimere col numero ; in essa è  invece ogni numero e può porsi ogni determinazione rimanendo ella assolutamente indeterminata. Cosi la distanza di due punti nel tempo, per quanto grande la si  immagini, se si à riguardo alla sua relazione all’infinito  del tempo anteriore, non significa nulla per questo appunto che l’infinito assoluto essendo propriamente la  negazione di ogni grandezza nel grande non può venir  posto in relazione con altre grandezze. La nostra fantasia non può correre che all’ infinitamente grande del  passato. SOLO L’ANIMO ne intende la infinità assoluta.  Della seriedel tempo non possiamo ottenere una assurda totalità; per padroneggiare quella bisogna uscire dal cangiamento e volgersi al fondamento della infinità  temporale, ossia all’essere come presente in ogni momento e come fonte d’ogni possibile.  Meravigliarsi che la più grande grandezza immaginabile non sia più vicina all’infinito assoluto che la più  piccola, è analogo al meravigliarsi che la più ampia conoscenza dei fenomeni non arrivi più vicino alla cosa in  sè che la conoscenza più limitata. Qui come là si tratta  di una differenza qualitativa che nou si lascia esaurire  pei aiiazioni di quantità. L’apparente paradosso che con una comunque grande grandezza non s’è mai più  vicini che con altra infinitamente minore al transfinito, riposa in questo, che le due grandezze vengono riferite  a quello senza mantenere di esso il giusto concetto, ma  consideiandolo invece come una quantità determinata;  nel qual caso sarebbe veramente un assurdo dire che da  esso disti ugualmente un dato punto e un altro che fosse  prima o dopo di questo. Come nel transfinito del passato  non c è assolutamente un termine, cosi esso non è raggiungibile in alcun modo; dunque tutte le grandezze  sono per riguardo ad esso insignificanti. Parimenti è un  assurdo credere di poter addizionare una unità al transfinito o trasfinito. Si può solo addizionarla al finito. L’accrescimento esisterà pertanto in riguai do ad un segmento finito di retta, ma non in riguardo alla retta stessa nella  sua infinità. In una retta infinita nelle due direzioni è  indifferente il far la divisione più in un punto che in un  altro da quello lontanissimo ; le due rette risultanti sono  sempre lo stesso transfinito e con ciò sempre uguali. Nella retta co’_a _b _m rx - A — Aoo e oo’B   ossia ( co’A-H AB ) — B oo uguale cioè (A oo — AB).  Si vede cosi contrariamente alla dottrina di Cantor. Dice Cantor. Zu einer unendlichen Zalil, wenn sie als  bestimmt und vollendet gedacht wird, selir «ohi cine endliche hinzu-  gelugt und mit ihr vereinigt werden kann, oline dass kierdurch eine  Aufhebung der letzeren bewirkt wird ; nur der umgekerte Vorgang, die  llinzufugung einer unendlicker Zahl zu einer en dlicbcn, wenn diese che oo-t-1 ( <> —J— 1 secondo la sua notazione) non è maggiore di <», nè 1-f-o è differente da essendo   co’A + A B = A B + oo. Non v’è infinito maggiore d'altro infinito: tanto sarebbe infinito il tempo ritroso se la  serie dei cangiamenti fosse terminata migliaia di secoli  fa, quanto se esso continui all’infinito a trascorrere ancora. Il passato si può misurare tanto a minuti che a  secoli, e dirlo eguale, se fosse lecito così esprimersi, a  numero infinito di minuti o a uno infinito di secoli; non  pertanto sarebbe sempre lo stesso infinito nè più nè  meno. E la ragione di ciò è che la quantità transfinita  non è misurabile. La immensità supera ogni numero,  come direbbe Spinoza.   Nella infinita serie delle cause è da pensarsi un numero di esse (se tale può chiamarsi), maggiore di ogni  numero assegnabile ; oltre ogni raggiungibile anello la  natura ne offre costantemente altri ulteriori. Nella natura la contraddizione non può esistere ella non ef¬  fettua il passaggio che da un momento a un altro; e  questo passaggio non può farsi attraverso l’infinito. Per  quanto noi risalghiamo all’indietro nella serie causale,  come non troviamo contraddizione pel pensiero, cosi non la troviamo nella realtà. Essa ci offre sempre e solo un   ziierst, gesetzt wird, bewickt die Anfhebung der letzeren, ohne dass eine  Modification der ersteren eintritt. (Grundlagen ecc.); e più oltre: “Ist co die erste Zalil der zweiten Zalilenelasse, so iiat man:  1+01=10, dagegen u> 4 .i-=(coq-l), wo (co- 1 - 1 ) eine von co durchaus verschiedene Zahl ist. Aiif die Stellung des Endliclien konmtes also alles an. Una tale inapplicabilità della LEGGE DI COMMUTAZIONE ai numeri transfiniti o trasfiniti dovrebbe per Cantor servire inoltre a dimostrare come tali numeri debbano poter essere e pari e dispari insieme o anche nè pari  nè dispari. . 5dato cangiamento e la sua causa. II fenomeno non richiede per la sua spiegazione la totalità della serie delle  cause anteriori, si bene soltanto la causa immediatamente antecedente; e il principio di ragione domanda unicamente la immediata condizione e non una totalità di  condizioni. In quanto la stessa richiesta si rivolge successivamente alla causa della causa e cosi via all’infinito, si viene a domandare costantemente una nuova condizione e questa è un nuovo membro della serie e niente  di più. Al tempo è essenziale la posizione in atto di un  solo momento.   Fatta astrazione dai cangiamenti, e supposto l’essere  affatto immoto in una rigida stabilità assoluta, noi lo  poniamo però sempre in qualunque punto del tempo ideale  che noi fissiamo ; la sua esistenza la poniamo cosi necessariamente infinita nel passato. Or come può nascere  la contraddizione se noi in uno qualunque di questi punti  pensiamo invece l’essere universale nel flusso del cangiamento? Assurda è la posizione di un tutto infinito,  quale non può qui esser dato, poiché la successione perpetua è la forma dell’infinito del tempo; noi abbiamo  qui una serie che in riguardo al nostro procedere a ritroso nel tempo da fenomeno a fenomeno è infinitamente  grande, e per sé è transfinita come la tangente dell’angolo di 90° -- Wundt è condotto a credere (Philos., Stadie. Kant’s kosmologichen Antinonien n. das Problem des Unendl.) che l’applicazione  de concetto di transfinito non sia possibile nel problema cosmologico  del tempo. Egli crede un tal concetto trascendente, che invece non è  e cosi gli viene a mancare un concetto che esprima la infinità oggettiva ossìa 1 eternità del processo della natura. Il concetto limite del     in.   