Luigi Speranza --
Grice ed Occelo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania -- Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania.
O. held that the number III is the key to understanding the world. According to
Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire,
air, and water – there is a fifth principle which is circular motion. Filone
says that O. believes that it is possible to prove that the world is
indestructible. Occelo.
Luigi Speranza --
Grice ed Occilo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania. Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Brother of Occelo di Lucania.
Luigi Speranza -- Grice ed Ocone: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei liberali d’Italia – la
scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento,
Campania. Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential Italian
liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like
Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ –
that should please J. M. Jack!” -- Grice:
“Speranza has noted that if Bennett
speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.”
Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to
make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism
is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si
occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del
liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per
gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella
biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del
filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un
frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima
edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico
della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente
allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far parte
della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di Nazione
Futura. È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione Cortese
di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino Craxi, del
Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e del
Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero Fonda
a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico II,
cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito dalla
Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano e che
entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi crociani
prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della vita,
pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della Fondazione
Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un Croce
partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie epistemiche, ha
numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di Croce, O. elabora
la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè storicistico e non
fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così formulato:
riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia
all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal
proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e
postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta
a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto
di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è
affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua
prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un liberalismo
che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico.
Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello
scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del
razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito
sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità
in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle
ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in
quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia
contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere Da
ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico
dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di
essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e
contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “O.’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”. Un
estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola
con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia
della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un
saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La
riscoperta della necessità di «pensare»). Nella sezione Dal dopoguerra ai
giorni nostri, Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal
periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei
testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né
postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della
globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni
del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha
fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo
secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra.
Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino,
Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali
d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli (con altri autori) “Le parole del tempo.
Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri
di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili
riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx”
(Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti.
Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce.
Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio
ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma);
“Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli
scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in
Istituto Italiano per gli Studi Storici
Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi. Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O.
perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La
recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a
Nietzsche, su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica
tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com.
La filosofia politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che
filosofo!, su reset. Attualità di Croce su
opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia
della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia
Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare,
Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e
libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello,
su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx:
teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia
del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come
concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto
laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su
opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini
set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to
create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound
to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” -- Grice: “The test of a man’s intelligence lies
in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale
democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at
the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at
Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the
‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most!
Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale
italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer:
there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’
means that provincials should not appy!” Corrado
Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al
fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Oddi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia
veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio
di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per
incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e
introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale
di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo
di Brescia G. Vedova, Biografia degli
scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo
al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di
Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo
collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano
pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di
san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui
avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver
dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima
d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base
dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor
dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non
essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza
vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli
Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta
et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis
Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto
presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in
vita Boltoni, non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca
di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo, come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni, professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si
riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico
ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso,
finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni
fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i
più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di
malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come
sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il
soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto
ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro
de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure
durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di ammaestramento,
e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in una
determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale
:quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci,
ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo
perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia
de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni:
nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta
insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè,
occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare
aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente,
rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a
piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e
l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere
altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse,
coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi
dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti
saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo
consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo
medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e
professore della stessa cattedra, m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa
come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre
ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini
fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che
pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza,
divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli
per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo
spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione
alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli
altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale, costrinsero
il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli,
sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di taluno degli
studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè la
prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta
l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare.
Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze
presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della
nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto
nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni
giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran
fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo
bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze
tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati
parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero
due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi
gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso
lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni
anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che
morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari
le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi
fondamenti della scuola clinica in Padova, che precedette tutte l'altre in
Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo
anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad
insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi
quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un
palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova
(intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo
sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel
giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare
lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori
scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace,
Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno
medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque
da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi
dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover
essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di
astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo
stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Offredi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del lizio – la scuola di
Cremona -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Gli
era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e
Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et ultimo instanti in
defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle
scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale
di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua
patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze
mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN COMMENTARIIS tractatas,
altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE A
DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS.
DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D
APOLLINARIS CREMONE N. nostri, qui à principio est sicut tabula rasa, et non.
3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad intelligendum,
nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem intelligentia non
cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu intelligendi existant,
et eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam non Mnis doctrina, et discurrunt
saltem discursu pfe&to, quamuis in prin- omnis disciplina incipiosint
in potentia ad cognoscendum, et hoc est telleştiua, ex præpropter imperfectum
eorum modum cognoscendi; existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q
aliquo modo, et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per
idem medium euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu
dum cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus;
gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim
scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq;
intelli- modum fiunt, et aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt.
Cũigitur intellectui tium. Similiter aút et orationes,quæ p nostro sit
potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem;
scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti- utræq; enim per
prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum,
ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem
accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum naturaliter
eft tex.6. 19 B notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā,
et vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare
que semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et
rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis
di- aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus
in acquirêdo notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia
alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus
operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt
colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü
intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia
intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus
operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent
logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani-
habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito
fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri,
tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum,
obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, et
speciebus predicamentorum, prout quoque,
fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias,
vbi de cognitione quadam simplici cognosci habent, sem inductioncm fiunt,
feruari modusidem fo- propositione determinatur, et speciebus ipfius
tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de inftrumento aliquid
compositiuè, vel divisiuè co- C F na nimirum fit, quippe cum
in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys Logicelibris conti- à
cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui cõmuniter Ars Noua
dicuntur, vbi de in altera per singulare iam notüipfum vni.
instrumento determinatur, quo discurrere debet in versale oftendatur. Simili profe&to modo,
telle&tus,o3. de syllogismo, es consequenter de alijs modis arguendi.
Diuiditur autem tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut
.n.exem modo, quia ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod
est inductio,aut enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate
fiunt, g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum,
quedam vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in
natura,ficut monftra ) sicin discursibus rationis quidam sunt, in quibus
est nePro inductione expositionis huius libri Poftecefsitas, et ifti cum
rectitudine rationis habentur. riorum, fub brevitate, videnda funt quædam, v3.
Ală sunt, per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam
inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter
fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter
alicuius principi ad cæteros libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum.
Pars logice, in qua de primis determiquid subiectum et sic consequenter
habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non
pigeat hoc cause. Quantum ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et
Pofteriorī, dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit
medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum
intelligentiarī, er modum brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria,
co gisa diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum
de effectibus baberi nö poffit, nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare
col commercio de'demonj, colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie,
e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri
insignim e dici cremonesi di questo secolo. O. solenne filosofo, astrologo e
medico, LETTORE DI METAFISICA – come Gilbert Ryle! -- lettore di metafisica
nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV, Filippo
Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi
Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi
di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico
Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine
delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata
famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al melodo naturale e
sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie dottrine aveva
proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le
scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua
storia della filosofia ita liana riferisce alcune proposizioni filosofiche
dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e sulle questioni de’libri
d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni), dalle quali scorgesi
come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse
sul sentiero della libera e coscienziosa verità. Quanto alla medicina
Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i migliori medici del suo
tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi.
Il 312 Elogia clariss. virorum Collegii Pisan.1750
negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio non scrive
quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in una sua
lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella
della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e
biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica
di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna,
Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii
sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai
stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de
Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S.
Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e
professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a
dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di
Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti
Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino
lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate
dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e
Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di
Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il
francese Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di
Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae
Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum,
Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli
Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di
Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova
logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino
da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali,
tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni
aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi
libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum.
La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie
della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle
Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è
famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o
letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu
professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è
autore di un De Intensionc 339 titolo più particolare che sta in
testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure
si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il
detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt
quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini
Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi
Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli
invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene
l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono
generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma
non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono
114 ed esauriscono tutto il trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze
non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che
sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come
sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta
questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova
ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto
registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae
el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più
d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte
della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del
secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi
Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima
furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli
(Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al Manuale della
storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli
Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi,
Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima
e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a
Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus
discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna
a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del
LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più
volte. La prima edizione è di Milano (Vedi
il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato
a Venezia, esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da
Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi
alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano
portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter.
Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per
titolo “Illustris philosophi et medici O.
Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del
Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis
meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti.
Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel
sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est
ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima” un corso
che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae
Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella libreria privata del
Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che
esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a
Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono
registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di Roma è il Commento
intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più monta e risulta
dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione
più completa del suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o
compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della sua attività, in
quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna
il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia prima in rerum natura
quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè la fede, malaria ali quando
desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali quando est de forma tam
subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur
quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel
desinit esse propter cjus formam substanlialem quae incipit vel desinit esse.
Premessa la eternità della materia, tutto il trattato si aggira sulle
difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla applicazione delle
categorie del moto e della quantità alla generazione e alla cessazione delle
forme nella materia, e specialmente dalla relazione della materia con la forma
nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la parola sublilissimus
aggiunta al titolo del trattato e ricorda i ragionamenti della scuola Eleatica di
VELIA -- e specialmente di Zenone sul moto. Il saggio è uno dei più curiosi
esempii dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati obbiettivi, ma non
infecondo quanto alla ginnastica della mente, con cui la Dialettica del Medio
Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei problemi più difficili.
Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo
conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Fiorentino è
rimasto dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che
Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii.
Essendo Manna cremonese, è chiaro che
Pomponazzi non puo chiamarlo concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più
celebre dei due Trapolini che Pomponazzi ha per maestri, ecco ciò che dice
Papadopoli nella sua storia dell'università di Padova. Pietro Trapolino Patavii
natus patricia genle PHILOSOPHVS, malhemalicus
el medicus celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex
Albis gymnasticis. Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum
direplumque Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla
conscripseralperiere. Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali.
Di Trapolino suo precettore in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du
Vilazioni sopra il4o dei Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che
egli scolaro gli opponera su certe cause della mutazione delle forme nei misti.
Ivi l'autore avvicina Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri
rinomati professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è
menzione alla fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo
professore oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi.
They complained he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s
Concept of Mind. One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just
on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set
to defend Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica
Posteriora too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!:, Grice ed Olgiati: HART
GRICE HOLLOWAY la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei
classici – la scuola di Busto Arsizio – Grice on Hart on Holloway on language
and intelligence -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza
-- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto
Arsizio, Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a
whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari
milanesi. Collabora con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia
neo-scolastica e fonda con loro il periodico Vita e Pensiero. Insignito da Pio
XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Proto-notario Apostolico. Inoltre
assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro
Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e di
Giurisprudenza. Condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli.
Autore di saggi relativi sulla religione e l’istruzione. I suoi allievi più
illustri sono Melchiorre e Reale. Tomba di Gemelli mons. O.. Il libro Le
lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere dedicato a Tolkien, è
dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e
dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della
scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica del Sacro CuoreLa
storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e vita” (Vita, Milano);
“Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti della filosofia classica”
(Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di
giuridicità in AQUINO” (Vita, Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario
della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario del Cristianesimo, Vita,
Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia Bustocca. Almanacco della
Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. La filosofia di Bergson, TORINO
BOCCA pS og 4 E E Z á (a ) S
3 JE
lí E | S E a AT
O A GEMELLI CON AMMIRAZIONE E CON
AFFETTO nel. «ficie tico; de:
de; a Forse nessun filosofo,
durante la sua vita, riscosse un plauso
cosi intenso e suscitó tanto entusiasmo,
come Bergson. I difensori stessi di altre tendenze filosofiche, pur dissentendo da lui, lo. ammirano e lo
coronano di rose. William James lo
salutó il nuovo Platone. e disse che le
pagine dei suoi scritti schiudevano nuovi
orizzonti dinnanzi ai suoi occhi: esse gli sembravano simili all'aria pura del mattino ed al canto
d'un. uccello. Croce gli riconosce il merito
grande di aver rotto le tradizioni dell'intellettualismo e dell'astrattismo del suo paese, dando per
la prima volta alla Francia quella viva
coscienza dell'intuizione, che sempre le
e mancata, e scotendo la fiducia ec-
cessiva, che essa aveva, nelle nette distinzioni, nei concetti ben contornati, nelle classi, nelle
formole, nei raziocinii filanti diritto,
ma scorrenti sulla super- -.ficie della
realtá (2). Il Balfour conclude: un suo articolo, assicurando che' chi si trova
poco soddisfatto dei sistemi idealistici
e che non puó accettare il credo del
naturalismo, si rivolgerá sempre con interesse e con ammirazione a questo esperimento
brillante di costruzione filosofica. 1! Windelband
in Germania JAMES, A pluralistic
universe, Longmanns, CROCE (vedasi) Logica, Laterza BALFOUR, Cre-.tive
evolution and philos. doubt, in The
Hrbbert journal, considera Bergson come la personalita piú
originale e pia importante della
filosofia francese contemporanea. Anche se queste lodi fossero esagerate, e
certo che da molti anni nessun pensatore
ha esercitato in Francia un efficacia
cosi forte come Bergson (2). Non solo
egli ha sotto la sua influenza il corpo filosofico insegnante del suo
paese, che col Gillouin lo stima il solo
filosofo di primo ordine che abbia avuto la Fran- cia dopo Descartes e 1'Europa dopo Kant; ma «
da lui discendono anche ¡i teorici piú
moderni delle correnti pia vivaci
francesi. 11 Le Roy, nel suo Comment se
pose le probléme de Dieu, crede di poter distrug- gere con le teorie bergsoniane le antiche
prove tradi- zionali e di poter additare
una via nuova per ascendere alla
conoscenza di Dio (4); e nel Dogme et critique
si e sforzato di ripensare i dogmi cattolici in funzione di quelle dottrine. Sorel, dalle sue
Reflexions sur la violence ai suoi
ultimi articoli, vuol giustificare il
movimento sindacalista con le idee dell” Evolution Créatrice, libro che egli non esita a
paragonare alla WINDELBAND, LZehrbuch der Geschichte der Philosophte, trad.
ital, Sandron, É una giusta osservazione dello SCHOEN, 2. Bergsons phi- losophische Anschauungen, in Zeitschrift fúr
Philos. und pihlos. Kritik BERGSON, choix de textes
avec étude du syst. philos. par RÉNÉ
GILLOUIN, pag. 8. Del Gillouin si vegga pure il recente volume: La philosophie de M. H. Bergson,
Grasset. Anche il Keyserling in Germania considera
Bergson come la mente filosofica piú
originale dopo Kant. Anche PREZZOLIN], La teoria sindacalista, ultimo capo: La
filosofía dí E. Bergson Fra gli studi
critici, apparsi in Italia e al- estero,
€ uno dei piú notevoli. (4) In Revue de
Métaphysique el de Morale, marzo eluglio 1907. Critica della Ragion pura (1). A
Bergson si ispirano i simbolisti ed il Claudel. 1 pragmatisti trovano
nelle sue opere nuovi argomenti in loro
favore. Nell'intui- -zione i mistici
scorgono un primo passo verso la loro
esperienza tacita, intima, ineffabile. 1 protestanti li- berali abbracciano con gioia le nuove idee, e
solo pochi mesi or sono, in una riunione
degli Unitari a Londra, il pastore Jacks
diceva che esse portano alla religione
un soffio nuovo di vita (2). Persino gli Ebrei
tentano di utilizzare le conclusioni di Bergson. il quale, come tutti
sanno, da alcuni anni e il trionfa- tore
dei congressi filosofici. Molte riviste, tra cui il Logos e 1'Hibbert journal, si onorano di
poterlo ¡iscri- vere tra i loro
collaboratori, e non ce periodico in
Europa che non abbia esaminato i suoi volumi, oramai tradotti in tutte le lingue. In una parola,
la filosofia bergsoniana, per quanto
abbia soltanto venti anni di vita, e
davvero una filosofia alla moda SOREL, Considerazioni sulla violenza, Laterza,
rgro; ed in MMouvement Socialiste + in
Revue de Métaph. et de Mor., gennaio rgrr,
nell'articolo : Vues sur les problemes
de la philosophie. Quanto
alle relazioni tra sindacalismo e berg-
sonismo, si vegga PREZZOLINI: op. cit. capo III ed un articolo dello stesso autore nel Bollettino
Bibliografico Filosof. di Fi- renze,
Gennaio 1909: 7.e grandi idee sindacaliste e la filosofía di E. Bergson; BOUGLÉ- Sindacalistes et
Bergsoniens in La Revue, GOLDSTEIN. Bergson
und Sozialwis senschajt in Archiv. fúr
Sozialwissenschfat COENOBIUM ZIEGLER, Religion und Wissenschaft, Kaufmann Cosi la definisce TILGHER in un importante ar- ticolo : Zo, liberta, moralita, nella
filosofía di E, Bergson, in Cul- tura,
15 novembre e 1 dicembre 1902. Anche in Inghilterta il berg- sonismo, che sino a pochi anni fa era quasi
sconosciuto, ottiene ora un successo
crescente. Prova ne siano i numerosi volumi e
studii di riviste dedicati al Bergson e le conferenze di questi a Oxford, a Birmingham, a Londra. Gli inglesi
perd.qualche volta, do Na P E ció che
piú ancora sorprende, osserva un neo-
scolastico francese, e che la sua riputazione oltre- passa il cerchio degli iniziati, per
raggiungere il grande pubblico. Per
farsene un'idea, e necessario assistere
ad uno dei suoi. corsi al Collége de France, ove si ha limpressione di assistere ad una premitre:
gli automobili aspettano alla porta, i
servitori in livrea conservano i posti
che saranno occupati dalle grandi dame;
e quando il maestro appare, si sente che egli
affascina il suo uditorio. Gia Bergson entusiasmava i suoi studenti di filosofia del collegio
Rollin e del liceo Henri IV. Agli esami
del baccalauerato, della licenza,
dell'aggregazione, tutte le dissertazioni si
ispiravano dlle sue idee. E come ciascun anno i grandi sarti danno la medesima silhouette a tutte le
signore, cosi l'autore dell'Essai sur
les données immédiates dava a tutti i
candidati la medesima fisionomia filosofica gia fin dal 1895. Cogli anni
l'entusiasmo é andato crescendo. Nel
1912, narra il Grivet, ogni venerdi la
vasta sala del College de Framce comin-
clava a riempirsi un”ora prima dell'apertura della le- zione; sui banchi gli ultimi posti erano
presi d'as- salto; poi si entrava per
pressione o meglio per com- pressione.
Come ai giorni piú belli della filosofia,
le persone si battevano, per poter udire colui che i giovani hanno soprannominato « l'allodola », colpiti
da non so quale rassomiglianza tra questo filosofo e nellPinterpretare Bergson, gli hanno
attribuite teorie tutte. op- poste a
quelle da lui difese. Cf. ad es. la risposta . di Bergson ad un articolo del Pitkin nel The journal of
phylosophy, psycolog y and scientific
methods, 7 luglio 1910, pag. 385-388, sul quale ritor- neró in seguito, Rivista di filosofía
neoscolastica; Il successo dí Bergson. Anche RAGE OT: 4. Bergson nel
Temps, 2 luglio rgrr. Uuccello, che
sotto il cielo azzurro vola cosi alto. e
canta cosi bene (1). Si spieghi
come si vuole questo fenomeno. Si dica
che la causa deve essere attribuita alla magia di uno stile, che, specialmente nella finezza
delle analisi psicologiche, sa evocare l'inesprimibile; se
ne cerchi pure la ragione nell'ampiezza
della documen- tazione scientifica o
nell'artistica genialita di similitudini superbe e di immagjni seducenti; se
ne assegni il motivo nel bisogno,
intensamente sentito dalla generazione
presente, di una reazione all'intel-
lettualismo ed al positivismo: e un fatto peró che questo pensatore puóo vantarsi di esercitare
su molti spiriti contemporanei un fascino
immenso. NM successo di Bergson e tale, che alcuni asseri- scono che con lui si inaugura un nuovo
periodo filo- sofico. « La sua opera,
scrive il Le Roy, sará riguar- -data
dall'avvenire come una delle piú caratteristiche, dele pin feconde, delle piú gloriose della
nostra GRIVET: MZ. Bergson : esquisse philosophique in
Etudes, s ottobre 1909 e La théorie de la personne d'aprés Bergson nella stessa rivista, 20 nov. 1grr. Anche nella parte espositiva del pensiero bergsoniano, quest'ultimo
articolo del P. Grivet mi ha giovato
molto, poiché contiene un sunto delle lezioni tenute dal Bergson sulla teoria della persona. BELOT:
Un nouveau spiritualisme, in Revue
philosophigue 1897, 19 Semestre, pag. 183. Anche il JOUS- SAIN nella stessa rivista paragond l'opera
del Bergson ad una sinfonia severa :
cfr. L'¿dée de l'Inconscient et 'intuition de la vie, in Revue phtlos. epoca. Essa segna una data
che la storia non dimen- ticherá piú;
apre una fase del pensiero metafisico;
pone un principio di sviluppo, di cui non si saprebbe assegnare il limite; ed e dopo fredda
riflessione, con piena coscienza del
giusto valore delle parole, che si puó
dichiarare che la rivoluzione, da essa operata,
eguaglia in importanza la rivoluzione kantiana ed anche la rivoluzione socratica. Certo, si e
esagerato dicendo che, se il metodo
bergsoniano fosse vero, la storia della filosofia non comprenderebbe che due capitoli: prima e dopo Bergson, e che il primo capitolo, che
abbraccia 25 secoli, non sarebbe che la
narrazione di un errore e di un
pregiudizio tenace. Bergson infatti, nella
sua Introduction á la Métaphysique e nel suo discorso al Congresso di Bologna, si +
degnato di ammettere che nei sisterni
dei grandi maestri c'e sempre qualcosa
di semplice e di netto, come un colpo di
sonda, che e andato a toccare pin o meno
in gia il fondo di uno stesso oceano, portando ogni volta alla superficie un'intuizione vera,
intorno alla quale si e poi
organizzato il sistema. Ma anche evi- ROY, Une philosophie nouvelle: H.Bergson,
Alcan In questo volumetto il Le Roy raccolse due articoli ap- parsi dapprima nella Revue des deux mondes, 1
e 15 febbraio 1gr2 e vi aggiunse
parecchie appendici. Il secondo articolo fi-
nisce cosi: « Con Bergson nella storia del pensiero umano qualche cosa di nuovo comincia. MENTRÉ, La tradition
philosophique in Revue de philosophte (3,
ln Revue de Métaph. et de morale. Di
questo importantissimo articolo del
Bergson c'é una bella traduzione
italiana del Papini, dal titolo: La flosoña dell'intuizione, Lan- ciano, Carabba, Ig1r. (4) IL discorso, che spesso citerd, e stato
pubblicato dalla Revue de Métaphys. et
de Mor., novembre 1911, col titolo : 7m-
tuition philosophique. tando l'esagerazione del Mentré, e indubitabile
che l'intuizionismo bergsoniano e un
tentativo di riforma del modo di
filosofare. Lo nota a ragione il Papini,
il quale, appunto per questo e indignato contro la cicalesca plebaglia filosofica, che frinisce
sempre nello stesso metro, guarda il Bergson
come un pensatore interessante, riassume
alla meglio i suoi libri, si scandalizza
un po” della sua abitudine di scriver bene
e con calore, ma poi non pensa neppure o a distrug- gerlo tutto senza misericordia, oppure ad
accettare il suo metodo, a migliorarlo,
ad applicarlo (1). Ed il Papini ed i
bergsoniani vogliono che tutti noi
rinunciamo una buona volta agli antichi sisternmi morti dell'analisi concettuale, per immergerci nel
flutto del reale, per tuffarci nel fiume
dell'intuizione. Fra questo delirio frenetico di. ammiratori, fra tanti inni di lode, non tardarono a farsi udire le
critiche implacabili, i giudizii severi
ed anche le ingiurie pla- teali. Il nuovo Platone venne chiamato dai Le
Dantec, dagli Elliot, dai Lankester, da
tutti insomma i mec- canicisti, un jongleur,
un faux monnayeur e le sue teorie
vennero ritenute come « aberrazioni e
mostruositáa dello spirito umano. Dusmenil osserva che «quasi non si puó pia ascoltarlo,
senza Pintroduzione del Papini alla traduz. dell'artic. cit., pag. 3.
(2) Vedi: LE DANTEC, Reflexions d'un Philistin in Grande Revue. ELLIOT, Moderne science and the illusions of prof. Bergson with
preface by Lankester, Longmanns pensare continuamente: nego» (1). IM. Renda ha gia
proclamato il fallimento di questa filosofia (2). In Italia poi il De Ruggiero vi ha sentito un
gran senso di vuoto in mezzo alla pid
smagliante ricchezza (3). Ed ¡io potrei
continuare a lungo nell'enumerazione di
queste sentenze inesorabili, se, pur avendo coscen- ziosamente letto e meditato la maggior parte
dei principali lavori critici,
pubblicati in questi ultimi anni intorno
al filosofo francese, non credessi me-
glio di attendere nella seconda parte di questo volu- me ad esporre ció che in essi ho trovato di
meglio. Qui basterá notare che gli
studiosi cattolici, e. so- pratutto i
neoscolastici francesi, sempre si opposero
con le loro riviste e coi loro libri al pensiero di Berg- son. Nel settembre dello scorso anno, in una
lettera ad Albert Farges, che aveva
scritto un'opera contro Bergson, il
Card. Merry Del Val, a nome del Ponte-
fice, si congratulava con lui, perche aveva combattuto « le false teorie di questa nuova filosofia,
la quale vorrebbe scuotere i grandi principii,
le veritá acquisite della filosofia
tradizionale » ed in tal modo aveva pro-
curato di preservare gli animi da un veleno « tanto piú funesto e dannoso, quanto pia e velato,
sottile e se- ducente ». Anche prima
peró di questa condanna, i neoscolastici
francesi furono spiccatamente antiberg-
soniani. Nononstante che il Le Roy sognasse un ab- braccio della fede cattolica col bergsonismo
(4); che DUSMENIL, La sophistique contemporaine, Beauchesne RENDA, Le Bergsonisme ou une
philosophie de la mobi- lité, Mercure de
France, rgr2. RUGGIERO, La fñlosofia contemporanea. Il giudizio del giovane neohegeliano € molto
diffuso in Italia tra studiosi di
diverse tendenze. ROY Coignet ed altri vedessero in questo la riconci- liazione della religione e della scienza in
uno spiri- tualismo nuovo (1); che il
Segond tentasse di mo- strare che le
nuove teorie non negano la trascen-
denza divina (3); nonostante che la stessa lettera dell'Eminentissimo Segretario di Stato avesse
solle- vato le sorprese del Temps, che
in tono di ramma- rico ricordava le
benemerenze del Bergson verso
Vapologetica cristiana; gli scrittori nostri non vollero bruciare nessun granello d'incenso all'idolo
del giorno e furono concordi nel
riconoscere che questa dottrina ' e
fuori della corrente della filosofia cristiana, e lon- tana dalla tesi spiritualista e conduce
inesorabilmente ad un panteismo ateo
(3). Da queste accuse cerco di
scolparsi lo stesso Bergson. In una
lettera diretta al P. De Tonquédec, egli
scriveva: « Le considerazioni esposte nel mio
Essai sur les données immédiates mettono in luce il fatto della liberta; quelle di Matiére et
Mémoire fanno toccare con mano la realtá
dello spirito: quelle del- MAD. C. COIGNET, De Kant a Bergson,
réconciliation de la religion et de la
science dans un spiritualisme nouveau,
Alcan La stessa cosa aveva gia detto al Congresso di Heidelberg: Cfr. Bericht túber dem III
internation. Kon- £ress fúr Philos.
Heidelberg, pag. 358-369. (2) SEGOND,
L'intuition bergsonienne, Alcan In
Italia Borgesein un artic. del Corriere della Sera, dal titolo Cercator:
di Dio, diceva che pud darsi che «lo
scetticismo mistico di Bergson si plachi in Dio e che nel suo mondo sconquassato senza causa né legge
ristabilisca 1'ordine la Provvidenza. Il commento poi del Corriere della Sera alla lettera del Card. Merry Del Val era
simile a quello del Temps. Ad es. MARITAIN, L’évolutionnisme
de Bergson in Revue de Philosophte,
settembre-ottobre rg9rr, ed il suo recente
volume: La philosophie bergsontenne, Paris, Riviére. Identico in sostanza é il giudizio del Mercier nel
suo discorso : Vers: Pl unite. l'Evolution
Créatrice presentano la creazione come
un fatto: da tutto questo sgorga nettamente l'idea d'un Dio creatore e libero, generatore ad un
tempo della materia e della vita, il cui
sforzo di creazione si continua, dal
lato della vita, con l'evoluzione delle
specie e con la costituzione delle personalita umane. Da tutto questo deriva, per conseguenza, la
confu- futazione del monismo e del
panteismo in generale. Poco tempo dopo, ad Edouard Le Roy che in un lavoro aveva salutato nella philosophie
nouvelle un punto d'inserzione del
problema religioso, Bergson inviava un
ringraziamento per la simpatia profonda
di pensiero dimostrata dal noto modernista nel- Uesporre le sue idee e soggiungeva: « Questa
sim- patia si dimostra sopratutto nelle
ultime pagine, dove voi indicate con
poche parole la possibilita di svi-
luppi ulteriori della dottrina. lo stesso non direi in proposito altra cosa di ció che voi avete detto.
Non basta. Nella sua conferenza di Birmin-
gham (3), in un discorso tenuto a Parigi il 4 maggio 1912 (4) ed anche nelle sue recentissime
conferenze negli Stati Uniti, Bergson
difese la tesi dell'immor- TONQUÉDEC a proposito dell Evolution Créa- trice aveva pubblicato negli Ztudes uno
studio : Comment in- terpréter P ordre
du monde, dove dimostrava che Bergson é mo-'
nista ateo. A quell'art. Bergson rispose con la lettera citata, che insieme ad un'altra lettera del Bergson e
ad un altro arti- colo del De Tonquédec:
M. Bergson est - il moniste 2 si trova ora
nel volumetto dello stesso autore: Dieu dans "Evolution créa- trice, avec deux lettres de M. Bergson,
Beauchesne. Cfr. LE ROY, La philos. Nouvelle. Questa conferenza fu pubblicata
in lingua britannica, lingua poco
bergsoniana, in The Hibbert
Journal col titolo: Life and Consciousness, IL discorso fu tenuto dal
Bergson per Piniziativa dell”as-
sociazione Foiet vie ed aveva per tema: L'áme et le corps. Ne talitá
dell? anima, considerandola quasi una
conse- guenza legittima delle sue
concezioni. e Queste dichiarazioni del Bergson, cosi
contrastanti. con un giudizio diffuso ed
autorevole; l'importanza che la sua
filosofia e andata acquistando in questi ul-
timi anni e la questione molto dibattuta intorno al valore del metodo intuizionistico, mi
indussero a comporre questo saggio. 2 Nel quale ho cercato innanzi tutto di
tracciare a grandi linee le teorie
bergsoniane, utilizzando non solo le
opere principali del pensatore francese, ma anche quasi tutti i suoi articoli di rivista, i
discorsi da lui recitati in diversi
congressi, le sue piú importanti di-
scussioni alla Société francaise de philosophie, le pre- fazioni da lui scritte a varii libri di altri
autori, le sue conferenze, parecchie sue
lettere, alcune inter- viste, qualche:
sunto dei suoi corsi al. Collége de
France, tutto insomma quello che mi fu dato di consultare. Riassumere il pensiero di Bergson
non e facile. L”apparente chiarezza
dell'espressione copre spesso idee
oscure, che sembrano sciogliersi in qualche cosa di impreciso, di vago, di fiuido. Se in
qualche punto le mie interpretazioni
sono inesatte, ció mi sará perdonato,
anche per il fatto che, quando nel
apparve un resoconto nel Temps (y maggio 1912) e fu poi inte- gralmente pubblicata nel periodico Fot et Vie
Si vegga alla fine del volume, nell'appendice, la bibliografia degli scritti di Bergson. Sono parole del
Prezzolini in un articolo della Voce (6 gen-
naio 1910): Bergson. 11 Prezzolini ad un dato punto parlando dell'oscuritá di alcune pagine del Bergson,
esclama: « Ah che di- sgrazia per chi
vuole avere delle idee chiare ! Binet apri un'inchiesta tra i professori di liceo della Francia, per conoscere
l'influenza della filosofia bergsoniana
sul loro insegnamento, le loro risposte
furono tali, che in una seduta della Société
frangaise de philosophie (28 novembre 1907) Bergson protestó vivacemente. Nelle tesi che quei
professori gli attribuirono, egli non
riconosceva nulla di ció che aveva
pensato, insegnato o scritto! (1). lo spero pero di essere stato un espositore coscienzioso e
fedele: alla doverosa lealtá di un avversario
onesto, nulla puó tornare tanto
doloroso, quanto il sapere d'aver
tradito, sia pure senza colpa, il pensiero di colui che si combatte.
Ponendomi poi dal punto di vista della Neoscola- stica, e tenendo conto degli studii critici
pia notevoli e specialmente dei lavori
degli scrittori cattolici, ho mostrato
gli errori e le contraddizioni di questa filo-
sofia nuova. Ma — sará bene avvertirlo fin d'ora — lo non ho potuto appagarmi d'una critica
negativa e demolitrice, poiche lo
studioso di filosofia non deve essere
mai un Attila che non lascia crescere filo di
erba, dove si posa la zampa del suo cavallo ; ma deve essere un medico, il quale esamina un
organismo e procura di distruggerne i
microbi dannosi ed ¡ bacilli, per
rendergli possibile un ulteriore sviluppo. Anche il Farges osserva giustamente che non vi sono
sol- tanto teorie false in Bergson, ma
che vi si trovano anche idee buone ed
eccellenti, che egli e felice di
rilevare e di notare (2). Queste idee buone ed ec- cellenti ho cercato di organizzarle nella mia
conce- (1) Cfr. Bulletin de la Société
fran;aise de philosop., genn. 1908, pag.
20-1. (2) A. FARGES, Za Philosophie de
M. Bergson, Bonne Presse, 1912, PAg.
3-4. — Cfr. anche BAEUMKER in Philosophische Jahr- MN A
zione filosofica, poiché ho la convinzione che la filo- sofia ¿ e non puó non essere
sistematica. La seconda parte di questo
libro rappresenta dunque il cozzo di due
sistemi. Ed a chi fosse tentato di ab-
bozzare un facile sorriso e di obiettare a priori che il medioevo, ossia un passato morto e
putrefatto, non puó competere con un
presente fresco di vitalitá e di
energle, porgo l'invito di leggermi senza pre-
gludizil: forse il suo disprezzo cesserá o almeno su- bira una sensibile diminuzione. Prego poi il lettore a ricordarsi che il mio
e un tentativo modesto, che va
riguardato con l'occhio indulgente, col
quale $ doveroso esaminare il primo
tentativo d'un giovane. Saro ben grato a tutti, e specte agli amici della Neoscolastica, se
vorranno rivol- germi le loro osservazioni, persuaso come
sono che, solamente con la critica
schietta fra noi, potremo divenire
soldati meno indegni dell'idea grande che
difendiamo, ed alla quale siamo fieri di consacrare con animo lieto la nostra giovinezza e la
nostra vita. Ho dedicato il volume al
P. Dott. Agostino Ge- melli: questo
nome, tanto caro ai cattolici italiani,
rispettato anche da molti avversari sereni, gioverda, spero, a far dimenticare le imperfezioni di
queste pagine ed a ricordare a tutti la
bellezza dell'ideale, che ci canta in
cuore. FRANCESCO OLGIATI. Milano, buch (25B., Heft 1, pag. 10): Ueber die
Philosophie von H. Berg- son; GRIVET in
£tudes, BAINVEL in Revue pratique
d'apologétique; TAVERNIER nel! Univers,
2 aprile 1908 etc. Esposizione della
filosofia bergsoniana La teoria della
durata reale della coscienza Nella
conferenza tenuta al Congresso internazionale
di filosofia in Bologna, il 10 aprile 1911, Enrico Berg- son osservava che un sistema filosofico
sembra dap- prima elevarsi come un
edificio completo, d'una architettura
sapiente, dove sono state prese disposi-
zioni, perché vi si possano alloggiare tutti i problemi. Ma a misura che noi cerchiamo di collocarci
maggior- mente nel pensiero del
filosofo, invece di girargli at- torno,
ci accorgiamo subito che la sua dottrina si
trasfigura. La complicazione comincia a diminuire, poi le parti entrano le une nelle altre, infine
tutto si rac- coglie in un punto unico,
al quale sentiamo che po- tremmo
avvicinarci sempre piú, benché sia impossibile
raggiungerlo. In questo punto c*é qualcosa di semplice, d'infinitamente semplice, di si
straordinariamente sem- plice, che il
filosofo non € mai riuscito a dirlo. Ed €
per questo che egli ha parlato tutta la sua vita. Anche attraverso alla svariata ricchezza del
pen- siero bergsoniano, é facile
scorgere una intuizione in- divisibile,
un principio di unitá organica. La filosofia
BERGSON: L?2mtustion philosophique in .Revue de méta- Dbhys. et de moraleEsposizione della
filosofia bergsoniana di Bergson e una
filosofia della durata (1). Ed in- fatti
tale fu il punto di partenza della sua riflessione originale. Criticando l'idea che la fisica e
la mecca- nica si fanno del tempo,
cercando il concreto sotto le astrazioni
matematiche (2), egli giunse, nel sorriso
dei suoi vent'anni (3), a questa teoria della durata reale, che dal Papini fu chiamata la sua
scoperta (4). Essa € la sorgente del
metodo intuizionistico; é la chiave che
servirá al suo autore per risolvere i pro-
blemi della libertá e dei rapporti tra lo spirito ed il corpo; e la nozione, che trasportata nella
natura vi- vente, lo fará arrivare
all'idea dello slancio vitale. Gli
ammiratori di Bergson dicono che dall'Essai
sur les données immédiates de la conscience all” Évo- lution Créatrice, il suo pensiero, con un
progresso ar- monioso che dá
l'impressione d'una bella frase musi-
cale, si € sviluppato in un movimento che non comporta evoluzioni divergenti (5); delle
molteplici forme di questo sviluppo, la
durata reale e il prin- cipio semplice,
inesauribilmente fecondo, che il lin-
guaggio, coi dettagli che si aggiungono ai dettagli e che compongono una approssimazione crescente,
non riesce mai a comunicarci a
perfezione (6). E quindi necessario
incominciare l'esposizione del
bergsonismo da questa idea direttrice, in quanto ri- ROY: Une
philosophie nouvelle, pag. 200. (2)
Cfr. la lettera di Bergson del ro luglio 1905 al direttore della Revue philosophique in Rev. phil. 1905,
2% Sem.,' p. 229. In essa il Bergson
difende anche come scoperta sua la nozione
della durata. (3) Cfr. GILLOUINCTE MOD. GASTON
RAGEOT in Revue philosophique, luglio rg1o,pag. 84, nella recensione dell
Evolution créatrice. BERGSON: Préface a Gabriel Tarde, introduction et pages choisies par ses fils, pag. s. La
teoria della durata reale della coscienza 5
guarda la coscienza individuale; tanto piú che, se- condo alcuni, essa ha rinnovato profondamente
l'antica massima Conosct te stesso, che
da Socrate in poi fu sempre il programma
della filosofia Se io, dice Bergson, faccio scorrere sulla mia per- sona lo sguardo interiore della mia
coscienza, scorgo dapprima, come una
crosta fatta solida alla superficie,
tutte le percezioni che le giungono dal mondo mate- riale. Queste percezioni sono nette,
distinte, sovrap- poste o sovrapponibili
le une alle altre; esse cercano di
aggrupparsi in oggetti. Scorgo poi dei ricordi piú o meno aderenti a queste percezioni e che
servono ad interpretarle: sono ricordi
che si sono come staccati dal fondo
della mia persona, attirati alla periferia dalle percezioni che loro somigliano e che si son
posati su me, senza essere assolutamente
me stesso. E final- mente sento
manifestarsi delle tendenze, delle abitu-
dini motrici, ed una moltitudine di azioni virtuali piú o meno solidamente legate a quelle percezioni
ed a quei ricordi. Tutti questi elementi
dalle forme ben defínite mi sembrano
tanto piú distinti da me, quanto piú son
distinti gli uni dagli altri. Orientati dal di dentro verso il di fuori, costituiscono, riuniti, la
superficie di una sfera, che tende ad
allargarsi e a perdersi nel mondo
esterno (2). Ma non bisogna
fermarsi a questi cristalli ben ta-
gliati a questa superficie, dove le nostre idee galleggiano come foglie morte sull'acqua d'uno stagno
(3); biso- LE ROY, Op. cit., pag. 201. (2) BERGSON: Introduction á la
Métaphysique, trad. Italiana BERGSON : Essai sur les données immédiates de la
con- science, pag. 103. 6
Esposizione della filosofia bergsoniana gna
scendere piú giú, nelle profondita dell'essere, nella secreta intimitá di queste tenebre feconde,
dove zam- pillano le sorgenti della
coscienza. E qui soltanto, che si puó
cogliere la persona nella sua freschezza, nella
sua originalita, nel suo ritmo vivente, nel suo palpito intenso, nel suo murmure fievole, nel suo
scorrere ininterrotto attraverso il
tempo. Quando io percepisco me stesso
interiormente, profondamente, constato
che ¡o passo da uno stato all'altro. La
mia esistenza viene alternatamente co-
lorata da senzazioni, da sentimenti, da volizioni, da rappresentazioni: in una parola, io cangio
senza posa (1). Non basta. Un leggiero
sforzo di attenzione mi ri- vela che uno
stato interno qualsiasi non € mai simile
ad un pezzo di marmo, ma si modifica ad ogni mo- mento. Perfino la percezione visuale di un
oggetto esteriore immobile non si
conserva mai uguale in due momenti
successivi: la visione che ne ho, differisce
da quella che ne avevo or ora, se non altro perché si € invecchiata di un istante ed al
sentimento pre- sente sié aggiunto il
ricordo dei sentimenti passati (2). Ogni
stato d'animo, avanzandosi sulla via del tempo,
si gonfia continuamente della durata che esso accu- mula, e fa, per cosi dire, una palla di neve
con sé stesso. Il cangiamento perció non
risiede nel passaggio da uno stato
all'altro; lo stato stesso é gia cangia-
mento (3). Vale a dire che non
c'e differenza essenziale tra il passare
da uno stato ad un altro ed il persistere in
un medesimo stato. Il passaggio dall*uno all'altro stato rassomiglia ad uno stesso stato che si
prolunga; la transizione € continua (4).
BERGSON : Evolution
créatrice Z6td., pag. 1-2 e Introd. dá la Métaph., trad. ital., pag. 46. (3)
Evol. cr. La teoria della durata reale della coscienza 7 Il male é che io chiudo spesso gli occhi su
questa variazione perenne e non vi
faccio caso, finché e di- venuta cos]
considerevole, da imporsi all'attenzione e
da illudermi che uno stato nuovo si e aggiunto al precedente. É appunto per questo che io credo
alla discontinuita della vita
psicologica, e, dove non c'e che un
pendio dolce, mi sembra di percepire i gra-
dini di una scalinata (1). Ma é un'apparenza fallace; il mio spirito non € mai qualche cosa di
fatto, ma si fa incessantemente; esso é
un perpetuo divenire. Anche ¡ mille
incidenti imprevisti che sorgono e pare non ab-
biano nessuna relazione con ció che li precede o che li segue, simili a colpi di timballo che
squillano qua e la nella sinfonia, sono
portati dalla massa fluida della mia
esistenza psicologica tutt'intera. Ciascuno di
essi non é che il punto meglio rischiarato d'una zona che si muove e che comprende tutto ció che io
sento, penso, voglio, tutto ció infine
che sono in un dato momento (2). Gli
stati di coscienza quindi non sono
elementi distinti, non costituiscono stati multipli, se non quando li ho passati e mi volgo indietro
per os- servarne la traccia. Mentre li
provo, sono cos] solida- mente
organizzati, cosi profondamente animati da una
vita comune, che io non avrei potuto dire dove finisce uno qualunque di essi e dove l'altro
comincia. In realtá nessun di loro né
comincia né finisce, ma tutti si pro-
lungano, si continuano gli uni negli altri in uno scor- rimento senza fine (3), in un zampillare
ininterrotto di novitáa, ciascuna delle
quali non é ancora sorta per fare il
presente, che giá ha indietreggiato nel
passato. Zntrod. a la Métaph., trad. ital., pag. 20-21. (4) Evol. cr., pag. so. 8 ' Esposizione della filosofia
bergsoniana Il presente! Che cos'é per
me il momento presente ? La proprietáa
del tempo é di scorrere; il tempo gia
scorso é il passato ed io chiamo presente l'istante nel quale scorre. Ma qui non puód esservi
questione d'un istante matematico. Senza
dubbio, c'é un presente ideale,
puramente concepito, limite indivisibile che
separerebbe il passato dallavvenire. Ma il presente reale, concreto, vissuto, occupa
necessariamente una durata. Ov'2 dunque
situata questa durata? É al di qua o al
di lá del punto matematico, che io deter-
mino idealmente, quando ¡o penso all'istante presente? É troppo evidente che essa € al di qua e al
di lá ad un tempo e che ció, che io
chiamo il mio presente, si distente in
una volta sul mio passato e sul mio
avvenire (1). La durata é appunto il progresso con- tinuo del passato, che morde l'avvenire, e
che pro- cedendo si aumenta. Poiché il
passato s'accresce con- tinuamente,
automaticamente si conserva, ed a mia
insaputa mi accompagna. Tutto questo sará dimo- strato nella teoria della memoria e si vedrá
allora che ciascuno di noi trascina
dietro a sé tutto il peso della sua vita
psicologica anteriore. Ció che io ho pensato,
sentito, vissuto dalla prima infanzia in poi, e lá chi- nato sul presente, come la madre sul suo
figliuolo (2), e si rotola, si avvolge
su sé stesso nell'impulso indi- visibile
che mi comunica. lo lo chiamo il mio carat-
tere, quel carattere che mi assiste in tutte le mie decisioni e che mi ricorda che il mio passato
esiste per me piú ancora del mondo
esterno, di cui non percepisco che una
piccolissima parte, mentre al con- BERGSON: Matiére et Mémotre, pag. 148-9.
Cfr. anche BERGSON: La perception du
changement, 2* conferenza di Ox- ford,
pag. 28-29 € BERGSON: Life and consciousness in The Hibbert Journal, ottobre 1911, pag. 27. (2) Évol. cr. La teoria della durata reale
della coscienza 9 trario utilizzo
sempre la totalita della mia esperienza
vissuta (1). Conservando il passato,
la mia persona progredisce, cresce,
matura continuamente. Ciascuno dei suoi
momenti é del nuovo, che si aggiunge a ció che vi era dapprima (2); sopratutto nell'azione
libera, nell”atto del volere, io
comprendo che la durata é inven- zione
ed elaborazione creatrice dell” assolutamente
nuovo (3). Cos1, quando con un
vigoroso sforzo d'astrazione, la coscienza
si isola dal mondo esterno e cerca di ri-
divenire sé stessa (4), le diverse parti dell'essere en- trano le une nelle altre, e la mia
personalitáa tutta intera si concentra
in un punto o meglio in una punta, che
s'inserisce nell?avvenire, intaccandolo senza posa (5). La durata non ha dunque nulla di ineffabile e
di mi- sterioso, ma e la cosa piú chiara
del mondo (6); in essa la coscienza si
conosce nella sua essenza e coglie
assolutamente sé stessa Matiére et Mém. 76., pag. 2 e 258. (4) Essai Évol. cr., pag. 219. (6) Perception du chang., Conf. II, pag. 26. (7) Cfr. la lettera gia citata del BERGSON
in The journal of phylosophy, psychology
and scientific methods. - Nell Introd. € la Métaph. (trad. ital. pag. 21-24), Bergson
cerca di suggerire il sentimento della
durata per mezzo di immagini. Eglila paragona
allo svolgersi ed allarrotolarsi di un rotolo, ad uno specchio
dalle mille sfumature con degradazioni
insensibili, che ci fanno passare da una
tinta all'altra e attraverso le quali passa una corrente di sentimento; ad un elastico infinitamente
piccolo che si allunga e si distende.
Pur difendendo Putilitá delle immagini per darci la intuizione della durata, ne mostra anche
Pincompletezza e l'in- sufficienza. 10 Esposizione della filosofia bergsoniana Chi é riuscito a darsi il sentimento
originale, 1'in- tuizione della durata
costitutiva del suo essere, si accorge
subito che questa € una continuitá dinamica,
semplice ed indivisa. La durata tutta pura é la forma che prende la successione dei nostri stati di
coscienza, quando l'io si lascia vivere
e si astiene dallo stabi- lire una
separazione tra lo stato presente e gli stati
anteriori. Non é necessario per questo che esso si assorba interamente nella sensazione o
nell'idea che passa, poiché allora, al
contrario, cesserebbe di durare. Non €
nemmeno necessario dimenticare gli stati an-
teriori; basta che ricordandoli, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro
punto, ma li organizzi con quest'ultimo,
come succede quando ci richiamiamo, fuse
per cosi dire insieme, le note di una
melodia. Non si potrebbe forse dire che, benché
queste note si succedano, noi tuttavia le percepiamo le une nelle altre e che il loro insieme e
paragonabile ad un essere vivente, le
cui parti, benché distinte, si penetrano
per l'effetto stesso della loro solida-
rieta? (1) Tale € precisamente la durata; é succes- sione senza la distinzione, é una
penetrazione mutua, un organizzazione
intima di elementi, ciascuno dei quali é
rappresentativo del tutto e non se ne distingue
e non se ne isola, che per un pensiero capace di astrarre (2). Quando perció io parlo di
sensazioni, di tappresentazioni, di
volizioni, e concepisco, 1'unitá vivente
della coscienza come un aggruppamento di
stati distinti e giustapposti ; quando solidifico la flui- dita della mia vita psicologica e la
sbocconcello in Essaz Z6., E
Le La teoria della durata reale
della coscienza 11 istati, come una commedia in scene (1); io altero con simboli figurativi e con una deformazione
artificiale la realtáa concreta dell'io.
La quale € simile alla figura che un
artista di genio dipinge sulla tela: io posso
certo imitare quel quadro con piccoli quadratelli di mosaico multicolori, e quanto piú questi
saranno pic- coli, numerosi, variati,
altrettanto meglio riprodurro le curve e
le sfumature del modello. Ma come quella
figura dipinta non é una giustaposizione di piccoli quadratelli, cosi la mia vita interna non é
una com- posizione di stati, ma é
qualche cosa di semplice e di uno, nella
sua eterogeneitá qualitativa (2). Siccome
poi il passato sopravvive, € impossibile che
una coscienza traversi due volte lo stesso stato. Le circostanze possono ben essere le stesse, ma
non agi- scono piú sulla medesima
persona, perché la prendono ad un nuovo
momento della sua storia (3). Non vi
sono due momenti identici nel medesimo essere co- sciente, poiché il momento seguente contiene
sempre, oltre il precedente, il ricordo
che questo gli ha la- sciato. Una
coscienza che avesse due momenti iden-
tici sarebbe una coscienza senza memoria, perirebbe e e rinascerebbe continuamente, sarebbe in
altre parole Pincoscienza (4). La durata
reale morde e lascia nelle cose
l'impronta del suo dente; é quindi una cor-
rente che non si pub risalire (6); insomma é irrever- sibile. La sua legge fondamentale € di
non ripetersi BERGSON: Le souvenir du présent et la fausse reconnais- sance in Revue philosophique, dicembre 1908,
pag. 577. (2) Cfr. Évol. cr., pag.
98. (3) Zb1d., pag. 6- (4) ZIntrod. á la Mét., trad. ital., pag.
21-22. (5) Evol. cr. Esposizione della filosofia
bergsoniana giammai; cessare di
cambiare, sarebbe cessare di vi- vere
(1). Essa € anche imprevedibile. Nel
suo progresso in- timo c'é
incommensurabilitá tra ció che precede e ció
che segue (2); il mio stato attuale si spiega, é vero, con ció che vi era in me e con ció che or ora
agiva su di me: io non vi troverel altri
elementi, analizzan- dolo. Ma
un'intelligenza, anche sovrumana, non
avrebbe potuto prevedere la forma semplice che a questi elementi astratti (i quali non hanno
nemmeno un'esistenza reale) vien data
dalla loro organizzazione concreta.
Poiché prevedere consiste nel proiettare nel-
l'avvenire ció che si € percepito nel passato o nel rap- presentarsi per piú tardi un nuovo
aggregamento, in un altro ordine, di
elementi gia percepiti. Ma ció che non é
mai stato percepito e ció che e nello stesso
tempo semplice, é necessariamente imprevedibile. Ora, tale é il caso di ciascuno dei nostri stati,
riguardato come un momento di una storia
che si svolge. Esso é semplice e non pud
essere giá percepito, poiché concentra
nella sua indivisibilitá tutto il percepito con, in piú, ció che il presente vi aggiunge. É un
momento originale di una storia non meno
originale (3). Cosi, per portare un
esempio, quando un ritratto € finito, lo
si spiega con la fisionomia del modello, con la
natura dell'artista, coi colori stemperati sulla tavolozza; ma anche con la conoscenza di tutto questo,
nessuno, nemmeno Partista, avrebbe
potuto prevedere quale BERGSON : Le rire, pag. 32. Per Bergson, se cosi e
lecito esprimere il suo pensiero,
Pattendere la ripetizione di uno stesso
stato di coscienza € un'ingenuitá peggiore ancora di quella di una certa signora che l'astronomo Cassini aveva
invitata ad assistere ad un*eclisse di
luna e che, arrivata in ritardo, esclamo: il signor Cassini vorrá bene ricominciare per me. Cfr.
Le rire, pag. 45» (2) vol. cr.. pag.
30 (3) Zbid., pag. 7, Essat, 140-151. sarebbe stato il ritratto (1). L'ingegno
stesso del pit- tore si modifica sotto
l'influenza dell?opera che pro- duce,
poiché ogni invenzione, man mano che viene
realizzandosi, reagisce sull'idea e sullo schema, che essa era destinata ad esprimere (2). Tutto
questo si verifica in quella creazione
inventiva che é la nostra durata. La quale perció, a chi, con uno sforzo di
intui- zione diretta, cerca di
penetrarla nella sua realtá e nella sua
ricchezza interiore, si manifesta come va-
rietá di qualitá, continuitá di progresso, unitá di dire- zione (3), dove in una semplicita indivisa,
irreversi- bile, imprevedibile, il
passato si conserva e si crea Pavvenire.
Purtroppo contro questa concezione elevano le piú fiere proteste la scienza, il senso comune,
la filosofía. Protesta la psicofisica,
che non solo attribuisce agli stati
interni un esistenza distinta e separata, ma pre- tende persino di misurarli. Protesta la
psicofisiologia, che nella danza degli atomi
cerebrali crede di aver scoperto lunitá
di misura di tutti 1 fenomeni psicolo-
gici. Protesta il senso comune, che ha sempre rite- tenuto che molti fossero gli stati di
coscienza ed anzi li va enumerando, e
che ad ogni modo si appella al tempo
della fisica e della meccanica, che permette di
dividerli e di calcolarne la lunghezza. Protesta 1'asso- ciazionismo che si ¿ sempre immaginato le
idee e le rappresentazioni come uno
sciame di piccoli corpuscoli (1)
701d., pag. 7. (2) BERGSON: Z effort
intellectuel in Revue philosophique,
gennaio 1912, PAg. 17. (3) Zntrod. dá la Mét. Esposizione della filosofia
bergsoniana A O MI e AN solidi, mossi in ognisenso con estrema
velocitá, che talvolta si uniscono
insieme per produrre un'unita si- mile a
quella che ci é data dagli elementi di un composto chimico. Ed infine molti altri protesteranno
in tutte le varie questioni, che saranno
sollevate. Contro questo esercito di
nemici, di diverse nazio. nalitá, ma
concordi nel muovere battaglia alla teoria
della durata reale, Bergson scende in campo e affronta la lotta. IL I nemici della durata reale La psicologia moderna, sopratutto sotto
l'influenza di Kant, é tormentata dalla
preoccupazione di stabi- lire che noi
deformiamo la realtá, poiché percepiamo
le cose esterne mediante le forme soggettive, dovuté alla nostra costituzione. Bergson invece ha la persuasione tutta
opposta : egli € convinto che gli stati
di coscienza, che noi cre- diamo di
cogliere direttamente, portano il segno vi-
sibile di certe forme del mondo esteriore (1). Ed € venuto a questo risultato, esaminando i varii
nemici della teoria esposta : poiché
essi, invece di contem- plare l'io nella
sua purezza originale, guardano la du-
rata interna attraverso lo spazio esteso, sostituendo cos] alleterogeneitá qualitativa l'omogeneita
di simboli quantitativi, al flusso
perenne della successione i punti fissi
della simultaneita. La psicofisica. Ecco dapprima i psicofisici, i quali ci
assicurano che una sensazione pud essere
due, tre, quattro volte pid (1) Essaz Esposizione
della filosofia bergsoniana intensa
d*un'altra; anche i loro avversari non vedono
del resto nessun inconveniente nel parlare d*uno sforzo piú grande d'un altro sforzo, e a porre cosl
differenze di quantitá tra gli stati
puramente interni. ll senso comune
d'altra parte si pronuncia senza esitazione su
questo punto. Si dice che si ha piú o meno caldo; che si é piú o meno tristi, e questa
distinzione del piú e del meno, anche
quando la si prolunga nella regione dei
fatti soggettivi e delle cose inestese, non
sorprende nessuno (1). E
superfluo osservare che tutto ció 8 incompatibile con la realtá della durata. Questa, non
presentando se non fenomeni che si
intrecciano e si inseriscono gli uni
negli altri nella fluiditáa d'un cangiamento inin- terrotto, si ribella ad uno spezzettamento
artificiale. Ma, anche prescindendo per
ora da questo fatto, noi vedremo che la
vita reale della coscienza e pura- mente
qualitativa e perció esclude dal suo campo
ogni grandezza, intensiva o estensiva che sia. Fu questa la prima battaglia del Bergson. La
sua tesi di dottorato, 1” Essai sur les
données immédiates de la conscience, si
inizia appunto con la critica del
concetto dell'intensitá psichica (critica, che secondo Guido Villa (2), € la piú acuta che si sia
fatta ai nostri tempi) e con una
confutazione della psicofisica. Nessuno
pud negare — dice il Bergson — che uno
stato psicologico abbia una intensitá. La questione e semplicemente di sapere se questa
intensitaá sia una grandezza (3). (1) Essaz VILLA: La psicologia contemporanea, Bocca, 20
edizione, pag. 149. (2) Cfr. BERGSON : Le parallélisme
psycho-physique et la Mé- taphysique
positive in Bulletin de la Société frangaise de philo- sophie, 1901, Séance 2 Mat I nemici della
durata reale 17 Consideriamo ad
esempio i sentimenti profondi del-
l'animo. In che cosa consiste la loro intensitá ?
Se bene si osserva, essa si riduce ad
una certa qualitá o sfumatura, di cui si
colora una massa piú o meno
considerevole di stati psichici. Un oscuro desiderio e divenuto ad esempio una passione profonda. La
sua de- bole intensitá consisteva in
ció, che esso vi sembrava isolato e come
straniero a tutto il resto della vostra vita
interna. Ma a poco a poco esso ha penetrato un pid gran numero di elementi psichici, tingendoli
per cos dire del suo proprio colore; ed
ecco che il vostro punto di vista
sull'insieme delle cose vi sembra ora
cangiato. Tutte le vostre sensazioni, tutte le vostre idee hanno riacquistato una freschezza tale,
che vi dá l'impressione di una novella
infanzia. É un can- giamento di qualitá
che € avvenuto, non di gran- dezza
(1). Questo lo si ripeta anche delle
grandi gioie, delle tristezze sentite,
delle emozioni estetiche, dei senti-
menti morali, di tutti insomma gli stati profondi dell”anima : il loro aumentare corrisponde ad
una ricchezza crescente, ad un progresso
puramente qua- litativo (2). Si dirá forse che questi stati sono rari, e
che bisogna studiare anche gli altri
fenomeni che avven- gono in noi. Ebbene,
trasportiamoci pure all'estremita
opposta della serie dei fatti psicologici. Se c'é un fe- nomeno che sembra presentarsi immediatamente
alla coscienza sotto forma di quantitá o
almeno di gran- dezza, é senza dubbio lo
sforzo muscolare. Ci sembra che la forza
psichica, imprigionata nell”anima come i
venti nell'antro di Eolo, attenda solamente un*occa- sione per slanciarsi fuori; la volonta
sorveglierebbe (1) Essaz, pag.
6-7 (2) Zbid., pag. 7-14. F. O. 2
18 Esposizione della filosofia bergsoniana questa forza, e di tempo in tempo le
aprirebbe una uscita. Eppure, se noi
ricerchiamo attentamente in che consiste
davvero la percezione dell'intensitá di uno
sforzo, ci persuaderemo che quanto piú questo ci fa Peffetto di crescere, tanto piú aumenta il
numero dei muscoli che si contraggono
simpaticamente e che esso si riduce in
realtá alla percezione d'una pid grande
superficie del corpo, che si interessa all*opera- zione. Provate ad es. a chiudere il pugno
sempre di pid. Vi sembra che la
sensazione di sforzo, tutta intiera loca-
lizzata nella vostra mano, passa successivamente per grandezze differenti. In realtá la vostra
mano prova sempre la stessa cosa.
Solamente la sensazione, che vi era
localizzata, ha invaso il vostro braccio, € risa- lita fino alla spalla ; finalmente 1'altro
braccio si irri- gidisce, le due gambe
l'imitano, la respirazione si ar- resta
e via dicendo. Voi credevate che si trattasse di una stato di coscienza unico, che variava di
gran- dezza; invece no: anche qui c'é un
progresso quali- tativo, una complessitá
crescente, confusamente per- cepita (1).
II che si verifica anche negli stati intermediari, vale a dire nei fenomeni dell'attenzione, nei
desideri acuti, nelle collere scatenate,
nell'amore appassionato, nell*odio
violento (2). Veniamo da ultimo alle
sensazioni, la cui intensitá varia come
la causa esteriore, della quale esse sono
considerate l"equivalente cosciente: come spiegare l'in- vasione della quantitá in un effetto inesteso
e questa volta indivisibile? (3) Per rispondere a questa questione bisogna
dapprima distinguere tra sensazioni
affettive e sensazioni rap-
presentative. Nelle prime, allo stato interno, che € I nemici della
durata reale 19 pura qualitá, sono
sempre congiunti mille piccoli mo-
vimenti di reazione, che esse provocano nel nostro corpo. É di questa reazione che noi teniamo
conto nell?apprezzare l'intensitá di
quelle sensazioni e nel- l'interpretare
come differenza di grandezza una diffe-
renza di qualita. Nelle seconde
un'esperienza di tutti gli istanti ci
mostra che una sfumatura determinata risponde ad un determinato valore di eccitazione. Noi
associamo cosi ad una certa qualitá
dell'effetto l'idea di una certa
quantitá della causa, poniamo questa in quella,
ed in tal modo !'intensita, che prima non era che una certa sfumatura della sensazione, diventa una
gran- dezza. Nelle une e nelle altre si forma quindi un
compro- messo tra la qualitá pura, che €
il fatto di coscienza, e la pura
quantitá, che € necessariamente spazio: a
questo compromesso vien dato il nome di intensita, concetto bastardo, che ci fa dimenticare che
se la grandezza, fuori di noi, non é mai
intensiva, l'inten- sitá, dentro di noi,
non e mai grandezza (1). Per non aver
compreso questo, i filosofi hanno do-
vuto distinguere due specie di quantita, luna: esten- siva, l'altra intensiva, senza giammai
riuscire a spiegare ció che esse avevano
di comune, né come si possa adoperare,
per cose cosl dissimili, le stesse parole
« crescere » e « diminuire ». Con ció stesso essi sono responsabili delle esagerazioni della
psicofisica ; poiché dal momento che si
riconosce alla sensazione la fa- coltá
di crescere, ci si invita anche a cercare di quanto essa cresce (2). Ed e ció che fu tentato da Fechner. Questi,
par- tendo da una legge di Weber, affermava
un rapporto (1) Z0td., pag. 24 €
Seg. (2) 7Zb1d., pag. 173. 20 Esposizione della filosofia bergsoniana costante tra la quantitá
dell'eccitazione e l”accresci- mento
della sensazione. Noi non solleveremo nessuna
difficoltá sull'esistenza probabile di una simile legge: ma contestiamo, e qui fu l'errore di Fechner,
che si possa introdurre la misura in
psicologia e che tra due sensazioni
successive S e S' vi sia un intervallo, una
differenza di grandezza, e non gia un semplice pas- saggio (1).
Non si puó misurare se non ció che é omogeneo ; ora che cosa c'é d'omogeneo tra due
sensazioni? Ab- biamo provato che
l'intensita di qualsiasi stato psico-
logico non é una grandezza, ma solo una qualitá ; se quindi da due sensazioni eliminiamo le loro
differenze qualitative, non ci restera
un fondo identico, una unitá elementare
ed eguale, ma ci resta nulla, asso-
lutamente nulla (2). Fechner non
giudicó insormontabile questa diffi-
colta; egli si illuse di aver scoperto il fondo comune nelle differenze minime della sensazione, che
corri- spondono al piú piccolo
accrescimento percettibile
dell'eccitazione esteriore. Si raffiguró quindi la sensa- zlone come un processo continuativo,
unilineare, omo- geneo; S' € la somma di
S con la differenza minima, come d'altra
parte S fu ottenuta coll”addizione delle
differenze minime che si traversarono prima di rag- giungerla (3). In tutto questo c'é il postulato
indimostrato e falso che il passaggio da
S a S' sia paragonabile ad una
differenza aritmetica, sia una realtá ed una quantita. Ora, non solo non si saprebbe dire in che
senso questo passaggio é una quantitá, ma,
se si riflette, si capisce subito che
non € nemmeno una realta. (1) Z01d.,
pag. 45-46. (2) Z01d., pag. 47. (3) Zótd., pag. 48. EA
q . PERS I nemici della durata
reale 21 Di reale non vi sono che gli stati S e S', che non sono dei numeri, non sono una somma di
unita, ma sono stati semplici tra i
quali c'é una differenza analoga a
quella delle sfumature dell'arcobaleno e
non un intervallo di grandezza (1).
Possiamo quindi dire che non c'é contatto tra l'ine- steso e l'esteso, tra la quantitá e la
qualita. Si puó interpretare l'una con
l'altra, erigere ¡”una in equi- valente
dell'altra; ma presto o tardi, al principio o
alla fine, bisognerá riconoscere il carattere convenzio- nale di questa assimilazione (2). b) La psico-fisiologia. L?illecita intrusione della quantitá nel
regno della qualitá condusse gli
scienziati all”altra ipotesi del pa-
rallelismo psico-fisiologico, che ammette un*equiva- lenza perfetta tra la vita della nostra
coscienza e la danza degli atomi
cerebrali. Questa concezione, secondo
Bergson, non solo non ha nemmeno un
senso intelligibile quando si tratta della fluida mobi- lita degli stati psicologici profondi; ma é
falsa anche per i fenomeni del nostro io
superficiale (3). Non si pud dire
assolutamente che i movimenti omogenei
degli atomi del cervello siano la traduzione integrale degli stati interni. Egli svolse questa tesi in due
discorsi, il primo tenuto alla Société
frangaise de philosophie il 2 Maggio
1911, il secondo pronunciato a Ginevra
al Congresso internazionale di filosofia nel Settem- bre 10904.
lo sono interamente convinto — cosl Bergson enun- ciava il suo pensiero agli illustri della
Societá francese (1) Z01d., pag.
49-50. (2) Z0id., pag. 52. (3) BERGSON: Le parallelisme psycho-physigue
etc. pag. 64. 22 Esposizione della
filosofia bergsoniana HA E NE di filosofia (1) — che tra il fatto
psicologico e 1'atti- vita cerebrale c'é
una certa relazione, una corrispon-
denza di un certo genere, ma non esiste in nessun modo un parallelismo rigoroso. Posto un fatto
psico- logico, voi determinate senza dubbio
lo stato cerebrale concomitante ; ma la
reciproca non e necessariamente vera,
poiché questa attivitá cerebrale puó essere iden- tica per pensieri tutto affatto diversi.
Ritengo perció falsa la tesi del
parallelismo, che potrebbe essere for=
mulata cosl: posto uno stato cerebrale, segue uno stato psicologico determinato. O ancora:
un'intelligenza sovrumana, che
assistesse alla danza degli atomi di cui
é fatto il cervello umano e che avesse la chiave della psico-fisiologia, potrebbe leggere in
un cervello che lavora, tutto ció che avviene
nella coscienza cor- rispondente. O
infine: la coscienza non dice nulla di
piú di ció che si fa nel cervello, ma l'esprime solo in un'altra lingua. Chi volesse fare la storia della questione,
dovrebbe riconoscere che l'idea d'una
corrispondenza tra il mo- rale e il
fisico rimonta alla pid alta antichitá, ma non
gia l'idea del paralelismo. Il senso comune ha sempre pensato alla prima cosa, non ha mai ammesso
la se- conda, che altro non € se non
un'ipotesi filosofica di origine
spinozista e leibniziana, che data dal giorno
in cui si € creduto al meccanismo universale, e che gia era implicitamente contenuta nel sistema di
Descartes. I successori di quest'ultimo,
spingendo alle estreme conseguenze le
idee del maestro, hanno creduto ad una
scienza unica della natura, ad una grande mate-
matica, capace di tutto abbracciare. Per non rompere (1) Riassumo le idee espresse da BERGSON in
quella discus- sione: cír. Bulletin de
la Societé Frangaise de Philosophte,
1901, Pag. 32-70: Le parallelisme Psychophysique et la metaphy- sigue positive, l nemici della durata reale
23 questo concatenamento rigoroso di
cause e di effetti, parlarono di
parallelismo tra il psichico ed il fisico.
Per l'intermediario poi dei medici filosofi del sec. xvIHn, quella teoria € passata nella psicofisiologia
del nostro tempo. La quale fa benissimo
a procedere nelle sue ricerche come se
dovesse un giorno darci la tradu- zione
fisiologica integrale dell'attivitá psicologica, ma dovrebbe ricordarsi sempre che questo é
un'utile re- gola metodologica e nulla
piú. Invece gli scienziati la erigono in
una affermazione dogmatica, e la mutano
in una ipotesi metafísica, alla quale incombe di stretta glustizia l'onus probandi e che sarebbe
distrutta ¿pso facto, se i fatti le
fossero contrari. Orbene, “questo
parallelismo psico-fisiologico non fu
mai dimostrato : nessuno ha finora portato una prova che ce lo imponesse o che ce lo suggerisse. E
non appellatevi - replicava Bergson ad
un obiettante - non appellatevi ai
progressi futuri della scienza : non solo
perché sarebbe questo un procedere poco scientifico, ma anche perché io fondo la negazione del
paralle- lismo non su considerazioni
negative, ma con una tesi positiva
suscettibile di miglioramento e di verift-
cazione progressiva. Il metodo
da seguire non é quello dell'antico spi-
ritualismo, che per ribattere i suoi avversari si rin- chiudeva come in una fortezza nelle facoltá
superiori dello spirito, proprie ed essenziali
all'uomo. Con questa tattica di
combattimento lo spiritualismo sembrava ar-
bitrario ed era infecondo. Sembrava arbitrario, perché gli oppositori potevano sempre obiettargli
che la dif- ferenza constatata tra il
psichico e il fisico derivava
semplicemente da ció, che esso considerava la materia nelle sue forme piú rudimentali e lo spirito
nei suoi stati piú perfetti; ma che se
si prende la materia al grado di
complessitá e di mobilitá ove imita certi ca-
ratteri della coscienza, e la coscienza ad un grado di 24 Esposizione della filosofia
bergsoniana semplicitá e di stabilitá
ove partecipa dell'inerzia della
materia, si riesce senza pena a farle coincidere. Era anche infecondo, poiché si limitava a
considerare i termini estremi e a
dichiarare che lo spirito e irridut-
tibile alla materia. Ora una dichiarazione di questo genere puú essere vera (essa dé vera, a mio
gludizio), ma non si guadagna nulla a
constatare che quei due concetti di
spirito e di materia sono esteriori 1”uno
all'altro. Si potranno fare invece scoperte importanti, se ci si pone nel punto ove i due concetti si
toccano, alla loro frontiera comune, per
studiare la forma e la natura del
contatto. A questo lavoro lungo e difficile
io - continua Bergson - ho invitati i filosofi nel mio Matiére el Mémoire. Nel fatto cerebrale determinato e
localizzato, che condiziona una certa
funzione della parola, ho consi- derato
le manifestazioni della materia nella loro forma piú complessa, nel punto ove rasentano
l'attivita dello spirito. Nel ricordo
del suono delle parole ho esami- nato lo
spirito nel suo stato pid semplice. lo era questa volta alla frontiera, eppure ho dovuto
arrivare alla conclusione che tra il
fatto psicologico e il suo sub- strato
centrale non c'é un parallelismo rigoroso, ma
esiste una relazione che non risponde a nessuno dei concetti tutti fatti che la filosofia mette a
nostro ser- vizio. Dato uno stato
psicologico, la parte vissuta, jouable,
di questo stato, quella che si traduce con
un'attitudine del corpo e con azioni del COrpo, é rap- presentata nel cervello; il resto ne 8
indipendente e non ha equivalente
cerebrale. Di modo che ad uno stesso
stato cerebrale possono corrispondere stati psi- cologici diversi, che hanno tutti in comune
lo stesso schema motore, ma non stati
psicologici qualsiasi, perché in una
medesima cornice possono stare molti
quadri, ma non tutti i quadri. Il pensiero e relativa- mente libero e indeterminato per rapporto
all'attivita 2”TI nemici della durata reale cerebrale che lo condiziona, poiché
questa non esprime che le articolazioni
motrici dell'idea, le quali possono
essere le stesse idee assolutamente differenti. Da ció ne segue che non pud esservi parallelismo o
equiva- lenza tra lo stato cerebrale ed
il pensiero (1). Queste furono le idee
che Bergson difese in quella seduta.
Segui una discussione serenamente tranquilla,
che diede campo all'oratore di affermare sempre piú le sue teorie. Molto piú agitato fu il dibattito che
avvenne al Congresso di Ginevra tra i
numerosissimi difensori del parallelismo
ed il Bergson. Questi in una comu-
nicazione, che sollevd molto rumore (2), volle prescin- dere dalle sue teorie, e si propose di
stabilire che il pa- rallelismo
psico-fisiologico implica una contradizione
fondamentale e riposa su un artificio dialettico, su una serie di paralogismi. La lettura di questa memoria, racconta il
Chartier, provoco in tutti gli uditori
un sentimento di sorpresa e di
inquietudine. Quasi tutti coloro che si trovavano presenti, avevano formulato spesso la tesi
del pa- rallelismo. 1 piú prudenti
l'avevano presentata come il risultato
esatto di un gran numero di esperienze
concordanti; nessuno aveva mai esaminato se la sem- plice enunciazione di questa tesi
rinchiudesse una con- tradizione
(3). Ora, era questo che Bergson
pretendeva provare. Quando parliamo
d'oggetti esteriori - egli disse - noi
abbiamo la scelta tra due sistemi di notazione. Pos- siamo trattare gli oggetti ed i cangiamenti,
che si (1) Questa teoria beresoniana
sará ampiamente esposta nei capitoli
seguenti, dedicati alla percezione ed alla memoria. (2) BERGSON: Le paralogisme psycho-physiqgue in Revue
de Métaph. et de Morale, novembre 1904,
pag. 895-908. (3) Revue de métaphys. et de morale, num. cit., pag.
1027. 26 Esposizione della filosofia
bergsoniana compiono, come cose o come
rappresentazioni: nel primo caso siamo
realisti, nel secondo idealisti. Che ¡i
due postulati si escludano lun 1'altro, che sia perció illegittimo 1applicare nello stesso tempo i
due sistemi di notazione allo stesso
oggetto, tutti lo accorderanno. Orbene,
se si opta per la notazione idealista, l'affer-
mazione del paralelismo implica contradizione; se si preferisce la notazione realista, si ritrova
la stessa contradizione; la tesi del parallelismo
non e intelligi- bile se non nel caso,
che per una incosciente pre-
stidigitazione intellettuale, si adottino nello stesso tempo, nella stessa proposizione, i due
sistemi di no- tazione. Poniamoci infatti dapprima dal punto di
vista idea- listico e consideriamo ció
che avviene nella percezione degli
oggetti, che popolano il campo della visione.
Per Pidealismo tutto € immagine e nelle cose non vi é se non ció che e mostrato nell'immagine,
perchée la realtá si identifica con la
rappresentazione. Il mondo esteriore €
quindi un'immagine, il cervello 4 un'altra
immagine della stessa natura e nella danza degli atomi cerebrali non c'e nulla di piú ne di
diverso, se non la danza di questi atomi
stessi. 11 dire col paral- lelismo che
lo stato cerebrale equivale alla rappresen-
tazione degli oggetti, é un assurdo in questa ipotesi ; poiché lo stato cerebrale € un'infima parte
del campo di rappresentazione, mentre
gli oggetti riempiono il campo di
rappresenzazione tutto intero. É evidente
che la parte non pud equivalere al tutto, e che for- mulato in una lingua rigorosamente idealista,
la ' tesi del parallelismo si riassumerebbe
in questa proposi- zione : la parte e il
tutto, Ma la veritá € che si passa
incoscientemente dal punto di vista
idealistico al punto di vista pseudo-
realista. Si € cominciato a fare del cervello una rap- presentazione, che non ha da suscitare le
altre rappre- > IL I nemici della
durata reale sentazioni, poiché queste sono date con esso, attorno ad esso. Ma insensibilmente si arriva ad
erigere il cer- vello ed i movimenti
intracerebrali in. cose, cioé in cause
nascoste dietro una certa rappresentazione ed
il cui potere si estende infinitamente piú lungi di ció che vien rappresentato. Dall'idealismo si é
sdruccio- lato nel realismo. Passiamo ora al realismo, secondo il quale,
le mo- dificazioni del cervello prodotte
dalle cose esterne, creano, occasionano
o almeno esprimono la rappre- sentazione
degli oggetti da me veduti. Si noti che, a
differenza dell'idealismo, il realismo non pud separare dal tutto reale ció che € separabile nella
rappresenta- zione ; esso definisce
l'oggetto per la sua solidarietá col
tutto ed anche la scienza, man mano che progre-
disce, considera l'interazione come la realtá definitiva. 1l realista perció dovrebbe dire che la
rappresenta- zione degli oggetti €
funzione dello stato cerebrale e degli
oggetti che lo determinano, poiché questo stato
e questi oggetti formano per lui un blocco indivisi- bile. 1l sostenere che la rappresentazione é
funzione dello stato cerebrale soltanto,
é contraditorio ed equi- vale alla
affermazione che una relazione tra due ter-
mini equivale all'uno di essi, oppure all'altra : una parte, che deve tutto ció che e, al resto del
tutto, pud essere concepita come
sussistente, quando il resto del tutto
svanisce. Ein questa contradizione che incorre
il parallelismo. Esso comincia a darsi un cervello, che gli oggetti esteriori modificano in modo da
suscitare delle rappresentazioni. Poi fa
tavola rasa di questi 0g- getti e
attribuisce alla modificazione cerebrale il po-
tere di disegnare, da sola, la rappresentazione degli oggetti. Ma ritirando gli oggetti che lo
incorniciano, si ritira anche lo stato
cerebrale, che da loro prende le sue
proprietá e la sua realtá. Il realista lo conserva, perché passa furtivamente al sistema di
notazione 28 Esposizione della
filosofia beresoniana idealista, ove si pone come isolabile in diritto ció
che e isolato nella
rappresentazione. L*essenza stessa
dell'illusione parallelistica consiste
nell*apparente conciliazione di due affermazioni incon- ciliabili, nell*oscillare ciog dall'idealismo
al realismo o dal realismo all'idealismo. Questo, in breve, é il discorso di Bergson,
che nei congressisti causó una emozione
profonda e che fu seguito da una
discussione vivacissima, la quale si
prolungó anche dopo la seduta, nelle conversazioni accalorate dei filosofi presenti a quel
Congresso. c) Il tempo e lo
spazio. Dopo le scaramuccie contro la
psicofisica e la psico- fisiologia,
Bergson con una battaglia campale contro
certi idoli dellazione e del linguaggio vuol dimostrare quella profonda distinzione tra durata e
spazialitá, che, come ben nota il
Prezzolini, forma un leit-motiv del-
l'opera sua (1). Se dai fenomeni
di coscienza, presi isolatamente,
passiamo alla molteplicitá concreta ed allo sviluppo organico della vita interiore, noi vediamo
che in questa tutto si compenetra e si
fonde in un cangiamento in- divisibile,
ininterrotto, eterogeneo. 1 che, come si
disse, non viene menomamente ammesso dal senso co- mune, dalla filosofia, dalla scienza, quando
frazionano la continuitá della durata
pura in tanti stati distinti, separati,
esteriori gli uni agli altri, che si possono
trattare come i numeri dell”aritmetica e rappresentare per mezzo di una giustaposizione nello
spazio. Sorge quindi la questione: la
molteplicitá dei nostri stati di
coscienza ha la minima analogia con la molteplicita Ne I nemici della durata reale 29 delle unitáa di un numero? la vera durata
ha il me- nomo rapporto con lo spazio?
(1). Nell Estetica trascendentale Kant,
con una conce- zione che non differisce
troppo dalla credenza popolare,
distingue lo spazio dalla materia che lo riempie, gli concede un esistenza indipendente dal suo
contenuto. Lo spazio per Kant é un mezzo
vuoto, infinito e infi- nitamente
divisibile, che si presta indifferentemente a
qualsiasi modo di decomposizione; € una realtá senza qualitá, una omogeneitá estesa, una maglia
dalle reti che si possono fare e disfare
a piacimento (2). In questo spazio noi
ci rappresentiamo i numeri, le unita
omogenee, che non si penetrano, ma che sono su- scettibili di essere sbocconcellate
all'infinito e poste le une accanto alle
altre. Ossessionati da questa idea,
osserva Bergson, noi Pintroduciamo a
nostra insaputa nella rappresentazione
della successione pura della coscienza e proiettiamo nello spazio il tempo concreto, vale a dire la durata
reale, indi- visa nella sua
molteplicitá, una nella sua eterogeneita,
irreversibile nei suoi movimenti. In tal modoriesciamo a dividere i nostri stati interni, a
giustaporli, a percepirli
simultaneamente non piú l*uno nell'altro, fusi insieme come le note di una melodia, ma l'uno accanto
al- Paltro. 11 prima ed il poi non si
succedono piú, ma coesistono e prendono
per noi la forma di una catena, i cui
anelli si toccano senza penetrarsi. Cosi la conti- nuita dei fatti di coscienza viene frazionata,
ed i di- versi stati, con un ordine che
ci sembra reversibilis- simo, si
dispongono e si allineano in un mezzo
omogeneo ed indefinito. Il quale, nevvero, dovrebbe essere chiamato spazio ed invece... prende il
nome di tempo! (1) Essaz, pag. 69. (2) 7b01d., pag. 70 € Seg. 30 Esposizione della filosofia
beresoniana Ora, non é forse vero
che questo tempo kantiano e un concetto
bastardo, dovuto all'intrusione dell'idea
di spazio nel dominio della coscienza pura, e che questa pretesa forma dell'omogeneo deriva
dall'altra? Non é forse vero che il
tempo astratto non é che spazio? Bisogna persuadersi bene di ció, per non
confon- dere, come fece Kant, il tempo
astratto, spazia- lizzato, omogeneo, col
tempo concreto, ossia con la durata
reale. C'2 una differenza capitalissima tra
essi: poiché il primo non e che il simbolo e 1'ombra dell”altro, proiettato nello spazio. Noi, purtroppo, sostituiamo sovente, pet
ragioni che ricercheremo poi, il simbolo
alla realtá. Ma quando stacchiamo gli
occhi dall*ombra che ci segue; quando
con mano franca strappiamo il velo che si interpone tra la realtá e noi; quando, — non fermandoci
alla superficie del nostro io, dove le
sensazioni successive. pur fondendosi le
une nelle altre, ritengono qualche cosa
dell”esterioritá reciproca che ne caratterizza opgetti- vamente le cause, — gettiamo lo sguardo
indagatore nelle regioni piú profonde
della coscienza vivente; noi scor- giamo
che in questa non vi sono cose, ma progressi; vi notiamo momenti eterogenei che si penetrano,
si orga- nizzano, si mescolano in tal
maniera, che non si sa- prebbe dire se
sono uno o molti e nemmeno esami- narli
da questo punto di vista senza snaturarli tosto (1). Allora comprendiamo che la molteplicitá
qualitativa degli stati di coscienza,
riguardata nella sua purezza originale,
non presenta alcuna rassomiglianza con la
molteplicita distinta che forma un numero, e che al- lVinfuori di una rappresentazione simbolica,
il tempo non prenderebbe mai per noi
l'aspetto di un mezzo omogeneo. (1) Z61d., pag. 96 e 104. I nemici della
durata reale 31 Una distinzione dunque
si impone tra le due forme della
molteplicitá, tra le due apprezziazioni della du- rata: luna é la durata vera e concreta, la
durata eterogenea e vivente, la durata
qualitá; Paltra e in- vece un simbolo
morto, € la durata quantita, e un un
tempo materializzato per mezzo di una proiezione nello spazio, € il fantasma dello spazio che
ci perse- guita e ci ossessiona (1). Per non essersi ricordati di questo, gli
associazio- nisti hanno polverizzato la
vita dello spirito, risolven= dola in un
aggregato di elementi separati ed incon-
trando poi gli assurdi che la loro teoria suscita nella questione della libertá e nel problema della
memoria. Lo mostreremo ampiamente in
seguito e sempre ci accorgeremo che chi
calpesta i diritti della durata reale
solleva mille dispute inutili, insolubili ed eterne. Il giorno in cui avvenne la confusione di
quei due aspetti della vita cosciente,
del tempo con lo spazio, — cosl
esclamava Bergson in una conferenza al Col-
lege de France — si iniziarono i guai e le sciagure della filosofia (2). Ma allora, si domanderá, se la durata
propriamente detta non si divide e
quindi non si misura, che cosa dividono
e che cosa misurano le oscillazioni del pen-
dolo? 11 tempo che l”astronomia, la fisica e la mecca- nica introducono nelle loro formule, non é
forse una egrandezza divisibile,
misurabile ed omogenea? Un esame attento,
risponde il Bergson, dissipera quest'
ultima illusione. Quando io seguo con gli occhi, sul quadrante d'un orologio, il movimento
della lan- (1) Z01d., pag. 57-81. (2) Cfr. GRIVET, art cit., in £tudes. -
Riguardo alla spazia- lizzazione della
durata, si vegga anche la risposta del Bergson
al Le Dantec in Revue du mois, 1o settembre 1907 : L*évolution créatrice. Esposizione della filosofia
bergsoniana cetta che corrisponde alle
oscillazioni del pendolo, ¡o non misuro
la durata, ma mi limito a contare delle
simultaneitá, cosa che e ben differente. Fuori di me nello spazio, non c'é che una posizione unica
della lancetta e del pendolo, poiché delle
posizioni passate nulla resta. Dentro di
me, avviene un processo di
organizzazione dei fatti di coscienza, che costituisce la durata. E perché io duro in questo modo, che
mi rap- presento ció che chiamo le
oscillazioni passate del pendolo, nello
stesso tempo che percepisco 1'oscilla-
zione attuale. Ora, sopprimiamo per un istante l'¡o, che pensa le oscillazioni successive; non vi
sará che una sola oscillazione del
pendolo e quindi nessuna du- rata.
Sopprimiamo, dall*altra parte, il pendolo e le sue oscillazioniz non vi sará che la durata
eterogenea dell'io, senza momenti
esteriori gli uni agli altri, senza
rapporto col numero. Cosl nel nostro io, c'é succes- sione senza esterioritá reciproca; fuori di
me esterio- rita reciproca senza
successione, poiché la successione
esiste soltanto per uno spettatore cosciente, che ricordi il passato e giustaponga le due
oscillazioni e i loro simboli nello
spazio ausiliario. Tra queste due realtá
si produce un fenomeno d'endosmosi. Siccome
ciascuna delle fasi successive della nostra vita co- sciente, che si penetrano tra loro,
corrisponde ad una oscillazione del
pendolo, che le € simultanea; siccome
d'altra parte queste oscillazioni sono nettamente di- stinte, poiché l'una non c'é piú, quando si
produce l'altra, noi contraiamo
l'abitudine di stabilire la stessa
distinzione tra i momenti successivi della nostra vita cosciente; le oscillazioni del bilanciere la
decompon- gono in parti esteriori le une
alle altre: di qui l'idea erronea d'una
durata interna omogenea, analoga allo
spazio, i cui momenti identici si seguirebbero senza penetrarsi. Ma dall'altro lato le
oscillazioni pendolari, ciascuna delle
quali svanisce, quando l'altra appare,
I nemici della durata reale : 33
grazie al ricordo che la nostra coscienza organizza del loro complesso, si conservano, si allineano e
creano nella nostra fantasia il tempo
omogeneo (1). Cosi dalla comparazione
dello spazio, dove i fenomeni non du-
rano, e la durata reale, dove non vi sono che mo- menti eterogenei, nasce questa forma
illusoria d'un mezzo omogeneo ; il
trait-d'union tra 1 due termini é la
simultaneitá, che si potrebbe definire 1'intersezione del tempo con lo spazio. Ancora una volta, il
tempo omogeneo ed astratto é solo una
rappresentazione simbolica della vera
durata, dedotta dallo spazio. Se ora
sottoponiamo alla stessa analisi il concetto
di movimento, noi verremo ad un identico risul- tato (2).
lo ho la mano al punto A e la trasporto al punto B, percorrendo l'intervallo A-B. In questo
atto ¡o posso considerare due cose
: Innanzi tutto, lungo questo movimento
posso rap- presentarmi lo spazio
percorso, cioé le possibili fer- mate,
le stazioni del mobile, i punti per i quali la
mia mano passa. Queste posizioni, questi punti non sono nel movimento e neppure sotto il
movimento : sono semplicemente
proiettati da me sotto al moto, come
tanti luoghi dove sarebbe la mano, se si fer-
masse; sono quindi dei semplici punti di vista. Non basta : le stazioni, i punti sono
l'immobilita stessa ; anche
moltiplicindoli all'infinito, non si ricostruisce il moto. Il movimento sdrucciola
nell*intervallo. In breve: lillusione di
costruire il movimento con quelle posi-
(1) Essaz, pag. 8273. (2) Essai, pag. 78 e Seg. ;
Matiére el Mémotre, pag. 207 € Seg. ; La
perception du-changement, pag. 19 € Seg. Prego
i lettori a se- guire attentamente
l'analisi bergsoniana pel movimento : essa ha
dato origine alla famosa obiezione del Le Roy contro la prima delle cinque vie che, secondo S. Tommaso
conducono a Dio. Cfr. .LE ROY: Comment se pose le probleme de Dieu, l.
c. zioni immobili, implica l'assurdo che il movimento
+ immobilitá (1). Ma io posso riguardare anche l'atto col
quale per- corro quello spazio,
l'operazione ciog per cui la mano passa
da una posizione all'altra. Allora non ho piú
Una 'CoSa, ma un progresso ; ho una sintesi qualitativa, 'un'organizzazione graduale delle mie
sensazioni suc- cessive, un”unitá
analoga a quella d'una frase melo-
dica, 'un processo psichico e percid inesteso. In questo caso non ho piú i punti traversati, che non
erano che immobilita, ma ho la
traversata dei punti, cioé il vero
movimento. Ma anche qui si
produce un fenomeno d'endosmosi: da una
parte, siccome il movimento, una volta effet-
tuato ha deposto nello spazio una traiettoria immobile, divisibile all'infinito, noi attribuiamo al
movimento la divisibilitá stessa dello
spazio percorso, dimenticando che
l'immobilitá non coincide col movimento e che,
se si pud frazionare la traiettoria una volta creata, non si puó dividere la sua creazione, che non é
una cosa, ma un atto in progresso.
Dall'altra parte noi ci abi- tuiamo a
proiettare questo atto nello spazio, a solidi-
ficarlo, come se questo non significasse che anche fuori della coscienza il passato coesiste col
presente (2). E in questo modo che
sorge l'idolo del movimento omogeneo e
divisibile, il quale rappresenta - gioverá
ripeterlo - lo spazio percorso e non il moto stesso, le stazioni successive del mobile e non il
progresso per cui esso passa da una
posizione all'altra, il punto di riposo
e non lattivita, Pestremitá e non l'intervallo
della durata, in una parola l'immobilitá e non il mo- vimento ! Qual meraviglia se per queste
confusioni il (1) Cfr. anche /Zntrod.
a la Meétaph., trad. ital. pag. 49, Essaz,
pag. 84-5, Évol. cr. pag. 344, 393 etc.
(2) Essaí pag. 85, Évol. cr., 334.
I nemici della durata reale 35
problema del moto ha fatto nascere fin dalla piú re- mota antichitá mille questioni? 1 quattro
famosi ar- gomenti di Zenone d”Elea non
hanno altra origine di questa. Sia il
primo (della dicotomia), sia gli altri
(d*Achille e della tartaruga, della freccia, dello stadio) non fanno altro che scambiare il fatto
indivisibile del movimento con la
traiettoria infinitamente divisibile,
che quello descrive, e che non é altro che spazio im- mobile (1).
Ed e solo su quest'ultimo che riposa tutta la nostra fisica, anche quando si parla di tempo, di
moto, di velocitá. I trattati di meccanica infatti hanno cura
di notare che essi non definiscono la
durata stessa, ma l'egua- glianza di due
durate. Due intervalli di tempo, di-
cono essi, sono eguali, quando due corpi identici, posti nelle stesse circostanze al principio
di ciascuno di questi intervalli, e
sottomessi alle stesse azioni ed '
influenze di ogni specie, avranno percorso lo stesso spazio alla fine di questi intervalli. In
altre parole noi notiamo l'istante
preciso in cui il movimento comincia,
ciog la simultaneita d'un cangiamento esteriore con uno dei nostri stati psichici; notiamo il
momento in cui il movimento fluisce,
cioé una simultaneitá ancora; infine
misuriamo lo spazio percorso, la sola cosa che
di fatto sia misurabile. Qui non c'é dunque questione di durata, ma solo di spazio e di
simultaneitá (2), vale a dire
d'immobilitá. 11 tempo reale, che é un
flusso, ed € la mobilitá stessa dell'essere, sfugge alla conoscenza scientifica (3). Dal punto di
vista della (1) Essai, pag. 85-7, Mat.
et Mém. pag. 211-2; ÉvOol. cr. pag. 333
eseg.; Introd. a la Mét., trad. ital. pag. 52. La perception du changement, Conf. Il, pag. 20. (2) Essaz, pag. 88. (3) Lvol. cr., pag. 364. 36
Esposizione della filosofia bergsoniana
A e A E A scienza, ció che conta
non e P'intervallo di durata, che noi
viviamo e sentiamo, ma sono le stazioni del mo-
bile, tanto € vero che se tuttii movimenti dell”uni- verso si producessero due o tre volte pid in
fretta, non vi sarebbe nulla da
modificare ne alle nostre for- mule né
ai numeri che vi facciamo entrare (1). Edé
evidente; poiché la scienza non tiene conto ná della successione in ció che ha di specifico, ne
del tempo in ció che ha di fluido; essa
non si applica alla realtá in ció che ha
di movente, come i ponti lanciati su un
fiume non seguono l'acqua che scorre sotto le
loro arcate (2). Analizziamo
finalmente la nozione di velocitá. La
meccanica costruisce dappprima l'idea d'un moto uniforme, rappresentandosi d'un lato la
traiettoria A B d'un certo mobile, e dall'altro
un fenomeno fisico che si ripete
indefinitamente in condizioni iden-
tiche, per esempio la caduta d'una pietra, che cade sempre dalla stessa altezza al medesimo
luogo. Se si notano sulla traiettoria A
B ¡ punti M, N, P.... rag- giunti dal
mobile in ciascuno dej momenti in cui la
pietra tocca il suolo, e se gli intervalli A M, MN, NP... sono riconusciuti eguali tra loro, si dirá
che il movimento e uniforme e si
chiamera velocita d'un mobile uno
qualunque di questi intervalli, purché si convenga di adottare come unitá di durata il fenomeno
fisico, che si é scelto come termine di
paragone. Si definisce dunque la
velocitá d'un movimento uniforme senza
fare appello ad altre nozioni che a quelle di spazio e di simultaneitá. Conclusione, questa, alla quale
si giun- gerebbe analizzando anche il
moto variato (3). Confessiamolo,
dunque; noi parliamo di tempo, (1)
Essaz, pag. 83-89, 148, cfr. anche £vol. C7., PAY. 10. (2) Evol. cr., pag. 366. (3) Essaz, pag. 89-90. E A
PA, ya) SAR e ná
I nemici della durata reale pronunciamo questa parola, e pensiamo allo
spazio. Discorriamo di movimento e ad
esso sostituiamo la simultaneitáa. Noi
insomma - esclamava Bergson nella prima
conferenza di Oxford - diciamo e ripetiamo che
tutto cangia, che il movimento esiste, che esso € la legge stessa della cose : ma intanto
ragioniamo e fi- losofiamo, come se il
cangiamento non esistesse. Per pensarlo
e per vederlo, bisogna rimuovere un velo
fitto di pregiudizi. La perception du changement, Conf. 1, pag. 4. In. L' Intelligenza ed il Linguaggio -- HART GRICE HOLLOWAY LANGUAGE AND
INTELLIGENCE Chi vuole riprodurre per
mezzo del cinematografo una scena
animata, ad esempio la sfilata di un reg-
gimento, prende sul reggimento che passa una serie di istantanee, e le proietta sulla tela in
modo che si sostituiscano
velocissimamente le une alle altre. Col
movimento impersonale, astratto e semplice dell*appa- recchio, e con fotografie, ciascuna delle
quali rappre- senta il reggimento in un
attitudine immobile, si rico- stituisce
la mobilitá dei soldati che passano. Il
meccanismo della nostra conoscenza usuale —
dice il Bergson, e questa é una delle idee a lui piú care, che sviluppó lungamente del 1goo al
1904 nelle sue lezioni al College de
France, sopratutto in un corso sulla
storia dell'idea di tempo — é di na-
tura cinematografica (1). Ne
abbiamo una prova evidente nella ricostruzione
che il pensiero concettuale fa del divenire continuo della durata. Noi prendiamo delle vedute
istantanee su questa realtá interiore
che scorre, e poi le infiliamo lungo un
divenire astratto ed uniforme, situato al
(1) Évol. cr., pag. 329 € Seg.
X 40 Esposizione della
filosofia beresoniana fondo dell'apparecchio della coscienza. Quale valore abbia questo divenire, che si vuol chiamare
tempo omogeneo, l'abbiam gia visto nel
capitolo precedente; ora invece
ricercheremo il significato delle varie foto-
grafie, vale a dire dei concetti della nostra intelligenza, e del linguaggio con cui li enunciamo. pa
Qualunque sia il sistema filosofico che abbia le nostre preferenze, noi tutti siamo d'accordo
su due punti. Siamo pronti ciod a
concedere coi pensatori antichi e
moderni che un essere perfetto sarebbe colui
che conoscesse ogni cosa intuitivamente, senza aver bisogno di passare per l'intermediario del
ragionamento, dell'astrazione e della
generalizzazione. Inoltre tutti
affermiamo che le idee astratte e generali, i concetti, hanno solo il valore delle percezioni
eventuali da essi rappresentate : tanto
é vero che crollano come castelli di
carta il giorno in cui un fatto, un fatto solo real- mente percepito viene ad urtarli (1). Se si ammette questo, — e come non
ammetterlo ? bisogna necessariamente procedere oltre e conce- dere che ¡i concetti coi quali esprimiamo la
durata del nostro io profondo, sono
schemi morti che non ci danno la realtá,
ma solo l'ombra di questa; sono fo-
tografie immobili, relative ad uno speciale punto di vista, che non ci possono servire in u na
filosofia che che vuol cogliere
l'assoluto. La durata infatti della
nostra coscienza é un flusso continuo ed
indiviso, dove tutto é cangiamento. Eb-
bene, cosa fa la nostra intelligenza? Essa comincia a distinguere e a dividere questa vita
interiore e ne ot- tiene delle unitá
artificiali, che chiama sensazioni,
sentimenti, rappresentazioni, ecc. Riesce cos] a rappre- (1) La perception du changement, Conf. 1,
pag. 5-8. sentarsi il divenire come una
serie di stati, ciascuno dei quali non
muta punto; e se osserva la mutazione di
uno di essi, subito lo decompone in un seguito di altri stati immobili, che costituiranno
riuniti la sua modificazione esteriore,
e cosl via, fin quando non ha ottenuto
degli elementi stabili. L*intelligenza ha una
viva ripugnanza per ció che e fluido, solidifica tutto ció che tocca, e non si rappresenta
chiaramente che la immobilitá. Siccome
quindi il reale, il vissuto, il con-
creto si riconosce per il fatto che e la variabilita stessa, é chiaro che coi concetti invariabili e
fissi, con questi quadri rigidi ed
inerti, non potremo ricomporre la
realta. Essi sono soltanto una
ricostruzione semplificata, spesso un
semplice simbolo, in ogni caso una veduta
immobile, presa sulla fugace successione della realtá che scorre (1). Non é vero, rispondera l'intelligenza; la
durata é unitá e molteplicitá: eccola
risolta in concetti, esat- tamente, ed
in concetti estratti d a essal — Ma é un
tentativo vano di difesa. La nostra durata non puó racchiudersi in una rappresentazione
concettuale. Se la si dichiara multipla,
la coscienza insorge ed afferma che le
mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei pensieri sono astrazioni che opero su me stesso, e che
questi termini, invece di distinguersi
come quelli di una mol- teplicitáa
qualunque, si accavallano gli uni sugli altri.
Confessiamo dunque che, se c'é una molteplicita, questa molteplicitá non rassomiglia a nessun altra.
Diremo allora che la durata ha
dell?unita? Senza dubbio, una continuitá
di elementi che si prolungano gli uni negli
altri partecipa dell'unitá quanto della molteplicita; ma questa unitá -mobile, mutevole, colorata,
vivente, non (1) Cfr. Zntrod. á la
Mét., trad. ital. pag. 45, 48; Évol. cr. . 42
Esposizione della filosofia bergsoniana rassomiglia affatto all?unitá astratta,
immobile e vuota, che circoscrive il
concetto di unitáa pura. Conclude- remo
da ció che la durata si deve definire ad un
tempo con lunitá e la molteplicita? Ma, cosa strana, avró un bel manipolare i due concetti,
dosarli, com- binarli diversamente
insieme, praticar su di essi le piú
sottili operazioni della chimica mentale, non otterrd mai niente che somigli all'intuizione
semplice che ho della durata; mentre se
io mi rimetto nella durata con uno
sforzo d'intuzione, m'accorgo subito come essa
é unita, molteplicitá e molte altre cose ancora (1). In altre parole si comprende che i concetti
fissi pos- sono essere estratti dal
nostro pensiero dalla realtá mobile; ma
non c'é modo di ricostruire, colla fissitá
dei concetti, la mobilitá del reale (2). E del resto che che la personalitá abbia dell”unitá, che il
nostro io sia molteplice, é certo; ma
ció che importa alla filosofia é di
sapere quale unitá, quale molteplicita, guale
realtá superiore all'uno e al multiplo astratti, sia la unitá molteplice della persona (3). Questo ¡
concetti né separati né riuniti non ce
lo diranno mai; tutto al piú faranno
sorgere una tesi ed un'antitesi, che
invano cercheremo di conciliare logicamente (4). E non si dica che i concetti sono estratti
dalla realtá : lo concediamo; ma da ció
non si pud concludere che vi erano
contenuti. L”apparecchio fotografico
estrae, da uno spettacolo che si muove,
delle vedute immobiliz ma non ne segue
che le immobilita abbiano fatto parte del mo-
vimento. Tra la realtá ed i concetti ad essa piú. vi- cini, c'é lo stesso rapporto che tra la scena
animata e (1) Zntrod. á la Mét. trad.
it., pag. 29. (2) Z61d., pag. 63. (3) Zb1d., pag. 41; Cfr. anche Le
paralogisme psycophysique in Bulletin . A
la fotografia istantanea. Che sarebbe poi, se si consi- derassero tutti gli altri concetti, che sono
meno an- cora di questo, semplici note
prese a proposito di questa realtá, ed
anche, piú sovente, note prese su queste
note? (1) Non basta: per altre ragioni
ancora dobbiamo con- dannare
l'intelligenza. Essa € invaghita di semplicita,
ha abitudini tenaci e radicate di economia. Con pochi principii, con pochi elementi, vuol
ricomporre tutto il reale, il quale
invece € ridondante, é sovrab- bondante
e colle sue innumerevoli manifestazioni Ci
attesta la sua ricca feconditá. Tra la realtá vera e quella dei filosofi, si puó stabilire lo
stesso rapporto che esiste tra la vita
che noi viviamo tutti i giorni e quella
che gli attori ci rappresentano, la sera, sulla
scena. Al teatro ciascuno non dice che ció che bisogna dire e non fa che ció che bisogna fare; vi
sono delle scene ben tagliate; la
rappresentazione ha un prin- cipio, un
mezzo, una fine; e tutto é€ disposto colla
massima parsimonia, in vista d'uno scioglimento fe- lice o tragico. Ma nella vitá c'e una folla
di cose e di gesti inutili, non vi sono
situazioni nette; nulla avviene cosi
semplicemente, cosl completamente, cosl
bellamente come vorremmo; le scene si allargano le une nelle altre, le cose non cominciano né
finiscono, non c'é né uno scioglimento
interamente soddisfa- cente, ne gesti
assolutamente decisivi e via dicendo (2).
Tale e la vita nella sua feconda ricchezza. Come mai questa potrá essere abbracciata dalle forme
ischele- trite del pensiero, dai quadri
dell'intelletto, da pochi concetti
? (1) Bergson scrisse questo nella sua
lettera al Pitkin in The jour- nal of
phylosophy etc. num. cit. (2) BERGSON : Vérité et realité.
Introd. alla trad. franc. di un libro di
William James : Le pragmatisme, pag. 2-3.
44 Esposizione della filosofia
bergsoniana Tanto piú che noi
abbiamo visto che la durata €
originalita e imprevedibilitá per essenza. In essa non vi sono mai due istanti uguali; ogni momento della
sua storia porta qualche cosa di nuovo
che scaturisce senza posa nella
genialitá di uno slancio creatore. Se si
volessero vestire questi momenti, si dovrebbe ta- gliare un concetto appropriato a ciascuno di
essi, che a fatica si potrebbe chiamare
concetto, perché si ap- plicherebbe ad
una cosa sola. Invece l'intelligenza non
vede che l'aspetto ripetizione ; se il tutto é ori- ginale, essa l'analizza in aspetti, che sono
press'a poco la riproduzione del
passato. Essa non ammette la novita
completa né il divenire radicale, ma risolve la perenne invenzione creatrice della durata in elementi
conosciuti ed antichi, disposti in un
ordine differente (1). Per questo
procede con la combinazione di idee che si
trovano gia in commercio e nella sua incurabile pre- sunzione si immagina di possedere per diritto
di na- scita o per diritto di conquista,
innate o apprese, tutti gli elementi
essenziali della conoscenza della veritá.
Non le viene nemmeno il sospetto di dover creare per un momento nuovo un nuovo concetto, ma é
preoc- cupata solo di scegliere uno
degli abiti gia confezio- nati; vuol
trovare la categoria antica, il vecchio ca-
sellario, la rubrica usuale, l'etichetta di un concetto bello e fatto (2). L'intelligenza perció
comincia a tra- scurare la colorazione
speciale della persona, che non puó
esprimersi in termini noti e comuni. Poisi sforza, di isolare nella persona gia semplificata a
quel modo, il tale o tal'altro aspetto
che si presta ad uno studio
interessante, e lo erige in fatto indipendente, otte- nendo cosi un punto di vista sulla mobilitá
della vita interna, uno schema della
realtá concreta. É un la- (1) Évol.
cr., pag. 177 e Seg. (2) Zb1d., pag.
52-3, Introd, á la Mét., trad. ital. pag. 40-3. voro analogo a quello dun
artista, che, di passaggio a Parigi,
facesse, ad esempio, uno schizzo d'una torre
di Nótre-Dame. La torre é inseparabilmente legata all'edificio, che € legato, non meno
inseparabilmente, al suolo, ai dintorni,
a tutta Parigi ecc. Bisogna co- minciare
collo staccarla ; si noterá solo un certo aspetto dell'insieme. La torre é costituita da pietre
che le dánno, con la loro speciale
combinazione, la sua forma, ma il
disegnatore non si interessa alle pietre e non
nota che il profilo della torre. Egli sostituisce dunque all'organizzazione reale ed interna della
cosa una ricosti- tuzione interna e
schematica, in modo che il suo disegno
risponde, insomma, a un certo punto di vista sull*oggetto e alla scelta di un certo modo di
rappresentazione (1). Ora succede
precisamente lo stesso nell'operazione
colla quale estraiamo un concetto dall'insieme della persona: noi consideriamo.il tutto sotto un
certo aspetto elementare che si
interessa particolarmente e lo espri-
miamo con un concetto, che non ci dá l'assoluto, come non ce lo dá lo schizzo preso dalla torre di
Nótre- Dame. Quest'ultimo avrebbe potuto
essere diverso, se fosse stato ritratto
da un punto di vista differente; quello
pure non ci dá dell'oggetto in questione che
qualche tratto sommario, variabile secondo la dire- zione e Pangolo. L*analisi concettuale é
quindi relativa, poiché non si pone
nell*oggetto, ma gira attorno ad esso ed
e costretta a tradurlo in simboli, a confrontarlo con altre cose che giá crede di conoscere, a
espri- merlo in funzione di ció che esso
non é. Anche ag- giungendo descrizioni a
descrizioni, moltiplicando i punti di
vista, non ci dará mai una conoscenza per-
fetta : l'oggetto sará sempre la moneta d'oro di cui non si finisce di rendere il resto (2). E
quando si ten- (1) Zntrod. a la Mél.,
pag. 32-3. (2) Zb1d,, trad. ital. pag.
13-19. 46 Esposizione della filosofia
bergsoniana terá con la moltitudine di queste rappresentazioni simboliche, con le idee e con i concetti, di
ricostruire la realtá assoluta, non vi
si riuscirá, come non riesce un bambino
a fabbricarsi un balocco solido con le
ombre che si profilano sui muri (1). Come e possi- bile fabbricare la realtá, manipolando dei
simboli? Come si potrá rappresentare la
durata con una serie di note, di
rappresentazioni piú o meno schematiche?
Come si potrá comporre una cosa con punti di vista ? (2). ES
* Ecco quindi spiegato 1”eterno
bisticciare delle scuole filosofiche, le
difficoltá inerenti alla metafísica, le an-
tinomie che fa sorgere, le contradizioni in cui cade, il pullulare di teorie antagoniste,
lopposizione irridu- cibile dei
sistemi. Se la filosofia dev'essere
fondata sui concetti, non v'é e non vi
pud essere uma filosofia, ma vi saranno
tante filosofie, quanti sono i pensatori originali, che salgono alternativamente sulla scena, per
farsi applau- dire (3). Con un decreto
contestabile essi attribuiranno
un'importanza arbitraria ad un concetto o ad un altro, ad un punto di vista sulla realtá, che
impoverirá la visione concreta ed eliminerá
una moltitudine di differenze
qualitative. A questo decreto se ne potrá
sempre opporre un altro e cosi sorgeranno varie filo- sofie, armate di differenti concetti e capaci
di lottare indefinitamente tra
loro. E allora che si avanzano le
dottrine scettiche, idealiste e
criticiste, che, constatando Pimpossibilita di (1) Z01d., pag. 31. (2) Zbid., pag. 50.
(3) Z61d., pag. 27 e Seg.; Bulletin de la Soc. fr. de phil., 1901, pag. 50; La perception du changement, Conf. I, pag. 7-6.
L'intelligenza ed il linguaggio 47
far entrare il reale nei vestimenti di confezione che sono le nostre idee, proclameranno con Kant la
relativitá della conoscenza (1). Dopo
troppo orgoglio si finisce con un
eccesso di umiltá. Dopo la pretesa assurda di voler racchiudere negli schemi concettuali la
ricchezza ine- sauribile dello spirito
vivente e di voler cogliere con formule
fisse ed immutabili il rinnovarsi incessante
d'una primavea eterna, eternamente nuova ed ine- sauribile nelle sue creazioni, la ragione
umana giunge con orgogliosa modestia a
dichiarare il proprio falli- mento e
l'impossibilitá della metafísica (2). A
questa triste e sconsolata conclusione non si
sarebbe giunti, se si fosse incominciato a valutare con sereno giudizio la natura dell'intelligenza
nostra, scien- tifica o metafisica che
sia; se nel tempo spazializzato, nel
movimento omogeneo, nei concetti astratti, nelle idee generali, si fosse riconosciuto una
conoscenza esclusivamente pratica,
orientata verso il profitto che ne
vogliano ricavare. Ce ne persuaderemo, esami-
nando la funzione naturale dell'intelligenza, 1'origine delle idee generali e la natura propria del
linguaggio. *k * Se
potessimo spogliarci della nostra superba fierezza, se per definire la nostra specie ci tenessimo
stretta- mente a ció che la storia e la
preistoria ci presentano come la
caratteristica costante dell'uomo, noi non di-
remmo homo sapiens, ma homo faber. Originaria- mente noi non pensiamo, che per agire. La
specula- zione é un lusso, mentre
l'azione é una necessitá. Ed e nella
forma dellazione che la nostra intelligenza é
stata fusa; essa non e la facolta di fabbricare sistemi (1) Introd. a la Mét., pag. 72-6. (2) Évol. cr., pag MI. 48 Esposizione della filosofia
bergsoniana di metafisica, bensi di
preparare strumenti artificiali. Stretta
dalle esigenze della vita pratica, la sua atti-
vitá si esercita esclusivamente sulla materia bruta, nel senso che anche quando adopera materiali
orga- nizzati, li tratta sempre come
oggetti inerti. Della stessa materia
bruta non ritiene che il solido, e non
si rappresenta chiaramente che il discontinuo ; perció considera ogni oggetto decomponibile in
parti arbitra- mente tagliate,
esteriori 1*una all'altra e alla loro volta
divisibili all'infinito; la realtá ultima, 1*elemento estremo é sempre per essa qualche cosa di stabile e
di immo- bile. Questo é utile e questo
le basta ; la fluidita e la continuitá
non l'interessano. Poi, per le esigenze della
vita pratica e sociale, l'intelligenza da alle cose esterne un nome, estensibile ad un'infinita di
oggetti. Nascono cosl le idee, i
concetti, che naturalmente sono este-
riori fra loro, come i modelli sui quali furono formati; sono fissi ed inerti come il mondo dei
solidi; sono simboli piú leggieri, piú diafani,
piú facili a manipo- lare dell'immagine
pura e semplice delle cose concrete. La
logica non é che l'insieme delle regole che bisogna seguire, per maneggiare questi simboli. I nostri concetti perció sono stati creati
da un?atti- vitá che non era destinata
alla speculazione pura, ma era orientata
verso l'azione : dall”azione soltanto eb-
bero origine le idee generali (1).
Se si riflettesse a questo, scomparirebbe il circolo vizioso che il problema delle idee generali
sembra pre- sentare : per generalizzare
bisogna astrarre, ma per astrarre
utilmente bisogna saper generalizzare. Intorno
a questo circolo gravitano concettualismo e nomina- lismo, ognuno dei quali ha sopratutto per sé
l'insuf- ficienza dell”altro. 1
nominalisti hanno il torto di non dirci
come mai il nome generale puó applicarsi a
L'intelligenza ed il linguaggio 49
molti oggetti, se questi non presentano rassomiglianze tra loro, se cioé la generalizzazione non fu
preceduta da una estrazione di qualitá
comuni. Í concettualisti -si dimenticano
di dirci se le qualitá individuali, anche
isolate con uno sforzo di astrazione, non restano indi- viduali come prima, e se per apparire comuni
non hanno dovuto giá subire un lavoro di
generalizzazione. Gli uni e gli altri
suppongono che noi partiamo dalla per-
cezione di oggetti individuali. Ora questo postulato e falso. La nostra percezione delle cose ha
origini tutte utilitarie. Ció che ci
interessa in una data si- tuazione e ció
che cogliamo dapprima, é il lato per cui
essa pud rispondere ad una tendenza o ad bisogno: ed il bisogno va diritto alla qualita, alla
rassomiglianza, e non ha a che fare
colle differenze individuali. Questa
rassomiglianza agisce oggettivamente come una forza e provoca reazioni identiche in virtú della
legge tutta fisica che vuole che gli
effetti d'insieme seguano le stesse
cause profonde. L”identitá di reazioni ad azioni superficialmente diverse e il germe che la
coscienza umana sviluppa in idee
generali. Siamo quindi libe- rati dal
circolo vizioso, nel quale sembravamo rinchiusi: per generalizzare, dicemmo, bisogna astrarre
le rasso- miglianze, ma per far questo
bisogna giá saper gene- ralizzare. La
verita e che la rassomiglianza dalla quale lo
spirito parte, quando dapprima estrae, non é la rasso- miglianza alla quale giunge, quando, coscientemente, generalizza. Quella da cui parte é una
rassomiglianza sentita, vissuta,
automaticamente rappresentata; quella a
cui riviene é una rassomiglianza intelligentemente per- cepita o pensata. Nel corso di questo
progresso si co- struisce l'idea chiara
della generalitá, che ai suoi inizi non
era che la coscienza d*un'identita d'attitudine in una diversita di situazioni. Con uno sforzo
di riflessione siamo passati all'idea
generale del genere, per for- mare poi
un numero illimitato di nozioni generali, le O. Esposizione della filosofia
bergsoniana quali perció nacquero non dalla speculazione disinte- ressata, ma dallazione (1). Da questa ebbero origine anche tutti i
prin- cipii. Nel primo Congresso
internazionale di filosofía, tenutosi a
Parigi nell'Agosto 1900, Bergson cercó di
dimostrare questa tesi, per quello che riguarda il prin- cipio di causalita. In quella sua Note sur les origines
psychologiques de notre croyance ú la
loi de causalité (2), egli so- stenne
che la nostra credenza a questa legge € vissuta
dal nostro corpo, prima di essere pensata dal nostro spirito. L*acquisto graduale di questa
credenza non fa che una cosa sola con la
coordinazione progressiva delle nostre
impressioni tattili alle nostre impressioni
visuali, coordinazione che implica l'intervento di mo- vimenti e sopratutto di tendenze motrici. La
percezione ripetuta di una forma visuale
determinata crea in noi un'aspettazione
macchinale di percezioni tattili deter-
minate ; la forma visuale, che si continua cosi rego- larmente in resistenza, ci appare a poco a
poco come la causa di questa resistenza.
Ed a poco a poco anche le forme visuali
in generale, vale a dire gli oggetti
esteriori, ci appaiono come forze che agiscono rego- larmente le une sulle altre. La riflessione,
esercitan- dosi su questa credenza,
deduce il principio di cau- salita sotto
la sua forma precisa e scientifica. La
necessita inerente alla legge di causalitá si muove cosl tra due limiti estremi: da necessita
vissuta di- viene necessita pensata.
Empirismo ed apriorismo si accordano a
non tener conto che della seconda di
queste due forme della necessita; € per questo che (1) Questa analisi sull'origine e la natura
delle idee generali si trova in Matiére
et Mémoire, pag. 169 e seg. (2) Questo
discorso si trova in Bibliot. du Congrés Intern, de Philos., Vol. 1, Philos, gén. et
meétaphys., L*intelligenza ed il
linguaggio 51 né Puno né l'altro ci dá
una spiegazione veramente psicologica
della nostra credenza ai principii (1). xk Se
¡ concetti, le idee, i principii derivano non gia dalla speculazione, ma dalla vita, e
precisamente dalle relazioni nostre con
la materia bruta, € evidente in- nanzi
tutto che l'intelligenza raggiunge con essi la
realtáa, quando si ferma nel dominio della materia inerte. L'azione nostra non potrebbe muoversi
nel- Virreale e perció, purché non si
consideri della fisica che la sua forma
generale e non il dettaglio della sua
realizzazione od il simbolismo delle sue leggi,
pud dire che essa tocca l'assoluto (2). S1, ripeteva Bergson contro coloro che lo accusavano di
anti-intellet- tualismo; io dico che
quando l'intelligenza umana e la scienza
positiva si esercitano sul loro proprio 0g-
getto, sono in contatto col reale e penetrano sempre piú nell'assoluto (3). Ma il male é, che quando Pintelligenza opera
non piú sulla materia bruta, ma sulla
durata reale o sulla vita (che, come
vedremo, presenta tutti caratteri della
durata), tratta il vivente come l'inerte, applicando al novello oggetto le stesse forme, proprie dei
corpi inor- ganizzati, trasportando nel
nuovo dominio le mede- simi abitudini
contratte nell'antico campo (4). Ed essa
ha ragione di farlo, poiché a questa condizione
soltanto, il vivente offrirá alla nostra azione la stessa (1) Ho utilizzato il sunto fedele che del
discorso del Bergson diede la Revue de
Métaphys. et de Mor. settembre 1900, pag. 655
e seg. Évol. cr. pag. 216. (3) BERGSON ; A propos de l 'Evolution de
Pintelligence géome- trique, in Revue de
mél. et de mor ale, Gennaio 1908, pag. 30.
(4) vol. cr., Pag. 213-14. 52 Esposizione della filosofia bergsoniana presa
della materia inerte. Ma resti inteso che la ve- rita alla quale allora si giunge, diviene
tutta relativa alla nostra facoltá di
agire e non é piú che una ve- rita
simbolica, Nel nuovo dominio l'intelligenza non
é piú un sole che illumina il mondo, ma una lanterna manovrata al fondo d'un sotterraneo (1). q
Noi peró dimentichiamo tutto questo, sedotti dalla grande causa di mille errori, il linguaggio, Creato per designare le cose e null'altro
che le cose, il linguaggio, quando lo si
applica alle idee, esige che noi vi
stabiliamo le stesse distinzioni nette e precise, la stessa discontinuita che c'é tra gli
oggetti mate- teriali (2). Si vuole una
prova convincente? Quando noi diciamo
che nella nostra durata molti stati di
coscienza s*organizzano tra loro, si penetrano, s'arric- chiscono sempre piú; adoperando la parola «
molti », abbiamo isolati questi stati,
li abbiamo esteriorizzati e glustaposti;
coll'espressione stessa, alla quale eravamo
obbligati a ricorrere, abbiamo tradito l'abitudine pro- fondamente radicata di sviluppare il tempo
nello spazio (3). Per portare un altro
esempio: quando si dice «il fanciullo diviene
uomo », se riflettessimo bene, vedremmo
che allorché poniamo il soggetto « fan-
ciullo », Pattributo « uomo » non gli si addice ancora, e quando enunciamo l'attributo « uomo »
questo non si applica gia piú al
soggetto « fanciullo ». La realta, che €
la transizione dall'infanzia all” etá matura,
a ci e sfuggita, ci €
sdrucciolata tra le dita (4). (1) Zbid., pag. II. Cfr. anche
in Fot et Vie 1911, fasc. IV, PD. 421:
BERGSON : Les réalitlés que la Science n'atteint pas. (2)
Essaz, pag. VII. (3) Z01d., pag.
92-3. (4) Evol. cr., pag. 338-9. A AA ==
Il nostro modo abituale di parlare € consono alle abitudini cinematografiche della nostra
intelligenza € non sa cogliere 1”aspetto
infinitamente mobile ed ine- sprimibile,
che ci presentano le percezioni, le sensa-
zioni, le emozioni, le idee, senza fissarne e distrug- gerne la mobilita (1). É il linguaggio che ci
fa confondere il sentimento intimo in
perpetuo divenire, coll'oggetto
esteriore che lo causa e con la parola che
esprime questo oggetto, facendoci attribuire alle im- pressioni, che cangiano continuamente,
contorni pre- cisi e l'immobilitá (2). E
il linguaggio che ci fa soli- ficare le
nostre sensazioni. Un sapore, un profumo mi
sono piaciuti quando era fanciullo ed ora mi ripu- gnano; tuttavia io do ancora lo stesso nome
alla sen- sazione provata e parlo come
se il profumo edil sapore fossero
restati identici ed i miei gusti soli aves-
sero cambiato. Mentre tutte le sensazioni si modificano ripetendosi, il linguaggio ci fa credere alla
loro immobi- litá; la parola dai
contorni ben definiti, la parola
brutale, che immagazzina ció che c'é di stabile, di comune, di impersonale nelle impressioni
dell?uma- nitaá, schiaccia o almeno
ricopre le impressioni delicate e
fuggitive della nostra coscienza individuale e special- mente i nostri sentimenti. Essa deforma
l”originalitá d'un amore violento, d'una
melanconia profonda; se- para nella loro
massa confusa una molteplicitá di
elementi che dispone poi in un mezzo omogeneo; ruba ai nostri sentimenti la loro
indefinibile anima- zione, il loro
colore, e poi vi appiccica sopra un nome
e li erige in un genere; e dopo aver spogliato questi stati d'animo di tutto ció che essi avevano
di intimo, di personale, di tutte le
loro sfumature fuggenti e delle lora
risonanze profonde, pretende di averci fatto cono- Essaz,scere meglio noi
stessi, mentre non ha fatto altro che
stendere dinanzi a noi la tela abilmente tessuta del nostro io convenzionale (1). Anche riguardo alle nostre idee, se le
cogliessimo in sé stesse, ci
accorgeremmo che la dissociazione dei
loro elementi costitutivi, che mette capo all*astrazione, per quanto comoda nella vita ordinaria e
nella discus- sione filosofica,
assomiglia alla dissociazione degli
stati di coscienza. Anche le nostre idee hanno uno slancio comune, presentano una penetrazione
mutua; esse non hanno la forma banale,
che loro dá il lin- guaggio, ma vivono
in noi come cellule in un orga- nismo,
modificandosi ad ogni nostra mutazione. Certo,
non tutte queste idee si incorporano cosi alla massa dei nostri stati di coscienza: quelle che
riceviamo tutte fatte, che rimangono in
noi senza venir assimi- litate dalla
nostra sostanza e che giacciono dissecate
nell'abbandono, sono adeguatamente esprimibili con parole; ma se penetriamo negli strati piú
profondi dell'io, assisteremo alla
fusione intima di idee, che, una volta
dissociate, sembrano escludersi sotto forma
di termini logicamente contradditorii (2). * *
X Con tutto questo noi non
disprezziamo I'intelli- genza né
neghiamo /utilitá del linguaggio, come non
contestiamo l'importanza dei biglietti di banca (3). La nostra vita esteriore e sociale esige
giustamente che sotto l'estensione reale
delle cose noi stendiamo uno spazio
omogeneo; che sbocconcelliamo la fluida con-
tinuitá della durata in tanti momenti ben distinti, in (1)
Essat pag. 99 e seg.; Le Rire, pag. 157.
(a) Essaií, pag. 103-4. (3) La
perception du changement, pag. 5.
L'intelligenza ed il linguaggio ls
'tanti stati nettamente caratterizzati; che applichiamo al vivente i concetti, le idee, il linguaggio
derivati dalla materia inerte. Solo a
questo modo, con questi principi di
divisione e di solidificazione, la nostra at-
tivita pud avere dei punti di applicazione: nulla di piú legittimo nel campo dell'azione. Ma pretendere di penetrare la natura intima
ed il fluire concreto della realtá con
questo linguaggio, con questi schemi
rigidi, con queste idee generali, con
queste astrazioni concettuali, significa voler traspor- tare nella speculazione pura un procedimento
fatto per la vita pratica. Se non
vogliamo baloccarci con sim- boli,
praticamente utili, ma assolutamente inefficaci
nel raggiungimento dell'assoluto; se vogliamo arrivare ad una conoscenza disinteressata ma vera; Se
vo- gliamo la filosofia ; dobbiamo avere
il coraggio di atter- rare con mano
inesorabile gli idoli del linguaggio ed
i concetti dell'intelligenza.
a - Aya pe y EE (5 L'Intuizione L”intelligenza
umama - tale fu la conclusione del
capitolo precedente - non e affatto quella che ci mo- strava Platone nell”allegoria della caverna.
Essa non ha Pufficio di guardare ombre
vane che passano, né di contemplare
voltandosi l”astro splendente. Ha da far
altro: aggiogati, come bovi da lavoro, ad un com- pito pesante, noi sentiamo il giogo dei
nostri muscoli e la resistenza della
terra; agire e sapersi agire, en- trare
in contatto colla realtá e anche riviverla, ma
solo nella misura in cui interessa il lavoro che si fa ed il solco che si apre, ecco la funzione
dell'intelli- genza umana (1). O la filosofia quindi non € possibile ed
ogni co- noscenza delle cose é una
conoscenza pratica orientata verso il
profitto che vogliamo trarre, oppure filosofare
consiste non giá nel prendere delle idee gia fatte per dosarle e per combinarle insieme, ma nel
rovesciare, nell'invertire il lavoro
abituale del pensiero, nel porsi nel
oggetto stesso, nel tuffarci d'un colpo nel fluire della durata per adottarne la direzione
mutevole senza posa, e per afferrarla
con uno sforzo d'intuizione (2). Che
cos'é quest'intuizione ? (1) Évol cr.,
pag. 209 (trad. Papini). (2) Introd. a
la Métaph., trad. ital., Se ¡o potessi coincidere per un istante col
personaggio di un romanzo, di cui mi
raccontano le avventure, la mia
conoscenza non sarebbe relativa ed imperfetta,
ma mi parrebbe di veder sgorgare naturalmente, come dalla sorgente, le sue azioni, i suoi gesti,
le sue pa- role. lo coglierei ció che costituisce
la sua essenza in tutta la completezza
delle sue perfezioni, e proverei un
sentimento semplice, che si presterebbe nello stesso tempo ad un apprendimento indivisibile e ad
una ine- sauribile enumerazione (1).
Ecco che cos*e P'intuizione: e quella
specie di simpatia divinatrice (2), per cui ci
si trasporta nell'interno di un oggetto per coincidere con ció che ha di unico e per conseguenza di
inesprimi- bile (3); € quell'auscultazione
intima che ci fa acco- stare alla
realtá, per sentirne palpitare l'anima (4) e vi
si inserisce, per coglierla al di fuori di ogni espressione, traduzione o rappresentazione simbolica (5).
Essa sola, dove é possibile, pud darci
la vera metafísica, la scienza cioé che
vuol fare a meno dei simboli e che raggiunge
Passoluto (6). Diciamolo subito
: questa facoltá non ha nulla di
misterioso (7). Non é necessario, per andare all'intui- zione, di trasportarsi fuori del dominio dei
sensi e della coscienza, come falsamente
credette Kant (8). Essa Z01d., pag. 13-17. (2) Bergson nell'Zntrod. a la Met. (scritta
nel 1093) diceva « simpatia
2ntellettuale ». Ma come bene osservano il Ségond ed il Le Roy, egli dopo 1'Evolution créatrice,
non userebbe piu quella parola. (3) Zntrod. a la Mét., trad. ital., pag. 17. (4) Zbid., pag. 39. (5) Zótd., pag. 19 (6) Zbtd., pag. 19. (7)
Zbid., pag. 80. (8) L*imtuition
philosophique, riv. cit., pag. 827. non é altro che uno sforzo penoso, perfino
doloroso, di risalire la china abituale
del lavoro del pensiero (1), di disfare
i prodotti artificiali creati dall'intelligenza per facilitare la nostra azione sulle cose, di
mettersi subito per una specie di
dilatazione intellettuale nell*oggetto
che si studia, per andare dalla realtá ai concetti e non dai concetti alla realtá (2). Gli inizii di questa intuizione filosofica
sono segnati dal buon senso (3). Questo,
che tanto differisce dal senso comune, é
un senso del reale, del concreto,
dell*originale, del vivente, un'arte di equilibrio e di precisione, un senso della complessitá, in
palpazione continua, come le antenne di
certi insetti. Esso implica una certa
diffidenza della facoltá logica di fronte a sé
stessa; fa una guerra incessante all'automatismo in- tellettuale, alle idee tutte fatte, alla
deduzione lineare. Si preoccupa
sopratutto di collocare e di pesare senza
nulla disconoscere ; arresta lo sviluppo di ogni prin- cipio e di ogni metodo al punto preciso in
cui un*ap- plicazione troppo brutale
offenderebbe la delicatezza del reale;
ad ogni momento raccoglie l'insieme della
nostra esperienza e l'organizza in vista del presente. Esso, in una parola é pensiero che si
conserva libero, attivitá che sta in
guardia, flessibilitá di attitudine,
attenzione alla vita, accomodamento sempre rinnovato a situazioni sempre nuove. Da questo contatto
mobile col dato, da questo sforzo
vivente di simpatia, deriva la sua virtú
rivelatrice. Ecco ció che noi dobbiamo
tendere a trasportare dall'ordine pratico all*ordine spe- (1) Zntrod. dá la Met. BERGSON: Le bon sems
et les études classiques, discorso
pronunciato alla distribuzione dei premi del Concorso generale, il 30 luglio 1895. Esposizione della
filosofla bergsoniana culativo (1) e che gia abbiamo compiuto, quando spo- gliandola dai simboli che la ricoprivano,
abbiamo cercato di cogliere la durata
del nostro.io. Mentre l'intelligenza,
costretta a prendere delle vedute immo-
bili sul movimento e a scoprire ripetizioni lungo ció che non si ripete, attenta a dividere
comodamente l'indivisibilita della
nostra coscienza, era obbligata a
gilocar d*astuzia con la realtá e ad assumere in faccia ad essa un'attitudine di diffidenza e di
lotta, noi ab- biamo trattato questa
realtáa en camarade, abbiamo
simpatizzato col nostro io, e con questo sforzo d'in- tuizione abbiamo oltrepassato l'intelligenza
(2). ES * X
Queste parole suggeriscono subito l'idea di un cir- colo vizioso. Invano si dirá, pretendete di
andar piú in lá dell'intelligenza ; come
otterrete questo, se non con
l'intelligenza stessa ? L'obiezione si
presenta naturalmente allo spirito, ma
con un simile ragionamento si proverebbe l'impos- sibilitá di acquistare qualsiasi abitudine
nuova. L*es- senza del ragionamento sta
nel rinchiudersi nel cerchio del dato.
Ma l'azione rompe il cerchio. Se voi non
aveste mai visto nuotare un uomo, mi direste forse che nuotare é una cosa impossibile, giacché
per im- parare a nuotare, bisognerebbe
cominciare a reggersi nell'acqua, e per
conseguenza saper nuotare di gia.
Infatti il ragionamento m'inchiodera sempre alla terra ferma. Ma se io mi butto nell'acqua senza
aver paura, dapprima mi sosterró alla
meglio, dibattendomi contro di essa, a
poco a poco mi adatteró a questo nuovo
(1) Il sunto di questo discorso sul buon senso € dato dal LE ROY, op. cit., pag. 135. Di esso mi sono
servito. (2) Z'intuition philosophique,
riv. cit. pag. 824-825.ambiente e impareró a nuotare. Cosi, in teoria, é
un assurdo voler conoscere altrimenti
che coll'intelligenza, ma se si accetta
francamente il rischio, l”azione toglierá
forse il nodo che ha intrecciato il ragionamento e che questo non scioglierá. Ma se la metafisica
deve procedere per intuizione, se
l'intuizione ha per oggetto la mobilitá della durata, e se la durata € d'essenza psicologica, non
corriamo il rischio di rinchiudere il
filosofo nella contemplazione esclusiva
di sé stesso ? La risposta a questa
difficolta dev'essere data da tutto
l'insieme dell'opera bergsoniana, che procurerá
di mostrare come noi possiamo simpatizzare con altre realtá ed inserirci in esse con uno sforzo di
immagi- nazione. Questo lo possiamo giá
comprendere fin d'ora, osservando che
l'intuizione di cui parliamo non é un
atto unico, ma una serie indefinita di atti, tutti senza dubbio, del medesimo genere, ma ciascuno di
una specie particolare, e che questa
diversita di atti cor- risponde a tutti
i gradi dell'essere. Se io cerco di
analizzare la durata, cioé di risolverla
in concetti belle fatti, sono obbligato a prendere sulla durata in generale due vedute opposte, colle
quali, dopo, tenteró di ricomporla. Diró
che da una parte c'é un*unitá e dall'altra
una molteplicita di stati di coscienza e
che la durata e la sintesi di questa unita
e di questa molteplicitá. Questa combinazione, che ha del resto qualcosa di miracoloso e di
misterioso, non pud presentare né una
diversitá di gradi, né una varietá di
forme e di sfumature: in questa ipotesi
non c'é e non ci pud essere che una durata unica. (1) £vol. cr., pag. 209-10 (trad, Papini). Esposizione
della filosofia bergsoniana Ma se
invece di voler analizzare la durata e di farne
la sintesi con dei concetti, ci s'installa subito in essa con uno sforzo d'intuizione, si ha il
sentimento di una certa temsione ben
determinata, di cui la stessa
determinazione appare come una scelta fra un'infinita di durate possibili. Allora scorgiamo tante
durate quante vogliamo, tutte molto
differenti tra loro, benché ciascuna di
esse, ridotta a concetti, si riconduca sempre
alla medesima combinazione indefinibile del molteplice e dell'uno. Cosi l'intuizione della nostra
durata, ben lungi dal lasciarci sospesi
nel vuoto, come farebbe la pura analisi,
ci mette in contatto con tutta una con-
tinuitá di durate che dobbiamo tentar di seguire, sia verso il basso sia verso l'alto: mei due casi
possiamo dilatarci indefinitamente, con
uno sforzo sempre pid violento; nei due
casi trascendiamo noi stessi. Nel primo
andiamo verso una durata sempre piú sparpa-
gliata, i cui palpiti, piú rapidi dei nostri, dividendo la nostra senzazione semplice, ne diluiscono la
qualitá in quantitá: al limite sarebbe
il puro omogeneo, la pura ripetizione,
colla quale definiremo la materialita.
Andando nell*altro senso, andiamo ad una durata che si tende, si serra, si intensifica sempre
piú: al limite sarebbe l'eternitáa. Non
piú leternitá concettuale, che e
eternitá di morte, ma una eternitá di vita. L'in- tuizione si muove fra questi due limiti
estremi e questo movimento é la stessa
metafísica (1). * *x*
Voi vi contradite, hanno osservato altri; se la nostra intelligenza ha delle abitudini statiche,
come potrá comprendere il flusso del
reale? A Wildon Carr (2) che gli
presentava questa obie- (1) Introd. á
la Mét. trad. ital. pag. 55-60. (2) In
Proceedings of Aristotelian Society, 1908-9, pag. 208. L*intuizione 63 zione, Bergson rispose che la nostra
intelligenza e cir- condata da una
frangia d'intuizione che ci permette di
simpatizzare con ció che c'é di propriamente vitale nella vita. Se a questa frangia si vuol dare
il nome d'intelligenza, si é liberi di
farlo, ma si estenderá troppo il senso
della parola; ed a dire il vero, questa
frangia d'intuizione sembra che rassomigli meno alla intelligenza che all'istinto, che é quasi
l”opposto del- Pintelligenza (1). . Siccome questo confronto tra imtuizione e
istimto ricorre spesso nella pagine di
Bergson e diede luogo a molti malintesi,
contro i quali egli stesso ha prote-
stato (2), € necessario ricercare quale sia il pensiero preciso del filosofo francese. Nell Evolution créatrice, quando affronta il
pro- blema della vita, Bergson tenterá
di mostrare che la vita, dalle sue
origini in poi, non é che la continua-
zione d'un solo e medesimo slancio, che si € poi di- viso in linee di evoluzioni divergenti (3).
Lo sviluppo di quell”unico impulso ha
dissociato cosl tendenze che non
potevano crescere al di lá di un certo punto,
senza divenire incompatibili tra loro; ma che peró, nonostante la divergenza dei loro effetti,
conservano qualche cosa di comune per
l'identitá della loro ori- gine. Cosi,
ad es., lo slancio iniziale s'é scisso in in-
telligenza nell”uomo e in istinto negli-«animali, in modo che ogni istinto concreto é mescolato
d'intelligenza ed ogni intelligenza
reale e penetrata d'istinto (4). É per
questo che noi non siamo pure intelligenze, ma che intorno al nostro pensiero concettuale e
logico é re- (1) Cír. Proceedings of
Arist. Society, 1908-9, pag. 220. (2) A
propos de l'évolution de l'intell. géom., riv. cit., pa- gina 30.
(3) vol. cr., pag. 57. (4)
701d., pag. 148. 64 Esposizione della
filosofia beresoniana stata una nebulosita vaga, fatta della sostanza
stessa alle cui spese si € formato il
nocciolo luminoso che noi chiamiamo
intelligenza (1); accanto alla zona ri-
schiarata, c'é una frangia oscura che va a perdersi nella notte (2). Se questa frangia indistinta esiste, essa
deve avere per il filosofo una
importanza maggiore del nucleo lu-
minoso che essa circonda (3). Che pud essere infatti questa frangia inutile, se non la parte del
principio. evolventesi, che non si €
ristretta alla. forma speciale della
nostra organizzazione e che € passata in contra- bando? (4). Ed appunto perché questa
intuizione vaga non c'é d'alcun aiuto
per dirigere la nostra azione sulle
cose, azione interamente localizzata alla super- ficie del reale, non possiamo noi presumere
che essa non si esercita semplicemente
in superficie, ma in profonditá ? (5). É
qui dunque che dobbiamo cercare le
indicazioni per dilatare la forma intellettuale del nostro pensiero; é qui che attingeremo lo
slancio ne- cessario per innalzarci al
disopra di noi stessi (6) e per trovare
certe potenze complementari dell'intelletto,
potenze di cui non abbiamo che un sentimento con- fuso, quando restiamo in noi, ma che si
rischiarano e si distinguono, quando
percepiscono sé stesse al- Popera,
nellevoluzione della natura. La
conoscenza intuitiva di questa frangia ha molta
rassomiglianza colla conoscenza propria dell'istinto. Cosi disse Bergson
al Congresso di filos. di Parigi nel 1900
in una discussione col Weber. Cfr. Revue de métaph. et de morale. Settembre 1900, pag. 662. (3)
Evol. cr.L’intuizione 63 Per quanto
l'istinto non abbracci che la piccolissima
porzione di vita che l'interessa e sia necessariamente specializzato ; per quanto si esteriorizzi in
azione, in- vece di interiorizzarsi in
coscienza e tenda assai verso
l'incoscienza ; pure bisogna riconoscere che esso € orientato verso la vita e non fa altro che
continuare il lavoro per il quale la
vita organizza la materia, a tal punto
che non sapremmo dire dove finisce l'orga-
nizzazione e dove comincia l'istinto (1). II quale coglie il suo oggetto, al di dentro, non per un
processo di conoscenza, ma per
un'intuizione vissuta piuttosto che
rappresentata, che rassomiglia senza dubbio a ció che noi chiamiamo simpatia divinatrice. Lo
ripetiamo : questa simpatia ha un
oggetto limitato ed é incapace di
riflettere su sé stessa; in ció sta la sua deficienza. L'intelligenza invece, benché dapprima si
concentri sulla materia e si adatti agli
oggetti del di fuori, pure giunge a
circolare tra essi, a rovesciare le barriere
che le si oppongono, ad ampliare indefinitamente il suo regno. Una volta liberata, pud piegarsi
all'in- terno e risvegliare le
virtualita d'intuizione che son-
necchiano ancora in essa e che altro non sono se non una specie d'istinto, divenuto
disinteressato, cosciente di sé stesso,
capace di riflettere sul suo oggetto e di
allargarlo indefinitamente (2).
Bergson quindi — come scriveva nel 1908 in un arti- colo apparso nella Revue de métaphysiqueet de
morale non pretende di sostituire all'intelligenza qualcosa di differente o di preferirle l'istinto. Egli
vuole sol- tanto che, quando si
abbandona il dominio degli og- getti
materiali e fisici, per entrare in quello della
vita e della coscienza, si faccia appello a un certo senso della vita che s'oppone all'intelletto
puro e Life and Consciousness, riv. Cit., pag. 44. O. Esposizione della filosofia
bergsoniana E. AE EN ONIS che ha la sua
origine nel medesimo getto vitale del-
listinto, benche l'istinto propriamente detto sia tutta altra cosa. Che Pintuizione sia possibile,
che l'uomo possa distogliere la sua
attenzione dal lato praticamente in-
teressante dell'universo, per rivolgerla verso ció che praticamente non serve a nulla, e ció che ci
sugge- risce l'esistenza in noi di una
facoltá estetica accanto alla percezione
normale (2). Nulla come l'arte, pud
dirci che cosa sia 1'imtui- zione
filosofica. Non solo, vivendo di creazioni, l'arte pud farci comprendere ció che é la durata
reale e lo slancio vitale (3); ma
inoltre, anche l'artista si pone per una
specie di simpatia nell'interno dell'oggetto e
non percepisce piú semplicemente in vista d'agire, ma solo per percepire, per il piacere, per
nulla (4). L”osservazione sincera della
nostra vita psicologica normale ci
mostra una tendenza costante dello spirito
a limitare il suo orizzonte. Nel campo infinitamente vasto della nostra conoscenza virtuale, noi
cogliamo solo ció che interessa la
nostra azione sulle cose e trascuriamo
il resto. Prima di filosofare bisogna vi-
vere (5) e vivere significa accettare dagli oggetti sol- tanto l'impressione utile, per rispondervi
con reazioni appropriate: le altre
impressioni debbono oscurarsi o non
giungerci che confusamente (6). I sensi e la co- scienza non ci dánno della realtá che una
semplifi- A propos de Pévol. de Pintell.
géomét., riy. cit, pag. 30. (2) Évol. cr., pag. 192. (3) Z01d., pag. 49. (4) La perception du changement, Conf. Z61d., Conf. 1, pag. 12. Le Rtire PIRANDELLO L'intuizione K 67 cazione
pratica. L'individualitá delle cose e degli es-
seri ci sfugge tutte le volte che non giova materialmente di percepirla. E anche lá dove la notiamo,
come quando distinguiamo un uomo da un
altro uomo, non é la individualitá
stessa che afferra il nostro occhio, ma
soltanto uno o due tratti che faciliteranno il ricono- scimento pratico (1). Infine per dir tutto,
noi non ve- diamo le cose stesse, come
non percepiamo i nostri stati d'animo in
ció che hanno di piú intimo e di ori-
ginalmente vissuto. Ci appaghiamo di solito di leggere le etichette, che il linguaggio appiccica sul
reale (2). Noi insomma ci muoviamo tra
generalitá e simboli ; e affascinati,
attirati dall'azione, viviamo in una zona
mediana tra le cose e noi, esteriormente alle cose, ed esteriormente anche a noi stessi (3). Se la
realtá col- pisse direttamente i nostri
sensi e la nostra coscienza, se noi
potessimo entrare in immediata comunicazione
con le cose e con noi, l'arte sarebbe inutile, o piut- tosto saremmo tutti artisti, perché allora la
nostra anima vibrerebbe continuamente
all*unissono colla na- tura. 1 nostri
occhi, aiutati dalla memoria, ritagliereb-
bero nello spazio e fisserebbero nel tempo dei quadri inimitabili. Il nostro sguardo afferrerebbe a
volo, scol- piti nel vivo marmo del
corpo umano, frammenti di statua, belli
come quelli della statuaria antica. Noi
sentiremmo cantare in fondo alle nostre anime, come una musica a volte gaia, ma piú che altro
lamentosa, sempre originale, la melodia
ininterrotta della nostra vita interiore
(4). Ma nulla di tutto ció é percepito
direttamente da noi, perché tra noi e la natura, tra noi e la nostra stessa coscienza, s'interpone
un velo (trad. Papini).fitto per gli uomini comuni, leggiero e quasi
traspa- rente per l'artista ed il poeta.
Di quando in quando, per un felice accidente,
nascono delle anime che coi loro sensi e
con la loro coscienza sono meno attac-
cate alla vita. Quando riguardano una cosa, la vedono per sé stessa (pour elle) e non per sé stesse
(pour eux) e ne ritraggono una visione
piú diretta e piú immediata. Se il
distacco della vita fosse completo, se
l'anima non aderisse piú all'azione con nessuna
delle sue percezioni, avremmo l'anima di un artista, che eccellerebbe in tutte le arti nello
stesso tempo o piuttosto le fonderebbe
tutte in una sola. Ma sarebbe chieder
troppo alla natura. Per quelli stessi fra noi
che ha fatti artisti, essa ha sollevato il velo acciden- talmente e da una parte sola: da ció la
diversita delle arti. Ma sia pittura,
sia scultura, poesia o musica, Parte non
ha altro oggetto che di levar di mezzo i
simboli praticamente utili, le generalita convenzional- mente e socialmente accettate, infine tutto
ció che ci maschera la realtá, per
metterci faccia a faccia con la realtá
stessa (1). L”arte dunque ci mostra che
una estensione delle nostre facoltáa di
percepire € possibile (2), e benché essa
non attinga che l'individuale, ci fa peró conce- pire una ricerca orientata nel suo stesso
senso e che prenda per oggetto la vita
in generale (3). Ció che la natura fa di
quando in quando per distrazione e per
qualche privilegiato, la filosofia deve farlo per tutti in un altro modo, conducendoci ad una
perce- zione piú completa del reale, per
un certo spostamento della nostra
attenzione (4). L*arte e la
filosofia si ri- La perception du changement, Conf. La perception du changement, Conf. L'intuizione
69 congiungono cosi nell'intuizione,
che é la loro base comune (1); é la
stessa intuizione, diversamente uti-
lizzata, che fa il filosofo profondo ed il grande ar- tista (2).
ll senso comune dice che lartista € un idealista e certo é un ri] Filosoña e realtá X* A questa concezione
pura del reale si sostituisce spesso un
equivalente statico. La durata vera cede il
posto ad un tempo polverizzato, il movimento si ri- solve in una serie di posizioni, il
cangiamento in una serie di
istantaneita, il divenire in una serie di stati. Con una ingegnosa disposizione di immobilitá,
con un procedimento cinematografico, si
ricompone il movi- mento : operazione
praticamente comoda, ma teorica- mente
assurda e gravida di tutte le contraddizioni,, dí tutti i falsi problemi, in cui si impigliano
la meta- fisica e la critica (1), come
lo mostra 'un colpo d*oc- chio sulla
storia dei sistemi filosofici (2). Xx *
Perché infatti i filosofi della scuola di Elea dichiara- rono assurdo il movimento? Si esaminino gli
argo- menti di Zenone e si vedrá che
essi sono logicamente concludenti, se si
confonde il movimento con la tra-
iettoria, vale a dire se si fa coincidere il moto colla immobilita. a Cerchiamo il principio fondamentale della
filosofia che si sviluppd attraverso
l”antichita classica : lo spi- rito deve
trovare la qualita, la forma o essenza, il fine, ció insomma che e refrattario al cangiamento,
sotto il divenire delle cose. Ecco
quindi le pure idee im- mutabili, alle
quali Platone attribuisce un”esistenza
vera, e che entrando le une nelle altre si raggrup- pano in un concetto unico, nella forma delle
forme, nell'idea delle idee, nel motore
immobile di Aristotele. Cfr. L'intuition philosophique, riv. cit., pag.
825. (2) Tutto il Capo IV dell vol. Créat.
€ dedicato a dimostrare questa tesi.
Questo sistema di concetti fissi, che costituisce la vera scienza, € completo e tutto fatto
dall'eternitá : tutto é dato. Quale sará
allora l'indivisibile sorgente della
mobilita? Essendo la negazione della forma, sfuggirá per ipotesi ad ogni definizione e sará
l'indeterminato puro, il quasi-niente,
il non-essere platonico, la materia
prima aristotelica. E via di seguito, fino alle creazioni fantastiche di cosmologie arbitrarie, dedotte
dalla con- cezione falsa, che € alla
base di queste metafisiche. Le quali,
nelle loro grandi linee, corrispondono alla
metafisica naturale dell'intelligenza umana: edé per tale ragione che mille fili invisibili
uniscono la scienza moderna alla
filosofia greca. Nonostante le differenze
profonde che esistono tra la scienza nostra e quella degli antichi, i nostri scienziati, costretti
dalle esi- genze pratiche, non
considerano altro che il tempo lunghezza
e trascurano il tempo vero, il tempo inven-
zione. Da questa negazione della durata, sorge il determinismo assoluto, che abbraccia la
totalitá del reale: anche per loro,
tutto e dato. Descartes sembra dubitare
di questo: se da una parte egli accetta
il meccanismo universale, dall'altra
crede al libero arbitrio, che ci fa credere all'inven- zione, alla creazione, alla successione vera.
Tra le due concezioni egli é esitante,
ma é purtroppo la prima che la filosofia
posteriore abbraccia con Spinoza e con
Leibniz. Per l'uno e per l'altro, la realtá come la veritá sono integralmente date ab aeterno.
Essi rifiu- tano l'idea di una durata
assoluta, come la rifiutano anche il
preteso empirismo moderno, le spiegazioni
meccanistiche dell*universo, l”epifenomenismo mate- rialista, la psicofisiologia e via
dicendo. Tutte queste dottrine sono in
ritardo in confronto della critica
kantiana. Vedendo nell'intelligenza una
facoltá di stabilire dei rapporti, Kant attribul ai ter- mini dei rapporti stessi un'origine
extraintellettuale. Egli affermó, contro i suoi predecessori immediati che la conoscenza non é interamente risoivibile
in termini d'intelligenza. Con ció
apriva la strada ad una filo- sofía nuova,
che avrebbe dovuto porsi nella materia
extraintellettuale della conoscenza, con uno sforzo su- periore d'intuizione. Ma Kant non si mise in
questa direzione ; anch”egli non pensd
ad affermare la realtá sostanziale della
durata. Il pensiero filosofico del sec.
xix senti che questa era la via da
prendersi. Quando un pensatore sorse ad
annunciare una dottrina d'evoluzione, ove il pro- gresso della materia verso la percettibilita
sarebbe stata delineata insieme alla
marcia dello spirits verso la razionalitá,
ed ove si sarebbe seguito di grado in
grado la complicazione delle corrispondenze tra 1'in- terno e l'esterno, ed il cangiamento sarebbe
divenuto la sostanza stessa delle cose,
verso di lui si rivolsero tutti gli
sguardi. Ma Spencer non attud il suo pro-
gramma. La sua dottrina porta il nome di evoluzio- nismo e pretende di salire e di discendere il
corso del divenire universale: ma in
realtá non era que- stione né di
divenire né di evoluzione. L”artificio or-
dinario del metodo spencieriano consiste infatti nel ricostituire l”evoluzione coi frammenti
dell'evoluto. Se incollo un'immagine sul
cartone e taglio poi questo ultimo in
pezzetti, io potrei, raggruppando i piccoli
cartoni, riprodurre l'immagine. Ed il fanciullo che cosi lavora sui pezzi d'un giuoco di pazienza, che
giusta- pone i frammenti d'immagini
informi e finisce per ottenere un bel
disegno colorato, pensa senza dubbio
d'aver prodotto il disegno ed il colore. Tuttavia 1”atto di disegnare e di dipingere non ha nessun
rapporto con quello di radunare i
frammenti di una immagine gia disegnata
e gia dipinta. Nello stesso modo com-
ponendo tra l oro i risultati piú semplici dell*evoluzione, voi imiterete bene o male i piú complessi ;
ma né 180 Esposizione della filosoña
bergsoniana degli uni né degli altri voi avrete delineato la genesi; e questa addizione dell'evoluto coll'evoluto
non rasso- miglierá assolutamente al
movimento dell'evoluzione. Tale tuttavia
e l'illusione di Spencer : egli prende la
realtá nella sua forma attuale ; la spezza, la sparpiglia in frammenti che getta al vento; poi integra
questi frammenti e ne dissipa il
movimento. Dopo di aver imitato il tutto
con un lavoro di mosaico, e di essersi dato
anticipatamente tutto ció che si trattava di spie- gare, crede di aver compiuta l*opera promessa
(1). A questo falso evoluzionismo
bisogna invece sosti- tuire
l'evoluzionismo vero, ove la realtá sia seguita
nella sua generazione e nel suo crescere (2). É cid ap- punto che ha tentato di fare Bergson. Cosi finisce 1”Évolution Créatrice e cosi
termino anch'io lesposizione del
pensiero bergsoniano. Come gia dissi al
congresso di Bologna ed in una
prefazione agli scritti di Tarde, Bergson sostenne che per capire il pensiero di un filosofo,
bisogna riassu- mere tutte le sue teorie
in un punto unico, straordi- nariamente
semplice. Questo punto é cos) semplice
che il filosofo parla tutta la vita senza riescire ad esprimerlo. Egli non pud formulare ció che ha
nello spirito, senza sentirsi obbligato
a correggere la sua formola ed a
correggere poi la sua correzione : cos di
teoria in teoria, rettificandosi quando crede di comple- tarsi, non fa altra cosa che rendere con
approssima- zione crescente la
semplicitá della sua intuizione ori-
ginale. (1) Évol. Créat., Capo
IV passim. (2) Zbid., pag. VI-VII. É questo il metodo che Bergson vuole che si
ap- plichi a tutti i pensatori e quindi
anche a lui: metodo tutto opposto ai
tentativi molto in voga e contro i quali
egli protesta, di trascurare ció che di personale vi é in un sistema, per dissolverlo nelle sue
fonti e per ridurlo ad una sintesi di
idee di altri filosofi (1). Il lettore
dovrá perció cercare di afferrare nella com-
plicazione delle dottrine bergsoniane l'intuizione sem- plice che le anima. Modifichera la nozione
della durata della coscienza con le
teorie della memoria e sopra- tutto
della vita, poiché la nostra coscienza che dura
e che porta con sé tutto il peso del suo passato, non ¿ che un frammento della piú grande
Coscienza. La durata e libertá ; ma il
concetto di questo dev'essere completato
con la concezione della genesi universale,
poiché e lo slancio vitale che e libero e che si risveglia ad una libertá non perfetta nello spirito
umano. La Supracoscienza poi che dura,
con la sua distensione fa sorgere la
materialita, e cosi di seguito. Le
opere future di Bergson porteranno nuovi ritocchi, daranno al pensiero passato un colorito
speciale; ma (1) Infiniti sono gli
articoli di riviste, dove si cercano le orí-
gini del bergsonismo e si paragona Bergson a Eraclito, a Plotino, a Kant, a Darwin, a James, a Freud, a Wells,
a Balfon, etc. etc. Non ne cito nemmeno
uno, perché, fatta qualche rara eccezione,
non mirano a provare la continuita del pensiero filosofico, ma cercano con ravvicinamenti, quasi sempre
contrari al vero spi- rito di questa
filosofia, di distruggere ció che di originale vi € in Bergson.
lo non nego perd che vi siano analogie tra alcune teorie berg- soniane e le teorie di altri pensatori, ad
es. di Ravaisson, di Paul Janet, di
Maine de Biran. Si legga ad es:
BERGSON: Prin- cipes de psychologie et
de métaphysique a' aprés M. Paul Janet
in Revue Philosophique 1897, 2% Sem., pag. 525-5515 elo studio gia citato dello stesso Bergson: /Votice sur
la vie et les oeuures de M. F.
Ravaisson-Mollien (Académie des Sciences morales et politiques, séances des 20 et 27 février
1904). 182 Esposizione della filosofia bergsoniana Panima
vivificatrice, se é lecito esprimerla con una
formula, sará sempre l'intuizione della durata pura. A quanto si dice, il pensatore francese sta
ora stu- diando il problema morale ed il
problema d”oltretomba, memore forse che
la filosofia non € solo una medita-
zione della vita, come disse Spinoza, ma é anche, secondo il detto di Platone, una meditazione
della morte. Recentemente agli amici che
lo avvicinavano, ai giornalisti ammessi
allintervista, Bergson confes- sava che
il mistero dell'al di lá lo tormenta E
Mentre egli sta meditando, ¡o vorrei invitare il let- tore ad un esame critico delle teorie
lealmente e serenamente esposte, per
vedere se Bergson pud ab- bandonarsi
davvero alla gioia di aver creato un si-
stema vitale, gioia ineffabile, che, in una lezione al College de France, egli preferiva a tutti gli
onori ed a tutti gli applausi (2). (1) Cfr. Pintervista concessa da Bergson a
Maurice Verne nel- VIntransigeant del 26
novembre Igrr. PA > BE; (2) Cfr.
Etudes, art. cit., 20 NOV. 1911, pag. 449:"e Life and Consciousness, riv. cit., pag. 42.Gli
ammiratori di Bergson, che nel loro maesto ac-
clamavano « il nuovo Platone », ebbero un giorno una sgradita sorpresa. « Bergson — cosl dicevano
alcuni critici — é un grande artista, ma
non e un filosofo. Anche noi lo
ammiriamo, se ce lo presentate come un
cantore genialmente ispirato. Le sue dottrine sono davvero creazioni superbe e fantastiche,
degne d'un poeta. Ma se vorreste
ostinarvi a ricercare in esse un sistema
filosofico, noi saremmo obbligati a ripetervi
Pinvito di Alfred Fouillée e vi proporremmo di non discorrere piú di Évolution Créatrice, ma di
Imagi- tion créatrice » (1). Questo giudizio molto diffuso, per quanto
rara- mente espresso in una forma cosl
crude e sincera, mi sembra ingiusto.
Poiché, se Bergson é sempre un at- tista
della parola, se alcune pagine dei suoi libri ras- somigliano di piú ad un canto dell”Ariosto
che non ad un capitolo della Critica
della Ragione pura, tuttavia egli ¿
anche un filosofo per i problemi che tratta e per il metodo che difende. In un tempo in cui si tentava di ridurre la
filosofia ad un paragrafo delle scienze
naturali, Bergson ha sentito il dovere
di discutere i problemi della liberta
umana, della spiritualita dell'anima, dell”unione del- (1) Cfr. A. FOUILLÉE: La pensée et les
nouvelles écoles anti-
intellectualistes, Paris, Alcan, 1912, Pag. 353- 186 Note critiche A O E AENA GU ANIOS l*anima col corpo, della natura della vita,
dell'origine del mondo e via dicendo. Si
potrá e si dovrá combat- terlo per il
modo con cui li ha discussi; ma nessuno
puó negargli il merito di aver compreso che le do- mande: «Chi siamo noi? che cosa dobbiamo
fare quaggiú? dove veniamo e dove
andiamo? » sono — come egli stesso
proclamava nelle sue recenti confe-
renze di Birmingham e di Parigi — «le questioni essenziali e vitali, le questioni di
interesse supremo, che prime si
presentano al filosofo e che sono o do-
vrebbero essere la vera ragione della filosofia » (1 E questi « massimi problemi » Bergson ha
cercato di risolverli non giá con le
macchinette, cogli istru- mentini dei
laboratorii o con gli altri famosi ritrovati
della filosofia naturalistica, ma con quel metodo in- tuitivo, che € certo incompleto e che nel suo
esclu- sivismo é falso e contradittorio,
ma che rappresenta un'esigenza del
metodo filosofico vero. Da queste
parole il lettore avrá gia inteso qual'e
il giudizio che io daró del sistema bergsoniano. lo credo che esso, per quanto abbia segnato un
immenso progresso di fronte al
positivismo imperante pochi anni or sono
(2), presenta ancora mille errori, che
rovinano spesso le sue tesi pid belle. Sono peró anche convinto che questi errori non sono una
manifesta- zione di uno spirito debole
ed inadatto alla specula- zlone, come
potrebbe pensare un osservatore super-
ficiale; ma sono talvolta lespressione di tendenze legittime ed insoddisfatte (3). (1) Cfr. BERGSON : Life and Consciousness in The
Hibdert Journal, num. cit., pag. 24-25;
1d.: Ame et corps, in Foi et Vie, num.
cit. (2) In questo sono concordi tutti ¡ neoscolastici,
dal Farges al Mercier, dal Tredici al
Baeumker. (3) Sottoscrivo quindi, pur
dissentendo «dal loro sistema filo-
sofico, al giudizio di alcuni critici italiani. Note critiche 187 Il che equivale a dire che, per
giudicare Bergson, non bisogna fermarsi
alle particolaritá dei suoi scritti, non
bisogna considerare atomicamente le varie teorie, per accontentarsi di una facile critica,
puramente e semplicemente distruttrice.
Si deve invece studiare questa filosofia
nello spirito che la vivifica e la sug-
gerisce, per colpire in ogni sua parte il tutto, con una crítica positiva e costruttiva (1). Con tale programma, che non so se sara da
me felicemente svolto ed attuato, ma che
certo fu since- ramente voluto, mi
accingo ad esaminare il metodo e le
dottrine di Enrico Bergson. (1) Cfr.
KRONER nel Logos art. cit., pag. 139. Chi
volesse avere un saggio di critica, tutto opposto al mio, pud leggere il recente volume di DAVID BALSILLIE
: An examination of Professor Bergsons
Philosophy, London, Williams and Nor-
gate, 1912. ta e MS
A An y (Jal y no 1 '
as A AN ras A ME A
r $ Bergson e un filosofo del
divenire. La realtá per lui é un
movimento senza mobile, € un flusso con-
tinuo, e durata. Nell”esposizione delle teorie bergsoniane, non si 8 fatto altro che ripetere con una
insi- stenza significativa questo
pensiero, che venne giusta- mente
indicato come l'espressione sintetica di tutta
la filosofia nuova (1). Da
questa concezione fondamentale, Bergson ha
dedotto il suo metodo: se tutto diviene, la realta — che in due momenti, anche consecutivi, cangia
quali- tativamente — non potrá essere
espressa con parole comuni, le quali
nella monotonia della loro ripetizione
suppongono l'identitá costante di una parte almeno del reale, e nemmeno pud essere afferrata
dall'intel- ligenza con concetti
immobili, rigidi e sempre eguali.
Linguaggio e concetti sono utili per i bisogni imme- diati della vita, per la necessita della
pratica, ma sono impotenti a darci la
veritá, che solo pud essere rag- giunta
coll'intuizione. lo prescindo ora dalla
premessa bergsoniana, poiché é nella
seconda parte di questo studio che cercherd
di confutare la teoria del divenire universale; e mi limito a considerare il metodo in sé, vale a
dire l'odio Cfr. LE ROY: Une philosophie nouvelle Note critiche del Bergson
contro la lingua e contro l'intelligenza
ed il suo ideale di una filosofia intuitiva. Mi sembra che questo metodo sia in sé stesso
contraddittorio. E La lingua, secondo il
Bergson, e la causa di tutti gli errori,
1”origine di tutti gli inganni. Egli lancia le
sue imprecazioni contro'« la parola brutale », Che de- forma la realtá, che ce ne dá solo un'ombra
pallida e fallace, che non riesce a
riprodurre fedelmente le idee veramente
nostre, la vita intima della coscienza e
dell'io profondo, l”evoluzione creatrice dello slancio vitale (1).
Eppure Bergson stesso ha dovuto constatare un fatto. Nell'introduzione del suo Essai sur
les données immédiates de la coscience,
egli scrive: « Noi ci esprimiamo
necessariamente con parole » (2). Ed e
verissimo: infatti anche i libri di Bergson si compon- gono di parole; il metodo dell'intuizione
viene di- feso con le parole; con parole
sono esposte tutte le sue teorie;
perfino la critica spietata contro il linguaggio e fatta col linguaggio. Non é forse chiaro che se la teoria
bergsoniana del linguaggio fosse vera,
se la parola non potesse davvero esprimere la realtá senza deformarla, anche
tutta la filosofia di Bergson sarebbe
falsa? La parola tra- disce la realtá:
ora Bergson ha continuato a parlare;
dunque ha continuato a tradire la realtá. Anzi bisognerebbe aggiungere che la critica
stessa del linguaggio € completamente
vana, poiché anche essa é enunciata con
parole, In breve: combattere il valore
del linguaggio e ser- Cfr. Essat, Cap. Il passim. (2) Z61d., pag. VII. Il metodo 11 ' virsi della
lingua come se avesse valore, é una con-
traddizione. Se il reale € inesprimibile, rassegniamoci al silenzio. Per essere coerente, Bergson
doveva ne- gare alla filosofia il
diritto di esistere, anzi non do- veva
nemmeno dire questo: la logica gli imponeva
un assoluto silenzio (1). Uno
dei piú profondi discepoli di Bergson, J. Segond ha tentato di ribattere questa accusa ed ha
osservato che la denuncia del verbalismo
non é una condanna del pensiero verbale,
poiché quest'ultimo nella sua
ispirazione spirituale € orientato intuitivamente (2). Ed il Le Roy ha soggiunto che, benché «
lintuizione dell'immediato, a parlare
rigorosamente, sia inespri- mibile »,
pure «la si pud suggerire ed evocare con
metafore e con immagini » (3). lo non negheró che specialmente l'osservazione del Segond, come
meglio apparirá in seguito, contiene
un'anima di veritá; ma perché queste
difese possano divenire valide, e indi-
spensabile confessare con schiettezza che Bergson ha per lo meno... esagerato. Secondo la sua teoria,
il Quanto a questa critica della teoria bergsoniana del lin- guaggio, si vegga: PREZZOLINI, Op. cit., cap.