Kant crede che la sua dottrina della idealità  del tempo e dello spazio o della transcendentalità in  generale, spiegasse la supposta antinomia del problema  cosmologico, e rendesse con ciò inutile e vana la ricerca  di una soluzione. Ma appartenga o no il tempo e lo  spazio al reale in sè, riman sempre tuttavia la questione  se questo, che Kant non può a meno di accettare, si  abbia a pensai’e come fondamento di un mondo fenomenico finito ovvero di uno infinito. Non vale rispondere  che la serie regressiva delle percezioni nostre non può  essere realmente infinita perchè come tale impossibile, e  neppure finita perchè nessun limite dei fenomeni può venir  concepito come assoluto, e dichiarare con ciò insolubile  la questione. Dacché l’oggetto trascendentale condiziona  realmente, come egli ammette un determinato regresso  empirico, per un esempio nell’ordine dei corpi celesti ;  doveva Kant pur ammettere che rimaneva sempre a ve-  regresso infinito (o a dir proprio infinitamente grande) non è già un  concetto trascendente della creazione quale dovrebbe, secondo Wundt, accettare ogni spiegazione filosofica della natura (v. Wundt,  “Ueber das Kosmolog. Problm, Yiertelsjahrszeitscb.); quel suo  concetto limite nuli’ altro è invece appunto die l’infinito assoluto  del tempo oggettivo, in base al quale è possibile il nostro infinito (infinitamente grande) regresso. Il non aver considerato l’eternità  del fare della natura, e specialmente il non aver badato die l’infinito regresso è in realtà per la natura un perpetuo progresso, il cui concetto non può venir altrimenti pensato che per via del transfinito,stata la causa per cui Wundt concepì il tempo passato  sotto il concetto dell’infinitamente grande concordando in fondo col  Kant, come il Lasswitz si trova in questo d’accordo con lui. (Ein  Beitrag zum Kosmol. Proli. Viertels. Kritik der reinen Vermnft.  dere se l’oggetto trascendentale determinasse un possibile  regresso finito od infinito (11. Perchè se per lui tuttii  processi compiutisi da tempo remotissimo ad ora non significano altro che la possibilità deirallungamento della  catena dell’esperienza dalla percezione attuale indietro  alle condizioni che la determinano nel tempo; pure egli,  per ciò che s’è sopra citato, non può negare che il possibile regresso delle nostre percezioni secondo le soggettive leggi della mente, non supponga un regresso oggettivo determinato dalla realtà inconscia indipendentemente da ogni esperienza. Trasportati a indefinita  distanza dal nostro sistema solare, avremmo noi sempre  ancora nuove percezioni? E cosi, trasportati indefinitamente addietro nel tempo vedremmo noi necessariamente  sempre nuovi cangiamenti? Poiché la nostra necessaria  produzione dello schema dello spazio e del tempo, non  potrebbe per sè far si che noi avessimo nuove percezioni  dove l’oggetto trascendentale non le condizionasse e si  mostrasse con ciò finito. Lo spazio e il tempo ideali non  sono per sè garanti di una corrispondente possibile PERCEZIONE. Non una necessità del nostro concetto a priori del  tempo, ma il principio di causalità richiede la infinità  della serie regressiva dei cangiamenti. Poiché non si  può conchiudere la mancanza di un principio del tempo -- Cfr. Schopenhauer, Parerga. Die wicklichen Dinge der vergangenen Zeit si nel in dm transcendentaien Gegenstand der Erfahnmg gegeben ; sie sind aber ftir mieli  nur Gegenstànde und in der vergangenen Zeit wicklich, sofern als  ich ecc.). Saranno però dunque sempre non null’altro, come dice Kant poco sotto, ma qualcosa di più della possibilità  dell’allungamento della catena dell’esperienza dalla presente percezione  indietro alle condizioni che la determinano nel tempo. ]da questo, che ogni limite è necessariamente da noi  pensato come relativo. La relazione di termine e terminante è infinita come quella di soggetto e oggetto ; perciò appunto vuota ; essa nulla può aggiungere al contenuto reale cui viene applicata. Come il pensiero dell’essere impensato, che è la forma in cui comprendiamo il  reale, nulla toglie alla realtà estraraentale od in sè della  cosa, allo stesso modo la relazione mentale di limite e  limitante non può evidentemente mettere nella realtà il  suo secondo termine se nella realtà non è dato. Questo  secondo termine, il limitante, rimane, se si astrae da  ogni altra considerazione, un puro complemento ideale. Riehl non seppe neppur egli superare o sciogliere la falsa contraddizione che Kant e Dtihring, per  non dir che di loro, credettero inchiusa nella concezione  di una serie regressiva infinita di cangiamenti. Visto  che la contraddizione stava nel concetto di una infinità  la quale quei filosofi avevano pensato necessariamente   [Hamilton il quale (“Lectures un Metaphysics”, lettura; On logic) segue Kant nelle antinomie, non giunge che a questo risultato, di pensare in riguardo all’infinito del tempo e dello spazio,  che se la ragione non ci fa piegare necessariamente nè da una parte  nè dall’altra, pure in realtà il tempo e lo spazio dehban essere o  finiti o infiniti. (Cfr. del resto l’acume del Mill nella sua confutazione di Hamilton, La philosnphie de IL). Spencer  poi, che à fatto la sua più alta educazione filosofica presso di Hamilton appunto e del suo scolare Mansel, professore di metafisica a OXFORD, seguendo il maestro dichiara questioni insolubili tanto quella riguardanti l’infinità del tempo e dello  spazio che quella della divisibilità della materia e altre ancora. Egli  pensa, cerne è noto, che i concetti di spazio, di tempo, di moto, di  materia e di forza si mostrino in ultima analisi inconcepibili e ci lascino sempre del pari nell’alternativa tra due opposte assurdità, “First Principles”, la quale io stimo  certo l’opera più infelice del filosofo inglese. data come totalità, egli pensò di sfuggirla col negare  la numerabilità o la reale distinzione e indipendenza numerica nella catena delle cause e delle variazioni.  Numerabili, dice egli, sono le cose, non i processi. In  quanto le cose sono od appaiono spazialmente divise,  deve è vero valere ciò die il Duhring à formulato come  legge del numero determinato; ma altrettanto, séguita Kiehl, è certo che quella presupposizione non vale per i  processi temporali. Questi non sono, secondo lui, per sé  stessi distinti numericamente : è solo per la nostra distinzione mentale che essi ottengono una tale determinatezza. Un argomento dunque che vale per il numero non  può senz’altro venir applicato al tempo, poiché mancano  in questo per sé considerato e non riferito allo spazio,  degli effettivi processi indipendenti, separati l’uno dall’altro, o posti insomma come numerabili. Noi possiamo  distinguere dei processi nel tempo soltanto in determinato numero finito, nessun processo è però indipendente  [Il Itielil (Ber phUosopliischc Kriticismus) inclinava dapprima decisamente a porre con Duhring un principio del cangiamento. Soltanto nella seconda parte del secondo tomo, tormentato dalla necessità del principio di causalità cangiò opinione (quantunque non lo abbia fatto notare egli stesso esplicitamente);  ma per uscire dalla presunta contraddizione dell’ infinito regresso,  pensò, al contrario di prima, i processi come assolutamente, e con ciò  assurdamente continui. Si vede del resto evidentemente clic il Riehl oltre aver cangiato  di parere, non ò nemmanco ancor ora troppo certo della sua nuova teoria; poiché la tratta troppo brevemente e troppo alla larga, come se  gli scottasse di dover render più minuto conto di ragioni che a lui  stesso non possono parere troppo convincenti Ciononostante l'opera  sua e specialmente la seconda parte del secondo tomo è un lavoro  filosofico non solo di grande valore, ma anche molto attraente, il che  è una cosa assai rara.  1C  e distinto da quello che immediatamente lo precede o  segue. Rielil, non sapendo come uscire dalla supposta contraddizione à dunque rinunciato a concetti di  cui l’esatto pensiero scientifico non sa nè può lare a meno,  senza che ciò del resto gli abbia giovato per la eliminazione della temuta assurdità come più innanzi vedremo. La questione dell’infinito riguarda tanto il tempo che  lo spazio. Solo si à sempre a distinguere tra l’esistenza  loro ideale ; cioè il loro schema mentale, e la loro esistenza reale. Non numerabile possiamo noi solo pensare  lo spazio ideale, lo spazio o l’estensione materiale dobbiamo invece necessariamente porla numerabile. Poiché  estensione reale è coesistenza, e la continuità assoluta  non può essere reale ma soltanto ideale ; altrimenti essa  inchioderebbe la contraddizione dell’infinito compiuto nel  finito, chè senza parti è solo il continuo della rappresentazione. Porre la continuità assoluta come effettiva è  non spiegar nulla e mettere il mistero nella realtà, rinunciando a comprenderla. L’irriducibile noi lo dobbiamo  soltanto rilegare negli atomi sia dello spazio che del  tempo reali. I tropi degli Eleati non valgono meno contro il continuo del tempo che contro quello dello spazio;  non meno contro lo spazio percorso da un pendolo in  una oscillazione, che contro il tempo in questa impiegato. In parti ultime non si può dividere il tempo nè  lo spazio ideale, perchè essi nè sono composti nè si originano da una sintesi di parti, come in fatti non possono venire analiticamente scomposti in ultimi elementi  semplici, e sono conseguentemente l’uno e l’altro divisibili all’infinito ; ma non è cosi del tempo e dello spazio  leali, dove la natura viene necessariamente aH'atto. Dice Diehl che solo il nostro intelletto scompone  l’accadere temporale in singoli processi, e che questi solo  per ciò ci appaiono indipendenti, che partono da cose  spaziali e si trasmettono ad altre cose nello spazio. Un processo secondo lui può  aver indipendenza solo perchè vien riferito alle cose nello spazio e non al tempo unicamente. Ma è naturale  che tutti i processi siano nel mondo materiale (e non  vengano soltanto da noi) schematizzati per dir cosi nello  spazio, poiché essi non sono altro che cangiamenti della  realtà spaziale, e unicamente i processi della coscienza  in sè considerati possono venir riferiti al tempo come tale senza riguardo allo spazio. Difatti non pensa ora Rielil che sia concepibile una materia assolutamente  continua come lo spazio mentale, ossia non costituita  da atomi? Anche  della materia allora si dovrebbe dire che gli elementi  distinti solo la nostra mente li pone. Come può egli dunque affermare ripetutamente che soltanto la riferenza dei  processi temporali allo spazio ci faccia considerar questi  come distinti e per sè numerabili? Voler negare la numerabilità nel tempo reale o ne’ suoi processi dovrebbe  al contrario anche secondo il Riehl esser lo stesso che  negare nello spazio gli atomi o le cose ossia gli aggruppamenti durevoli degli atomi.   Ogni grandezza nella realtà à parti elementari, non  esclusi i cangiamenti; un certo gi’ado di cangiamento è  una somma di successivi cangiamenti minimali. Ma il  pensiero come per istinto sembra rifuggire dalla concezione dell’atomo o minimo temporale, perchè colla determinatezza scompare quel che di vago e di nebuloso  E ir, rdie altrimenti conserva la concezione (lei tempo, e per  cui la mente non avverte o avverte assai meno la inintelligibilità di quello. Colla posizione dell'atomo o minimo,  la natura non più oltre scrutabile del tempo si affaccia  bruscamente all’intelletto. Il tempo come rappresentazione rimane naturalmente strettamente continuo pur essendo discreti i processi reali, cliè la sua continuità assoluta ideale è una proprietà necessaria dipendente dalla  natura della coscienza, la quale tra due processi per  quanto infinitamente vicini interpola pur sempre la sua  unità. Non c’è un minimo concettuale del tempo come  c’è invece e si richiede il minimo reale. I n minimo nella  rappresentazione del tempo sarebbe un punto inesteso, e  considerarlo come elemento della durata tanto varrebbe  quanto rendere impossibile il concetto di questa.   Non deve più urtarci l’accettar gli atomi, o meglio  la concessione atomistica, per la materia, che accettarla  in riguardo alla forza e al cangiamento. Non crediamo  siano più intelligibili gli elementi materiali che quelli  del divenire. La facoltà nostra mentale di pensare gli Schopenhauer trattando nella quadruplice radice del principio di ragione del tempo del cangiamento, mette in piena  e con ciò stridentissima luce il concetto ch’egli à della continuità  assoluta del tempo, quale egli trova acutamente espresso presso il LIZIO. “ Come tra due punti v’ è ancor sempre una linea, dice egli,  così tra due ora vi è ancor sempre del tempo. È questo il tempo del  cangiamento ; esso è come ogni tempo divisibile all’ infinito e per conseguenza il cangiamento percorre in esso un numero infinito di gradi  per i quali dal primo stato nasce a poco a poco il secondo. Egli  conchiude con Aristotele dalla infinita divisibilità del tempo, che ogni  contenuto di esso e con ciò ogni cangiamento, o il passaggio da uno  stato all’altro deve essere infinitamente divisibile, e che dunque tutto-  ciò che diviene s’origina in fatti da punti infiniti.  