111, pag. 285-2945 LECLÉRE: Pragmatisme,
Modernisme, Protestantisme, Paris,
Bloud, pag. 8 e 16; CALO: 11 problema della Isbertá nel pen- siero contemporaneo, Milano, Sandron, pag.
71, nota; KEY- SERLING: Das Wesen der
Intuition und ihre Rolle in der Phi-
losophie in Logos, 1912, Band lII, Heft 1, S. 72-73; e fu svolta anche da molti neoscolastici, come ad es. dal
PIAT : Insuffisance des philosophies de
Pintuition, Paris, pag. 275. Solo perd il
PREZZOLINI non si limitó ad una critica negativa. Riguardo poi alle riserve di ADOLFO LEVI, L'indeterminismo
nella filosofia contemporanea, Firenze,
Seeber, pag. 265 e seg. ed alla sua di-
stinzione tra il valore psicologico ed il valore log.co della pa- rola, credo non abbiano piú nessuna ragione
di essere dopo P Evolution Créatrice SEGOND:
Z*intuition bergsonienne, Paris, Alcan ROY : opera cit., pag. 49-50. 192 Note critiche pensiero verbale, appunto perché verbale, non
pud darci una visione fedele della
durata; ogni parola, anche se é
Evolutionisme de M. Bergson in Revue de
Philosophte CRESPI: Lo spirito nella filosofia di Bergson. M. La
me- tafisica bergsontanain La Cultura
contemporanea 11 metodo razione, ed invece ci ha dato un'altra metafísica, ricca di contraddizioni numerose, che non si
risolvono tuffandosi nel flutto del
reale, ma solo possono essere dissipate
da una filosofía, che, pur riconoscendo la
intuizione, non disprezza la ragione ed il concetto. IV. Quali
sono questi concetti, che la filosofia deve
adoperare? Le obiezioni di Bergson non distruggono forse il loro valore ? Due sono le correnti, che in questi ultimi
anni si sono delineate tra i
neoscolastici italiani a proposito di
questa questione. Gli scolastici puri stanno fermi all*antico
astrattismo aristotelico ed aderiscono
perció a quanto in prege- voli lavori
hanno detto il De Tonquédec, il Farges,
il Piat, il Tredici e mille altri (1). Essi, dinanzi al bergsonismo, ragionano cos]: «E facile mettere di fronte, da una parte la
ric- chezza e la complessitá del reale
quale € dato dall*intui- zione, con
tutto quel cumulo di note che rendono
ciascuno differente da ogni altro reale e soggetto alle piú svariate vicissitudini e mutazioni,
— e dal- altra la povertá, la
semplicitáa del concetto astratto, che
non rappresenta una cosa piuttosto che un'altra, che resta immutabilmente lo stesso nonostante
il cam- biamento delle cose esistenti,
—e poi gridare alla loro TONQUÉDEC: La notion de la vérité dans la Philos.
nou- velle, dapprima apparso in Études,
come dissi e poi pubblicata dal
Beauchesne, Parigi, pag. 48-52; PIAT, Op. cit., passim. ; FARGES, op. cit., cap. Vl e VII; MARITAIN,
art. cif., passim. ; GRIVET: Henri
Bergson: esquisse philosophique in Études,
5 ottobre e 20 novembre 1909 e sopratutto 20 luglio 19ro, etc. 204 Note critiche completa eterogeneitá, e
chiamare il concetto una deformazione della realtá... Ma la cosa merita di
essere esaminata un po” piú
profondamente. »; ammette « la libera
scelta » dello slancio incosciente; e
siccome la radice dell'atto li- bero é
nella durata, richiede come conditio sine qua
mon della libertá che vibri la nostra personalitá tutta intera ; distingue perció 1l'io superficiale
dall'io pro- fondo ed enuncia la strana
teoria ripugnante alla te- stimonianza
della nostra coscienza che gli atti li-
beri sono rari e che molti muoiono senza aver cono- sciuto la vera libertá. Invece € chiaro che
quando, conscio di quello che faccio,
scrivo queste righe, mi sento libero,
anche senza far vibrare tutta la lira dei
sentimenti e delle potenze del mio animo (1); é su- perfluo bruciare la casa per far cuocere due
uova. Vi- ceversa, il desiderio della
felicita, profondamente in- sito in
ciascuno di noi ed in ciascuna delle nostre
azioni, é necessitato. Bergson
afferma che é impossibile definire l”atto li-
bero, perché l'eterogeneita sempre cangiante della du- rata non puó essere rinchiusa in una forma
morta. Poniamoci dal punto di vista
bergsoniano; concediamo per ora, senza
discutere, che il flusso della nostra du-
rata interiore sia una continuitá perfetta; che sul teatro della nostra coscienza sia assurdo che
si ripro- ducano due volte le stesse
cause; ammettiamo che per un essere
finito l'atto libero futuro sia impreve-
dibile. Anche allora, quando dopo d'esser passato FARGES, op. cit., c.
II, passim. A EP VIA per una serie di mutazioni, Pio compie Patto libero, sente che se elegge quest'azione, potrebbe
perú anche non eleggerla o eleggerne
un'altra. Bergson stesso lo riconosce;
poiché e costretto a scrivere: «anche
quando si abbozza (on esquisse) lo sforzo necessario per compiere un'azione, si sente bene che si
é ancora in tempo di arrestarsi. In
questo fatto sta 1'es- senza della
libertá. Bergson critica tre definizioni della
libertáa: «Patto libero € quello che una volta compiuto, poteva anche non esserlo; é quello che non si
po- trebbe prevedere, anche se
antecedentemente si cono- scessero tutte
le condizioni; quello che non é necessa-
riamente determinato dalla sua causa». Ma egli ha dimenticato proprio la definizione esatta :
«| P'atto li- bero é quello che, mentre
lo si compie, potrebbe anche non essere
compiuto ». Questa definizione non
confonde il tempo con lo spazio, ma si
pone nella pura durata ed esprime esat-
tamente un fatto della nostra coscienza; non vale solo per l'azione compiuta, ma anche e
sopratutto per l'azione che si compie;
non incorre nella tautologia che «il
fatto, una volta avvenuto, é avvenuto ;
mentre, prima di avvenire, non era avvenuto »; non cade nelle braccia del determinismo, ma
infigge un pugnale nel cuore di questo
avversario. Essa — cosa importante da
osservare — non fa nem- meno dell”atto
libero un'abitraria creazione ex nihilo,
poichée e la ragione che deve dirigere la volonta. Quando la volontá vuole un bene che in quelle
cit- costanze € ragionevole, non pone un
atto arbitrario, bensi un atto libero:
non e Poggetto esterno che de- termina
la volontá, ma e la volonta, che determina sé
stessa e potrebbe anche (irragionevolmente si, e qui (1) Essaz, pag. 161. 284 Note critiche sta appunto la colpa o l'imperfezione e la
responsa- bilita personale) non
determinarsi. Avere il dominio dei
proprii atti, non significa che questo dominio debba venire esercitato arbitrariamente, come
credono certi illustri positivisti. Non
mi dilungo su questa questione della liberta,
perché nel presente studio critico io non mi propongo di esporre tutte le tesi scolastiche
riguardanti i diversi problemi. Il mio
scopo € piú modesto: io vorrei sol-
tanto che ¡ lettori si persuadessero che non é poi per stupido cretinismo o per un decreto di
autoritá che i neoscolastici- moderni
alla voce che oggi risuona nel College
de France preferiscono un”altra parola, la cui
eco dorme da settecento anni tra le pietre della vecchia Sorbona e che veniva pronunciata
senza scintilllo di metafore, ma con
semplicita profonda da un grande
filosofo. Quel filosofo, che gli studiosi
d’allora, accorsi da tutte le contrade d”Europa, ascol- tavano con Paviditá che oggi tiene sospesa la
gio- ventú francese alle labbra di
Enrico Bergson, si chia- mava San
Tommaso d'Aquino. Coloro che lo igno-
rano, lo possono disprezzare ; coloro che lo meditano, lo debbono ammirare. MATTIUSSI, opera cit.,
capo Ill. (2) GRIVET: 4H. Bergson,
esquisse philosophique in Études La dottrina L'anima. Un nouveau spiritualisme
» : ecco come vennero denominate dal
Belot le teorie bergsoniane intorno
all'anima umana ed ai rapporti dello spirito col corpo (1). E parrebbe infatti che nessuna
parola fosse meglio indicata, per
designare questa filosofia che combatte
il materialismo, che riconosce una dif-
ferenza di natura (e non di grado soltanto) tra 1'ani- male e l?uomo, che sente cosi prepotente il
bisogno dell'immortalitá personale. Ma anche qui é necessario procedere
cautamente; poiché, come nel problema
della liberta Bergson non sapeva
conciliare la libertá dell'io con la necessita
del tutto, cosi in questa questione non sa conci- liare l'unitá dello slancio e
lPindividualitáa dei singoli. Egli si
trova molto impacciato. Ci ha sempre detto
che la corrente vitale ha tutti ¡ caratteri della nostra coscienza per ció che riguarda la durata: lo
slancio unico é un tutto indiviso, in
cui non vi sono elementi o stati
separati, come i quadratelli d'un mosaico od i
gradini di una scalinata; le molteplici virtualitá si prolungano e si continuano le une nelle altre
insen- sibilmente, come la dolcezza d'un
pendio. Ma e gli individui? Dobbiamo
negarne l”esistenza ? No, risponde
Bergson: la corrente una, indivisa, indivisibile, si rami- fica nelll'oscuritá della materia in tante
gallerie sot- terranee ; é un obice che
esplode in tanti frammenti, destinati
alla loro volta ad esplodere ancora. Ció che
era uno, semplice, indiviso, indivisibile, si divide, si (1) GUSTAVE BELOT osservava peró che questo
spiritualismo rischia di fare gli affari
del materialismo. Cfr. Revue philoso-
phique, 1897, 1” Semestre, p. 199.
256 Note critiche A A A A suddivide, separa le sue tendenze, crea i
regni, le specie, i viventi tutti!
! Bergson capisce di essersi messo su
di una brutta china ; e, pentito di aver
spezzettato l?unita del tutto, cerca di
ridurre ai minimi termini la individualitá dei
singoli: un colpo al cerchio ed uno alla botte. « Gli organismi — egli avverte — piú che individui,
hanno la tendenza all'individualitá »
(1) ; « l'individuo é un semplice luogo
di passaggio, dove la vita prende il suo
slancio per ascendere piú in alto » (2); non c'é « une individualité tranchée » nella natura, tanto
€ vero che quello che voi chiamate
individuo, dipende dai suoi parenti, dai
suoi antenati, da tutta la corrente vitale (3).
Insomma, gli esseri viventi non si individualizzano, se non in una certa misura «dans une certaine
me- sure » (4). In tal modo il povero
Bergson € sbattuto da Scilla in
Cariddi. E la burrasca e la confusione
aumentano : malcon- tento di aver troppo
depressa l'individualita, egli * Come
si spiegano tutti questi fatti o datici imme-
diatamente dalla coscienza o constatati dall'esperienza ? Come si spiega che il mio spirito,
sostanzialmente identico nelle sue
mutazioni qualitative, non é il tuo,
(1) Si veggano a questo proposito le opere del Wasmann, del Gutberlet, Gemelli, del Salis-Seevis, del
Farges, del Mercier etc. La
dottrina 267 che tra il mio spirito
ed il principio vitale d'un bruto c'é
una differenza assoluta di natura ? La
teoria delllunico slancio non sa che pesci pi-
gliare. Lo slancio bergsoniano € obbligato a scindersi, e ció € assurdo, perché ció che é
indivisibile, non pud dividersi. Lo
slancio bergsoniano importa la ne-
gazione dell'individualitá perfetta e calpesta l”attesta- zione chiara della coscienza. Lo slancio
bergsoniano, tende a porre una differenza
solo di grado tra il bruto e l'uomo,
contro ció che lo stesso Bergson é obbligato
ad ammettere. Quei fatti sono invece meravigliosa- mente spiegati dalla filosofia
cristiana. Quando un uomo ed una donna
— che non sa- rebbero tali, se tale non
fosse stata la realtá in cui sono stati
prodotti ed in cui sono cresciuti — gene-
rano un. nuovo essere, il principio vitale di quest'ul- timo e, secondo Bergson, la stessa anima dei
genitori e dei loro antenati, e
l'identico slancio (naturalmente
modificato nel corso del suo sviluppo) che si scinde ancora una volta. L'impossibilitáa di questa
scissione appare subito a chi riflette
che ció che é semplice € spirituale non
pud scindersi. Bisognerebbe dunque dire
che i genitori creano quest'anima, ma Bergson
non ricorre a questa scappatoia ; la vita creativa im- porta una potenza infinita. Resta dunque che
questa anima, venga creata. 1 genitori
pongono, causano il corpo, ma lo spirito
e creato da Dio e col corpo forma un
unico essere. Con cid si chiarisce,
perché io sono questo indi- viduo e non
un altro; perche io, pur derivando dai
miei genitori, non mi posso confondere con loro; perché, nonostante le mutazioni successive
continue, ¡o rimanga sostanzialmente
identico : perché tra 1'ani- male e
Puomo ci sia una differenza di natura, essendo
solo l'anima delluomo che e spirituale e solo questa richiedendo un intervento creativo
diretto. $ 268 Note critiche *
** Ma allora, domanderá
Bergson, non é forse Aena Porganicitá
dell'universo ? No, perché la filosofia
cristiana ha sempre difeso Paltra grandiosa
concezione aristotelica, che Bergson non
mostra di conoscere, dell'unione sostanziale del- l'anima col corpo. In questo problema Bergson si é accontentato
di parole e di frasi. La sua teoria, che
fa unire la ma- teria e lo spirito in
ragione del tempo e non in ra- gione
dello spazio, non rischiara il mistero. Intanto, se essa fosse vera, non sarebbe possibile la
percezione. L”essenza della percezione
consiste in ció, che il corpo avverte
l'azione esterna che si esercita su di esso;
in altre parole, la percezione € d'ordine psicologico. Non basta che il cervello sia un bureaw
telefonico centrale, munito
abbondantemente di apparecchi; perché
sorga la percezione, € indispensabile che a
questi apparecchi vi sia qualcuno, che riceva e spe- disca la comunicazione. Orbene, chi mai nella
teoria bergsoniana percepisce il
movimento ? Nessuno : non lo spirito,
poiché la materia agisce solo sulla materia
e lo spirito é incapace di essere avvertito della pre- senza di un oggetto per mezzo di un eccitante
mate- riale; anche se l”oggetto
materiale é un'immagine, siccome € fuori
dello spirito, non rimane in comuni-
cazione con esso. E tanto meno il corpo: il' corpo riceve il movimento e lo restituisce per
un'attivitá tutta meccanica, che non é
menomamente di ordine psicologico. Se
dunque la teoria bergsoniana fosse vera,
non solo non si comprenderebbe il sorgere della
percezione cosciente, ma non percepiremmo nulla. GRIVET, art. cit.,
Études, 20 Nov. 1909, pag. 461 e seg.
La dottrina 269 E poi, Bergson
chiarisce forse il fatto che la libertá
si introduce nella necessitá e che lo spirito non resta legato dalle ferree catene del determinismo ?
Ci spiega forse come mai lo spirito
inesteso possa avere delle sensazioni
estese e percepire la materia indivisa? Ci
dice il modo con cui lo spirito si unisce al corpo, cosi da poter legare i momenti successivi della
durata delle cose e da ottenere il
sentimento della tensione ? Ep- pure era
in questa notte che si doveva far luce ed in
cui il dualismo aristotelico ha, secondo me, proiettato un fascio luminoso. Bergson conosce solo un dualismo volgare,
che non sa trovare un punto di contatto
tra due entitá cosl diverse, come
l'anima e il corpo, e che ricorre all*ar-
monia prestabilita o ad un accordo fortuito (1). Egli ha ragione di deridere un simile dualismo, ma
ha torto di non voler prendere in
considerazione il pen- siero di
Aristotile. Questi, dopo aver dimostrato
che due elementi si debbono distinguere
nellluomo, procedeva cosl. Co- minciava
a constatare un fatto sicuro; il fatto cioé
dell'unitá dell'essere umano. É lo stesso uomo che vegeta, che sente, che si muove, che intende,
che vuole. E concludeva che l'anima ed
il corpo non sono uniti tra loro come un
pilota ad una nave, ma che la loro
unione é sostanziale, produce cioé e costituisce una sola natura specifica, una sola sussistenza
completa ; lo spirito forma con la
materia un solo e medesimo essere, una
sola natura umana, una sola persona. E
come avviene questo? Il principio dell'unita non € certo la materia divisibile, ma 2 l'anima. É
lo spirito che perfeziona la materia,
che le comunica l'essere, il moto, la
vita, e le conferisce la sua specificitá : essa
informa il corpo, € forma del corpo. Forma sostanziale Matiére et Mém. Note
critiche ed anche unica, in quanto contiene nella sua potenza eminente tutte le potenze delle forme
imperfette : se il principio vitale in
noi non fosse unico, sarebbe an.
nientata lP'unitáa dell'essere umano.
Ed allora tutto si spiega : si comprende il sorgere della percezione sensibile, poiché la materia
animata pud essere alterata da una
attivita materiale; le sue sensazioni
saranno dotate di vera unitá, perché uno
e semplice é il principio vitale che informa il soggetto senziente, e nello stesso tempo saranno
estese a ca- gione del principio esteso,
della materia. Si spiega la materialitá
dell'immagine-ricordo ed anche come ogni
funzione psichica debba avere in noi un riflesso fisio- logico.
Ho detto che € anima che informa gli elementi: ad essa bisogna guardare, per giudicare un
organi- smo, come per comprendere il
significato di una pa- rola bisogna
mirare al pensiero che la vivifica. Che
importa quindi se c'é una somiglianza maggiore o mi- nore di struttura tra l'animale e l'uomo? Per
capire un pensiero non si guarda alla
somiglianza materiale delle lettere, ma
al suo significato; per giudicare un
vivente si deve guardare alla natura della sua anima. Ho accennato brevemente a questa dottrina
aristote- lica, per venire alla
conclusione che con la creazione degli
spiriti singoli non si distrugge 1l”organicitá del tutto. Poiché, siccome l'anima forma con la
materia un intrinseco costitutivo' del
vivente, essa .risentira l'influsso del
corpo. E questo corpo é quale 1'han for-
mato ¡ genitori, quale l’han preparato gli antenati, e condizionato
insomma da tutta la storia e da tutta la
natura : se i genitori furono viziosi, il figlio porterá le stigmate del vizio e cosl via. Come si vede, questa concezione della
filosofia cri- stiana € consona coi
fatti, e basata sui fatti ed ac- cetta
quello che c'é di vero in Bergson. La
dottrina 271 Accetta cioé — posto
l'identitá sostanziale dell'io tutte le
analisi bergsoniane della nostra vita psichica, la continuitá dei nostri stati
interni, lo scorrimento ininterrotto del nostro io, che si svolge, ma- tura e cresce in un ritmo irreversibile, dove
il passato si conserva e si prolunga in
un presente sempre nuovo. Puód
accogliere la sua denuncia della confusione tra il tempo astratto della scienza e la durata
concreta, le sue splendide confutazioni
delle concezioni atomistiche, spaziali
ed associazionistiche dello spirito; pud applaudire anche alla sua lotta tenace
contro la psico- fisica ed il
parallelismo psicofisiologico. Sopratutto solo la filosofia cristiana pud
difendere efficacemente l'immortalitá
personale. Bergson ha fondato la sua
presunzione di quest'im- mortalitá nel
fatto che il parallelismo € falso e che la
vita mentale trascende (deborde) la vita cerebrale, li- mitandosi il cervello a tradurre in movimento
una pic- cola parte di ció che avviene
nella coscienza. L'indi- pendenza di
questa riguardo al corpo dá un grande grado
di probabilitá alla tesi della sopravivenza. Confesso candidamente di
non esser mai riuscito a capire
Pentusiasmo di alcuni neoscolastici per la psicofisica e per la psicofisiologia. L”unione sostanziale
dell.anima col corpo importa soltanto
che ogni stato psicologico abbia una ripercussione sullo stato fisiologico, ma non esige che tra l'uno
e lPaltro vi sia un perfetto
parallelismo, né permette di formare delle generalizza- zioni scientifiche, le quali, in questo caso,
quando hanno la pre- tesa di essere
vere, sono la negazione della storicitá della co- scienza. Perció pur rispettando la
psicofisica e la psicofisiologia, come
rispetto l'astronomia e le altre scienze, non comprendo come si voglia fare di esse una parte della
filosofia. Lo stesso si potrebbe
ripetere del nuoyo metodo introspettivo. Anche in questa questione mi sembra
che la Sco- lastica era ben piú
profonda. L”anima spirituale, che ha
delle operazioni indipendenti dalla materia, non dipende da questa nemmeno nell'essere ;
dissolvendosi dunque l”organismo, non
cessa di esistere. Ecco una prova che
non ci dá solo uua probabilitá, ma una
certezza e che prescinde affatto dall'ipotesi paralleli- stica. Supposto anche che ad ogni nostro atto
psichico corrispondesse un determinato
movimento cerebrale, ció non
significherebbe che l'atto psichico non sia
spirituale e che perció lo spirito dipenda dalla ma- teria nei suoi pensieri. Anche allora sarebbe
ragione- vole concludere che l*anima,
sciolta dal corpo, nasce ad un'alba che
non tramonta mai; sarebbe logico far
risuonare il grido delle eterne speranze in mezzo ai due grandi silenzi, ammirati da Carlyle e tra
¡ quali viviamo : il silenzio delle
tombe ed il silenzio degli astri. La
dottrina La vita. L'£volution créatrice € ritenuta da molti
come la parte piú poetica e meno
filosofica dell?opera bergso- niana.
Alcuni anzi non la stimano del tutto degna
dell'autore dell” Essai sur les données immédiates. A me invece sembra che tra l'uno e laltro
volume esista un nesso strettissimo e
che 1”Evoluzione crea- trice non sia che
la teoria intorno alla durata della
coscienza, applicata logicamente ad una piú grande Coscienza, alla Supercoscienza. Partendo da questa mia interpretazione, che
giudico esatta e che, spero, sará
limpidamente risultata dalla esposizione
che ho dato della filosofia di Bergson, co-
minceró ad indicare il progresso che la nuova conce- zione biologica rappresenta di fronte al
meccanicismo, per poi enumerare le
asserzioni che mi paiono fanta- stiche
od infondate. La biologia di ¡eri voleva spiegare i fenomeni vitali col giuoco delle sole forze fisico-chimiche
ed accarez- zava la speranza di poter
costruire artificialmente la vita.
Basterá ricordare in proposito tutti ¡ tentativi fatti per provare la generazione spontanea,
dal Ba- thybius Haeckelii alla glia di
Maggi, dalla glairina di Béchamp, ai
ritrovati di Burke e di Bastian. Basterá
accennare alle piante artificiali di Herrera e di Leduc, ai cristalli viventi di von Schrón, alle
teorie basate sulle proprietá della
materia allo stato colloidale o sui processi catalitici da questi provocati,
alle ipotesi dei tropismi, degli ¡oni,
dell'osmosi, alle deduzioni tratte dalle
esperienze del Carrel, a tutte insomma le dot-
trine antivitalistiche, che sorsero, brillarono e scom- parvero. Era tale l'atteggiamento mentale che
ormai va lentamente scomparendo della
generazione trascorsa, che ognuna di
queste ipotesi attirava subito l”atten-
zione vivissima di tutti; ognuna di esse, anche se strana, suscitava l'interesse animato di una
tragedia grandiosa, nella quale la forza
possente della scienza infliggeva la
morte ad un passato tenebroso di bar=
barie. E nessuno si scoraggiava, anche quando la se- veritá della supposta tragedia terminava
miseramente come il famigerato Bathybius Haeckelii e la legge biogenetica fondamentale nelle allegre
amenita di una farsa. Prossimo parente della concezione meccanica
della vita era ritenuto l'evoluzionismo,
che — come bene osserva Bergson — in sé
non dice affatto meccani- cismo. Si pud
anzi aggiungere che la ragione principale
del trionto delle idee trasformiste € da ricercarsi nel- l'illusioné degli scienziati, i quali nelle
teorie dell'evo- luzione videro una
dimostrazione della loro concezione. Se
dalla materia é sorta la vita, se l'uomo deriva dal- Vanimale, non c'é tra l'inorganico e
organico, tra Puomo e il bruto che una
differenza di grado, non di natura. 1
fenomeni vitali non sono piú un enigma;
Pistinto e l'intelligenza differiscono tra loro quantita- La magnifica
opera di GEMELLI: ZL'enigma della vita
ed inuovi orizzonti della biología, Ediz. 2*, Firenze, come pure le altre
numerose pubblicazioni dell'egregio
biologo. GEMELLI-BRASS : Le falsificazioni di Haeckel, 3% Edi Firenze. A A
AS La dottrina 275 AS A A SE e El
Ia OI A tivamente; ció che proviene da un altro € uguale qualitativamente ad esso. Ecco la mentalita
di ¡eri. Se la generazione passata
avesse sospettato che l'e- voluzionismo
nulla diceva in favore dell'idea meccanicistica, il novantacinque per cento dei
cultori delle scienze positive gli
avrebbe fatto una accoglienza non troppo
festosa., Dinanzi a questo indirizzo,
che con nomi reboanti e con parole
sonore nascondeva un semplicismo an-
tifilosofico spaventoso, Bergson ha la gloria di aver reagito. I suoi critici anche piú spietati hanno confessato che le splendide confutazioni del
meccani- cismo sono la parte piú bella e
piú duratura della sua opera. E per la
storia si deve aggiungere che questo €
il motivo per il quale furono rivolte a Berg-
son molte ingiurie, che gli fanno onore (1), e che pro- vano tutt'al piú il basso livello
intellettuale, di chi le ha usate.Bergson
ha compreso innanzi tutto la storicitá della
vita e con la sua teoria della vita-durata ha superato il meccanicismo. Spieghiamoci. Un esploratore ardito, viaggiando in regioni
lontane, scopre una tribú, che parla una
lingua affatto scono- sciuta. Procura di
farsi intendere con segni e con gesti,
ma non vi riesce. Trova invece un numero con-
siderevole di iscrizioni nei cimiteri, nei templi, nelle piazze di quella tribú. Quelle iscrizioni
sono per lui oscure come un enigma; ma
egli, pieno di speranza, le esamina
pazientemente, distingue le varie lettere, Cfr. nella prefazione gli insulti di
Le Dantec, di Elliot, di Lankester
etc. 276 Note critiche giunge a scoprire lalfabeto di quella lingua
e crede con gran probabilita di
conoscere l'alfabeto completo. Ha forse interpretato con questo anche una sola
iscri- zione? No: chi sapesse solo che
in esse vi sono tanti a, tanti b, tanti
c, ne saprebbe ancora press'a poco come
prima. Chi dei Promessi Sposi conoscesse
soltanto quante migliaia di lettere di un genere, quante migliaia di vocali, quante migliaia di
consonanti vi sono, non avrebbe ancora
capito niente del romanzo dello
scrittore lombardo. Chi pretendesse di spie-
gare il significato della parola « Dio », dicendo che Dio significa D + 1 + O, toccherebbe il colmo
del ridicolo. La vera spiegazione ben
lungi dal rinchiu- dersi
nell'enumerazione e nella disposizione delle let- tere, va dal pensiero alle lettere; quello
spiega queste e non viceversa. E se
l'esploratore, per confermare la sua
stranissima tesi, si balloccasse a mettere in-
sieme lettere con lettere, formando cervellotticamente dei pseudovocaboli, noi gli risponderemmo che
le sue sono parole morte, dove non
brilla il raggio del pensiero. Chi
volesse proprio comprendere una iscrizione di
quella tribú, non solo deve cercare il significato delle parole e delle frasi, ma dovrebbe anche
ricordarsi che queste sono nate in una
determinata situazione di fatto e che
perció i vocaboli di quella iscrizione hanno
il senso che loro ha conferito colui che Il'ha com- posta. Noi tanto meglio la interpreteremo,
quanto piú non ci fermeremo alle lettere
dell'alfabeto, ma sco- priremo il valore
delle espressioni, il tempo in cui fu
scritta, l*uomo che la dettó, l'occasione che la sug- gen, la cultura e il carattere di quell'epoca
e via dicendo. Non basta limitarsi alla
materialitá delle parole e delle frasi.
La stessa frase sulle labbra di una persona pud avere un significato ben
diverso di quello che ad essa
attribuisce un'altra persona di un'altra epoca,
od anche della stessa epoca. Il vero é€ il fatto, ha detto Vico e lo dice oggi Benedetto Croce e
lo ripete anche Roberto Ardigd :
l'espressione e materialmente identica;
il pensiero inteso dai tre filosofi € sostan-
zialmente diverso. Per portare un*altro esempio: quando un negoziante di acquavite parla di « spirito
», non intende certo indicare lo «
spirito » dell'idealista, come
quest*ultimo a sua volta non intende alludere allo « spirito » del monadista, né allo « spirito
» dello spi- ritista. Non si puó quindi dimenticare la storicita
dell'iscri- zione, storicitáa che fa si
che il significato di essa sia unico.
Scritta in un'altro tempo, in altre circostanze, con le stesse lettere, con le stesse parole,
con le stesse frasi, avrebbe espresso un
pensiero differente, corrispondente agli
avvenimenti di quel tempo. E lo stesso
si ripeta, se fosse stata composta da un altro
individuo o dalla stessa persona in un momento di- verso della sua vita. Una differenza
qualitativa ci sarebbe sicuramente, se,
ben inteso, si considera la iscrizione
nella sua realtá concreta. Finalmente il
pensiero dell'iscrizione € uno, pur nella molteplicita delle idee espresse; si trova in essa
quell'unitá di ispirazione, che si
osserva in una strofa, in un inno, in un
quadro. Ecco perché non si pud spiegare
l'iscrizione con le lettere di cui
consta, L’iscrizione ha una storia, é
storia; le lettere non ne hanno. L'iscrizione é unica ; le lettere son sempre quelle. L'iscrizione €
una; le lettere sono molte. Con queste riflessioni — che sembreranno
infantil- mente elementari e che pure
furono calpestate dal meccanicismo — si
rimprovera forse all*esploratore di aver
fatto una cosa ¿imutile ? Ma nemmeno per sogno. Egli ha compiuto un lavoro
utilissimo, una prepa- razione
necessaria. Ed anche nel caso che per una
felice combinazione fosse arrivato a decifrare il senso di quelle iscrizioni, Pesploratore, per
utilizzare il suo studio, metterá per un
momento da parte la loro sto- ricitá, la
loro unicitá, la loro unitá, in una parola la
loro finalitá. Le scomporrá invece in tanti vocaboli, ne catalogherá il maggior numero possibile,
formerá un vocabolario e dará cosi un
mezzo utile e indispen- sabile a coloro
che vorranno comunicare con gli abi-
tanti di quel popolo o che vorranno studiarne la let- teratura, la storia, la civiltá. E tutti
applaudiranno alle sue fatiche pazienti,
al suo sforzo, al suo successo. olo allora gli applausi si muteranno ed a ragione
— in fischi sonori, quando egli fosse cos pazzo
da pretendere che le parole si debbono spiegare con le lettere, che ad es. la parola Re s’interpreta, non giá alludendo ad una autoritá sovrana, ma
con R + e; oppure quando, dopo aver
finito il vocabolario ed elencato
tutti i vocaboli, credesse di aver riassunto
tutta una cultura ed una civiltá. A chi ci offrisse un dizionario completo della Divina Commedia e
s'illu- desse che tutta ll fosse la
poesia di Dante, noi di- remmo: scusa,
questi sono i detriti di quell*opera
immortale, non il poema; sono la morte e non la vita. Quando — per riassumere — si confonde un
proce- dimento pratico, utile, se si
vuole, e necessario, Op- pure un minimum
di veritá, quale ci é dato dall'a-
strazione, con la veritá in tutta la sua concretezza, allora noi protestiamo. Ebbene, dice press'a
poco Bergson: applicate questo al
problema della vita. Le iscrizioni
oscure sono gli organismi viventi; eli
esploratori sono gli scienziati che vogliono risolvere e spiegare l'enigma della vita. Siccome non ne
comprendono nulla, cominciano ad esaminare le lettere che compongono le parole, vale a dire gli
elementi fisico- chimici, le molecole,
gli atomi che compongono il vivente. E
si pud dire che raggiungono con probabilita
un alfabeto completo. Fin qui
tutto va nel migliore dei mondi possibili:;
il loro lavoro, le loro scoperte sono utilissime sotto mille rispetti. 11 male é che alcuni
scienziati si accon- tentano di
ricercare le lettere dell”alfabeto, gli ele-
menti fisico-chimici e credono di aver spiegato il mistero, quando hanno trovato che in un dato
orga- nismo, vi sono tante molecole di
carbonio, tante di acqua, etc., non
comprendendo che essi sono simili
all'esploratore, che si ostina a pensare d'aver inter- pretata l'iscrizione, perché sa quanti a,
quanti b etc. in essa vi sono. Ed il male si accresce, quando questi
biologi si divertono nei loro laboratori
ad accozzare lettere a lettere, elementi
ad elementi, per creare degli esseri
vitali, delle parole significative, senz'accorgersi che é per il pensiero che si hanno tali lettere,
€ per la vita che si ha un tale
organismo, e non vice- versa. Le conseguenze che ne derivano sono le
medesime: lesploratore poneva in oblio
la storicita, 1unicita, I?unita
dell'iscrizione. 1 meccanicisti non si ricordano che ogni organismo ha una storia, mentre
quest'ultima, come dice il Bergson,
sdrucciola sopra gli elementi, senza
penetrarli. L”organismo é unico e non vi sono
in nature due foglie identiche; gli elementi sono eguali. L'organismo € unita; gli elementi
sono nu- merosi. Essi.sono i
concomitanti necessari della vita, come
le lettere sono i concomitanti necessari dell'iscri" zione; ma non sono la vita, non sono il
pensiero ; gli elementi sono i detriti
dei fenomeni vitali, sono la morte e non
spiegano nulla. Note critiche Senza dubbio, é utile, é necessario studiare
gli elementi ed i loro composti, come é
utile, é necessario conoscere le lettere
d'un alfabeto ed il vocabolario di una
lingua. Ma come non €il vocabolario che spiega
la lingua, € questa che spiega quello; cosi non sono gli elementi né loro combinazioni che
risolvono l'enigma della vita, bensl €
quellattivita immanente, che ma- nifesta
sempre caratteri opposti alla materia. Ed anche ripetiamolo non si disprezza
il lavoro degli esploratori, ossia dello
scienziato; non solo la scienza, come
esperienza storica é presa di realta;
non solo, io aggiungo, alcune sue generalizzazioni astratte hanno un valore teoretico; ma essa e
feconda di risultati pratici. Per
ottenere i quali, come l'inter- prete
deve trascurare la storicitá, l'unicitá, I*unitá dell'iscrizione, cosi lo scienziato deve
trascurare gli stessi caratteri della vita.
S'intende perd: il suo € un metodo
pratico di ricerca, indispensabile per 1'utiliz- zazione della realtá ed anche per poter poi
risalire a cogliere la vita nella sua
finalitá concreta; egli com- mette un
errore grossolano, solo quando vuol erigere
una regola metodologica alla dignitáa di spiegazione teoretica e di sistema metafisico. : Questa
in breve la confutazione
bergsoniana del meccanicismo (1); che io
accetto, sottoscrivendo anche quasi
completamente — (dico: quasi, per la
teoria da me difesa intorno all'astrazione) cid che
riguarda i rapporti tra scienza e filosofia. Scienza e filosofia marciano in due
direzioni ben diverse; questa verso la
storicitá della vita e della coscienza,
quella verso l'antistoricitá degli elementi, BALSILIE nel suo libro: 4x4
examination of prof: Bergson philosophy,
London rgr2, sostiene che Bergson é un
meccanista per alcune teorie di Matiére et Mémoire, non gia per le idee dell'Évolution créatrice. La
dottrina della psicofisica, della
psicofisiologia; luna verso il movimento
composto di immobilitá e di simultaneita, l'altra verso il movimento reale; l'una verso
il tempo t della fisica, l'altra verso
la durata concreta; l'una verso il
meccanicismo, l'altra verso la finalitá; l'una
verso la morte, l'altra verso la vita; la scienza verso Putilita, la filosofia verso la veritá. Conseguentemente
al suo antimeccanicismo, Berg- son
contro gli evoluzionisti d'ieri, i quali
con una asserzione che faceva
loro poco onore vedevano nell'uomo un
bruto perfezionato e che tra l'uomo e il
bruto ponevano solo una diversitá di grado, affermó la tesi contraria, ossia una diversitá di
natura. Se ¡ suoi pregiudizi contro
l'intelligenza rendono talvolta un po”
deboli le sue prove, é un fatto peró che le
pagine dell” Évolution Créatrice, dedicate alla diver- genza tra l'istinto e l'intelligenza,
contengono molte verita. Egli anzi ha compreso che la teoria del
trasfor- mismo non é nemmeno una teoria
filosofica, e dinanzi a coloro, che
nell'ipotessi trasformista scorgevano un
compendio di tutta la filosofia, ha notato che gli im- porterebbe molto poco, anche se il
trasformismo fosse dimostrato
falso. Gli evoluzionisti non hanno mai
afferrato l'anima di veritá, che David
Hume insegnó nel suo Treatise of human
nature. L'esperienza — disse Hume ci mostra solamente come un fatto segue
l'altro, ma non ci dá l'intima necessita
del loro collegamento; ci offre cioé un
« rapporto di successione », non un
» Filosofia e realtá » Note critiche. a) Il metodo pag b) La dottrina » La libertá L'anima » La vita »
Dio Note oriaficho. Piecola
Biblioteca di Scienze Moderne Eleganti
volumi in-120 Zanotti-Bianco, In cielo. Saggi di ones Cathrein, Il Socialismo Brúcke,
Bellezza e difetti del corpo umano. Con figuro Sergi, Arii e Italici Rizzatti,
Varietá di storia naturale. Eon figure Lombroso, Il problema della felicitá Morasso,
Uomini e idee del domani Kautsky, Le dottrine economiche di C. Marx e
(sequestrato). 9. Hugues, Oceanografia Frati,
La donna italiana Zanotti-Bianco, Nel regno del sole Troilo, 1l misticismo
moderno Jerace, La ginnastica e l'arte greca. Con fifure ; ó > : » 3= 44. Revelli, Perche si nasce maschi o
femmine? Groppali, La genesi sociale del fenomeno scientifico . z > »» 2,50 16. Vecchj e D'Adda, La marina De Sanctis, l
sogni .De Lacy Evans, Come prolungare la vita Stratfforello, Dopo la morte Lassar-Cohn,
La chimica nella vita quotidiana, Con figure Mach, Letture scientifiche
popolari Antonini, 1 precursori di Lombroso. Con Sgure - á z, »» 2,50
23. Trivero, La teoria dei bisogni Vitali, Il rinascimento educativo Disa,
Le previsioni del tempo Tarozzi, La virtú contemporanea Strafforello, La
scienza ricreativa Sergi, Decadenza delle nazioni latine Wasé-Dari, M. T.
Cicerone e le sue idee cie e sociali Roberto, L”Arte ORTO Baccioni, La vigilanza igienica “degli
alimenti AO o 3 L= 32. Marchesini, 11
simbolismo — 1901 S 4 6 S > S 3,50
33. Naselli, Meteorologia nautica —
. ESA A E s» 250 34, Niceforo,
Ttaliani del nórd ed italiani del sud Zoccoli, Nietzsche Loria, Il capitalismo
e la scienza Osborn, Dai Greci a Darwin Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo
antico Rasius, Diritti e doveri della critica Sergi, La psiche nei fenomeni
della vita Henle, La vita e la coscienza. Con figure . ES E, 4 ” 3= 49. Baccioni, Nel regno del profumo. Strafforello,
Il progresso della scienza WMinutilli, La Tripolitania. Con' una carta Maeterlink,
La saggezza ed il destino Molli, Le grandi vie di comunicazione Vaccaro, La
lotta per l'esistenza Grant Allen, La vita delle piante. Con gt O A A y 49, Zini, [l pentimento e la morale ascetica Materi,
L*eloquenza forense 6 o z A b E y D= HL.
Morasso, 1” imperialismo artistico Lombroso, I segni rivelatori della
personalita Oddi, Gli alimenti e la loro funzione Rossi, 1 suggestionatori e la
folla Vaccal, Le feste di Roma antica Marchesini, 11 dominio dello po Sergi,
Gli Arii in Kuropa e in Asia Con figure Zanotti-Bianco, Istorie di mondi Harnack,
L'essenza del Cristianesimo James, Gli ideali della vita Baccioni,
Dall'alchimia alla chimica. Gon figure A
; BR Pa Fratelli Bocca, Editori – Torino
De Roberto, Renan Besant, Autobiografia Powell, Il cibo ela salute Gachetti, La
fantasia Turchi, Storia delle religioni Somigli, La pesca marittima industriale
Halewy, Vita di Nietzsche. Troilo, Il positivismo e i diritti dello spirito Michels,
I limiti della morale sessuale .Graziani, Teorie e fatti economici Cappelletti
L., La riforma Gallo, La guerra e la sua ragion sessuale Ramaciaraca, La
respirazione e la salute Carus, Il Buddismo e i suoi critici cristiani Sergi,
Le origini umane Rau, La crudeltáa Aitken, Le vie dell'anima Canestrini, Nel
mondo dei parassiti Avebury, Pace e
Felicita Rensi, La Trascendenza Grew, Lo Sviluppo di un pianeta Sergi,
Evoluzione organica e le origini umane Gallo, Valore sociale dell'abbigliamento
Ramaciaraca, Ata Yoga: L'arte di star bene (in corso a stampa). = 3 228. Vercellini, Unita di legge nei fenomeni
vitali Germani, La Ragioneria come scienza moderna. I volumi di questa serie
esistono pure elegantemento legati im tela con”
fregi artistici, con una lira d'aumento sul prezzo indicato. Ps Ñ a A ll
nes e T Se y Pe ES A y e a xi le
t y ES y, 3 E Z $ í seo >
1 pe 4. Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il
gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia
no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Olimpio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di
Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of nowhere.
When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he moves to
Rome.
Luigi Speranza -- Grice ed Olivetti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’archivista – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some
topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental subject, and the
rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine – I have been
compared to Apel, so the fact that Olivetti in his ‘conversational’ approach
relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside della Facoltà di
filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i
temi del rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti
orientato sul versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il
suo maestro. Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a
studiare i temi della filosofia della religione, partecipando ai colloqui
romani inaugurati dal filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo
la morte di ZUBIENA come organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica
religiosa e di filosofia classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un
approccio neo-trascendentale al tema della religione, insegnando filosofia
morale a Bari e poi sostitundo Zubiena nella cattedra romana di filosofia della
religione. Giunse dopo l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad
elaborare una concezione di questa disciplina come antropologia filosofica e
etica in quanto «filosofia prima anzi anteriore» su base storica, nata dalla
dissoluzione in età tardo settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel,
della onto-teologia. Molta rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei
classici tedeschi, in chiave storica, e da ultimo il confronto sia con la
fenomenologia, specie con Lévinas e Marion, sia con la filosofia analitica. In
Analogia del soggetto, la sua opera maggiore, l'autore elabora una teoria
analogica del soggetto, riprendendo suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas,
confrontandosi con Heidegger e suggerendo una teoria dell'"umanesimo
dell'altro uomo" su base staurologica ed etico-interinale («espropriarsi
del caritatevole nell'interim interlocutivo» ibidem). La tesi è che non
esiste un'essenza dell'essere umano. Tale essenza è immaginata, e senza
siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si coapparterrebbero. Così si
dice, in un certo senso la fine dell'etica. Tuttavia così si dice anche che
l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito
l'autore prospetta un ripensamento del soggetto trascendentale, con un differimento
dell'ergo rispetto al cogito cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero
«dall'origine analogica di ogni logica, in modo da scomporre la presenza
trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe così all'abbozzo di un
«ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo tale da reimmettere il
pensiero rappresentativo nella giusta traccia della rappresentazione. Attività
accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli
e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece promotore di colloqui e
convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di
gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e mondiale (Ricœur,
Marion, MATHIEU, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte,
Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J.
Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel Vahanian, Hénaff,
Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei
suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero
esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati
in numeri monografici della Rivista "Archivio di Filosofia". I
temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della
religione come filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e
novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?",
l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della
Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro
l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non
ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e
il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e
propria scuola di filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo
cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani,
Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da
Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone,
infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia
della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In
memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1. E. Giacca: un filosofo della religione",
Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su
libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista
-- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico
della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de
fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito
teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Olivi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia
friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. Medico e storico italiano. Anche
filosofo. PALLADIO degli Olivi, Gian Francesco. – Nacque a Udine tra il 1610 e
il 1615 da Alessandro e da Elena di Strassoldo.
Gli Annales di Udine il 4 dicembre 1609 annoverano l’aggregazione della
famiglia, proveniente da Portogruaro, tra i nobili della città. Palladio frequentò l’università di Padova,
dove si laureò in giurisprudenza nel 1638. Rientrato in patria, si dedicò per
un breve periodo alla professione forense; divenuto abate, ottenne il beneficio
ecclesiastico della pieve di Latisana. Si iscrisse, con il nome di Ferace,
all’Accademia udinese degli Sventati, fondata tra gli altri dallo zio paterno
Enrico. Nel 1658 e nel 1659 pubblicò a Udine due opere di Enrico: il De
oppugnatione Gradiscana libri, sul conflitto che oppose tra il 1615 e il 1617
la Repubblica di Venezia e l’Austria, noto con il nome di guerra di Gradisca,
e i Rerum Foro-Iuliensium ab orbe
condito usque ad an. Redemptoris Domini nostri 452 libri undecim, rimasti
interrotti alla presa di Aquileia da parte degli unni. Palladio decise di
continuare l’opera dello zio, non più in latino ma in volgare, partendo dal
punto in cui si era interrotta, l’anno 452, per arrivare sino al 1658. -ALT La cronaca, Historie delle provincie del
Friuli, è composta secondo il metodo annalistico e fu pubblicata in due volumi
a Udine nel 1660. La narrazione, pur essendo fondata su un’ampia
documentazione, ripete alcuni luoghi comuni concernenti in particolare
l’origine delle città e dei loro casati più eminenti. L’autore difese in
particolare l’antichità di Udine riprendendo parte degli argomenti proposti da
Gian Domenico Salomoni e ripresi da Enrico Palladio, i quali identificavano
Udine e non Cividale nell’antica Forum Iulii di cui parla Paolo Diacono,
attribuendo in tal modo a Udine l’egemonia sulla regione dopo la distruzione
dell’antica sede metropolita di Aquileia. Riprendendo quanto detto da Salomoni,
Palladio riconduceva la fondazione di Cividale sul fiume Natisone al periodo
successivo alla vittoria del duca Wechtari, o Vettero, sugli Slavi, descritta
nel capitolo V della Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Palladio sostenne con diverse argomentazioni
l’esistenza di un antico vescovato udinese indicando in un presunto vescovo
Teodoro da Udine il destinatario della lettera Regressus ad nos del 21 marzo
458, sulle donne sposate con uomini rapiti dai barbari, inviata da papa Leone
Magno a Niceta, vescovo di Aquileia; attribuì poi a Udine i vescovi di Zuglio
citati nei sinodi dei secoli VI-VII e in Paolo Diacono. La Historia, pur
presentando i limiti comuni alla storiografia prodotta nel corso del XVII
secolo, fornisce dunque numerosi dati che contribuiscono alla ricostruzione
della storia friulana. Nella metà del Settecento Paolo Fistulario criticò
severamente i passaggi nei quali è creata un’origine delle illustri famiglie
cittadine priva di qualsiasi fondamento. La la famiglia comitale degli
Strassoldo, per esempio, sarebbe discesa da Rambaldo di Strassau, descritto
come il «supremo direttore delle armi» ai tempi dell’imperatore Valentiniano
III (vol. I, p. 5). L’opera conobbe ulteriori critiche nel secolo successivo da
parte di Antonio Zanon, che rimproverò Palladio
di avere scritto una storia parziale, nella quale veniva data voce solamente al
punto di vista espresso dalla nobiltà e non al ceto borghese cittadino, che
trovava invece spazio in altre opere che circolavano al tempo, quali i Dialoghi
di Romanello Manin, rimaste manoscritti.
Palladio morì nel 1669. Scrisse
anche altre opere in prosa e in versi per l’Accademia degli Sventati, ancora di
proprietà degli eredi al tempo di Giuseppe Liruti, e alcuni testi di contenuto
giuridico. Nella Biblioteca civica di Udine sono conservate alcune rime,
intitolate latinamente Carmina (Fondo principale, 1076) e una Collectanea
legalis (Joppi, 623), redatta secondo voci organizzate in ordine alfabetico e
solo in parte compilate. Fonti e Bibl.:
Udine, Biblioteca civica, Mss.: V. Joppi, Letterati friulani, c. 77v; G.D.
Salomoni, Difesa del capitolo de’ canonici della città di Udine agli ill.mi et
rever.mi signori cardinali della sacra congregatione Sopra i riti di S. Chiesa,
Udine 1596; G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da letterati del
Friuli, IV, Venezia, 1760, p. 459; A. Zanon, Dell’agricoltura, dell’arti e del
commercio in quanto unite contribuiscono alla felicità degli stati, Venezia
1766, pp. 191-229; P. Fistulario, Discorso sopra la storia del Friuli detto
nell’Accademia di Udine, addì X maggio dell’anno MDCCLIX, Udine 1769; F. Di
Manzano, Cenni biografici dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al
XIX, Udine 1884, p. 147; F. Fattorello, Storia della letteratura italiana e
della coltura nel Friuli, Udine 1929, p. 157; E. Petrarca, Storici minori del
Friuli. Palladio Gian Francesco, in La Guarneriana, X (1967), pp. 71 s.; L.
Milocco, L’Accademia udinese degli “Sventati” (secoli XVII-XVIII), in Più
secoli di storia dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Udine
(1606-1969), Udine 1970; L. Cargnelutti, P. degli Olivi, G.F., in Nuovo Liruti.
Dizionario biografico dei friulani, III, a cura di C. Scalon - G. Greggio,
Udine 2009, pp. 1903-1905.Enrico Palladio degl’Olivi.
Luigi Speranza --
Grice ed Onato: la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean.
Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in Greek,
CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.
Luigi Speranza --
Grice ed Onorato: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma –
filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano.A member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Luigi Speranza --
Grice ed Opillo: la ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto
di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire
Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri
IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl.
F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik.
endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius
Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem
Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und
besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich
besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax
mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit
Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden
wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de
gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde
rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum
in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis
aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub
clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex
numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis
per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide
libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins
Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro
de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106,
unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert
als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich
als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl.
philol. Abh.). Charis.
(Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl.
O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb.
Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von indices
plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann, Aurelius
Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz,
Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat.
serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P.
Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he
was a ‘liberto,’ CICERONE refuses to study him!” -- Opillo
Luigi Speranza -- Grice ed Opocher: la ragione
conversazionale l’implicatura conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA
IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “There are two points that
connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of
the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and
Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of
‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” Con Ravà e
Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del
Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la
famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di
Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono
un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la
città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive. Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere
del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso
la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a
coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del
diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La
proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente.
Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del
diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che
in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo
padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i
corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di
dottrina dello stato Italiano. È
ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul
rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale,
Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi. Fu magnifico rettore dell'Università. È stato
Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica.
Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu
azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività
cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di
Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri. Saggi:“Individuale”
(Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano,
Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI);
“Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio
Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin,
Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile –
filosofia CIVILE --. in Scritti, G.
Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano
alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd.
Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi. Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della
tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero
nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe
Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro,
Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del
PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned
with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically
false a posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English.
Both iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is
commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he
rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht,
Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract
between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Enrico Giuseppe Opocer. Opocher. Keywords: giustizia –
fairness, gius, il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum
– verbal aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia
del neo-Trasimaco.”
Luigi Speranza --
Grice ed Opsimo: la ragione conversazionale e la setta di Reggio – Roma – filosofia
calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Calabria. A
Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Cicerone said that in proper Italian,
his name was Ossimo!” -- Opsimo.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orabona Ancora negli anni novanta nascono altri
progetti di lingua universale di autori italiani, fra questi il Raubser (da
raub = universo e ser = lingua), elaborato nell’arco di quasi vent’anni dal
varesino Luigi Orabona (1943), insegnante elementare. Fra le altre cose, i
vocaboli del Raubser esprimenti concetti opposti o che hanno una certa analogia
vengono rappresentati con inversi grafici; così abbiamo: met = amore e tem =
odio; doraf = arteria e farod = vena; favet = bianco e tevaf = nero; kabon =
testa e nobak = coda.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orazio: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Roma – la scuola di Venosa -- filosofia basilicatese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo italiano. Venosa, Potenza,
Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi morali ed estetici. Quinto Orazio
Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle "Epistole," Orazio dichiara di
sentirsi attirato dalla filosofia morale per la quale vuole abbandonare la
lirica. Si è notato che questa epistola è un protrettico. Ma anche negli
scritti precedenti O. tocca spesso argomenti filosofici. Scherzosamente, O.
si chiama dall’orto “de grege poreus” (Epist.). Effettivamente egli, che
dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad
alcun indirizzo determinato. Nei suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole
diverse, vede nelle sette filosofiche una disciplina che non deveno essere
ignorate. O. s’interessa soprattutto per la morale applicata ai casi della
vita. La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della
serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica dell’ORTO, di cui si scorge
l’influsso nelle satire, che abbondano
di reminiscenze a LUCREZIO (si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto
sull’origine del diritto e della legge. Più volte, satireggia paradossi del
Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa. O. disegna
la caricatura del Portico: capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti,
espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma O.
mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del Portico. O.
si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la vita semplice e sana
della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al lusso, O. si
collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue
satire. Nell'insieme, la morale di O. è utilitaria ed è diretta
dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non è una teoria
filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’"Arte
Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie del “Lizio” e
particolarmente di Neottolemo di Pario, che assegna alla poesia il duplice
ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si fa provenire il concetto del
"decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che O. propugna. He is sent by his father to study philosophy. His studies are cut short
when civil war breaks out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare.
His works, frequently advocate the simple country life, and a number of letters
he publishes indicate a continuing interest in philosophy. Although he has
friends that followed the doctrine of The Garden, and he is clearly familiar
with these doctrines, it is not clear that he belongs to any particular
‘school.’ In an examination of O.’s philosophy, we should not look for that
comprehensive love of wisdom generally termed philosophy by the ancients,
including science, ethics, and speculative thought. O. Is not the speculative
type of man to be interested in the composition of the universe. Quae mare
compescant causae, quid temperet annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168
at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer the pLanete wander ad rol Fone
spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that Is Crazed."). O. Is a
realist, concerned with the ethical side of wisdom -- with the conduct of life.
O. is thoroughly Roman, and the Romans, except only a few lofty souls such as
Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of a practical, mundane nature. The Roman
philosopher cares little for the abstractions of speculation. The Roman is born
to rule -- parcere subleatio et debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail
be tnite are, to ozdain the law of peace, to be merciful to the conquered
andbeat the haughty down. The philosophy which appeals to the Roman is that
which would give him mastery over self, and hence over the world. But
everywhere around him O. sees the tremendous waste of human energy, struggling
nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy, frittering away their
man-hood, consuming time and not achieving the mastery of life to which their
heritage entitles them. For such an audience, then, in which the will to live is
the dominant characteristie, O., the sane, tolerant, and sympathetic man of the
world, with the insight which comes from contemplation and the inspiration
which comes from a realization of the dignity of his task, formulates his
philosophy of living, a simple, practicable code of ethios, to help men to
saner, worthier, happier lives -- a code which furnishes a solution to the
problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life,
something tangible, a touchstone by which the Roman man may test his own worth
and contentment. How keenly he feels the importance of his mission we may know
from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque,
morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the
neglect. O. Is unusually well qualified to undertake this office of sage,
monitor, and guide, for he is the product of unusual home training, thorough
training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. O. is very
fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knows life from
the point of view of the toiler, O. early aoquires the common sense which is
the basis of sound living. His father gives him an insight into the things
worth seeking, by pointing out the conspicuous failures in his own vicinity.
Instead of merely advising his son to live frugally, he calls his attention to
a certain well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as
shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action
of certain Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning
the practices which had made others infamous, he may always have a criterion of
conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and
virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is
sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the
finest possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that O. speaks ever gratefully and without shame of
his humble birth and boyhood training. Just what O.’s life at the 'University'
of Athens may have been, we do not know. But he gives ample proof of his entire
familarity with both L’ORTO and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO,
must have made a profound impression on O., the lover of life. That he had a
sympathy with their doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being
to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and
the highest pleasure being peace of mind -- is proved by Tempora momentis
Tapora potent. Oat qua gordine Dulla -- Not to be exoited about anything,
Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and
stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no
tinge of and again -- Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, --
ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and
soudii, hs eyes stare and he ds dased. In another place he allies himself
playfully with the more material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half
shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly
I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a
second passage he praises the adaptability of Aristippus, contrasted with the
cynic. But a man with the rigid training of O.s early years could not be
completely satisfied with the superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He
values happiness, but he has too much moral fibre to find it either in
impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance
to the sternness of IL PORTICO, and the severity of its "Sapiens", he
is drawn toward the positive virtue of IL PORTICO. No utterance could ring more
clearly of IL PORTICO than the following: "Vir bonus et sapiens audebit
dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote
tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and
wise man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force
an undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under
the charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I
suppose thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things.
Although he appreciates the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its
asceticism altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling
this jest at them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber,
honoratus, pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est.
-- To sum up, the philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea
noalthg, sare winen troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from
all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his
needs. If there appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there
are countless ones, we must remember that he regards himself as the physician
of morals, ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different
prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced
to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self
control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his
superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment
of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles
and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune. O’s life experience ia a kaleidoscopic one.
His youth is spent in association with the sons of the wealthy and well-born, and
thus he acquires that tact and urbanity which are so valuable in his later
relationships, and which enable him to give advice on matters of social
conduct. Then follow his attachment to the hopeless cause of the Republicans,
with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a
complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous
effect. Any faith that he might have had in politics as worthy of a man's best
efforts, is of course completely shaken. From that time on he philosophises with
thorough conviction of the insubstantiality of "ambitio". Besides he
realises keenly the moral evils that follow the civil ware, and pessimism and
general contempt for nis shameful countrymen. His fresh beginning in kome in a
most humble position, gives him the first taste of the real struggle of the
great mass of men for the mere means of existence. From this position he sees
the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which
they fail to see is not conducive to happiness. It is perhaps from this phase
of his existence that O. gains an appreciation of the simple joys of life wich
are attainable for all -- sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Lastly
nis friendship with MECENATE (si veda), coming after the bitterness of life,
affords him the leisure to devote himself to philosophy. He learns too well the
instability of position to value it over highly, but from this relationship he
draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The
burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H. P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is
the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE, “HAPPINESS”. Since he tastes of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to philosophy
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the NATURE of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definite attitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realise this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them suffers for his neglect -- et miPosces ante diem librum cum lumine, si non
-- and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will
not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake
and racked with jealousy and 1ove. Men's bodily well-being, in wich they take
such a keen interest, is not half so important as right living. Si latus aut
renes morbo temptantur acuto Quaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis
non?"l who does not? -- And yet they place every other interest before the
wise regulation of life, either because they are too ignorant to realise its
importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues.
Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun -- When you make haste to
remove what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life
1s trending -- Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas
traducere leniter sevum -- In the midst of all you must read and question the
what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of
a iise mo 10e4. -- When once men do come to acknowledge that happiness in not
an accident, but the logical outcome of et well considered and consistently
pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of
vital moment, and thus H. indicates the first step toward the new life. Multit
e arttase fygere et sapteatia prine And once aroused it will not seem so
difficult, for -- Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really
desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is
worth achieving can be won only at the expense of vigorous effort. -- Sedit qui
timuit ne non succederet. -- osame has beer afraid of fallure, has remained And
again -- Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at
the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it
on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because
his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt
any serious reformation. O. invites him to draw inspiration from his own
altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem
Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena
brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum.
"Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know
witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had
my sport, but would be, not now to out it short. Inconsistency is no disgrace,
if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, do not delay, but
act at once! -- Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the
season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all
time.""out down. With this awakened interest, O. thinks it well for
each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial
have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice: OPTIMALITAS -- [Indeed, Piso makes
this assumption, and it leads him erroneously to the conclusion that THE
PORTICO values scientia as its own end, as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that
which is highest in one. Antiochus then attributes to IL PORTICO, whether
rightly or wrongly, the very LIZIO valuation of theoretical over practical life
that we, his readers, know IL PORTICO would refuse. When it comes to accurately
portraying IL PORTICO as philosophical movement, the fact that Antiochus, a
character in Cicero's dialogue, elides the difference between IL PORTICO and
Aristotle serves as no indication of the reliability or unreliability of
Cicero's or his sources. Cicero simply wants to show that, whatever the
original truth of orthodox PORTICO might have been, it lent itself to this
Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he asks is whether the
PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over practical life
despite the fact that THE PORTICO would refuse the very distinction.] with a
view to adopting as HIS one, whichever one seems to have the most real VALUE,
to bring the calm and contentment that are significant of a life well lived.
The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio contendere callidus ostro
lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque
medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. -- He who has not skiil
to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in
Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he
who will not be able to discriminate the false from the true. Try virtue first
of all. Si VIRTUVS [andreia] hoc una
potest dare, fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this,
manfully give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of
wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the
heap." Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat,
Meroemur servum qui diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans
pondera dextram Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a
slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our
hand over the counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem.
"elonge that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of
food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non,
oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not
"gt us takebaths, forgetful what 18 Or the satisfaction of
mirth--jests.")Then, having advised each man to try for hinself, for each
must be the best judge of his own life. Metiri se quemque suo modulo ao pede
verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to measure hamsel or hie And he
will never be sure that one of these thinge might not have proved the key to
happiness until he has used it and found its futility, O. sings up the decision
which each is bound to reach. Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem
verba putas etLnoun 11gna, -- You think virtue words, and a holy-grove sticks. As
CICERONE says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly
fitted to men who consist of both body and soul. It is too cold, too remote,
andVre guan satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more
satisfactory than virtue as a "summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not
‘goodest'), for its weaknesses are all too evident. Even granted that it does
have many undoubted advantages -- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret Suadele eaus due, w2 -- For of
course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon
and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses. Yet how fleeting
wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas; Defodiet
condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing.
rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo
curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or
troubles from his soul. Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam
neque divitibus contingunt gaudia 80118. "I'or pleasures do not fall to
the rich alone. And his advice is bad who bide you get money rightly or not, by
hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of PUPIO,
for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer? Besides, in
the gest for wealth alone, you are prone to lose the sense of all other values
-- "He has lost his armour, has deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune. Ambition
cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it
carries with it. One must seek the favor and the gifts of the fickle Roman mob "Plausus
et antoi dona Quiritis, "and make friends of all sorts of people Ut oulque
est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man
today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts
former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition
will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit.
" pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the
unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both
body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so
men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne
voluptates; nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight
bought with pain is hurtful."). None of these external things, then, can
be regardedas the "summum bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit
optimum --, since not only do they fail to bring the happiness all men are
longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and distress which
plague the world. Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto; pavor
est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto ue ast
mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He who
fears their opposites excites himself much in the same way as he who covets
them, the flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected
appearanceagitates the one or the other. Whether one joys orif at every-It is
not that in themselves these things are wrong--only that they are externals and
one must not attach too much significance to them. It is because men have
overestimated them that the three greatest ourses of the age have come upon the
world--superficiality, restlessness, and greed. Since men are always looking
for something tangible as the secret of happiness they have bedome shallow,
have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for
inward appearance, and far too little for inward worth. Si curatus insequali
tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere -- If I have met you with
my hair dressed by theha hare et hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my
toga sits unevenly and awry, you laugh; whole round of life, pulls down, builds
up, exchanges the square for the round?lou think mine an ordinary madness and
do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointed tortune 8,
and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of the And this same belief
that happiness lies in externals makes men restless -- a feverishness that
manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness
which forever escapes them. now foolish it is to try to escape the things which
batfle one by seeking another clime! -- Sed neque qui Capua romam petit imbre
lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et
balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus
lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi
Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum
licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et
Fhodos absene. "2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe
praised, and uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are searching
may be attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio et
prudentia curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum
mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus
atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit
is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a
wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the
sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por
totH at u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not
living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain
nothing but discontent. And of these curses of looking to externals for happiness
perhaps the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when
one can use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit
ninil amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire
nothingThe grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There
can be no tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper
avarus eget; certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed
80a1 to your What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es
capitum. Nam quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or
whom shall I follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that
it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How
helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them
a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires
has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen
above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the struggling,
feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris arecontrasted with
sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor componere
litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem communiter
urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira Iliacos intra
muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia possetUtile
proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis rerum
immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the strife
between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by love and
both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o ofun and
with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a hardship
over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of things.") If
the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth, or any of these
external things, which in a limited measure may contribute to the richness of
life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS --, pursued as an end in
themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals
men must look for the real source of happiness within themselves. When men are
dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward
the world. In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his
own. with the harmless place; it is the mind that is at fault which never
escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the wise control of life and the wise enjoyment of life. the first
thing men must learn is to adapt themselves to circumstances, to frankly face
the fact of the evil and injustice in the world, to realise that such a thing
as periect happiness is nowhere existent and that all life 18 an adjustment. --
solue puae posot eret estare beatum, Saost the one ate ony thng Lhat on rate
and keep a man happy. Chafing and fretting against the established order of the
universe, against life's seening inequalities, only serve to augment their
hardships. When once men do face the facts of life and bring themselves Into accord with them, things wich fornerly
seemed of greatest moment will be looked upon with indifference. Yon sun and
stars and the seasons departing infixed courses there are who view with no tinge
of dread.") And it 18 not only for his individual well-being, but for the
benefit of the state as well, that he have this philosophical outlook upon
life. and Bet, to take up beae, Ios nen to are deer toour country, dear to
ourselves.")for ii we are dissatisfied with our fortunes, our bitterness
will taint every relationship in life, but if we are sane, life will look back
at us with the same calm expression. Sincerum est nisi vas, quodoumque infundis
acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean, Whaterer jou pour 1aOf prime
importance i8 integrity of life. It is not enough that a man assume all the
outward appearance of goodness and make a great parade of virtue. Qui consulta
patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae magnae que secantur iudice lites; Quo
res sponsore et quo causae teste tenentur. sed videt huno omnis domus et
vicinia tota introrsum turpem, speciosum pelle decora. "3evidence cases
are gained.but all his household and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn)
taz Unless the people no know him best find him honourable and sincere, he need
lay no olaim to worth. Low senseless 1t 18 to delight in being called good by
the world in general, forthat very world will perhaps tomorrow call him a
thief, or unchaste, or say that he strangled his father. de deserved the
commendation they gave him yesterday no more than the slander they heap upon
him today.caliny terig put ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is
perfectly clear how pernicious this false praise is and to what lengths it
leads men."Leu, si te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam
febrem sub tempus edendi Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If
the people keep saying you are in sound and perfect health, you conceal a
hidden fever up to the hour ofR2E2™E60a:till paralysis seize your hands wile filledIn order to
deceive the world they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly
they are praying to the gods of trickery to shield their crimes from detection.
3ecause one is not a thief or a murderer he has no right to demand praise, for
he has his reward already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid
evil merely for fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te
formidine poenae. "*("You will commit no crime through fear of
punishment.")Good men desire virtue for calm and peace that it brings
them--"Oderunt peccare boni virtutis amore."("Good men hate
sinning through love of virtue.")For it is what you are that really
counts, not what the world thinks. Even the school boy realizes this.("Yet
the boys at their games say: 'You will be king if you act rightly. However many
of the externals of life fortune man have given a man, if he is weighed down by
the sense of his own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the man conscious
of his own rectitude fears neither loss of property or of life. Si forte in
medio positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel
quia naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is
another element in this wise regulationof life--freedom from all these
externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun
liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon oiet
etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in the
orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the man
who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of riches
has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized what a
hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in the
old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be aai0,
a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper position, else
it may take out of his hands the direction of his life--it will either be his
master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia culgue,
"3("Each man's hoard of money is his master or his slave. O. boasts of his own freedom from the opinionof
the masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a source
of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole. Invidus
alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius
tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly•
treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of
others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his
own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta
pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have
given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their
powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and
always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous.
"5("It remains for you to go where iuma and Anous have descended. There
is no hope of a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is
not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since
there is only this brief span of years for every man, ending all too soon in
oblivion, let him on that account make the best possible use of each day -- Carpe
Diem -- so that the doom of death will appear only as a dark background
enhancing the bright foreground of life. Looking foward, looking backward breed
discontent. Think only of the present. The surest way to get all the possible
joy out of life is to live every day as though it were the last. Grata
superveniet quae non sperabitur hora. Amid hope and care, amid fears and
passions, believe every day has dawned for you the last; so, welcome shall
arrive the hour your will not hope for.")If men keep this thought ever in
mind they will f1ll each moment so full of the richness of living that there
will beno regrets, no joys postponed to a future day which will never be
theirs, when the summons of death does come.This means that to avoid
disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have given
them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu, neu
dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater. Whatever hour the
deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you have lived
apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men not hoard
it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I am not permitted
The man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe 18 next door
to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the really worth while
sources of pleasure are within the reach of all. shere 18 health. There are all
the delights of the country and out-of-door life. Ego laudo ruris amoenirivos
et musco circumlita saxa nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have
lorsaken tnose soenes you extol to the skies with loud acclaim. And--"Novistine
locum potiorem rure beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel
accepit Solem furibundus acutum? Est ubi divellat somnos minus invida
cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba lapillis?"4("Know you a
place preferable to the blessed country?I nore Leasant bree2e allays ailke te
tury of treDogstar and the commotions of the Lion, when once he has gone mad by
receiving the stings of the Sun?Is there a spot where envious care less
distraots our slumbers? Is the scentThere is simple food which nourishes
without distressing--"Pane egeo iam mellitis potiore placentis.
"I"Besad, is what I want now more pleasant than honded There is
sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus aptum. How
foolish it is to want more when these things, if properly regarded, will make
one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and employ what
is within his reach.Not the least of the joys of life is friendship.There is a
deal of the utilitarian point of view in orace's advice about sooial
interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one, contact with
other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said,
"Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and
heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make
himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit, Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he
should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne
pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should
be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you
for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give
way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of
friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and
unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in
anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his
client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he
cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear
hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus
amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam
et subducta viatica plorat, ("He who has been taken as a companion to
Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote
1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get
noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are et of arlends
Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be
mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do
so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my
influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact
is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for
everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present
books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must
await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he
would please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu
fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune,
so shall we yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social
interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of
host and guests. The host should be most discriminating in his choice of guests
so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That
like meet and be associated with like.") and that all be the kind which
will not make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus
atota forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be
none to carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an
invaluable thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has
become estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of
life is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivam Quod
superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in
annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat
et aufert; Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire
2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my
gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions
for each year, trembling on the hopes of the man. RAPOLLA,
VITA D’O. CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA
DELLA CITTÀ DI VENOSA POR TIOI Premiato Stabilimento Tipografloo
Vesuviano V L 'S^è &•&• è»A«A«A»'1^e-. SU'' X» i
I I i sJ-Sì- I^ VITA DI QVINTO O.
FLACCO DI RAPOLLA o VITA DI O. CON RAGGUAGLI NGVISSIBO
E CON NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB
VKN08IMO CAVALIKSB DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO
ONORARIO DI POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB
ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi,
L'ijf.S'^ Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem
nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo CHrrit, nuHC Alcaico
personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede ingreditìtr. 8.
SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e di
vita. Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto ! D'un
si vivace Splendido colorir, d'un si fecondo Sublime imagjnar, d'una
si ardita Felicità secura, Altro mortai non arricchì
natura Xetattailo, Canto ad Orazio. Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures, DutH
ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia
to. il mastro dei poeti, O. La cui lira per tutto manda
il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio. Tansillo, Canto al viceré di Napoli. Mais fapprend
qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son cotAurne, et de parler en
prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume
superbiam Quaesitam meritis Venosino. Dauti - //. Cult.
XIV. // cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente
orgoglioso per esser nato in così celebre terra, pili antica di Roma:
splendida civitas, anche nel tempo dei Romani, splendidissima nei
medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto O. Fiacco. Del
grande Venosino smisurate innumerevoli sono state le produzioni letterarie
che ne hanno decantato il nome, criticata F opera
eterna, postillato e glossato ciascun verso o parola
Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir altare del
culto della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di
reverente omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in
Inghilterra si son fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta
italiano, e bio- grafie e ricerche storiche pregevolissime su tutto
quello che riguarda la sua vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in
Roma particolarmente, si cmiservano reliquie preziose di severe e dotte
lucubrazioni su tal subietto. Duole non poco però che in Venosa,
fra tanto lume d ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi
sia stato scrittore che ab- bia inneggiato ad O. con serietà e pro^
fondita, e con opera particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere
attraverso i secoli venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un
bronzo od una lapide parlava di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo
cardinale Giovan Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta
volumi in folio non trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo
iniziò? Luigi Tansillo, O. de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi
poeti venosini, Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di
bel- lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et venustissima carmina
scripsit, disse M. Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema
sult immortale loro concittadino? Che anzi giustamente Francesco
Fioren- tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce
costui, perchè « discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con
un certo « risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il
soggiorno di Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un
certo compiacimento nel ricordare la sua a patria ». O.fuggì da Venosa,
sia per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia
perchè ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana,
trova pure in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo
di e alitare tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei
tristi tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il
Tansillo toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il
mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy? Hanno voi/
do forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma
non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir
noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran
fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con
esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di O.,
riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in
luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel
passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani
e stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici
sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo
immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è
venuto » strenuamente compensato col fatto, che
ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile
cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto
tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo,
ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali
come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse emanano,
o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti
pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar-
da con occhio impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della
vita umana, da una sponda secura e tranquilla. Valete. Portici—
Granatello. DZE&O BAPOLLA L mondo, questo pianeta, che
pare sin oggi abbia il primato sul si- stema universale dei
pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della creazione, avverti,
circa duemila anni or sono, una di quelle trasformazioni, uno di
quegli avvenimenti, che segnano date incan- 'cellabili, e che forse non
più si verificheranno nei secoli futuri, tranne quando avverrà la
fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi vapori guizzavano folgori
rossicce ; reboava il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian-
chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini, la mollezza, la
superbia, la degenerazione del genio del bene in quello del male
erano giunte all'estremo limite del possibile. Era prossima l'ora delle
rivendicazioni, della redenzione, della riscossa voluta dalla ragione.
Era vicina la nascita dell' Uomo-dio, an- nunziato, già da secoli, come
apportatore di pace ed amore. Roma, caput mundi, impe- rava. Le
aquile svolazzavano in liberi campi, ghermendo prede facili in difficili
e remoti paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si disegnavano
al massimo grado. I grandi ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i
senatori al- bagiosi, i cresi onnipotenti ed i gladiatori
morituri. Roma già da sette secoli esisteva, quando l'umanità
parve potersi paragonare al vapore chiuso in forte e potente recipiente
che sem- bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta
ed il ricordo degli altri popoli, come i Cinesi, i Babilonesi ed i Persi,
che vanta- vano maggiore e più antica coltura, eran pres-
sochè cancellati da questi violenti conati di gente che era barbara
e volea divenire inci- vilita. Neir immensa Roma, per la quale po-
poli al sommo grado belligeri pugnavano sanguinosamente per potersi dire
cittadini romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da
toghe e preziose porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi
garetti e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- vano non
use a piegarsi alle volubili e spesso avverse disposizioni del destino.
Da Roma partiva quella voce imperiosa che comandava alle schiere
invitte la conquista del mondo intero. Tutto pareva nascer
gigante in quel tempo, e con l'impronta del misterioso e del
sublime. Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giugurta, Pompeo,
Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio,
Ti- bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale, Tito
Livio, O., Mecenate, Augusto I Gli uomini, dalla civiltà, che
lentamente in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva- no la
schiavitù più abbietta. Fremevano e levavano ruggiti di leoni. E Mario era un
leone della foresta : nato da vilissima gente, sorbì sin
dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i gaudenti. Era
smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel
colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità dell'animo, come dopo
molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe
solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle turbe spensierate
e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini lettighe e porpore,
ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della rivendicazione sociale.
II vostro cammino trionfale sarà arrestato da un fiume di sangue.
Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate da montagne di ca-
daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito dalla natura il
genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote. Era guerriero nato.
Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila
stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante sulle rovine di
Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito da
visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di
patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto; era vendicativo oltre
ogni credere, ma celava in petto cuor generoso e forte. Non
poche migliaia di Sanniti restarono sgozzati al semplice muovere del suo
soprac- ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui, che invano
entrava nel cotidiano bagno di es- senze per torsi di dosso la miriade di
paras- siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen- sero. E la
lotta ferveva sorda, quasi ne fosse infetto il sangue degli umani, tra i
servi e gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii, nelle barbare
e sanguinose lotte, formicola- vano, per appagare la sozza cupidigia di
vec- chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate di rose, e
briache e spossate dalla crapula e dal piacere. Era il preludio delle
guerre servili. Dugentoventimila servi e Spartaco con
centoventimila gladiatori produssero uno scoppio ed uno schianto
formidabile, come potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave.
Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- pellata repubblica, ne
fece crocifiggere sei- mila. A spaventoso movimento, repressioni
più spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente ricco per le opime
spoglie e per V oro rag- granellato con la confisca dei beni delle
sue vittime e dei milioni di proscritti. Ma quell'oro di
nefando acquisto vennegli fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi
agli stessi suoi figli. E trentamila Romani sgozzati dai Parti, ad Harron
nella Mesopotamia, furono quelli che espiarono con lui V inau- dita
ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- mida e di regio sangue, morì
da eroe nella fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania,
condottiero di stanche e poche agguerrite schiere di uomini oppressi. Fra
Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel povero
oppresso e quel ricco oppressore, es- servi dovea odio mortale. Perversi
però e scelesti ambidue ! Cicerone e Catilina, sommo oratore
ma ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla
congiura del secondo, che mirava in realtà al nichilismo dei nostri
giorni, e dalla fine del primo si videro strani risul- tati.
Catilina cadde trafitto nel campo tra le sue schiere pugnaci
per un ideale. CICERONE (si veda) ha il capo e le mani mozzi e confitti ai
rostri del foro romano, e la lingua foracchiata dall' aureo spillone
della proterva Fulvia. Splendidi esempii agli ambiziosi I
Mentre che alla magnifica Atene non re- stava che il primato nel
mondo per le let- tere e per le scienze, e mentre V immensa Roma
repubblicana si affraliva e s* incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le
congiure, i mas- sacri e le guerre, nasceva Cesare. Cesare lo si
disse dapprima congiuratore con Catilina. Gli scorreva però nelle vene
il sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- bizione smodata e
livore. Fu uno dei più grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò
da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e partigiano
del nobile Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani
gliene recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era
letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di
leone ascondeva animo felino, vendicativo, dissimulatore. Catone preferì
trapassarsi di propria mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi
servo di Cesare. Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i
Germani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero
repubblicano, il prediletto di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui;
si macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo premeva come
incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie umana sin da
che vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla
missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero
sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino
fra- tricida per invidia e per sete di dominio. E da questi a
Cesare, a Crasso, a Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da
questi a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli spaventosi dirupi
di Capri e delle fiaccole umane. E da questi ai Torquemada, agli
autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono Bruno,
Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di
Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre aizzava le
orde a fare strage, e permise la tre- menda notte di S. Bartolomeo, a
Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col sangue delle
vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che seminò di stragi,
rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-
merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a soqquadro
l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare
precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia
supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia
dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel
basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e sudditi, tra volgo profano e
menti elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- nistri
delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato potrebbe
raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala
della nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica.
Tale era lo stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e
nelle sue vene scorreva sangue di schiavo. I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid),
città situata tra la Puglia e la Lucania), nel dì 8 dicembre
dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima
dell' era cristiana, essendo consoli Cotta e Torquato, essendo Cesare
compromesso con la prima congiura di Catilina, perchè sognava la caduta della
repubblica e la dittatura, nacque Quinto O. Fiacco. Il nome di “Quinto”
se lo appropria lui stesso nel libro delle satire. O. ognuno lo
chiama, ed egli stesso così sempre si noma nei suoi scritti. Plutarco lo
dice “Fiacco” nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”, ed egli
stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina. Ma tale soprannome
non indica che ha orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui,
quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che
quelli di sua famiglia fossero distinti con tal nomignolo, tra le non
poche famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in
appresso. In un antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca
Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del dottissimo Cenna,
venosino, si asserisce che O. nacque nelle case dette, al tempo nel quale
il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della città, e
presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note del
Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi
di fronte alla cattedrale, venendo dalla via di^S. Rocco, presso al luogo
detto /e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero.
La quale condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello
schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il
liberto ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone;
come cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar
non potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le
dita di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo
stesso matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari,
perchè un liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un
senatore o d* un patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo,
come diceasi allora. Viveva il liberto sotto la tutela del passato
padrone, e lui malaugurato se a questo si fosse ribel- lato:
ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per
servizii ono- rifici, mediante lieve mercede. Malamente taluni
vollero sostenere che il padre d'Orazio fosse libertino nel senso voluto
da Svetonio in altri suoi scrìtti, e non nella biografia d’O., cioè
figliuolo di liberto o figlio di schiavo fatto libero. Orazio,
alludeìtttea suo padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel
senso detto dapprima, volendo intendere che suo padre era stato schiavo,
ed aveva avuto poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio alcuno. Il padre
di O. presta il servizio di riscotitore di tasse del comune di Venosa
e di banditore, era un servus pubKcus; il Che dimostra che il suo
passato padrone essere dovea di alto grado sociale, assegnandogli
tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser- vizio della città. Nel
suo stato perciò dirsi potea felice ed agiato, stantechè possedeva
presso la Rendina, luogo neir agro di Ve- nosa, un fondicello che gli
dava ( sebbene O. dicesse esser suo padre macro pan- per ugello) un
conveniente provento, e quindi potette unire al suo impiego anche
un negozio di salsamentario, o salumiere; e come vuoisi da
Svetonio, Tunico biografo, così la- conico, ma purtroppo veritiero,
veniva scher- nito il giovanetto O. dai suoi compagni di scuola
così: Quottes ego, vidipatrem tuum brachio se emungentem ? ^) Ingiuria
solita in quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice- rone
riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se emungere solebat.
Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che O. ha scritto sopra i
suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi contemporanei, compreso
lo stesso Svetonio, né il nome di suo padre, né il nome e la condizione
di sua madre. Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri-
zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri- zione che dice leggersi
sopra una casetta in Venosa, che erroneamente fu detta esser la
casa di Orazio, così concepita: O. C. L. Dio MlTULLEIAE UX. e
che sì è voluta decifrare così: O. DioDORo Caji Liberto MiTULLEjAE
Uxori) La quale interpretazione importerebbe che il padre di
Orazio nomar si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é
questo un falso indìzio – cf. Grice: spots are a falso indizio di measles],
poiché in Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a
qualcuno di questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due
eruditi Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella
sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci,
opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell’illustre
famiglia romana degl’ORAZII, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso,
secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella
sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni
rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia,
colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di
Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non
discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero
op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii
nascimento. Né si potea concepire che, fra tanta chia- rezza di
prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale, O. poi
non enunziasse neppure il nome di quelli che gli f^
aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in appresso, che
tutto venne confiscato alla famiglia di O. dopo la disfatta di Filippi.
Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto sprovvista di mezzi,
il che permetter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi con iscrizioni
commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo- sophia vetus
et nova ad usum scholae, opina che un avo d’O, assoldato nell’esercito di
Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto in
Roma, e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la
libertà. Ma tale idea fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla
penna del letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando
della parte principale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto
libero, dal quale deriverebbe il padre di O. (di cui neppure sa dire il
nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non
liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre
liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sempre
rammarico per tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome
di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stanteche si è
voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di O. si aveva
in Venosa, cioè di banditore. E siccome i banditori in quel tempo solcano
annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^
tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che s'ignora del
tutto il nome del padre di O. e quello della sua genitrice: se ne
conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse
essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la
libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade
in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome
di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa.
Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un
piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con
preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino
suole volgere l'aratro tra i due confini di queste due regioni. E che
Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di
Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però
ch'il venosin villano Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia
romana fu spedita in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per
iscacciar- neli, e per impedir poi che tale infesta gente corresse
sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i Sanniti furono
infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te
asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta LIVIO,
formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e
mostra ad evidenza V importanza della città di Venosa in quei
tempi. O. volle con precisione dichiararsi ap- partenente
alla colonia ronìana che discacciava da Venosa i Sanniti. Eppure i
Sanniti furono di razza Sabina, ed O. non pensa che la Sabina, cioè
la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata
patria, la sua aspirazione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana commedia
! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a
popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica,
ed il sistema democratico formava la base delle loro istituzioni.
Pei servigi resi alla patria davan persino le avvenenti compagne e
le figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe
guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e valorosi. Venne però
l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra tra le
genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo li
espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice
che la colonia venosina, debellati i Sanniti, divenne propugnacolo contro le
ossi- dioni di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare
che Orazio per quanto asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto
sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- lonia romana ivi
residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli meritevolmente la
taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare una sola volta
in tutte le sue opere la patria sua, come non precisa il nome ( e li
avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì il
nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda,
Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic quodcumque minabitur Eurus
Fluctibus hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite. E
Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine
selve in lucani boschi: Còsi qualunque netnbo Euro
Minaccia^ Ai flutti esperii^ di là ratto il muova A* lucan boschi^
e n'abbi tu bonaccia) E per giunta in tutte le sue opere O.
non nominando mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza,
Banzi, TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino,
Benevento, e con aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa,
lantichis- sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba,
attraente, forte più del suo Tivoli, e dei luoghi dei monti Sabini. I
grandi hanno tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate con le
qualità individuali, superiori e rare, vanno cancellate. Salve perciò, o O.,
sovrano poeta, onore della razza umana! Venosa, la patria tua, perdona
tale non- curanza, e tale al certo involontaria irricono- scenza.
L' hai ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare note che
sorbisti le prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò
bastar deve per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di
te, se pur può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino
livore o sdegno, come invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve,
sommo poe-. tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale
aleggia benefico genio del luogo su quella ancor bellissima terra; oppure
da qual- che stella lucente gitta raggio amico che mo- stra la via
al viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via nera
dell'antico mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora
oggi si annega ! O. scrive : Che qual figliuol di libertin
trafitto Soft da tutti) Invero Guerrazzi da savio sostiene:
La ignobilità più che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo
acuto a ben meritare; aven- do la natura concesso all'uomo maggiori
po- tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^L'assillo
nonpertanto che tormentava O. era la sua nascita: perché non potendo
schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea
discendente da schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più
su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù
incrudeliva, estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo
fatto educare, istruii^e e porre a livello dei giovani di buone
famiglie ed agiate. Che anzi con boria e sicumere che mal velava lo
struggersi interno, asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di
schiavo, coi figli dei senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella
superba Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa
questa sua assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per
accaparrarsi sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei
grandi, che un solo fortuito caso gli permise avvicinare, e
come molte volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone
le grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di
venire annoverato tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi
maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori
! Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà,
né fidar troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso
sia, in questa commedia umana nella quale regna sovrana V
ingiustizia ! Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si
rivolgeva circa la sua condizione nella società nella quale viveva.
Ma quel marchio che al solo presentarselo alla mente lo straziava a
morte, il marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva
talvolta aver le traveggole. Riesce sublime quando esclama:
Io disdegno e allontano Da me il vulgo profano Tacciasi
ognun Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò
grandemente il padre, perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo
ove molto era conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle
prepotenze dei ricchi, dei senatori, dei cavalieri e di ognuno con Y i-
struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne. Orazio
nacque, come si accennò, dodici anni prima della congiura di Catilina.
Cele- bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio Catullo, Licinio
Calvo e molti altri. E tra i FILOSOFI Terenzio VARIO e Numidio FEGULO.
E per l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa in
quei tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla
volgare, la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del
povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- si di divenir
celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di O., che pur non
dice il nome del suo genitore, della genitrice, della patria. A questa
scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni
lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi in seguito beffe
di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera
nobiltà venosina) quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica
tale enfatica iscrizione: Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius
Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN
HONOREM Splendidae Civitatis Venusinorum Consecravit
") resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo
satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di
Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio e famiglia,
stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per
cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel
giovanetto un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun
che di grande, e pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più
ade- guato e conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al
massimo, secondo il computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia
an- norum Horatii, allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a
frequentare quelle scuole romane. Ed è caro quel vanto che trasse O.
quando nei suoi canti, ricordando il padre ed i felici giorni della
pueri- zia, e sentendosi nella folla della scolaresca deir immensa
città susurrare airorecchio di esser creduto di alto lignaggio, dice
: Ma d'alti sensi osò condurre a Roma Me fanciulletto^ ad
apparar quell'arti Che un cavaliere che un senatore insegna Ai
propri figli, Allor se, come avviene In un popolo immenso^ avesse
alcuno Gli abiti visto^ ed i seguaci servii Certo creduto avria
spese sì fatte A me apprestarsi da retaggio avito] La quale ingenua
confessione dimostra che il padre di Orazio, sebbene
appartenente alla bassa condizione di liberto, non doveva essere
scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco. Quanti miseri studenti,
figliuoli di coloni agiati e signori delle provincie^ non vanno
oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender lettere o scienze ? Ma ben
pochi vivono certo vita allegra, vestono panni di lusso, e possono
farsi seguire da servi e staffieri con panieri ricolmi di succulenti
ma- nicaretti od altre costose leccornie ! O. però per generoso e
riconoscente sentimento riferisce al padre il potersi istruire con
tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o falso, né molto
meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato fastigio, e
mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i centurioni
venosini! Sotto l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira repressa
del figliuol del liberto 1 ni. L padre d' O. condusse
suo figlìo in Roma, cioè cin- quantacinque anni prima dell' era
cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età.
Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il
piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate
strade della magnì- fica Roma. Ergevasi la città, che
imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui
dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e
quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti, rifulgono oggi
maggiormente nel mondo, perchè dominio di validissime potenze: la
tiara, e la monarchia costituzio- nale deir Italia unita e libera. Aveva
ponti lunghi e meravigliosi, porte monumentali, mura che potean
vantarsi più durature e in- concusse delle ciclopiche o pelasgiche o
delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- nati di colonne
preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con ingentissime
spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la
grandezza delle vittorie romane dalle spoglie ricavate dai potenti e
riottosi nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e
potente alla vista, il che poteva lusingare i sensi del piccolo
viaggiatore (il quale poi non proveniva da paese barbaro e povero,
bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e stupenda,
siccome attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la
corro- sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere nella
sua ampiezza e magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel
triunvirato di Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più
sopra si delineò la proterva jattanza), quel popolo, dapprima così forte
e generoso, vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- derante, la
libertà che offriva ai cittadini la repubblica di CATONE (si veda),
repubblica ormai mo- ribonda. La mollezza ed il mal costume tor-
cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò Orazio
stesso, allorché co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse
che le cure del suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante
grandezze e fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal cadere in
brutture ed ignominie e dal venir tacciato di cattivo cittadino ; che anzi gli
procu- rarono la stima dei buoni e dei veramente grandi.
Il padre soleva giornalmente condurlo dai maestri più celebri della
città, ed ai banchi di quelle scuole famose sedevano con lui
figliuoli di senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate
dell'alma Roma. Era sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al
giovanetto Quinto O. la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde
fosse venuto : Y emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti
i popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero
superava per lusso e per criterio sicuro moltissimi ingenui e
gentiluomini. O. gliene fu gratissimo ; e scrisse che se avesse
dovuto rinascere, ed avesse potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto
quello che gli die natura, non trovando altro uomo più coscenzioso,
più perspicace, più amore- vole di questo ! Desta ammirazione e
mera- viglia questa confessione, se si rifletta che il padre di O.
era illetterato, e che era stato soggetto alla schiavitù 1 Ed
Orazio nel parlar di suo .padre include pure la madre sua, perchè
dice: io pago a' miei (genitori), di fasci E di sedie curuli avoli
adorni Saprei spezzar. Le prime lettere gli furono apprese da Pupilio
Orbilio da Benevento, che, come narra Svetonio, fu dottissimo grammatico
in quel tempo e tra i migliori maestri sotto il consolato di CICERONE
Visse centenario; morì povero, solita fine dei non pochi lavoratori
coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e non risparmiò la sua sferza
allo stesso O., che se lo rammentava con satirica soddisfazione. L'uso
delle sferzate nella palma delle mani degli scolari, antico più del tempo
del quale si discorre, formava sin negli ultimi nostri giorni un
genere di punizione che la civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome
si è tolto il barbaro uso di bastonare e torturare i poveri folli !
Le cure morali debbono sosti- tuirsi a quelle corporali e
costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò O. ad
alimentarsi della poesia latina; menando a memoria e tratteggiando le
scene drammatiche del poeta Livio Andronico ed altri illustri. Come
più sviluppavasi negli anni, cominciò ad attingere alle fonti delle
lettere greche, che egli stesso poi definì le più pure e che
dovevano occupare i dì e le notti degli scrittori. Omero, Anacreonte,
Saffo, Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra-
lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che gli fece acquistar gusto
alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e da essi
ap- prese quell'arte divina, quella melodia am- maliatrice, che lo
fecero addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea
paì-agonarsi all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per
similitudine del nome d* un monte della sua Puglia, ma non del Vulture presso del quale spento vulcano ebbe la
'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da ciascuno
quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti immortali 1
Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare l'aurea massima
di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del
tetto «npic.1, eha Bud«t var»(EUr bnpuko SctDW col
cV»l. Io radiche, essendo gli scribi addetti al contenziose
amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano un' autorità
speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi
formavano un collegio a parte e la carica era vitalizia ed
inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, e
presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del secolo decimonono,
come da altre che vennero con esattezza riportate e com- mentate
dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Reinesius, nella sua
Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si
rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene
una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della questura, ed appartenente al
sur- referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- rono un
monumento in riconoscenza dell'alta protezione accordata da lui a questa
città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX.
Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani
Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae.
Datus, VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. TlBURTIUM.
Siccome quest'altra seguente iscrizione a Manio Valerio Basso
antico tribuno di legione come era stato Orazio, pubblicata nel Giornale di
Roma dal comm. Visconti, rende noto che la carica di scriba della
que- stura soleva assegnarsi alla miglior classe dei cittadini, e
talvolta solevasi contraccam- biare con la carica di tribuno delle
milizie, acciocché se qualcuno fosse stato esonerato o per età o
per volontà, trovar potesse un appannaggio adeguato al proprio valore,
ed un meritato guiderdone: Man. Valerio. Man. F. Quir.
Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI. Primo.
Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et.
Fratri. Suo. Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.
Erroneamente quindi gli antichi interpreti della parola scriba e
dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e
biografi attribuirono solo il senso di copiatori di pubblici atti, oppure notai
o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità
elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad
Oi zio più facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti
di queir età, come si \ drà in appresso. L’importanza poi di tale
impiego ott nuto dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso
scrive nella satira sesta del libi secondo: Quinto, Ti
pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto
affare Al collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo
spiega la parola scribi con la voce notato; ma non credo aver
voluta egli intendere quello che oggidì importa h carica di notaio,
bensì componente il collegio degli scribi questorii suddetti.
Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in
Roma tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e
lucrativa e tra i diletti della poesia. Non può asserirsi con piena
conoscenza quanto Weichert, uno dei più indefessi il-lustratori del
poeta, nella sua opera Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè
che O. avesse solo ventisette anni allorché venne presentato a
Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un mito
quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari.
Volendo però seguire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la
presentazione di O. a Mece- nate successe quattro o cinque anni
dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran protettore
degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise nella propria corte
se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo e
l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che
glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo-
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che
Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico noverare
la satira quarta del primo libro di O. come scritta poco prima che
fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con quelli che
lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come poco coerenti
per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ] egli vuol
farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo, i
costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere
satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a
colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed
onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome disprezza calunnie
dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando le mie composizioni
nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel accademie. Scrivo
per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura intenzione di
ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi,
dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh
costarono sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei
difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver
calunniato chi merita lode, d'aver scemato il merito, anzi non aver
abbastanz; lodato i cittadini eminenti ed onesti? Un uomo che parla
così di se stesso me- ritava venire annoverato tra quelli la cui
ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e
Virgilio lo presentarono a Me- cenate. iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la
noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad
or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio
Mecenate nasce in Arezzo dalla nobilissima famiglia Cilnia, discendente
dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi venuti a
soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni
prima di O. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ottaviano,
e fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene.
Egli pure, seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì
sempre il vitt rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli la
repubblica e difendere Roma dai nemi interni ed esterni. Non
fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto divenne padrone
del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi onori, i
più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure di
Augusl di rappresentarlo quando si allontanava e
Roma. Preferiva il sistema governativo a regim monarchico assoluto,
piuttosto che quell retto a repubblica, e riuscì a far determinar
col suo savio consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano che per
suoi fini particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell
propria influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito
per rendere Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza
ed a far più manifesto il fastigio della monarchia. Amante del lusso,
egli stesso sprona Augusto severo, economico e restio al grandeggiare, al
rendersi sovrano per magnificenza e per sublimi intraprese edi-
lizie e monumentali. Sposò Terenzia, donna di grandissima
bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: ritornò ad essa sommesso:
che non hawi grande uomo esente da mende, principal- mente
dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per dimenticarla,
e non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom la dipinge nel vero suo
aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed erudito. Compose
( ma non sono giunte fino a noi ) una Storia naturale, la Vita di
Augusto, e diverse tragedie e poesie. Possedeva enormi
ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo: largheggiava con
ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro- verbiale nei
secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi letterati del suo
tempo. VIRGILIO (vidasi), Vario, Terenzio, Tibullo, Catullo, Marziale ed
il nostro grande poeta furono i suoi favoriti. Né la sua protezione si
limi- tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi sontuosi conviti od a
sterili raccomandazioni Bensì soleva rendersi splendido per largi
zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze per tutta la vita del
protetto. Pochi sovran si sono succeduti sulla scena del mondo prodighi
come Mecenate, e tanto avveduti nei dare ed innalzare chi realmente
possedeva meriti personali così insigni da immortalare il
protettore, considerandolo nei frutti del lorc ingegno. Solo in questi
ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu-
sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della splendida sua villa a Tivoli
non sarebbero bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran-
dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha fatto rifulgere di luce
splendidissima ed eterna. Il vero monumento imperituro a Mecenate
glielo ha innalzato O. Fiacco venosino. Virgilio nelle Georgiche così
decanta il suo insigne protettore: O Mecenate, o decoro nostro e
parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si mostra più virile.
Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu- do della
sua persona; ma non attribuisce a lui, bensì al proprio ingegno la
propria immortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai
meritati allori ) non comportava servilità comuni al volgo.
Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una sola favilla
di quel genio che il gran cittadino di Venosa stesso definì particella
di aura divina? Tutti i tesori di Golconda non
equivalgono a quegli slanci di lirica sublime che non han- no avuto
eguale in nessun mortale quaggiù ! Come si accennò innanzi, O.
venne presentato a Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di
scriba questorio, e nel comporre satire ed altre poesie, che aveano
già richiamato l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette
succedere, cioè avendo egli già sor- passato il ventisettesimo anno. Egli
stesso così descrive questa presentazione: r ottimo
Virgilio Da pria^ poi Vario dissero chi fossi, ' Né me
figliuol di genitor preclaro Né me opulento possessor che scorra
Suoi vasti campi su destrier pugliese^ Ma quel eh* io m* era espongo:
accenti pochi^ Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. E dice
pure: Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando Pochi accenti
succiai^ poiché alla lingua Era infantil pudor nodo ed inciampo. Donde
nacque mai in Orazio tanta umiltà tanta bonomia e tanta confusione
vedendos al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò tente
Mecenate, se non dallo scorgere in lu un amico sincero che cordialmente e
senzc vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc nel novero dei
suoi favoriti, ciò che formava l'orgoglio di altri in quel tempo più in
fams di lui, mentre pel contrario molti altri lo di- sprezzavano e
lo invidiavano, e per tal fine cercavano fargli il maggior danno
possibile? Aggiunger poi si deve che la magnificenza che circondava
Mecenate, il suo palagio, la fila dei cortigiani che colle teste curve
sino a toccare le lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio
dovettero colpire O., che, per quanto impavido fosse, dovette
risentirne certamente imbarazzo e confusione. Ti è occorso
mai, o lettore, di presentarti, dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa
nelle anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. ti
trovasti mai alla presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ? Quella figura
atletica, chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, colla
divisa brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri
che ti scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo,
quasi a scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse
alcuna emozio- ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse
di sua mano largita un' alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti
hai sentito sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e
compiacimento? Se nulla hai provato, dir debbo che l'animo tuo è
insensibile come pietra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^
lo stesso Bismark ed il grande taciturno tedesco ebbero fieri sussulti
dell'animo, quando la mano del gran re strinse la loro!
Discordanti ben vero appaiono le opinioni circa il tempo e l'età
nella quale Orazio fu da Virgilio e da Vario presentato a Mecenate.
Molti sostengono (e si riscontra nelle me- morie dei suoi moderni
biografi) che siffatto avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di
Roma, così che fanno succedere nel 737 il viaggio di O. con Mecenate a
Brindisi e quindi pochi mesi dopo questa data la pub blicazione
della satira quinta del libro primo che ne descrive facetamente il
viaggio, l evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat terelli
piccanti. Ma nella Cronologia del Dacier, che devt stimarsi
la più esatta disposizione degli av venimenti e degli anni nei quali O. com
pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con- solati sotto i quali O.
accenna scrivere, viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od
in quel torno di tempo, cioè quando O. avea ventinove o trent' anni, e riesce
ciò più presumibile. Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta
avrebbe fatto quel viaggio por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto
ri- guardo alla sua salute un po' malandata ed alla circospezione a
conservarsi, ed alla sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina
e rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non appare verosimile.
Sia però come si voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove
mesi per poterlo ammettere nel novero dei suoi amici stretti.
O., erudito, giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii
aspri della milizia: sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e
chiaroveggente: amante del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle
libazioni dei cecubi e dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e
facile ad ade- scarle col vischio della poesia, dovea venir
ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti e dei viveurs di quel
tempo. Era bel giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto;
ed i malanni della precoce se- nilità (dovuta agli studii indefessi),
siccome la cisposità degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo
ancora reso solibus aptum, né biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o
delle fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere
la bilancia a suo favore. Mecenate, gran conoscitore degli
uomini, ed indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di
quelli che doveano essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo
volle con sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed
ospite nelle sue splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio)
da taluni detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui O. e
presentato a Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua
i prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il
ricchissimo Mecenate, n implorasse la protezione e l'accoglimento.
Ms calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv più atroce e vile;
tutto era apocrifo, si trat tava di libelli infamanti. O. non piatì
sup plice nessun onore, provando in petto senti menti di fiera
libertà; sentiva troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i
cor tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del
Malchino. Il seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali
espression di superbia che si notano nei suoi scritti, at testano
lalto grado della sua alterigia, fie- rezza ed indipendenza. E non aveva
poi h carica autorevole e redditizia di scriba questorio in Roma ? E a
lui, cui bastava tante poco, a lui nemico del lusso e delle albagie
boriose dei grandi, come potette addebitarsi tanta viltà ? Molti
scrittori dissero O. es- sere traduttore dei poeti greci. Frontone chiama
O. memoriabilis poeta, e nient'altro. È noto del resto che il gran
Venosino nei più antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza
altissima, come ora si tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere
sem- pre il male nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene
I L'adulazione, gli omaggi resi da O. a Mecenate ed Augusto,
sono, derivati dal suo animo riconoscente e buono. Mecenate lo
colmò di doni e favori. O. se l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per
aver ester- nata la sua riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo
e vile adulatore. Lessing ^7) così si esprime : « La malizia regna
sovrana negli apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato
espri- ma le proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi
sublime, esponga le massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà
bene dair ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti,
bensì gli si assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario,
allo scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto, lo si
dirà derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. Così giudicano
gli uomini! Le massime così morali ed istruttive d O., la sua
circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita
fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua
amicizia, che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono
bastevoli e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii
degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici
non potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do
che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel
tempo e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono
O. Oh stolti ! O. era stella sfolgoreg- giante di propria
luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo, perché
pregavano O. stesso a presentarle, ed O. negavasi) suppliche e
petizioni a Mecenate per aversi quello che O. ottenne per suoi meriti
straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da
Vario e Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano sulla
virtù e suiramicizia ! O. conservò sempre una virile dignità, né fu mai
parassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu
sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità,
insieme! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed amichevole che
Mecenate ad O. diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te
visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me
videas strigosiorem, (( Se io, o O., non continuerò ad amarti
più di me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto.
Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di Mecenate,
né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- volse
all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste fuori,
messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che la
povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non
m*ami Che di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io non
spero aver fa eh* io non bramii Che né sdegno ne invidia mi consumi
. Si noti differenza di sentimenti ! O. così risponde al celebre
giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a celebrare
coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano: Trebazio di
Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne
otterrai ricca al lavor mercede, O. cedono ineguali A tanto
desio le forze inferme fuor che in propizio istante. Mai non Jìa che di Fiacco
accento voli) Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed
c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai
quali brani si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo
grado, tanto da temere che essendo le sue opere immor- tali, non
curasse d'immortalarlo in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui
so- leva scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne
l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incomprensibili
a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del
genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un
fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono
spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del
volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che
chiarissima a lui stesso appariva. Di bronzo più durevole Ho
un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve
tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh io seppi alzarmi
Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,.. Superba or va^
Melpomene Dei meritati allori Tutto il terrestre
spazio È angusto a me confine,..Non io Da r urna e da la
stigia Onda sarò ristretto^ Già del figliuol di Dedalo Io
spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi posteri Farà ch'io, guai
per fresca Aura, arbuscel piti vegeto Ognor m^ innovi e
cresca..,. La pompa è a me soverchia Che r altrui tombe onora,.,.
34) Colui che si esprimeva in questi termin sentir doveva di
essere di gran lunga supe riore a tutto il resto degli uomini, e non
rieso incomprensibile che abbia potuto divenire i favorito del
potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso Mecenate. E
che la superbia di O. fosse stafc sprone ad acquisto di ricchezze
ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili, patentemente vien
diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue massime radicate di sobrietà
e morigera- tezza, dal suo contentarsi del poco e godere della
parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo offerirgli più che un
podere in Sabina, potean delegarlo proconsole in terre lon- tane, dove
sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò sarebbe stato un
offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio,
un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i voti del
venosino. È notorio che Orazio non usò altri di- stintivi di
onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene
sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici ritrovi, perchè
non amava certo che si fosse detto che l'amico del potente signore
fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere che comandato aveva
una legione ro- mana! Un poderetto in luogo ameno,
salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran città, un tetto
sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi sinceri
amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p
sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente
ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah
che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O
divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi
venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza,
e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò !
Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce
zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì
appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama,
che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich-
casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi
viventi. Vollero onor sommi, castelli, parchi, magnificenza,
fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re
della terra ! LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma
L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA
qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo
Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice in Napoli si
ammirava un cjuadro ad olio, segnato O. in viiia, dell'illustre
pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del San-
sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre pregevolissime
tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione italiana fa
elogio sommo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d'
Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien
compreso d' ammirazione p l'arte e per la precisione storica che vi
nota. Non palagio cinto da portici, o i parco, o da aiuole fiorite, non
statue né ca celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui modesta
costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si arrampica un
cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con
semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da
un delle quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui
compare il busto di On zio che maschera una vaga donzella, dell
quale si distinguono solo le belle fattezzrini e Batillì imberbi con lunghe
chiome, che saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si versan
dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una capretta
randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spettatrice
innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro per
formarsi una idea della proprietà che O. si ha in dono da Mecenate,
unico dono che la sua modestia aggradì, e che confaceva al suo
ideale. O. cosi enunzia la topografìa del suo podere
rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non che t
interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato Ne
copre il sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il
clima Ne loderesti) Nella terza satira del secondo libro per
la prima volta parla di tal dono che gli venne fatto da Mecenate
quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina il Dacier,
nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo fu
scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli
giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità
del tempo che ogni traccia di opera distrugge ed oscura, fece del
tutto scomparire le vestigia della villa di O. in Sabina. Solo la
pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la religione che
accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- deri di
tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso O. nelle
descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni
stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa
sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti
anni nel ritiro fin secessu) e nella quiete. Ch. Guill.
Mitscherlich, dotto filologo prus- siano, nelle sue Racemationes
venusinae; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole oraziane; e
principalmente r opera che X illustre Chaupy pubblicò in Roma sulla Scoperta
della casa di O., possono offrire prezìose notizie sulle ricerche pazienti e
sulle in- vestigazioni profonde e minuziose fatte per dar luce
chiara a tale obbietto. O. disse che al suo piccolo fondo bastano
cinque lavoratori per menarlo a coltura, i quali andavano a smerciarne le
der- rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene, ed avean
tutti alloggio nei fabbricati adia- centi a quelli che lui stesso
abitava, e dove ciascuno soleva vivere con la propria fami- glia,
tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far della sera, sprigionavansi
cinque nuvo- lette azzurrognole che ne indicavano il ru- stico
convito (cinque fuochi), ed il soggiorno tranquillo. Si
costuma tuttodì dagli agiati proprietarii di terre nelle province
meridionali di vivere nel proprio fondo circondati dai rispettivi
coloni, e r occhio vigile del padrone non nuoce alla prosperità di
esso. Si comincia pure oggi a comprendere dai ricchi possessori
di latifondi che la pigra vita delle popolose città non ridonda a
vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure ca- stelli, e si
viva in essi, ma si faccia dimora presso la sorgente, donde si ricavano
quel ricchezze che rendono disuguali gli uomii fra loro. Si
renderebbe così possibile e pei donabile tale disuguaglianza! Il
principale castaido di O. dovev nominarsi Davo, marito forse a quella
Fi dile alla quale dirige consigli savissimi salutari con una sua
epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo son per h
più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal
vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami
ed a sorvegliarli. O. lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè
nelle fe- ste saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena
facoltà di esternare i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti
dal pa- drone, ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si
è conservato sin negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino,
nel suo sudicio e laido poema, che intitolò // yendemmtatore^vciostvò
quanto quella libertà possa degenerare in licenza) svela il suo
animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane usanze e
prosperità derivanti dalle buone e fertili annate, e dall' amor del
suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città per
quanto spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del
campagnuolo si nasconde un guattero tralignato, ed un operajo
invido ed infingardo. Davo prima di entrare nel podere aveva
servito dei signori romani nell* ufficio di mediastmus. Si figuri il bel
tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce- dua (dove al
poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio lo
fé' restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che
servivano ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate
fre- scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali
pruni, susini e cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di
frutta delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di
ritrovarsi a Taranto. La vite poi formava la parte più ricca del fondo,
e dalla quale Orazio solea distillare quel cele- brato vinello che
non disdegnava far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo
del fondo scorreva un rivolo di acqua freschissima, che ricascando
in gt terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava
poi una fonte limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre
fon Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; la patria del
poeta, e che ancora oggidì qu di Palazzo S. Gervasio chiamano
Fontah di Venosa, presso il bosco di Banzi. La fontana
D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> è appunto \
attuale fontana degli Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta
press Venosa nella strada che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad
esso fu improvvisai da Orazio in una gita a Venosa per cacci, o
diporto. Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio
corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In che cosa si
discosta dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi
alla divinità che dall' alto dispone, assiste e protegge? O
Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere
soprannaturale che tutto vede e dispone, e che premia o punisce.
Non è la sommissione buddistica, bensì la virile sommissione ad una forza
on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra celesti
Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo
in questi ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano,
gri- dava: // est, il est, il est! **) A tali credenze religiose
mescolandosi la -c(a più dolce salsa alle vivande Procaccia
col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi familiari ed alle
vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici vivande un buon
bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi mede- simi avevano
manipolato dopo la gioconda vendemmia. La sua mensa era
linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un vasello emble-
matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio e quale usanza
religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in tutti i
tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva per purificare e
consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è mista
al sale. Questa sua grande mondezza, non lo dissuadeva dall' invitare a
convito amichevole, oltre ai suoi amici di condizione eguale alla
sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle
donzelle di vita allegra ed avvenenti, come Fillide, Glicera, Cloe,
Tindaride, anche il gran Mecenate, al quale scriveva: n nauseoso
lusso ammirar cessa. Grato ben giunger suole
Sovente ai grandi il variar di scena. Cerca mensa frugai^ là dove
ammessa Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora In pover tetto fa sparir
le impronte Che affanno incide in accigliata fronte. Viriti m' è
schermo^ ed il seguir m' è pregio Povertà senza fasto e senza
sfregio) Ed in tali circostanze straordinarie mo- strar si
soleva galante a modo suo. Inco- minciava col prevenir gli amici che se
con- servavano vino miglior del suo, Io portas- sero pure alla sua
mensa che non se ne sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un
bicchierino di soverchio alla salute del do- natore. O. ammetteva
che il vino rinfocolasse l'estro poetico, e perciò mal soffriva
sedessero al suo desco gli astemii, sostenendo che pu- tirono di
vino sin dall' alba le dolci muse. Prometteva ai commensali che li
avrebbe collocati nel triclinio ciascuno presso a per- sona che non
gli riuscisse antipatica o me- ritevole di troppe cerimonie. Né
disdegnava riservare il posto ai più gai, ai più giovani e baldi,
presso quelle generose donzelle ro- mane di bellezza e brio regine. La
gentilezza, poi, formava il principale suo pensiere. Così scrive a
Torquato: Già il focolare da un pezzo e le stoviglie Splendon
rigovernate a farti onore A bere^ a sparger fiori io già son primo,
Che sozza coltre Che sordido mantil non giunga il nc^so Ad
aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto Tal non sia che specchiarviti
non possa) Né gli piacevano numerosi convitati, ma pochi,
cari e buoni: Che caprino sentore ammorba i troppo Folti conviti.
Riesce in vero gradito e dilettoso figi rarsi in mente il nostro O., re
del coi vito, con quel suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto,
coronato di rose, levigato terso colla cute, da sembrare un
majaletl lustro e pinzo. Levatosi da letto, soleva andarsene
a zoi zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi,
adocchiare i filari delle vit curare gì' innesti delle piante e degli
albei da frutta; della qual cosa solcano ridere vicini) i quali
conoscendo come Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e e
Mecenate e di altri potenti fosse familiare non poteano persuadersi di
questo suo amor per così rustiche e basse faccende campe stri. Non
riflettevano essi che nella ment del venosino eravi fisso, incardinato il
« m admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di Democrito.
Orazio era dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso
nor lo lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome
ritrovava diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo
savie consiglio: Alma al ben fare accorta Tu serbi •
inflessibile A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57)
E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo spirito,
scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di tratto in
tratto recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno della
sua carica di scriba della questura, sia per altre faccende, sia per
coltivare le amicizie di Augusto, di Mecenate e di altri che egli
stimava, principalmente versati nelle lettere e nelle scienze. Ma sen
ritirava sfinito, perchè la folla dei postulatori, degl'intriganti,
dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani, dei ciurmatori,
ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi e garruli falsi
lette- rati non lo avevano risparmiato. villa, e quando io
rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or fra i volumi Or tra
il sonno e le pigre ore oziose Trarre de V egra vita un dolce oblio
ì Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte E i buoni erbaggi come
va conditi Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I notti I
cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar coi miei m' assido^ E
mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai miei servii io
stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona
soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente immerge nel bagno,
e dopo ungere si solea di o profumato e finissimo. Nel vestire most
vasi dimesso e noncurante, ma non pe privo di gran pulitezza o da potersi
dir come vuole san- to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e
del Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi- nario ed
inesplicabile quanto in appresso verrò esponendo circa le consuetudini
do- mestiche d’O.. Nelle molteplici edizioni delle opere
del sommo poeta, le quali riportano la sua bio- grafia redatta da
Svetonio Tranquillo, ho rilevato che si è tralasciata una notizia
in- teressante che riguarda una sua pratica oc- culta, la quale può
ben riferirsi al culto sur- riferito di misticismo caldaico.
La vita di O. composta da Svetonio Tranquillo, che è l’unico che
scrive del gran venosino pochi anni dopo la morte di lui, e che fa
accrescere certezza alle investiga- zioni fatte neir analizzarne le
opere, si compone non più di una sessantina di versi di stampa. Tutto è
laconico e scritto fugacemente, come se si trattasse d’un cenno necrologico.
Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare con certa diffusione Solo
l'a- micizia intima che legava O. ad Augusto, ed in essa si
dilunga, fornendo preziosi brani di lettere. La quale riproduzione di
brani di lettere di Augusto ad Orazio dirette forma- vano forse il
soggetto che per la maggior parte dei contemporanei destar doveva
in- teresse maggiore, e far di O. un uomo agli altri superiore per
tanto onore. Il brano della biografia che è stato cancellato (forse
per purgarla), V ho rilevato da un' edizione olandese delle opere di O.
pub- blicata da Bond, che la prima volta comparve in Londra, e dopo
se ne riprodussero diverse al- tre edizioni intere, ed è il
seguente: (( Ad res venereas (Horatius) intemperantior traditur
nani speculato cubiculo scorta dicitur, habuisse disposila, ut
quocunque respextsset, tòt et imago e referretur. Formava adunque per
Fiacco un culto (( / ars Venerea », ed egli addimostrava- sene
tanto fervente, perchè nato nel luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth.
Nella cennata antica cronaca venosina del Cenna, il quale era pure
investito della prima di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale
di Venosa, si leggono i seguenti versi che rinforzano la mia assertiva: «
Alcuni, e spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno
dicendo che Horatio Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il
che tutto è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico Dolce nella
vita di esso Horatio. » E Sivry, eccelso poeta, nel suo poema. « L Emulation
» va all'eccesso contrario, proclamando O. (( modéle de bravoure et
de chasteté. » Ciò che forma adunque l'addentellato al
dispregio di molte produzioni oraziane, viene per tal riguardo distrutto
; considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei
tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della disonestà. Egli stesso
ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli
adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui
grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i
costumi, qual altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva
offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d'
ir- religione e lascivia. Egli volle vivere sempre celibe. Del nodo
d'Imene aveva tale concetto d' alta responsabilità che non volle
allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto. La moglie di
Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza, infedeltà
e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo.
E non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura
di Mecenate, intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo,
quando com- pose la biografia del marito dell' infedelis- sima
Terenzia.Il suo celibato vien confermato dal non aver scritto mai carme o
verso per donna che fosse stata sua moglie. E lo dice esplicito e
chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il rimirar
sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^
di ?narzo a le calende E fior prepari. E solo ad un
celibe sarebbe convenuto far pompa di tante conoscenze di cortigiane
e donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, Foloe, Leuconoe,
Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-
no, essendo state amanti riamate di O., che se egli non aveva moglie,
godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e
celibe. ìÀjiS^Ì se.
"*-Sj GuOALio Tml. di
Orm, N moltissimi punti delle opere di Orazio appare che nella sua
mente elevata si presentava l'immagine della morte, questo
indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto in-
cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di
ferro, e so- steneva che: Con impavido ciglio Se
delteteree spere in pezzi infrante. Valta compage piombi Sotto il
suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non poteva con tutto ciò
esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di terrore in-
generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle
tenebre dell'ignoto. Nato a morir
Tutti attende alfin quella profonda Che non conosce
aurora unica notte Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda Presto rapì t
inclito Achille morte E a me ciò farse offrir vorrà la sorte
Necessità di morte Getta sovra ciascun Legge
crudeli Ma pazienza mitiga Ciò che non ha riparo Tutti
spigne tal forza ad ugual meta Che a pugnar seco è mortai forza
inabile) Tutta la sua filosofia: le massime di Democrito e di
Epicuro, che facean precetto essenziale di dispregiare e non curare
gli orrori del sepolcro, non bastarono a toglier questo pensiero
ftinestissimo dalla mente di lui. In mille maniere lo rimuginava, lo
com- mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori
delle verità cristiane non gli rischiaravano l'intelletto e non gli
molcevano il dolore, promettendogli una patria lassù, sulle sfere,
patria immutabile, bella d' ogni godimento ed allietata dalla vista di
quel Dio rimuneratore e buono ed onnipotente. Ammetteva Y
Èrebo e Y Olimpo, come so- levansi ammettere quei miti inverosimili
ed incredibili, che acchetavano la bramosia di quei popoli privi di
una fede consolatrice, che prometteva la beatitudine ventura come
compenso alla vita onesta e laboriosa. Dato che il piacere terreno
formar do- vesse la meta della felicità, che poteva spe- rarsene
dalla vita futura? Il nulla, la distru- zione completa, la particella
della materia andava a ricongiungersi alla materia: Noi
cadendo Nella notte che non sgombra Più non siatn che polve ed
ombra . Degli anni il breve termine Vieta ordir lunga speme:
V ombre favoleggiate e la perpetua Notte già già ti preme) Nella
distruzione completa del suo essere O. ammetteva che soltanto una parte
di se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il frutto dei suoi
sudori, il suo monumento: r anima sua. E tale credenza, che
non era dubbio, gli scusava la fede nel!' immortalità dello spi-
rito umano. L* (( omnis moriar », espressione tanto concisa
per quanto chiara, spiega che non eravi dubbio in lui neir immortalità
del- lanima. La paura della morte comune a tutti, sebbene con tanta
jattanza, dalla maggior parte apparentemente sfidata, più che O. vinceva
il suo protettore, Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e
conta- giosa, O. non addimostravasi meno al- larmato di lui. E tal
pensiero dominante trapela nelle sue opere, come quell'altro, che
lo mordeva sordo, della nascita vile ; né bastavagli a frenargli la
lingua, la sua for- tezza e valentia. La paura della morte era così
possente in Mecenate da fargli dettar quei versi riportati da Seneca, che
non fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest,
bene est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave
e scoraggiante riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato
ve- nire inchiodato in croce come l'ultimo dei malfattori e vivere,
che farsi tragittar da Caronte nella palude Acherontea. O. venivalo
consolando con teneris- sime espressioni, perchè O. non era codardo, né
intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue espressioni non
appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio
consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo
compagno nel dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro
di paura :, Non piace ai numi Che i tuoi si spengano pria dei miei
lumi Un dì medesimo fia d* ambi estremo Ne il voto è perfido,
inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori Pur teco air
ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio Astri
consentono 69) E tale profetica consolazione, per istrana
fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito veder tutto con tinte
soprannaturali. Buona parte di quello che molti direbbero spirito
profetico attribuir si deve alla paura della morte che premeva così
Mecenate come O. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non è vigliaccheria,
bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che questa
paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata di
falce, sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli
appestati. Se non vi fosse terrore e spavento istin- tivo del
morire, quale prodezza, qual valentia sarebbe affrontare impavido la
mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno delle armi nelle
tenzoni cavalleresche? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, il
sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero
memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli
altri. Nel suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c
Prendete cura di O. Fiacco come prendereste cura e terreste memoria
di me stesso I » E riesce veramente straordinario come, morto
appena Mecenate, che era già soffe- rente e presentiva la propria fine,
dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il sommo filosofo, da
non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime
vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima
notte, siccome aveva promesso. O. morì a Roma, essendo consoli Caio Mario
Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due
mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da
qualche tempo varcati i dieci lu- stri, O. non senti vasi sano: accusava
sof- ferenza ai nervi e malinconia che accom- pagnar sogliono per
lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno a logorarsi la
mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti per le
occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade
il cervello, principalmente quando gli anni incalzano. In una
lettera che il poeta scriveva ad un compagno d'impiego nella questura,
Cel- so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- l' apogeo della
grandezza, perchè ben ve- duto e careggiato dal giovane Nerone,
erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo (sebbene non
manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo, per questo favorito di
ven- tura) così diceva : Dritto né ameno è di mia vita il
corso^ Perché men della mente sano Che delt intero
corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi Medici
fanno orror, gli amici restia Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi.
7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor debil troppo e
troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio far possa
al tuo periglio schermo ?. Col corpo affranto dal peso degli
anni, dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle avventure
e nei godimenti venerei, sopraggiunse ad O. la nuova della mor-
tale malattia del suo Mecenate e la fine dì questo. Il colpo fu troppo
violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra debole non poteva
resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida
le la- coniche note di Svetonio, circa la vita di Orazio, dice che
lo stato suo di salute era deteriorato assai con gli anni, che non
gli conveniva più restar l'inverno nelle monta- gne della Sabina,
nella sua cara villa : che svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso
lo scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi enimi fere otium
suwn conferebat, ibique carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava
Orazio infermo e pensava morirvi là. Così egli scriveva al fido amico
Settimio: Oh tregua al vecchio fianco Tivoli dia
Quivi piagnente di pietosa stilla Spargerai la calda delt
amico vate favilla. 7^) Certuni erroneamente attribuirono la morte
di O. a suicidio, tanto apparve strana la coincidenza della sua con la
morte di Me- cenate. Ma deve venire del tutto bandita tale idea per
le seguenti ragioni. O. dei suicidi soleva fare aspro maneggio, soleva
dileggiarli; e la storia di Empedocle di GIRGENTI che ricorda ntìV^rfe
poetica, chiaramente lo dimostra. Empedocle per desio di molta
vanagloria e prodezza, invano precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola
ne tradì la inutile bravura. Esaminando imparzialmente e con
co- scienza la vita di O., si nota che ogni sua cura si volgeva a
conservarla, sia che militasse a Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era
poi tarchiato ed obeso, e quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che
era già fiacco e malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che
il dolore della per- dita del suo più caro amico e protettore
Mecenate (egli così amante degli amici e riconoscente) doveva avergli
prodotto tale un rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la
morte con colpo apopletico. E son numerosi gli esempii di fratelli od
amici ancor forti e vegeti, che, toccati dalla re- pentina
disparizione d* un fratello o d' un amico, li han seguiti immantinenti
nella tomba sopraffatti da colpo di malore vio- lento.
Non altrimenti deve pensarsi di O.. E che fu tale il suo genere di
morte lo prova poi chiaramente il non avere avuto il tempo di
tesser un elogio funebre al suo sommo protettore Mecenate, che aveva
assistito negli ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e con
altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere il proprio testamento.
Svetònio dice: (c Quum urgente si va- letudinis non sufficeret ad
obbligandas testa- menti tabulas . Dovette avvalersi di quello che, dice
Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile di quel tempo, cioè della
prova testimoniale di sette cittadini, che dinanzi notaro provarono
esser volontà del moribondo O. che l'imperatore Augusto fosse il suo erede,
Orazio per decidersi a lasciare erede \ imperatore, che consentì ad
accettare \ eredità, doveva esser fornito di non pochi beni di
fortuna. Che di fondi, che di valsente doveva aversi senza manco
veruno un buon dato, stante la sua parsimonia. E lo certifica
Svetònio quando accennando alle largizioni di Mecenate e di Augusto dice:
(( Unaque et al- tera liberalitate locupletavit. » Ma delle
sue sostanze rimaste non appare vestigio od accenno, meno della villa e
del podere in Sabina, che han formato, come si disse, la paziente
investigazione dei dotti archeologi e degli ammiratori del grande filosofo.
L' aver lui posseduto poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che
una supposizione dei comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua
aspirazione han formato un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua
diciottesima ode del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis
sabinis. » La quale esplicita dichiara- zione formò la base delle
rimunerate inve- stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy,
siccome si accennò parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è
comune r idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo
detto ce Le Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai
dotti, principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera
Delle delizie Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione
topografica di Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato
tarantino, nella sua versione dell' opera del Aquino, con note, non
si è potuto affermare che O. avesse dominio in Taranto, ma soltanto
ohe vi avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa
poi, sua patria, non evvi vestigio di casa o podere a lui od ai
suoi appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Cenna,
venosino, nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della
città di Venosa, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa
presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo a
quella che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno
della tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da
tale ipotesi lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione
in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime
campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : «
Lauda- turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non
riferire invece con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si
dimostra chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si
è riferito nei capitoli precedenti circa la dimora di O. in Venosa,
ove si trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i
beni della sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per
non averne fatto il menomo indizio in tutte le sue opere. Venosa ai
tempi di Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten-
sione dei campi asserita dal Cenna è un sogno. Che O. abbia
fatto in Venosa qual- che rara apparizione, forse per diletto ed in
compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di
Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei
fitti boschi di Banzi, dove es- sendosi recato O. a cacceggiare od
a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei
pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. O., come
si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di
Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a
Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età
di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori
delle sue opere, il numero LXXVII per LVII, assegnando ad O. anni
settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra
septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum
existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio,
ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati
cinquanta-sette, il primo dicendolo morto nell’ anno di Augusto, il secondo
asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i consolati
rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi estremi non
è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato,
tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno
antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita
di O. di Svetonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir
Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa ripo-
sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed O. vissero amicissimi, intrinseci,
vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno nato di
reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di liberto.Una
possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare, divenire tra
loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello
stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri
ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante della tromba
della fama procacciatasi col proteg- gere generosamente quella schiera
immor- tale di uomini che vissero nel secolo di Au- gusto. Il gran
venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta sua la gloria che
fa semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e che
non cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del
sommo poeta non si conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da
po- terne precisare la struttura corporale ed i lineamenti. Ma
dalle sue opere ne appare tanto chiaro il ritratto, che basta
coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico, per
vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria
la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano, che
ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure
aveano resi argentei. Questi hanno improntata una certa tinta di
pazzia benigna, che in luogo di ammira- zione suol destare compatimento,
antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro osseo
che le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella veste esterna
non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe,
globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio
od un cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli
antichi della Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma-
nierose, affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. O. ne sia
esempio lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi
scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario
Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera Doctrina Nummorum e lo conferma Masson nella sua vita d’O.,
nel capitolo inti- tolato De Horatii effigie, essersi rinvenuti dei
medaglioni di metallo, terminati nella loro circonferenza con un cerchio
da tre a quattro millimetri di larghezza, e che possono ben
rassomigliarsi alle nostre me- daglie commemorative o di onore, nei
quali si vede inciso in un lato un busto, ed intorno ad esso la scritta
chiarissima (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è
illegibile e consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a
tenore di quanto più sopra si è esposto. Uno di essi si conserva
nel museo del Louvre. E certo appaiono riproduzione di busti o
medaglie d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel quarto secolo
dell' era volgare. Tale almeno è r opinione del dottissimo barone
Walke- naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse, «
o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran venosino. Deve però
convenirsi che un uomo che ha da poco varcati i cinquant' anni, raro è
che si renda deforme e barbogio. Anzi la razza umana generalmente
suole giungere a questa età ancora atta a buona vegetazione, e ad
abbellirsi e conservarsi. Se r aureola che circonfuse O. non è il ((
nomen imitile » e neppure X opinione che i suoi contemporanei ebbero di
lui ( opinione poco proporzionata ai suoi meriti, secondo che dottamente
asserisce Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe tra i dotti
il primo posto, perchè Dante stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro),
maggiormente risulta la sua vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo
che per r eternità gli uomini risentiranno per lui
Trascorsi appena nove anni dalla morte di Quinto Orazio Fiacco,
nasceva Gesù Cri- sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età portentosa! L'ETERNO
MONUMENTO ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode. Che dire di O. filosofo,
creatore nella letteratura latina di due ge-neri di poesie del tutto
nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera
all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice :' «
Dei lirici O. è quasi il solo che merita di esser letto, poiché
s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di dolcezze e di
grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle figure, delle
espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7) continua
as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono accuratemente felici,
come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi- dero la
strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il coraggio di batterla.
» E que- st* opinione distrugge la miserabile assertiva di
Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja Orazio Fiacco, siccome
accennossi, appena poeta non isprezzabile [memorabilts poeta).
Tanto potevano in questo possessore degli orti mecenaziani V invidia ed
il livore, che tra certi letterati sono solite malattie I Ma
Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio, Petronio, Sidonio
Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio, Giovenale,
Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e cento altri, a coro
unanime, gridarono le lodi del gran venosino. Moltissimi eruditi si
sono occupati di studiare precisamente le opere di O.. I più celebri fra
essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, Passow,
Kirckner, Franke, Weber, Grotefend, THart, il Milmon, lo
Stalbaum, il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- ner, il
Jacòbs, il Leissing, il Margestern, il Walckenaer, il Siringar, il Manso,
V O- relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle opere
oraziane, Elenio Acrone, Pomponio Porfirio, e dell'altro che prendendo
nome dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di
Emilio e Terenzio Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere
con pazienti ricerche il tempo nel quale O. scrisse le singole
parti del suo eterno monu- mento. Cercherò notare le più
interessanti investigazioni. O. dapprima scrisse le satire e
ne compose il primo libro negli anni di Roma, non avendo ancora
raggiunto il trentesimo anno. In essa, siccome si accennò,
irrompe con impeto sarcastico contro un tal Rupilio che
con lui aveva militato nell'armata di BRUTO, Segue poi la seconda
scritta nell' autunno, nella quale parla in generale dei vizii di
cui la società romana era infetta. La quarta satira fu scritta
nell'estate, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi
mostrato un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il
parere di Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici VIRGILIO e
VARIO presentarono a MECENATE, avendo inculcato al poeta di scriverla
per cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse la terza nel
principio del 716, ed in essa fa vedere che mentre gli uomini sogliono
cri- ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i proprii. Vangelo
dice : « Tu suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo
prossimo, e non vedi la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo
poco tempo da che tale satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra
i commensali di Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con
gran lepidezza e pre- cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi
fa risaltare la figura di Mecenate come attore principale e come uomo
politico, spe- dito dal governo per delicati maneggi a quel luogo
di sbarco ad abboccarsi con altri personaggi influenti, e che compagni
insepa- rabili di lui furono O., Virgilio, Vario, COCCEIO e TUCCA.
Compose poi la prima satira in omaggio al suo gran protettore, e
pubblicando il libro la pose come principale, perchè a lui dedicata e
per testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona
dopo circa un anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli
la protezione di Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente
velenoso della livida in- vidia, di non esserne a parte. La
bellissima satira sesta, nella quale pone la virtù come il vero
blasone che onora gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i
superstiziosi e le donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di
Spohn. Il libro degli Epodi era già stato composto da O. prima del
cennato primo libro delle satire, ma fu pubblicato piu tardi.
Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi dai versi Epodois di
Archiloco, che fu l'in- ventore dei giambi, al dir di Diomede gram-
matico. Sebbene altri sommi scrittori, com- preso il Gargallo nelle note,
ammettano che epodi si dicesse il libro compilato da odi pòstume di O.,
fondandosi sul termine gre- co epodem, che significa sopraccantare.
E la terza del secondo libro delle satire sostengono essere stata
scritta nella villa Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne
Orazio avea avuta donata quella proprietà. Riguardo alle odi,
furono scritte, se- condo il parere di Butman, del Dacier e di
altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti
sino al 744, cioè nella sua età di anni cinquantacinque, solo
l'ultima ad Augusto, come omaggio al più grand' uomo del secolo e suo
insi* gne benefattore. O. dalla sua villa aveva spedito
ad Augusto diversi scritti e molte delle let- tere surriferite, e
gliele indirizzò con un viglietto umoristico consegnato ad un Vinio
Frontone Asella, che è proprio l'epistola decima del primo libro. Augusto
dopo aver letto tali componimenti, gli rispose così: (( Sappi che
io sono teco sdegnato, perche in molti di cotali scritti (come sono le satire
e le epistole) tu non parli principal- mente con me. E forse che temi non
ti sia per tornare ad infamia nella posterità, se tu mostri
d'essere stato mio amico ?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero O.
rispose colla prima epistola del secondo libro, che è invero un
capolavoro nel genere sotto ogni rispetto. Il primo libro
delle epistole venne com- posto prima del quarto libro delle odi. Il
carme secolare scritto per condiscendere al volere di Augusto fu composto
nel 737, cioè nel quarantottesimo anno d'O.. L'Arte poetica, che
deve ritenersi il suo capolavoro, e che può dirsi una lettera di-
dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni, può benissimo classificarsi
come terza nel secon- do libro delle epistole, e venne composta nel
741-742, mentre la prima epistola del secondo libro indirizzata ad
Augusto vuoisi essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta
nel 744, avendo il poeta V età di anni cinquantacinque. Nessun autore
al mondo ha ottenuto tanta pubblicità e diffusione e celebrità dalla
sua opera, quanto O. Fiacco (non Flacco, dato che ‘fl’ e impossibile
nella fonologia italiana). È qualche cosa che sa quasi dell'
inverosimile. Basta però per convincersene notare il numero
straordinario delle edizioni delle sue opere, dacché ci furono
tramandate, siansi es- se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti.
Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi precisare chi sia stato
il primo scopritore dei canti immortali di O., né dove rinven- gasi
la prima edizione di essi nei tempi re- motissimi composta. Vuoisi da
taluni che in un museo inglese se ne conservi vestigio. Certissima
cosa é che da molti secoli, sia in Italia che in Germania, in Francia ed
in Inghilterra principalmente, le edizioni delle opere del gran
poeta possono contarsi a cen- tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove
ne sorgono, unite a nuovi commenti, chiose e note illustratrici. È
proprio l'arboscello pro- fetizzato da O.: Laude fra tardi
posteri Farà ch'io guai per fresca Auray arbuscel più vegeto
Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i Quante opere insigni
di altri uomini nati in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed
altrove sono state composte nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute
e scomparse per sempre. E dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere
eccelse degli arabi che scrissero nei tempi del califfi e dei
sultani, e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che
invano i Mechitaristi tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono
cadute neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo, o giacciono
ignorate in fondo a qualche pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha
pro- dotto un fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del
monumento oraziano. Alle opere di O. avvenne un simile me-
raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che
fruttificando, e dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come
si disse e lo confermò Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano)
divennero poi giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato,
si distesero nelle viscere della terra, per tutte le latitudini,
con gagliardia non mai vista. E per disperdersene le tracce, per
abbat- tere tale fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe che la
terra universa andasse in fran- tumi. Dalla nostra Italia,
avventurosa patria del poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli,
appaiono vestigia del portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e
glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta del monumento
oraziano è una fronda fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più
grandi italiani. Non era scorso un secolo dopo la morte di O,
siccome attesta Giovenale, che già le opere di lui, dai suoi
contempora- nei poco apprezzate, servirono in presso che tutte le
scuole di Roma come libri di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché
deve arguirsi che non poche edizioni dovettero farsene in quei
tempi remoti. Ma il primo editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba-
silio Mavorzio, che studia, con Felice grammatico, sui manoscritti e ne
fece redigere non pochi esemplari riveduti e corretti.
Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne le seguenti edizioni
principali antiche e moderne, che sono sparse pel mondo, sopra tali
esemplari condotte: Edizione primaria, senza luogo ed anno,
con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee 26, in folio piccolo.
Altra che non porta data, né firma del ti- pografo che s' ignora, stampate
in lettere rotonde, di forma poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono
solo due o tre esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza
luogo, senza data e senza tipografo conosciuto, pure in caratteri
rotondi, ma molto belli. Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de
Bruxelles, pagine Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta
sopra quella dì Napoli. Milano. Filippo di Lavagna. Venezia. Filippo
Conda- min. Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In folio. Per
Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro Lantini.
Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e degli
antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo. In quarto.
Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra
manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. La prima edizione
Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo Manuzio.
Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Filippo
Giunti. Rarissima. La prima Ascenziana, Venezia. Aldo Manuzio.
Riproduzioni. Paganini. Venetiis. In quarto grande, Petrum de
Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterdamo, Angelo
Poliziano ed altri. Rara. Venezia. Con postille di Gior- gio
Fabricio di Basilea, Mureto. Lione. Due volumi in quarto di
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio,
avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte
correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in Parigi. Anversa.
Teodoro Pulman con critiche rinomate. Parigi. In 8^ Stefano;
anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru- chio.
Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano antichissimo,
ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand andata in fuoco,
manoscritto accreditatissimo. Anversa. Daniele Heinsius. Due volumi
in ottavo. Londra. Giovanni Bond.
Stu- penda, bellissima Anversa. Sevino Torrenzio. In quarto con
dottissimo comento. Anversa. Edizione elzeviriana con note di
Daniele Heinsius. Con disser- tazione dotta di tale letterato sopra le
sa- tire. Anversa. Nuova edizione del medesimo, riveduta con
note. Leida. Variorum, Editore Cor- nelius Schrevelius. Lugdunum
Batavorum. Ex of- ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi di
varii per Giovanni Bond. Rara. Cornelius Schrevelius accurante.
Riproduzione. Anversa. Variorum. Sulla pre- cedente di
Schrevelius, corretta. Parigi. di Dacier. Tolosa. In
8.°. Pietro Rodellio, molte volte ricopiata. Parigi. Ad usum
Delphini. Stupenda. Parigi. Jouvensy. Cambridge. Di Bentley.
Cambridge. Di Riccardo Bentley. Con gli studi i di tale scrittore sopra
Orazio. In quarto. Monumento immortale dell'arte critica, lacerato dai
contemporanei per livida invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam
più volte, ed in Lipsia. Parigi. Due volumi in quarto. Stefano Sanadon,
con traduzione delle opere di Orazio molto stimata. Londra.
Con note del Dacier. Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa.
La suddetta in Amsterdam, riveduta e corretta. Otto volumi in
ottavo. Lipsia. In ottavo di Mattia Ge- snero ripetuta con
aggiunzioni di Zeunio e Both. Parigi. Edizione classica in ot- tavo
di Giuseppe Valart. Napoli. Michele Stasi, con note di Ludovico
Desprez. Due volumi in ottavo. Molto stimata. Lipsia. Due volumi in
ot- tavo, contenente solo le odi, con note ed illustrazione di Ch.
D. Jhan. Edizione Bipontina. Ripetuta in Milano. La stupenda
edizione di Bodoni in Parma. Londra. Due volumi in ottavo di
Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa. La più stupenda e magnifica
si- nora edita di Didot. Lipsia. Mitscherlinch. Mancano in essi le
satire e le epistole, ma sono eruditissimi pomenti e note sulle altre
opere e partico- larmente sul carme secolare. Lipsia. Di Guglielmo
Baxter con note di Gessner e Zeunio. Composta sulla prima edizione
dello stesso editore in Londra. Lipsia. Ti^ volumi in ot- tavo del
Doering. Riputatissima edizione per uso delle scuole. Roma.
Due volumi in ottavo di Carlo Fea. Con critica e note
riputatissime. Edizione bellissima. Parigi. Due volumi in
ottavo di Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi e gli epodi. Ma
è superba. Breslavia, In ottavo di L. Fed. Heindorf, con
conienti eruditi e note. Con- tiene solo le satire. Maneim-Baden.
Due volumi in ottavo di F. Both. Heidelberga. Ristampa
dell'edizione di Carlo Fea di Roma con molte ag- giunte.
Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di Grevio. Contiene le sole
odi. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime note ed aggiunte.
Schmid. Contiene solo le epistole. Lugdunum Batavorum. Un
vo- lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. Zurigo, Gaspare Creili.
Con biografia di Orazio e note. Libro erudi- tissimo e molte volte
riprodotto, e partico- larmente l'ultima edizione quarta, accura-
tamente emendata e corretta, sicché con ragione può dirsi la migliore.
Venezia. Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e
con traduzione in versi e note del celebre mar-chese Tommaso Gargallo. Un
volume in ottavo, preziosissimo. Della vita e delle opere di
Orazio scris- sero pure con profondità di vedute e som- ma
dottrina: Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae, 5 volumi
in ottavo. Berlino Gotthold Leissing, De O., Berlino. Masson, Vita di O..Leida
Eichstedt, Critica ed osservazioni stille opere di Orazio. Jena, Eusebio
Baconiere de Salverte. Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^.
Pa- rigi, Cristofaro Martino Wieland, Traduzione delle opere di O.
con note. Berlino. Morgesten, Le satire e le epistole ora-
ziane. Un volume in quarto, Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori
fran- cesi che convien notare: C. Boudens de Vanderbourg,
Traduzione delle odi di Orazio in versi francesi con biografia
ricavata da vecchissimo mano- scritto. Andrea Dacier, Horace.
Opera latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, Più
sopra mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle
edizioni delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet,
Campenon, Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru,
Ragon, Duchemin, Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy,
Michaux, Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone
Walckenaèr, che nel 1840 compilò una Storia della vita e delle
poesie di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo, opera dottissima ed
insuperabile. E redizione grandiosa del Didot del 1855 in
Parigi, con tavole topografiche e note e biografia, che può asserirsi la
più perfetta edizione del secolo. Riproduzione con ag- giunte di
quella suddetta. E TRA GL’ITALIANI: Metastasio, Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola,
Galiani, Alfieri, Cesari, Tommaseo, Cesarotti, Pagnini, Salvini,
Pallavicini, Colonnetti, Bindi, Gligerio Campanella, Rocco, ed
altri molti scrittori di comenti e studii e saggi critici. Ma
in Italia tra le molte traduzioni delle opere oraziane, la più perfetta e
completa è quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne
sono innumerevoli. In essa, facendo risaltare la bellezza della frase
oraziana, tale ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto,
abbellendola con versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla
musa stessa del gran poeta venosi no. Mi sono avvalso in questa mia
opera ap- punto della traduzione del Gargallo, principalmente in quei
passi della storia, nei quali era necessario dar luce alla dicitura con
le stesse parole di Orazio, le quali forma- no, al dir del gran
Fénélon, uno dei pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne
un tour plus heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens,
avec brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei
versi sublimi frutto del forte ingegno del Gargallo, e dettati in
purissima lingua italiana, per illustrare uno dei più grandi
italiani, ho creduto far còsa grata ai miei concittadini, ai quali, per
questo mio lavoro, chiedo venia e benevola
approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1
Municipio di Venosa venne emesso il seguente proclama: L'idea di onorare
la memoria deità orientale anteriore r^( 212
y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da
Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella
lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Napoli),
ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte
preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del
frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal
Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli, dal Cimaglia, da Mommsen e da altri
storici e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta :
MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri
Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola
incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla famiglia
Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che raffigura
Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al
disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-
giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò aver piena
conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum » di
cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana tale
stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa e
meritoria. Svetonio Tranquillo Vita Morati, Cicerone. Op. Lib.
IV. Atl Herennium. Fabretto. Inscrip. Gargallo Tonìmaso Traduzione
delle opere di Q. O. Fiacco (non FLACCO, dato che ‘fl’ e impossibile in
fonologia italiana) Lib. i., ode 28. i.*
satira Guerrazzi G. D. Orazioni. A Cosimo Delfante. r^-
(io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.* Della nobiltà
venosina. — Non è conveniente avvalersi deirautorità del Summonte circa
il fastigio della nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce
al Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to- pografìa e
sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi annessi, il quale è opera di
Tobia Almagiore, che per mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in
Napoli, fece inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della
città e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta di
varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu- sione si
rilevano ragguagli in altre opere di altri autori. Ed invero, si rileva
dal manoscritto antico più volte ci- tato, e che si conserva nella
Biblioteca Nazionale in Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che
vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata
tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa, mura
raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im- portarono spese
colossali, fossero state innalzate da Lu- cullo, il celebre milionario
del tempo dei Romani, e che fii lui che fece trasportare in Venosa buon
numero di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai
monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata per la
conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica onorifica che vien
riportata dal Corsignani, dal Lupoli, siccome dal Cimaglia, dal Pratillo
e da altri molti (non però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni
esi- stenti in Venosa. Bemusbi. MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D.
D. M. MUTTIBMUS. L. F. C. Vibius
. l. F. M. Bfsssius . F. OB F.
M. Camillius . HONOREM. l. F. >•- M. Mumnius « L*. F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J.
D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas e.
Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte dalla magnificenza,
salubrità e bellezza di essa, non po- che nobili famiglie romane, dalle
quali poi derivarono quei componenti la nobiltà fiorente, che sino
all'inva- sione dei barbari formavano il lustro di quella
bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella
nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 e
proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii del
secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene
fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di
Napoli arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative
straordinarie, tra le quali primeggia quella concessa
dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-
nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il che poi
per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si
successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma
restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii
illustri, scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece
lunga dimora in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-
derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente
lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- « sitatis et hominibus
civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi
abbiamo scritto, noi de- [E già precedentemente Ludovico II, il giovane,
imperatore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle
soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica
lapide esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che
Pirro del Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi
dello splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ceneri di
Guiscardo e di altri sommi guerrieri e duci, sovrani e bali dell' ordine
supremo di Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens
Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la
seguente: StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM
FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E
nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i
nobili venosini si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si
può, e formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni
ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso
cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o
MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina,
(volgarmente oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo. E che la
nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno,
convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista
del 1500 per quanto disadorno scrittore: e così si enumerano
molti doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare fatti
di valore e degni di stima e compenso. Trascrivo V elenco delle
famiglie nobili venosine riportate dal surriferito Cenna, e quelle
riportate da Pietro Antonio Corsignani nella sua opera « De Ecclesia et
civitate Venusiae Historica monumenta selecta > edita, come si disse, che
rimontano sino al precedente secolo deci- mosesto: Barbiani. Dai
quali nel 1434 derivò il conte di Cuneo, Alberico Barbiano, gran
contestabile del Regno di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini,
del quale diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della
sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici.
Deitardis. Gomiti. Plumbaroli. Da cui derivò un Corrado
Plumbarolo, duce preclaro di cavalieri venosini sotto i re
aragonesi. Maranta. Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu-
minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei quali quello di
Calvi, di cui discorre a lungo Giannone, in occasione della scandalosa e
celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata tra i teatini ed i gesuiti. E si
dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. Da essa derivò quel
Jacopo Cenna definito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L
D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che, manoscritta, si
conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani.
Una Laura Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era nobile nolano. Porfidi. Celebre famiglia fregiata del
titolo di conte di Montedpro, ed
imparentata con la nobile casa Sozzi di
Venosa, che tenea la gerenza del principe di
Venosa, Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice. Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani,
Caputi, Simone. Moncelli. Costanzo. Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di
Minervino, la cui nipote sposa 1' U. I.
D. Rapolla della nubile famiglia Rapolla
di Venosa, dei quali il figlio Nicolao
fu protonotario apostolico. De Bellis. De Luca. Da cui derivò queir insigne
cardinale Giovan Battista de Luca, onore
della città di Venosa, autore di opere
preclare in circa quaranta volumi in folio.
Bruni Donato De Bruni fu celebre poeta venosino. E Giordano Bruno o de
Bruni, figlio del nobile Giovanni de
Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (BRUNO (vedasi) scriv un epitaffio sulla
sepoltura di Giacopon Tansillo, figliQ del poeta venosino Tansillo, siccome
attesta Minieri Riccio) non è forse da questa
famiglia venosina derivato
Fioriti. Tramaglia. Ttsct.
Tommasini Palogani. Pagani. Balbi.
Sperindeo. Berlingieri. Violani. Gervasiis. Orazio de Gervasiis fu il più
insigne membro della celebre accademia
venosina, e poeta famoso. Abenanti, Grossi. Protonotabilissimi, Capibianchi, Campanili.
Ferrari, Faccipecora, Leonetto
Troni, Antonello Trono fu esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa Biscioni. De
Vicariis. Rapolla. Dalla quale
derivarono il Clarissimus D. Venanzio U.
I. D. vicario generale Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice :
« Romae triginta fere Annis Curiam
laudabiliter prosecutus in legali f
acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex hac vita discessit. Donato U. I. D. Ed il
celeberrimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1760, senatore del
S. Consiglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio erario. Le sue principali opere furono: De
Jureconsulto Difesa della
Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico
Antonio Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in
ottavo. Vitamore. Moncardi. Lauridia. De Jura
o Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi. Altruda, Vito Altruda
era cavaliere deirordine di Malta. Delle quali famiglie
nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani, due sole compaiono tuttavia
esistenti in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di
essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente epigrafe, riportata
dal Corsignani. JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio
Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi Prognato
MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB
IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB Canonicatu
Insignito, humanab salutis Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos
Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi DIGNI8SIM0 P E la
famiglia Rapolla imparentata con la casa Cappellana e con la Casati, ed
in appresso coi Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda,
iscritta neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella
vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen- tilizio, che il
Cenna bellamente esalta come uno dei più degni di quel sacro luogo, e che
appartenne prima alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si
ammira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costantinopoli, e vi si leggono
le seguenti iscrizioni : Sull’altare: HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA. U.LD. BT.
HOR. DE. BELLA . A. EF. M.
D. EQUES. DE . ORDINE.VICTORIÆ .TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM.
CURAVER . BIDCXVI. àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU
. EPO . VSNO. FUrr . CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA . U . I . D.
PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT.
SUCCESSO . ET . PATRONI. CONSENSUS. ACCESSIT . Sotto l'altare:
SACELLUM . HOC NOBIUS. FAMILIÆ . RAPOLLA VENUSIMAB. . IN .
VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA. RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS .
RAPOLLA. Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li
Frusci di Venosa si rileva che
dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa, D. Saverio
Compagno, e del vescovo del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa
Maria la Scala si volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e
privilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla, e vi si fé*
innalzare inciso su pietra in fronte dell* architrave della porta che dà nel
giardino di tal luogo, (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della
famiglia Rapolla, la seguente iscrizione: CUBICULUM . HOC .
PROPRIO . SUO . ABBB. U. I. D . AX.OISIUS. Rapolla. Patritius.
Vbmosinus. EkBGI. CUItAVtT CRAT1AM . D. MaUAB .
AnDRSAB. Rapolla. Momcalis •Profkssas. suak. kx. rmA-ntc. MXPOTXS.
OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB. FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB .
CASUS. OCCIDBBIT. La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente,
tanto che nel 1807, essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle
provincie del reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran
magnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri
personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al
quale rilasciò certificato di sovrano comt>iacimento per la ricevuta accoglienza,
non avendo vo- luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la
repubblica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra- zione politica
in Francia, accettare titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1°
voi. pag. 4 della sua opera Histoire de la vie et des poesies d' Horace
dice: « La Venouse moderne à, malgré sa faible population, con^
serve quelque chose de plus que son nom et sa position antique^ pouisqu*
elle est le siege d' un eveché,
Ormai ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie
istoriche degli antichi e presenti tempi della città di Venosa Potenza^
tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore del seminario vescovile venosino,
nelle sue note alla necrologia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi
Giannini) riportano, che essendosi disposto di trasportare la sede del
vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo nocumento alla patria di
Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella
capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Consiglio di Stato, con
impegno di illustri avvocati, da far distrarre tale improvvida
risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più di lire ventimila, che non
volle per sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente nobile animo
) Splendido esempio di filantropia Riportata da M. A. Lupoli nella sua
opera quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile Luigi
Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di- stretto di Melfi, si
legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che non lungi da Venosa
un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in una
grotta messa sul ciglione di una collina verso oriente, sovrastante al
fiume che scorre nella vallata sottostante al tempio della Santissima
Trinità, si è rinvenuto un lungo corridoio con altre strade laterali, con
una quantità di sepolcri scavati nel tufo, coperti da grossi mattoni
antichi, con delle iscrizioni indecifrabili, fra le quali se ne osservano
talune, cui soprasta una palma ed un'ampolla > E tale
luogo si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno
ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un forte nucleo di
abitanti viver doveva in tale spianata, che aveva il suo tempio dedicato
alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano
la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer- tezza
arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che si estendevano
verso le colline, che oggidì diconsi Monte e Montalto sino al fiumicello
divento, formava una va- sta città abitata da più di ottantamila uomini.
Che ai tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue e
nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando andò mano mano
assottigliandosi per danni solTerti dai tremuoti, dalle pesti, dalle
guerre e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri che cresceano in importanza,
gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E venne
tanto assottigliandosi da divenire un tempo un borgo, fortificato però,
di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a novella vita. Quei pochi
fieri abi- tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde
la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro- no però
sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine. In essa nacquero
e vissero baldi guerrieri, come si disse, e letterati insigni e sommi
giuristi ed eminenti ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di
genio, de- stinati a grandi imprese. L' antica grandezza
lasciò uno stampo in ciascun abitante di tale ameno e forte luogo.
Ciascun abitante porta con sé una particella dell'aura divina, che
emana da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle e
feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii antiqui^ sostiene
essersi coniate in Venosa delle monete raflìguranti Giove che gitta
fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente la potenza della città di
Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri-
fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a poche città meridionali
d'Italia. Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di O. Lib.
i." sat. Il Vulture. I due versi di Orazio nella sua ode quarta del
libro terzo ed il « pios errare per lucos > han dato campo a non
poche dispute tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri
per- sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una balia
di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del pargoletto prese parte,
tenendolo addormentato in su le ginocchia, fuori la porta della sua casa
rurale in Ve- nosa. Gargallo traduce: Da pueril trastullo
Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia De r Apula nutrici, amar
faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie Tutu a nuazi
arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli.
Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar appulo oltre la
soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si chiarisce che T Apula nutrice
per Orazio era Venosa, usando il tutto per la parte, cioè la Puglia
Daunia. PLINIO (vedasi), (disse e Dauniorum colonia Venusia >, ed
il Voltar appula alla soglia indicava la re- gione del Vultore, mentre il
Vulture era situato nella Puglia Peucezia, quindi fuori dei confini della
Puglia Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu*
cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro per chi ignora la
topografìa delia regione pugliese. È certo che O. intese parlare,
nominando il Vulture, della catena appenninica minore dopo il Vulture,
cioè i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei tempi
erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona parte lo sono tuttora
(contrada Monte, Monte Alto ecc.). Infatti accenna in seguito alla
foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum
Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che
fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra- scorrere per
giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse inteso parlare delle pendici
del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di
Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non
esistevano in quei -tempi, certo in tutto il perimetro della pendice del
Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra abitata, come la
Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore all'epoca romana
della quale si discorre. Del Vulture hanno ampiamente e
dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture), Daubeny
{Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford), il
prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag.
250, Tipi Di Angelis Napoli, XTobiltà e 1)0rgh68ia, Tifi
Tarnese Napou, Uemorìe storiche di Portici Stabilimento Tipografico
Vesuviano Portici, Presso Tautore Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei
Conti Sì Bavoja— Tipi Giannini Napoli. ì Quinto Orazio
Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi Speranza, “Grice ed Orazio” – The
Swimming-Pool Library. Orazio.
Luigi Speranza -- Grice ed Ordine: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – la
scuola di Diamante -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Diamante). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria.
Professore a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del
Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno,
è anche uno dei migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico,
letterario e spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età
moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino. Centro
di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile”
(Milano, Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno”
(Teorie et oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo);
“La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re.
L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la
vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo,
Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was
a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a
priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher.
Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the
three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the
Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI –
enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine.
Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia
animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro
di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia
Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Luigi
Speranza -- Grice ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by
Diogene Laerzio.
Luigi Speranza -- Grice ed Orestano: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’opzione eroica – la
scuola d’Alia -- filosofia siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alia,
Sicilia. Self-described as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something
pompous about Italian philosophers and their isms – Orestano’s ism is the
superrealism!” Grice: “When I was
invited to deliver my lectures on the conception of value, I was hoping it was
a first, but Orestano had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti
nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre
vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato
da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in
contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore
d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si
ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera
principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della
Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed
Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una
scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”,
Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma,
Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di
pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di
popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano,
Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di
Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e
del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà
europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano,
Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano,
Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca
Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca,
Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova
Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni
alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano,
Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano,
Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”;
“Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi
danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia
filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della
moda e questioni sociali, Dizionario Biografico
degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo
Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di
storia, in La politica tra storia e
diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-),ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme:
a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio,
promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua
nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che
come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per . Ora
torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una
valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W”,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0
W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con
segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di
queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come
indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque
riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla.
‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della
volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si
è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di
una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla
determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE.
L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante
constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti
concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori,
dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel
modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità
della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e
repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra
affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi
come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore
nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio
iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al
momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò
facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale,
allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la
volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo
che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui.
In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione
iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati
fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi
interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u”, “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande
interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo
interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a
un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore
morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non
tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del
valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le
costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g”
e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse
altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è
quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u”
pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F, 1
W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)=
0, lim W (ru)= 0,, limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0
lim W (gu)= – 00. pure evidente, che
la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più
IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C, lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL
CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere
le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande
dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno
così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo
punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per
semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)=
T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C
per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e
limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne
ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con
una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni
staranno, secondo la formula principale or ora ricavata, in un
rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale.
In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo)
o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE
E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto
più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o
inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece
quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di
detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui
scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1).
UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la
caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O
COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o,
come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La psicologia
è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia
nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti
psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama
GENOVESI, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato
comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come
nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le
dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione
non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può
rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale
nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando
si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e
degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il
concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale
immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse
attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore
definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un
istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua utilità,
sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella proposizione
universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere che i dubbii
della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i risultati che la
psicologia ci potrà offrire non avranno valore di modificazione del contenuto
normativo della morale, ma bensì tenderebbero a modificare il carattere
formale di essa, come dottrina del dorer essere e come scienza. Al Congresso medesimo
Calò presenta una comunicazione intorno alla Calderoni ritiene che l'assenza
della ricerca e della sufficiente analisi di quello ch'è il fatto ultimo e
irriducibile su cui poggia tutta la vita morale, il giudizio etico, ha impedito
il costituirsi dell'etica come scienza. Molto ha anche nociuto “la nessuna, o
quasi, distinzione che si è fatta tra il giudizio etico e il giudizio teoretico
o conoscitivo, La morale deve invece ricercare come ogni altra scienza, dei
fatti ultimi, elementari, irriducibili su cui fondare l'edificio autonomo delle
proprie investigazioni. L'elemento irriducibile, la realtà ultima, da cui deve
prendere le mosse ogni dottrina morale, è un fatto psicologico, un
sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà sempre al contenuto
normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre la psicologia
intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le conclusioni intorno al
fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla simpatia saranno
negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione presenta i caratteri
della accidentalità e della fluttuazione dei fatti sociali, oppure i caratteri
trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la valutazione etica e una
gradazione fondata su altra base, non su quella della realtà effettiva dei
fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno positive, l'etica, assumendole
come sue proprie, avrà a fondamento il significato psicologico e antropologico
dell'umanità morale e potrà scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso.
Infine TAOROZZI ri-assume il suo credo in queste parole, che tutto si debba
attendere dalla scienza, e che essa sola possa spiegare un giorno perchè
abbiano universale valore massime conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non
mentire,’ “Ama il tuo prossimo. Ogni qual volta noi giudichiamo del valore
morale d'un sentimento, d'un'azione, d'una determinazione volitiva, tale
giudizio si presenta alla nostra coscienza con un sentimento particolare di
approvazione o di disapprovazione. L'esame retrospettivo ci dice, che quel giudizio
non risulta da un meccanico sovrapporsi dei concetti del soggetto e del
predicato (buono, giusto, ecc.), dal paragone delle loro estensioni e
connotazioni rispettive, dalla rivelazione pura e semplice del loro rapport. Ciò
che interviene, e ciò che più importa, è il sentimento di approvazione o di
disapprovazione, di adesione o di ripugnanza. Qui si presenta un problema
fondamentale. Trattasi di vedere se il sentimento di approvazione o di
disapprovazione accompagni semplicemente, come effetto o come carattere, la
rivelazione del rapporto in cui l'obbietto considerato è con quel predicato. O se
quel sentimento appunto renda possibile la costituzione del predicato e quindi,
mercè la capacità di riferimento propria della ragione, l'enunciazione del
rapporto. Questo problema non può essere risoluto senza una analisi comparativa
del giudizio conoscitivo e del giudizio valutativo. E quest'analisi mostra
appunto che, mentre nella funzione conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto,
nella funzione valutatrice è, al contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere
è constatare, attingere ciò che è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello
spirito non è di chi constata, ma di chi reagisce. Non di chi afferma e
riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge qualcosa risultante da ciò che in lui
non corrisponde, ma risponde alla realtà conosciuta. E l'atteggiamento non di
chi afferma o nega, ma di chi si sovrappone alla realtà, o che le assenta o che
le si ribelli, sia che lodi, sia che condanni. Mentre, per il teoretico, il
sentimento è un accessorio trascurabile, per il moralista, esso è la vera
realtà etica, poichè il senti mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto
di giudizio etico. In ultima analisi, ogni giudizio etico si riduce ad
approvazione o disapprovazione d'un sentimento, d'un istinto, d'una volizione,
d'un'azione. Ora l'approvazione e la disapprovazione non sono che due
speciali sentimenti, due forme diverse d’uno stesso sentimento, il sentimento
del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto è possibile in quanto si compie
una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la ragione valutativa ch'esso suscita
in noi. E, insomma, questa stessa reazione che costituisce tutto quanto noi
diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto come soggetto del giudizio. Si
direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica quanto e come vive nel senti
mento valutativo. Questo poi varia e quasi si determina e si atteggia
diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e di venta volta a volta
sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico o dei loro contrari,
di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o di stima di se
stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che ognuna di queste
determinazioni del sentimento di approvazione e di disapprovazione ha una sua
individualità e che l'analisi di esse ci dà l'analisi di tutta la coscienza
morale. Il sentimento del valore, come fatto fondamentale della coscienza
etica, si pone a norma della realtà interiore e dispone gerarchicamente i vari
istinti e le varie tendenze. Un'altra sua proprietà è anche quella di avvertire
ogni atto che rappresenti un non-valore come un'intima contradizione, il che dà
luogo al sentimento particolare dell'obbligazione. Il sentimento del valore è
dunque di sua natura tale da assumere, di fronte al resto della realtà
psichica, un'attitudine speciale e da contrapporre all'esistenza di fatto
un'esistenza di diritto. Esso si distingue profondamente dal piacere e dal
dolore, perchè questi sono stati subbiettivi interessanti semplicemente
l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del valore è obbiettivo anche
rispetto alla individualità del soggetto che giudica. Il sentimento del valore
oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio benessere individuale; sono io che
sento, ma non perme. Altro carattere differenziale è questo, che nei sentimenti
di piacere e dolore lo stato subbiettivo è confuso con l'oggetto della
rappresentazione, mentre nel sentimento del valore, l'oggetto è nettamente
distinto dall'atto valutativo e può essere rappresentato come obbietto di
conoscenza teorica. Ciò ch'è piacevole e spiacevole non esiste che nel
sentimento e per il sentimento, mentre ciò ch'è valutato è chiaramente
rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è insomma conosciuto. Non si può
valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero che la valutazione si presenta
spessissimo sotto forma di preferenza e il valore viene appreso
comparativamente ad altri come plus-valore o come minus valore. Sebbene il
giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel sentimento,esso non
esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della funzione conoscitiva,
la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la funzione apprezzativa. La
grande varietà dei giudizi morali osservabile fra individui diversi dipende
appunto dal diverso modo come sono appresi e considerati gli obbietti,dai
diversi elementi che ci pone in luce la funzione conoscitiva. Così, mentre
l'analisi del processo della valutazione etica è compito della psicologia
morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni morali si riferiscono non
possono esser tratti analiticamente dalla natura stessa dei nostri sentimenti
di valore. Essi possono essere determinati in parte in base alla considerazione
di rapporti for mali della volontà, in parte in base all'esperienza storica e
sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative. CALDERONI, nelle sue
Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è recentemente proposto di porre
in rilievo talune concordanze fra le leggi economiche del valore e della
rendita e le valutazioni morali sociali. In tal modo egli crede che l'economia
politica possa apportare un contributo positivo alla scienza della morale e
aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale può considerarsi, così
Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste vengono fatte da
taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali oppongono a
queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore, e
richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura
determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di
approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli
individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono
perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è
possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento
di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso
di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole
opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia
morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che
cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione;
mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria
e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto
maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni
si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love
Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as
he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin
‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So
we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil
for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be
reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows
who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do
I” --. Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione
eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della nazionalita,
l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico,
l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni. Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.
Luigi Speranza --
Grice ed Oribasio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giuliano’s personal
philosopher. He shares Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises
survive, as does paganism – “Only you shouldn’t use that vulgar adjective,” as
Cicerone says!” – H. P. Grice.