atomi come ulteriormente divisibili vale per tutti e due  gli ordini senza diminuire perciò la necessità che à la  mente di ammetterli. Quel sentimento direi quasi di disagio  clic par darci questa necessità, non è in fondo che ca¬  gionato da quella nostra come ripugnanza a riconoscere  che l’analisi mentale della realtà deve a un dato punto  arrestarsi. La mente deve arrivare ed arriva, ad elementi  i quali non sono più oltre scomponibili, altrimenti il  reale potrebbe sciogliersi nel pensiero.La divisibilità ideale  non porta con sè una reale divisione. Solo il tempo ideale  può venir diviso a piacere all' infinito, e non à quindi  elementi numerabili, ma il tempo reale col suo vario contenuto fenomenico è di sua natura numerabile; quantunque noi, come ci accade per gli atomi della materia, non  arriviamo direttamente a’ suoi elementi. Non meno delle  cose o degli elementi delle cose sono anche i processi numericamente distinti. E se in astratto la grandezza non  à divisione, essa non può tuttavia nella realtà venir  esattamente concepita che come risultante di una immediata ripetizione numerica d’uno stesso identico. L’assenza  di elementi reali è solo nel nostro pensiero che può a-  strarre da ogni divisione nel considerare una grandezza,  ed è pienamente libero di dividerla o accrescerla all’ infinito, allo stesso modo che esso procede co’ numeri. Tanto la natura che il pensiero ànno del resto la possibilità dell’infinito accrescere e interpolare ; ma ne’ loro  prodotti non possono dare che il determinato: l’infinito  si riferisce solo al loro operare, non al loro operato. Il concetto del continuo assoluto applicato al tempo  reale sarebbe del resto affatto inutile anche quando fosse giustificato. Poiché empiricamente un tal continuo noi  non lo incontreremmo mai. Il fatto che noi della sintesi  della natura (come dice Diihring in qualche luogo della “Dialettica”), non abbiamo altro che rappresentazioni di  effettività, non ci dà il diritto di fare delle possibilità  del nostro pensiero la misura della realtà. Come in sé  sia fatto il passaggio da un punto del tempo all’ altro,  non può venir inteso. Tanto varrebbe domandare perché  esiste il tempo o magari l’essere stesso nella sua -effettiva natura Voler ancora spiegare gli elementi del tempo è uno sconoscere la natura del pensiero; noi non li  possiamo ridurre ad altro perchè il tempo non è un prodotto della mente, è condizione anzi dell’esperienza, e  non à una natura puramente logica. Il passaggio è una  determinazione della realtà che noi non possiamo che  riflettere. Sarebbe lo stesso voler spiegare gli atomi della  materia; noi non possiamo che ammetterli o riconoscerli;  una pretesa spiegazione di essi è assurda poiché il pensiero non è tutta la realtà, ma vien confinato da qualcosa  che se pò dare ad esso un contenuto formale, non può  però dare il suo essere. Da un grado a un alti’O del cangiamento si fa il passaggio in quanto il cangia¬  mento stesso ci si mostra come fatto compiuto. Noi  non dobbiamo quindi illuderci col concetto misterioso del  continuo assoluto di penetrare più addentro nel fare della  natura, nel divenire dei fenomeni. Noi non possiamo mai  altro che constatare gli avvenuti cangiamenti, nuH’altro  possiamo. E cosi in realtà non conosciamo come il cangiamento, ma che il cangiamento s’è fatto. Tornando ora alla soluzione di Riehl, nemmanco col fare la serie dei cangiamenti assolutamente continua  sfugge egli, secondo crede, alla temuta e presunta contraddizione dell’infinito compiuto od esaurito. E 1' errore suo si fa più stridente e palese quando egli sostiene che la infinità del tempo si mostrerebbe esaurita  se si dovesse pensare ad un suo fine nel futuro. Ei  crede che solo in tal caso, per evitare la contraddizione, si dovrebbe ammettere un principio assoluto del  tempo. E così fa dipendere, cosa enorme, la infinità del  regresso dalla infinità del progresso nel futuro. Ma la fine  del tempo non è invece punto contradditoria. É questa  una questione di natura empirica; e cosi secondo lui non  dovrebbe esser allora inconcepibile e contraddittorio neppure un principio del tempo. Il tempo reale, ove fossero  date le condizioni di un equilibrio universale, potrebbe  finire ad ogni momento senza assurdità alcuna. Poiché  ad ogni modo nella natura ogni fine non è della serie  infinita ma dell’ultimo cangiamento. Del resto, sia pure,  ammettiamo che i processi non siano per sé distinti e  numerabili, ma siano invece assolutamente continui. Dice Riehl che le oscillazioni di un pendolo sono  senza dubbio determinate numericamente. Ora come risponderebbe egli alla domanda — nè vi può  in modo alcuno sfuggire — se si debba pensare che insieme sommate le oscillazioni dei pendoli che possono  dall’eternità esser mai esistiti in infiniti mondi, possano  venir compresi da un numero finito? E se no sotto quale  concetto una tale somma o regola di somma dovrà venir  pensata? A ciò non à egli risposta.  E più ancora come risponde Riehl a quest’altra, la domanda. Il numero delle terre dall'eternità ad ora nate e morte è egli infinito o finito? Poiché qui manifestamente  abbiamo delle esistenze separate, indipendenti, numerabili  anche secondo lui. L’unica giusta risposta è che un tal  numero è necessarianente infinito, o, propriamente, transfinito. Nel corso perpetuo del tempo non solo non è contraddittorio, sibbene è necessario che un infinito numero di corpi celesti (dato che le moderne teorie cosmiche  siano, come pare, inevitabili) abbia gradatamente avuto  nascita e morte. Con ciò come non vi fu un primo cangiamento, nemmanco vi fu una prima terra. Il concetto dell’infinito assoluto o transfinito è applicabile solo alla serie regressiva dei cangiamenti, non  alla progressiva. La natura di questa consistendo appunto nel crescere suo continuo verso il futuro non può  cadere, se infinita, che sotto il concetto dell’infinitamenfe  grande. Poiché in nessun punto iminaginabi'e del futuro  non si sarà compiuta, a partire da un punto qualunque  del tempo precedente, una infinità assoluta di cangiamenti. E ciò che si avrà sarà solo la continua possibilità  di sempre nuove mutazioni. La questione però se realmente nella natura dell’essere sia la disposizione a qnes'.o infinito futuro è affatto empirica, non essendoci, come s’è visto sopra, alcuna difficoltà che a priori ci impedisca di pensare possibile un termine d’ogni cangiamento in un qualunque momento avvenire. Il concetto del tempo per sé non ci dà alcuna soluzione; la questione  è puramente di fatto. La soggettiva possibile anzi necessaria illimatezza dello schema spaziale non porta seco  necessariamente un infinito riscontro nella esistenza materiale oggettiva. Allo stesso modo neppure la illimitatezza del tempo ideale porta con sè quella del tempo  reale ossia una serie infinita di reali cangiamenti. Essa  non ci impedisce in modo alcuno di considerare come possibile un limite del mondo nel tempo. Se noi siamo sforzati di pensare ad un tempo vuoto non è però il pensiero  di esso che gli dà un contenuto reale in ogni suo momento. Essendo che per sè stesso la vuota durata tanto è  del reale come del nulla ; sebbene la durata non rimane  mai nel nostro pensiero priva adatto di contenuto, in quanto la permanenza dell’essere, indipendentemente dallo svolgersi o no esso in fenomeni, non può mai mancare di  farle riscontro. Ed è in questo una grandissima differenza tra la rappresentazione dello spazio e quella del  tempo. Mentre a niun punto arbitrario del tempo viene  a mancare il contenuto materiale, non così necessaria¬  mente ad ogni punto dello spazio. A parte i cangiamenti  in cui l’universo si svolge è evidente che non può ad.  esso venir applicato il concetto di una determinata durata. Come esso è sempre quello che è, cosi il tempo non  à a suo riguardo significato alcuno. In un qualunque  momento inesteso del tempo 1’ essere è completo, è  tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. Se dunque nel futuro venisse realmente a mancare ogni mutazione nell’essere, questo potrebbe solo impropriamente  venir considerato come nel tempo; la durata dal punto  in cui il cangiamento sarebbe cessato à soltanto senso  perchè noi la immaginiamo misurata da quella piena di  cangiamenti della nostra coscienza.  Intanto la meccanica non ammette assolutamente la possibilità del passaggio di un sistema da uno stato dinamico ad uno statico. E cosi il tempo futuro è indubbiamente infinito nel senso di una progressione senza  fine – V. anche le considerazioni di Sleyer, “Mechanick iter l Verme”. Tra le due infinità del passato e del futuro sta il momento presente, il quale inchiude la realtà eterna,  la realtà che fu e che sarà. La pienezza dell’essere non  ci sfugge come parrebbe a considerarlo nella infinita sua  fenomenologia. L’essere è sempre tutto presente, non c’ è  elemento di cui possa dirsi che sia stato o che abbia a  originarsi. Certamente l’interesse nostro va al suo svolgersi ne’ cangiamenti per cui solo ci si svela la sua natura e per cui solo noi ci commoviamo e viviamo. Che  per la coscienza l’essere immoto in una rigida inerzia  non avrebbe valore alcuno. Tuttavia la infinita possibilità del cangiamento è tutta nell’essere in un qualunque  punto matematico del tempo. E cosi T importanza del  tempo finito non si perde di contro alla infinità passata  e futura del processso: ogni momento del tempo ci  dà l’essere sub specie aeternitacis, nè altra mai è stata  la esistenza della realtà che quella del momento.  Solo in questa considerazione della permanenza  eterna del reale possiamo noi comprenderne la infondata e infondabile natura sistematica. Lo sguardo alla incessante evoluzione può troppo facilmente far considerare le interne determinazioni dell’ essere come transitorie. Che l’evoluzione sia tale quale noi l’andiamo scoprendo non è altrimenti a intendersi. Giova quindi, per  la concezione universale dell’esistenza, oltre che aver  riguardo allo svolgimento di un sistema parziale nel  tempo considerare gli altri sistemi parziali del cosmo  nel loro coesistente diverso grado di svolgimento, per  cui si lascia forse quasi pensare come in ogni momento  attuata nello spazio la evoluzione temporale dei singoli  mondi. Nello spazio e nel tempo, da cosa a cosa, da processo  a processo, per il filo della causalità materiale spiega  l’essere la sua unità. Alla necessaria necessità logica rispondi la effettiva unità materiale della esistenza. L’unità dello spazio e del tempo nella rappresentazione non  basterebbero per sè a escludere una radicale disparità  nel reale. Se lo spazio e il tempo fossero puramente  forme ideali nascerebbe il problema del come la realtà  non possa dare origine a duplicità di sorta. E la questione si scioglie solo in quanto si riconosce che l’unità  stessa del reale è che crea quella dello spazio e del  tempo. Le proprietà dello spazio sono esse stesse di na¬  tura meccanica, nè altrimenti potrebbero le leggi della  natura esprimersi in relazioni di spazio; nelle necessità  spaziali è la logica immanente delle forze della natura. Due spazi differenti sono un assurdo non solo avuto  riguardo al pensiero, ma anche in riguardo alla oggettiva realtà materiale. Il pensiero per sè non trova alcun  impedimento a riunire ogni spazio in uno spazio unico  nel vuoto schema spaziale e non può trovar quindi ragione di considerarlo come disuniforme. Nella realtà poi  la pluralità degli spazi vorrebbe dire pluralità di  esseri. Ora una tale pluralità non solo non può mai  venir oggetto del nostro pensiero e per noi non può quindi   assolutamente esistere, ma è dalla realtà smentita, perchè anche l’esperienza colla omogeneità universale della  materia mostra esser l’essere uno. Le posizioni delle  distanze nello spazio reale non sono che rapporti di  forza. Ogni elemento dell’ esistenza materiale è quindi  nello stesso unico spazio. Non esistendo cosi elemento alcuno fuori d’ogni relazione cogli altri. Analogamente è del tempo reale ; la sua unità suppone quella  dello spazio materiale e dipende insieme dalla universalità del cangiamento. Per la natura radicalmente omogenea delle cose e per la temporalità d’ogni cangiamento  è uno anche il tempo oggettivo. E cosi che i principii meccanici si estendono presumibilmente e con sempre maggior certezza ad ogni massa  dell’universo, a ogni sistema di stelle fisse e gruppo di sistemi. Poiché la base dell’esistenza è di natura meccanica. Solo la sensazione come tale o il campo della coscienza ne resta fuori e riceve dalla spiegazione meccanica una eterogenea sebbene costante e parallela illustrazione. L’unità dell’essere non à riscontro in una fantasticata e contraddittoria unità cosciente universale; rifrange invece per dir cosi la sua unità in quella di molteplici  coscienze individuali. L’unità oggettiva estramentale e la  unità della coscienza: due abissi del pari inscrutabili ma  rispondentisi. Albana e all’altra sta a base e direi quasi  a tergo quella che noi non possiamo concepire che col  concetto formale di ragione o di fondamento unitivo e  subfenomenico dei due fatti. Non è meno inscrutabile  l’una unità dell’altra, sebbene quella della coscienza implica per sé quella materiale oggettiva. Infatti che cosà  di meno oltre analizzabile dell’unità radicale che con la  mutazione si appalesa esistere negli elementi dell’essere? Come spiegare la effettiva comunione delle sostanze, il  fatto che lo stalo di un atomo porti seco un dato altro  stato di un altro? Queste riflessioni ci richiamano alla  infondata originarietà