Luigi Speranza -- Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale
nella logica della monarchia romana – i sette re – la scuola di Vallerano -- filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Vallerano, Viterbo, Lazio. Grice:
“Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is supposed to take
part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori della
Repubblica Romana. “De' paragrandini
metallici” (Milano, Fondazione
Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente.
La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di
filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia,
dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione
delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di
Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria.
Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro
centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne
catturato dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco
Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha
onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella
del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla
facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale
di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi
di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia
Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi,
«Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. -- rità assai leggieri, e, se
grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato
aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della
dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da me
corretta, e ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non
appartenne in Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre
a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il
Superbo. Lo sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio.
Quando i generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo
genero -- Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo
concerne; Anco Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella
magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità
regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi
due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a
quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto
e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare il
trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui probabilmente
figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno, nè generi, nè
figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta
contingenza, come legittimi eredi de’dritti degl’ascendenti loro -- Tullo
Ostilio, se si preferisce l'ipotesi, nella quale egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI
ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne
tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la
dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la
memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO -- ; due altri, ne'quali'
non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le
vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto -- i figliaoli d'ANCO --; due
di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di considerare l'Ersilia
dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si rispetta la tradizione,
secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più il padre adotetivo
della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far
valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue
figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema
autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramanda il suo grado
nell'erede necessario della moglie – BRUTO rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo
successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi
furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in
non cale i maschi, ricadde in una persona estranea, cioè non legata di piirentela
colla famiglia reale -- Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi
legittimi per parte di donna, una persona estranea consegue la dignità regia,
ciò avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression'
rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti
correggerne la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se
posso dirlo, in nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità, i miei ragiovamenti,
non sofferirono contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si
volle solamente avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e
ricavati per conghiettura. stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti
senza gran fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor
qualità di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono
messi innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla
successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi
intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io
risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni;
lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche
volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
-- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised
on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their
unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the
consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed
him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to
oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there
are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. PATRIZIO
VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI 3. S. P. DI M. MEMBRO DEL
COLL F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR. ANT. ED ARCHEOLOG.
NELLA STESSA UNIY fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI BOLOGNA CC. CC.
MEMBRO CORRISPOND. DELL* A. SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI FRANCIA,
ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA, UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA CL.DI
LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO . SOC. ONOR. DELLA IMP. E
R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP. E R. IST. LOMBARDO
DELLE SC. DI MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA, DELLA AC. DELLE
SC. E LETT. DI TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA, GRECIA, E
ISOLE IONIE, NAPOLI E REGNO, ROMA E STATI PONTIF., FIRENZE E TOSCANA,
LOMBARDIA CC. CC. CC.M l' ì(? 0 POLITICI j\r rro vjl
Con giunte dell' A. NAPOLI
STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites, mon garcon, faites, ré{K>nd lo vìeux
radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes qui ont cbassé et. ..et tous
ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns commun et d'humanité, qui
lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de Dieu, qui aiment le mensonge,
qui pensent ameoer le rógne de l’atnour et de la fraternité aree des
piques, des bouteilles de vilriol, aree le meurtre et le blaspbéme,
dites-leur à eui et à tous ceux qui pensent comme eux qu’un
vieillard...dont les ebeveux ont bianchi au Service de la cause du peuple...,
qui contempla lecraquement des nalions en g'3 et qui entcndit les premieri
cria d’tm monde au berccau, qui, lorsqu’il était encore un enfant, vit
venir de loin la liberté et qui se réjouit en la voyant comme devant une
fiancée, et qui pendant soixante pé nibles années, l’a suivie à travers
les soliludes ; - diles - leur que cet homme leur eovoie le deraie r
message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de
leurs convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle
terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de
leur r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les
esclaves de leurs convoitises et de leur s passioni, les esclaves du
premier coquin venu à la laogue retentissante, du premier charlalan veuu qui
dorlote leur opinion pcrsonnclle ; dites-leur que Dieu les frapperà, Ics
fera renlrer dans le néa nt et les dispenserà jusqu’à ce qu’ils se soient
repentis, qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles ames, et qu'ils
aieut relenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis quelque soixante
ans ; dites-leur que la carne du pcuple est la cause de celui qui créa le
peuple, et que le malhcur toinbera sur ceux qui prennent les armes du diablc
pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? » Sandy
Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley Revue des deux Mondes. DUE
PAROLE A CHI È PER LEGGERE Stampo ancora una volta, cedendo alle
lusinghevoli istanze di parecchi amici miei, questi Opuscoli, a'
quali m’è altresì parulo bene d' aggiungere qualche annotazione
nuova dove V argomento s embravami o richiederlo, o meritarlo.
Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna accoglienza soltanto, la
quale a essi Opuscoli fecero que' che m' onorano da lungo tempo della
loro pregiata amicizia, e le mie povere cose hanno abito di giudicare con
molta indulgenza, ma sì a quel che altri, a me per lo addietro
ignoti, o,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di antecedente amistà, ne
scrissero ne' giornali, o con private lettere me ne significarono, io debbo
tenermi come bastantemente ricompensato della quale che siasi fatica durata nel
comporre le pagine che qui appresso seguitano. Tra coloro che più
contribuirono alla buona fortuna della mia impresa ho debito di noverare
principali i dotti e benemeriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà
Cattolica — E so la mina degli sdegni a’ quali questo atto di franca
gratitudine è per metter fuoco nel campo nemico, poiché campo nemico non
manca. Ciò non mi sarà impedimento al fare lealmente il mio dovere di render
loro pubbliche grazie. II Giornale — la Civiltà Cattolica — è a troppi, e
in troppe sue parli un osso non poco duro da rodere. Nel difetto d'
argomenti logici, si può a libito dirigere contro al valoroso drappello
de' dieci o dodici campioni che vi brandiscono cotidianamenle la penna,
batterie, da ogni lato, di que’ pessimi argomenti rettorici, che si
chiamano, in arte, argomenti ad odium, e ad invidiam : resisterà
però illeso ed invulnerabile agli strali spuntati de' loro sarcasmi, come le
legioni romane restavano salde ed immote agli urli co' quali i barbari,
nella loro impotenza, tentavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto,
facendo l’ alto dello scherno e del vilipendio. È opera dei rugiadosi che
si sarà provato con ciò ? Si sarà lasciata una prova di più della misera e
svergognata dialettica del nostro secolo, rotto a tutte le perversità, ed
avvezzatosi a dare alle villanie valore di ragioni. Tornando al mio
proprio libro, censure fino ad ora, le quali valgano la pena d’ una
speciale risposta, non le ho vedute, nè udite. Sunt quibus in dictis videar nimis acer, et ultra
Legem. e, rileggendo a mente fredda, conosco l'
acrimonia di certe espressioni, la qual forse sarebbe stato meglio tem
perare un po' più. Tuttavia, ben ponderata ogni cosa, ho creduto dover
lasciare tutto come stava ; e ciò, in primo luogo, perchè questa in somma è una
ristampa, la qual non dee mentir al suo titolo ; in secondo luogo, perchè,
al postutto, muri può dire che, contro ad alcuno singolarmente, abbia
combattuto e combatta con armi ripassate alla còte samia. Il mio proposito fu
ed è, non di fare duelli, ma battaglie. Le persone io le ho sempre rispettate e
le rispetto, perciocché ho voluto, e voglio, esser libero ( ed esco ornai
dalla metafora ) di trattare /’ errore pervicace e spavaldo con tutta
quella severità ed austerità di forme eh' et merita, e che un uomo,, il quale
ha sentimento di sua dignità, rifugge dall’ adoperar contro
all’errante. L’errante è, quanto alla carne ed allo spirito, consanguineo e
fratello nostro. Niun può sapere s'e i non sia più presto un fanatico ed
un illuso, che un perverso, od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al
fare in sé rispettare la santa emanazione del soffio divino ricevuto, od
ereditato, nella fronte. È sempre la creatura celeste, che, se cadde, può
rialzarsi, e che, quand’anche, per propria colpa, è in terra, e più al basso
che in terra, esser dee per noi, più ancora subbietto di compassione, che
obbietto di collera. Ma V errore staccato dalla persona, l' errore
lasciato in tutta la sua schifosa nudità, non ha diritto ad alcun
riguardo, e vuol essere trattato senza discrezione, senza misericordia.
Quanto a colui che avendolo in sé incorporato, sé da quello non
distingue, ed a sé stima dette le ingiuriose parole, che quello solo
feriscono, tal sia di lui. Più di cosi non aggiungo. E forse non
era nè manco necessario dir così : tanto più, che, nell’ antica
prefazione, ciò stesso, comechè più brevemente, aveva significato. 1
discreti perdonino. Gl'indiscreti riconoscano che queste ciance premesse
per lo meno non hanno il torto della prolissità. wmmm PARERE
D’ UN AMICO INTORNO 11 MIO SAGGIO Ho Ietto attentamente la prefazione,
e le due dissertazioni vostre. Io credo che abbiate ragione. Avete però
del pari prudenza? II mondo è oggi troppo malato. Certe verità
dette con durezza qua e là soverchia fanno l’effetto del dito
stropicciato sulla piaga viva. Il meglio che vi possa accadere è di non esser
letto. Se leggeranno, le grida saranno alte .... terribili. Perchè stuzzicare
il vespaio? Ciò non è degno della vostra vecchia esperienza. Il passato non vi
basta? Pensateci. RISPOSTA Ho pensato e stampo la
prefazione, e le dissertazioni. Le considerazioni che mi schierate innanzi
hanno molta verità, ma non mi rimuovono dal mio proposito. La
prudenza ! - Sta ottimamente. La prudenza è però spesso il soprabito
della vigliaccheria ; e in questo caso non è niente altro che un belletto
dell’egoismo. Per non incorrere nel male proprio .... per non
turbare la propria pace per non tirarsi addosso disturbi o peggio ....
per non guastar, come suol dirsi, i fatti suoi, s’ban da lasciare, senza
darsene per intesi, le menti umane sempre più travolgersi, le opinioni sempre
più corrompersi, certa gente accrescer la pervicacia nell’errore, e
propagarlo a tutto potere. Sentendosi bollire in corpo la verità
utile, ed affacciarlasi alla bocca, s’ha da ringhiottirla, o sputarla (
scusate la parola ) nel fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’anche s'è
persuasi, che a gittarla là alla palese sarebbe bene ; che questa verità
messa in pubblico sgannerebbe alcuni r eh’ essa suonerebbe alto all'
orecchio d’altri, e servirebbe a svegliarne il coraggio addormentato, o
gioverebbe almeno a restare come testimonio a’ futuri che v’è, pur tra
noi, qualcuno, il quale ricusa le complicità, protesta virilmente
contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne sdegna com’è il suo
debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita e minaccia scompigli
e rovine, invano si confida d’avere il monopolio della franca ed ardita
parola. Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.
Non pensando, che al mio privato materiale vantaggio, avete dimenticato a mio
prò il resto del mondo. Io sento d’ amarmi men di quel che voi mi amate.
Intendo benissimo, che scrivere com’ io scrivo, è prepararsi disgusti
.... e forse peggio. Ma considero ch’io son vecchio, e nell’ ordine
naturale poco ancora mi resta a vivere. La mia povera e caduca persona non è
ornai di tal prezzo che siavi interesse per me a risparmiarla. È
lungo tempo da che ho perduto il sapor delia vita, e che le sue
dolcezze non mi fanno gran gola, nè le amarezze grave offesa al palato. La lode
è un amo che non mi passa la pelle. Il biasimo ( dove creda non meritarlo
) è un’ortica che non mi punge. La minaccia è contro a sì poco che a
tenerne conto è una miseria. Di me sarà quel che piace alla Provvidenza. Nella
minuzia di tempo che a vivere mi rimane, vorrei pur fare il bene nella
maggior misura che posso, a qualunque mio costo. E poiché il pubblicare queste
mie carte mi sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche bene
possa recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi,
dunque, non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto ch’io sia soldato.
Sarebbe pur bella che al soldato si consigliasse di pensare alle ferite, alle
quali battagliando s’espone ! Per altra parte, a me tocca
ricomperare il tempo perduto, ed affrettarmi a farlo. Troppo mi dorrebbe il
lasciare di me tal memoria in questo mondo che dia giusto diritto a
suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia vita possono aver
fatto credere ch’io mi sia. Non nego, e sarebbe ridicolo il
negarlo, d’avere avuto anch’io le mie politiche illusioni ( certo però
non quelle di gran lunga, le quali oggi corrono il mondo, e sono in
gran favore presso tanti ). Sento il dovere di far conoscere a
qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere col più de’ cosi
detti liberali d’ oggidì, e che istruito ornai ioti all’ esperienza, non
sono nemmen da confondere con quell’io che già fui, e molte mutazioni ho in me
fatto. Costi ciò tutto che s’abbia da costare al mio amor proprio, voglio
che Io si sappia. Gli altri posson tacere ; io non lo posso, nè Io debbo.
E so che dirassi da taluni ch’io adulo que’che regnano. Veramente
crederei che tutta la mia vita passata m’avesse da essere scudo contro
alla bassezza di questa accusa ; tanto più che quegli stessi i quali la
daranno (dove tuttavia questo ardiscano ), dovrebbero ricordare, se quando essi
regnavano pur testé, io li adulava. Sarebbe avere aspettalo un po’ troppo
tardi a mutar natura. Ma voi dite eziandio, che il mondo è troppo malato,
e che le sue piaghe non vogliono esser toccate com’ io qua e là le
tocco, senza molta discrezione. Caro amico ! la vostra seconda
proposizione distrugge la prima. Se accordate che la malattia del mondo è
grave, pretendete voi di curarla coll’acqua di gramigna? Eh si: vi son
medici che non curano le malattie, ma si contentano di guardarle. Se
morte sopravviene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le mani.
Io non sono di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il callo,
evoltano tutta la malignità aldidentro;ed allora l’arte insegna di
trattarle col caustico. Si fan cerimonie, e si risparmia la sensibilità quando
il male é leggiero; e questo, per vostra confessione, non è il nostro
caso. Da ultimo io vi prego a considerare ch’io mi guardo
scru * pelosamente dall’attaccare le persone. Il mio dogma é
Parme personis, dicere de viliis. Contea il male non mai congiunto al
nome di tale o (ale altro, credo mio diritto, e — li — mio
debito scagliarmi con tanta più veemenza quanta mi sforza ad usarne
l’animo grandemente commosso. Delle persone io non sono, non voglio, e non
debbo essere il giudice; nè v’è il prezzo dell'opera ad esserne il pubblico
accusatore. Per altra parte il pubblico non perde nulla per cagione delle mie
reticenze. Le persone s’accusan da sè. La loro moda è di non dissimulare
quel che pensano, quel che vogliono, quel che van facendo. Per chi’
scrivo? Pei popolo? Il popolo non legge. Tra que’ che leggono, gli uni
non han bisogno di leggere ciò ch’io scrivo, perchè ciò eh’ io scrivo è
quello che essi medesimi scriverebbero se avessero a scrivere. . . quello
che sanno già, e di che sono persuasi tanto quanl’ io lo sono. Gli
altri, nel maggiore lor numero, son oggimai venuti a tale, che,
quand’anche io fossi aitr’ uomo da quel che sono, cioè, quand’anche fossi più
eloquente oratore di Demostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di
Zenone, e d’ Aristotele, non si lascerebbero smuovere dalle opinioni loro,
delle quali han fatto carne e sangue. . . una (falsa) religione... un
culto... una necessità... una parte principalissima, e la più soave, delia lor
vita interiore ed esterna. Ove fosse pur possibile che consentisser d’aprire
gli occhi dell’ intelletto alla luce de’ ragionamenti, e si lasciassero
illuminare nella cecità alla quale son venuti di deliberato e volontario
proposito, e vedessero, perciò vinti, il bisogno d’ abbiurare la politica
fede in che Guor vissero e giurarono di morire, non oserebbero farlo,
vincolati, come sono (impavidamente diciamolo), alle sette che li tiranneggiano
e ne tengono in catena ogni libertà. Cosi, solo a pochissimi, posso io
rivolgere la parola con qualche speranza che sia per tornare non inutile; e son
que’ pochissimi, i quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che di
questo credere abbiano a sè fatto una passione, e non un legittimo atto
della facoltà intellettiva, al quale sian giunti per lavoro di
ragionamento, soggetto, come tutti i legittimi atti di ragione, alla
necessità di sottostare alle leggi che governano la potestà raziocinante,
e che debbono dominarla. Io m’inganno però anche rispetto a
essi ultimi. Noi viviamo in un secolo, nel quale la ragione stessa è come morta
dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti, e falsificandoli.
Due già erano, dal tetto in giù ( e voglio dire nelle questioni dove
rivelazione non ha luogo ) gli elementi necessari — coessenziali.... tendenti a
rafforzamento reciproco, per dare fermezza alla morale governatrice delle
volontà e delle azioni umane, ragione (d’individuo), ed autorità
(collettiva dei più savi, la cui ragione siasi guadagnata, per ogni
correr di secoli, maggior fede presso l’universale, che le spicciolate
ragioni di tale o tal altro o di stuoli comparativamente piccoli, e d’un opinar
dissonante ). Il qual secondo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben
considerarlo nella sua vera e giusta natura c quiddità ) ragione aneli’
esso, ma una ragione preponderante e superiore, come quella che non è il
giudicare soltanto d’ alcuni separatamente presi, e ristrettisi nella lor
propria e privata impotenza, fallibilità e pochezza, ma è la quinta
essenza delle ragioni dei più ( chè questa sola, dai tetto in giù, pur
sempre, in certe questioni di senso comune, è l’ autorità vera o
legittimamente sovrana ). £ dico dei più, o sia che si contino nel
numero, -o che si pesino nel valor loro intellettuale: i quali perciò,
quanto son maggiore stuolo nel lor consenso prestato a equipollenti
sentenze quanto rappfesentan meglio, colla lor somma, tempi e scuole e
popoli diversi... quanto hanno maggiore e più costante comunion di
pareri, non ostante la diversità di sangue, di luogo, d’educazione,
e di tutte le secondarie influenze, tanto fan più sicuramente una forza morale,
clic è forza di natura, non d’arte, e che è qualche cosa più potente e
più salda che la tanto oggi predicata sovranità del popolo; poiché èia
sovranità, non d’un popolo, ma la sovranità della specie umana
tutta intera, esprimente il suo voto colla più legittima e la più
autorevole delle maggioranze possibili ad ottenersi. Or noi, uomini
del secolo XIX, de’ due soprannominali elementi, uno e il più gagliardo,
ripudiammo... Y autorità-, ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione
(d’individuo), cioè V anarchia! Noi, tutti o quasi tutti
(dico noi ragionatori nel popolo, e consenzienti a ragionamento ) abbiamo
stabilito in cuore questo primo articolo del nostro atto di fede
politica. Io non crederò mai che quello che persuade il mio proprio
intelletto; e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io crederò
conira ogni persuasione degli altri, contra ogni dottrina di sapienti o di
popoli, contra ogni sperienza di presenti, di passati, o di futuri, contra ogni
domma di religione, contra ogni legge di governi... E stabilita una volta
questa democrazia delle fedi... decretato anzi, che, in argomento di fedi
d’ogni genere, non è governo alcuno possibile, ma gli uomini han tutti naturale
e iualienabile diritto d’indipendenza reciproca ed assoluta dove ornai
vassi, ed a che? posto che le fedi, cioè le persuasioni dell’ intelletto, sono
il perno, sul quale s’appoggiano per muoversi le volontà umane. C’è più
possibilità di leggi? C’è più speranza d’obbedienze, altre che tirate
colla forza materiale? C’è più virtù di logica? C’è più società ?
(li ISullius addiclus jtirare in rerba mtigtstri ama ogni giovane
dire di sè slesso uscito ap|»ena dalle scnole di quella filoso- [Persuadetemi,
noi diciamo, e mi piegherò ad obbedire, senza combattere il vostro
comando con ogni mio mezzo. Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero,
e quel che lia, che oggi, sotto Dome d’ eclettica, invade un
grandissimo numero di scuole, e quel eh’ è il peggio, anche colla innocente
approvazione, e sotto il patronato, di maestri ottimi, i quali mostrano di non
aver ben compreso a quale indirizzo con ciò guidano gl' illusi discepoli.
Se l'avesser compreso, si sarebbero accorti, che professare eclettismo è
professare la negazione d’ogni vera certezza, riducendo quella maniera di
certezza, che pur si concede, ad un fenomeno d’individuo senz’alcun
valore per gli altri individui liberissimi di preferire ciascuno la stia
propria certezza alle opposte altrui, comechè d’un numero quanto sì vuol
grande, c consenzienti in una medesima opposta sentenza.
L'eclettismo non è una filosofia, ma una negazione della filosofia
quale scienza altra che opinativa. Essa è anzi peggio che ciò, perchè
mentre nega una certezza intrinsecaad ogni filosofia d'individuoo
d’individui (per numerosi eh’ essi siano nel consentimento ad una stessa
filosofìa), e mentre non s’ avvede, che con ciò viene a negare, per
conseguenza, ogni autorevolezza intrinseca a tutte le certezze individuali,
confessandole tutte intrinsecamente incerte, accorda non pertanto a
ciascuno il diritto di fidare nella propria certezza, e, quel eh' è il
più, il diritto di regolare le proprie azioni a dettato di questa incerta
certitudine : ciocché viene a dire, che, nel tempo stesso nel quale afferma la
fallibilità di tutte le certiludini individuali, afferma nondimeno f
infallibilità loro nell’ applicazione all' individuo, dando a esse il
diritto d’ingannarlo, e all’individuo il diritto di seguitare unicamente questa
guida fallace, quando, a proprio esame, non gli paia tale. E cosi, in luogo d’
una morale, viene a stabilire e farne legittime tante quante piu vuoisi o
non vuoisi. L'eclettismo non è nè manco un metodo, come alcuni
spropositando dissero, perchè non indica- una speciale strada da seguire nella
ricerca del vero. Esso è niente più che una professione di libertà e d'
indipendenza nell’opinare ; è un assoggettamento a niente altro, che alla
ragion propria. Filosofia eclettica è parola che non ispiega nulla
quanto alla natura delle dottrine. Dice solo che il libro, il quale reca
in fronte questa parola, è scrìtto seguitando il dettame della ragione dello
scrittore, fattosi giudice supremo d’ ogni ragionamento ed opìuamento altrui.
Cosi, tutte le filosofie, per diverse che siano, c 1’ una all' altra
contraddicenti, possono intitolarsi, del pari, eclettiche, e tanto più
eclettiche, quaulo più professanti indipendenza. Messo taluno alte
strette, crede d'aver salvato a bastauza la mala parola si fecouda
d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando accorda alla
ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone fonda[che nii
comandale è giusto . Ma siam noi tutti atti ad essere persuasi? Gl’ingegni
nostri son tutti di quella virtù, di quell’addestramento, di quella
purità e serenità, che li fa esser buoni a intendere un raziocinio, a non
lasciarsi illu men late dell’ eclettismo, parla della retta ragione, cioè
convenientemente usata e normale; e non s’ accorge, che, colla sua
risposta o rinega la scuola eclettica e la disdice, o ne lascia interi tutti
gl’ inconvenienti ed i difetti. Che cosa è la retta ragione, e la
ragione convenientemente usata, e normale ? Ad esclusione de' notoriamente
pazzi ed universalmente tenuti per tali, e perciò per non uomini, o per
non più uomini ; e de’ rozzi ed incolti, che riscuotono risaie da tulli,
e son tenuti universalmente per incompetenti, ossia per non ancor uomini
(i quali ultimi tuttavia del ticchio dell’ eclettismo non vanno immuni,
nè si di leggieri della loro autocrazia e indipendenza si lasciano
spodestare ; e il fatto odierno di tutte le filosofìe di piazza più che
troppo lo prova ), ognuno di noi, che abbiamo il mesticr d’ occuparci di
studi e di stampa, crediam d’ usare la ragion retta, e convenientemente usarla
con ogni normalità, e troviam facilmente, con poco impiego di senno ed
industria, un coro grande o piccolo di lodanti, il qual basta per darci
persuasione, che la ragion nostra è per lo meno tanto retta e normale quanto
quella di chicchessia. Peggio è che vi son uomini, di ragione, per fermo,
squisitissima, e universalmente riconosciuta come tale, de’ quali, per
conseguenza, mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a ottima
norma, e non sanno usarla ; e pur mostrano, col fatto, che le loro
ragioni li conducono a dottrine opposte.... 0 vuoisi dire che la
ragion retta e normale si riconosce a certi criterii suoi, che non sono
della ragione d’ individuo, ma sono d’ una universale ragione, a' quali
criterii debbono le ragioni individuali commensurarsi, accettandoli per una
norma estrinseca alla quale debbano affarsi ? Ma ecco dunque rinegata
allora e disdetta veramente la scuola eclettica, e confessato il bisogno d’un
dommatismo,' al quale debba soggiacere ogni opinar privato, perduta la libertà
della ribellione c l' indipendenza.... Facciasi tutto che vuoisi,
ci è appunto nella filosofia necessità d’ un dommalismo dominante i capricci e
le contraddizioni degl' ingegni in certe fondamentali questioni costitutive del
viver morale e civile. L 'eclettismo potrà permettersi all’ amor proprio
d’ognuno nelle altre questioni, come una concessione di poco o niun nocumento.
E nondimeno, anche in quelle, il giudizio dell’ individuo dee sottostare al
senato degli uomini che si chiaman competenti . Ma questo non è un
argomento per una nota, per la quale il poco che se n’ è detto 6 troppo,
mentre ciò che ad una nota è troppo, ad una trattazione conveniente è men
che poco . ] dere da un sofisma, da un paralogismo, a por nell’
esame * delle questioni la necessaria preparazione di scienza, a
spogliarsi di tulle le prevenzioni dell' intelletto, dell' affetto,
dell’interesse? Siam tutti veramente uomini ed uomini maturi; o molti di noi
non sono, e non restano, fanciulli sempre, e non sono, e non restano, bruti, o
quasi-bruti ? A tutto questo nessun pensa a rispondere. Il primo
articolo del simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur fermo. Io non
crederò, se non mi persuadete; e non farò di buon accordo, e senza
resistenza, che quello che sarà conforme al mio credere !
Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente. J)irassi, che non
tutto alla sovranità del proprio intendimento è dato, ma non è, nel fatto, chi
non fortifichi, ancor oggi, le suggestioni del proprio intendimento coll’
autorità di numerosi stuoli d’ amici e d’ uomini del proprio partito,
ovunque sparsi, e in più d’un paese predominan ti. Aggiungerassi, che la
fede nou è atto di libertà, ma di coazione morale, alla quale l’
intelletto-, che nou è potenza libera, non può resistere : ma faci! cosa è dare
risposta. Si, per fermo. Contro alle necessità imposte da
natura non cosi di leggieri vassi. O vogliasi, o non si voglia, non
si può restar soli del proprio parere, se nou s’ è monomaniaci, che è dire
malati di cervello. L’istinto stesso ci spinge a metterci all' unisono con
altri, verso i quali ci attraggono simpatie naturali o artificiali, e a’ quali
si crede, perchè si crede a noi medesimi : e v’ è in noi tendenza al formarci
un mondo di que’ che ci accostano, e che accostiam noi, magnificando ed
esagerando il valore e il numero loro. Cosi, quando il mondo che ci siaui fatto
pensa e crede come noi, e noi crediamo e pensiamo come quello, ci palelle
qiiesta universalità parziale e locale valga la vera universalità potente a
vincere tutte le contraddizioni. Ma può ella esser questa l'autorità
destinata a fare spalla alla ragion privala di chicchessia, o ad essere
uno de’ due puntelli del I' uomo, postigli da due lati per impedirgli il
cadere ? La specie umana è forse un partito, ed è una ragion di
partito la ragione umana? I partili forse non s’ingannano, e non
ingannano? Non hanno passioni che velano il giudizio? Non hanno interessi
che muovono le passioni? O nou v’é obbligo, nelle grandi questioni umanitarie,
non di misurare il proprio deliberare e credere col deliberare e credere
di ((udii, o pochi o molli, a’ quali ci stringono i nostri interessi e i
nostri affetti, ma di misurarlo con quel che delibera e crede la sola legale
maggioranza del genere umano, cioè quella che si raccoglie in una somma,
comprendendo nel computo i popoli di tutte le età, di tutte le stirpi, di
tutte le regioni, e dando particolar valore a que’ che si reputaron
sempre i più savi, i più probi; e riguardando un po'nella verificazione
delle dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i dialettici
chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro, i quali, se
contrari alla perfezione della specie intera, significano, con ciò stesso,
efficacemente, la falsità d e’ principii, donde que’ conseguenti
discendono? E istituita questa misura e questa comparazione, non bassi egli
obbligo, per una generale norma, di dar sempre più valore
all’espressione ultima di quel sentimento della vera maggioranza degli
uomini, che al sentimento suo proprio, e de’ suoi colleglli ed amici, per
numerosi che paiano e siano? o siani venuti a tanto stravolgimento di
logica, che ornai l’ autorità di ciò che si chiama il senso comune, ed è
appunto il da noi descritto in ultimo luogo, è distrutta ed annullata ?
Dopo di che, qual forza ha più l’altra obbiezione dedotta dal
supposto, che l’inlelletto non soffra violenza, e che, rispetto al credere, non
si è liberi di credere quel che si vuole, ma si è costretti a regolare la
propria fede secondo la luce interiore, d’onde essa fede ha unico procedimento?
Ammetto il fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle preparazioni
estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo
ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual diritto scaturisce ? Forse che
regolar dobbiamo le nostre azioni interne cd esterne, secondo la suprema norma
di quel che all’ intelletto nostro pare unicamente vero? Non già.
L’obbligo è d' umiliarci, e di riconoscere, una volta per sempre,
l’inferiorità del nostro intelletto, quando ci accorgiamo che i privati
opinamenli nostri son contraddetti dalla grande universalità degli
opinamenti dell’umana famiglia, considerata nella totalità sua presente e
passata; e di lasciare allora da parte il falso lume del proprio
intendimento per diriger noi e le cose nostre coll’altro lume tanto più
sicuro, eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti senso. Ed
intendiamoci bene, a evitar tutte le ambiguità. Qui non parliamo delle
questioni, intorno alle quali il cornuti senso non ha luogo, ne
competenza, nè autorità... di quelle questioni, che non son fatte per
esser trattate da tutti, e che non bisognano a tutti per la -loro normale
esistenza e sussistenza... Qui si tratta di quelle questioni, le quali
possono e debbono chiamarsi le grandi questioni del genere umano: le
grandi questioni teoriche, fondamento sommo da fatti appartenenti
ad un tempo di tralignamento, a svantaggio e discredito delle aristocrazie, non
può in nulla percuotere le dottrine che qui si professano. La questione
allora sarà al più, se i ceti aristocratici possano mai realmente preservarsi
dalle mutazioni che li fan perniciosi più presto che utili, e ridursi a
tale di conservare piena conformità col tipo migliore, o di riguadagnarla
; ciocché per me non è nemmeno una questione, e non può esserlo per
alcuno, il quale tutta la potenza delle buone arti educatrici conosca.
Risaliamo dunque, ripeto, al tempo di certe vere ed antiche aristocrazie
cavalleresche, normalmente condotte a quella natura, che aver denno per
essere dell’utile specie da noi voluta, e spesso stata e vedutasi nel
mondo. In esse voi troverete familiari alcune virtù sommamente utili
al popolo, e diffìcilmente reperibili altrove nel numero e
coll’abbondanza che più sono desiderabili. Chi noi sa ? Nelle
prosapie aristocratiche, principalmente, se non unicamente, può sperarsi- di
trovare, ad ogni necessità, i veri patres palriae, preparati a tutti i
bisogni ; cioè quegli uomini autorevoli, potenti, coraggiosi, avvezzi a
mettersi fuori si dignus vindice nodus, godenti già il privilegio d’essere
ascoltati con riverenza, con effetto, assennati, sperimentati, periti, probi,
pe’quali è fatto naturai dono, ancor più che artificiale, tutto che è
generoso, nobile, magnanimo, eminentemente civile ed utile a civiltà ; e
prima la lealtà oggi si rara, il eaudore, la fede, la incorruttibilità, la
fermezza, il disinteresse, la franca ed inviolata parola, quella che
proverbialmente pereiò si dice parola di cavaliere ; il mantenere a
qualunque costo i patti e le promesse ; il non mai mentire ; il religioso
astenersi da ogni cosa vile o brutta... Non è la santità
de'perfelti in religione, nobil dono di Dio, e privilegio sommo di grazia,
sdegnoso per solito di queste cose terrene e caduche ; è la virtù antica
e civile, una cosa illibata, ingenita, uscita dai paterni lombi, ed
avuta da natura, più ancora che da innestato ammaestramento ; che perciò non
costa fatica, nè sacrificio, ma è ab ovo e per traducem, fin dal primo
impasto dell’uomo e della razza. — Con questo, è l’abitudine dell’
anteporre l’interesse pubblico ed altrui al proprio e privato... è la
naturale generosità e larghezza... è il preferire quasi istintivo del
retto all’ utile... è la disposizione avita di tutte le cosi fatte
stirpi a eminenza di cittadine virtù ed attezze... il primeggiare
nel ci vii senno e consiglio... il gittarsi innanzi, come il ’ prode
destriero al romore delle battaglie, anche non chiamati, nè pregati, né
desiderati, in tutti i grandi e solenni bisogni della cosa pubblica,
senza risparmio di sè e delle sue fortune... il trovarsi pronti e
preparali a soccorso, a protezione, a sosteguo, a sovvenzione, a
incoraggiamento, a guida, a ufficio di capitani e di porta-bandiera. E I’
esser sempre caporioni agli altri nel bene, e caporioni efficaci,
ascoltati, sentiti, rispettali, obbediti... l’aver coraggio civile o militare
secondo clie fa d'uopo... il guardare dall'alto al basso il puro e vile
materiale interesse, e il cercar sempre nelle questioni il lato della
moralità e della giustizia. Non mi state a dire che queste qualità
preziose son rare come le mosche bianche. Rare forse oggi, vi ripeto :
ma non rare in ogni tempo ; non rare quando gli uomini s’educavano a modo
antico. E se si riusciva ad ottenerle, quando a quella forma s’ educavano
essi, io non veggo, perchè richiamando le stesse cagioni, non s’abbiano
ad ottenere, e non si possauo, gii stessi effetti. Non mi venite a
soggiungere, che altrettanto e meglio, per forza di conveniente
educazione, puossi ottenere fuori delle privilegiate caste. L’educazione
è cosa sempre troppo artificiale, e troppo perciò difficile a condursi a
buon termine, se natura non agevola, e condizioni intrinseche non
favoriscono ; e l’una e l’ altre non favoriscono, se fin dai primi
istanti non concorrono ; e dai primi istanti non concorrono che assai di rado,
e solo con qualche frequenza, quando certe disposizioni son fatte dono
abituale per lunga serie di generosi avi, e quando ogni cosa che è
intorno le seconda. Imperciocché indipendentemente da quel che allora è
dato per una felice armonia del fisico col morale improntata per concepimento,
v’è lo spontaneo innesto che nou può mancare a chi è uato in mezzo alle
morali qualità che si voglion generate ; a chi le ha trovale in casa, e
n’è stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a
chi non ha incontrato, anche uscendo" di casa, che quelle, come cosa
propria della casta in mezzo a cui vive. Le quali cose tutte non sono,
per fermo, allo stesso modo, in uno stato dove non è che democrazia,
pe'figliuoli degl’ingenliliti da un giorno, e degli arricchiti. Perchè in
questi per solito le ricchezze e l’innalzamento è dall’industria
mercantile o quasi-mercantile ; e l’industria delle mercature e
de’com fu merei, pur troppo, a esser promossa, e tanto da
generare tesoro, ha bisogno d’accompagnarsi con amor di guadagno, e
d’ esserne preceduta come da suo naturale stimolante : amor di guadagno,
che è passione per sè, non dirò vile, ma certo un po’ bassa, e non troppo
generativa di virtù politiche. Ed ha radice d’egoismo e d’interesse materiale e
personale, due interessi che non poco penano a subordinarsi all’interesse
morale, tanto da contentarsi sempre delle seconde parti. Donde poi viene, che
nelle case di si fatti (non ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli
esempi non sogliono esser quali in quelle della vera e buona aristocrazia ;
e colla rarità di questi esempi va proporzionata la difficoltà
della fruttuosa educazione di che favellavamo. Che se, pe’fin qui
discorsi argomenti, s’ è dunque cercalo di provare, che utile pertanto è
l’aristocrazia, rispetto al creare, con un buono e conveniente indirizzo, una
schiera di cittadini egregi, quali con arte di speciale istituzione
applicata a’ primi che presenta il caso, o la fortuna, è difficile ottenerli;
già possiamo a un altro argomento venire, e sarà l’argomento di un secondo e
ancor più elevato interesse politico, il qual consiglia a mantenere, quantunque
dentro giusti contini, un ceto aristocratico nello stato; c questo è
l’interesse cornai at or e. Il quale interesse, naturale antagonista delV interesse
riformatore, molti non vogliono conoscere utile, perchè non vi pongon
mente : e, non avvertendolo, non se ne fanno una chiara idea. Ma non
perciò non esiste; e non è rilevantissimo, e tanto anzi più importante,
quanto le forme del governo son più liberali, e tengono delle
repubblicane, o delle rappresentative e democratiche, e quanto v’è
più grande l’autorità delle turbe popolari. Perchè il proprio
delle democrazie, come in generale dei popoli e de’tempi tendenti a
democrazia, è, in politica, il moto perpetuo. Un paese dato o soggetto
alla dominazione, od alle forti influenze de’ capricci, di quello che fu
e sarà sempre varium et mutabile vuigus, è come dire un terreno in
man d’una compagnia d’ agricoltori, ognun dei quali vuol coltivare a suo
modo ; e dove, secondo che uno riesce a prevalere sull’ altro nella lotta
delle volontà, e nella pertinacia e nella validità de’ contrasti, distrugge
l’opera de’compagni, e rilavora, e risemina a suo modo. Il qual terreno lascio
decidere a chicchessia se può mai prosperare, e dare un frutto che valga
le spese, e le fatiche periodicamente abortive. Un tal paese è sempre sul
disordinarsi, e riordinarsi per disordinarsi di nuovo, e tornare ad
ordinarsi: come ciò accade del mobile campo del mare a ogni nuova aura che
spiri, non importa da qual parte. Le leggi non vi durano. L’espcrienze lunghe
non vi si maturan mai. Le fortune vi sono instabili, come le dignità,
come le influenze, come le ricchezze, come le risoluzioni. Ora un tal paese,
per avere una qualche speranza di requie, e di rallentamento
negl’impeti inconsiderati del moto, ; per non lasciarsi perpetuamente
allucinare da false apparenze di mali, da false apparenze di beni, giudicate
secondo la prima impressione, e guidanti a fatti spesso inconsiderati e
rovinosi, ha bisogno che sia, nel popolo, un certo numero di cittadini
saldamente potenti (ciocché non vuol dir prepotenti), i quali mettano nella
bilancia disposizioni opposte ; cioè appunto quelle disposizioni
che si chiatnan conservatrici, com’é il proprio delle aristocrazie, alle
quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mutamenti, e a temperarli,
facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’ orologio, e della
scarpa nel carro, non per arrestare l’ andamento, o per voltarlo io
contrario, ma per fare necessario contrasto alle accelerazioni
dissenna te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né voglio,
a provarlo, altra dimostrazione che quella delle prove storiche, dalle
quali risulta che nessun paese prosperò mai lungamente, dove un robusto ceto
aristocratico non si ponesse in mezzo tra le facili velleità delle plebi
e de' municipii, tra i piccoli e gretti interessi del terzo stato ... tra
le tendenze agli abusi del potere in più alto luogo; c non concorresse con ciò
validamente e in modo principalissimo alla costruzione diffìcile del buon
governo. Finirò enumerando i beni accessorii, che a lutti i
precedenti van connessi. Unicamente coll'aristocrazia, che si tiene ancorala
sopra una ricchezza immancabile ( non fluttuante, non fortuita, non nata oggi o
ieri, c non destinata a perire domani), e sopra tradizioni antiche di
potenza, e sopra le aderenze numerose e gagliarde che la corroborano, e
la fan per cosi dire immortale, sono possibili, od almen frequentissimi,
tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi, de’quali parlavain sopra,
che sffdano i secoli, e che son come reggie; i musei, le ville, i parchi, le
splendide ed ereditarie proiezioni alle belle arti di lusso, alle lettere,
alle scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la considerazione
al di dentro, e al di fuori, la dignità c il decorodelle nazioni.
Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui poderosa influenza sugli uomini e
sulle cose abbia grande ed antico ed esteso fondamento, è lecito sperare ad
ogni privato facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui genere,
ferma resistenza contra ogni nemico interno od esterno che minacci lo
stato e la città, c perfino la miglior guarentigia possibile contra gli
abusi d'autorità, procedenti da ogni alto luogo. Questi abusi,
possibilissimi anzi dove non sono che governo e popolo più o meno minuto,
e qua c là ricchi senza consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia,
non possono esistere o sussistere gran fatto dove quel terzo elemento
dello stato è fortemente costituito su basi ben radicate che non tremano ; le
combinazioni ternarie, in queste faccende, piu essendo valide ad impedire
le abusive prevalenze da qualunque parte, c quindi le prepotenze di qualunque
origine. Ivi i facili rivolgimenti c sconvolgimenti trovano remora gagliarda e
principalissima, distrutta la quale i Iremuoti politici si succedono a ogni piè
sospinto ; e dura pròva più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime
volissiini tempi. Di qui è che la sapienza antica, per voce di Platone c di
Cicerone, cosi appunto sentenziava ne’ libri De republica. Si ama favellare
soltanto delle soperehierie de’ nobili, di certe violenze che alcuni di
loro si permettono, di certi mali ch’essi han prodotto. Bisogna, com’ io
diceva, pesar più giusto, e mettere su la bilancia nell’ altro piatto i
vantaggi. Quando avrete distrutta la nobiltà, e avrete solo
tollerato quella ineguaglianza di fortune, che non siete padroni di
distruggere, e che resisterà ad ogni vostro tentativo livellatore, avrete tanto
e tanto le stesse violenze e le stesse soperchierie da que’che avranno la
prevalenza di fortuna, ma le avrete senza il correttivo ed il freno che
per sua natura è chiamalo a mettervi il buon patriziato per una dicevole
educazione e tradizione. Servio Tullio, fin dai tempi regii di Roma, non
annullò questo ; ne moderò i poteri ; e provvide con ciò alla fuUira grandezza
di quella ch’era destinata ad essere la capitale del mondo. La elevazione
di Roma repubblicana è dovuta principalmente al suo senato di patrizi. Le
successive invasioni della plebe alzaron molli di quesla sino a quello,
cd era giusto ; non abbassarono quello fino a sè, che sarebbe stato
follia. . . distruzione di Roma. I Cesari lolser di mezzo, o snaturarono
l’organo politico, pel quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le
grandi famiglie, fecer perire l’ antiche tradizioni, tolsero ogni impedimento,
ogni potestà tra sè e il popolo, e con quale effetto non ho bisogno di
ricordarlo ad alcuno. Venezia ed Inghilterra la Venezia de’ passati secoli,
l’Inghilterra d’oggidi, son altra prova storica e splendida della mia tesi. I
soprusi e gli abusi di potere si possono correggere, impedire, medicare;
il male della mancanza della nobiltà è immedica bile nel materiale e nel
morale. E la nobiltà è zero senza ricchezza ; e la ricchezza è labile senza
fedecommessi. Dunque i fedecommessi, oltre al non essere ingiusti, oltre
all'essere senza detrimento al paese che li ammette, gli sono necessari
(1). (1) Di qui è, che, a mio senso guardando alla ragion politica,
possono nelr eredita fidecommissaria difendersi anche certe sostituzioni, e
certi passaggi di famiglia a famiglia come mezzo di perpetuare i gran
nomi, la memoria de’ grandi servigi, e gli obblighi che queste memorie
traggon seco. L'argomento è degno per lo meno di nuovi esami. Non è il mio Bne
l’intraprenderli. N- B. Dopo stampale, una prima ed una seconda
volta, queste lettere, un vicino paese fu, nel quale i maggiorati s’
abolirono, disputatone prima, come e quanto lo si poteva aspettare, nella
camera dei suoi deputati, e nel senato de’sapienti del luogo. Nè negherò, che,
vista la coedizione de'tempì e delle opinioni, il conservarli sarebbe
quivi stato un’ anomalia ; certo una disarmonia con tutto il resto. Nel fallo,
si guardi meno alla quistione assoluta, che alla relativa ; e meno la relativa
al piti o manco di vantaggio del popolo, e in generale dello stato, ebe ia
relativa all' andamento politico in cui lo stato s'è colà messo, ed alle
necessità che ciò s'è tratte dietro. La questione giudicata oggi cosi sta
donque forse bene. Bisognerà vedere se ugualmente starà bene domani. DELLA
LIBERTA’ E DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO E DELLA SOVRANITÀ’ IN
GENERALE. - DELLA COSI DETTA SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA DEMOCRAZIA.
-DEL VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI GOVERNI
EC. Al REPUBBLICA! RICOVERATI IH
IHGBlLTERRA E ALTROVE Il ne faut pas vous le dissiniuler. Le
peuple, ainsi que la bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le
peuple rii de vos pasquinades politiqueset sociales: il vous a connus à
l’oeuvre : il a jugé la puissance de vos moyens et la fécondité de vos
ressources; il a vu poindre, sous volre iniiiative, celle réaction que
vous condamne/. aujourd'bui, mais dont le principe est loujours vivant
dans vos vues et pour rien au monde il ne se sou cie de
riimeltre nne seconde fois ses destinées eulre vos mains. Tranquillisez-vous
donc, et quoi qu’ il arrive, ne vous excilez pas le cerveau, ne vous
écbaufl'ez l.oint la bile. Acceptez en tonte résiguation le repos
que vous fait l’cxil, et metlez-vous bien dans la téle qu’à rnoins d'unc
transformation complète de volre esprit, de volre caraclèrc, de votre
intelligence, volre ròte est lini. Teuez, voulez-vous queje vous dise
louie ma pensée? Je ne connais qu’un mot qui caractérise votre passò, et je
saisis celie occasion de le Taire passer de l’argot populairc dans la
langue polilique. Avec vos grands mols de guerre aux rois, et de
l'ralernité des peuples ; avee vos parades revolulionnaires, et toutee
lintamarre de démagogues, vous n’avez été jusqu’à préscnt, que des
blagucurs. Journ. le Peuple ile l»bO Articolo
di P. /. Prudhon Della libertà nel civile consorzio, e dei limiti che necessariamente
debbc avere. Che cosa volete, signori maestri del mondo, che si rinnova? -
« Libertà ed eguaglianza nel consorzio civile, nco« nosciute e difese; e, come
frutto della libertà e dell’egua« glianza, la parte di sovranità nel popolo,
che a ognuno « coegualmente spelta per quel che concerne
gl’interessi « sqoi, e gl’interessi dell’universale in correlazione
co’suoi. « Perchè, se gli uomini sono uguali per natura ( e certo
lo « sono}, è una iniquità il farli disuguali per arte; è una slo« Udita
il lasciarsi far tali, ed ammettere maggiori di sé soci pra sè quando piace, e
quando non piace. E se gli uomini « sono liberi per natura, è una
iniquità il farli più o meno a schiavi per arte, e stolidità il lasciarsi
far tali, ed ammet« tere padroni di sè sopra sè, quando piace, e quando
non piace. Ma qui vale la risposta celebre degli spartani a Filippo
re - (1). « SE ». La libertà! Innanzi tratto, parliamo un po’ sul
serio: raccordate voi veramente all’ uomo, voi che pugnate tanto perchè vi si
lasci interissima, e quasi o senza quasi priva di vincoli ? - Ma molti di voi,
che chiamano l’uomo una macchina fisica, so che il libero arbitrio, cioè questa
tanto richiesta libertà, dicono non esistere ; poiché tutto che facciamo,
lo facciamo, secondo essi, per coazione prodotta in noi da impellenti motivi,
interiori od esterni, che prepotentemente, (I) Plutarch. fìe
g.imililale. Edil. Rnisk benché occultamente, ci spingono a fare o non fare, ed
a fare una cosa piuttosto che un' altra. Dunque, almen per tutti
cotesti negatori del libero arbitrio, le dimande d’ esser liberi hanno
assurdità manifesta, e mancan di senso, essendo in contraddizione perfetta
colla loro intima e confessata persuasione di non poter esser soddisfatti nelle
loro dimande, nè essi, nè chicchessia (1). Essi sanno, o pretendon sapere, che
chiedono quel che non è possibile dar loro ; poiché quel che chiedono, a
lor detto, è un nulla, un non-ente; e niun può dare ad altrui, se non
illudendolo, un non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli, nè alcun
altro possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono
chiederla, che coloro i quali la credon possibile all’uomo, e che non
risguardano il mondo morale, ossia il mondo delle volontà, come un
conflitto di forze, ognuna delle quali non può non esercitarsi, che nel
modo col quale nel fatto s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi
per azioni diverse da quelle con che ogni volta in realtà
v’interviene. La libertà, in altri termini, non posson chiederla, che
gli spiritualisti ; e già in ciò v’è molto di guadagnato: perchè
cogli spiritualisti, se sono veramenle quel che dicono di essere, si può
disputare con ferma speranza di giungere presto o tardi a spogliarli di certe
idee, per così dire, superfetate ed aggiunte, contro a naturatile loro
persuasioni di spiritualisti: idee non compatibili con quelle persuasioni, e
tali, che nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali
realmente sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem
— Ex ore vestro voi judico. Que’ cbe negano la libertà non solo non
posson chiedere questa, ma non possono, sul serio e da senno, chiedere o
pretendere nulla, nè accusar nulla, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare
a ridire su nulla. Nella loro ipotesi lutto quel che è o sarà, tatto quel che
si la o si farà, non dipende dall'arbitrio 'di chicchessia. È o sarà, à fa o si
farà, perchè non puh essere nè farsi diversamente. Dimande, lagnanze,
accuse, saranno, per vero, esse pure atto necessario, ma un alto senza
significato, o d’ un signitìcato che non può stare. La proposizione non lo
che accennarla. Il trattarla ex profitto non è di questo luogo. E
che cosa è questa libertà ? - « La facoltà ( rispondono } « d’usare delle
proprie forze, fisiche o morali, nel modo « che più aggrada, la quale (
dicono que’che vi credono ) « è una facoltà primitiva e naturale, e tale
perciò che non si « ha diritto di toglierla. » Intanto, essi che l’
ammettono, si vergognerebbero di non ammettere però, che alcuni di
si fatti usi della libertà propria son buoni, altri cattivi, e che i
buoni usi ognuno è tenuto a praticarli, e i cattivi ad evitarli. Dunque
coloro che ammettono la libertà, .e che perciò ne chiedono alla congrega civile
la maggiore possibile indipendenza e franchigia, concedono almeno una legge
interiore, e naturale, e non abrogabile, data al loro intelletto, che
comanda, consiglia, o proibisce; legge obbligatoria per ognuno. Dunque
concedono, che la libertà, per sua natura, non è poi cosi sfrenata come lo si
suppone, nemmen nell’uom solitario e sottratto perciò ad ogni coazione
estrinseca de’simili suoi, da che è limitata e vincolata da una legge
interna, che notabilmente ne restringe pur sempre i poteri. Anzi,
poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni libere o volontarie,
vengono con ciò necessariamente a concedere la distinzione tra l’uomo da bene e
perfetto, e l’uomo imperfetto e cattivo, conseguita da questo, che per
essi il migliore ed il più perfetto degli uomini è quegli che più
limita le proprie libertà, e che, per conseguenza, nel fatto, è o si fa men
libero; e viceversa, che l’ uom peggiore e più imperfetto è quegli il
quale più ai vincoli della libertà si sottrae, godendo, nel fatto, d’un
più illimitato uso della libertà propria. Qual è l'uomo il più libero ? — Il
ciallroue, che, senza un riguardo per sè o per gli altri, va e fa e dice,
e si veste o sveste, e s'accompagna o scompagna, e si satolla negli appetiti
suoi più disordinati e più bestiali ed immondi a tutto suo grado, gitlandosi
panciolle o rotolandosi in istrada, ubriacandosi nella taverna, appaiandosi
colle sgualdrine, gridando e urlando per via, spargendo motti,
dileggiamenti, bestemmie, ingiurie a questo ed a quello. Or, se la civil
convivenza è ordinata a rendere gli uomini, non più imperfetti e cattivi, ma
sempre migliori e piu perfetti (ed aspetto che qualcuno voglia con
moderna impudenza negarmelo), è chiaro, che quello è il consorzio umano
più conforme alle leggi di natura, in che il male è più difficile a
farsi, ed il bene piu facile. Laonde, se un modello di ottimo civile
ordinamento è a proporsi come un tipo al quale si debbano conformare,
quanto meglio ciò è dato, le umane congreghe, converrà dire l’ideal naturale (
come lo chiamano ) dell’ ottima e perfetta civil convivenza esser quello
dove alle volontà del male è recato il massimo impedimento, alle volontà
del bene il massimo eccitamento e favore, alle volontà indifferenti
quanto a bene ed a male la massima indipendenza : quello dunque dove la libertà
ha vincoli molto maggiori de’ vincoli che le nostre leggi, anche le più
rigorose impongono. Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse
andrebbe troppo in là col ragionamento, massime ove difendesse l’opinione, che
questo ideale sia immediatamente riducibile ad atto nella odierna
condizione delle aggregazioni umane che si noman popoli. Confesso, che,
conosciuto il mondo cosi com’è, e considerato quanto immensamente son gli
uomini ancor lontani, nella lor molta corruttela, dal tollerare
universalmente d’ esser costretti a farsi ottimi, e ad incontrare ostacoli ad
ogni azion loro men che retta ed a bene rivolta; veduto quindi che la legge
troppo rigorosa incontrerebbe innumerabili ribelli, i quali sarebbe presso a
poco impossibile frenare, e colla forza ridurre ad obbedienza, o pur solo
punire; infine, richiamalo alla memoria, che Iddio stesso, nella
formazione dell’ uomo, mentre si è contentato di dare ad — Lo 5cln
'rauo clic corre armalo le campagne taccinlo silo tulio che trova,
spogliando i viandanti, accoltellandoli.... — E qual uomo onesto, nel
senso che questa parola ottiene in ogni vocabolario di popolo civile,
vorrebbe essere cialtrone o scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è
possibile ne' cialtroni, e fra gli scherani?] ognuno le norme del bene e del
male, ba però voluto lasciare, a tutto risico di chi devia da queste norme, la
libertà di si fatta deviazione ; di qui è che, per men danno, e per
men difficoltà, i savi, che dell’ ordinamento degli stati han fatto
particolare studio, avvisarono la necessità di abbandonare al proprio libito di
ciascuno il più di quegli abusi di li bertà recanti a tristo o
sconveniente (ine, ma che non nuocono altrui, riserbato il vincolare con leggi
quegli abusi die agli altri recauo un più o men grave ed ingiusto
nocumento, od una indebita e non lieve molestia : ciocché
accordandosi a riconoscere e concedere ( e vi riflettati bene i capitani
e i campioni delle nuove dottrine) non credon già di aver, per si
fatti divisamenti, proposto quel che veramente sarebbe il meglio; ma,
proponendolo, o, a dir piu vero, confessando d’ essere stati costretti a
concederlo, compiangono di non aver potuto proporre c consigliare che un
men male. E tuttavia questo men male non lo propongono, e non lo accettano, che
in modo, per cosi dire, precario, e finché, con un migliore indirizzo
della educazione privala e pubblica, sia lecito assai più recidere di
questa libertà del non buono, senza troppa resistenza, e per successivi
sempre maggiori troncamenti giungere alfine a quel minimo di libertà
lasciata al mal fare, che costituirebbe de’ civili ordinamenti la
vera normalità. Ed ecco ricacciate in gola, io spero, a certi
insipienti banditori del sacro diritto (coni’ essi soglion chiamarlo) d’
esser padroni delle azioni loro, tante balorde cicalcric di pocosen
so, che vanno eglino ripetendo, e che, se dimostran qual che cosa,
dimoslrau solo quanto è grande la ignoranza di gridatori si fatti in lutto che
risguarda la vera filosofia delle leg; gi e la vera natura dell’
uomo. Io so però con qual mutamento di linguaggio si sforzeranno
essi di riguadagnare terreno, se non di fronte, almen per fianco. Senza
osar troppo di negare, presi cosi alle strette, che quegli usi della
libertà, dai quali un altro, e con piu forte ragione più altri, o la
comunità intera, possono essere più o men notabilmente ed ingiustamente
pregiudicati, debbono dalla legge frenarsi, diranno però, ed in effetto dicono
( abbassato molto il tuono della voce e della superbia ), che la
forfattura de’ legislatori a cui si chiede emendamento è appunto nel
giudizio del male, operato o da operarsi, il qual conviene, o prevenire
perchè si tema, o punire perchè si risguardi come fatto, e delle
condizioni che si stima utile all’ universale di lasciare in potestà
de’governanti lo imporre a’ singoli, quale un debito comune di violenze fatte o
da farsi alia libertà d’ ognuno pel bene di tutti. Rispetto a che
ricusano il più delle norme stabilite dalla sapienza antica, senza un
riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante, sempre simile a sè fin
dalle prime manifestazioni sue, giungendo da gente a gente al nostro tempo ; e
trinceratisi sopra questo terreno, vogliono, coni’ oggi dicesi,
guarentite almeno certe principali libertà, o salvati certi privilegi di
libertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un detto di detto,
impararono. E qui non discenderò io a disputar loro ciascun palmo del nuovo
terreno in che s’accampano, questo non essendo per ora il mio proposito. Non
ch’io non voglia, a miglior tempo, a un per uno, espugnare ciascun
de'baluardi ove atlendon battaglia, impotenti, come si sentono, a tener
la campagna aperta. Ben, fermandomi qui sulle generali, poche cose dirò,
che importa stabilire, come opportune premesse a tutte l'altre, quasi
circonvallandoli intorno d’un regolare assedio, per toglier loro qualunque
spe [ È degno d’esser notato che si schiamazza e si pugna per si fatte
libertà, e per questi privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne,
e da que’che di abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han
bisogno dell’abuso, e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio, è
chiaro che sarebbe ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’
secoli in cui rarissimi sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o
d'intenzione. Queste grida allora non si sa che siano. Si chiede il
permesso di quel che si vuol fare, e si muovono lagnanze di quel che, volendo
farlo, non sì pub ; non di quello mai, che non occupa la mente, e che non
ispiace di non poterlo operare a suo grado.] anza di esteriore sussidio, e di
futuro scampo. Dove, se per avventura, io paia a taluno usare, a
dispetto, un troppo superbo linguaggio, valgami a scusa la salda fede che ho
nell’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì certo dello
scendere a combattimento con tale una soprabbondanza di forze, che il far
fronte, negli avversari, più mi sembra presunzione ed insania, che
coraggio e bravura. E prima, prendo, come suol dirsi, atto del
concesso, e dell’ ornai da essi perduto per non poterlo difendere : cioè,
che tutte le declamazioni, le quali fannosi, a destra e a sinistra, suonare sul
sacro diritto della libertà umana, cosi in generale sfrenata, e della
intangibilità di questo diritto ( le quali declamazioni tanto si vanno
ripetendo a illusione e pervertimento degli sciocchi, e col plauso del codazzo
lungo anzichenò de’tristi, i quali approvano e fan coro, perchè l’approvazione
è come indiretta difesa di molte ribalderie loro); tutte queste
declamazioni, dico, bisogna ringhiottirsele, o riservarle a’ crocchi
degl’ imburiassali a lor forma, e già non più ragionanti, nè disputanti,
ma credenti, e disposti a contendere solo co’pugnali e colle contumelie. Per
tutti gli altri un punto è vinto, ed una verità è conquistata: la
libertà, per sé medesima, dev’ esser vincolala in tutti. Questo non
ammette più disputa. Or, ciò premesso, io dico poi, che,
nelle azioni le quali necessariamente han, per cosi dire, contatto cogli
altri, e sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti
o pregiudice voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reciprocamente
tollerabile la consociazione degli uomini, è chiaro che l’interesse comune
richiede il provvedere a tanto, che i conflitti delle coeguali libertà
siano evitati il meglio che esser può, e siano del pari scansate le cagioni,
quant’elle sono, onde, per fatto delle libertà male-usate, si renda
sgradevole ed intolleranda ad altri, pochi o molti, la convivenza. E
poiché nessuno è giusto che sia giudice in causa propria, quando
specialmente la causa propria è in contrasto colla causa degli altri, perchè
niuno, negl’ innumerabili e colidiani casi di si fatti contrasti,
vorrebbe aver fede nella giustizia e nella discrezione d’un che ha interesse a
favorire sè stesso (massime considerando, che il momento medesimo del
conflitto, allorché più le passioni sono in presenza, in accensione, ed
in tumulto, dovrebbe esser quello del giudizio ), perciò è necessario,
che ognuno anticipatamente sappia (da terzi ed im parziali, e parlanti
con autorità in guisa da comandare obbedienza ed ottenerla) quel che può e
deve, e quel che non può, nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al
fatto, egli è della più grande evidenza, bisognare alcune regole
prestabilite, ossiano leggi, per le quali si determini efficacemente il
lecito e l'illecito. Resterà dunque solamente a cercare, da quali,
secondo ragion naturale, debbano queste leggi emettersi, ed in che
misura. E la -questione giunta a questo termine, s’allarga.
Perchè, venuto il discorso alle leggi che stabilir denno i confini e
la misura della libertà civile, l’argomento facilmente trapassa
alla non meno astrusa ed importante trattazione del primitivo
stabilimento di tutte l’altre leggi obbligatorie per l’universale, e si
di quelle che fermano, o fermar debbono le originarie condizioni della civile
congrega, nelle parti onde si compone od hassi a comporre l’intera
macchina governativa, qual si ha, o qual si desidera averla, si di
quell’altrc, che, a volta a volta, si van facendo, o si vorrebbero fatte,
per nuovi bisogni che si stimano sopravvenuti, o per correzione d’antichi
e nuovi errori, de’ quali credesi avere accorgimento. Intorno a che
una opinione oggi, e da molli anni, a memoria di noi vec-r chi, cerca di
signoreggiare il mondo, secondo la quale, la volontà egualmente ed il
senno di lutti avrebbe in ciò a consultarsi, e a deliberare, per quella
dottrina che troppi pongono a di nostri in cima a ogni altra, e che chiamano il
domala della sovranità del popolo, da cui, come da vecchia sua radice,
sorse già e prese forza l’altro domina del cosi detto patto, o contratto
sociale ; due domini a’ quali dassi appunto per fondamento, come la
libertà originaria e naturale dell’uomo, cosi l ’ eguaglianza primitiva d’uomo
con uomo. Or poiché, rispetto alla prima già vedemmo, quantunque
sommariamente, quel che bassi a pensarne, favelliamo adesso della
seconda. Della eguaglianza in generale, e quanto poco esista essa
nella specie utnana. Si pretende, che gli uomini, per naturale
diritto, sian tutti uguali, e, al solito, insegnando al popolo questa
supposta fondamentale verità, que’ che la insegnano si guardan bene
dal dichiararla con più esplicite parole, e dallo spiegare in che senso,
a lor senno, questa eguaglianza può affermarsi, in che senso non lo si
può. E il popolo fa di questa proposizione quel medesimo, che dell’altra, la
qual die e-Gli uomini son lutti liberi - Ambedue le accetta così come gli si
danno, senza limitazione, e se le stampa bene in mente al modo che
suonano, per poi trarne le conseguenze dirette ed estre- i me, che oggi
pur troppo ne trae... conseguenze che la pace del mondo da sessanta anni
disturbano ed impediscono. Io spesso ho domandato a que’ difensori di si
fatte stolte teoriche, co'quali è pur possibile tentare un po’ di
ragionamento, qual fondamento dessero ( parlando dell’egualità ) al
domma che stabiliscono ; e i più di loro m’hanno risposto con gran
franchezza, che l’eguaglianza è da legge di natura, perchè la natura ci
ha fatti tutti della stessa specie, e della stessa carne; tutti, gli uni agli
altri, fratelli. Ma, quando li ho incalzati, chiedendo, se la natura facendoci
uguali quanto a specie e carne, e con questo dandoci una comune fraternità,
abbia poi col fatto mostrato di averci voluto ad un tempo dare anche le altre
eguaglianze qualitative e quantitative, ossia di modo, e di grado, che
bisognano per costituire l’assoluta eguaglianza naturale, la quale
intende il popolo, non ra’han potuto più rispondere cosa che valga. Almeno
avessero potuto dimostrarmi che queste ultime sono una conseguenza
necessaria di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi non potevan fare l’
impossibile. La natura, certo, non ha voluto farci diversi da
quelli che ci ha fatto. Ora è chiaro, ch’essa ci ha fatto in ogni cosa
disuguali. ( E si noti, eh’ io qui uso il linguaggio de’ moderni
filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato d’origine, e le sue
conseguenze. Parlo, come oggi usano tanti, della natura acefala, e separala
dalle sue cagioni, come se non le avesse ). Infatti che
vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale? Ma, nel fisico, nessuno, per
fermo, avrà l’ ardire d’ affermare, che la natura, fabbricandoci tutti
della stessa carne, e collocandoci nella stessa specie, abbia voluto altro
farci che disugualissimi. Non forse ogni giorno ci schiera essa innanzi i
belli ed i brutti, i dritti ed i bistorti, i contraffatti a ogni forma ed
i ben composti della persona.... i sani e gl’ infermicci, i gagliardi ed i
frolli, gli svegliati ed i pigri o buoni-da-nulla? Non forse tra milioni di
visi nessun ce ne presenta ben simile... ben uguale ad un altro « imprimendo
ad ognuno una fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui? Non forse
disuguali dà le complessioni, la fazion generale della persona, le
idiosincrasie ? Pur la carne è una in tulli, e la stessa : la specie è
una e comune. Più però l’originaria e naturale disuguaglianza fassi
palese, ove al morale riguardiamo, e si a questo nella parte intellettiva
e discorsiva, si nella memorativa, si nella immaginativa, nell’ affettiva,
nella volitiva, e in quante altre le sottigliezze de’ filosofi distinguono...
Ho io bisogno di dire, che hannovi nati stupidi, e nati con ogni buona
disposizione di memoria, di giudizio, d’ acume... ? Ho io bisogno di
ricordare le portentose varietà d’ altezze, di capacità, d’umori, di
tendenze, infinitamente tra loro disparate e distanti ? Ho io bisogno di
avvertire, che GALILEI (si veda), Newton, Eulero, Lagrangia non nacquero per
esser umili ragionieri di lor persona sopra un povero banco di libri tenuti a
scrittura-doppia ; Cesare, Carlo Magno, Napoleone, non erano modellati
alta stampa d'un piccolo caporale di milizie ; i Law non furono mai del legno
di che si formano i Colbert, i Turgot ; Omero non doveva essere Clierilo,
nè Virgilio Bavio..., e tutta la larghezza d’ un oceano doveva separare
Marco Tullio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da Commoilo,
Tito da Domiziano... Vaucanson da un costruttore d’organucci di Barberia...
Giovanna d’ Arco dalla mia donna di faccende ? Non favello
delle disposizioni di cuore... delle disposizioni di volontà... del più o meno
di mercurio, di zolfo, di sali, che, fino dal primo impasto, è infuso
nelle nostre crete; e del diverso rombo di vento a che si volge l’ago
delle nostre tramontane. Nel vostro stesso campo, signori maestri del novello
mondo, consultate Gali, Spurzheim, Fossati, Combe. Crederanno leggervi
sul cranio, scritto e significato a grandi rilievi, se siete della pasta
dei Tersiti, de’Paridi, degli Ulissi, de’ Palamedi, o degli
Achilli.... E non solo differenti s’esce di prima stampa dall’utero
materno. Altre cagioni soggiungono, da natura pur sempre, e dal conflitto
perpetuo delle sue forze, per le quali alle inegualità fisiche e morali,
cominciate fin dai primordi nostri, se ne vanno altre aggiungendo finché
dura la vita, ed alcune per effetto della stessa vita. Imperciocché a
questo lavorano giornalmente le infermità, e centinaia di fortuiti
accidenti che sopravvengono... le differenze di climi e del tenor di
vita... i nostri spropositi volontari ed involontari... : senza di
che molle cose al vecchio toglie P età, e al fanciullo non le dà
ancora... E l’arte, eh’ essa medesima è da natura, opera forse,
e conduce, a diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che ce
la danno, secondo che ce la diamo. Or l’educazione, facciasi quel che si vuole,
è per l'uomo una nuova grandissima cagione d’ inegualità, la quale niun
potrà mai governare in modo da impedirle il produrre questo ultimo
effetto. E, primo, è una potente cagione d'inegualità dalla
parte degli educatori. Perché come poterli applicare a uno stesso
modo, a una stessa misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle città e
ne’ villaggi ? nelle campagne e ne’ boschi ? a que’ che vivono raccolti
insieme, e a que’che in solitudine, o grandemente spicciolati e divisi ? Come
trovarli, da per tutto, uguali in eccellenza, per dottrina, per zelo, per
altezza, per l’allre molte qualità che aver denno, o dovrebbero ; o come
non piuttosto contentarsi assai spesso di non trovarne, di non averne, o
di averne de’mediocri, degl'insufficienti, o decessimi? Come, da per tutto,
avere o procacciarsi le stesse facilità secondarie, gli stessi ausiliarii mezzi,
senza di che la bontà degli educatori o fallisce, o men vale? Come non
avere riverberate sugli educati le diversità che provengono dalla
diversa natura de’ maestri, de’ metodi, degli aiuti estrinseci? E, per
tutti questi motivi, come non giungere all’effetto ultimo, che, se le
differenze predisposte da natura erano già grandi, più grandi ancora
saranno esse fatte, dopoché di necessità in diversissimo grado e modo l'arti
educatrici sarannosi adoperate? Secondo, è un’altra cagione
d’ineguaglianze, dalla parte di coloro che debbono educarsi. Imperciocché
le inegualità già preordinate in ciascuno nell’esser coucetli, come
potranno non avere accrescimento e moltiplicazione, aggiuntevi le
inegualità avventizie, prodotte dall’azion di coloro, che, più o men
bene, o più o men malamente, educheranno? Dove, tra inegualità ed
inegualità, sarà pur talvolta che accadano compensazioni: ma sarà più
spesso ancora, che le inegualità si sommino, e s’alzino a maggior
valuta... Terzo, son molte più, accidentali, cagioni, che
necessariamente faranno anche maggiore essa differenza : come dire, il
più o men bene, o male affetto stato di salute, o di vigore, il più o meno di
fortuiti ostacoli, o di fortunate agevolezze sopraggiuugenti : la nebbia delle
passioni viziose che alcuni offuscalo la loro forza che molti distrae; lo
stimolo delle passioni generose che ad altri é incitamento... cento altri
e mille incidenti della vita, che or turbano, or secondano, e fan mentire
in bene o in male ogni anticipato presagio da natura tratto...
Ma v’ è una piu generai considerazione, che vie meglio conferma la
verità del mio detto. Essa ci è somministrala dalla ricerca del fine
stesso per cui la natura ci diede delle arti educatrici il bisogno,
l’istinto, ed il seme. Questo fine evidentemente, e per sua essenza, è,
sempre, e ogni giorno più, disuguagliare, anziché uguagliare.
Imperciocché la perfettibilità umana esse arti han persubbietto sul quale
lavorano ; e la perfettibilità è cosa sterminata. L'arte, cioè l’educazione,
perfeziona, che è dire s’ aggiunge alla natura, acciocché quello che in essa è
germe, tallisca, cresca in pianta, e fruttifichi. Ora il germe è
d’ineguaglianze: dunque ineguaglianze raccoglierannosi dall’ educare, tanto
maggiori, quanto l’ educare sarà più perseverante, e condotto a maggiore
eccellenza. In ciò sta il progresso, che è pure un altro degl’ idoli del
nostro tempo : in ciò la civiltà, effetto principale del progresso, che tanto
oggi i nuovi dottori dicono di voler promuovere, non s’accorgendo, che il
suo vero fine è aumentare le differenze tra gli uomini, non già
scemarle. Gara infatti essa è per essenza, e specie di palestra aperta
a tutti, dove arte aiuta natura a far si che ciascuno co’ vantaggi che
può e sa, si gitti innanzi quanto più può e sa meglio, lasciando iudietro
il compagno o i compagni di quanto piu intervallo è possibile, nelle
diversità di direzione che tutti prendono. Cosi arte e natura a un
medesimo scopo convengono. Quella accresce 1’ effetto di questa. La
disuguaglianza é data all’uomo per legge; il disuguagliarsi per istinto,
e per bisogno. Voi piu facilmente fabbrichereste gli uomini della
favola di Luciano, usciti dalla granata magica, con metodo di successive
dicotomie, che gli uguali i quali sognale. Arroge, die questa è una legge non
esclusivamente propria della nostra specie. Chi ben considera, trova ch’è
legge data all’intero universo, come norma del suo modo d’essere. Tutto
in esso è varietà e diversità. Tutto è gerarchia. La materia è una nella
sua sostanza, pur l’oro non è argento, nè T argento rame, nè il rame
piombo, nè il piombo arsenico, nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son dunque
caste nella materia, come nella specie umana ; come nelle specie
degli animali domestici (cavalli, pecore, capre)... V’ è una gerarchia
delle stelle tra le stelle, delle comete tra le comete. V’é il grande ed
il piccolo, il luminoso e l’oscuro, quel che domina e quel eh’ è
dominato. Un carbone è cristallizzato ; è brillante; è la coli-i noor, la
montagna della luce, che brillerà sulla fronte di Vittoria regina d’
Inghilterra ; un altro carbone non è buono che a scaldare la pentola della
massaia. Lo stesso grano, dice il più santo de’libri, è trasportato
dalla piena del torrente nel mare, e vi perisce ; dal vento tra le
sabbie, e non vi nasce ; dall’agricoltore nel campo, e, secondo le condizioni
diverse del terreno e de’ succhi, v’ intristisce c non viene a spiga, traligna
ed è ucciso dalla golpe... prolifica ed è ricchezza della messe e del granaio.
Evidentemente queste diversità di sorte furono, sin dalla prima origine,
ne’ disegni del Creatore, nelle necessità imposte al creato...
Quanto agli uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed improvvido : è una
manifestazione splendente della sapienza del divino architetto. La vita
normale della civil congrega ha bisoguo di simiglianti radicali
disuguaglianze. È forza che v’ abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo
ad metalla, alla coltivazione laboriosa delle terre, alle meccaniche
fatiche dell’incudine, della sega, della pialla... Come è forza che v’abbiano
altri ad altro buoni, ed a meglio, secondo tutta la varietà degli uffici e de’
servigi che se ne aspettano. Fede c filosofia s’ accordan poscia a proporci,
affinchè nissuno si lagni, il sistema delle compensazioni in una seconda vita. Or,
se tanto è innegabilmente vero, come s’ osa insegnare al popolo l’opposto di
queste dottrine? Come s’abusa della sua irriflessione naturale e della
sua ignoranza per falsificargli sino a questo segno il giudizio? Come s’ardisce
predicargli ogni giorno il domina supposto delVeguaglianza, o non
fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo credibile con miserabili ragioni di
fratellanza universale, d’identità d’origine, o simile? (1)-E v’ha chi
chiama perfino a complicità dell’inganno la religione, come se vi credesse!
V’ha chi usa come argomento: Siamo lutti figli d’Adamo; lutti ugualmente
redenti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in Cristo! - Fratelli si certo ;
c figliuoli lutti della prima umana coppia, e della seconda per Noè il
diluviano; ed ugualmente ricomperati col prezzo di sangue sul Golgota: ma non
perciò uguali; come uguali non erano, ancorché fratelli, più ancora
stretti tra toro che non un uomo a un altr’ uomo, Caino e Abele ;
come uguali non erano tra loro, ancorché fratelli, Isacco ed Ismaele,
Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e Beniamino, e gli altri figliuoli di
Giacobbe... Fratelli, e perciò tenuti a reciprocamente amarci, ad assisterci, a
giovarci; ma non a modellarci ognuno sull’altro, ma non a metterci tutti
a uno stesso livello, ma non a interdirci ogDuno i vantaggi delle nostre
individualità, o a pretender di divider cogli altri gli svantaggi. L’ autorità
della religione, della quale s’ abusa, non ha mai consacrato queste
massime, o, per dir meglio, ha consacrato sempre le massime contrarie. Io
dimentico però, che hannovi, a di nostri, cristiani a’ quali par bello
servirsi del vangelo per falsificarlo, e spurii cattolici, i quali
s’argomentano d’ insegnare caltolicliesimo alla Chiesa, e teologia alla
teologia! (1) É facile intendere, se non il come, almeno il
perchè. Si cercano nel volgo, e nel minuto popolo complici, ed uomini di
braccio per l'opera di distruzione ebe si medita; e l’adescarli con si fatti
miserabili e detestabili inganni par utile, se non bello. Se non che
intendo bene quel che vorrassi rispondermi. Sorgeranno d’ ogni parte di
coloro, che vorranno dirmi, nissuno esser si stupido da pretender di
negare il fatto visibile e palpabile delle ineguaglianze di natura e d’arte,
che son tra gli uomini, troppe delle quali non possono non essere in
un grado maggiore o minore, si nel morale, che nel fìsico. Solo
chiedersi oggi quell' eguaglianza, che spetta agli uomini, in quanto
congregati in società; e questa esser Veguaglianza che chiamasi civile,
cioè de’ fondamentali diritti della vita di cittadino; e pretendersi essa come
dovuta per legge eterna di naturale giustizia. E avvegnaché, ristretta la
proposizione entro si fatti più precisi e più angusti termini, non è poi
si chiaro il comando della legge di giustizia la qual si cita, e
resta sempre a superarsi la difficoltà del concepire come e perché abbia
a credersi di misurar giustamente, applicando a tanti fra loro disuguali
una misura uguale per tutti, fan prova d’ avviluppare sé e gli altri in
un tessuto di ragionamenti, che è pregio dell’ opera l’ esaminare-
Esaminiamoli dunque, c cerchiamo di far conoscere quanto essi hanno poco
del solido, e quanto facilmente s’abbattono, e si riducono a nulla. Dell'
eguaglianza nel civile consorzio e su quali falsi fondameli ti si
pretenda stabilirla. Si vuole l ' Eguaglianza civile, cioè
l’eguaglianza ne’ fondamentali diritti della vita di cittadino! E per che buona
ragione ?-Rispondono i pili barbassori: « non veramente per « che siavi tra gli
uomini l’eguaglianza primitiva di natura, « o perché possa l’arte
giungere a distrugger mai le diffe« renze che natura ha in noi largamente
seminate nel tisico « e nel morale j ma perchè, tra tante che mancano,
un’e« guaglianza primordiale è pur veramente in tutti, ed è « T
eguaglianza di condizione primitiva, quando la vita civile « ha per noi,
secondo ragione, normale coininciamento. » E, a meglio spiegare il
concetto loro, cosi ragionano, tornando un tratto a considerazioni
relative alla libertà « Sia quel che si voglia de’ limiti che la legge eterna
ha se« gnato al libero arbitrio d’ogn'uno, e della natura obbli« gatoria de’
precetti ch’essa legge dà a tutti ; se potente« mente c’invila essa ad unirci
in civil convivenza, non, « per fermo, l’invito è coattivo (posto che
niuu pretende « esserci disdetto il segregarci per vivere in solitudine,
« quando ciò ne piaccia) ; e molto meno è obbligatorio a un « dato modo
d’associazione (posto che niun pretende esser« ci da ragione naturale vietato
il torci all’ associazione, in « che, per esempio, ci troviamo inclusi
dal nascere, per « entrare, a nostro libito, in un'altra la quale
consenta « di riceverci). Dunque l’entrare, o il restare, in una
data « civil congrega, è, per sé, atto di libertà, rispetto al qua le
noi conserviamo intero l’arbitrio. Ma lo stesso ragio— « namento può
ugualmente applicarsi ad ogni uomo. Dun« que tutti gli uomini, debbono, in ciò,
riguardarsi d* lift guai condizione : lutti almeno coloro, a togliere qui
ogni « soGstcria, che hanno sufficiente normalità coni’ uomini, «
quanto alle facoltà naturali (salvo il diverso grado in che « le
posseggono), per non dare evidente motivo d’ esser te« nuli come non liberi. Ma
concessa l’esistenza d’almen « questa eguaglianza, non v’è poi ragione
perche da detta « eguaglianza non si derivi un’altra eguaglianza, e
vuoisi « dir quella per che, ne’ rapporti generali di cittadino a cil«
ladino, e da cittadino a tutta la congrega, pesi c benefi« zi, cioè doveri e
diritti sian parificati. Dunque sì fatta pali rificazione, che è l’eguaglianza
la quale aveva a dimo« strarsi essere di diritto naturale, lo è realmente. »
Dal qual tenore di discorso è poscia uscita, nel passato secolo,
tutta la dottrina del palio sociale, c (connessa con quella) l’altra dottrina,
secondo la quale il popolo, cioè la somma di tutti i concorrenti a civil
consorzio, nell’atto del concorrervi, c dopo esservi concorsi, ha in sè la vera
sovranità e supremazia, per tal guisa, che ognuno ne possiede la
sua coeguale parte: ciocché costituisce poi quella che si chiama la
sovranità popolare, o la democrazia risguardata come il solo governo
naturale e legittimo. Donde molte conseguenze scaturiscono, c principalmente
questa « Che gli entrati, « od i liberamente restati in una civil
convivenza, se dispnee nendo di sè, come sovrani che ne sono, tutti con
egual « volontà e potestà si spogliano o si spogliarono pacificale mente
d’una parte della sovranità di sè stessi, per formale re di queste parti
riunite l’altra sovranità posta fuori, e ee depositata in mani terze,
alla quale, in essa convivenza, ee liberamente si sottoposero, non però a
questa seconda so« vranità non si serban sempre superiori. Nè, in quanto
è « artificiale, e procedente dal loro libero arbitrio, da cui «
trae tutto il suo valore su ciascuno, può questa sovranità fattizia distruggere
la supremazia delle volontà da « cui supponsi derivala. E perciò,
quantunque soprastante « per patto, essa è nondimeno in realtà soggetta,
e dalla « stessa volontà onde procede può quindi essere rivocata e
« distrutta ». Le quali teoriche con tanto animo i nuovi maestri le
difendono, che, non potendo non accorgersi, ciò, nel fatto, non esser mai,
perchè, storicamente parlando, l’asserito patto sociale, mai, o quasi mai, non
in terviene, ancorché per diritto dovrebbe, a lor sentenza,
intervenire « ciò dicono provar solo la spuria origine delle « civili
congreghe in che, per tal guisa, si è inclusi. Don« de è poi, che il pacifico e
precario restarvi, il qual fac« damo, non può, a lor detto, chiamarsi nemmeno
un « tacito consentimento. Imperciocché secondo il proverbio, « chi
non parla non dice niente. Ed, essendo che ogni go« verno é intanto una forza
di fatto alla quale difficilmente « si può resistere, cosi il non dir
niente esso medesimo è, « conchiudon essi, una necessità imposta,
piuttosto che « volontaria. Il perchè, ora massimamente che i popoli co«
minciarono a parlare, il diritto, il quale non poteva essere abrogato, o
soppresso, risorge, dicon essi, con tanto « più vigore, e legittimamente
pronunzia illegittimi quc’civili consorzi, e sentenzia rivendicata e ripigliata
da tutti « quella sovranità di sé, che natura diè loro, per esercitar« la
congiuntamente, dove ciò aggradi, nella formazione « di consorzi nuovi e
di nuovi governi, a tal forma, e con tali leggi, che il libero ed
effettivo consentimento prece« da consorzio e governi, e li accompagni, o,
cessando, « cessi l’autorità di questi, c sia come se non fosse.