delle cose, e alla natura per così  dire superficiale della conoscenza e del pensiero. Quelli  sono resti refrattari ad ogni ulteriore analisi; nè già per difetto del nostro istrumento, ma per la necessaria natura stessa del conoscere, chè altrimenti la realtà dovrebbe cessare di esistere come distinta dal pensiero. La  analisi à necessariamente de’ limiti, i quali non anno  però bisogno d’esser limiti della conoscenza nel modo in  cui falsamente per lo più vengono intesi, quasi indizi di limitatezza di contro a una sia pur solo logicamente possibile conoscenza superiore. Come non è incondizionatamente applicabile al reale  il principio di ragione, tanto meno lo sono altri concetti  essenzialmente relativi quali quelli di grandezza e di  scopo. Se l’universo è infinito, non à evidentemente per  ciò stesso determinazione alcuna quantitativa; se finito  è vero però che in relazione ad una sua parte esso à  una grandezza determinata, sebbene nell’estenzione variabile da un momento all’altro. E che possiamo quindi  dirlo più piccolo di una grandezza posta mentalmente  superiore alla sua ; che anzi possiamo anche considerarlo  infinitamente piccolo in relazione all’infinito assoluto dello  spazio ideale. Ma in sè non si potrebbe dirlo propriamente nè grande nè piccolo, perchè fuori di esso non vi  è nulla che possa darci una unità di misura. E del pari  è affatto relativo il concetto di durata e inapplicabile  perciò in modo incondizionato all’essere. Questo non  dura nè tanto nè poco; e la ragione di ciò è che esso  non è nel tempo. Considerando però la serie dei cangiamenti, al contrario di quanto ci accade per lo spazio,  lo schema ideale del tempo riceve necessariamente un  contenuto reale perfettamente corrispondente. E sciogliendo la difficoltà che più che tale a molti filosofi è  parsa sinora una stridente contraddizione, abbiamo visto  che come per mezzo del tempo si fa possibile il cangiamento, il quale altrimenti sarebbe contraddittorio, cosi  per il cangiamento trova una necessaria applicazione alla  realtà oggettiva l’infinito assoluto o trans-finito. Mario Novaro. Novaro. Keywords: implicatura ligure, ‘la riviera ligure’, Grice echoing Kant, echo, implicature ecoica, Strawson’s ditto-theory of truth, Strawson’s echoic theory of truth, Skinner on echo – ecoico, eco, implicature ecoica, infinito, Lucrezio – Luigi Speranza, “Grice e Novaro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Riviera Ligure. Novaro.

 

Luigi Speranza -- Grice e Novato: la ragione conversazionale e il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Seneca’s brother. Adopted by Lucio Giunio Gallio. Seneca dedicates two of his philosophical dialogues to him. Seneca’s exhortations suggest that if Novato was not a follower of the Porch, he was a the very least a sympathiser.  Lucio Anneo Novato. Novato.

 

Luigi Speranza -- Grice e Numa: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e la logica del regno – Roma – la scuola di Cures -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Cures). Filosofo italiano. Cures, Fara in Sabina, Rieti, Lazio. The second king of Rome. A book was discovered. It wasn’t written by Numa, but the Romans said it was. It was very philosophical. The Roman senate ordered that it should be burned. It was! But most Italians can recite by heart all the indiscriminate teachings it contained. The big polemic came from Cicero. He didn’t want Roman philosophy to have a start other than in Rome, so he denied the school of Crotone and much more any Etrurian influence via N. Still…  N.dal Promptuarii Iconum Insigniorum di Guillaume Rouillé 2º Re di Roma Predecessore Romolo Successore Tullo Ostilio Nascita Cures Dinastia Re latino-sabini ConiugeTazia Figli Pompilia N., Cures Sabini, -- è stato il secondo re di Roma, e il suo regno durò 42 anni. Numa Pompilio, di origine sabina, per la tradizione e la mitologia romana, tramandataci grazie soprattutto a Tito Livio e a Plutarco, che ne scrive anche una biografia, era noto per la sua pietà religiosa  e regna succedendo, come re di Roma, a Romolo. N. e un re pio, e in tutto il suo regno non combatté nemmeno una guerra. L'incoronazione di N. non avvenne immediatamente dopo la scomparsa di Romolo. Per un certo periodo, i senatori governarono Roma a rotazione, alternandosi ogni dieci giorni, in un tentativo di sostituire la monarchia con una oligarchia. Però, incalzati dal sempre maggiore malcontento popolare causato dalla disorganizzazione e scarsa efficienza di questa modalità di governo, dopo un anno, i senatori furono costretti ad eleggere un nuovo re. La scelta apparve subito difficile a causa delle tensioni fra i senatori romani che proponevano il senatore Proculo ed i senatori sabini che proponevano il senatore Velesio. Per trovare un accordo si decise che i senatori romani avrebbero proposto un nome scelto fra i Sabini e lo stesso avrebbero fatto i senatori sabini scegliendo un romano. I Romani proposero Numa Pompilio, appartenente alla Gens Pompilia, che abita nella a Cures ed era sposato con Tazia, figlia di Tito Tazio. Sembra che N. fosse nato nello stesso giorno in cui Romolo fondò Roma. N., concittadino di Tazio, e noto a Roma come uomo di provata rettitudine oltreché esperto conoscitore di leggi divine, tanto da meritare l'appellativo di ‘pio.’  I Sabini accettarono la proposta rinunciando a proporre un altro nome. Furono dunque inviati a Cures Proculo e Velesio, i due senatori più influenti rispettivamente fra i Romani ed i Sabini, per offrirgli il regno. Inizialmente contrario ad accettare la proposta dei senatori, per la fama violenta dei costumi di Roma, N. vi acconsente solo dopo aver preso gl’auspici degli dei, che gli si dimostrarono favorevoli. N. fu quindi eletto re per acclamazione da parte del popolo. La leggenda afferma che il progetto di riforma politica e religiosa di Roma attuato da N. fu a lui dettato dalla ninfa Egeria con la quale, ormai vedovo, soleva passeggiare nei boschi e che si innamorò di lui al punto da renderlo suo sposo. A N. viene attribuito il merito di aver creato una serie di riforme tese a consolidare le istituzioni di Roma, prime tra tutti e quelle religiose, raccolte per iscritto nei commentarii N. o libri N., che andarono perduti nel sacco gallico di Roma. Sulla base di queste norme di carattere religioso, i culti cittadini erano amministrati da otto ordini religiosi: i Curiati, i Flamini, i Celeres, le Vestali, gli Auguri, i Salii, i Feziali e i Pontefici. N.stabilì di unificare ed armonizzare tutti i culti e le tradizioni dei Romani per eliminare le divisioni e le tensioni, riducendo