Donde « tornan di nuovo alla tesi, che la democmzia è nel diritto x
di natura, in quanto almeno poter supremo, cioè alto ed « indeclinabile
potere, che sovrasta ad ogni maniera di governo, la quale il libero consenso
degli uomini abbia stabilito, o sia per istabilire ; e che tutte le altre
maniere di « governo, anche consentite, sono artificiali e
transitorie, mentre quell’ una, o esista o no in alto, è permanente
ed « imprescrittibile... » Cosi presso a poco ragionano,
quanto a tutto cotesto domma dell'eguaglianza, e a’ corollarii che ne
traggono, i più logici tra costoro, e nondimeno ragionano
pessimamente e con una molto povera logica. Perchè, in tutta
l’esposta tela di raziocinii, s’afferma, più che si provi, quella
supposta egualità di condizion primordiale, che, o realmente, 0 per
una finzione giuridica, precede, o debbe precedere, l’ingresso consentito
d’ognuno nella civil convivenza, e che è data come fondamento di tutta
l’eguaglianza civile intorno alla quale si disputa. In questa vece facilissimo
è dimostrare che il fondamento, assunto per postulato non ha
sussistenza alcuna. Imperciocché sia pur dato e non concesso a’cosi ragionanti
d'assumer l’uomo nel momento d’entrare con perfetta libertà di sè in una
associazione nuova, 1 cui patti abbiano allora allora da stringersi, e,
come molti oggi dicono, da formularsi (ciocché, nel fatto, non è mai) ;
certo, anche in questa immaginaria ipotesi, di che direm poi quel che è a
dirne, falsissima cosa è, che, nella turba de’ concorrenti a costituire
la nuova congrega, ciascuna arrechi, non una quale che siasi equipollenza,
od eguaglianza di requisiti, ma quella equipollenza od eguaglianza che
sarebbe necessaria per venire alla conclusione a cui vuol venirsi.
L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è, è quella delle individuali libertà
degli ancora sciolti, ossia è l’eguaglianza nella autocrazia, o nella
signoria di sè, che ciascuno, per ipotesi, conserva ancora, e in virtù
delia quale, come padrone della propria individualità, concorre e
consente per la sua parte alla formazione d’ un sociale consorzio. Ma da che si
viene all’inventario ed alla ricogniti) E tuttavia del rigore di questa stessa
speciale uguaglianza potrebbe disputarsi, cercando deulro quali termini, e
sotto quali condizioni ogni uomo è sui juris nel fatto. Ma il cercarlo
sarebbe un'iucidentu questione, la quale ci porterebbe troppo lungi.] zione
de’ capitali e de’ requisiti che ciascuno con sè reca ad associazione,
l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa, e cominciano le
disuguaglianze... tutte quelle disuguaglianze, che noveravamo nel
precedente articolo, e che non possono non essere messe in conto rispetto al
reciproco interesse degli stipolanti, c a quanto esso comanda.
Imperciocché sia pure un contratto quel che trattasi di formare, e
sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne gli articoli a suo proprio
grado, o il ricusare la stipolazione. Ma si abbia in memoria, che qui si
domanda al postutto, a stipolazione da farsi, non quello che ognuno, con
un pensiero egoista di superbia, d’invidia, e di gelosia, non
volendo esser da meno degli altri, pretende a perfetta parità cogli altri, per
prezzo d’adesione, o sia o no interesse degli altri il concederlo ; ma
quello che gli eterni principii di ragione c di giustizia in questo
proposito consigliano ed ordinano. Perchè, insomma, bisogna ricordare
quel che dicevamo nel nostro primo articolo. Non è il libero
arbitrio puro e semplice la norma direttrice degli atti umani, e
non esso è l’autocrate, oil sovrano legittimo; nè alcuno ci venga a dire,
secondo filosofìa, stai prò ralione voluntas. Il vero e legittimo sovrano è il
Xòyos", e il Xòyos, cioè la ragione, non di tale o tale altro individuo,
ma si l’universale ; quello che è la espressione del senno raccolto dalle
ragioni più squisite di tutte l’età e di tutti i luoghi. Rispetto a’
cui precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro siavi
oscurità, o incertezza, chiari essendo e non contrastati i principii
generali regolatori de’ contratti di società, non secondo tale o bile
altra legge scritta, ma secondo il naturale diritto. Insegna esso, che se un
individuo contribuisce al bene della società men clic altri, non può
pretendere d’essere accettato alla stessa dose di beneficii che gli
altri., i quali contribuiscon più. Nè se, quanto aU’amministrazione della
società intera, sono in essa e capaci ed incapaci, è giusto che gl’
incapaci pretendano il diritto dell'avere altra parte che indirettissima nella
direzione e nel governo degl’interessi sociali. Di che l’applicazione al
caso nostro non ha bisoguo d’altre parole. E tuttavia l’ altre parole,
che qualcun chiede a maggiore schiarimento saran dette a suo luogo.
Qui basti per ora t’avere indicato in che giace la falsità del ragionamento su
cui la pretensione all’eguaglianza civile si vuol fondata ; e- basti
chiudere il discorso facendo riflettere, che, dopo le cose dette, resta
almeno a tutto carico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza
il provare, che realmente, nell’ ipotesi del libero convenire degli
uomini a costituire una nuova civil convivenza, tutti arrechino in
contributo, non una parziale ed apparente, ma una totale e conveniente
egualità di condizione primordiale, e nè più, nè meno di quella che il caso
nostro richiederebbe a rigore di legge. Ma è una seconda parte, che
non vuol esser passata sotto silenzio. Questa è l’esame di quel che si vuol
dare per conchiuso ed accettalo ; cioè che gli umani consorzi, come
sono fin qui stali c sono, abbian da considerarsi tutti appunto per illegittimi,
e spurii, perchè non consentiti normalmente da ciascuno nel popolo, ed anomali,
e non formali secondo quelle che sole si giudicano essere le regole
veramente razionali, destinate da natura a presiedere al nuovo patto
sociale, e a servire a stabilirlo. Intorno a che veggiamo un po’ quanto,
ugualmente, e con quanto pericolo, vanno errati coloro i quali cosi predicano,
e cosi s’ostinano a pervertire il piceol senno delle turbe. • Sta
bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è stato, ed è, in fatto
di civili convivenze, e volere sconvolgere da cima a fondo lutti gli stati,
perchè vi sono alcuni (e sian pur molti ), che gridano che, negli stati,
cosi come sono, la distribuzione de’diritti civili non è esatta !
Sta meglio che questi medesimi, i quali cosi propongonsi di turbare
violentemente la pace del mondo, giurino di non voler cessare la guerra da essi
intimata, e già flagrante dal lato loro, contro alle congreghe umane oggi
esistenti, e di non posare le armi, e di non finire le cospirazioni,
finché non solo a una riforma in ciò siasi giunti, ma quel, che è
più, finché uon siasi pervenuti alla maniera di riforma, la quale, a lor
senno, è la sola giusta ! Peccato che vi siano certe difficoltà teoriche
e pratiche, le quali combattono questo bene e questo meglio... £ so che
delle difficoltà oggi non s’usa occuparsi dai proseliti delle nuove
scuole. Chiamali vigliaccheria, strettezza di spirilo l'occuparsene. Chiamano
oscurantismo il proporle. Chiamano forfattura il dirle al popolo. Noi, che non
siamo proseliti di quelle scuole, diciamone alcuna cosa. Non saremo da essi
ascoltati. Non mancheranno tuttavia gli ascoltatori in tempi piu
tranquilli, se non oggi. Questa è almeno la nostra fiducia.
Considerazioni contro al preteso diritto di rinnovare le società umane
per accomodarle alle proprie idee preconcette, e contro alle tentale
riduzioni ad allo di questo diritto. « Il mondo'( vuoisi dirci )
ha bisogno di riforma, e di « quella riforma che noi da lungo tempo
andiamo indican« do : e, poiché n’ha bisogno, non resteremo colle mani in
« mano. - Giovandoci d’ogni mezzo, tanto faremo, finché « avrem pur
conseguito quel che ci siamo proposto. » Quante proposizioni incluse nelle
precedenti parole, ognuna delle quali proposizioni, in argomento si grave,
richiederebbe un libro a parte per trattarla come si conviene, e per
porre ben in chiaro quel che debba pensarsene! « Il mondo ha bisogno di
riforma. - La riforma che bisogna è quella che le scuole democratiche
oggi insegnano, e non altra. Questa maniera di riforma si ha diritto di cercare
immediatamente il tradurla ad atto, senza lasciarsi trattenere da quale
si voglia opposta secondaria ragione. - Tutti i mezzi son buoni e
leciti, se a sì fatto fine paian conducenti. » - Ecco quel che vale il
discorso con che abbiamo incominciato questo articolo! Non tutte, per
vero, le dette proposizioni s’ osa dirle da tutti : ma tutte son
professate con cieca ed ostinata fede. Professarle, in questo caso, è metterle
in pratica, perchè la loro natura c tendenza è pratica più ancora che teorica.
Due fini si hanno. Uno è terribile. Da maniaci e per maniaci ;
impossibile, grazie al cielo, a conseguirsi interamente, ma purtroppo
tale, che il camminare verso esso è impresa feconda de’ piu gran mali che
melile umana possa immaginare. L’altro è un castello in aria verso il
quale non è pallon volante che possa condurre, perchè tutti i palloni son
condannali a precipitare prima di giungervi: castello senza base, altra
che di nuvole; castello posto nella regione de’ turbini, e del fulmine;
dove niuno durerebbe tranquillo, e senza perirvi alla lunga, corps el biens. Il
primo è mettere a soqquadro ogni cosa : città, terre, castelli, e ville, per
distruggervi gli ordini stabiliti, e, se bisogna, tutti che s’oppongono
alla distruzione. Il secondo è dare alla specie umana un altro
ordinamento: ordinamento repubblicano; ordinamento di pura democrazia,
interpretata e stabilita nel senso il più largo. Se ne spera per gli
uomini d’un altro secolo (certo, non pe’vivenli oggidi, e, men che per tutti,
pèr quegli stessi che ciò tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’ era nuova
tra gli uomini, era di felicità, di ragione, e di giustizia! Cerchiam di
mostrare quanto questa speranza è vana, temeraria, fallace, e quanto
questa impresa è colpevole, sottoponendo ad una ad una, ma brevemente,
ciascuna delle proposizioni a critico esame. 1. Il mondo ( morale ) ha
bisogno di riforma ? - Eh si. Ma la perfezione, in ogni cosa umana, è un
punto di mira piuttosto che una meta. Vi si guarda, ma non si pretende
arrivarvi. Vi si guarda per prendere la direzione, e per accorgersi se si
sbaglia nell'andare, come si guarda alla stella cinosura dal navigante,
non che il guardarvi significhi speranza di raggiungerla. E bello è
accorgersi di quel che merita riforma. Per gran disgrazia - judicium
difficile, experitnenlum periculosum - Si prendono spesso de’ be’ granchi
a secco, in questo mare, piu che in altro, e con più danno. E
conosciuto il bisogno vero di riforma, bello è spesso il tentare di
operarla. Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono in medicina certe
malattie, che a volerle curare si fa peggio ; e ciò nel morale, come nel
fisico. Perciò un medico savio, prima cerca di ben conoscere la malattia,
e di non ingannarsi nel giudicarla ( cosa, come testé notavamo, non
facile ). Poi cerca se si pnò medicare. Se si può intraprenderne la cura
subito. Se non giova invece differire il rimedio, e far vero il dinotando
restiluit rem. Od ancora se a tutto non è preferibile il rassegnarsi per non
isdegnare il mafe ed intristirlo. E il medico savio al cito preferisce il
tufo; e, salvo pochi casi estremi, e disperati, che scusano le più
grandi temerità, non mai dimentica lo jucunde d’Asclepiade. Gli
stati sono grandi corpi, ne’ quali un'intera sanità è impossibile. E guai
se tutti pretendono di tastar loro il polso, e di trattarli alla risoluta con
ferro e con fuoco, alla Browniana, od alla Rasoriana, dandosi patente di
dottori senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem, e Cesari,
in subiecta materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che dev’essere, quando i
medici non sono che empirici. . ! Quel che è peggio, nel caso nostro que’
che si gittano innanzi a tastare il polso, non sono nemmeno empirici;
perchè empirici sono quelli che se non han teorica, almeno han pratica :
e che pratica possono avere di cose amministrative e politiche tutti cotesti
innanzi tempo usciti, o piuttosto scappati, di scuola, a’ quali l’età
troppo giovanile e il non essere mai stati in faccende nega ogni
esperienza? La riforma che bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano, e non altra? Stimo la franchezza colla
quale in piazza questo è spaccialo come assioma, che non importa
dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti coloro ette studiano a
queste cose fossero d’ un medesimo avviso, potrebbe ben dirsi a chi non lo sa :
Ecco la verità in poche parole. Le prove sono inutili. Si tratta di quel che è
consentito generalmente. Ma qui la dottrina che si va spargendo è contro a ciò
che i più grandi Statisti e Politici sempre ed uniformemente insegnarono.
Trova oggi stesso una forte opposizione nelle scuole e fuori delle scuole,
presso il più gran numero di coloro che a queste materie han volto l’animo
preparato da forti studi. Noi medesimistiam per provare, che è dottrina
palpabilmente falsa; e lo proveremo, se al eie! piace.E si tratta d’ana
dottrina che minaccia grandi interessi stabiliti, dottrina gravida di
sconvolgimenti e di rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo
anzi senza forse, perché quei che la professano, stragi senza reticenza
minacciano a ogni terza lor parola. Con che coraggio dunque persi fatto modo
s’inganna il povero popolo invasandolo a questa guisa di supposte certezze, che
non sono che grossolani e pericolosissimi errori, atti a scaldare le
sue passioni le più accensibili, le più feraci di mali quando sono
accese ; o che, per Io meno, son dottrine in nessun modo
dimostrate? 3 La riforma, la cui necessità si v# predicando con
parole, si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente ad atto
senza lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta ragione?
Ciò è ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una proposizione incerta,
combattuta, negata da troppi ed autorevolissimi I Bella legislazione iu materia
di diritti ! Ciò è il diritto in causa grandemente controversa ( e non
tornerò ad aggiungere, nella quale non è difficile dimostrare che si ha
torto marcio ) di sentenziare, non solo, in proprio favore, sommando in
sé le parti di contendente e di giudice; ma eziandio quello d'eseguir subito la
sentenza che si è pronunziata dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se
gli altri negano la « certezza della opinione nostra, noi ne siam
persuasi, e « non possiamo permetterci di dubitarne, ed operiamo co« me
persuasi e non dubitanti ». - Ma gli altri che negano, negano perchè, con più
persuasione ancora, od almanco con pari fermezza di persuasione, hanno
una certezza in senso contrario. V’è dunque, per lo meno, lotta teorica e
coeguale di certezze contro a certezze, delle quali nessuna, cosi di
leggieri, cede alla sua contraria (1). Or perchè, e (1) Io
indebolisco l' argomento . e mi lo torlo. Gli altri che uegano hanno per
qual ragione, la certezza vostra dee prevalere alla nostra, e non la nostra
alla vostra? Per la ragion della forza, o per la forza della ragione ? Se
per la forza «Iella ragione ; dunque ragionate, e vincete ragionando,
cioè persuadendo, ciocché solo è vincere in fatto di ragionamenti. Ma
> finché ragionando non avrete vinto, e non avrete guadagnato
quella generai convinzione degli intelletti, nella quale sola può
consistere la vittoria, confessate almeno ch’ei v'é la sola certezza del non v’
esser certezza, e ciò colla solenne forinola, Nonliquei; e lasciate le
cose, nel generale, come stanno, finché alla certezza clic si cerca non
siasi veramente giunti. Se poi la certezza vostra volete che alla nostra
prevalga per Tunica ragione della forza, abbiate almeno il pudore di
non parlar più di ragione. . . abbiate almeno il pudore di non
parlar più d'eguaglianza civile de’ difilli- Voi rinegate quest'ultima col
vostro fatto medesimo, mentre la difendete col detto, e mentre pugnate ( solete
dice) per conquistarla ad universale vantaggio. Voi la rinegate, perchè vi fate
superiori, e prevalenti, per forza, a lutti coloro che credono e vogliono
il contrario di quel che voi credete e volete. Voi la rinegate, perchè,
prima di contar quanti siete, senza legittimamente poter sapere ancora se siete
la pluralità, o il minor numero, vi tenete padroni di venire ai fatti, e di
combattere contro ai dissenzienti da voi, pochi o molti che siano, sforzandovi
di tirarli a voi men colle ragioni, che ado perandovi le cospirazioni, e
a vostro libilo le armi, cioè la una certezza ben altrimenti
salila die la vostra. La vostra è ertezza di partilo, o di setta : quella degli
altri è certezza fondata sul senso colmine, cioè sul credere presso a
poco universale degli uomini di lutti i luoghi, e di tutti i tempi; di
quelli che si son sempre giudicati i più sapienti, ed i migliori ; degl’ interi
popoli, i quali tra gli altri ebbero la riputazione di più savi, e che meglio
prosperarono finché a questa certezza furono fedeli nella direzione della
loro azienda politica. Si può egli dunque istituir confronto giusto fra la
vostra certezza, e la certezza degli altri ? Chi non ha il senno velato
da passione risponda e giudichi.]frode eia violenza. Voi rinegate, perché non
vi vergognale di dire, clic, se anche una maggiorità evidente e contata,
dissentisse in modo esplicito da voi, voi minorità non più dubbia, pur
seguitereste la guerra per vincere, cioè per fare che il numero minore
soperchiasse il maggiore, e per conseguente acciocché voi che costituireste il
primo dei due numeri aveste a valere ciascuno più che ciascuno degli
altri, costituenti il secondo numero. Voi finalmente la rinegate,
perchè, divenuti ancora maggiorità manifesta, nel voler tradurre ad alto
la opinion vostra, se voleste esser ben d’accordo colla dottrina vostra d’
universale eguaglianza ne’diritli civili, dovreste concedere che il vostro solo
diritto non potrebbe esser che quello di formare un consorzio civile
del modo che a voi piace con coloro che con voi concordano,
lasciando a’ discordi di formare un altro consorzio a lor gusto, ma non di
sforzare le volontà de’ discordi a soggiacervi ; non di comandare ad essi, e di
disporre delle lor cose : ciocché è misconoscere il loro diritto,
individualmente pari a quello di ciUscun di voi ciocché è dare alla forza
il diritto supremo d’annullare l’eguaglianza ciocché é confiscare in
ognuno de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle sue cose, e ciò a
profitto d' una sovranità vostra su voi e sugli altri.E so che
risponderete. I dissidenti, che riescon mi— « nori di forza e di numero,
sgombrino il suolo, e se ne va« dano altrove; o se voglion rimaner tra noi,
s’assoggettino « colle persone e colle cose loro. » — Ma qual è il
principio di ragione, col quale giustificate questa vostra massima
di governo ? Un patto reciproco di cosi fare, tra maggiorità e
minorità ? No : perché questa massima non può esser parie d’ un patto,
che non é fatto né consentito ancora, e per conseguenza che non esiste altrove
che nel paese delle vostre speranze e de’ vostri desiderii ; donde poi si
deduce, che non è obbligatoria per que’ che ai patto da voi proposto non
si son fatti spontaneamente ligi, e che, come uguali a voi,
sono perfettamente indipendenti da voi. O volete insegnarci, che
così dev’ essere per un diritto realmente superiore ed anteriore a quello dell’
eguaglianza... per un diritto antecedente ad ogni patto... diritto
naturale... diritto che attinge la virtù efficace e la sanzione dal
fatto, in quanto è fatto; e dal fatto, in virtù di clic i più numerosi, i
più forti, i più destri est in fatis, che faccian sempre la legge alle
minorità di numero, di destrezza, di forza? Guardatevi dall’insegnarlo.
Quei che saran per avventura disposti a concederlo, potran per virtù di
logica dedurne ben altro da quello che voi ne deducete. Siccome numero
maggiore, violenza, destrezza non sono lo stesso che ragione ; siccome
sovranità di numero, di violenza, di destrezza non è lo stesso che
sovranità di ragione ; siccome, secondo la ipotesi assunta, numero
maggiore, violenza, destrezza non han bisogno di consentimenti e di patti per
comandare ; siccome l’essenza di questa virtù di comando è di
misconoscere il principio dell'autocrazia nell'uomo, e quanti» a sè, e
quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per cosi dire a posteriori, ad
una forza che gli viene dal di fuori, trasformando il fatto in diritto ( c sia
poi, nella pratica, questa forza, quella d’una maggiorità, d’una minorità
scaltra, o d’un solo ) : cosi, ammessa una volta si fatta dottrina, s’accorgeranno
ch’ella assorbe ed annichila tutte le altre. S’accorgeranno, che non vi sono
più, con essa, nè uguaglianze, uè autocrazie di persona, nè patti che
tengano. Sentenzieranno che la forza, razionale od irrazionale, è l’unica
padrona... la tiranna degli uomini : la forza che ha la ragione di sè
in sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno. E
sarà con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello d’ogni
despota felice, d’ogni governo forte, qualunque siane la natura, l’origine, e
la forma ; o sarà dispensato almeno dalla necessità di giustificarsi,
perchè sarà annullata la giustizia. E voi che avrete messa in onore questa
terribile massima, n’ avrete guadagnato al postutto di metter in onore un
principio, che potrà esservi ritorto contro da ogni fortunato avversario; e
ridurrà tutto il diritto pubblico al diritto d’una guerra perpetua tra gli
uodiìdì ; senza mai speranza di concordia o di pace. Nè ho qui
toccato l’altro punto della proposizione la quale esamino, contenuto
nella seconda parte di essa proposizione, dove si dice dai nuovi riformatori
del mondo, eh’ essi non son disposti a lasciar di cominciare o di
seguitare l’ opera per qualunque ostacolo d' opposta secondaria cagione:
ciocché, mi si perdoni d’ esser costretto a risponderlo, è favellar
da mentecatti. Imperocché i soli insensati dancominciamentoalle
imprese, e s’ostinano a continuarle, senza punto attendere alle
circostanze, alle opportunità, agl’ impedimenti. Povera gente! Questo lo
chiamano bravura! la bravura di Storlidano nella Gerusalemme liberata. È un
amor idolatra della propria opinione, la quale ha toccato i termini della
infatuazione e della mania. Per essi è vero Audaces fortuna juvat; non è vero —
La fine de’ temerari e degl’improvvidi è fiaccarsi il collo. Come tra tutti gl’
innamorati, le difficoltà non servono ad essi ebe a far crescere in loro
le furie cieche del1’ amore. Caloandri fedeli, andranno per montagne e
per valli, colla lancia sempre in resta, contro a rupi e burroni,
se non basti contro ad uomini, e contro a giganti. La previdenza la chiamano
codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrilegio, perchè questo amore è per loro una
religione ( perdonino la parola le orecchie pie). Son sacerdoti dell’ idea,
della quale si son fatti un idolo interiore ; e purché l’ idolo
sopravvinca, muoiano tutti, e la patria stessa perisca. E sorga un'altra
patria, se lo può, e sia rifatto il mondo a pieno lor grado... o sia
disfatto!!! — Aspetto, intanto, che mi si provi, gl’innamorati ed i fanatici
esser mai stati, o poter essere uomini atti ad amministrare le cose
umane, private o pubbliche. Governali essi male sé medesimi : può
immaginarsi come governerebbero gli altri ! — Gran miseria de’
nostri giorni, il dover perdere il tempo a confutare monomanie si
mostruose! Il meglio che si possa fare sul loro proposito è non dirne
altro. Qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito, se al fine
conduca della universale Riforma che vuol ten~ (arsir — Egregiamente,
come il resto! L’assassinio... perchè no? Questo s’ usa. Questo non radamente è
necessario. Ha spesso una efficacia molto sbrigativa ed unica. Dunque
è bene. E se è bene I’ assassinio... un pugnale dietro le spalle... un
assalto a tradimento... un’aggressione di quindici armati cantra uno
disarmato, perché non il veleno? perchè non l’ incendio ? perchè non la
calunnia ? perchè non » libelli infa manti? perchè non le falsificazioni di
carattere? perchè non il furto, o la rapina? #alum ad bonum ErgobonumH! E ciò sarà chiamato
riformare in meglio il mondo ! Togliete a! popolo ogni sentimento religioso. La
religione, eh’ esso ha, favorisce i tiranni. Toltagli questa religione,
il volgo sarà materialista ed ateo... M’inganno. Alzerà altari Deo
ignoto, come già in Atene ; ma ad un Dio, che non ha fulmini per punire,
non ha che indulgenze per chiuder gli occhi sui male che fanuo gli uomini
; e gli uomini faranno il male allegramente, e con piena sicurtà di sé.
Ma per (sradicare nel popolo la fede nel Dio de’ Cristiani, nel Dio che
lo ajutò ad esser buono colle sue speranze, co’ suoi spaventi, volete adoperar
le scaltrezze d’una filosofia sofistica e trascendente? Esso non la
capirebbe, non la gusterebbe. Meglio vale creargli il bisogno di non crederla.
Si renda vizioso, e tanto che disperi del perdono, e trovi più comodo il
negare le pene d' un’ altra vita, che il paventarle. Si seducano perciò le
donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si corrompa la gioventù... Debbo io
seguitare questo tristo inventario di pratiche atte a pervertire? O non qui
scrivo un piccolo brano della prima pagina delia storia contemporanea ?
Cosi, non è tanto una proposizione astratta, quella che qui discorro,
quanto un’ opera avviata a compimento e cotidiana. Già non c’ è più bisogno di
prediche. Le prediche son fatte, ed han fruttificato. È in pien corso il
nuovo insegnamento. Aspettando la universale Riforma, a chi
minacciata sotto forma d'una ghigliottina, (o d’una delle tante
eleganze inventate 60 anni fa in Francia, coggi pronte a
risuscitare: u«e fournée, une noyade, una passeggiata di colonna
infernale), a chi presentata nell’ abito verde della speranza come un
secol d’oro che si prepara a nascere per condurre in terra la perfezione fin
qui ignota a’mortali; noi poveri contemporanei vivemmo, invecchiamo e morremo
tra le delizie d’un presente tutto pieno di perturbazioni. Ora i benefizi
che si promettono agli eletti son per lo meno nella schiera de’ futuri
assai contingenti. Il male che s’ opera, e che si soffre purtroppo, è da
lungo tempo una funesta realtà. Per tornare all’ argomento nostro, gli scrupoli
si van togliendo. La bella morale del fine che giustifica i mezzi corre
il mondo, c lo conquista. Noi siam cattivi abbastanza. I nostri figli,
se Iddio nella sua misericordia uon ci provvede, saran peggiori di noi.
Qual riforma della umana convivenza possa divenir possibile con si fatta
educazione degli uomini, altri mcl dica. Io non so indovinarlo. Il mio
stomaco si solleva dalla nausea veggendo i costumi nuovi, le abitudini
nuove, udendo le bestemmie nuove. L’istoria ha sempre insegnato, che
tutte le volte nelle quali un popolo è stato condotto a questi estremi, esso ha
rapidamente degenerato, e finalmente è perito. Cosi fu spenta la gloria
di Grecia e di Roma antica. Cosi la gloria più antica ancora delle
Monarchie de’ Babilonesi, de’ Medi, de’ Persiani, degli Egizi. Le stesse cause
hau sempre prodotto nel mondo gli stessi effetti ... e sempre li
produrranno ! E qui fo punto. Fo punto; ma poche altre parole mi
permetto d’aggiungere su tutto l’argomento di questo articolo. Si vuol
distruggere gli antichi ordinamenti del mondo caule que conte, facendo
sempre la vista di partire dai due principii, della libertà e della
eguaglianza. E vedemmo quanto l’una e l’altra si rispettino in tulli gli sforzi
che si fanno per fas et nefas a fin d’ affrettare l’ ora della riforma.
V’ é però ancor peggio di quel che ho detto, sebbene ho detto molto.
Ripigliando da un’ altra parte il principio de\Y eguaglianza, dopo averlo
calpestato c manomesso, e ripigliandolo a scapito del principio della
libertà, si parla d’abolire lutti i diritti acquistali anche per vie le più
oneste. Gli uguali ban da essere uguali, perdendo tutto quello per che
con arti anche degne, e coll’ industria, e co’meriti, e colle fatiche,
s’eran fatti maggiori, e non han da esser nè uguali nè liberi quanto al diritto
di contrapporre il loro no all’allrui si. Gli uguali s’tian da potere non
solo spogliare dagli altri uguali, ma da questi si ban da potere anche
sterminare ed uccidere, se voglion conservare intatta tutta la loro
autocrazia, se non voglion piegarsi a dar mano a queste spogliatrici
dottrine... -Un contratto sociale tra eguali ha da esser fondamento della
società nuova per libero consentimento di tutti; ma il patto, o contratto
sociale non dee poter aver forza, e il libero consentimento non ha da esser
libero di non consentire ai patti che vogliono i preparatori della nuova
libertà ed eguaglianza. E queste contraddizioni palpabili e nauseose si
dissimulano dagli uni ; e dette agli altri non li commuovono, ed è come
se non fosscr dette, tanto è fermo il proposito di non ragionare, c
d’ostinarsi. Ecco a qual grado d’ accecamento e di depravazione s’è giunti! Con
che torna vero quel che già notavamo, chiudendo il 3. articolo. Cercar di
confutare costoro è spendere parole ed inchiostro a pura perdita. — Scriviamo a
preservazione dei non corrotti ancora, o ad emendazione di chi sta tra due nè
ben sano, nè tutto guasto. Gli altri Iddio li illumini. E ripigliamo dal
suo principio il discorso delle ricostruzioni, delle costruzioni, o delle
riparazioni dell’ edilizio sociale. Altre considerazioni sulle riforme nel
reggimento delle convivenze umane in generale, e sul diritto e il modo di
tentarle. Quantunque d’un argomento si importante oggi tutti
parlino in tuon di dottori, e quasi anche i fanciulli, qui «ondimi aere
lavanlur, pur non è men vero, che il dire intorno ad esso quel che veramente la
ragione insegni è cosa grandemente difficile per tutti, ed anche pei più
periti nelle scienze dello Statista. Due sono i casi. O alcuni
inclusi in una convivenza civile già stabilita, e soggetti alle sue
leggi, se ne stancano, vi si trovan male, vogliono sottrarsene, e ciò non
collo staccarsi e irsenealtrove in cerca d’un’associazion nuova, ma coi
riformar l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a questo gli
altri che pur vi sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione del
politico ordinamento, nella civile congrega alla quale s’appartiene, non sono
alcuni, ma presso a poco tutti, cosicché nessun degl’interessati in ciò
resista, e faccia notabile ostacolo. Nel secondo caso, difficoltà gravi, quanto
all’iniziare le riforme, di che si crede aver bisogno, non possono
esservi (1), perchè si suppone non esservi lotta ; ed aversi, (t)
Noq saranno le difficoltà quanto al consenso nelle riforme, ed alla loro
attuazione. Resterà peri) a vedere pur sempre, se le riforme in che
consentirono, avranno quel sommo genere di legittimità che sola puh dar
la giustizia e ragionevolezza loro, o se uon l'avranno. E resterà a cercar se,
non avendola, siano ciò non ostante obbligatorie, ed in che senso, e fino
a qual grado, o dentro quai limiti lo siano : questioni difficilissime a
trattarsi, ma che non e questo il lungo di trattare presso a poco,
universalità di consenso. (Le difficoltà cominceranuo, quando si tratterà del
modo, se vogliasi che questo modo sia il più ragionevole, ed il più
profittevole a tutti). Ma, nel primo caso, non si può dire
altrettanto. Quando un governo è stabilito, e un ordine quale che
siasi già esiste... quando in tutto il numero dei componenti la civile
congrega i sufficientemente contenti sono di gran lunga i più, e i veramente
gravati, e giustamente malcontenti sono di gran lunga i men numerosi, il
vero diritto non è quello di turbare tutto lo stato tentando novità, e
con ciò disturbare tutti i contenti e tranquilli, rimescolando e
rinnovando ogni cosa, e scomponendo e disordinando ogni privato interesse,
per fare ragione ai pochi che si lagnano perchè stan male ; ma è il
diritto di cercare, senza punto incomodar gli altri, o comunque gravarli
nelle persone e negli averi, che sia fatta ragione ai pochi che lo
dimandano, e che lo meritano. £ questo può esser difficile ; può essere
anche talvolta impossibile senza rovesciare intera mente la costituzione dello
Stato. Tuttavia ci vuole un bel coraggio per mettere innanzi la
proposizione, che, dove ciò accada, la giustizia negata a’
comparativamente pochi, debba essere ad essi buono e legittimo motivo di
spinger la reazione immensamente più in là di quel che porta il
loro diritto ; cioè, affinché questa sopravvinca, di scomporre e
distruggere tutta la macchina costitutiva della civil congrega, della quale i
più si trovan paghi, mentre ogni turbamento un po’ generale dell’ordine
stabilito tutti inquieta, molesta, e danneggia (1). Maggiore però fa
d’uòpo che sia questo coraggio, se quei che si fatta proposizione
mettono (1) Può bene io questa ipotesi ater luogo il principio (ed
il più spesso lo de\e)-Expedit unum hominem mori prò cunctopopulo.-l pochi
gravati, operato per ottener giustizia tutto quello che non pub operarsi senza
manifesto e mollo maggiore danno deli' universale, se ascoltano la voce
della coscienza, il meglio che possan fare è rassegnarsi, come è forza
rassegnarsi alle malattie, alle disgrazie fortuite, ai tanti altri mali
della vita. ] innanzi, nessuna ingiuria, nessun (orlo ricevettero, e
sono unicamente duellanti, per cosi dirlo, di malcontento, i quali non si
lagnano per proprio conto, ma si lagnano per conto di quelli che a loro
spiace di non udire lagnarsi, e eh’ essi vogliono che si lagnino per
forza ; o di quegli altri che, pur lagnandosi a buon diritto, nondimeno
par loro che non si lagnino abbastanza, e non sian disposti a spinger le
querele fino agli estremi che a lor piacerebbero. Vengan di nuovo que’ehe cosi
vogliono e fanno, a parlarci d’eguaglianza, e di tutte l’ altre loro frottole
di libertà, di giustizia, di ragione ! La loro eguaglianza diventa, come
altrove riflettevamo, superiorità de’ pochi su i molti. La loro libertà
diventa licenza di nuocere agli altri per giovare a sé, o per soddisfare
la propria passione. La loro giustizia è non tener conto del diritto
altrui, per non aver occhio che a quello che si crede essere il diritto
proprio, od il proprio talento. La loro ragione è la ragione del più
forte ; una ragione egoista, ostinata, feroce, senza pietà, senza discrezione,
senza riguardi... una ragione che ricusa di ragionare, e che vuol esser tiranna
delle ragioni altrui. Si difenderanno con dire, che, ncll’operare quel
che tentano, il fine loro non è contentare sé stessi, pregiudicando
indebitamente gli altri, c dando loro motivo legittimo di querelarsi ; ma
è proporsi cosa in sé buona : cioè, considerato che gli stali son oggi, dove
più, dove meno, in tal mala guisa ordinali da render possibili per tutti,
e inevitabili per molti, una gran quantità d’ ingiustizie, d’avanie,
d’oppressioni cotidiane, senza facile riparo, e sovente senza alcun riparo ;
considerato per conseguente, che il malcontento il quale per gli uni è attuale,
per gli altri è virtuale, e che il danno da tale o tale sofferto oggi, può
percuoter domani, o doman l’altro, a volta a volta, quelli ancora che or sono
contenti ; considerato perciò, finalmente, che, a distruggere il vizioso
edificio delle odierne macchine politiche per sosliluirvene un altro
migliore, è meno ancora contentare sé, che rendere servizio all’universale, e
a quei medesimi che ora per poca previdenza, per indolenza, per egoismo
rifuggono dalle riforme e che ciò è poi promuovere la causa sempre bella
ed onesta della giustizia : per tutte queste ragioni far essi cosa degna
d’ approvazione, anziché di biasimo, perseverando nella impresa alla
quale si danno. Ma l’apologià nulla vale. Primo : hanno
eglino ben pensato, cotesti temerari sconvolgitori delle civili convivenze, la
massima gravitò del fatto a cui s’adoperano? Uno stato è una somma
immensa d’interessi distribuiti e collegati tra tanti quanti sono in esso
gl’individui che sono, e que’che prossimamente, o più tardi, saranno. Ogni
interesse si risolve esso medesimo in innumerabili subalterni interessi di cose
e di persone, ed ha sempre due parti : una che risguarda i privati,
l’altra che risguarda il pubblico, ossia 1’ universale. Quanto più
una umana congrega è matura a civiltà, ed in essa progredisce,
tanto più questi interessi crescon di numero e d’importanza. La prosperità
privata e pubblica è tutta principalmente fondata sul rispetto, sulla
protezione, sui favore che ottengono si fatti interessi. È pur troppo certo
(colpa delle imperfezioni umane !), che non v’ha umana congrega, non v’ha
stato, dove gl’interessi qui mentovati riscuotano tutto il favore, tutta la
protezione, tutto il rispetto che aver dovrebbero, acciocché la
prosperità fosse massima. Per conseguenza è purtroppo certo, che tutte le umane
congreghe, tutti gli stati han sempre bisogno di qualche riforma, e
di molte riforme, e questo è bisogno che mai non cessa, perchè mai non
cessano di rivelarsi e di generarsi i difetti di rispetto, di favore, e
di proiezione di che parlo. Qualche umana congrega, o qualche stato,
tanto alle volte soprabbonda di difetti di si fatto genere, che il riformarli
si fa un bisogno generalmente, e fortissimamente sentito. Ma, dopo lutto
ciò, può egli dirsi che sia cosa lecita e conveniente (per lo sdegno delle
riforme che non si fanno da que’che llO lo dovrebbero, polendole
fare) l’opera cbe, con privala autorità, vogliono alcuni collocare in
promuovere tali convulsioni politiche, dalle quali, secondo le maggiori
probabilità umane, queste immediate conseguenze sian per discendere, che tutta,
o quasi tutta la massa degl’interessi privati e pubblici sia
improvvisamente e grandemente turbata-che moltissimi di essi patiscano enorme
ed irreparabile offesa, od anche intera rovina-e cbe, per un tempo più o
meno lungo, e sovente lunghissimo, nata, e durando, la lotta tra que’cbe
si difendono, e que’ctie offendono, innanzi alla vittoria decisiva, la quale di
soprappiù non si può mai prevedere per chi sarà, non s’abbia altro
spettacolo cbe di fortune ile a soqquadro, di famiglie desolate, di
uomini esterroinati, di civili battaglie e guerre... del commercio rovinato,
dell’industria spenta, degli studi intermessi, d’ abitudini d’ozio, di
turbolenza, e di licenza introdotte, e di lutti gli altri mali di cui gli
annali contemporanei troppi esempi da più cbe mezzo secolo ci somministrano ?
Per poterlo dire, sarebbe almen necessario aver fatto un bilancio: il
bilancio de’ danni a’quali vuoisi portare riparo, e di quegli altri, che,
col fine d'arrivare a questo riparo, certamente si genereranno. Ma questo
bilancio, che, ne’singoli casi, i temerari sconvolgitori odierni delle civili
convivenze non fanno, e non han fatto, l’ba già fatta per tutti la storia,
e lo ha pubblicato. Essa da lungo tempo ha insegnato agli uomini, che, di tutte
le calamità, le quali possono cadere sopra un popolo, nessuna calamità
pareggia quella di ciò cbe si chiama una rivoluzione, massime dei
modo di quelle che oggi si macchinano, e si hanno in pensiero, od apertamente
si minacciano. I cattivi governi... le tirannidi d’ogni nome offendono
gravemente alcuni, od anche molti ; ma, salvo certi casi rari come le mosche
bianche, lascian sufficientemente tranquilli i più, e, nel loro proprio
interesse (voglio dire nell’interesse de’ governanti) risparmiano il
massimo numero : di guisa che le angherie, lille ingiustizie, sodo enormi
iu pregiudizio d' alcuni; per molti sono grandi, ma pur tollerabili e
pazientemente tollerate, per non pochi nessune. Al contrario, le rivoluzioni, a
quel modo che oggi s’ intendono, se pur non siano, come suol dirsi, colpi
di mano, a coi per miracolo succeda un immediafo e tranquillo
riordinamento, per poco che durino (e durano spesso una o più generazioni
d'uomini), offendono tutti... anche que’che le han fatte, i quali, d’ordinario,
finiscono col perirvi, essi e i loro. Finché si pugna, è strage dalle due
parti... la strage delle guerre civili ; strage accompagnata di crudeltà
mostruose e ferine, d’eccessi contro a natura. Sono incendi, saccheggi,
brutalità d’ogni nome, e senza nome. Que’che non combattono, sono vittime
spesso delle due parti combattenti. E chi può prevedere quanto durerà il
combattimento, quanto sarà esteso, quante volte ripullulerà, or dall’un
lato, or dall’altro ? Chi può dire a priori, se vincerà Bruto, o Tarquinio se
interverrà Porsenna.... se si troverà sempre un Muzio Scevola, un Orazio,
una Clelia... o se piuttosto Roma non finirà per servire al re di Chiusi,
come pur troppo la storia rettificata oggi dice? Habenl sua sidera
lites.-E intanto le felicità dell’anarchia per que’che non pugnano ! Le
felicità delle dittature militari nel campo, o ne’ campi di battaglia,
o dovunque armati stanno o passano ! Le terre le coltiverà chi può, ossia
non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti potran chiudere i loro fondachi, se
tuttavia lo potranno, e se non li vedranno messi a ruba ed a rapina prima
del chiuderli. I ricchi fuggiranno, se lor torna fatto, ma fuggiranno in
farsetto, se nou perdano la testa per via. Palagi, monumenti, sa il cielo come
saranno malmenati. Il danaro rubato si dissiperà, come si dissipa sempre
il danaro del furto. L’altro sarà nascosto, o mandato all’estero. Poi
la penuria, la carestia, la fame, e seguace della fame la peste o
l’epidemia. De’ costumi non parlo, né della gioventù falciata innanzi
tempo, o perduta ad Ogni buono impiego Digitized per l’avvenire...
Succederà, quando Iddio vuole, la villoria ultima a chi Iddio vorrà darla
(spesso nè agli uni, nè agli altri, ma a' terzi venuti di fuori... ai
Porsenna : secondo il proverbio, che tra due litiganti il terzo gode ; con
che sarà perduta l’autonomia, e da popolo che obbedisce a sé stesso
ed a’suoi, si sarà trasformati in popolo conquistato, in popolo assoggettato,
in popolo profeto, in popolo-colonia, in popolo vaceg-da -mungere ), e colla
vittoria ultima sarà una specie di pace. Che pace però? La pace
accompagnata qualche volta da amnistie per tutti, se può sperarsi, che,
come è disposto a dimenticanza vera il Vincitore, cosi sia disposto il vinto :
ma, se a questa seconda dimenticanza non si crede da esso vincitore, mancherà
d’ordinario la prima, e mancherà, alle volte, indipendentemente da
ciò, s’cgli creda che bisognin giustizie ed esempi, e se le collere non
calmate cosi consiglino, o le circostanze paiano cosi comandare. Ed allora
s’avrà un altro tempo, più o meno lungo, che sarà di terrori più o meno
grandi, e di severi gastighi, od anche aspri, che i gastigali chiameranno
reazioni e persecuzioni, i gastiganti chiameranno necessità, e opere di
prudenza ; e chi oserà dire, in massima generale, da qual parte sia la
ragione ? — E questa vittoria, e questa pace, e i migliori lor frulli,
per chi poi saranno? 10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio : cosicché è
possibile (si torni bene a pensarvi sopra), mollo frequentemente è
probabile, e facile a prevedere, se non si è ciechi, che non sarà dalla
parte di chi tentò la rivoltura : ma, o di quelli contro a’quali fu
tentata, o d’altri e d’altri, diversi, e non aspettati, c non voluti, e
non utili. Nel qual caso agli altri mali s’aggiungerà quello che non
s’avrà nemmeno il contento d’aver guadagnato ciò che si cercava ; e s’avrà
invece 11 dolore e la pena di avere aggravato il male che voleva
allontanarsi, o d’ esser caduti, come s’usa dire, dalla gradella nelle
brace. - Anzi non basterà a’rivoltuosi nemmeno l’aver essi per sè
guadagnata la vittoria : perchè aver vinto è poco. Ciò significa essere
riusciti a distruggere, non significa avere edificato, e poterlo e
saperlo fare. L'opera della riedificazione resterà ad intraprendersi : opera
più difficile sempre che non quella della distruzione : opera, che, ne' paesi,
ove gli ordini antichi, colla violenza, si spiantarono, richiede, per
solito, anni moltissimi, e talvolta secoli, innanzi all’ esser condotta a
qualche buon termine : opera, in questo mezzo, tutta di prove e di errori,
tutta d’esitazioni, tutta di conti sbagliati e da rifarsi ; vera tela di
Penelope da far disperare del compierla ; e che quando pur si compie si
trova ben altra da quel che s’era immaginato, finita da altre mani, sotto
l’impero d’altre circostanze, sovente di altre idee, tale insomma che, per
ultima conclusione si riconosce essere un imperfetto sostituito a un altro
imperfetto, dove ciò solo di sicuro che emerge è la certezza del male immenso
che si è fatto a pura ed inutile perdita. Secondo: e fin qui ho supposto che si
parta almeno da un motivo più o meno evidentemente giusto dell’ operare
le rovine che vogliono operarsi, col fine huono, sebbene con Non si crede
vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila sopra a 60 anni in qua. Veggasi
piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le tante repubbliche succedute alle
mutazioni americane. E mi si opporrà, per avventura, il solilo modello
della repubblica degli Stati Uniti d’America ; cioè un esempio
sufficientemente favorevole contro a molti contrari. Questo è la pruova
del terno vinto, che è la rovina di tutti i dilettanti di giuoco. La
repubblica degli Stati Uniti d’America ha incontrato quattro fortune piuttosto
uniche che rare. 1. La fortuna d’ essersi imbattuta in un Washington. 2.
Quella d’essere stata, quando cominciava l'affrancamento un paese nuovo,
e d'una popolazione assai sparsa In mezzo alla quale le fermentazioni e i
conflitti delle idee meno eran facili. 3. Quella d’averne avuto a
progenitori, uomini già educati a libertà, ed a reggimento presso a poco
repubblicano. 4. Quella d’aver dovuto lottare contra un potere lontano....
troppo lontauo, e con validi esteri aiuti. E ancora, prima di giudicare
il bene o il male del reggimento che si è conseguito di stabilire,
bisogna la sanzione d’ almeno un paio di secoli. Io non lo credo fondato
su base ferma.] gravo pericolo, e spesso quasi colla sicurezza di
successo non buono, o non proporzionatamente buono. Ma questa
giustizia del motivo v’è ella sempre? Chi la giudica d'ordinario? e quanti sono
que’che la giudicano? Uomini d’esperienza? Uomini i più sapienti nel popolo?
Uomini che conoscou bene lo stato vero delle cose? Uomini, che non si
lasciano illudere dalla passione? Uomini capaci di ponderare, non solo se il
motivo è vero in qualche grado, ma se è vero fino a tal grado da
richiedere un pronto rimedio, da non averiosi che per una rivoluzione? e
da lasciare sperare con qualche buon fondamento che per una rivoluzione
di leggieri s’avrà? Diamo un’occhiata al passato, ed al presente
prima di rispondere, e ricaviamo la risposta da quel che s’è veduto, e si
vede. Ragazzi, e giovinastri, od uomini già noti per natura torbida, e
per naturale inclinazione a novità. Gente impetuosa, violenta, a cui natura
toglie il giudizio freddo ed imparziale dei fatti. Persone di mano, e non
di testa, facili a prestar fede al male che si dice di que’che odiano, e
ad esagerarlo, ed a misconoscere il bene: tali che .a reggimento ed a
governo mai non dieder mano, e che parlano di quel che non sanno, per un
dicium de dieta tali che delle ponderate risoluzioni non hanno nè la scienza,
nè 1’ abito, nè la capacità ; e il cui maggiore studio non è curare, se
quel che vogliono sta bene o male a volerlo, ma cercare come possano
cominciare a ridurlo ad atto. E cotesti formano il fiore dello stuolo.
Gli altri son quali possono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri, come
subalterni. Volgo proletario, che è facile sedurre con immaginarie
speranze, e mettere in fermento con fanatiche predicazioni. Disperati e
perduti per debiti. Piccoli ambiziosi, che consapevoli della loro nullità e
turgidi di luciferesca superbia, non altro mezzo veggono per sorgere, che
il gittarsi a corpo perduto tra i motori di cose nuove. Giovani
entusiasti, poveri di mente e di cuore, in cui l’immaginazione prevale al
giudizio, il bisogno d’agitarsi e di fare al bisogno di starsi con uu
libro innanzi o Ira le pacifiche occupazioni d’ una vita di sedentari
negozi. Altri che seduce il mistero delle sette, nati per essere schiavi
in nome della libertà, e bruti in nome della ragione. I seguaci di
Calilina, quali ce li descrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani di
Clodio i guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con
giustizia decidere il tremendo problema delle rivoluzioni, e della
necessità del farle...? Poveri popoli condannati a patire la costoro malefica
influenza! I disordini d’uu governo cotesti son più atti ad accrescerli
che a conoscerli, e a ripararli.,E il lor costume è di dire che il desiderio
loro è il desiderio di tutti, o almcn de’ più, perchè più di tutti
essi gridano, e s’ agitano, e accendon fuoco da ogni parte! Gli
altri che tacciono, e che col silenzio mostrano che non si malesi trovano
da dover gridare, non li contano. Son essi il popolo vero; il popolo
solo. Gli altri, che coraggiosamente s’oppongono e gridan contro, non li
apprezzano. Chi sta in casa e bada agli affari suoi non fa numero.
Chi s’oppone è zero ! ! ! Tanto basti avere avvertito per
giunta ali’altre cose dette nell’antecedente articolo, e nel principio di
questo. Si opporrà — Stando al precedente discorso, le rivoluzioni non si
potrebber mai fare ( vedi calamità !), e i gravi disordini degli stali non mai
correggere. E Bruto primo ( po'ni esempio ), e Bruto secondo sarebbero stati o
due pazzi, o due furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace
quella grande iniquità del regno, e quella maggiore di Tarquinio
secondo e di Giulio Cesare. E i popoli dovrebber soflferir sempre, eie
tirannidi sempre trionfare, lo rispondo. — Innanzi tratto non si abusi delle
autorità. Sappiamo oggi tutti la verità intorno ai due Bruti, non quale
ce l'han trasmessa menzognere storie, ma quale una bene illuminata
critica cereò di porla in chiaro in mezzo alle tenebre addensate sugli
antichi fatti. Del primo Bruto poco può dirsi. Esso è mito più che
personaggio certo. Stando a quel che se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava
la libertà o la schiavitù diRo' ma, nella famosa storia del bacio dato
alla terra. Oggi si sa, e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei
Galli, non fu mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione
di Giunio Bruto contra il Superbo, se risguardiamo agli effetti,
distrusse per lunghi anni la prosperità della futura capitale del mondo,
e non è sicuro che la preparasse. A essa dovette Roma i mali d’ una lunga
e disgraziata guerra, che condusse, come testé notavamo, all’assoggettamento a
Porsenna, il quale altro ferro non lasciò a’ vinti romani se non
quello che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La città regina
deve la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra infelice
del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza Bruto, la
tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le due catastroG, che
successero, pel tentato repubblicano mutamento sarebbero state. Se dal male
venne poi bene alla luoga,ciò non è il merito dell’ autore del male. I
provvidenziali destini di Roma dovevansi compiere ad ogni modo. Quanto al
secondo Bruto, si conosce nou meno a che buon fine usci il cavalleresco,
e sufficientemente odioso fatto dell’ingrato bastardo del Dittatore. Il
fanatico non conobbe nè i suoi contemporanei, nè i veri bisogni del suo
paese. Fu un povero politico, siccome un povero guerriero. Nè combatteva
per la riforma, ma a chi ben riflette, contro ad essa, voglioso di richiamare a
una vita impossibile la degenerata e morta repubblica, la quale Cesare per ben
di Roma aveva distrutta. E il mondo che vi guadagnò? L’aver perduto un
grand’ uomo qual senza dubbio era il vincitore delle Gallie e di Pompeo,
per fargli succedere un minore di lui, nè manco despota di quello. Nondimeno,
io non voglio abusare di questa maniera d’argomentazione. Certe
rivoluzioni, che, dopo i primi mali prodotti, alla fine son riuscite ad
utilità ( una ogni mille ) io non voglio negarle. Voglio negare che il
massimo numero delle volte siano state atti considerati e degni di lode,
anche quando una utilità se ne trasse. Voglio osservare ch’elle sono
giuocate di lotto, dove il vincere è un caso assai raro, il perdere è la
sorte comune; con questo di peggio, che il perdere non è mai di poca cosa,
nè d’uno o di due, ma di tutto un popolo, di tutta una nazione, perchè la
posta ( 1 ’enjeu ) è la fortuna di esso popolo, di essa nazione, nel suo
presente, forse nell’avvenire; sono le vite, gli averi, gli onori, ogni cosa
più cara che gli uomini s’abbiano. Voglio per conseguenza dire,
ch'esse possono esser atto di disperazione o d’audacia, non atto mai, o
quasi mai di senno; e che sono un mezzo, e qualche rarissima volta il
solo ( della cui natura lecita od illecita quanto a coscienza di buon cristiano
è questione che lascio decidere a’casuisti ) per liberare l’universale da
mali, più o men reali, e più o meno intollerandi, son però un
pessimo mezzo; uno di que’ rischia-tutto, che chi sente d’andare a irreparabile
ed imminente rovina, tenta qualche volta, come un’ultima speranza, quia melius
est anceps, quarti nullum experiri remedium, ma che aggiunge un biasimo
di più a chi, andando a rovina, per questa via l’ affretta, e la
rende più grave, più inevitabile. Or, data, contro alle rivoluzioni
in generale, questa sentenza di condanna, qual rimedio dunque avranno i
tiranneggiati, gl’insoffribilmente angariati, i giustamente e gran-:
demente malcontenti de’ mali ordini politici sotto i quali gemono ?
Vuoisi eh’ io tratti la questione storicamente, o teoricamente? Se
storicamente, dirò, con franchezza, spesso nessuno. Perciò gli annali del
mondo son pieni delle storie di popoli non solo lungamente malgovernati,
e barbaramente oppressi, ma sterminati senza rimedio, e cancellali tutti
interi dal libro della vita. Coraggio o viltà ; resistenza e difesa sino
agli estremi, od abbandono di sè, non ci fanno nulla: chè spesso il
tentar di liberarsi e di riscuotersi è stato col proprio peggio, rendendo più
tormentosa 1’ agonia, più terribile I’ eslerminio. In questa guerra, come
in ogni altra, è quale nel duello. Non vince sempre chi ha ragione.
Cosi le disgrazie dei mali ordinamenti, e le pressure, son come le
pestilenze, come le fami, come gli altri flagelli che cadono a volta a
volta sulla nostra povera specie, a ventura, come un decreto di calamità e di
morte, al quale ci è forza soggiacere. Se parliamo poi teoricamente, dirò,
che in cielo non è scritto, che la giustizia in terra sempre vinca. È
nell’ economia del mondo, che il male non rade volte domini il bene, e
che la specie nostra riceva, a quando a quando, dure lezioni per imparare
umiltà e rassegnazione; per accorgersi che non è qui il tribunale supremo
dove si giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Operare o
per temere una giustizia futura ; per credere un’ altra vita. Noi tratteremo
altrove questo argomento più alla distesa. Il rassegnarci
sarà dunque lo scoraggiante unico dover nostro? nè Iddio nella sua pietà
e bontà infinita ci avrà dato modo per ajutare la giustizia, se non a vincere,
almeno a generosamente difendere le proprie ragioni, a virilmente
protestare contro alla iniquità e al sopruso? Questo io non pretendo, e
nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò t che i savi pretendono,
richiede un più lungo discorso. A chi, senza passione, studia i casi dei
popoli quasi sempre appar chiaro, che si fatta specie di mali assai
radamente sono senza manifesta colpa o cooperazione di chi vi soggiace.
Si soffre perchè s’è meritalo di soffrire. I figli pagano la pena degli
errori de’ padri. E tuttavia, se par non esservi rimedio, è che manca le
più volte piuttosto la sapienza e la virtù per emendare il danno, di
quello che la possibilità d’emendarlo. Un popolo che soffre ( giova
ridirlo ), soffre ordinariamente, perchè è degno di soffrire; ed allora
il soffrire è una pena meritata, e il non saper liberarsi di questa pena,
e il seguitare di essa è ugualmente sua colpa. Dove i probi, ed i
sapienti, e i fervidi amatori del pubblico bene abbondano, l'amor del
giusto e del vero necessariamente si prepondera, che l’ingiusto ed il
falso non possono allignare, od allignando non possono guadagnare rigoglio, e
non finire col diseccarsi fino alla radice, e col perire. Perchè
dal retto apprezzamento, nel maggior numero, di quel che è buono e
cattivo, e dall’avversione per questo, e dal bisogno di quello, si genera di
necessità ciò che si chiama la forza della opinion dominante, che è tanta
parte della forza delle cose, la quale, allorché ha saldo fondamento di
verità, dura, e non domina da burla. I cattivi, se vi sono, allora han più
vergogna, e a lor malgrado, si nascondono, e non osano, o, se ardiscono,
sono presto repressi, senza strepito d’armi, dalla generale riprovazione,
la quale, in innumerabili, prende la forma di coraggio civile, che
dice animosamente, ma pacificamente, e con tulli i modi legali, il
vero : ciocché è possibile, ed alle volte è probabile, che nuoca a chi lo
dice, ma non è possibile, nè probabile, che non Gnisca col giovare
all’universale, secondo che gli esempi di sì fatto coraggio fruttifichino, si
moltiplichino, e si rinnovino. In altri prende la forma di pubblica e
franca disapprovazione, tanto più efficace, quanto men turbolenta, quanto
meno esagerata. In tutti prende ogni legittima forma, per la quale sia
possibile arrivare, senza eccessi mai, nè disordini, all’emendazione del
malfatto. E il malfatto battutto da tante parti, ed in modo si misurato, si
degno, sì animoso^ nel tempo stesso si prudente, potrà bene sbizzarrirsi
ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la virile e nobile
resistenza di quei che giustamente si querelano, si bene sarà vinto con
assai più prontezza che altri non immagini. Ma dove cittadini della
forte e virtuosa tempra ch’io dissi, o difettano al lutto, o sono in
minimo numero, e gli altri non sono che turba ignobile, impastata d’
egoismo e di vizio, primo (torno a dirlo perchè bisogna), la perseveranza
e l’ immedicabilità del male a torlo è querelata. Essa è un effetto le
cui cagioni principali sono in chi si querela, come dianzi affermavamo:
secondo, è allora solamente che in mezzo a popolo depravato si giltan fuori falsi
medici ; cioè quelli che han fuoco soprabbondante di passioni per
isdegnarsi di ciò che materialmente si soffre, e per accender lo sdegno
al di là d’ ogni equa proporzione col suo fomite ; ma non hanno, nè senno
per conoscere e pesare quel che conviene e quel che no, nè virtù per
saper soffrire quel che non può evitarsi, nè altro di ciò che bisogna a
dar buono indirizzo al pensiero riformatore. E son eglino che non
contenti di sbagliar essi la strada, traggon fuori di via gli altri, già
purtroppo, per ipotesi, poco alti a fare saper quel eh’ è il debito. Eglino che
screditano la moderazione, i mezzi legali e pacifici, e tutto che non sia
l’impeto loro sconsigliato e pazzo. Eglino da cui nasce e prende piede la falsa
opinione dell’ impossibilità del bene o del meglio senza ricorrere a’
loro forsennati e pericolosi divisamenti. E già troppo di
questo argomento s’ è favellato. Ma fin qui noi, per cosi dire, non
abbiamo che girato attorno al massiccio delle questioni nostre. Ciò è la
trattazione del governo in sè, che si vuole ostinarsi a considerare come
una emanazione pur sempre di quella sovranità del popolo, di che abbiamo già
detto parecchie indirette parole, ma non le dirette che si richiedono.
Direttamente dunque ornai favelliamone, e cerchiamo che il discorso abbia
l’ estensione che l’importanza del soggetto richiede. De’ governi, e
delle sovranità in generale. Si : nessun assioma più oggi è fitto nella
mente degli uomini, che quest’ uno, tenuto come principale La sovranità risiede,
per sua essenza, nel popolo Chiedete intanto a que’ che cosi pronunziano,
qual cosa, in si fatto assioma delle piazze e delle conversazioni,
significa per essi sovranità, che cosa popolo : chiedete l’ analisi e la
sintesi teorica e pratica dell’ idea che innestano a questi due vocaboli
: chiedete la spiegazione delle dottrine, che da esso assioma voglion dedotte,
od almeno de’suni più immediati conseguenti; e vi accorgerete esser
quello, al maggior numero di loro, niente altro che una frase oscura e d’
indeterminata significazione, la quale permette interpretazioni le più diverse,
e, purtroppo, lascia sovente libero il luogo alle più strane e le
più assurde. Come intendete voi, brav’ uomo, questo che oggi
tutti dicono Il popolo è sovrano ? dimandava io, son or pochi giorni, a
un mercenario, il quale, per prezzo, prestava alla mia casa non so che
faticoso servigio Rispose L’intendo, che tutti dobbiamo comandare Io ripresi Ma,
se tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? Senza perdersi d’animo, egli
soggiunse Que’ che han comandato finora. I nobili ed i preti. I ricchi e gli
usurai. Quei che posseggono e possono, mentre noi non abbiamo fin qui posseduto,
e potuto nulla — Ed io Ma non sono essi ancora popolo, e del popolo, e
perciò, almen almeno, cosi legitimamente padroni della lor parte del comandare,
quanto I’ han da essere gli altri? Ed egli La parte loro di padronanza
l’hanno esercitata e goduta anche troppo, giacché l’hanno adoperata soli
e sempre. Una volta per uno. Adesso tocca a noi. Essi non eran popolo, nè
del popolo, quando comandavano, e lasciarono esser popolo, e del popolo,
solamente a noi poveretti. Dunque, giacché s’ erano separati dagli altri,
ne patiscano la pena... Ecco come il
volgo interpreta la sua sovrana potestà ! Un abuso sostituito ad un altro
abuso : una tirannide ad un’ altra tirannide ( concessogli anche, senza esame,
nè disputa, che ogni poter sovrano dell’ antico modo sia stato, sia, e non
possa non essere, che abuso e tirannide ; concessione, la quale dicano i
discreti se possa farsi. Certo, in coscienza, io non posso farla. ) Ritorniamovi sopra. 11 secolo interroga Di
chi è per naturai diritto la sovranità ? — E son io questa volta, che voglio
rispondere. Nè tratterò prima la quislione, che chiamano
pregiudiciale : se quel che lilosolìcamente parlando, sembri a taluno, od a
molti, od anche a lutti, di naturai diritto assoluo più sono per andare,
innanzi, avvegnaché in si fatti popoli, le sempre crescenti disuguaglianze
stabiliscono, per legge di ragione, una necessità di gerarchie, per le
quali vuole giustizia, che gli uni siano maggiori degli altri a vario
grado, e la sovranità s’ attemperi all’ordine gerarchico, il quale natura
ed arte hanno stabilito, o son per istabilire. Ma essenza
della civiltà non è meno un immenso campo aperto alle passioni ed ai vizi
i più detestabili, come alle virtù più nobili. Da una parte avarizia, invidia,
rivalità, egoismo, ambizione, tradimento, perfìdia, frode, broglio, seduzione,
baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria, stupro, adulterio,
dissolutezza, maltolto, accattoneria, accoltellamento, assassinio, e cento
altre mila simili, o peggiori, depravazioni e miserie d’una civiltà volta a
contrario fine : dall’ altra filantropia vera, generosità, carità,
longanimità, sacrifizio abituale di sè, e delle cose sue, date a pubblico
e privato vantaggio, assistenza a chi è in bisogno, disinteresse,
rettitudine eminente, desiderio intenso del bene, orrore del male, coraggio
militare e civile, infaticabilità, zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi,
d'aiuti... virtù cristiane. . . virtù civili. Or ciò fa una seconda
categoria di disuguaglianze, maggiori ancora di quelle che
precedentemente consideravamo in più special modo ; disuguaglianze che
hanno un gràdo intermedio de'non buoni e non cattivi abitualmente, ma
degli andanti a orza. Donde la convenienza di tener gli uni come peste
del popolo, e come non popolo; di diffidare grandemente degli altri, c di
non aver fede, a pubblica e comune utilità, che de’ già provati ottimi,
nei quali le altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuova ragione
perché la democrazia pura a’ popoli civili tanto men s’ attemperi quanto
son più civili, e contenenti perciò nel loro seno, al fianco di molti
ottimi, molti (tessimi, e molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo. Il
perchè, se, a priori, e secondo le suggestioni astratte dal senso comune,
in essi popoli avesse a crearsi una sovranità, certo ogni sua parte
sarebbe agli uni negata assolutamente, agli altri non concessa in ogni
cosa, e ridotta, nel generale, a più o men ristrette proporzioni ; e
riservata o interamente, o nella massima sua dose, a’ soli degni di questo
privilegio. In che può ben essere una difficoltà grande d’esecuzione; ma
ciò non toglierebbe che in teorica ciò avrebbe a giudicarsi il
meglio da ogni savio. Per ultimo l’essenza della civiltà è il
creare innumerabili maniere d 'interessi, de’ quali non è vestigio nella
vita delle selve, o delle capanne : interessi principalmente materiali,
odiali e screditati da quei che vorrebbero ricondurre gli uomini alla vita
della selva e della capanna ( o lo confessino, o no, perchè chi vuole il
mezzo vuole il fine ); ma interessi tanto connaturati a ogni società
civile, che il turbarli a qualunque grado è fare a un popolo uno dei maggior
mali che possano farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’
interessi d’industria promossi da qùe’ primi, gV interessi di famiglia,
gl’interessi di condizione, ed altri che non accade specificare più a minuto. I
quali da due parti si possono riguardare: dalla parte di coloro a chi spettano;
e dalla parte delI’ universale, in mezzo a cui sorgono, e si moltiplicano.
E, dal primo lato, giova dire, che hanno essi una origine, della
quale, se sono artificiali i modi, è da natura la principale radice.
Perché è natura l'amare noi stessi, e i nostri congiunti, e il nostro e il loro
bene ed agio ; natura l’ istinto della proprietà, o del possesso di quél
ciré ci troviamo avere, e di quel che andiamo procacciando man mano ;
natura il cercar di crescere questo capitale nostro, che non siam padroni
di non considerare come facente colla nostra persona un sol tutto, per
tal guisa, che, quanto fa esso maggior somma, tanto fa più grande la
nostra importanza, il nostro ben essere terreno, il sentimento d’ esser
meglio che altri riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con
ogni nostro onesto sforzo, non per soperchiare chicchessia, ma per
obbedire, anche in questo, alla legge di perfettibilità e di progresso ;
natura quindi ( ciò che istintivamente a un modo medesimo ammise presso a
poco ogni popolo ), il chiamare ed il credere legittimamente nostro l’
ereditato, il donatoci, il comperato, l’ottenuto, si nel peculio, e
si nella superiorità della condizion relativa a che s’ è giunti, o
in che s’ è nati... il guadagnato e l’avuto dal lavoro, o da traffichi di
buona lega; (ìnalmerite natura il riguardare l'interesse proprio d’ ogni forma
come non si esclusivamente proprio della persona, che non s’abbia a
riguardarlo quale un interesse, ad un tempo, dell’ intera famiglia alla
quale apparteniamo, finché sarà essa per durare e per estendersi. E
di qui categorie di ricchezza più o meq considerabile, in opposizione
colla povertà ; di patriziato più o meno eminente, in opposizione col terzo
stato e col volgo. Di qui tutta la scala delle fortune, per che uno è
Grasso, o Luculio; un secondo è un accattone di strada; un terzo è un che
vive del suo, masotlilmente, con quel che basta, e con nulla che avanzi —
Da un altro lato, se gli effetti di ciò, nell’universale de’ cittadini, si
considerino, quantunque a dì nostri molta sia la proclività de’ novatori
al gridare, questo essere, non pur soltanto ingiustizia degli uni contro degli
altri, ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno, gl’imparziali e
giudiziosi però non cosi vorranno affermare quando ben vi riflettano, e
quando massimamente volgan l’occhio alle conseguenze ultime. Per
chi ben guardaci! mondo è fatto in modo, cosi avendo il creatore disposto, che
non può uscire di questo di lemma ; o dell’esser composto di lutti poverissimi,
costretti, per sussistere, alla vita selvaggia, e nomade, e di cacciatori ;
senza nemmen pastorizia, non che agricoltura ; o dell’ esserlo d’ uomini,
i quali, cominciato a gustare le materiali e miste dolcezze .d’ un viver più
confortevole, più agiato, meglio congiunto con que’che s’amano, e
co’quali s’ ha strettezza di sangue, più che le gustano, più ne divengono
avidi, e più speronano la propria attività per procacciarsele, ognuno, nella
maggior misura possibile, senza essere impedito o disturbato, e più se ne
creano quel che si chiama un loro interesse individuale, a cui tengon
tanto quanto alla propria vita : ed allora, secondo che un s’ industria
più, un altro meno, uno piu è destro, un altro ha manco attezza, ecco a
poco a poco ricchi e poveri, possidenti e proletari, banchieri, mercatanti in
ogni ragion di mercatura e di commerci, agricoltori, fabbricatori,
mercenari, patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi, capi di
bottega e garzoni, e manovali, padri di famiglia e scapoli ricusanti la briglia
delle nozze per amore dell' allegra e libera vita, quegli che ha la casa
e la vigna, e quegli che non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di
ciò crescendo, cresceranno le distanze tra gli estremi, o le differenze.
— Or quello è barbarie, questo è quel che sempre s’è chiamato la civiltà,
il progresso, o della civiltà, e del progresso, . effetto, ad un tempo, c
causa e criterio e simbolo il più visibile. Volete voi una civiltà,
invece, ed un progresso, senza questi effetti? Voi vi fate illusione.
Avrete un ricadere infallibile nello stato barbaro.
Imperciocché, si pubblichi, a cagiou d’ esempio, una legge domani,
non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò che abolisce, pur solo, la
libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti, nella possidenza così detta, e che
con una nuova divisione di tutte le terre distribuisce per teste il
suolo, assegnando a ognuno tanti iugeri, e non più. Aggiungansi altre leggi,
che quanto è danaro faccian colare spartito coegualmente, o più o men
coegualmente, su tutti. Chi non vede la conseguenza forzala? — Tu che non
puoi coltivare colle tue braccia, con quali braccia coltiverai? Con
quelle d’ un operaio preso a mercede? Ma l’operaio è possidente ai
par di te, ed ha i suoi propri iugeri da coltivare. Se addoppiando la fatica,
pur si darà braccia anche per te, si contenterà più egli di coltivare il
tuo con quello stesso salario con che te lo coltiva oggi? Vorrà raddoppiarlo, o
astenersi, perchè non ha bisogno ; e tu dove troverai questo doppio
danaro che t’ è necessario, se vuoi che i tuoi pochi iugeri ti faccian
mangiare? Dove lo troverai, se sei di coloro, i quali s’avvezzarono a vivere
col solo frutto della loro possidenza, e non saprebbero far altro? (Oltre
di che, se Io trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il
ricco, e tu diverrai, viceversa, il povero, ristabilita cosi a rovescio,
comechè dentro piu ristretti limiti, la differenza di fortuna, e
ripristinato, per contrario verso, un nuovo bisogno di livellazione ).
Ma, educato come sei, non ti basta, pe’ pochi iugeri che ti son
dati, o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare coltivatori. Ei ti bisogna
trovare un che dell’ amministrazione s’intenda, più di quel che tu ne
intendi, tu che, probabilmente, non vi pensasti mai, volto ad altro il pensiero,
e solito a farti servire in tutto ; e questi ancora non vorrà
spartire il suo tempo tra l'azienda della propria coltivazione e della
tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco dunque per te una nuova
necessità di pecunia, che non saprai donde trarre. Ecco, se tu arrivassi
a trovarla su i risparmi eccessivi che t’ imporresti, una cagione per
esso di soprastare a te nell’ avere, e di turbare il livello, quanto
almeno il misero sistema che analizziamocomporta (colla conseguenza poi
del bisogno di sconvolgere nn’ altra volta la società, per novamente livellarla,
quando il ricco sarà diventato povero, e il povero ricco). Ed ecco, se, non
ostante ciò, non potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco dunque,
ripeto, cbe i tuoi pochi iugeri non ti serviranno a nulla, e resteranno
incolti, con danno anche pubblico, e tu morrai di fame. Muori pure, tu
fuco nell’alveare della nazione, tu il « quale non meriti vivere» dirà la
legge nuova, che, senza scrupolo, e senza badare a numero, vuole uccidere
una eletta parte della popolazione a profitto del nuovo mondo, il
quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi. « Resteranno,
con maggiore utilità, cittadini più laboriosi, « tra’ quali que’cbe
prestan le braccia e la direzione per « coltivare, saran pagati con quel
cbe lucreranno i non col« tivanti con altre occupazioni retribuite. » — Ma che
occupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di lusso? Tu burli.
Queste no : perchè il lusso è una superfluità per que’gran birboni de’
ricchi, cbe necessariamente costa cara, essendo cara la materia prima,
care le operazioni destinate a trasformarla, e le spese di manifattura ;
ciocché fa, che il prezzo loro è necessariamente alto ed altissimo,
e perciò irreperibile in un popolo dove ricchi più non sono. Dunque non
più carrozze, non più arredi preziosi, non più drappi sfoggiati, non più
cristalli e porcellane di Sevres, non più ori e gemme ed argenti, e per
analoghe ragioni, non più statue, non più pitture, non più palagi,
non più parchi, giardini di piacere, cavalli di pompa, ville... cose
tutte riservate a’ paesi infelici dove duri la servitù degli uomini... Quali
pertanto, nella beata tua Sparta, saranno le arti, a che que’chenon
vogliono, o non sanno, o non possono, coltivar la terra, o fare al più
vita di pastori, potranno darsi, per isperare sostentamento, e
possibilità di coltura alle poche terre, che la legge agraria avrà voluto
assegnare alla loro incapacità? Siccome la consumazione è quella che regola
sempre la produzioiìe, saranno > salvo poche eccezioni, le arti che si
chiamano di prima necessità, ed elle stesse ridotte alla loro pili
grossolana e più rozza e men costosa espressione.... E questo non si
chiamerà rendere la spezie umana retrograda, e distruggere la civiltà ! !
! Questo sarà il secol d’oro ( senza l’oro, e ricacciato nel fango dei consorzi
umani che sono in sul cominciare, e che tengono ancor molto della
primitiva creta senza vernice ). E io qui non parafraso
l’argomento, e non lo-scorroper ogni suo punto, piacendomi a descrivere
tutti gli altri conseguenti: gli studi scaduti, le occupazioni geniali
vegnenti meno, lo slaucio, il potere degl’ intelletti inceppato ...
a dir breve, la condizione di tutto il popolo condotta sollecitamente a
quella forma, che oggi, per trovarla, dohhiam salire le montagne più
selvagge, insinuarci ne’ villaggi i più rozzi.... Pur so qùel
che si risponde dai gros bonnels delle nuove filosofìe politiche. Non son
essi cosi bestie da non vedere tutto ciò, per poco che vi riflettano,
cosi limpidamente come noi lo veggiamo... Ma essi han due lingue in
bocca. Una colla quale parlano al volgo; un’altra colla quale parlano
a noi. La prima delle due lingue favella alla faccia del popolo. Divisione de’ beni Distruzione de' ricchi Abolizione dell’ odierno ordine di cose
col ferro e col fuoco — Sovranità della moltitudine proletaria.... senza
comento, senza restrizione. E la feccia del popolo accetta con alacrità questo
simbolo della sua fede politica nel senso il più letterale, il più largo
; e vi crede ; e se ne infatua ogni giorno più ; e affretta co’desiderii
l’ istante, in che la legge agraria sarà promulgata; e odia intanto, e minaccia
que’ che hanno, considerandoli, come usurpatori del dovuto (!) a que’ che
non hanno ( e che non hanno fatto niente per avere ). Come potrebbe
essere diversamente? — La lingua, in questa vece, che parla con noi,
rinega, o piuttosto maschera sì fatte enormità. Va per giravolte.
Sostituisce alle idee troppo urtanti, ch’esse enormità rappresentano, altre
idee che mostran meno quel che è celato sotto. Propone temperamenti e
sistemi, che creeranno una civiltà nuova, capace d’ evitare, o
d’attenuare Uno ad una proporzione innocua i precedenti sconci. Utopie.
Le Icarie d’ un Cabet ( da andare a cercare in America, lontano lontano dagli
occhi di coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli, e riferirne
le miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I socialismi de’Fourieristi e
di Considerane diLouisBlanc, e di Prudhon: sistemi confutati ogni giorno
lecento volte da uomini sommi.. . da uomini i più grandi, i più
competenti della Francia, e dell’ altre nazioni d’Europa, e pur messi sempre
innanzi colla stessa impavida sfrontatezza, colla stessa subdola
destrezza, fingendo, che confutazioni nou vi siano. ..che le dispute
abbiano cessato, o non meritino la pena ’d’ essere intraprese e siano
state vinte ... che il giudizio dell’ universale ( non quello delle
proprie sette soltanto ) sia già intervenuto, e sia stato favorevole :
sistemi, uno de’quali è la confutazione dell’altro: sistemi, non
pertanto, ciascuno de’quali, cosi ancor controverso, cosi ancor
contrastato tra le file stesse degli odierni rinnovatori del mondo, non
si è già contenti dell'ofirirlo solo all’esame ed alla disputa de’
ginnasi, com’io pur altrove considerava, ina, prima d’averne posto
fuor d’ogni controversia la certa utilità presso almeno il maggior
numero degl’invitati a subirlo, si vuol pervicacemente tradurlo ad alto ; si
vuole imporlo a tutti colla forza, e guadagnargli la prevalenza del numero,
colla seduzione, e con arti di cospiratori ! Nè io, deviando
troppo dall'argomento principale e diretto di questo articolo, debbo qui
imprendere d’ aggiungere una confutazione di più alle tante che corrono
il mondo, e che si rimangono senza adeguata risposta. A me, per
l’oggetto, che mi son proposto, basterà fare una dimanda (lasciato
da parte il trattare, se quello di si fatti sistemi, che ciascuno
.ole de’ parliti nuovi preferisce, e che, ad ogni costo,
vorrebbe sostituito, senza dilazione, al presente ordine di cose,
bada esser liberamente consentito, o si vuol che sia una confisca
violenta delle libertà di troppi a profitto d’ una futura riordinazione degli
uomini secondo la prestabilita formola d'alcuni, che non si vuol disputata, né
sottomessa ad arbitrio di rifiuto, ma si vuol accettata da chi non la
crede buona ed utile, come da chi la crede, ancorché chi non la
crede s’ostini invece a riputarla un esperimento eminentemente
dannoso ed assurdo, o per lo meno grandemente rischioso, e pieno di
pericolosa incertitudine). — Io farò la dimanda, che sola qui m’ imporla.
— 1 nuovi sistemi di congrega civile ( si risponda con franchezza ) manterranno
si o no, la diversità, più o meno, di specie e di grado negl’interessi,
anche materiali, de’ singoli, come in generale, l'ordine della civiltà
mostrammo, per sua natura leudere a produrre? — Se no: dunque ( levata pure
ogni maschera ) tutti, ne’ materiali profitti, avranno lo stesso ; tutti
spereranno lo stesso, o presso a poco lo stesso. Sparirà, o tenderà
a sparire, la libertà del mio e del tuo, almeno quanto alla misura.
L’attività, la solerzia, per ciò che spetta al ben essere fisico d'ognuno, non
recheranno alcun maggiore vantaggio, che l’infiugardia, l’inerzia. La perizia
più grande nello stesso genere sarà materialmente trattata come la
minore. Nella comunità nessuno avrà alcuno di quegli stimoli stali
sempre, che più energicamente e più universalmente ed infallibilmente son
motori al fare, non che al ben fare. — Vi sarà ( vorrà dircisi ) il
premio della maggiore stima che si godrà da chi la merita, oltre alla
soddisfaziou generosa dell’ animo proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi
lodato j di vedersi onorato, consultalo sopra gli altri. Ma questo é
dimenticare, che si fatto premio già c’é nell’ordine odierno, e pur non
basta senza quegli altri che oggi vi sono, anzi non basta nemmen con
quegli altri. Questo é dimenticare che noi siam composti d’anima e di corpo, 1'
uno e l’altra co’ suoi speciali bisogni, e perciò cogl'interessi, e
co’ diritti suoi ( purtroppo i secondi essendo, di più, meglio sentiti che i
primi ). Questo è il togliere de’ due ordini di molle, che natura ci ha
dato per impulso al progredire, uno de’ più efficaci; il più efficace
de’due; il solo efficace pel maggior numero de’viventi : i quali, se
anche colla giunta della potente azione di si fatta specie di molle, si
spesso, tra color pure che son meglio educati e disciplinati, si ristanno,
c non progrediscono, o vanno all’ indietro, può ben prevedersi quanto più
si ristaranno dal progredire, od andranno all’ indietro dopo la sottrazione che
lor si minaccia. Ma qui non si fermeranno gl’inconvenienti, poiché
bisognerà bene esser preparati al subire molti altresi di quelli che già
di sopra toccavamo, od analoghi a quelli. Tradotto a pratica, uno od un
altro di cotesti sistemi* per ipotesi, livellatori, senza bisogno di
speciali leggi suntuarie, il naturale loro effetto sarà che diverranno per
tutti ugualmente interdetti certi innocenti, ma vivi, piaceri della vita,
a che pur ci ha preparato natura, e non ci è a disgrado che ci
educhi l’ arte ; cioè il magnifico vestire, la buona tavola con una
corona d’ amici del cuore, servita di costosi manicaretti, e di squisiti vini,
e le altre, o simili cose ch’io diceva ; come dire argenterie, oreficerie,
tappeti, arazzi, bei quadri, le sontuosità de’ palagi, le scuderie
popolate da bei palafreni, o da generosi corsieri .... cocchi, cacce,
viaggi, villeggiature, libero ed ampio sfogo a’ propri generosi impulsi,
e ad altri, che, per essere men nobili, non ci son però men cari, nè men
sono innocenti.. ; il poter direasè stesso. Y’è qualche cosa... v’è molto,
di cui son io padrone... di che posso disporre a mio pien beneplacito, e
di che posso, con oneste arti, a me accrescere il godimento, quanto
a farlo mi basti la volontà e l’ ingegno, chiamandolo mio senza che altri
me ne turbi, o me ne coarti ad una data invidiosa misura, l’uso ed il
possedimento. Questa è la vera libertà del progresso. Questo è il
progresso della libertà. Libertà dell’ industria. Libertà piena «senza
limitazioni. Libertà, non della sola persona, ma di quello, che, com’ io
notava altrove, noi consideriamo qual parte, e connaturale contorno e
complemento della nostra persona terrestre, nel senso che già esponemmo.