l'importanza delle tribù e creando nuove associazioni basate sui mestieri. Appena divenuto re nomina, a fianco del sacerdote dedito al culto di Giove ed a quello dedicato al culto di Marte, un terzo sacerdote dedicato al culto del dio Quirino, gli dei più importanti dell'epoca arcaica. Riunì poi questi tre sacerdoti in un unico collegio sacerdotale che fu detto dei flamini, a cui diede precise regole ed istruzioni. Numa proibe ai Romani di venerare immagini divine a forma umana e animale perché riteneva sacrilego paragonare un dio con tali immagini. Durante il regno di N. non furono costruite statue raffiguranti gli dei. Istituì il collegio sacerdotale dei Pontefici, presieduti dal Pontefice Massimo, carica che Numa ricoprì per primo e che aveva il compito di vigilare sulle vestal, sulla moralità pubblica e privata e sull'applicazione di tutte le prescrizioni di carattere sacro. Istituì poi il collegio delle vergini Vestali assegnando a queste uno stipendio e la cura del tempio in cui era custodito il fuoco sacro della città. Le prime furono Gegania, Verenia, Canuleia e Tarpeia. Anco Marzio ne aggiunse altre due. Istituì anche il collegio dei Feziali, i guardiani della pace, che erano magistrati-sacerdoti con il compito di tentare di appianare i conflitti e di proporre la guerra una volta esauriti tutti gli sforzi diplomatici. Nell'ottavo anno del suo regno istituì il collegio dei salii, sacerdoti che avevano il compito di separare il tempo di pace e di guerra -- per i romani il periodo per le guerre anda da marzo ad ottobre. Era, questa funzione, molto importante per gli abitanti di Roma, perché sanciva, nel corso dell'anno, il passaggio dallo stato di cives -- cittadini soggetti all'amministrazione civile e dediti alle attività produttive -- a milites -- militari soggetti alle leggi ed all'amministrazione militare e dediti alle esercitazioni militari -- e viceversa per tutti gli uomini in grado di combattere. Numa migliora anche le condizioni di vita degli schiavi, per esempio permettendo loro di partecipare alle feste in onore di Saturno, i Saturnalia assieme ai loro padroni. La tradizione romana rimanda a N. la definizione dei confini tra le proprietà dei privati, e tra queste e la proprietà pubblica indivisa, statuizione che fu sacralizzata con la dedica dei confini a Jupiter Terminalis, e l'istituzione della festività dei Terminalia. Nel Foro, fa costruire il tempio di Vesta, e dietro di questo fece costruire la Regia e lungo la Via Sacra fece edificare il Tempio di Giano, le cui porte potevano essere chiuse solo in tempo di pace -- e rimasero chiuse per tutti i quarantatré anni del suo regno -- Secondo Marco Verrio Flacco, riportato da Sesto Pompeo Festo, il re N., ordinando la costruzione del tempio di Vesta, volle che fosse di forma rotonda (ad pilæ similitudinem), cioè della stessa forma del mondo, in quanto N. e un convinto sostenitore della sfericità della terra, tesi dunque evidentemente già in voga in quei lontani tempi. Secondo Dionigi di Alicarnasso, il re N. poi incluse a Roma il Quirinale, anche se questo a quell'epoca non era ancora cinto da mura. A N. e ascritta anche una riforma del calendario, basato sui cicli lunari, che passò da 10 a 12 mesi di 355 giorni -- secondo Livio invece lo divise in 10 mesi, mentre in precedenza non esisteva alcun calcolo -- con l'aggiunta di gennaio, dedicato a Giano, e febbraio che furono posti alla fine dell'anno, dopo dicembre. L'anno iniziava con il mese di marzo. Da notare la persistenza dei nomi degli ultimi mesi dell'anno con i numeri: settembre, ottobre, novembre, dicembre. Il calendario conteneva anche l'indicazione dei giorni fasti e ne-fasti, durante i quali non era lecito prendere alcuna decisione pubblica. Anche in questo caso, come per tutte le riforme più difficili, la tradizione racconta che il re N. segue i consigli della ninfa Egeria, sottolineando così il carattere sacrale di queste decisioni. Atque omnium primum ad cursus lunae in duodecim menses discribit annum; quem quia tricenos dies singulis mensibus luna non explet, desuntque sex dies solido anno qui solstitiali circumagitur orbe, intercalariis mensibus interponendis ita dispensavit, ut vicesimo anno ad metam eandem solis unde orsi essent, plenis omnium annorum spatiis, dies congruerent. Idem nefastos dies fastosque fecit, quia aliquando nihil cum populo agi utile futurum erat. Anzitutto divise l'anno in dodici mesi secondo il corso della luna, ma poiché i mesi lunari non arrivano a trenta giorni, e complessivamente mancano alcuni giorni per fare l'anno intero, che corrisponde al giro del sole, inserì nel calendario dei mesi intercalari, ordinandoli in modo che ogni venti anni i giorni concordavano, tornando allo stesso punto dell'orbita solare donde era partito il ciclo ventennale del calendario. Egli fissa pure i giorni fasti e nefasti, ritenendo cosa utile che in qualche giorno non si potessero discutere le questioni politiche davanti al popolo. (Livio, Ab Urbe condita)  L'anno così suddiviso da N., non coincideva però con il ciclo lunare, per cui ad anni alterni veniva aggiunto come ultimo mese il mercedonio, composto da 27 giorni, togliendo a febbraio 4 o 5 giorni; era il collegio dei pontefici a decidere queste compensazioni, alle volte anche sulla base di convenienze politiche. Floro racconta che N. insegna i sacrifici, le cerimonie ed il culto del sacro ai Romani. Crea anche i pontefici, gli auguri ed i salii. La tradizione vuole che Numa abbia istituito, tra l'altro, anche la festa di Quirino e la festa di Marte. La festa di Quirino si celebra a febbraio. La festa dedicata a Marte si celebra a marzo, e venne officiata dai salii. N. partecipa di persona a tutte le feste religiose, durante le quali e proibito lavorare.  A queste riforme di carattere religioso corrispose anche un periodo di prosperità e di pace che permitte a Roma di crescere e rafforzarsi, tanto che durante tutto il regno di Numa le porte del tempio di Giano non furono mai aperte. N. muore ottantenne e non di morte improvvisa, ma consunto dagl’anni (per malattia secondo Livio), quando suo nipote, il futuro re Anco Marzio, ha solo cinque anni, circondato dall'affetto dei romani, grati anche per il lungo periodo di prosperità e pace di cui avevano goduto. Alla processione funebre parteciparono anche molti rappresentanti dei popoli vicini ed il suo corpo non fu bruciato, ma seppellito insieme ai suoi libri in un mausoleo sul Gianicolo. Dopo la bellicosa esperienza del regno di Romolo, N. seppe con la sua saggezza fornire un saldo equilibrio alla nascente città. Durante il consolato di Marco Bebio Tamfilo e Publio Cornelio Cetego, due contadini ritrovarono il luogo della sua sepoltura, contenente sette libri in latino di diritto pontificale, ed altrettanti di filosofia. Per decreto del senato, i primi furono conservati con cura. I secondi furono pubblicamente bruciati. Il senatore sabino Marcio, che aveva sposato la figlia Pompilia, si candida alla successione ma fu superato da Tullo Ostilio e si lascia morire di fame per la delusione. Dal matrimonio fra Pompilia e Marcio e nato Anco Marzio che diverrà re dopo Tullo Ostilio. Alcune fonti raccontano di un secondo matrimonio di N. con una certa Lucrezia da cui sarebbero nati quattro figli: Pompone, Pino, Calpo e Memerco dai quali avrebbero avuto origine le casate romane dei Pomponi, dei Pinari, dei Calpurni e dei Marci. L’esistenza di N., come accade per quella di Romolo, è discussa. Per alcuni studiosi la sua figura sarebbe principalmente simbolica; un re per metà filosofo e per metà santo, teso a creare le norme e il comportamento religioso di Roma, avverso alla guerra e ai disordini, diametralmente opposto al suo predecessore, il re guerriero Romolo. L'origine stessa del nome (secondo alcuni N. viene da Nómos = "legge" e Pompilio da pompé = "abito sacerdotale") indicherebbe l'idealizzazione della sua figura. Strabone, Geografia, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, Livio: Ab Urbe condita. Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu quae acceptissima dis essent sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere. Floro, Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum, Tacito, Annali, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione. Budapest, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Plutarco, Vite Parallele: Licurgo e N.; Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium Plutarco, Vita di N. Antonio Brancati, Civiltà a confronto, Firenze, La Nuova Italia, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane. Eutropio, Breviarium historiae romanae, Livio, Ab Urbe condita libri; Periochae. Plutarco, Vita di N.. Fonti storiografiche moderne, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Roma in Italia, Milano, Einaudi, Brizzi, Storia di Roma. Dalle origini ad Azio, Bologna, Pàtron, Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari, Laterza, Gabba, Dionigi e la storia di Roma arcaica, Bari, Edipuglia, Matyszak, Chronicle of the roman republic: the rulers of ancient Rome from Romulus to Augustus, Londra, Thames and Hudson, Mommsen, Storia di Roma antica, Firenze, Sansoni, Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusconi, Piganiol, Le conquiste dei Romani, Milano, Il Saggiatore, Howard H. Scullard, Storia del mondo romano, Milano, Rizzoli, Voci correlate Gens Pompilia Gentes originarie Età regia di Roma Rex (storia romana) Lex regia Flamini Salii Pontefice (storia romana). N. Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Sanctis., N. Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, N. sapere.it, De Agostini. N. Enciclopedia Britannica, Goodreads. Predecessore Re di Roma Successore Romolo a.C. Tullo Ostilio Storia romana Plutarco  Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Mitologia Categorie: Sovrani Sovrani Romani Nati a Cures Sabini Personaggi della mitologia romana Re di Roma Oracoli classici [altre] Cassius Hemina, vetustus auctor annalium, in quarto libro tradit Cneum Terentium scribam in Ianiculo effodisse arcam, in qua N., qui Romae regnaverat, sepultus erat. Addit etiam in arca repertos esse libros a rege Numa scriptos quingentis et triginta annis ante. Fuisse e charta N. libros Cassius etiam scribit, refertos multis rebus obscuris. Cassius etiam tradit libros in arca integros repertos esse magno cum stupore omnium et a scriba senatui portatos esse. Quoniam omnes notabant libros, in terra infossos, permansisse integros, Cassius Hemina ipse suam rationem praebebat: dicebat enim eos libros in arca sub lapide quadrato positos esse et propter hoc integros mansisse; praeterea, quod libri citrati fuerant magna cum cura, tineae illos non tetigerant. Tamen, lectis libris, multa scripta inventa sunt de Pythagorica philosophia et propter hoc a praetore ussi sunt. Hoc idem tradit Piso quoque in libro primo commentariorum suorum, sed libros VII iuris pontificii, totidem Pythagoricos fuisse narrat. Valerius Antias autem in opera sua etiam senatus consultum tradit quo eos uri iussum est. Cassio Emina, antico autore di annali, nel quarto libro tramanda che lo scrivano Gneo Terenzio avesse disseppellito nel Gianicolo il sarcofago, nel quale N., che aveva regnato a Roma, era stato sepolto. Aggiunge inoltre che nel sarcofago erano stati trovati i libri scritti dal re Numa cinquecentotrenta anni prima. Cassio scrive anche che i libri di N. erano di carta, pieni di molte cose misteriose. Cassio tramanda anche che i libri nel sarcofago fossero stati trovati integri con grande stupore di tutti e che fossero stati portati dallo scrivano al senato. Poiché tutti notavano che i libri, sepolti sotto terra, erano rimasti integri, Cassio Emina stesso fornisce la sua spiegazione.  Dice, in effetti, che questi libri erano stati posti nel sarcofago sotto una pietra quadrata e per questo erano rimasti integri.  Inoltre, poiché i libri erano stati cosparsi con grande cura di olio di cedro, i tarli non li avevano toccati. Tuttavia, letti i libri, furono trovati molti scritti sulla filosofia pitagorica e per questo furono bruciati dal pretore.  Questa stessa notizia la tramanda anche Pisone nel primo libro dei suoi commentari ma narra che i sette libri del diritto pontificio fossero stati altrettanto pitagorici. Valerio di Anzio inoltre nella sua opera tramanda anche la consultazione del senato nella quale fu ordinato che essi fossero bruciati. The original Romans are the ones who did the choosing part. They don’t select anyone from the Sabine senators but find a man in the Sabine city of Cures, the birthplace of the former king Titus Tatius, famous for his justice, wisdom, and piety. His name was N.. The people, happy with this choice, accepted their new king quickly. Only one small problem now occurred – the man who was chosen to rule after so much effort and such a lengthy and difficult process was not really keen on reigning at all. When a delegation from Rome approached him, he humbly refused. It required much much persuasion from his father and brothers with arguments about honour too great to refuse, but in the end, N. finally agreed and became the king of Rome. Numa Pompilio. Numa.

 

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