Or si ponga ben mente alla contraddizione. Si dice, che, ne’ sistemi presenti
di reggimento de’ popoli le libertà son troppo vincolate, e non hanno
il loro legittimo slancio, tiranneggiandole soverchiamente tutti
più o meno i governi. Si dice, che il diritto al progresso è inceppato ;
che è giunto finalmente il tempo d’ affrancar l’uomo dalle infami antiche
catene; ed intanto i nuovi sistematici preparano al mondo forme di schiavitù
inaudite, e che non sono mai state. La vita comune è d’ alcuni conventi,
e si sa quanta abnegazione del proprio volere ed istinto costa, e quanto pesa,
e quanta virtù esige perchè si giunga a patirla senza lamento. Altrettanto è
dello stare a parte in mano, e del vivere a misura quale che siasi, ed a
spilluzzico in ogni cosa, secondo che altri assegni o conceda. Quel dover
più o manco, giusta la diversità de’ sistemi, lamentare tra sè e sè con queste
voci : « La famiglia me la « usurpa in gran parte lo stato. La rendita me
la limita lo « stato. La nobiltà me l’abolisce lo stato. La eredità me
la « sequestra e me la impedisce lo stato » ( parlo qui specialmente
nella supposizione sempre dalla quale son partito, cioè in quella de’
livellamenti, qualunque siane il metodo e la forma), non è egli un
costringere ad esclamare chi cosi considera « Io non son più meijuris ! —
Io mi son fatto servo dell’ associazione d’ uomini nella quale sono
entrato! Questo è ben altro che società sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa
è una società leonina, o una società da « volpe ( ripeteranno ), dove il
più poltrone, il più gaglioffo, il più stupido, il più disadatto, iLpiù vivente
a « peso degli altri è il più favorito o il più furbo, ed ha stipolato in
suo favore il monopolio del massimo vantaggio; « mentre il più attivo, il
più industrioso, il più ingegnoso, « il meglio animato a fatica, quegli
che del suo piu contri« buisce, è quegli eh’ è sopraffatto, eh’ è derubato, eh’
è « vittima! Questo è il mondo alla rovescia!? Cosi combinisi ogni
cosa come lo si voglia, diasi d’ oro alla pillola meglio che si sappia,
cuoprasi con tutti i nastri che si voglia la trappola, mal s'ha fiducia
del riuscire a ingannare altri che i più sciocchi. Da che l’ effetto
ultimo sai che ha da essere l’averti tirato dentro ad una società a
capitale morto, dove, nella liquidazione de’frutti, a te principale azionista,
o dei principali, dee toccare un dividendo pari al dividendo di chi non ha
messo nulla, per poco che abbi saviezza, non si sarai gonzo da lasciarviti
accalappiare. Dopo tutte le quali considerazioni, per ultimo risultato, e
per giunta alla derrata, a si fatta conclusione non si sfugge, che
l’alzarsi al postutto degl’ infimi, e di essi stessi fino a un limite
poco lontano e di piccola elevazione, gioverà ben poco alla causa della
civiltà e del progresso, e rabbassarsi a precipizio, de’ nati per esser sommi,
gioverà a questo ancor meno; e perciò, che, contata ogni cosa, la
conclusione finale sarà il regresso sollecito degli uomini verso quella
che sempre s’è chiamata barbarie, non certo un’accelerazione di
passo nel verso opposto. Se poi.ne’nuovi ordinamenti
politici, che si ci si vantano, per salvar la legge di progresso, e di
civiltà, e della naturale libertà di sé e delle cose sue, che alla
civiltà ed al progresso è tanto incitamento, vogliansi conservate le
diversità negli interessi di vario nome, si quanto a specie, sì quanto a
grado (ch’era la seconda parte del mio dilemma), dunque costituirà ciò una
terza categoria di disuguaglianze, crescenti col grado del progresso e
della civiltà ; e ammessa la realtà di queste nuove disuguaglianze, come
non dovranno generare elle ancora una disuguaglianza ne'diritti in ragione
delle disuguaglianze suddette? Perchè, io non sarò di coloro, i
quali esclusivamente le convivenze umane risguardano sotto l’aspetto di
quelle società A’azionisli eh’ io poco là mentovava, dove i soli valori de’
puri interessi materiali d’ognuno, tradotti nell’ idea del proprio
tornaconto, rappresentino le azioni messe in comune, e quindi le
correspettività de’ diritti politici da godersi. Certo v’è altro
eziandio, a che gli eterni principii della giustizia distributiva
comandano che s’ abbia riguardo, e spesso un maggior riguardo; e alcune
delle cose dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in
questo senso. Ma non son io nemmen di quegli altri, i quali la somma e
l’importanza disi fatti interessi non considerano affatto nella
ripartizione de’ poteri e de’ diritti a’ poteri ; e per questo lato, tanta voce
vorrebber data al mascalzone, il quale non ha interessi di possidenza,
non d' industria... non di famiglia (od ha interessi tutti negativi, cioè
tutti in opposizione cogl’ interessi di coloro, i quali nell’ alveare sociale
sono Tapi operaie e produttive ; tutti interessi di far guerra alla
produzione, alla possidenza, all'industria... alla famiglia... ; tutti
interessi di disordine per pescare nel torbido), quanta agli altri pe’
quali la società va prosperando, cresce in affluenza di beni, ed è corpo,
regolare, utile, e conducente al fine, per cui principalmente le
convivenze umane sono stabilite. ]si dato mano, e solamente lo patirono,
di che il bene susseguente è poida ricompensa. ]mili, esso uomo abbia or
buono avviamento od indirizzo alla riuscita, or non l’abbia, e ciò, alle
volte per colpa propria, o rispettivamente per proprio merito, altre
volte senza ciò, e contro a ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi
aberra più o meno dal fine, e radamente vi conduce ; e, quando vi conduce,
lascia sempre molto e moltissimo di desideralo e non conseguito. Dove le
volte, che più o men si riesce, servono a mantenere l’attività nostra, e
la speranza, e il coraggio, e a preservarci dal precipitare nell’inerzia ; le
volte che non si riesce, servono a ricordarci, che un potere superiore al
nostro è dietro la tela, il quale regge le coso umane, e con occulta
sapienza, or ci dà i beni della terra, or ce li leva, o ce li nega, acciocché
pensiamo che non son questi il fin proprio e sommo a noi proposto.
Ma poiché insonuna, concedo io pure, che al mal governo l’ opporsi con
onesti sforzi, invece di esser colpa, è anzi spesso dovere, o quasi
dovere (l’acquiescenza pura e semplice, e la rassegnazione, quando fosse
di tutti, potendo in alcuni casi divenire condannabile, rispetto almeno
ad alcuni: perocché è alto, non di sola virtù, ma di debito, per quelli che han
di ciò competenza : 1. l'illuminare, a il cercar d’ illuminare, i
depositari del potere, in quel che veramente abbiano errato, od errino,
massime quandi l’errore sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuovere la
medicina de’ vizi radicali con indefessi, opportuni, e convenienti mezzi),
come dee procedersi iu questa dilli cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè
qmstion — Ciò sia materia d’un Di quello che al popolo non ispelta, e
spelta, in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della misura in che
gli spetta. L’argomento io l’ho toccato qua e là più volle,
forse con un po’ di disordine, ma esprimendo con forza ogni volta
l’opinione della quale sono persuaso. Giova nondimeno tornarvi sopra in
quest’articolo, e dir con più grande asseveranza ancora, che in ogni altro
luogo — la principal fonte degli errori, i quali sul proposito nostro si
spacciano, e corrono oggi il mondo, stare appunto in questo atto
d’universale superbia, per che, in cosa, la quale tanto è legata a fatti
providcnziali che si burlano, per cosi favellare, di tutte le previdenze
umane ; la quale tanto poco dipende dalla volontà de’singoli ; la quale
tanto è superiore alla intelligenza delle turbe ; tanto è diffìcile ad essere
trattata come lo si addice ; tanto è poco alla a condursi per sole
deliberazioni d’uomini quali che siano, a grado delle passioni loro, e
nel conflitto de’loro interessi perpetuamente fra loro lottanti : s’argomentano
di credere tra tutti distribuita, ed a tulli appartenente la competenza
del trattarla per Io meglio loro. Don^c è poscia l’opinione si da noi
combattuta, che la sovranità, in radice, è di tutto il popolo, inalienabile da
esso, reversibile in esso, e rivendicabile per esso, tutte le volte che lo
vuole ; esercitarle da ciascuno, individuatamente, ed individualmente,
nella porzione più o men coeguale che gli spetta ; residente di fatto,
come potere attuale ed accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile
di sua natura) de’cittadini, che sendosi data la pena di concorrere ad
esercitarla, convennero in un medesimo voto ; ma non ispettante di diritto
normale ad essa; perchè la parte non può equivalere al tutto ; perchè
chi non ha parlato, non ha detto niente, e non s’è interdetto di
poter parlare quando che sia ; perchè il diritto delle minorità, tanto piccolo
quanto più si voglia, può essere oppresso, ma non annullato, nè distrutto;
perchè, infine, non può non esser lecito a queste il cercar di farsi
maggiorità la loro volta, acciocché il fatto della sovranità ad essi o
passi, o ritorni. E, per vero, i fautori stessi delle anzidette
sentenze, non osapo analizzarle, od almen confessare, i naturali
conseguenti loro, de’quali conseguenti il principale è, che, cosi
insegnando essi, vengono a dire, insomma, che la sovranità, comunque affidata
come potere esecutivo, legislativo, giudiziario, o quale altro potere che siasi
o che si chiami, obbliga in diritto i soli consenzienti: quanto
agli altri, li violenta, ma non può obbligarli; o, ciò che vale lo
stesso, vengono a dire, che la sovranità è obbligatoria di diritto per
nessuno, giacché que’che le obbediscono, in quanto sono consenzienti,
evidentemente obbediscono a sè e non a quella, cioè obbediscono alla
propria volontà di obbedire, nou alla forza imperante della sovranità,
attinta, in massima parte, dagli eterni principii della ragione e
della giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di farlo, non
perchè si credano obbligati a farlo ; ed, in que’che obbediscono, in quanto, a
lor malgrado, vi sono costretti, non dall’autoriLà, ma dalla forza
materiale, in essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto, e non un dovere
adempito ; e un’ obbligazione estrinseca, e non un obbligo di vero nome
; o, a dir meglio, è violazione di diritto, e non diritto, contro alla
qual violazione si ba invece il diritto di mettersi in istato d’ostilità,
di cospirare, di muover guerra flagrante, in detto ed in alto. Il che
dire è negare la sovranità, e ennsiderarla come ud fallo pur sempre, non come
un diritto; Tatto di alcuni che soperchiano tutti, non diritto di
tutti contro a ciascuno ; tirannide, e non sovranità, pe’ dissenzienti ;
cosa inutile, superflua, ed illusoria, o simulacro di cosa pe' danti
libero consentimento : ciocché bene interpretalo, significa poi, che la
sovranità, in quanto è potere, pe’soli dissenzienti esiste ; ma esiste per essi
soli come una iniquità ed una ingiustizia, non come cosa mai legittima e
normale : verità si vera, che lo spirito logico d’ uno de’ più sinceri, e
de’ più espliciti tra gli antesignani del nuovo liberalismo (Prudhon) non ha
dubitato di confessarla e dichiararla ad alta voce, e per istampa.
In si fatto sistema, pertanto, gli attualmente investiti della
sovrana potestà, e d’ogni sua grande o piccola parte, quali e quanti pur
siano, non sono che semplici incaricati d’affari, privi di plenipotenza,
e quasi direbbesi ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza
frodolenta di l'alto a tutto loro risico, e sotto la loro perpetua
responsabilità, come i generali di Cartagine ; sempre revocabili, sempre
soggetti al sindacato di tutti e di ciascuno ; posti in una siugolar
condizione innanzi al popolo : perchè, ne’paesi dove tutto il popolo non è
stalo chiamato, e non è concorso a farli (messo dietro le spalle ogni diritto
di prescrizione e d’usucapione) sono come se non fossero; usurpatori
posti fuori della legge ; nemici pubblici, e niente meno di ciò : ma, ne’
paesi stessi, dove il popolo è quegli che li elesse negli universali suoi
comizi, non hanno, per le ragioni esposte di sopra, solidità e realtà alcuna di
potere ; burattini da filo quanto a tutti, e tali burattini, il cui
filo dev’essere spezzato il più presto, o quando il destro uc viene,
quanto a’dissidenti. Che se tutto ciò è rispetto alle persone, poco
diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro, il cui valore intrinseco
è subordinato sempre all’apprezzamento libero e capriccioso
d’ognuno. Ed altrettanto è ancora delle leggi ; o sian pure quelle che si
chiamano Costituzioni, Carle, Statuti, o simile. E cosi dislruggesi allatto, e
si demolisce l’idea di governo, e si sperperano le convivenze civili,
rimettendo ogni umana congrega nelle condizioni primordiali del
viver selvaggio, ricondotto a’suoi naturali e radicali elementi
d’indipendenza degl’individui, e di forza brutale del più potente, o del
numero maggiore, centra il più debole, o contra il numero più
piccolo. Io invece, per finirla, riduco a queste non molte
proposizioni i dettati della ragion pura in si fatta perplessa materia,
sottoposti nondimeno alcuni di essi, nell’applicazion loro, al prudente
apprezzamento delle circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere, nella
presente imperfezione ed ignoranza nostra, eh’ egli è il padrone (domitius
dominanlium ), e che noi, per molto che immaginiamo di esserlo, non lo
siamo punto, o lo siamo assai poco, c sotto sempre la legge della sua
supremazia, dispose, c dispone, colla sua direzione occulta del mondo morale,
come del tìsico, le cose in modo, che lo stabilimento de’ governi, nel
materiale, e nel personale, è (storicamente parlando, cioè nella pratica, cosi
come dalla storia universale e particolare de’ popoli ci è dichiarata) un
mero previdenziale fatto, dato o coadiuvalo, sempre, o quasi sempre, da
forza di circostanze, indipendenti il più spesso da ogni preordinala volontà
delle turbe ; per le quali circostanze, o contrastato, o no che sia ne'suoi
cominciamenti, esso, da una esistenza precaria, e spesso irregolare,
passa, a poco a poco, ad un'altra esistenza tacitamente consentita
dall’universale, e pacifica, e con ciò legittimata ; rispetto alla quale,
l’azione indesinente de’ due principali fattori di quest’ordine di fatti (e
voglio dire, 1. il reggimento divino delle cose umane, 2. quella dose di
politico senno, che giunge per solito, da ultimo, a scaturire da qualche
parte), più o meri laboriosamente, viene a galla, a traverso d’ogni
difficoltà, in mezzo ai popoli, come una manifestazione inevitabile alla lunga,
dell’idea insita in tutti, ed eterna, tuttoché più o meno oscurata, di
giustizia, di verità, di dovere; ed allora quest’azione, or lenta, or
sollecita, opera in guisa, che l’intollerabile alla fine si fa tollerabile e
tollerato, l’ingiusto si fa giusto, o meno ingiusto, l’improvvido o
provvido, o meno improvvido ; e nascono sistemi e vie di compensazione,
lenitivi, palliativi, rimedi ; e il male che c’è, o che resta, non può
superare una certa misura (tranne quando un decreto terribile di Provvidenza
vuol che le nazioni periscano, o si consumino, e decadano umiliate
e contrite), nè può non avere un contrapposto di beni : cosicché di
questo misto si componga quella dose d’ infelicità terrena, più o meno
temperata, che è necessariamente compagna di questa vita, punizione meritala
agli uni ; scuola di virtù, e mezzo di merito agli altri. A vie
meglio mostrarci la verità di questa dottrina, la Divinità ha in tal
forma ordinato il mondo morale, che in que’ secoli di contumace superbia,
o tra quelle superbe nazioni, in cui la verità c la presunzione della
propria sapienza più prevale tra gli uomini, e li spinge a voler tutti
fare e non lasciar fare, ognuno mettendosi innanzi, e cercando d’esser primo, o
de’ primi, ognuno volendo esser dio a sé stesso, e governo, e governante
; ivi, ed allora, è l’infelicità massima, il disordine massimo, lo
sgovernamelo massimo, la guerra civile imminente o flagrante, l’anarchia,
lo stato convulsivo, od epilettico, delle umane congreghe: disordine,
sgovernamenlo, guerra, anarchia, convulsione, epilessia, che seguitano
finché questo periodo di presunzione non passa, e finché principii migliori,
e più giusti, non tornano a prevalere la loro volta. Intanto perù è
giusto confessare, che, se da un lato, il Creator delle cose, per le
ragioni che più volte adducemmo, non ha concesso agli uomini la perfezione in
nulla, e nè manco ne’governi, ed ha voluto tollerare, e permettere, a
volta a volta, l’imperfezione, anche condotta, in essi governi, fino
all'abituale imperizia, imprevidenza, inettitudine, ingiustizia, e
tirannide; da un altro lato, ei non ba voluto, in generale, abbandonare
si fattamente la specie umana all’ impero del male, anche sulla terra,
che non abbiale concesso, nella sua benignità, mezzi normali di
riparo, di resistenza, di rimedio (renduti, egli è vero, per suoi segreti
disegni, ora più, or meno efficaci), e non abbia perciò inserito nelle
ragioni, le meglio addottrinate, de’ saggi in mezzo ai popoli il lume più
o manco opportuno a conoscere in ogni caso quel che è lecito, e
conveniente, e necessario di fare per tentar diuscire di pena, d’ingiustizia,
e d’oppressione. Questa è almeno la regola generale, sebbene, purtroppo,
convien dire, che talvolta, nel segreto della sua sapienza, esso Creatore,
permette e tollera, come altrove notammo, che sì fatto lume in pochissimi
splenda, e quasi in nessuno : di che poi la conseguenza è, che il male
del malgoverho, o dura, o quel che è peggio, per gli sforzi inconsiderati
di que’che non vogiion patirlo s’aggrava, o sia che conservi, o non conservi le
prime sue forme. Or quando a si fatto ultimo flagello non si
è condannati (pena, per solito, del lungo tralignare d’una civil convivenza,
confermata nel vizio, e nella cecità d’intelletto) allora il rimedio, e
il riparo, c’è, sol che tutti facciano il dover loro ; e c’è senza le
maledette rivoluzioni, senza le illecite cospirazioni e sette. C’è per la
forza pacifica ed infallibile delle persone, e delle cose. Del quale riparo e
rimedio le massime io le ho sostanzialmente, qui indietro dette,
nell’articolo. E non è, che, in si fatto ufficio non abbia ognuno la sua
parte legittima. Solo bisogna confessare, che la parte non può nè dev’
essere in tutti uguale, e la stessa. La prima e principal condizione è il
coraggio civile (giova ripeterlo : il militare guasterebbe tutto, infondendovi
dentro le sue furie), coraggio prudente, ponderato, modesto, mantenuto
sempre rigorosamente dentro i limiti del permesso dalla legge, ma
perseverante, istancabile, non in alcuni, ma nel maggior numero. Le leggi
in nessun luogo son cosi cattive, che non aprano più di un adito a
raddrizzare i torti, e a far fare giustizia. Bisogna non perdersi
d’animo. I forti debbono aiutare i deboli, dirigerli, farsene avvocati. 1
savi debbon dar mente agl’ insipienti. Questi debbon ricorrere a coloro
che la fama universale indica in ogni luogo come sapienti ed uomini da bene,
per cercar lume, e conoscere se veramente ban ragione e diritto di lagnarsi,
e dentro che misura. Gli uomini da bene e sapienti non debbono negarsi
agl’inferiori.Tutti insistendo nelle vie consentite da ragione e da legge, e
facendo concerto perpetuo di sforzi, ciò, senza essere una cospirazione
illecita, e di setta, e d' armati, è impossibile che non produca il suo
frutto. Ma non bisogna che i primi, a’ quali questo coraggio sia di
qualche danno personale, faccia» perciò meno il debito loro, o che l’esempio
del loro danno distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da essere, come nella
guerra. 1 feriti, non perchè feriti, finché possono, lasciano il
combattimento, se aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non
fuggono perché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente bisogna ben
guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della legalità, e del rispetto che è
interesse di tutti il non dimenticare; e dall’ immaginare, o pretender
gravami e torti, dove non sono. Cosi adoperando, colla metà della
ostinazione che gli odierni settarii pongono nelle loro inconsiderate e
criminose mene, certo non è abuso di potestà, il quale non debba
con [Ecco mio de' vantaggi innegabili dell' aristocrazia. Dov’ella è in
forza, e bene e convenientemente stabilita, è 3i grande l' autorità sua,
si connatura to il coraggio civile, si spontaneo f intervento a tutela de
deboli, che difficilissimo riesce l'abuso del potere in cbi lo ha in mano,
almeno condotto sino a vizio abituale, ed a quell’eccesso ch'è tirannide
intolieranda, od insipienza equivalente a tirannide.]più certezza essere
corretto, die tentando pazze congiure a moderna usanza. Nè nego,
perfino, che quando i’ abusare nasca da imperfezione di legge, o di leggi, di
questa o queste non possa legittimamente chiedersi il mutamento, e il
raggiustamento a più equa forma. Quando veramente costi, per consenso di
tutti tsavi, che le leggi sono cattive, o talmente imperfette da rendere
necessario un cangiamento, niun può trovare men che giusto il desiderarne e il
chiederne la rettificazione. Il male non istà nel desiderare, e nel
chieder ciò, ma nel desiderarlo e nel chiederlo in modo illecito,
arrogante, e perturbatore. Sta nel volere a forza cattivo, quel che non
lo è manifestamente. Sta nel non andare a rilento in si fatti giudizi, e nei
non ben verificare ogni cosa a norma della sapienza scritta di
tutti i tempi, prima d'avventurarsi a pretendere che la cosa è come la si
pensa. Sta nel non aver occhio alle circostanze, agli effetti probabili, agli
scompigli possibili. Sta nel mancar infine di buone bilance per non
trascender mai la giusta misura in nessuna sua parte : condizione più
essenziale ancora, acciocché niuno possa imputare di sedizione, di
ribellione, di fellonia ciò che nel qui discorso senso e modo va
operandosi. Da tutte le quali cose vede ognuno che non discende, nè
l’obbligo assoluto di rassegnarsi al male, che evidentemente è male, nè
l’assoluta assenza di mezzi per medicarlo. Ma non discende nemmeno la
pazza politica massima degl’odierni, che per ultima panacea propongono date
forme di [Queste sono le teoriche. Ma torno a dire, se i savi mancano, se
mancan d’ accordo, se v’ è funesto li svolgimento negl’ intelletti di
que’ che so» creduti tali ; se certi desiderii poco ragionati, e poco
ragionevoli, si confondono co’bisogni, solo perchè sono alia moda, e perché
sono intensissimi; se certe lagnanze son di minimi che si giudican
massimi, e che fatte suonar alto più disturbano che non giovino; se?
Allora come non tremare nell’avventurarsi alla pratica? Iddio liberi i popoli
dall’ esser condotti agli estremi qui sopra ricordati; e dia loro la sapienza
vera che li aiuti a scegliere il miglior partito.] governo applicabili a
tutti i casi, come uua calza a maglia. Delle democrazie pure già
dicemmo quanto basta a provare la loro imperfezione essenziale. L’antica
sapienza rappresentata da CICERONE sta per le Monarchie temperate, dove i
veri ottimati, cioè dove le capacità e gl’ interessi han voce
preponderante, e tra gl’interessi, meno ancora i fluttuanti e transitorii
(sebbene questi eziandio), che i permanenti e più tenaci, d’un buono e
lodevole patriziato. S’ è perciò giustamente levata a cielo la timocrazia
di Servio Tullio la sapienza del Senato romano e dell’ aristocrazia
inglese, corroborata dalle tradizioni di più secoli. Ma non tutti
gli ordinamenti ( ridiciamolo ) convengono a tutti i popoli e a
tutti i tempi: e chi non ne fosse persuaso, più d’un esempio recente
potrebbe addurne, fatto per iscoraggiare assai del supposto valor pratico
di certe teoriche, le quali poi, quando si traducono in iscena, si
risolvono in bliteri, e in peggio che ciò, vale a dire in danno
evidentissimo de’ popoli. Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è il
male che s’è detto, massime nel tempo nostro, de’ governi assoluti; e
i governi assoluti eglino stessi han poi per loro essenza e natura il
grande ed intrinseco male, che con tanta generalità oggi s’afferma? (
L’argomento loabbiam già toccato alcune pagine indietro : pure importa
tornarvi sopra un’ultima volta ). Messi a bilancia con tutte le altre forme di
governo, e contati, e imparzialmente pesati, i vantaggi egli svantaggi,
traendoli dalla verità storica d’ogni età e d’ogni contrada, e non dalle
menzogne sistematiche di tale o tale altro declamatore odierno, io non so se un
uomo di delicata coscienza oserebbe giurare, che la parte degli svantaggi
preponderi, sempre totale contro a totale, cioè somma intera di fatti
contro a somma di fatti, dal Iato delle monarchie pure, a quel modo che
s’ama asserirlo. Per Io meno questo conto, o vogliasi dirlo bilancio, non
è mai stato instituito colla debita accuratezza, e varrebbe la pena dell'
instituirlo: impresa tuttavia molto più difficile di quel che non si
pensa, e da più dotti, che non sono di gran lunga i giudici di strada.
Donde poi deduco, che, assai più alla leggiera di quel che si dovrebbe,
si pronunzia la sentenza assoluta di condanna, la qual suona nelle bocche
di tauti, più per moda, che in forza d’ una dimostrazion rigorosa. Le
ingiustizie, le improvidità, le tirannidi s’incontrano in tutte le forme d’
ordinamenti politici ( cosi insegna la storia ), e le forme le più
liberali n'ebbero, e possono averne all’ avvenire, di non minori che i più
tristi degli assoluti governi. Quidleges sine moribusvanae profitiunt
(ridirò col poeta)? Uno o molti che siano gl’ investiti dell’ atto della
potestà, possono del pari abusarne; e, se gli abusatori son molti,
sarà il danno più grave assai, che con un abusatore unico, tranne se
alcun si piaccia del paradosso che più tiranni debbono men nuocere d’un tiranno
solo. Le responsabilità ministeriali, o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai
sapere da tutti quel che valgono. Le supposte guarentigie sono
sempre un preservativo, o un rimedio, più illusorio, che vero. Cb’ buoni
sono inutili, co’ cattivi sono insufficienti, per grandi eh’ elle
sembrino. Dove furono concesse Ano ad ogni richiesta misura,
gl’incontentabili odierni se ne contentarono forse? Le probabilità del maggior
senno, che parrebber più facili ad incontrarsi nel consiglio di molti, di
quello che in una mente unica, non sono assai spesso, in tempi di civiltà
corrotta, e d’ambizioni flagranti, che un vantaggio presunto, più che
bilanciato, ed annullato dall’altre probabilità delle discordie intestine tra
senno e senno, e delle lotte che quindi nascono. E sovente è più bisogno di
guarentirai da que’che sono scelti à guarentire, che ragionevolezza di
speranze le quali in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze (
è giusto il ricordarlo ), nelle quali solo le pure monarchie valgono ad
operare il bene delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure
monarchie possono aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente,
parche abbia riservato la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da
operarsi ne’ popoli colla debita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli :
perchè il modificare ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza e
conveniente efficacia, le sorti d’un popoloso dimoiti popoli a uu tempo,
è parte quasi esclusivamente concessa agli assolutismi de’ Sesostri,
degli Alessandri, de’ Cesari, degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’ Federicbi,
de’ Napoleoni, certo non alle disordinate e burascose discussioni de’
senati, de’ parlamen li, de’tribunali, delle moltitudini deliberanti. Sono
sempre, o quasi sempre, gli assolutismi, che tagliano ultimi il capo alle
rivoluzioni, e creano ultimi la stabilità delle paci. Sono essi una
necessità pe’ popoli che vanno in bizzarrie pericolose e distruttive.
Sono essi a volta a volta, grandissimi benefattori della umanità,
piuttostocfaè i suoi principali flagelli. £ di questa particolare virtù
de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia e di rapidità,
tanto hanno persuasione, perfino i moderni perturbatori, ( torniamo a dirlo
sebbene altrove l’abbiamo già detto), clic solamente perciò hanno
istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e
l’assoggettamento senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di
esse. Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi
di si fatto genere, e dissimulare gl’inconvenienti a’quali vanno per
solito espósti. Non voglio dare il piacere a’ miei avversari, di poter
dire ch’io sono un assolutista sistematico, perchè abbia con ciò bella
occasione la rettorica di certa gente del gittarmi alla faccia questo
rimprovero seguitato da una mezza dozzina di punti ammirativi. Ho voluto
solamente dire che ancora essi governi possono avere ed hanno il loro
tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla materia esaminino (dirò di
nuovo) i capi-setta sé stessi prima di rispondere se è vero o falso. Mi
basta avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale condanna la
qual di essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A NATURA
(cf. H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato a
conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola generale, che non vi può
essere una regola generale di proscrizione. Le circostanze, anche a loro
riguardo, entrano per molto nel giudizio, come in ogni altra maniera di
governo. D’ altra parte, i governi veramente assoluti dove più
sono? Tutti il tempo li modifica. Addolcisce i più severi. Modera i
più dispotici, e viene più o meno accostandoli alle forme di temperata
monarchia. Siamo giusti. Dove son più i Busiridi, i Falaridi, i Tarquini
Superbi, i liberi, i Neroni ? Se si voglia trovar tiranni, nell'antica
significazione del vocabolo, bisogna andar a cercare nel campo
repubblicano ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del vero
popolo, di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol
confessarsi; e, se si é di buona fede, non può esser negato, che le
concessioni cominciate qua e là a farglisi, per tutta Europa, son
bastantemente grandi per far dire che nelle altissime regioni non si è
tanto sordi, quanto da alcuni si va spacciando. 1 bisogni reali
finiscono sempre coll’essere ascoltati, non per forza, ma per ragione.
Gli esagerati e falsi può colla violenza costringersi a soddisfarli per un
momento, ma vale allora il proverbio. Nil wolentum durabile. Per chiudere
a quel modo che meglio per me si può l’ardua discussione nella quale sono
entrato, io Unirò dunque cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del male
dei governi più o meno imperfetti (come se per necessità non dovessero
a, diverso grado tutti esserlo), e a chi perciò, venendo a conseguenze
estreme, niente ha più a cuore ed in mente, che farsi autore e
cooperatore di riforme radicali, da ottener subito, quasi a tamburo battente,
ed a qualunque gran costo, giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali
paiano a quei che le dimandano, avuto a sdegno, e messo in non cale
il più prudente desiderio e consiglio de’ miglioramenti graduati, bene
studiali, ben maturati, e solo predisposti e promossi ne' legittimi e
tranquilli modi che rispettan la pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché
a turbarla. Se veramente ami tu il bene del tuo paese, fa senno, e pensa che
qui non si tratta d’un trastullo da gioventù, e d’un balocco da capi
sventati, per darsi dell’ aria e dell’importanza, ma della somma delle cose pel
presente e per l’avvenire, od almeno per lunga successione d’anni. Fa senno,
e dà prova d’averlo fatto, giudicando per anticipazione testesso, prima
d’assumere il terribile incarico di giudicare gl’imperi ed i regni.
Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi, con buona fede, a te
medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel che è mestieri
sapersi nell’astrusissimo argomento de’ governi, per islendervi sopra una
man temeraria; e se ti puoi, senza farti rosso nel viso, chiamare uomo di
stato, ose, in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere
niente altro che un misero pappagallo, il quale ripeti su ciò, senza bene
intenderlo, quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare
illudere dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e
migliori di le, ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te,
come la daresti sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se
trovi sotto il dito l’economista, il dotto nella filosofia delle leggi,
l’intendente ne’ misteri dell’amministrazione e della finanza, il fino
conoscitore della storia umana, l’uomo freddo, ponderato, esperto, che
nel giudicare questioni si diffìcili, si recondite, si gravi, si feconde
di beni e di mali, come sono tutte queste delle quali stiam parlando, sa,
innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio, gl’innumerabili particolari; che
concorrer debbono ad illuminare la mente; a spogliarsi d’ogni passione e
d’ogni opinione preconcetta; e, senza dar peso a insinuazioni d’amici, o
di confederati e compagni, discernere, e ben discernere quel che il luogo, il
tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i comitanti, i conseguenti,
oltre ai principii eterni di ragione e di giustizia, suggeriscono e
richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti in questo linguaggio.
Miratemi, e sentenziate voi. Son io veramente l’uomo da rifare il mondo, e da
insegnare agli altri il come? Son io Zaleuco, Caronda, NUMA (si veda), Licurgo,
Solone del secolo illustre ; o sono almeno l’uomo da saper discernere,
senza ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba seguitar come capitani in faccenda
di si gran momento? O piuttosto la risposta non l’odi aver già preceduto
la dimanda? Povera mosca del carro (tu dei sapere la favola), va a
scuola, e fatti vecchia prima di toccar solo col pensiero problemi di
tanta astrusità. Solamente allora saprai ridurre al genuino valor loro
tanti spropositi di moderne teoriche assolute, che, messe in prova da già
dodici lustri, non han saputo partorire ovunque che continuati scompigli,
e inenarrabili guai sempre ripullulanti a doppio cornei capi tagliati
dell’idra! Povera mosca, solo buona ad esser tafano atto ad inquietare i
cavalli che tirano il carro dello stato, finché un colpo di frusta ti
schiacci. Riguarda ( se non hai le cataratte agli occhi ) nella Francia,
prima maestra di sì fatte novità, e spettacolo e scuoia delle lor
conseguenze a ogni gente... nella Francia già più volte rovinata, e data
per queste a scompiglio, e le più volte, non da mani forestiere, ma dalie
proprie. Riguarda a’ be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguarda a’ bei
fruiti delle agitazioni di questa misera Italia, qual ella è or fatta per
colpa di simili tuoi ! Gusta il Progresso che han generato i tuoi pari,
la ricchezza e la prosperità eh’ è opera loro! Basta ornai. Basta. La
terra ha bisogno di tranquillità, e, a tuo dispetto, saprà come
darsela. Cosi ti risponderà, e ti risponde il mondo : non
quello veramente nel quale tu vivi, ma quello in mezzo al quale
dovresti imparare a vivere, per tua istruzione, ed emendazione, e per l’altrui
pace. Ma ti risponderà, e ti risponde anche altro. Ti dirà, e ti
dice. O tu, che ti proponi niente meno che di metterti il grembiule di
Prometeo, cioè di rifare la gran famiglia umana in quella parte che rende a lei
possibile il viver socievole, cioè negli ordinamenti de’ suoi governi, comincia
col rifare te stesso. Volendo insegnare a’ tuoi contemporanei l'arte
del comando, insegna a te medesimo l’ arte dell’ obbedienza, che non sai, o non
vuoi sapere. Con uomini quale tu sei nessun arte di comando, e per
conseguente di governo, è possibile, e l’ esperimento s’è visto. È
forse giovato in più d’ un luogo darti costituzioni, e rinnovarle?
É forse giovato accordarti assemblee deliberanti, libertà di stampa,
libertà d’associazione ...tutte le libertà? È bisognato finir col frenarle dal
momento che i pari tuoi v’ han voluto metter mano. E cosi
doveva essere ; perchè ogni governo, anche larghissimo e mitissimo, è legge e
dominazione; e cbe legge, oche dominazione può esservi per tali come tu
sei? Tu ( quel tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H
nome. Tu sei di quegli uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). .
; degli uomini turbolenti, sfrenati, ricalcitranti che chiamano ben pubblico il
dar di naso abitualmente ad ogni autorità, sotto colore di far la guerra
agli abusi suoi, colla presunzione di giudicarli in ultimo appello
secondo il privato tuo senno; degli uomini che ban distratto ogni
riverenza, ogni fede al senno antico, ai documenti de’ secoli passati, alla
sapienza accumulata per gli studi comuni de’ migliori cbe in ogni età
vissero; degli uomini che ner gano ogni efficacia d’ antica esperienza, e
che queste massime non si contentano di professarle per sè, ma le promulgano
giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con tali quale tu sei, qual
maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di mettersi in guardia, e tirare a
sè le briglie ? É egli tempo d’allargar la mano alle redini, quando il
cavallo dà continuo cenno di rubarla, e di mettersi alla scappata verso
precipizi!? Pur troppo quando un paese ha la disgrazia d'avere a
ridondanza gente del tuo taglio, facilmente arriva a quella condizione di
tempi che o scusano, o rendono ine vitabili gli assolutismi i più stretti
e i più vessatori. Perchè, non accade dissimularlo. Ecco la massima
miseria della condizion nostra. È peggio che al tempo de’ guelfi e de’
ghibellini. L’ira tien luogo di ragione. Vendicarsi, ed esterminare sono
ornai la parola di guerra. Sangue! San-gue! Ammazza ammazza! Quel che non s’
osa fare aucora, si dice pubblicamente che sarà fatto alla prima
opportunità. Designane adcaedem unumquemque nostrum. Poveretti! S’uccidono
gl’individui, non s’uccide la verità e la giustizia. Ma anche a’Principi
d’Europa rivolgerò finalmente la rispettosa mia voce. Purtroppo hanno essi
bisogno d’una rivista severa del passato, e d'una ponderazione accurata
del presente a previsione del futuro. Quel che è stato ed é male, fa
d’uopo mutarlo. Quel che è giusto e doveroso in tanto mare di desiderii,
di querele, di mescolate richieste, bisogna farlo. Mai non ci fu maggior
necessità, per chi siede ne’ sommi scanni, d’esaminare gli antichi ordinamenti,
e di recarvi miglioramenti reali e legittimi. Mai non richiesero i secoli che
sono scorsi maggior senno in chi regge i popoli, e per conseguenza più
grande opportunità di circondarsi di buoni, e probi, e saggi aiutatori, e
subalterni. “Riforma!” è la parola favorita del nostro tempo. Riforma non
è in sé medesima parola d’errore. Le riforme bisognano sempre alle congreghe
umane, come agl’ individui. Riforma dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni
riforma dimandata le riforme che la vera sapienza politica
consiglia, e vuole. Eruditami qui iudicalis terram. Imparino le genti col
fatto, che amate di cuore il ben pubblico, odiate il male, e vi studiate
per quanto è da voi d’affaticare alla pubblica felicità correggendo
intorno a voi, per aver più diritto, e più facilità a correggere intorno a quei
che vi debbono obbedire. Due parole a chi è per leggere Parere d’un Amico
intorno a questo saggio Risposta Prefazione Opuscolo De’ Fedecommessi
e dell’ Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I Fedecommessi sono una
istituzione appartenente a più luoghi c a più genti e tempi, che non si
crede. Conseguenza di ciò Essi hanno una principale e giusta difesa
nell’interesse convenientemente inteso di famiglia Non sono applicabili ai
piccoli patrimoni, ma solo ai grandissimi ivi Perennando lo
splendore di tutta una linea principale po tentemente soddisfatto a uno de’
sentimenti connaturali all’ uomo Senza i Fedecommessi, le grandi
fortune, di necessità, tra breve, sminuzzandosi, periscono per V intera
famiglia, e con ciò essa è condannata a rapido scadimento 1 Fedecommessi
salvano, per quanto esser può, il patrimonio dalle imprevidenze, dall'incuria,
e da’ vizi dei temporanei suoi possessori, e lo conservano a
que’che debbono in avvenire possederlo Discussione delle ragioni de’
cadetti. E maggiore il numero de'beneficali nel sistema che qui si
contempla di quello che nel sistema opposto pag. ivi
Infatti quei che nel i° sistema godono ( al contrario di ciò
che succede nel 2°) sonpiù numerosi de’ danneggiati I vantaggi
d’ognuno de' favoriti sono più grandi, che i vantaggi d’ognuno de’
favoriti nell' altro sistema Gli svantaggi de’ danneggiati nel secondo sistema
sono più grandi che quei de’ danneggiali nel primo Lettera
Soluzione d’ alcune difficoltà 35 Si risponde a chi oppone che il
testatore dee riguardare al bene massimo de’ prossimi ed esistenti, e non,
collo scapito di questi, a quello de’ remoti, e non esistenti
ancora, o forse non destinati ad esistere giammai .Si prova che, oltre al vero
interesse delle famiglie, nel si stema de fedecommessi, meglio che nel sistema
contrario, è provveduto anche all’interesse dello stato Risposta alla
obbiezione de’ supposti diritti degli altri figli, che si dicon
violali nel sistema da noi difeso Si torna a distinguere tra i fedecommessi
utili, e i dannosi, e si prova come ne’ primi i cadetti non sono pregiudicali in
modo indebito 19 Risposta a chi oppone l’ accusa di parzialità, e
d’ eccitamento alle invidie, a’ disamori, alle discordie tra pa dre e figli e
tra fratelli Esposizione de’ rapporti tra V erede preferito cogli
altri posposti Convenienza del preferire il primogenito ai nati poi . . M
Di nuovo sull’ accusa del supposto fomite somministrato alle
invidie reciproche 45 Indirizzo da dare all’ educazione perchè
queste temute in vidie non nascano Lettera Seguita la soluzione delle
difficoltà Non è vero che i fedecommessi, favorendo il celibato laicale,
favoriscano i vizi che vi vanno connessi 1 matrimoni son più incoraggiati
nel sistema qtrì difeso, che in quello della divisione dell’ eredità per
capita, p. 49 È insussistente il nocumento che la sottrazione di molti
be ni rustici, in virtù, de’ vincoli fidecommissarii, alle
speculazioni di compra e vendila minaccia di recare al pubblico Un certo
numero di latifondi legati a fedecommesso, lungi dall’ essere un
impedimento alla buona agricoltura, ed alla pubblica prosperità, sono
utili e necessari al l'unae all’ altra Risposta alla difficoltà tratta dai
creditori dell’eredità defraudali talvolta, quando essa ha il genere di
vincolo del quale qui si tratta Lettera Difesa dell’Aristocrazia Proposizione
premessa, che, distrutti i fedecommessi, è distrutto il patriziato I vizi
de’ nobili che sono da degenerata istituzione non vogliono esser contati soli,
ma messi a confronto delle utilità, e delle virtù ivi
Essi vizi possono emendarsi, e le utilità e le virtù accrescersi :
utilità e virtù le quali difficilmente possono trovarsi fuori del
ceto patrizio ivi È nella natura stessa della Nobiltà un seme di
miglioramento nella specie umana, che ne innalza la dignità e la
perfezione Caratteri propri del genuino patriziato La grandezza degli averi in
famiglie non patrizie non può dare i vantaggi eh’ essa dà o può dare
nelle famiglie patrizie Necessità politica in uno stalo dell’ esistenza
del ceto nobile, e particolari servigi, che ad esso esclusivamente sono
riservati ed appartengono Opuscolo Della libertà e dell’eguaglianza civile Del
governo e della sovranità in generale Della così della sovranità del
popolo, e della democrazia. Del voto universale. Delle rivoluzioni e
delle riforme de governi ec paff. Della libertà nel civile consorzio, e
decimiti, che necessariamente debbe avere. I più di qne’ che la
dimandano oggi, da ette negano nella loro filosofia il libero arbitrio, e
sono materialisti, fanno una dimanda assurda, cioè chiedono quel
che credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la libertà
civile, bisogna essere spiritualista, e cogli spiritualisti non è
difficile giungere ad intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’
che chiedono la libertà, quale e quanta la dà natura, debbon concedere
gli usi buoni ed i cattivi della medesima, ed una legge interna che comanda i
primi, e vieta i secondi, e con ciò debbon concedere di fatto e di
diritto che la libertà è limitata per natura La convivenza civile essendo
ordinata a perfezionare l’uomo, e non a deteriorarlo, la miglior convivenza
civile necessariamente dee dirsi una convivenza ove la libertà naturale
incontra nella legge vincoli grandissimi e maggiori di que’ che ordinariamente
le si prescrivono È solo la difficoltà soverchia opposta dalla corruttela umana
allo stabilimento d’ una piena normalità nelle civili convivenze, quella che
impedisce il comandare oggi tulli i vincoli che bisognerebbero: ciocché
non toglie però che il vero progresso è quello il qual favorisce essi vincoli,
e li promuove, anzi che produrre effetto opposto ivi È per effetto
di questa difficoltà che le umane congreghe si ristringono per solilo
quasi al solo governo di quelle libertà, gli usi o abusi delle quali
risguardano i rapporti reciproci de’ cittadini co’ cittadini, non che il
loro scopo remolo non debba esser quello d’ordinare a poco a poco le
leggi a una sempre migliore sistemazione, e per conseguenza a una sempre
maggior limitazione, di tutte le altre libertà col fine d’accostar f
turno alla perfezione quanto più puossi. Prime parole sulle leggi che legar
debbono le libertà, e su’coloro che debbono stabilirle; c sulla genesi dell’
odierno domma della sovranità del popolo, e del patto sociale Dèli’
eguaglianza in generale, e quanto poco esista essa nella specie umana Falsità
della massima che al volgo suole oggi insinuarsi che gl’uomini sono tutti
uguali per natura. .Naturale ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale
ineguaglianza morale Altre cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e
prima per parte degli educatori Degli educandi D’altre accidentali
cagioni E pel fine stesso che l’arli educatrici si propongono, e possono non
proporsi Si Per ultimo l’ineguaglianza è la legge generale della
natura, in tutto il creato Una delle principali ragioni, per le quali il creatore
volle questa disuguaglianza Vergognoso abuso che si fa della religione per
cercar di persuadere la contraria dottrina Passaggio al provare che
inutilmente si limitano alcuni ed difendere soltanto l’eguaglianza ne’
fondamentali diritti della vita di cittadino Dell’eguaglianza nel civile
consorzio, e su giudi falsi fondamenti si pretenda stabilirla Paralogismi
con che, dato un quale che siasi appoggio alla qui combattuta dottrina,
cercasi di ricavarne la dottrina del palio sociale, della sovranità popolare
e della democrazia; e conseguenze che se ne deducono, ivi È falsa
l'equipollenza di condizioni pel cui supposto gli uomini liberamente
entrando in una civil convivenza acquistati pari diritto di fermarmi palli Nè
lo stabilimento di questi patti è puro atto di libertà, ma dee
conformarsi a certe massime generali di ragione e di giustizia che
impediscono appunto l’affermata egualità di diritti È non men falso,
che gli umani consorzi quali sono e furono debbano considerarsi come
illegittimi e spurii perchè non individualmente consentiti da tutti e
da ciascuno. Passaggio al provare l'assurdità e i pericoli della dottrina
che quindi si suol trarre per voler sovvertire il passato e il presente a
vantaggio d' un futuro ipotetico Considerazioni contro al preteso
diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie idee
preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad atto di questo
diritto Confutazione di quattro proposizioni, che corron oggi per le
bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione, che il mondo ha
bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano, e non altra Alla Che la riforma la cui necessità
si va predicando con parole si ha diritto di condurla
immediatamente ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qualunque
ostacolo d’opposta ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito,
se al fine conduce della universale riforma che vuol tentarsi Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze umane in
generale, e sul diritto ed il modo di tentarle Due casi che
rispetto a ciò possono darsi. E prima, del caso, in cui tutti
consentano Secondo, del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta
de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei
dilettanti di malcontento, e parole severe ad essi dirette quando tentano le
rivoluzioni Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche,
quanto a interessi di ogni genere Incertezza de’ loro successi
Difficoltà del ben giudicare i molivi che spingono a rivolte, e poca
fiducia da aversi in coloro che per solito le tentano Vanità della
querela che alcuni fanno, come se tolta la libertà delle rivoluzioni, il
migliore strumento fosse tolto del ritorno a giustizia. Esame d’ alcuni esempi
so lili ad addursi Rimedi più veri e più ragionevoli contro alle
ingiustizie anche abituali de' gox'emi Certi mali sono conseguenza
d’imperfezione della natura nostra, o decreti di provvidenza Essi
sono il più spesso, generalmente parlando, ineritali, ivi Doveri e
diritti de’ cittadini sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle
sovranità in generale Ignoranza del popolo quanto alle idee di ciò che è
sovranità, e di ciò che è popolo. Esempio ivi Se un diritto, il
quale anche realmente si abbia, sia sempre perseguibile, e da perseguire
Idee preliminari sulla socievolezza, come una delle condizioni di natura
date all’ uomo Il bisogno d" un governo è uno de’ conseguenti della
necessità d’ associarsi. Definizione del governo Distinzione fra governo
normale, e governo legittimo indicata Mentre il vivere in società è una
necessità ingenita, la formazione d’un governo è un bisogno accidentale,
sopraggiunto, e secondario Dottrina intorno a ciò che discende dalla Fede
ivi Distinzionedi tre stati nell’uomo, cosi come oggi lo conosciamo
per sola ragione. E prima dell’ uomo ineducato e selvaggio e delle conseguenze
di questa con dizione quanto a governo Secondo, del? uomo ipoteticamente
perfetto, e di nuovo del governo del quale è suscettivo Terzo,
dell’ uomo nè selvaggio, nè perfetto, cosi come suol essere, c delle
innumerabili varietà delle sue condizioni, donde si trae che il governo
il quale gli conviene non ha nè può avere generali regole, tranne il
principio generico che dee possibilmente esser giusto e ragionevole ivi
Questo principio generico non insegna però,nuUa d’assoluto guanto a
necessità di determinale forme nell’ applicar zione, e negli altri
particolari a cui si suole applicarlo Niente dunque v’ha di primitivamente
fermo e comandalo intorno alle costituzioni primitive de’ governi da
applicarsi alle diverse genti Della sovranità del popolo, consistente nella
democrazia pura, e rappresentata dal voto universale Ragionamenti che si fanno
per provarla universalmente fondata sopra giustizia e ragione
ivi foro insussistenza. V’è egli un popolo uno ? Tutto ragionevole?
Tulio illuminalo? Tutto probo? Tutto unanime? Conseguenze che discendono dalla
risposta ne-galiva a si fatti quesiti Esame della famosa dottrina circa le
maggiorità, e circa il voto universale Che cosa è il maggior numero
; come si compone, e che cosa conseguila dai difetti della sua
composizione. Se sia vero che col volo universale si può almeno ottenere
il massimo contentamento del CORPO SOCIALE Fino a qual segno le
maggiorità siano maggiorità reali La democrazia de’ moderni non può
convenire ad alcun popolo Essa twn conviene a un popolo selvaggio Non a
un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un popolo piti o meno
provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze, che la civiltà tende
sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione della lotta delle
virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano e delle necessità che ciò crea
per cagione di ciò che costringono a mettere a calcolo nella formazione delle
società le diversità enormi d’ inleressi tra cittadini e
cittadini Conseguenze funeste ed assurde del sistema tanto da deu-ni
idolatrato della divisione de’ beni secondo le leggi della livellazione
universale Differenza sleale di linguaggio che usano i propagatori delle
dottrine nuove quando parlano col volgo, e quando colle persone educale a
ragionamenti Dilemma ad essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata
la differenza di grado negl’interessi, e tenulane ragione? Se no, conseguenze
necessarie e lui (uose della neqativa Se si, dire conseguenze
di ciò diametralmente opìwsle a quel che pretendono e vanno spacciando
Continuazione dello stesso argomento. Traltazione d’ deune obbiezioni die quali
si cerca rispondere. Risposta die lagnanze di que’ che lamentano il
vilipendio e l’ oppressione del povero popolo, e agli eccitamenti che
gli danno a redimersi a ogni patto Leggierezza, e spesso insussistenza de’
giudizi che su questo proposito s avventurano Mate usanze introdotte rispetto a
ciò, e perniciosi effetti di esse Diritti esorbitanti che si vorrebber
dati alle turbe a fine di prevenire gli abusi dell’ autorità imperarne, e
di farli efficacemente cessare, ed estirpare radicalmente. Catastrofi
inevitabili alle quali non potrebbe non condurre la riduzione a pratica di
tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a ciò di CICERONE e di Platone ed
esempi moderni contraddizione con sè stessi de’ difensori delle dottrine
fin qui impugnate, i quali mentre affermano di combat tere per la
libertà, impongono servitù inlolleranda ai loro proseliti, e cosi
mostrano che colla libertà da essi predicata il governare comunque le
volontà umane è impossibile anche a lor giudizio Le stesse ragioni colle quali
lentan essi di scusare questa contraddizione provano contro di loro
Di nuovo delle ragioni, per le quali la formazione a priori d' un ottimo
governo, e lo stabilimento il più ragionevole della sovranità non ha
regole generali, e costituisce un problema di difficilissima e quasi
impossibile soluzione, massime quando la soluzione al popolo s’abbandoni
Pochissimo, e quasi titilla, rispetto a ciò, può attingersi, ne’ particolari
casi, dalla sapienza generale, e quasi lutto esige in essi le
deliberazioni ad hoc d’uomini i più saggi Or Alcune volte quest’ uomini non
sono presso il popolo del quale si tratta Spesso non in sono in sufficiente
numero, e tale da essere facilmente trovati ed utilmente ascoltali
Diffìcilissimo è distinguerli dai cerretani che simulati sapienza ed
esperienza, e tendono con male arti a mettersi inmnzi e prevalere Non
dirado, anche cotisultati, rendono intralciatissima la deliberazione, non
essendo tra loro accordo di pareri Spesso ancora accresce la difficoltà il
tnescolar che essi fanno all’ interesse della causa pubblica, quello
delle private loro cause, delle loro passioni e simili, E tuttociò vale, quando, a società non
costituita ancora in alcun modo, trattasi di costituirla. Peggio è che il
più spesso le società umane sono già costituite, e v’ è la question
preliminare, se sia giusto, conveniente, e possibile il disfarle per rifarle
Lotte per solito che in tal caso nascono tra conservatori, e riformatori, e
discussione de diritti degli uni e degli altri e delle contitigenti
conseguenze di esse lolle Del perchè e del come il problema del governo e
della sovranità è presso a poco insolubile a priori por l’umana
sapienza Cardine della questione. Doppia natura dell'uomo Bisogni ed istinti
numerosi della vita terrena, che non son fatti per ottenere la
soddisfazione loro durante essa vita Motivo e fine occulto, e non troppo
occulto, di ciò Applicazione di questa dottrina anche al particolare problema
qui discorso E nondimeno non può dirsi che un qualche rimedio alla
frequente imperfezione degli ordinamenti civili non sia dato in terra
all’ umana specie. Ritorno, rispetto a ciò, a una quislione già altrove
trattata Di quello che’ al popolo non ispella, e spelta, in fatto di governo e
di sovranità, e del modo e della misura in che gli spetta Principal fonte delle
false opinioni che intorno a ciò corrono tra’ moderni Si torna all’esame della
presunta distribuzione tra lutti del diritto competente a trattare e
risolvere sì falle questioni ivi Una conseguenza ultima
ed inevitabile di si falla dottrina è che la sovranità non obbligherebbe
dunque che t ~ soli consenzienti, o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e
cesserebbe d’ esistere in altro modo, che come una cosa da giuoco ed
assurda li altrettanto sarebbe di tutte le leggi Teoremi più veri eh’ io credo
doversi sostituire alle opinioni dominanti delle turbe male istrutte.
Proposizione Due parole su i governi assoluti Protesta Conclusione ed Epilogo Esortazione
ai predicatori di rivoluzioni e di novità politiche Poche parole a’ Principi Indice
ragionato Lin. CORRIGE Urliamo Gridiamo fili le ristampa
con emendazioni edizione di lilosolia di buona
tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società
in quel consorzio nipoti nostri nipoti nostri, e,
se non di tulli almeno di (pianti più ci è lecito civil società civil
congrega all'opposto per all' opposto (almen quanto alla
linea privilegiala), tra pe’ fratelli poi-nati
lTl pe cadetti quello dico quello dico pur mentovalo
contechè alla breve ir società consociazioni son le
difficoltà son difficoltà le propensioni le agevolezze pii
uomini gli uomini senza rovinarsi Kit de'
Babilonesi degli Assiri c clic e che
se CONSIGLIO GENERALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli.Vista la
dimanda del Tipografo Marotta con che ha chiesto ristampare il primo volume
dell’opera intitolata Opuscoli politici d’O. Visto il parere del Regio Revisore
Capone. Si permetta che la suddetta opera si ristampi, però non si
pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo stesso
Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto
essere 1’impressione uniforme all’ originale approvato il Presidente interino:
Saverio j4 puzzo, ìl Segretario interino : Piktrocola. Francesco
Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli”
– The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Ornato: la ragione
conversazionale o dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino
con Antonino – la scuola di Carmagna -- filosofia piemontese -filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Carmagna).
Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo, Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e
schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze
fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore
le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni
esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti
Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di
matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria
dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la
Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa
Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a
Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è
frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia
e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana,
Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel
cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei
“Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in
mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due
stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto,
ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che
non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il
cuore soltanto del malvagio non è capace di essere ammollito. E però
il severissimo CATONE minore, già deliberato in quanto a sè di
morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e
concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per
non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO (si veda) Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione
in Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos
città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da
Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare
tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di
Catone). E pianse certamente TACITO, benché del PORTICO anch’egli,
quando, dopo aver narrato come e vissuto e morto, non senza sospetto
di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore. Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al
farti onore. Ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure
alcuna cosa desiderasti vedere al chiudere degl’occhi tuoi. Fra le varie
divisioni dei beni appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei beni
altri sono finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed
efficienti. I beni finali sono parte della felicità e la
costituiscono. Gli efficienti solo la procurano. I finali ed efficienti
insieme e la procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono
la letizia, la libertà dell’animo, la tranquillità, ecc. Del secondo,
l’uom prudente ed amico. Del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è
un bene efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la
tua diapoaizion razionale, cioè è occasione a te di buone azioni. E nello
stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni cosa, o sia
pensiero o altro, che è occasione a te per camminare verso la
perfezione. Di questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale,
per l’esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere
accompagnato ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che
costituisce la felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere;
ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si
sottragga da tutte le altre cose che ne lo possono sviare -- conferisci
quello che ne insegna la teologia intorno alla grazia. E quando ANTONINO
chiama questo bene razionale -- che è attributo generale del bene
appo IL PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene – o OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose e necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la
maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare la
parola efficiente in “civile” o vuoi “sociale” con manifesto danno
del senso e del pensiero di ANTONINO. Dispensazione,
in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della
casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della
casa, le quali da per sè sole non si farebbero -- come per esempio
il risparmiare certe spese perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al
mantenimento di quella -- quindi è stata applicata questa voce ad
ogni cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun
pregio in sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata
sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli filosofi latini di tarda
età, e del PORTICO ed altri. È tra noi disusata perchè è DISUSATO IL
CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in
Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati
sotto essa voce nel V. della Crusca (Medicina del cuore). Per divina
dispensazione avviene che, per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione
ed infermitade arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che,
quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a
dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di
parere, IL SENSO (O IMPLICATURA) DI QUESTA ESPRESSIONE con libertà di parole dovrebbe essere
liberalmente cioè con liberalità di parole, o generosamente poiché così
anche lo Xilandro intende lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo
raccomandare la generosità nelle preghiere, ANTONINO intende di biasimare
le preghiere che non mirano che all’interesse proprio di chi lo fa.
E però loda quella preghiera degl’ateniesi, i quali, al dire di Pausania,
soleno pregare non solo per TUTTA L’ATTICA, ma anche per tutta la Grecia.
Auto nel senso peripatetico del Lizio e scolastico, è l’affezione
costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla
disposizione che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù (andreia)
che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi
favellano, è spirito -- intendi aria -- che mantiene il corpo e il
contiene. Perchè l’ente ò corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice
Senone, penetra per tutte le cose particolari e le mantiene e governa: ma
non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come
abito -- pietre, legni --; nelle altre come natura -- intendi
principio organico mero: piante, alberi --; nelle altre come anima -- principio
animrle mero: bruti --; nelle altre ancora come mente e+ ragione -- anima ragionevole
universale e sociale appo ANTONINO; uomini. Le cose governate dall’abito
sono adunque i corpi dove non è altro principio costituente che il
generale di corpo, dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che
quella affezione -- modo d’essere -- costante por cui sono il tal corpo
anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che
noi chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere
la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo corrotto, e verìsimilmente
havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire precisamente quali sieno
le emendazioni seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima
nota sulle difficoltà di questo paragrafo, oltre che è piena
di cancellature e in gran parte non intelligibile, è anche manchevole,
essendone stato lacerato via, non so da chi (forse dall’O. medesimo per
aver mutato parere), un mezzo foglio. Nel voltare in italiano io mi
sono discostato il meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato
inalterato il senso della sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo
corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e inutilmente tentata
finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia scritto al
principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto paragrafo non
so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii nel volgarizzamento
vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con che egli
la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche
mutilata. O. non la tradusse in alcun modo, riserbandosi di farlo quando
avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte
note. Nel mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz,
non perchè egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non
seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi
corregge in un modo e chi in un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io
ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi
almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo
conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut transitus. Tutti
gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker, il quale
nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui
il granchio (fan pietà Dacier o Joly che seguono ciecamente
Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è la stessa pecora
sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme,
siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv e il ToO xóojjiou
’hys.u Qvixdv; quando anzi nella distinzione di queste duo cose è fondato
il senso di tutto il paragrafo. La toO SXou qjvlcjis è la potenza
creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza
governatrice, dipendente da quella prima, generata, o formata da quella
prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo
non meno che il corpo; e la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il
senso adunque di tutto il paragrafo è questo. La
natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il
mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed una mente. Ora, o questa
mente, a cui è affidato il governo del mondo, segue la ragione
(perchè la mente nel senso dello ìf£|jiovixbv può anche talora essere
sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha
determinate generalmente dà principio la natura formatrice del
tutto, sono involute in quella prima determinazione, sono conseguenza
necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente non
segue sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere
che non solamente le cose di minor conto che ella fa, ma anche
le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che
nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere
sragionevole nè anche in quelle di minor conto; dunque tutte le cose
vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato
e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo
migliore se l’ autore avesse potuto ripulire e pubblicare egli
stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta
in essa è ingegnosissima, naturalissima e confermata da tutto
quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù
óXov (pdcjts), la potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il
quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta
senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane; la potenza
governatrice, la mente che governa il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),
generata da quella prima, è all’incontro, nell’attuale diversità delle
cose,' nella nauìra naturata, nel mondo propriamente detto e
composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso
corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da aggiungersi
Pierron. Ed è tanto più da stupire che il sig. Pierron abbia egli
pure sì mal compreso, in quanto che, avendo egli già prima tradotto la
Metafisica di Aristotele, dovea essere sufficientemente versato nelle dottrine
filosofiche delle principali scuole della Grecia. Quasi tutti i
traduttori hanno franteso questo luogo, pigliando l’iwoia per
intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il
senso letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione
(che tu hai di te stesso come uomo) soffre cotesto, soifre cioè che
tu dica esser nato a goder dei piaceri. Pierron, seguendo l’
esempio di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per
intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le prétendre. Colia
bontà delle singole azioni vuotai procacciare di ben comporre la
vita. Il testo e bravissimo. Talvolta troppo fedele alla lettera e
studioso di conservare tutta la brevità dell’ originale, avea tradotto:
ai vuol comporre la vita mettendo inaieme le azioni ad una ad una;
poi comporre inaieme la vita accozzando le azioni ad una ad una;
poi allogando le azioni ad una ad’una. Non credo che so avesse potuto
ripulire e terminare egli stesso il suo lavoro, si sarebbe contentato di
alcuno di questi tre modi, che tutti peccano di oscurità e di
ambiguità. A costo dì essere men breve, io ho creduto di dover
essere piò chiaro non solo in questa frase, ma in tutto questo paragrafo,
svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli
interpreti frantendono. Nel novero degli interpreti che frantesero questo luogo
comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz.
L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae col ófUTw che
precede; laddove si riferisce all’azione alla quale l’animale
ragionevole tendea e nella quale è stato impedito. E ciò pare che abbia
poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli
posto una virgola dopo il óutù. Se tu vo/eafi ftema la debita ritterva,
che da lei etesaa; cioè a dire: se tu volesti assolutamente e non
a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo atto della
tua volontà fu veramente un male, perchè, come è detto altrove, l’
animai ragionevole non dee voler nulla che non sìa in poter suo, ed
anche il bene relativo, non dee volerlo se non se condizionalmente, cioè in
quanto sia possibile; rimpossibilità essendo per gli stoici sinonimo di
non voluto dalla natura e dal destino, al quale il savio non dee ripugnare.
Che se poi la cosa voluta da te fu una di quelle che non sono pur
buone in senso relativo, e quindi il volerla fu un appetito, prendendo il
vocabolo volere nel significato volgare, cioè un moto del senso,
piuttosto che della volontà ragionevole; tu non ricevesti nocumento nè
impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì mento, ragione
o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo la tua propria
natura non puoi essere impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo
questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai
diversamente dagli altri interpreti che io conosco, Gataker, Schultz e
Pierron, e questo senso ho procurato, di esprimere traducendo. O.
lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non fa che avvertire le
difficoltà del tradurlo, stante la povertà dell’italiano,comparativameute
al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui.
Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di traduzione,
tutti laboriosissimi, come appare dalle molte cancellature e correzioni.
In margine alla quarta od ultima prova scrisse: Sta qui fermo,
perche farai peggio se cangi. Non fu quindi senza molto bilanciare
che mi risolsi a fare io, come feci, una quinta prova, essendomi
sembrato che il miglior partito fosse qui di tradurre letteralmente, e
spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del senso stoico
di tutto il paragrafo ricordiamoci priinierainente che secondo gli
stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice della
materia, è la natura generale, e r anima vivificante del mondo; considerato
dal lato morale, è la ragione eterna che governa e penetra l’universo, è
la provvidenza benefica, è il principio della legge naturale che
comanda il bone e proibisce il male. Ricordiamoci ancora che
l’aria, come uno dei due elementi attivi e parte essa stessa della
sostanza divina, ò dagli stoici considerata come il principio della
vita sensitiva. Dice adunque Antonino: non contentarti oramai di essere
unito con Dio a quel modo solamente che sono uniti con lui gli
esseri solamente sensitivi, cioè per mezzo della respirazione; ma fa’
ancora di unirti con lui a quel modo che si appartiene agli esseri
intellettivi, cioè con cognizione e accettazione libera dello scopo
che Iddio ha proposto all’accettazione libera di quelli. E però, siccome
tu traggi dall’aria ambiento gli elementi della tua vita sensitiva,
traggi ancora dalla ragione ambiente gli elementi della tua vita
intellettiva. L’esistenza delle cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì
ocùrCg cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOop^). Qui mi pare
che fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la lettera e contentarci
di esprimere il senso del testo, piuttosto che cercar di tradurne
le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea
detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti
alteri continuamente, e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era
contento, come appare dall’usato segno. E in vero che significa quel
tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e non può
significare di più, che tutte le cose possono essere mutate e lo
saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che
perduri pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione
delle cose secondo la filosofia di ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi
dovesse tradurre questo luogo in tedesco, lo potrebbe fare, parmi,
benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem anclera-werden; come
si dice in werden non solo dai filosofi, ma anche nel linguaggio
famigliare, quando di una cosa che non è ancora, ma si sta incominciando
0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc iat noch ini werden. Ma la
nostra lingua italiana non ha tutta la flessibilità del tedesco, uè sarebbe
chiaro, uè permesso il dire in italiano: tutte le coae sano in un
continuo mutarai. È una singolare coutradizione di Marco nostro e di altri
del PORTICO poateriori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio
della materia che aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, —
A"edi anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un
animale perfetto e bellissimo, il cui corpo è la materia, e
l’anima, Dio. Le rughe sul volto del vegliardo, le screpolature delle
ulive e del fico vicini ad infradiciare, la bava del cignale ed
altre sì fatte cose hanno pure una certa grazia e venustà, perchè il
mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti che non conferisca alla
bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto dispregio non solo per tale o
tale altra parte, ma universalmente per tutta, la materia che sottosta,
quando questa materia, che non è poi altro per gli stoici se non se
il suhstratum indeterminato di tutto il contingente sensibile, è essa
pure sostanza divina secondo la scuola?
Intendi: « o tu voglia dire che il mondo sia stato formato di
atomi. ed abbia quindi origine dal caso; o che sia stato formato di
nature (essenze, entelechie, monadi), ed abbia quindi per origino
l’ intelligenza, o la natura, che qui è sinonimo di intelligenza; questa
cosa pongo io certa anzi tutto, come tratta dalla mia osservazione
immediata, che io sono attualmente parte di un tutto governato da
una natura. Con altre parole: o tu
faccia venire il mondo dalla pluralità, o tu lo faccia venire
dall’unità, ella è cosa di fatto che io ci ravviso attualmente una
pluralità governata da una unità. Il qual metodo di filosofare, per cui,
lasciata stare la disputa intorno all’origine delle cose, si viene
ad esaminare la realtà attuale di esse; lasciato stare il lontano e
mediato, si viene ad osservare l’ immediato e prossimo; lasciata stare la
cognizione dedotta, si viene a far capo alla cognizione di fatto
acquistata per osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il
lettore che appo stoici mondo, tutto, natura, Dio sono
V sostanzialmente la stessa cosa, e però quelle che poco
innanzi furono chiamate parti del tutto, qui sono dette della
natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono espressioni diverse che
corrispondono a modi diversi di considerare una stessa cosa, e
questa diversità è relativa alla mente finita dell’uomo che non può
simultaneamente contemplare gli aspetti e momenti diversi delle cose, e
non alla realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni soprascritte sono
non di rado usate runa per l’altra, poiché sostanzialmente
significano la medesima cosa. Il mondo KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL
PORTICO considerato: 1® come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le
cose che sono {natura nuturans, i; t£ Xvtxfi, -ij ToO òlo\j
q>0ai<é ), la quale, come artefice e informatrice di sé
medesima, trae da sé stessa e informa tutte le coso con suprema
saviezza e divina necessità, cioè secondo le sue leggi che sono
quelle della ragione; 2" come la totalità delle cose informate
e ordinate dalla potenza informatrice immanente in esse e governatrice di
esse (dotta allora xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente,
il vivente organismo, o corpo organato da quella {natura naturata);
finalmente come l’unità dei due, cioè dell’ organismo vivente e
della forza organatrice e governatrice, in quanto l’uno non si distingue
dall’altra se non se per la contemplazione della mente finita
deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu vi sottoponga
col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione
dell’O., perchè non avrei saputo quali altre più chiare sostituir
loro; atteso che io non son sicuro di intendere qui nè che cosa abbia
voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo
una nota; ma non la fece, e non trovo altro,, che si riferisca a
questo luogo, ne’suoi manoscritti, se non se un cenno pel quale è
indicato che egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove tutti gli altri, che
io conosca, lessero &ti; e che egli intese r Ù7TÓ0OU diversamente
da tutti gli altri interpreti. Gataker e Schultz che lo segue da
vicino, non sono più chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del
tutto. Così O. svolge ed illustra la filosofia di ANTONINO espresso
brevissimamente e, parmì anche, poco chiaramente nel tosto. Non ho
mutato quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’O., sia
perchè ho motivo di credere che ne fosse già poco meno che contento
egli stesso, trovando io questo paragrafo nettamente ricopiatom sia
perchè non avrei voluto correr pericolo -- li alterarne benché minimamente
il senso, trattandosi di un luogo che egli intese assai
diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol dire che non bastano
le impressioni buone che noi riceviamo per mezzo della sensibilità,
le quali possono e sogliono venir cancellate da impressioni contrarie, ma
ci vuole anche il lavoro deir intelletto che riduca quelle ad unità e le
fermi cosi nel nostro spirito, formandone come un corpo di
scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazione dello spirito alle cose
di circostanza, ma ci vuole ancora la contemplazione, l’
applicazione dello spirito alle cose permanenti, al generale
immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a generalità
il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima, la
quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza cui la
semplicità del cuore dee far rimanere secreta naturalmente nel cuore, ma
non artatamente celata; ed allora è l’anima veramente grave e soda e come
chi dicesse, veneranda. Sul fine del paragrafo fa la enumerazione delle
diverse categorie alle quali si dee riferire l’oggetto osservato. Questa
nota d’O. che per le troppe citazioni del testo greco non può qui
darsi che in parte, trovasi intera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole
accadere. Non era possibile il tradurre altrimenti. Del resto vada a
rilento chi per la sola ragione del non potersi tradurre sempre
colla stessa voce una stessa parola del testo, accusa ANTONINO qui
ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che, là dove è una stessa parola,
debbe essere anche una stessa idea. Ed anche Platone (vedi il Cratilo) il
credette; e il credette VICO (si veda): e tanti j altri il credettero: e
noi il crediamo. Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv
non si trova più annessa al nostro amare, ciò j non prova altro se non
che il greco d’ANTONINO e l’italiano sono due lingue diverse. E sap
evadicelo. Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo
liberalmente educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un tiranno
od un re, gli par di udire lodato e magnificato un pastore, perchè
egli munga di molto latte; e l’animale cui pasce e munge il re, gli
pare anche più ritroso e più infido di quello cui pasce e munge il
pastore; nè men rozzo nè meno ineducato stima egli l’uno che
l’altro, mancando ad amhidue il tempo per badare a sè, e vivendo il primo
fra le mura della reggia a quello stesso modo che l’altro nella
capanna sul monte. Del resto, il senso generale di tutto questo
paragrafo, non bene inteso, secondo me, dagli interpreti, mi pare che
sia: Tu dèi farti capace sempre pih cho tu puoi vivere da filosofo in
questa tua corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non
incontri tu ad ogni passo esempi di quel che dice Platone: uomini
che vivono nei palagi come farebbe un rozzo pastore in sul monte:
ingolfati cioè quelli e questo nelle cure materiali del governo
dell’armentoV E sottintende: se per costoro il palagio non è
altrimenti che una capanna, non può ella con più ragiono essere la reggia
per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui ANTONINO di raccomandare
a sè medesimo anche ' questo genere di contemplazione, cioè a dire
lo studio dei fenomeni, e delle maraviglie, come egli dice
sapientemente, dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo
massimamente: perchè non è altro studio il quale possa per via più
compendiosa e sicura condurre alla cognizione della infinita sapienza, e
provvidenza infinita della causa reggitrice del mondo. Nè l’uorao può
presumere di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di
queste maraviglie, cioè come si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e
deperisca il suo corpo, quale sia la natura e il modo di operare
della causa o principio a cui dehbonsi riferire questi fenomeni,
quali le relazioni di questa vita organica del suo corpo con quella del
principio che in lui sente, vuole, e pensa, e come possano questo due
vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere
sè medesimo, per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè
stesso, e non cura di conoscere un po’intimamente anche questa delle due parti
di che si compone l’esser suo, porta gran pericolo di errare nel vano, e
di prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto ai
filosofi del PORTICO, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di
fisiologia. Perchè uno appunto degl’errori fondamentali della loro
filosofia, quello por cui mutilavano la natura umana escludendo da essa
la sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’
uomo propriamente, il quale per essi non e altro che ragione e
volontà; questo errore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica dell’uomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’organismo
corporeo dell’uomo, delle relazioni intimissime della vita di esso organismo
corporeo con quella della mente, e della natura egualmente spirituale
di ambidue. Questi versi sono d’Omero e sono dei più famosi
nell’antichità, dei più spesso citati e ripetuti, imitati dai poeti
posteriori; o però ANTONINO non li scrive per intero, ma solo quei
brani che sono stampati in corsivo, bastando quelli a richiamare
alla memoria i versi interi, alle diverse sentenze contenuto in
essi alludendo egli poi nella parte seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO,
(opo aver detto magnanimo Tidide a che mi chiedi il mio lignaggio?,
incomincia la sua risposta a Diomede, il quale, prima di accettare il
combattimento con lui, aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe. Io
li ho tradotti letteralmente, giovandomi in parte della traduzione di
Monti, la. quale, come nota a tutti i lettori, avrei volentieri
dato qui inalterata, se in essa fosse più fedelmente espresso, e
nell’ ultimo verso non interamente guasto il senso delle parole d’Omero. Il
qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom
nasce e così muor: il che fa fare un falso sillogismo a Glauco, il quale
secondo la traduzione del Monti, concludendo, affermerebbe dell’wo/
Ho ciò che dovea affermare delle schiatte umane, mutando, come
direbbero i loici, nella conclusione il piccolo termine, che nella
premessa minore- non era uomo ma schiatta o stirpe, come disse
Monti. E pure il verso d’Omero ò chiarissimo. Questo strafalcione
Monti non fa se, come quasi ignorante del greco, con tante altre
traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non solo per
eleganza di stile ma ancora per fedeltà, precisione e chiarezza,
del Voss, il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce
letteralmente i cinque esametri greci. Anche Pope, sebbene i suoi
lavori sui poemi d’Omero, tutto die pregevolissimi per altri rispetti,
non meritino il nome di traduzione, non fa qui lo sproposito di Monti. Ed
altri ancora potrei nominare dei nostri che con nobilissimo
intendimento si diedero all’ardua impresa di recare nella nostra
lingua italiana chi l’una e chi l’altra di quelle poche reliquie che ci
rimangono della greca poesia -- dico poche rispetto a ciò che fu divorato
dal tempo --; i quali avrebbero meglio inteso e meglio tradotti
moltissimi luoghi se avessero potuto consultare, se non tutti gl’interpreti,
cementatori ed espositori, almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io
nomini il più valente, a parer mio, di tutti, Belletti, al quale,
tranne forse una più intima notizia del greco, nulla mancava, non
valor d’arte, non felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione
perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici greci. E in vero,
leggendo io le traduzioni di Bellotti e riscontrandolo diligentemente
cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad ammirarne la eccellenza, anzi
direi quasi in tutti quei luoghi dov’egli capì abbastanza intimamente il
suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore.
Ma anche in molti altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure
non abbia saputo o potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni
fatte da* suoi predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che
anche considerato in sè stesso e non come parte di una grande e
sublime trilogia, è forse il più bel monumento della scena antica, e
certamente il più grande di tutti per sublimità tragica, recondita
filosofia, splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri,
quanti errori avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini
avrebbe fatto dire a quella grande anima e colossale ingegno d’Eschilo,
so egli avesse solo potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di
Humboldt? Non dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che
forse non era ancora pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è
tanto più da lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi,
quanto è meno da sperare che sia presto per sorgere un altro ingegno
italiano, il quale possa fare quello che avrebbe potuto
Bellotti. Ritornando al paragrafo di ANTONINO e al luogo citato d’Omero,
è da notare come siffatti pensieri intorno al poco o niun valore
della vita considerata in sè, e di tutte le cose umane e dell’ uomo
stesso, così frequenti nei poeti ebraici; frequentissimi in questo
scritto di Antonino e divenuti quasi abituali nei cristiani dei primi
secoli, si trovino pure non di rado anche nei poeti greci più
antichi, voglio dire in quelli delle prime e più splendide epoche della
greca letteratura, sebbene i greci fossero un popolo di allegra
immaginazione. Forse non dispiacerà al lettore il vederne qui
raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla di più
infermo che l’uomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che siatn noi
dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la
seconda parte. L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel Prometeo d’Eschilo e non vedevi l’imbecille natura a vano
sogno eguale onde è impedito il cieco umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,
perocché veggo non essere noi,
quanti viviamo, altro che larve ed ombra vana. Nel Filottete del .
medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un fumo.
Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare tutte le
cose umane come un' ombra, E vuoisi notare come appo i tragici ed
anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che
durano un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A
queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano
nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo, allude evidentemente ANTONINO
con quelle sue parole: il più breve detto, anche di quelli che sono
i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli d’Omero. Questa
nota e scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato, e mandato a
stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi e di lettere
(prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e ridottomi a
passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r esercizio di
un pubblico ufficio mi lascia, avea potuto, non saprei diro perchè,
immaginarmi che il valentissimo Bellotti fosse già del numero di quei
felici che più non vivono altrimenti sulla terra che per la memoria di
opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non cangio
nulla a quello che ho scritto di lui; ma aggiungo l’espressione di un
voto, che deve esser quello di tutti gli amatori delle buone
lettere desiderosi di vedere vie più chiara e più grande la rinomanza di
un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta ora, da
quanto mi dissero, rivedendo o migliorando il suo volgarizzamento
di Sofocle, così possa egli poi rivedere ed emeudare quello ancora
di Eschilo, il quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello,
tranne forse alcune eccezioni, non pecca gravemente che nella parte
lirica; laddove in questo trovai, 0 parvemi certamente trovare,
molti luoghi da dover essere emendati non solo nella parte lirica troppo
spesso non traducibile in italiano (come è intraducibile Pindaro, secondo
che fu sentenziato anche da LEOPARDI non ismentito dal tentativo più
audace che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e
compiuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè il
senso voluto esprimere d’O. non mi sembrava abbastanza chiaro; e
poi, e principalmente perchè mi parve troppo grande licenza il tradurre
per quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi
sembra qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è
quello di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz
contrariamente al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le ragioni che possono avere gl’indotto
a interpretare a quel modo. Ma non mi persuadono. Il pensiero di Antonino
mi sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone altro
che di operare sempre secondo ciò che richiede il momento presente, e
di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura,
in qualunque istante le sopravvenga la morte, compie sempre interamente
il compito che ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè
stessa; ella ha tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente
esaurita la sua parte come attrice sulla scena del mondo; e appunto il
morire quando la natura lo vuole, è la conclusione, il compimento
della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran
dramma della vita universale. Bone avverte qui Gataker aver già
Socrate usato il medesimo argomento per indurre Alcibiade a disprezzare
la moltitudine, alla quale peritavasi di farsi innanzi a
concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impaurisce? forse
Micillo il ciabattieref Trigaió il conciatore f Trochilo il
ferravecchio? ora non sono costoro quelli dei quali si compone l’adunanza
del popolo? Che se non temi di favellare a ciascuno di essi
separatamente, che è dò.che ti fa timido a parlar loro riuniti insieme?
Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una moltitudine di
popolo riunito, e avrebbe anche potuto ricordare ad Alcibiade l’antico
detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da Plutarco: preni ad uno ad uno
»iete tante volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi. Ma il
medesimo ragionamento applicato allo cose di cui parla Marco nostro
non ò molto concludente. E una melodia, per es., come qui avverte
opportunamente Pierron, è qualche cosa di più che una semplice
successione di suoni, e Antonino dimentica di considerare ciò
appunto per cui le note musicali hanno potenza da commovere l’anima
sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci
era la lotta infelice della volontà e liberta morale dell’ uomo
contro l’ inflessibile necessità; o per dir più veramente, quella
fatale retribuzione di giustizia che risulta inevitabilmente alla
vita umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella
necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il
/«<o non era altro che la concatenazione delle cause secondo le
leggi della natura, cioè della ragione e quindi della giustizia; quella
necessità, dico, non era punto una cosa cieca neppure nella mente
dei poeti: sendo che a Nemesi figlia appunto di essa necessità e
particolarmente incaricata di vendicare i delitti e rovesciare le troppo
grandi e- immeritate prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia
(5“tx-ri), che erano i due concetti più puri fra tutte le divinità
immaginate dall’ antico politeismo, il semplice, ma sublime buon senso
dei Greci riferiva tutto ciò che risguarda il supremo governo del
mondo. L’idea dunque della giustizia era congiunta con quella della
necessità sebbene in modo diverso, anche nella mento dei poeti,
come in quella degli stoici. Cho se Antonino non fa qui
esplicitamente alcuna allusione a quella retribuzione di giustizia,
che era l’elemento morale della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità
della lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea
nobilissima dell’antica tragedia; egli è perchè questa inutilità
intendeano gli stoici e i poeti allo stesso modo, e quasi
esprimevano colle medesime parole; laddove intendeano in modo diverso quella
retribuzione: e non erano forse i poeti quelli clie la intendeano
in modo men vicino al vero. Benissimo Gataker ricorda qui alcuni detti
memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea
probabilmente Antonino in questo luogo. Già condannato a morte per
giudizio iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di uno che non
ristava dal dirgli villanie, disse Focione: non sarà alcuno che faccia
costui cessare dal disonorar «è medesimo? E già vicino a
morire, questa sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il
fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco
nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,
espressione di nn sospetto nel caso particolare di Focione, ma bensì in
un senso generale, quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non
bastar sempre le parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle
disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur
quando il fingere potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto
(à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo Schultz che tradusse iniquum. Ma
non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come
appare dal consueto segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov
possa esser preso in questo senso, sebbene abbia quello ingrato,
disleale, disamorato. Il senso più ovvio di questo aggettivo è
privo di senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo Aurelio
questo senso quadri benissimo in questo, luogo, meglio che non faccia quello
di inìquo. Dopo aver detto ANTONINO essere da pazzoy cioè a dire da
stolto, il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere
in tesi generale ed assoluta, poiché non si può fare altrimenti, che essi
debbano di neces- sità peccare, e il volere ad un tempo che essi
facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da
tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è
possibile ai malvagi;.da tiranno perchè vuoi esser distinto e che ti si
abbia maggior rispetto che agli altri uomini. Anche Gataker intende
1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto malissimo
interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre, quando deve
essere riferito al figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker e Schultz.
La medesima sentenza si trova anche nel Manuale del medesimo Epitteto con
parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi
per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio
un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com- prenderà
facilmente come il senso stoico di questa frase, tante volte
ripetuta da Marco nostro, è al tutto alieno da quello della famosa
sentenza del sofista Protagora: V uomo è misura di tutte le cose.
La sentenza del sofista si riferiva ad ogni cosa, alla verità obbiettiva,
alla moralità come alla sensibilità, e tendea quindi a distruggere
la possibilità' di ogni cognizione teorica, la morale come la
religione. La sentenza di Antonino al contrario, il quale, per un errore
direi quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli stoici anteriori,
tutta l’essenza dell’ uo- mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non
si riforisce ad altro che alla sensibilità, cioè ai piaceri e ai
dolori di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso
proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare, operazione propria
dell’intelletto; e nota qui il carattere esclusivo del Portico, il
quale considerava e stimava un nulla, non che la sensibilità ma l’in-
telletto stesso, a paragone dei buon uso della volontà, cioè della
moralità della ragione. Traducendo ho usato il vo- cabolo
raziocinio piuttosto che intelletto, perchè in italiano il senso della
parola intelletto può essere troppo facilmente confuso con quello
di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben determinata nella
nostra lingua, come è fra i due corrispondenti tedeschi Verstandnis
e Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad seipsum, ricordi.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Oro:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Grice e Trissino
– la difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione della sua
filosofia – la scuola di Vicenza -- filosofia veneta -- filosofia italiana (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO
(Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza,
Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura
rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il
modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò,
infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di
musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di
numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche
presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che
riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva
rimodellare la poesia italiana. Fu anche un grande diplomatico e oratore
politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali
Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico
Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila,
Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X,
Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per
conto del papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo,
come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto
Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino
Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto
della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da
antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà
Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di
Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino,
feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al
servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile
famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre
sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi,
ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice
insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che
Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in
S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida
del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi
filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore
per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita.
Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del
giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,
Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da
Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna,
Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove
riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed
entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui
si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito,
Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri.
Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia
Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il
poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui
suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il
poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino,
cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di
Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite
sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano
all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi,
le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere
anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino
moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito si recò a
Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la prima tragedia
regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua
italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva
l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare
alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole,
venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a
Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di
Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali:
la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia,
Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a
quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime
quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di
Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A
Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano
Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente
VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della
Milizia Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini,
Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei
successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio
l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia,
in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio
avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia
del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di
Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro
come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo
lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di
eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi
rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia,
dove morì. Trissino manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero
dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti
L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si vede fin
dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
Stampa anche la commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia
regolare. Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle
porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre
Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui
Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura,
Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé
ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio
Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di
Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua
Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras),
che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta
parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia
italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta,
i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare
eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi
sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo
cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che
allora infuriavano. Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi
diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele
lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un
saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio),
due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un
manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso
(padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.
Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date: Dà
alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti
Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue
opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non
con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare
eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le
Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni
petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui
la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e
poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai
classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o
biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello
stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede
in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta
piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro
nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da
allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone
per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari
eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto,
fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli
autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e
Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a
parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino
sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità
dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito
sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre
secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il
fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari
eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni,
Baldassarre Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo
vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per
il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere
modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il
continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di
resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto
e ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico
immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre,
che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una
collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo
del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande
successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel
melodramma. Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga
teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni
genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le
unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative,
per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo
cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda
fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle
quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla
conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà
essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà
venire raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno
ruotare tutti attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende
dovranno venire concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in
sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà
propria, viene dal Trissino investito di un alto valore morale e politico,
profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso
di formazione morale e culturale. Per questi tre generi nuovi, il poeta
propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del
trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti). Sul piano dello
stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e
di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico
l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose
di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e
Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro
registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e
bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri
stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio
dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a
reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e
registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso
di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con
L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in
27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo
poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare
un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione
medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con
Ariosto. L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata
nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi
ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero
e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un
volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o
anche latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte,
inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso
dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di
architettura, arte militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma,
a quanto stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico
cioè la guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti
che occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino
Procopio di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente)
pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno
specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che
sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore
ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti
italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana,
come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da
Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco
Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione
pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo,
nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle
regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un
rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa
parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime
fonti tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento
venne a scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza
rima costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende
il dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui
il poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della
Roma medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe
geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di
seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è
addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di
difficile lettura. Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia
un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi
solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione,
tipicamente aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della
Controriforma. Sarà proprio alla fine
del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma
non solo. “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli
sono indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia
antica -- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della
quale il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte
poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da
Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente,
mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere
linguistiche Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino,
stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I
suoi saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola,
Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese
discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare
l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell'
“Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua
italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e
consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi
resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed
“ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione
dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).
Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico
della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei
secoli a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della
“t” nelle vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione”
-- oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal
signo “v” (uita > “vita”) I punti
principali dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema
Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta
[ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di
vocale [u] J j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ”
“SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee
vengono confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua
cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei
letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della
fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si
appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari
eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i
generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa
a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si
dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri
stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di
essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla
lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo
e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua
letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una
similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano
è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e
lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a
Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata
sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un
prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la
lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e
vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o
nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà
non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da
parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta
aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e
nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura
neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il
Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma
soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di
Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci
vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B. Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le
api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina
ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello e sì alto
pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli umani
ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii d’Acheronte
ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei mortali».
Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del pensiero
platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e
una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la
vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della
scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e
millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim,
Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata
prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la
sua morte e vi verrà coinvolto, invece,
il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo
poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e
queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in
maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o
Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e
nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto
la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione
risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era
demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna
anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte
le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e
con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu
l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una
delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba,
considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira
dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il
Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una
tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è
uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del
giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una
riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove
si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una
intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può
dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche
nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della
tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto,
alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino
(prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.
Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito
Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione
italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che,
meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione
poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo
storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il
secondo è Carducci che stronca il poema
ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin
che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un
letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si
assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino
trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in
generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai
latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza
della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è
nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici,
non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla
poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno
presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno
otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre
Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco
seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese,
poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che
amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica
più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda
la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel
Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo
alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe
possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba, tragedia
Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana;
De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli;
Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema
epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian Giorgio Trissinoincisione
da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio Trissino, Miniatura di O.. Incisione
da Castelli La vita di Giovangiorgio Trissino, Targa a O., in piazza Gian
Giorgio Trissino. Targa posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino,
in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione
posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan
Giorgio Trissino, membro dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede.
Bernardo Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Pierfilippo
Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,Margaret Binotto, La
chiesa e il convento dei santi Filippo e Giacomo a Vicenza, Pierfilippo
Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato. L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ
ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O. GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La
Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato;
Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista Nicolini,
Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον
ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può cogliere". Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio
Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze
Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato,
Silvestro Castellini, Storia della città di Vicenza. Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin, O. o
Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion
ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare
cugini di altri rami della medesima famiglia.
La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni
drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile
intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i
discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più
prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la
denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero
Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti
a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre,
accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il
venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello
d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la
moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano
al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes,
la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette
affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni
ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col
patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi
Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il
tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice
civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et
Cricoli au XVIe siècle,. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani
L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia
dell'Italiano. "Palladio" è
anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea
della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e,
presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è
un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di
fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di
Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere
un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi,
La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della mostra dedicata a O.,
in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del Comune,
organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco di
Trissino. L. Cicognara, Storia della
scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti,
Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri
Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino,
Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba
di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C.
Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle
Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico,
Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del
Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma,
Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana, IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla
Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati
civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus.
Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma,
Bulzoni, Renato Bruscagli, Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il
Romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella cultura
occidentale, Pisa, ETS, D. Javitch, La politica dei generi letterari nel tardo
Cinquecento, «Studi italiani», David Quint, Epic and Empire. Politics and
generic form from Virgil to Milton, Princeton, Princeton University Press,
Tateo, La letteratura epica e didascalica, in Storia della letteratura
italiana, IV, Il Primo Cinquecento,
Roma, Salerno, Sergio Zatti, L'imperialismo epico del Trissino, in Id., L'ombra
del Tasso, Milano, Bruno Mondadori, aRenato Barilli, Modernità del Trissino,
«Studi Italiani», A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema
epico-cavalleresco nel Rinascimento, Roma, Franco Angeli, D. Javitch, La nascita della teoria dei
generi letterari, «Italianistica», Gigante, «Azioni formidabili e
misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica»,
Stefano Jossa, Ordine e casualità: ideologizzazione del poema e difficoltà del
racconto fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e
la disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico
tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico
all’immaginario cavalleresco, in L’Italia letteraria e l’Europa dal
Rinascimento all’Illuminismo, in Atti del Convegno di Aosta, N. Borsellino e B. Germano, Roma, Salerno, M.
De Masi, L'errore di Belisario, Corsamonte, Achille, «Studi italiani», Claudio
Gigante, Un'interpretazione dell'«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze
di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo,
Tasso, Roma, Salerno Editrice, E. Musacchio, Il poema epico ad una svolta: O.
tra modello omerico e virgiliano, in «Italica»,
Valentina Gallo, Paradigmi etici dell'eroico e riuso mitologico nel V
libro dell'‘Italia' di Trissino, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», Alessandro Corrieri, Rivisitazioni cavalleresche nell'Italia
liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste
dell'Italia liberata da' Gotthi di Giangiorgio Trissino, «Schifanoia», Claudio
Gigante, Epica e romanzo in O., in La tradizione epica e cavalleresca in
Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang, Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di
Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre
de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I
modelli epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia
liberata da’ Gotthi d’O., «Lettere italiane», Sul dibattito sui generi
letterari e la Poetica (in ordine di stampa): E. Proto, Sulla ‘Poetica’
di G. G. Trissino, Napoli, Giannini e figli, C. Guerrieri-Crocetti, Giovan
Battista Giraldi Cintio e il pensiero critico del secolo XVI,
Milano-Genova-Napoli, Società Dante Alighieri, Mazzacurati, La mediazione
trissiniana, in Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori,
Mazzacurati, Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori, A. Quondam,
La poesia duplicata. Imitazione e scrittura nell'esperienza del Trissino, in
Atti del Convegno di Studi su G. Trissino, N. Pozza, Vicenza, Accademia
Olimpica, G. Mazzacurati, Il Rinascimento del Moderni. La crisi culturale
Professoree la negazione delle origini” (Bologna, Il Mulino); M. Pozzi, Lingua,
cultura, società. Saggi della letteratura italiana del Cinquecento,
Alessandria, Dell’Orso, Per il rapporto fra l’epica del T. e quella del Tasso
(in ordine di stampa): E. Williamson, Tasso’s annotations to Trissino’s
Poetics, «Modern Language Notes», M. Clarini, Le postille del Tasso al
Trissino, «Studi Italiani», G. Baldassarri, «Inferno» e «Cielo». Tipologia e
funzione del «meraviglioso» nella «Liberata», Roma, Bulzoni, R. Bruscagli,
L’errore di Goffredo, «Studi tassiani», S. Zatti, Tasso lettore del Trissino,
in Torquato Tasso e la cultura estense, G. Venturi, Firenze, Olsckhi, Sulla
lingua e il dibattito dei contemporanei si vedano almeno (in ordine di
stampa): B. Migliorini, Le proposte trissiniane di riforma ortografica,
«Lingua nostra» G. Nencioni, Fra grammatica e retorica. Un caso di polimorfia
della lingua letteraria, Firenze, Olsckhi, B. Migliorini, Note sulla grafia nel
Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, B. Migliorini, Il
Cinquecento, in Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni [e ristampe].
E.Bonora, "La questione della lingua", Storia Lettaliana, Garzanti,
Milano, C. Segre, L’edonismo linguistico del Cinquecento, in Lingua, stile e
società, Milano, Feltrinelli, O.
Castellani-Pollidori, Il Cesano de la lingua toscana, Firenze, Olschki, O.
Castellani-Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla lingua. Con
un’edizione critica del testo, Firenze, Olschki, Franco Subri, Gli scritti grammaticali
inediti di Tolomei: le quattro lingue di toscana, «Giornale storico della
letteratura italiana», I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo
letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni,
M. Pozzi, Trattatisti del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi,
Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare, Exeter, University of
Exeter, Pozzi, O. e la letteratura
italiana, in Id., Lingua, cultura e società. Saggi sulla letteratura italiana
del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, A. Cappagli, Gli scritti
ortofonici di Claudio Tolomei, «Studi di grammatica italiana», Maraschio,
Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia, C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il
dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale,
L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia
liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di
Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di
stampa): M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del Trissino,
«Ateneo veneto», foglio speciale, C.
Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in Geografia e
storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la
«questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di Studi su
Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito
culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria
linguistica di Dante, Napoli, Liguori,
C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri,
«Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari
eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del
codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di
Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia
(Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del
“De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di
studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G.
Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi
intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non
riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle
edizioni moderne: La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di
retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto
inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che
contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii
grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto
inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro,
Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è
dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari
eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I
classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino,
nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per
l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle
prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche.
Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul
Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento.
org/ cinquecento/trissino. pdf. A.
Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia.
Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di
Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton.
Italica Rinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO
del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico
nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte
le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E DATO IL PARLARE,sendo a lui necessario
solo. CERTO NON A a gl’angeli non a GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare. Adunque
sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E LA
NATURA certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi
sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra
ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO della
mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la
qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel
fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui
avidis simi sispecchiano. Per tanto pare che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha
mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal
cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che sono che Q a bene esser, devemo essi lasciar
da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina
cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi demoni a MANIFESTARE fra sè la
loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se non qualche cosa di ciascuno,
perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un
l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non e bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA sono guidati. E
poi, tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le medesime
azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui
conoscere. Ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risulta distinta, COME vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut sciant quilibetde quolibet, quia est, et
quantus est. Parrebbe più proprio
il tradurre cosi. Non hanno bisogno di conoscere, se non ciascheduno di
ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se
alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO (si veda) dice nella Metamorfosi che
LE PICHE parlarono, dico che dice questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se
si dices che le piche al presente e altri uccelli parlano, dico che è FALSO, perciò
che tale atto NON è parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce;
o vero che si sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO
(cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno
espressamente dice, ancora la pica ride, questo non sarebbe se non
rappresentazione, o vero imitazione del SUONO di quello, che prima ho detto. E
così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla NATURA il PARLARE. Ma per qual cagione
esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini
il COMERCIO, la CONVERSAZIONE. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI
NATURA, ma per *ragione*. E essa ragione o circa la separazione, o circa il
giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi
ogni uno de la sua pro [La voce del testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio
dalla parola discernimento. del parlare, pria specie s'allegra;
giudichiamo che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE,
come fanno le bestie. Nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come
gl’angeli – JARMAN, La conversazione angelica --, sendo per la grossezza e opacità
del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta. E adunque bisogno che, volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE
IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO SENSUALE e *razionale*; per ciò che, dovendo
prendere una cosa dalla ragione, e nela ragione portarla, bisogna essere
razionale. Ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE
NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l e *solamente*
razionale, non puo trapassare. Se *solo* sensuale, non puo prendere dalla
ragione, nè nella ragione de porre. E questo è SEGNO (SENNO) che il subietto di
che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, il SEGNO (SENNO) è per
natura una cosa sensuale. E inquanto che, secondo la *volontà* di ciascun, *significa*
qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem SIGNUM est, ipsum
subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est,
esse. Rationale vero, in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur ad placitum. A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod
rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è
SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo e prima dato il parlare, e che
dice prima, et in che lingua L’UMO SOLO e dato dalla natura il parlare. Ora
istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo e prima dato dalla natura il
parlare, e che cosa prima dice, e a chi parlò, e dove e quando, e eziandio in
che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la
prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre
sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava, disse, ‘Dio ci ha
commesso, che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e
che non lo tocchiamo, acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in
scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol
cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa
inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa.
Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che
sarebbe di troppo ; ma,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega
meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette, che a
pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana prima da
l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso
essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che
voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in
pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per
modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e
da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio;
con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u
m a n a generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è
ragionevol cosa, che quello che fu davanti, cominciasse da alle grezza, e
conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio
tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse
primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo
aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e
se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello
che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA,
che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino
secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata, ciascuna
cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della
natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera
che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi,
e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far
risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa
distinse?e perchè no? Laon de et a questa, et ad alcune altre cose credia mo
tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le
cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo
parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante
parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo
crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che
egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni
perfezione principio et amatore,inspirando il primo uomo con ogni perfezione
compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima
cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le
obiezioni, 11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era
bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto
senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia, la
quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà
giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una
medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la prima
favella; perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori:
se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i
negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti
per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè
pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala
è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però
qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco
della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui
parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna
locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata
quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare,
quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo
tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le
spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè
se condo il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità,
non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti
e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente
si descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che
Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e
molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. R
ir tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di
parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i
vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli, e quanto al
proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua
userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come
di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo, e tutti i suoi
posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si interpreta la
torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli
di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione
rimase, acciò che il nostro Redentore, il quale doveva nascere di
loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la
confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le
labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum
humanitatem, non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve
tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità, usasse della lingua
della grazia, e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin
15 e per De la divisione del parlare in
più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare
per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non starò di
narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e che mai
non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che
per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le
delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua
fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal
diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e de la
terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come prover
bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera volesti
miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero scordato,o vero
non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che
erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba
prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto
persuasione di gigante, di, superare con l'arte sua non solamente la na
tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre
in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava
di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua
gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza misura del celeste
imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi
non con inimica sferza, ma con paterna, et a battiture assueta, il ribel lante
figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la
generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano
architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde
", parte cavavano sassi, parte per ter ra, parte per mare li conducevano. E
cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano, quando furono dal
cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela
servivano a l'opera, diversificandosi in molte loquele, da essa cessavano, nè
mai a quel medesimo comercio convenivano ; et a quelli soli, che in una cosa
convenivano una · Il Witte osserva che in luogo di pars amysibus tegulabant,
pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino,
si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis)
linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte
con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase, come a
tutti gli architetti una, a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori
di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj
esercizj erano in quell'opera, di tanti varj linguaggi fu la generazione umana
disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno, tanto era più
grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma
rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono, sì come io comprendo,
del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo
di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni et angoli di esso. E
conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di
tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o
pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre
idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa,
parte la settentrionale, et i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte
de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi et altre
molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per
segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti volendo
affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da
iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò.
Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si
stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo idioma 1,
avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare,
altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli, Francesi et Italiani .Il
segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è
in pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è
Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri molti.Di questi
adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc tengono la parte
occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì,
tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio
d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli
che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò
che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal ponente sono
serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate, videlicet a
finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul
terius est protractum. Totum autem, quod in Europa restat ab istis, tertium
tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè
dai confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto
che da quei confini in là si chiama Europa, e che si protrae anche più oltre.
Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19
glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di poi sono chiusi
da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a
pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla
prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le
quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che
intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente
per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia
che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa
ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in
tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che
questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente
provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli
eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo
il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A
la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne
la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte
cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil, « Surisentis
fez les aimes Puer encuser Amor.» Il
re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor, prima
che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.» Investighiamo adunque,
perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste
variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par
lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente
i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano
differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e Fiorentini;e
ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome
di gente,come Napole tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini ; e quel che è più
maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una
medesima città dimorano, come sono i Bolognesi del borgo di san Felice, e i
Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e
varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste.
Dico adunque, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto
effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni
nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, et essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi et abiti), simutano;cosìquesta,secondo
ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi. Però non è da
dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con la distanzia del tempo il
parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo
sottilmente investigare le altre opere nostre, le troveremo molto più
differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra
età, quantunque ci siano molto lontani. Il perchè audacemente affermo che se gl’antiquissimi
Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora
parlano in Pavia. Nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso
che iI qualici siano molto lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci
parrebbe a vedere un giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò
che le cose che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;
e quanto la variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i
discorsi di quegli uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che
una stessa città ha sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta, e sia la vita de gl’uomini di sua natura
brevissima. Se adunque il SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo
si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il parlare di
coloro, che lontani e separati dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono
ancora variamente variati i costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO
umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi
nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale
grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi
tempi e luoghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non
par suggetta al SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto,
High-Way Code --, e consequentemente non può essere variabile. Questa adunque
trovarono, acciò che per la variazionee del parlare, il quale DE LA
VOLGARE ELOQUENZIA. De la varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra
parte dell'Appennino. LA VITA D
I Gl OVAN GIORGIO O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O., ORATORE,
E POETA SCRÌTTA DA CASTELLI VICENTINO. IN
VENEZIA, Per Giovanni Radici.Con Licenza de’ Superiori, e
Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co. PARMENIONE, ED
ALESSANDRO trissini, ^ier-Fuippo Castelli. t «1 et egli
fu fempre le cita non fo lamento, ma lodevol cojaa chiunque ha fatto
penitelo di mandar a luce un qualche Juo componimento, lo fceglìero
a alca alcuno illujlre e ragguardevole perfonaggio, a cui
intitolarlo ; non fola mente per acquijlargli col nome di lui
pregio e ornamento y ma ancora per poterlo col favore di lui mede fimo
dagl vividi morti de' malevoli difendere, e ajfìcurare : mafiimamente di
ciò fare a me fi conviene, il quale avendo dìliberato di dare alle
luce il già condotto a maturità primaticcio frutto del poco e
debile ingegno mio, voglio dire la V ita del nobili fimo, e
dottijfimo Poeta e Oratore Gì ovan Giorgio T rissino, decoro e fple udore
ampli filmo di que fi a no fi r a Città di Vicenda s a nobile e
buona guida con pili di ragione debbo accomandarlo, onde poffa fi
curamente ufcir fuori, Me migliore per tanto, nè piu fidata fo ritrovarne
di quella della molta Vofira Umanità, e Genti legga,
Jllu * Digitìzed by Google I Illustrissimi,
e Nobilissimi Sigg. Conti-, concio [fi ache Voi Germe fiele di
queir amie hi filma, e fempre cospicua Famigliai Voi alla tefifiiitra, e alla
pubblicazione di quejì Opera ni avete piu volte inanimito, e
follecitato ; e Voi per fine dotati fiete di sì illuJlri prerogative, le
quali ( comeche un largo campo me fe ne pari davanti ) per lo timore di forfè
non offendere la fingolar VoJlra moaejlia ometterò. Non voglio tuttavia la f
dar di accennare V amor Vojlro alle lettere, e a chi le coltiva, il quale
ficco me dà a co no fiere quanto nobile fi a la Vofira indole, e
quanto colto il Vojlro ingegno, così Vi fu e fifere in Patria e fuori
fingo tarme nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre' ' C vita, e per ?ion
piu fajlidirvi la f ciò di dire, io umilio e dedico a Voi,.
Nobilissimi* e Chiarissimi Cavalieri, quejia mia prima Operai la
quale y perciocché la V ita contiene del non mai ablctJlan^a lodata
Giovangiorgio Tr issino, fon ficuroy che da Voi, che con lui comuni la
patria, il cognome, e le virtù avete, benignamente e gratamente farà
accettata . E qui nella pregevol grafia Vojlra r accomandandomi Vi
faccia umilijftma riverenza, A Vita di GIO V ANGIORGIO O., poeta e
orator celebre, ficcome per alcuni: è Rata già fcrirta, così parrà a
prima villa, che inutii cola ila Hata Io /crivella .di nuovo ; ma perchè
quelli tali Scrittori han di Lui molte cole dette, le, quali o non fono Rate
per eflì .bene difeufle, o forfè .anche furono dette a capriccio, perciò
non Lenza ragione rilolvemmo .di così fare . Tra efii uno fi fa
eflere Rato il Signor ApoRolo Zeno, di chiariffima memoria, il quale
nella fine del le* colo paflfatodiede jh luce la Vita d’O. inferita
nella terza parte della Galleria di Minerva in Venezia prejj'o Girolamo
jilhrivjj 1 696. in foglio ; ma ficcome gli uomini 'veramente dotti ed
ingenui non fi vergognano di ritrattar quegli errori, che nelle proprie Opere
conofcono aver commefiì, così non ifdegnò egli non pure di dirci a
bocca, ma di farci fàpere eziandìo per lettera, mandataci da Venezia addi
iv. di Giugno dell’anno 1749., che nè quella Vita, nè ciò, che col
fuo nome fu Rampato e in quel tomo, e negli altri ancora della detta
Galleria di Minerva, riconofccva per cola fua : e quelle fono le fue
parole . Sono cinquanta e più anni, ch'io fcrijjì quella Vita dell'
infigne Giangiorgio T rijjìno, la quale fi legge nella Galleria di
Minerva. Sappia però V. S., ch’io prefentementc, anzi da gran tempo in qua non
ricono feo per mio lavoro y ma per aborto della immatura mia età tanto . la
medejima Vita, quanto tutto quello, che col mio nome fi legge flampato in
quel tomo della Galleria di Minerva, e in tutti i Jeguenti, Ci fono qua e
là V'arj punti effendi ali e importanti, che allora mi parvero con vero e
fame difcujfy, e che ora per migliori lumi fopr avvenuti ritratto, e
condanno . Di tutto ciò mi è paruto avvi far la per fua regola, e mia
giufìife azione . Sebbene quali lo Hello avea egli fcritto
affai prima al P. D. Pier-Caterino Zeno, Somafco, fuo fratello, di
fèmpre celebratiffima ricordanza ; mentre tra le fue Lettere, di frefeo
fìampate in tre volumi in 8. col titolo di Lettere di Apoftolo Xeno ec.
I n Venezia, apprcjjo Pietro Valvafenfe ; nel z. Volume a car. 91.
ve n’ha una a lui diretta, fegnata di Vienna., in cui in proposito della
riftampa dell* Opere del Triffino allora ideata da’ Sigg. Volpi, così gli
diC. fe : Vinti i fono, eh' io diedi fuori nel /. Volume della
Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je orai avejfi a ferriere, la
riformerei tutta da capo a piedi : onde fe io ne fo ora sì poco conto,
avvertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a efja alcun fondamento
. Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece la ri Rampa
delle Opere del noflro TR ISSINO, proccurata dal chiariamo Sig. Marchelè
MafFei, ma primieramente ideata da 1 rinominatiifimi Sigg.Vol. pi
di Padova, tanto delle Lettere benemeriti (come appare e dalle parole della
lettera furriferita dei Sig. ApojRolo Zeno, e dal Giornale de’ Letterati d'
Italia, . ) noi lappiamo edere Rato pregato il liiddetto Signor
ApoRolo, che vi lalciaflè premettere la detta Vita ; ma non avendo egli allora
avuto tempo di r: correggerla, «Rendo occupato in altro impiego,
non volle acconientire . Ne fu tuttavia fatto un breve Rjfìretto dal
mentovato Signor Marchele, e fu alle Opere luddette premeflo ; nel quale
egli pur prele qualche sbaglio, eflendofì (come a noi pare )
attenuto alla Vita inferita nella Galleria di Minerva, e a MonEgnor
Jacopo-Filippo Tommafini, che fu il primo a feri ver del TRI SS INO a
lungo, teifuto avendone un latino elogio Rampato in un cogli altri fuoi Elogia
Virorum literis, et f apienti a illuflrium : Patavii, ex T
ypographia Sebajtiani Sardi, 1644. in 8. Datici per tanto con
lollecito penfiere a racoorrc le cole fparfe qua e là in varj libri, ed
anche a cer. carne di nuove, trovammo a calo in un Difcorfo intorno
aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cavaliere Michelangelo Zorzi (Rampato
nella Riaccolta dOpufcoli Scientifici, e Filofojìci, toni. 3. a car.
398.) la quale cominciatali a pubblicare per opera b del P. D,
Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja appreJJ 0 Crifioforo Zane in 1 z.
leguitandoll tuttora a produrre da'torchj di Sirnone Occhi è già
arrivata alTomoXLVII.) citato a car.441. una dia manulcritta Vita d’O. i
per la qual cofa torto ricercatala con molta diligenza, ci venne fatto,
per mezzo del Signor Abate Don Barcolommeo Zigiotti, non pure di ritrovarla,
ma di averla eziandìo cortefemente in noftra cala, Quella Vita rt
conferva di prelentc appiedò i Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro,
dilcendenti del noftro Autore, ed ha quefto titolo : Ragguaglio Jftorico, e
Letterario intorno alla Vita di GIOVA NGIORGIOO. Nob. Vicentino,
Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ; con un Efame delle Opere da Lui
fiampate, e col giudicio fatto delle medefme dagli Uomini più celebri di
quc' tetri pi, e con una ccnfura J opra il fuo Poema Erpico intitolato L
A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da Critici allora più famojì, e più
intendenti della Poetica Difciplina . Aggiuntovi un,e fatto Catalogo delle
Opere tanto pubblicate, quanto MS S. dello fìe ffo O., ed un Indice copio (0 d'
Autori, che parlano di Lui, e che fomminijlraron no tifi e per compilare la
Vita prefente, Il Manofcritto è in 4., e comprende 653. facce. Da
quello titolo sì fpeciolo e pieno credevamo invero, che invano ci foffimo medi
all’opera, c che avedìmo perduta la fatica inutilmente ; ma piu
cuore ci facemmo a profeguirla, ed a compierla, allora che letta e riletta la
Vita fleflà trovammo ella poco piu in se contenere di ciò,, che
detto aveano i predetti Autori r oltreché ognuno recherebbe!! a noja il
leggerla a cagione delle parecchie lunghe digreffioni, che F Autore
vi frappofe, lontane affatto dalla materia, che e’ fi propofè di trattare
( vizio Colico nel Cavaliere Zorzi, ma pure fcufabile in lui per la valla
raccolta di letterarie erudizioni, che egli, come in preziofà confèrva,
nel teforo di fila mente ferbava ), benché per altro cotali digreffioni in
sé contengano molte curiofe notizie . Non polliamo tuttavia non
confeflàre, averci quello Manufatto varie cofè fommini firate, per cui vie più.
arricchita abbiamo quella noilra fatica ;la quale ficcome cola nuova e
vera, fperar vogliamo, che non abbia ad eflère fèr non di diletto.
V'abbiamo per entro fparfe alcune notizie letterarie ed ifloriche
fpettand a varj perfonaggi, che fiorirono nell età del noflro O.,
oa qualche fatto notabile de! tempo fleffo, lenza però dilungarci
granfatto dal hlo principale dal racconto; le quali notizie vogliam
parimente credale, che non faranno difeare. A non oltrepafiare la
brevità, che ci fiamo prefifla, abbiamo a bella polla tra lafcia te alcune cole
di non tanto conto/ perchè altrimenti fé avefà fimo voluto dir tutto ciò,
che ad O. 1 può. appartenere, di tanto fi farebbe quella Vita.
b z afiim Digitized by Google VI
prefazione. allungata, che, anzi che diletto, noja e fafiidio
apportato avrebbe . Quanto poi alle Opere del noRro Autore,
crediamo di non averne tralafciata pur una, come apparirà dal Catalogo,
che fi pone in fine di quella Vita y dove molte fé ne vedranno regiRrate,
che non furono mai Rampate, ed al Compilatore fopraccennato o non venute
a cognizione, o dalui per avventura non curate: e di molte eziandìo
fi favellerà, che da qualche Scrittore da fallace tradizione ingannato a
GIOVAN GIORGIO furono attribuite . Tutti i Titoli per altro delie Opere
fleffe non ci fiamo curati di riferire appuntino, come Ranno ne’ Frontelpic)
delie edizioni, non ci parendo cofa di grande importanza > e fimilmente se
fatto nell’ allegare, e citare qualche pafso di fue fcritture: e abbiamo
tralafciato eziandìo i Caratteri Greci dal noRro Autore inventati, non
avendogli giudicati quivi totalmente neceflàrj, e non già credendo di
reìidcr così molto buon fcrvigio alla memoria di quel grand’ uomoy
come fi lafiiò ulcir della penna il per altro tanto benemerito dottiilìmo
editor della rifiampa delle Opere dei Trillino fatta in Verona j imperciocché
tenghiamo per fermo, che Te il Triflino folle vivo, figurerebbe a afare nelle
proprie fcritture quelle lettere da se con tanto Rudio ritrovate, ulate,
e difcle. Dopo di avere così Icritto ci confoliamo, parendoci di
elserci in quefio particolare uniti alla oppinio vir ©ppìnione del fu Signor
Apollolo Zeno, che nella più fopra citata Lettera al P. D. Pier-Caterino
fuo fratello così Icrilse : Lodo /'edizione di tutte /' Opere del T
riflino . Ma fi farà ella con gli Ornicron, e cogli Omega, e con la foli t a
ortografia di quel grand’ uomo? Si farebbe potuto regiftrar
anche il catalogo di quegli Autori'*,. che di Lui fecer menzione ;
ma liccome molti lì troveranno già citati per entro quella Vita, e
gli altri non ne parlarono più che tanto, così noi ci lìamo dilpenlati da
.quella forfè dilutile fatica . A quello però può abbondantemente
lupplire la Tavola delle cofe notabili, che alla fine del libro abbiamo
aggiunta ; la quale altresì mette in un tratto lotto l’occhio del letrore tutte
quelle notizie letterarie ed illoriche, che, come lopra è detto, abbiamo
fparfe qua e là: Tavola che lenza quelli ragionevoli motivi, lì
larebbe dovuta certamente lalciare in un’Opera di pochi fogli, liccome lì
è quella nollra. Circa poi le correzioni ed ofservazioni
critiche per noi fatte lòpra gli errori d’ alcuni de’ detti Autori,
lì vuol qui dire, che non s’intende giammai d’olcurar punto la fama, che e£Iì
godono più che chiara tra’ Letterari, ma fola mente di far apparire
il vero nella lua luce; e le allo ’ncontro qualche errore lì troverà in
quella Vita da noi innavvertenremente commefso, lì feulì la piccolezza
della nollra luffìcienza ; riflettendo maflìme, che rari lon quegli, i
quali vadano in tutto efenti da que’ difetti,, che ( come dicea l’Abate
Anton Maria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di nofircc fievole
umanità. Finalmente fe vedremo y che quello primo parto del noftro
rozzo ingegno lìa gratamente ricevuto,. come ci giova iperare, dagli uomini
lavji ed eruditi,. noi allora con maggiore follecitudine
attenderemo a profeguire la già da parecchi anni incominciata
faticolìllima Opera delle Notizie Letterarie ed I (loriche degli Scrittori Vicentini
da altri pure, ma Tempre infelicemente ternata (a ) ; nella quale,.
le non andiamo errati r fperiarno di inoltrare,. che ( come lalciò
Icritto il nollro Ba~ flian Montecchio nel- fuo- Trattato; De
Inventario’ tLeredis, et c . Venetiis apud Fransi feum Zilettum a
car. 160. a tergo, num, joz.- J Viceda foecunda fuit JvLxter et jiltrix
poetarum philofopborum, or a forum,, thcologorum,. jurif confiti forum y
ant i queir iorum medicorum, atque in qualibet facultate eruditorum
; e che per ciò elsa noa è. a verun altra città inferiore KOI! Spcriarao
prròdi vedere a luce rra fonazioni intorno all a forte miiliopoeo tempo
un’Opera ddl’cruditif»..! re della Storia Ecclefiaftica r eSe~ Sig, Dr.
D. Franccfco Fortunato Vi- J colare della medefima noftra Patria,, gna,
la quale conterrà V /fiorite Let- ! promclTe col dottifsimo fuo Preli/er 4 r/
e ricca del pari di facoltà» e di Soggetti » che in ogni genere di
profeffione illuftri ella ha prodotti in ogni tempo . Ella è in parecchie
linee divifa » e tra effe con particolar luftro fplendc quella, che
conofce per fuo gloriofiflimo afeendente quel Giovangiorgio, di cui
fcriviamo la Vita ; il quale alla nobiltà del legnaggio A avendo
accoppiate le più eminenti prerogative# che render pollano un perfonaggio
e’n rarità di dottrine, e’n cavallerelche virtù fplendentiflimo,
non fedamente tra’ Letterati, ma in una gran parte del Mondo celcbratiflìma, ed
oltremodo chiara lafciò la fama del fuo nome. Nacque adunque
Giovangiorgìo Trissino' in Vicenza il fettimo, o, fecondo altri,
l’ottavo giorno di Luglio dell anno 1478. ( 1 ). Suo Padre fu
Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello di trecento fanti alToldati
col proprio danajo a fervigio della Repubblica di Venezia, appo cui acquiftò
(ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia di Guilielmo Bevilacqua, nobile
di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo fi favellerà) cioè) che P fio
delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per la morte di fuo SINO,
collocato in S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano di fette di Vicenza,
di cui a fuo luogo ' anni . Ma liccomc egli non in diremo
didimamente > ma da mohiflimi Scrittori appare edere egli nato
l'anno fuddetto, c fpczial mente da Monfignor Jacopo Filippo Tommafini
nel fuo tuteli luoghi di fue feri tture fida l’epoca del
fuonafeimemo in un medefimo anno, fccondochè lui bene tornava, e in
utilità de* fuoi dcmeftici affari ( come ci fe libro
intitolato ; Elotia rirornm certi il Sig. Abate Don BartoLittris et ftpitntia
illuftrium lommeo Zigiotti, che tutte vi' &c. Patavii ex 7 ypo{rapkia
Se- J de, e rivide le private Scritture bacioni Sardi 1644. in 8. a
dell’Archivio de’Sigg. Co. Co. pag.48. Quello tuttavia potrebbe [ Tri dì
ni di lui eredi); cosi ci è non crederli, quando fode vero! paruto
miglior cofa edere lo acciò, che il T r issino medefi- tenerci anzi alle
autorità, e air irto dica in una fua mirini* far- 1 unanime confentimento
dei pre fic" come fu fuo maefiro quel Demetrio Calcondila
Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’ Letterati (5); al quale appreflb
fua morte erger fece il Trissino un bel Depofìto, ed Epitafio Scolpito in
marmo bianco nel facrario della Chiefa della Paffione della Città Aefifa
di Milano, come dicono Paolo Beni, c'1 P. D. Francefco Rugeri Somafco, cd
altri, il qual Epitaffio non V’ha un’epiftola addetto
Giraldi in vedi Latini del Sacco di Roma, polla nel 2. tomo delle
fue Opere della edizione di 8 Mfilt.it per T nomar» Guarinmn, infol. che autorizza il noftro detto
cosi dicendo; tt Aec dttfet Bembus, q*o » nere pr e fi art
hot alter „ A«e q»cm Ntbilitar gene . tt rit, f ac
media triplex » Irejigreem fAcit, et viridi mihi notr s ab
avo „ T r 1 * s t N U s, In fibra dum tt Grecai difeimm
Urbe. Da una Lettera aliai lunga del Trusino, fcritta da A-iilano
li. all' txc cliente Medie» ( così Ha ferirlo ) M. Uini tritio da
Afalgradt, fi ha, che egli non pure era fcolare del Calcondila, ma
che anche abitava in fua cafa. (6) Tratt . dell' Origin.
della Famiglia Trijf. lib. 2. a car.33. Nella Declamazione latina
intitolata : Trutina JOelpb»htdrki Tabellariatui Traiani 1
Boc Digitized by Google del TRissino. 5 non pur
fi conferva manufcritto con altre fue compofizioni fin ora non date a luce,
appretto i Sigg. Co. Co. Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma fu
anche ftampato nella Biblioteca degli Scrittori Milanefi pubblicata dal
Sig. Filippo Argelati Bolognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto
autore da Criftiano-Federigo Boernero nel libro de' Dotti Uomini Greci
riftoratori della Greca letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto.
p. m. DEMETRIO CHALCONDYLyE ATHENIENSI IN STUDIIS L1TERARUM
GR^CARUM EMINENTISSIMO QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V.
ET OBIIT ANNO CHRISTI MDXL O. GASP. FILIUS PRAICEPTORI OPTIMO ET
SANCTISSIMO POSUIT. E di fiat cui ini ice.
Alon.ìchii fuisformis, CTfumptibmt cuffie Nicola hs tìmricHs, t6aa. in 4.
pag.xxi 1 1. e xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeoru gius ) a viro
do&ìllìmo De„ inetrio Cbalcondyla Athc-,» nienti, tanca ingenii foclici„
tace, Gricci fcrmonis latices, » haufic ut.... Attici cognomen, „
paucorununenfium cuiriculo, „ ex fui prseceptoris fententia, „
verius proineruit : Magiftro i) benemerenti gratiflìmu,, cui »,
McdioJani vita fun&o, mo » numentum marmoreum in „ tempio
Paffioni Servatoti, noftri facrum excitavit. (8) Philip pi Arie
lati Bono, nienfis Bibliotheca Scriptorum Alcdiolancnjìnm, five
Alla, et Elogia Virorum omnigena or
odi. tionc
illuflrium, qui in Metro, foli Infubrie, Oppidifquc circum.
jacentibut orti funi lice. Medio. Uni 174J. In JLdibus Palatini t;
Tom. ix. in fol. l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer i De E
di ciò non .contento Giovangiorgio volle j in fegno di gratitudine maggiore
allo fteflò Tuo grande maeftro, farne altresì lodevole menzione nel
predetto fuo Poema (io). Donde fi deduce, che molto lontana è
dal vero la opinione di Giovanni Imperiali, Vicentino, il quale fcrifse
eflere fiato il Tassino affatto ignaro di lettere fino all’età di
ventidue anni; e che dipoi andato a Roma, al folo udì* re colà le
aringhe de’ Letterati, tanto fi accen. defle in lui la brama di fapere,
che giugnefle in breve tempo a quella letteratura, che lo rendette
poi così celebre, e così illuftre: il che difsero anche Paolo Beni (i z),
ed un altro autore. Allo De dotti Hominibn i Gr tris Li- Il
Calcondilt, che farà, che t trarum Gracarum in Italia in-
ditene (taur attribuì Libtr. Làpfi* in Bi- Verrà ftco in Italia, t
pian tliopolie Job. Frid . Sledijtchii terawi 1750. in ii.gr.
Qui l’ Epitaffio è II feme elette della lingua a car. 185. Greta,
(10I Ita!. Libtr. da' Goti, lib. fit ) Gio. Imperiali Mufxum *4.
nella fine con quelli verli . Hiftortcum óiC.Venetiù apuajunVtlgett gli occhi a
luti pre- ; ttai . 1640. in 4. pag. 43. dori ingegni ; ( li )
Tratt. dell' Orig. della Quello è BeJJarion, quell' altro Famigl.
Trzff. lib. 2. a carr. 33. i’I Gaxjt ; Qiiclli fu un certo G» .
leazzo Trillino in una Genea QnelV altre t'I Gemijle col 1 logica
Narrazione della fu a faTrapeftnxj», miglia, da effo iraslatata di la £ 'l
C aleni’ dii e, f’I Lafcari, e[ tino involgare. Di quefto vol*1 Muffure, 1
garizzamento fi trovano parec * chic. Allo ftudio delle Greche
lettere uni il noftro O. quello delle feienze Matematiche} e
tifiche (14), e quello ancora dell’ Architettura, in
èhie copie, c una è appretto il perfona del noftro Giovanrnentovato Sig.
Co: Parmcnione | G1orgìo, c che da edo ci fu‘Triflino, della quale ci fiamo
rono pare con umanilTima gcnferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza trafmede
a. Vicenza. Forciceremla col nome di Gemalo- I le che detta Raccolta di
Scric* già delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era, che da
Paolo zj> Triffino . Quello autore di- Beni viene citata nel
predetto ce nel proemio di avere ac- {no Trattato Manufcricto della
trefeiura eda Narr Azione da (e Famigl. Trifs. a car. 26. Ann. tradotta a
inchieda di parco» 1404. con quelle parole: Gic: chi fuoi amici e parenti,
i qua- Giorgi o Tr issino» il li voleano i che c’ia defle an- Poeta, di
chì ragioneremo, nelP che in luce. Orazione che fece nel green Con
Un’altra copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera Abate
D. Bartolommeo Zigiotti Alone delle fue Decime nella Tilin tutto limile alla
predetta . Un Im di Tal d’ Agno, che fi legge Tello poi di quell’opera
era già fcritta a penna nelC Archivio appretto i p. P. Somafchi della del
Sig. Co. Bonifacio Triffino Salute in Venezia! e queftonoi j nel libro,
che ha per titolo Rimiamo, dite potefte ctTcrc I'IPrisca Triisjne^
Famioriginale. Con ctTo era unita) ti .€ Monumenta.* et c.., la citata
Aringa di G 1 o v a n- facendo egli menzione delle Giorgio, c ’1 Trattato
mano- Scritture defle anche a car. 29. fcritto della Famigl. Triff. di I
del primo libro dello Aedo fuo Paolo Beni, ed altre feri t tu re Trattato
della Famigl. Triff ., concernenti alla detta Famiglia: che è dampato, di
cui più intutto in un libroin foglio, fui nanzi faremo menzione. Dilli,
cui cartone al di fuori lì legge- j che era nella Libreria de’ P.P. delVano
quelle parole: P r i se a t la Salute in Venezia, perchè ogTrusinea Familismo-!
gidi certamente ivi o non vi fono hu menta. Le quali Scrittu- j ìe dette
fcritture, o difficilmente prima erano appredo il P.D. te fi podono ritrovare :
conciof* Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io col mezzo anche
del Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria Paltoni, che
come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di diZeno, fuo
fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia tutte nc eflraflc
quelle notizie, mai quivi potuto ritrovarla, che credette più fpettami
alla) (14) Che il Tr issino fof— - -, fc in cui molto fece di
profitto, come ne fa fede non pure un piccolo ir aitato in cotal
materia da lui comporto (15)» ma la fabbrica del fuo Palazzo nella
Villa di Cricoli a mezzo miglio lontana da Vicenza, che è tutto di fuo
difegno fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome loro. Non fi può
*,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro gìudicio, >»
tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la prontezza di „ docuit,
erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni, che voi harete », in Lyceo
Juvcnes nobiles Vi- da e fer citare, la finezza delle », cetinos maximè,
ac Vcnctos. veftre lettere, e la gentil manieri) Queita lettera, che fi ra,
propria di voi filo nel dilcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate
pure, Sig.Com Uomini illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in
quefia per Comin da T rino di Alonfer - eroica imprefa, e commutile at
e rato, 1561. in 8,, a car. 180. e altrui i tefiri della vera dolche fu
anche inferita nella terza trina, parte con la voce, e parie del V Idea
del Segretario di parte, ancora con la penna, che Bartolommeo Zucthi, In
Vene- non ho dubbio, che nell’ ameniz.ia prcjfo la compagnia minima tà di
quella vaga fan zia non vi léso, in 4. a car. 8 1. ; Quella let- fi defti
defiderio di qualche bel tera, dico, vogliamo qui rife- la poefìat al che
doveri fifpiCÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti, che ogni
trat Digitized by Google ti L A Vita
S’era già ammogliato il noitro Tassino a Giovanna Tiene, nobile
Vicentina, da cui avea avuti due figliuoli, l’uno chiamato Francefco, che
morì giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu poi Arciprete
della Chiefa Cattedrale di Vicenza (26)$ ed eflfendo effa morta, di tanto
egli fi ram tratto il luogo vi darà del dot tijfimo Trisjino;
in cui a giudicio mio chiiirijftmo efempio ha veduto Reta noftra
delle tre più pregiate lingue, cc» Di Venetia olii xx. dì
Maggio MDLV, Compari e fratello Paolo Mariano . Ciò» clic
della Villa (addetta di Cricoli lafciò fcritto il Sabellico nel Poemetto
intitolato Crater yiccntinus, porto nel tomo iv. delle fue Opere, a car.550.
( nominato dal P. Rugcri nella ìua Declamazione a car. xxv.) fu
molto prima che ella fofsc ridotta alla perfezione, c vaghezza, che oggi
fi vede; la qual cofa fu osservata eziandio dal Beni nel luogo
citato. Nel Palazzo iftcfso di Cricoli ebbe diletto di
foggiornare parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo di Rofsano Monti?, nor
Giovambatirta Cartagna » nobile Romano, Genovefc di origine, nel tempo,
che era Nunzio di Gregorio .irti, in Venezia; come dicono il P. Rugeri
Trutina&c. pag. xxv., c Paolo Beni Tratt. dell' Orig. della
Famigl. Trift. rtampato, a car. jj., e’lTom-{ I mafini
Elogia &c. pag. 49. e 50., ed altri; U qual Prelato fu poi
[addi li. del Dicembre dell’anno 1583. creato Cardinale, e poi a’
15. di Settembre 1590. fatto Papa col nome di Urbano vii. | Onde
in memoria di ciò fu la I cornice d’una porta d’una Ca| mera del mcdeìimo
Palagio vi tu incifaquertaifcrizionc; B E at issi m 1 Urbani VII.
Hospitium ; e fovrappoftovi il Bufto dello ftefso Pontefice.
(14) Nel Ri/fretto della Vita dei O. prcmcfso alle fue Opere dell^
rirtampa di Verona, quella fua prima moglie è chiamata erroneamente
Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando ella fu veramente (come conila
dagli Arbori) della Famiglia de k Cor Co: Tiene. Di quello Giulio
avremo occaGonc di fare pcculiar menzione, a cagione de’ fuoi lunghi
litigj contro al Padre. (26) Che due figliuoli avefsc il Tr
issino della detta fua moglie» lo dice ilTommafini negli Elogi pag.
30., cd altri; ma il Tr issino irtclfo nella citata lettera al Reve
Digitized by Google del TR-Issino. 13
rammaricò, che non volle più dimorare nella Patria 5 ma partitofcne
tornò a Roma, dove già era ftato effe ndo giovane; e quivi col
cuore ingombrato da quello fanello penliero fi diede a telfere la
celebre -Tragedia della Sofonisba, della quale innanzi parleremo
minutamente. Frattanto eflendo morto il Pontefice Giulio 11 .
gli fuccedette Tanno a dì xi. di
Marzo, o fecondo altri addì xv., il gran Cardinale Giovanni de’
Medici» che fi fece chiamare Leone X., il quale, ficcome quegli che era
principal protettore de’ Letterati, avendo conofciuto il Tris sino,
s'innamorò ardentemente del fuo raro ingegno, e poi lo amò fempre quanto
ciafcuno illuftrc Perfonaggio del fuo tempo, c l’onorò fommamente, impiegandolo
eziandio in varj uffizj affai riguardevoli. Godea egli pertanto in
quella Corte tutti gli agi, e gli onori tutti, che a un Perfonaggio
diletto al Pontefice fi convenivano; quando venutogli nella mente il già goduto
rìpofo nella fua Villa di Cricoli, deliberò di
Reverendo Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che non Gragnuola,
che fu fuo macftro, c fra le (lampare, fcritta da Aiudandogli ragguaglio delle
cofe ' ratto al detto Giulio addì iS. della fua cafa, d’altri non par-
M*rz,o 1542., fi ha, che elio la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio fu
primamente Cameriere quelle parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente
vii. > c clic ma moglie un figliuolo, il qua- da lui fu poi fatto
Arciprete del. le è fatto-, ed è Arciprete di la Cattcdtale della Cittì
noquefia Città. Da un’altra lette- j ftra di rimpatriarli : laonde prefo
commiato dal Pa» pa, tornò a Venezia, dove fuori di rutto il fuo
penfamento trovò materia, per la quale e’ dovette per lungo fpazio di tempo
anzi inquieta, che ripofata menar fua vita. Ciò fu una per
altro temeraria infolenza di alcune Comunità di certe Ville del
Territoria Vicentino, fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d Agno, che
prefa l’occafione delle turbolenze e rivoluzioni, che travagliavano in
que'tempi non pure la noftra Patria, ma tutta la Lombardia,
aveano fupplicata la Sereniffima
Signoria di Venezia fotto palliato colore di oneftà, che volefle (gravarle
dellobbligo, che aveano di dare le Decime delle loro ricolte a'CorC.o:
Triffmi della linea del noftro Giovangior.gi.o, i quali n erano i foli
Proprietarj e Padroni, come quelli, che dalla Signoria ilefsa ne erano (lati
invertiti a di 3. di Settembre. E
benché addì 6 . di Ottobre dell'anno 1512. le dette Comunità avefsero
avuta fopra ciò contraria fentenza in foro civile, non però di me* no
tentarono, fe favorevole giudicio ottener po tefsero io foro
ecclefiallico: e perchè ne furono molto Della Repubblica di
Venezia fi gloria d’ cfscrc volontaria prima fuddita la Città di Vicenza
-, la quale anche però è chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a
Repubblica, perche la Piuma fu, che fra tutte le Città fudditc le fi
donifse fpontancamcnte: il clic fu molto torto impediti (28), però efli
per forza dal fuddetto obbligo fi efentarono. Ma in quello mezzo per
giurto motivo quefte Decime applicate furono al Fifco Pubblico.
Tornato adunque Giovanciorcio in Patria, come dicemmo (il che fu o verfo
la fine dell’anno 1514., o nel principio deiranno) e trovati sì fatti
difordini, de’ quali dicea egli di non averne avuta, dimorante in Roma,
veruna relazione (so)-, pensò di ricorrere alla Signoria medefima,
perchè almeno gli fofle redimita del" le fuddette Decime la fua
propria porzione- Se poi egli efFettuaffe perfonalmente quello fuo
penfamento, o fe altri in fuo nome facefse la fupplica, noi noi fappiamo di
certo: comunque ciò fofse, fatto ila, che cfsendo Hata conofciuta
la fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Papa Leone, il quale la
iatercertìon fua in ciò frapOttennero i Co; Co;Trifflniaddi ia.di
Novembre Lettere Ducali proibitive del non doverli trattare in foro
ecdefiaBico quella lite. Tommafini negli Elegi pag. 51. dice, clic
furono confricati i fuoi Beni ita urgente belli fortuna : c poco appreffo
parlando della refiituzionel fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-!
ziani, accenna la cagione d’cf-| fa confifcazione, dicendo: fai,
cognita ifjìut innteentìa, Veneti Bona ab / enti jujìa
confanguintorum culpa ob defetHoncm erepra, benigni reflituerunt . Noi
veramente fappiamo qual folle cotal colpa} maonefii rifpetti, e necefsarj
giuBi motivi non ci permettono di riferirla. Tanto egli afferma
nella fua siringa-, di cui diremo più datatamente a fuo luogo.
Irappofe, gli fu Tanno fuddetto 1515. reflituita ogni cofa.
In quello tempo medefimo fu egli dallo fteffo Pontefice in aliai
importanti affari impiegato; e primieramente finché folfe palfato il
verno di quell’anno, (dopo cui gli ordinò medefimamente, che, prendendo
la volta di Dacia, fe n* andafsc Nuncio a quel Re), lo mandò fuo
Ambafciadore all’ Imperator Maffimiliano ; nel quale impiegò fi portò con
tale prudenza, che e da ognuno in molta llima tenuto fu, e all*
Imperatore caro sì, che ne riportò grandilfimi onori (35): anzi è fama, che
da lui conceduto gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa del
Fello d'oro inferir potefìc, e che altresì Tri ss ino • dal Che
Papa Leone frappont(Tc in quello fatto la Tua intercezione, non folamente
lo dice Monfignor TommaGni negli Elogi, pag. 51., ove regiftra un
frammento di una fua lettera al Conte di Cantati, con cui gli
raccomandava quefto affare; ma lo accenna Giovangior. Gto fieffo
nella già citata fua lettera al Revtr. Prete di Gragnuola con quefte parole:
Io fono flato per varj cafl: prima per qitcfle guerre fletti ot Panni
exule, e privato di tutte le tuie facult à, che per la benignità de la
felice ricsr dazione di P.P.... (il nome non è quivi cfprelfo, ma
fu Leone) mi fu reflituito ogni cofa, nel tempo, che if ero
Legato di Sua Beatitudine a Maxìmiliano Imperatore ; e nella fua Aringa
dice, che ciò fu de l' anno 15 1 5., che erano tre anni a ponto
dopo che li Communi aveano occupate le Decime. La Dacia, dove il Trissino
dovea andare, quella non è, che anticamente era unagrandiflìma e vada
Provincia dell’ Europa, c che oggidì c laTranfil vania; ma quella, che
oggi sì appella Dania, o Danimarca, la quale giace a fetrenttionc
dell, a Germania. (33) Tanto afferma egli (Icffo nella
Dedicatoria del fuo Poema dell’ Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,'
oro potefse denominarli .. Ma perchè alcuni dicono eSsergli flato conceduto
ciò anche da Carlo V.» pero ci riferbiamo a parlarne altrove a
minuto. Di tutto ciò, che Giovan Giorgio operava nel tempo di
detta legazione, avvisò il Pontefice -con una lettera inclufa in un’altra
diretta a Giovanni Rucellai, Tuo grande amico, e confidente, il quale poi
addi 8. di Novembre del Suddetto anno 15-15^ gli riSpoSe da Viterbo, che
avea congegnata al Papa la fila lettera; che elfo l'avea letta molto
'volentieri,5 e che non pur dai motti e gefti fatti nel leggerla
conofciuto avea effergli -molto piaciuta, ma più affai da quelle fue
prexile parole: egli hi fino a qui proceduto bene y et non poteva meglio exequire li mia volontà dì
quello Jl * Soggiungendo appreffo aver dal medelìmo commiffione di
Scrivergli, che feguitaffe P ure, come avea fatto, a conferir col Vefcovo
FeU trenje gli affari che maneggiava; Siccome il Papa fleffo gliel’
ordina-va col Brieve, che gli trasmetteva in un con quella Sua lettera di
rifpofta (34)* Dalla qual lettera appare ancora avere avuto il
Trissino ordine dal Pontefice di trattare la pace universale, e l’impreSa
contra degl* Infedeli; poiché il Rucellai gli Scrive così: Per C
li pie e Quella lettera del Ruceliai fu ftampata a car. xv. del la
citata Prefazione alle Opere del Trissino. U pace univerfale, e l*
impre fa c intra Infedeli vi ha•ucte a d «per are totis v/ribut, perché Sua
Santi ita t ba mi In 4 cuore, come fapete, e crediate certo, che
ne/funa altra caufa particolare non lo muove, fi non la unione della
Crifianitì 3 £ t/uefta fan ti firn a ImpreC*> benché fi, che vi ricordate la
COMMISSIONE fua y e con che affezione vi PARLÒ di t/ue/la cofa
(35). Ettèndo già intanto pattato il verno del predetto anno 1 5 1
5» volea Giovamgiorgio proferire il Tuo viaggio verfo la Dacia, giufta la
committionc dei Pontefice; ma ne -fu impedito dalflmperadore, il quale
volle, che invece al Papa ritornatte, come Tuo proprio
ambafeiatore, e lo pregafle in Tuo nome, che volette fermare una
nuova lega tra sè, el Re d’Inghilterra, e’1 Re di Spagna contro
a'Franzefi, i quali dittimulando la brama di vendicarli, voleano pattare
in Italia; giacche la confederazione altra volta conchiufa tra sè, e’1 Re
cT Aragona, s*cra fciolta per la morte di quello Re; mandandogli
anche per Giovan gidroio medefimo una ben lunga
Jette- Rucellai finifee detta j de’ Medici, cugino di Papa
Leolcttcra con quefte patolc: Credo ine; il quale poi anch’egli fu haremo
pre/t 0 il Cardinal de' Medi- '.(aito Pontefice col nome di Cleri, il quale è
tanto vo/fro, quanto | mente VII.; abbiamo però rifedir fi pojfa,pcr qualche
lettera,rér|rite le parole fuddette del Ruha /cripto qui, dimojìra, che molto
celiai, perchè avremo occaftonc v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di
dire gli onori da quello Papa rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr
issi no nel tempo Quello Cardinale era Giulio | del fuo
Pontificato. . lettera, pregandolo primamente, che Lui fcuCaffe, fé invece
d’andare in Dacia, come era Tua mente, alla Santità £ua ritornava* perchè
ne 1* avea egli coftretto; lignificandogli pofeia il pericolo imminente,
e la necefiìtà dell’affare G z RiceContenendo quella lettera dell’
Imperatore al Papa alcune curiofe particolarità, fpczialmente
intorno al noftro Tr issi n Oj abbiamo (limato bene di qui
traferivcrne buona parte; tralafciando di dire ciò, Che punto o
poco fa al noftro propofito. La qual Lettera ci fu comunicata dal
Sign. Apoftolo Zeno, di Tempre cara memoria. >,
Maximiliamus Di vi« na favente Clementi^ Roma. „ norum Imperator S. A.
&c >, Io. G e o r g 1 u s de T m s„ sino San&itatis
fu. e apud,» Nos Nuncius, Se Orator . », &c. ... In primis idem Ora-,,
tor cxhibitis Litcris noftris >, credentialibus Beat. Pònti fi-,» ci,
cum omni filiali reveren-,, tia. et obfcquiolàlutabitSan-,, Sitarmi fuam, Se
commcn», dabit Nos, Screnifs. Carolum Regem Hifpaniarum, Se „ alios
Filios noiiros ad Suam,, Beatitudinem. Deinde deda „ rabit banditati Sua:, quod „ licet
idem Orator ftatuiffet » iter fuum continuare juxta », mandata
Beat. Ponti ficis ad „ Screnifs. Regem Dacia:, fra„ trem, Se gcncrum
Noftrum,, cariftimum nihilominus Nos confidcrantes longè plus ex-,,
pedirc rebus Sux Sancfcitatis Se fuis, ac univerfx Reipub. Chriftiana* redirc
propter oc„ currenda* ad S. San&itatem,,, quàm profequi iter emptum, ob
fingularem obfervantiam, Se affeàum, quem No* habe„ mus ad San&ic.
Pontificis, „ Se )us, quod prxfumimus in omnibus miniftris, Se
fervitoribus S. Beatitudinis, ipfum Oratorem cùm venia noftra
defeendentem ab itinere „ retraximus, et ad S. E. redi» re computi mus,
quo clarius». „ Se apertius rerum omnium,, Sancitati Sux per
Creaturam „ fuam tàm Ei affe&am deda» „ ramus. Ideo Bcatitudo
Ponti„ ficis hxc sequo animo accipiat, „ Se fi in errore erracunv fit, quod
tamcnnonciedimus, id „ Nobis imputet. Caufaautcm hujufmodieft
„ quod cum jam Ser. Rex An„ glia: fratcr nofter cariffimus „ per Litcras,
Se Oratorem fuum: „ apud Nos degentem, Se Or a„ torem Noftrum apud Se
ref„ fidentem dcclaraverit Beat. „ Pontificis, cognito periculo,,, quod imminer, nedum Ita-,,
lise, fed univerfx. Reipublicf m> ChriRicevette volentieri il Papa
quefte (cute, e accolfe il noftro T rissino colla folita benignità» e (
omettendo di riferire ciò, che Tulle richiefte dell’ Imperatore egli riiòivefse,
come cofa poco Cbriftian ex magnitudine, Se infoientia
Gallorum forc », optimè contentimi, et idem „ maxime defiderare,
quod,» iidem Galli hunjilientur, Se n rebus fuis contcntcntur : qux
„ quidem fentcntia Sandlitatis », Su*,cùm Nobis fempernedum „ opti
ma, fed valdè neceflaria „ vifa eli, ex periculo, quod „ omnibus
imminet, Se prxfertim Beau Pontificis, et fu* „ Patri*, Se Familix, cùm
il-,, lud antiquum odium, quem Galli babucrunt ad Eum, quùm fecerint
ipfum extorrem, et per xviil. annos.cr», rare à Patria, cùm maxime, calamitates
compulcrint, nullatenus remiferint, td omni„. nò auxerint, licei imprxfen„
tiarurn negant, et compri„ mane, cxpedtantes tempus. vindidlx: Itaque
cogiraverit, SandlirasSua comprimere eos, Se ad illum terminum redigere,
quod non liceat plus eis „ inSandlitat.Suam,quàmfiui-| » timos
fuos, Se quam juftum fit . | >, Et cùm Nos, et Scr. Rex j n
Angli*, et Ci. mcm. olimj n Rex Arngonumid apertd pcr-l «
fpiceremus, fapienter cogita- j „ vimus de una confxderatio- ' »,
ne ad inumani defenfionem ! », ad inviccm, Se etiam offèa-J,3 fionem
cantra eofdem Gallos, etiam crat Lex imer Nos, Se », ipfos conclufa : fed
morte,3 ipfius clar. mera. Regis Ara„ gonum dilata. Se interrupta I,» eft
•, fed tamen cùm ex hoc „ pcticulum > ncc fublatum,3 ncc diminutura
immò nia„ ximcaudtum fit, vidccurNo„ bis omnino in eadem dclibc„ tatione
perfiftendum, Se rogamus Beat. Pontificis ut, confiderata nccdlitate
hujus> 3, rei, vclit fpfà quidem intra. 3, re foedus hoc,. Se
tranfmitte3, re mandatum fuum apud Scr. Regfm Angli* » ut ibidem ».
contradletur» Se conciudatuu » Efficiamus autem, quod in. „ locum
Clar. mcm. Regjs dc-,» fundìi fuccedar Se r. Carolus,, Rex Hifpaniarum, Se
qui „ quidem in ca te proficerc poterir, idem Orator admo„ ncbit
Nos. Agct autem di-,» dus Orator, tee. „ Dar. iu Civitare
noftr* „ Tridentina die odiava,. „ Regni noflri Romani
„ triccfimo ptimex.,, Locus 4 . Sigilli . Ad Mandatum Ccfa„ re*
Majcflatis prò. „ prium ]o. de B&», KL'ljjS- i n O. 12
poco alla preferite materia confacente) pensò indi a poco tempo di occuparlo in
altri impieghi • In fatti l’anno ftefso, che fu il lo inviò
fuo Nunzio alla Repubblica di Venezia per maneggiar forfè 1 affare
della Crociata contro a Selim Gran-Signor de Turchi, la quale gli
flava molto in fui cuore. Nel tempo di quella lua ambafeeria
trovò il Tr issino? che le Comunità, di cui s’è fatta menzione, pagata
aveano 3I Fifco Pubblico la rendita della fua porzione delle Decime
fopraddette; negando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Signore: laonde
egli ebbe novamente ricorfo alla Signoria di Venezia, la quale fubito con fue
lettere in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai Rettori di Vicenza
( che in quel tempo erano Ermolao Donato, Podeftà, e Girolamo Pefaro >
Capitano') che nel pofsefso dello Decime flefse lo riponefsero, come lo
era innanzi la pafsata guerra (39). Dalle quali lettere ebbe poi
co mincia Lo dice il Tri ss imo Hello nella Tua Aringa, d
meglio nella lettera al Prete di Cragmtol a con quelle parole : Sua
Beatitudine mi mandò .... Legato a Venezia, ovt fui molto ben
veduto da quella Jlluflr : f. Signoria . Al Papa quello
affare premeva si, che perciò maneg-j giòj c tlabilì una lega tra
mol- j | ti Principi Crifliani ; ma por per la morte di
Maffimiliano li difciolfc, e di sì alta e pia impresi fvant 1’ effetto
defidera* to. MTr issino in propofito di ciò nella fua
Aringa dice cosi : Per effer abfente la mia facoltà fu tolta nel
Fifcho ; et detti Comuni però, quantunque ritmtjfero tutte le farti
di que fic D. 2.J tro Bembo, fuo Segretario, la
quale opportuno crediamo di qui trafcrivere. JO: O.
y I C 1 H X I 11 o.,, Cationi am opera, et diligentia tua, atquc „
virtute certis in meis, et Reip. rebus uri quam„ plurimum volo, quarum rerum
caufa, te ut » alloquar, magnoperè oportet: mando tibi, ut quod tuo
comodo fiet, Leonardo Lauredano Principe Venetiarum falutato, ad me confe„
ftim revertare.,, Dat. Non. Januarii M. D. XVII. Anno „ quarto.
Roma. Andovvi egli prettamente, niente penfando, che perciò
iettar dovette in pendente l’efito della Tua lite. Non lappiamo precifamente a
che il Papa lo aveffe richiamato a Roma: del retto non molto egli
quivi dimorò, perciocché nello ftef-' io anno 1517. ritornò a Venezia-, e
fé fi vuol dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche a quella volta come
Nuncio Apoftolico per trattare di ftabilire una lega contra 1 Imperio de’
Turchi (41) . Vero è tuttavia', che il Papa in tale • ; occafio
(40) Quella lettera fi legge ' Simonìe Vinctntii fin fine ) Dùncl libro
intitolato : Ferri Bembi, niftus ab Harfioexrndebat Lugdu • EfiftoUrnm
Ltonis Decimi Ton- j ni. ! r I 11 . in 8 ed è tif. Max. nomine fcriptarum
Li- ! la 35. del lib. xlll. pag. bri xvi. Ledimi apud Hercdts \ Paolo
Beni nel T ratent. L a Vita occafione inviò per lofteflò Tr issino
una lettera al Doge Leonardo Loredano, dalla quale appare, che egli avea
a trattare col Doge a nome della -Santità Sua cofe di fomma importanza:
la qual lettera non vogliamo lafciare parimente di qui traferivere, ed è
la feguente. Leonardo lauredano Principi Venetiarum.,,
IP Roficifcenti Venetias Jo:Georgio TrissinoVì* 5, centino; quem quidem
propter bonarum artium „ do&rinam, et politiores literas,
excellentem>, que virtutem unicè diligo; mandavi, ut tibi „ falutem
nuntiaret mcis verbis; tecumque certis de rebus ageret, quae cùm mihi cordi
flint, „ tùm noftra utriufque intereft ea confieri : tibi „ vero
edam hone fiati, atquegloriae funt futura„ Dat. prid. Non. Septemb. Anno quarto
. jj Ronitif Non oftante che in tanti e si diverfi
negozj notò del titolo di Legato ApoA (4») Quella lettera fi
legge Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel citato libro delle
Lctno Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a nome di PapaLiotria, fa di
nuovo chiamato a &>-I nc dal Bembo, lib. XI II. ma nel principio
dell' anno IJ17. ; 16. pag. jiy. Ciovangiorgio occupato forte, avea
condotta* a fine la fbprammentovata Tua Tragedia della Sofonìsbti y cui (
dopo eflere flato lungamente in forfè y come dice egli fteflo nella Dedicatoria)
indirizzò al luddetto Pontefice con lettera, che in poi flampata colla
ftefla Tragedia l'anno 152^ in Roma. Leone gradì fommamente qucfto
componimento r e ficcomc egli era giudiciofiflìmo e. fapientiflìmo
letterato, ne fece tanta. Rima, che volle forte con reale magnificenza, e
con tutto lo sfoggio degno di se rapprefentata (43 K Non può
negarli, che il Tr issi no non abbia comporta quella Tragedia con tutto lo
sforzo dell’ingegno fuo; perchè quanto al Suggctto, fcelto avendo l’
avvenimento funefto di Sofonisba Regina di Cartagine r fi fece conokcrc
giudiciofo sì, che per teftimonianza di Nic D colò Di ciò
veramente altra !»» mationibus adjudicarus fuit.ficura pruova addurre non pof-
j Benché dalle infraferitre pacamo, fuor folamente la fama role, che Giovanni
Rucellai agc la tradizione, che fe ne hn; | giunfc in fine della
fopraccitata e in oltre l’ aurorità ( fe pur va- j fua lettera al Trmsino
fognale) dclTommafini, il quale ne. | ta addi 8. Novembre 1515. di gli
Elogi, pag. 50., cosi lafci b- yiterbo, fi potrebbe ancora conferino : » Summa
duksdine, I ghietturar quello fatto. Abbiate „ Se majeftatis pondero
calami - 1 a mente ( dice egli ) Sophonitb. 1 „ rofum Sophonisbi Regine
voflra, che forfè Phalijco fari evtntum drnmatc exprcfiit .'ratto fuo in
qutfla venuta del „ Quod cùtn Leone X- li cera.- j Papa a Fiorenza .,,
rum Moecenatc benignifiìmo I Difcorfi
intorno alla „ in Scenam magno apparata T rag* dì a . /n P’icenz.a,
appreffo „ eficc projuitum, primus illc Giorgio Greco. in 8 . c.
14» „ Italia: puòiicis lauree accia, [a tergo che (non oftante che ad
alcuni quefto componimento non -fia perfettamente piaciuto, come vedremo)
elfo fu ftimatiflìmo, e non fidamente vivente il fuo Autore, ma appreffo
fua morte, e d’ogni tempo r e i noftri Accademici Olimpici elfo feelfero
a rapprefentare l’anno 1562. nella Sala del Palazzo della Ragione in
occafione di provare il modello del famofo Teatro Olimpico di Andrea
Palladio ( 45 ); e ciò fecero con sì ricca magnificenza, che, fecondo che
dice Jacopo Marzari 1, vi ccncorft
quafi tutta la Nobil m Il Sig. Marchefe Maffci',» rem
Siphaci». filiam Afdrunei preambolo a quella Trage-j„ bali», captam Satina
adamadia riftampnea uri primo tomo „ vie, et nuptiis fa&is nxorerrt
del Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ; caftigatufque a Scr1 tremo a fuo
luogo, dice intorno J „ pione » venenum tranfmific* al Soggetto di dia,
che chi leg- „ quo quidem baufto illa degerà il trtnttjìmo libro di T . Li- [,,
ceflir . vio, ravviferà y come ninna fe\ ( 46 ) Di quella notizia ci
conn' è fatta mai, che fervafft fi* ( fediamo unicamente debitori al fide
all' iftoria, e che jì nel S ig. Abate D. Bartolommeo Zitnttoy come nelle farti
fi* infi- grotti, femprc intento a cercali fiejfe in effa : aggiugnendo,
che nuove cofc, onde ampliare la le fcgucnci foche farole dell ’ . fua
bell’ Opera delle Memorie antico Efitomatore fremevo ne, del detto
Teatro. ffiegano i' argomento a ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza
CC. u Macinili.» Sophooiibam, uxo- | In Piceni,* > affreffo
Giorgio Qn Nobiltà dell* Lombardia, e delU Marca Trevigiana .
E da Manofcritti dell’Accademia Olimpica fi viene anche in
chiaro, non (blamente effere fiata ella Tragedia magnificamente
rapprefentata» ma tale e tanta efsere fiata la ma. gnificema, che alcuni
Accademici penfarono non doverfi mai più fare tali fontuofe
rapprcfentazioni, temendo, che l’Accademia non foffe per riportarne mai più
lode e ftima si univerfale. Ma gli altri più giudiciofi Accademici a sì
fatto penfamento non aflfendrono; laonde meglio penfata quefta faccenda,
e gravemente ponderata, tutti in fine conchiufero, (e ciò fu l’anno
I57P-) che moderata in buona parte la fpefa, fi dovettero pure dall’Accademia
fare tali pubbliche i-apprefentanze . E’n fatti a’X. d'Agofto dello
fletto anno fu ordinato, doverfi fare feelta d* Lina Favola PajìoraU da
recitarli pubblicamente nel Carnovale dell'anno appretto 1580. (48):
benché per altro fotte differito il recitarla ad altro tempo.
Di Ma ri Greco, 1604. in 8. lib. 1. a ferratori delle Leggi,
Contradi Cai. 160. c 161. 'centi. A: adertici, et Secretar j Per
ripruova di ciò G deli' Ac adorni* delti Olimpici, vuol qui traferivere
intero in- \& delle Parti prefe nel Configli» tero l’atto deli’
Accademia, che di ejfa Academia. Qual inco fi legge \m un Litro manoferit-,
mincia . Anta pteJTo di me, Legnato » c no terno della fejfa Olimpiade
intitolato; Libro delle Crtatio- 'fino 7. Aprile 1581. L’Atto è r-tdc
Prencipi,Confalicri t Con- \ quello . j> Adi X. Agofto 1 5 79. In
Cou Ma ripigliando il lafciato filo, eflendo morto l'anno
152,1. addì 2. di Dicembre il lodato Pontefice Leone X.., il quale? come s'è
veduto, Sommamente amo il Tris si no, e ne fece moltiffima ftima ( anzi
fu detto per alcuni, come riferisce, Coniglio, dove inrervencro » il
Sign. Prencipe, Conlìglic•99 ri doi, cioè il Sign Hicroni>, mo Schio
follituto per il Sign.,, Marco Brogia, et ilSign. Fau>9 fio Macchiavelli, il
Teforic9, ro contraddente foflituco, il „ Cavalicr CriHoforo
Barbaran per nome del Co. Leonardo M Tiene, et il Sign. Antonio Ca„
mozza confervator delle Lcggì foftituito per il Sign. Antpnio Maria Angiolcllo,
con,, aie Secretano; in tutti al numero di 14.,, Par che, la rapprefentazio-,,
ne della Sofonisba Tragedia .*, dell’ Eccellerli ifT. Sign. Ciò:,9
Giorgio Trjssino già no-,, flro Patricio. „ pel Palazzo publico per la
rip„ feita Tua non purcon fodisfa„ tione, ma con meraviglia di 9, chi ne
furono fpettatori, hab.9, bia caufato fin fiora in quell’ Accademia un
quali continuo 9, filentio a fpcitacoli publici, „ come che
potendoli diflficilmente fperare più da lei im„ prete tanto illuBri,fofire
meglio 9, per non declinare non rcetterfi » più a veruna anione
tale peri’ avvenire . Ma certamente cf 99 fendo l’Acadcmia noflra
fon9, data fopra i continui cfercizf,9 virtuofi, &c dalFclperienza di,9
molti anni, elfendo già co-,, nofeiuta tale, che può fpcra9, re fempre d’
operare fe non,9 cqfc uguali 9 almeno degne di 99 fe mede lima, et della
Patria j 99 non deve da quello .troppo,9 fevero rifpctto lafciarfi impe99
dir quel sì lodevol corto, a 99 cui dal genio > dallo (limolo 9,
virtuofo, dal debito della pro-,t feflìone, dal defiderio, et dall’ «
afpettatione altrui lì fenteee„ citata. Laonde andari Parte* „ che quello
proffitnocarnafciale venturo lia recitata publi„ camente a Cafa dell’ Acadc9,
mia con quella minor fpefa,,9 clic fia poflìbilc, atccfa Isde9, gnità, una
Favola Ptjlor ale, „ come cofa nuova et non più „ fatta fin’ ora da
quell’ Acad. „ quelii cioè 9 che farà eletta „ dal Sign. Prencipe
nolìro, et da „ 4. Acadcmici, che per quello „ CanGglio faranno a
tal cari-,9 co deputati, i quali habbiano „ ancoinfieme cura d’informar»
lì da perfone perite della fpefa, 9, che vi potrà andare, acciochè,, fi
porta f.\r la provi (ione dei den». ferifce Ciò vanni Imperiali, che
efso volea conferirgli il -Cardinalato-» ma che da lui fu ricufato per
poter nuovamente prender moglie ) a cui fuccedette Adriano VI. ; il
noftro G10•vangiorgjo fece da Roma a Vicenza ritorno • Quivi attendendo à’fuoi
ftudj, e fpecialmentc alla Poefia, compofe tra le altre cofe una Canzone
in loda d’ Ifabella Marchefa di Mantova, a cui mandolla, ed ella poi ne
lo -a» denaro io tempo, et dar prin” cjpio ad imprcfa cosi
hono-,, rata, rifervata poi la elettio•'»» nc di Accademici, coni’
», è detto di /òpra, la qual paf» sò di tutti i voti. »> l'or
ballottati i fottoferitti. »> 11 Sign. Paulo-Cihiapino prò 1 1. 3. »9 -II Sign.
Criftofano Darbaran .Cavai ier .... prò p. 4. »» 11 Co.
Leonardo Thiene . prò 8. 5. » Il Sign. Hicronimo Schio
prò io. 3. -9, Il Sign. Antonio Maria 9»
Angiolello . . prò ri. 1. »» 11 Sign. Alfonfo Ragona * • • .....
j>ro 16. Rimate il Sign. Paulo Chi*», pino, il Cavalier Barbarano, „
il Sign. Hieronimo Schio, et „ il Sign.
Antonio Maria An-,, giolcUo » come fuperiori di,, voti. Mufeum
Hifloricum 8cc. pag. 43.,, Munito libi ad Leo„ nis X. gratiamaditu,
infplcn„ didiflìmo Mularum et virtù»,, tum atrio fic vixit, ut Non„ nulli
delatum fibi purpurar ho„ norem prolis gratia rejc&utn,, ab ipfo
prodiderint. Da alcune Lettere man uteri t« te del Tris si no
appare veramente, avergli voluto il Papa varie ecclefiadiche Dignità
conferire, che ivi non fi fpecificano, e che tutte da lui furono
ricuf.ite. (jo ) Quella Principefla fu figliuola d’ Eccole I. Duca
di Ferrara, cd è quella ideila, cui tanto efalta il nodro Autore
nc’ Ritratti - lo ringraziò con Tua lettera in data di Mantova del
dì ics.; e gli fcriflc pur da
Mantova un* altra Lettera (52), pregandolo, che volefle a fuo agio colà
andare dov ella era, perchè diGderava fornai amente di vederlo non
tanto per godere e gufi gre U amenità dell’ ingegni, e dottrina fu*
y ma perchè volea, che nelle fcienze e nelle lettere ammaetìxafle Ercole
fuo figliuolo» da che fegno dava di buona docilità, e di buon ingegno, e
d’eflere allo Audio letterario mirabilmente inclinato i pregandolo in
fine, che pel mcfso a polla mandatogli volefse farla avviata del tempo
della fua andata, acciocché lo poteJGfe afpettare; noi per altro non
abbiamo ficura contezza, s’egii v’andafse. Sappiamo bensì» che l’anno apprefso
1523. addì 20. di Maggio efsendo flato eletto a Doge di Venezia Andrea
Grilli, di glori ofiflìma memoria (53)» ( 5 1 ) Quella Lettera c
Rampata San Francefco della Vigna di nella citata Prefazione alle Opere,
Venezia entro un fuperbo depodcl noftro Autore a car.xvm. fito, fopra cui fu
fcolpitoquc( ji) Anche quella Lettera Ito .Epitafio: • Ha nella
fuddetta Prefazione, a Andre* dritto, Duci Opti car. in. | mo, et Reipub.
Amantijfimo, pa Non folanicnve nelle (ij terra, mari^hepart*
A*&*ftorie di Venezia, ma in altre ri, ac Veneti terejìris imperli
ancora fi poflono leggere le ge- Vindici, et Conferva! ori, Hafte di sì invitto
e gloriofo Pria- rcdtt pientiffmi . Vixit A», cipe, che mori dcì 1538. in
eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici xt, di anni 83., e fu feppcllito in; Lecejpt
V Cai. 3 r ed efscndo cortume di
que* tempi, che le Città fuddite mandafsero Oratori a congratularli
col Principe eletto, fu dalla noftra Patria a tale uffizio feelto il T
rissino, unitamente con due altri ragguardevoli Cittadini (54^ il
quale avendo comporta perciò una elegante Orazione jn lingua
Italiana, in pien Collegio allo ftefso Doge la recitò \ della quale
orazione, che fi leg* ge tra quelte raccolte dal Sanfovino (55}, e
che fu anche più volte rift. rapata, favelleremo afuo luogo.
Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di Novembre efscndo flato afsunto al
Pontificato il Cardinale Giulio de’ Medici, col nome di Clemente VII., il
quale (come già fi è detto) amava grandemente il noftro Trissinov quertri
una lettera gli fcrifse di congratulazione (e forfè allora medefimo
gl'inviò la Canzone (56), che fece in fua lode ) facendogliela confegnare
in proprie mani pel Cardinale Giovanni Salviati, fuo
( J 4 ) Quefti furono Aurelio dai!’ Acqua, e Piero Valmarana
amendue gentiluomini Vienici- j ni. Oraziani di
Divtrfi Huotnini Jlluftri raccolte da Franctfca Sanfovino, in
Penezia per AltobeUa S alleato . . in 4. Pait. 1. a car. 1 jy. !
Qucfta C tenzone ( che fu j {Unipara da prima in Penezja j
per T olomeo Janicolo da Bref~ fa, in 4., fenz’anno; c poi
itRampata più volte come in fi. ne fi dirà) comincia cosi.
SIGNOR, che fofii eternamente elette Nel Conjìglio Divi n
per il governa De la fua fianca e travasata nave ; Or
thè novellamente ec. fuo amici filmo, a cui mandolla con altra Tua
letrcra. Aggradì Clemente la officiofità di Giova n giorni o sì fattamente,
che, dopo aver letta con molta giocondità d’animo la pillola di lui
ordinò- allo ftefso Cardinale, che gli fpedifsc tolto un fuo Breve, col
quale lo chiamava a Roma ( 57) Tenendo egli lo invito del Papa r fi
partì lubito, di confenfo eziandio della Signoria. Affinchè meglio
appa-j ja la verità' di quante s’è ora detto, vogliamo qui traferi
vere la Lettera del fuddetto Cardinale ferina al Trksino, entro cui
tirandogli il Brtve del. Pontefice } cd è quella. „ Magnifice
Aniice, et tan* quam Frater Garifllme. „ Io era ctrtiffimo
della „ molta allegrezza di V. S. pei „ la felice affunpuone
della „ Santità di Nollro Signore,,, come fe preferite mi fulTì
„ che mi Benderei molto più,. „ fe- non fuffi certillìmo,
che „ la S.V. per fc medefima lo „ cognofce. Del bene, et fc-,» licita
mia non le voglio di-,, re altro, fenonchè quanto* »> più farà, di
tanto più qucl» la potrà a-ogni fuo benepla„ cito difporre; et quanto nc,,
difporrà più, farò io tanto 1 „ più contento . La Lettera» fua detti in
mano propria » di fua Santità, là quale con >, fornirlo piacere
la lede : &c „ flato, come quello, che al- j » più mi diflcndOrci
intorno,, cuno non cognofccvo, clic'»» aqucllo» che amortvolmen»,, più
meritamente fe ne do-j», tc mi rifpofe, fe Sua Beati* „ vedi
rallegrare; perchè la-'» tudine con uno Breve ( il „ feiamo Bare lo
univerfal be* [,» quale con quella fari) non„ ne, che tutta la Criftianità |,,
avelie ordinato di rifponde„ ne afpetta, &: quali mani fe- », te- alla S.V.,
la quale cec-,, (lamento ne vede » il che », tifico, che fetnpre che ver-tutti
e buoni et virtuofi, 1 », rà, farà vcdutadaSua-Bea„ come è V. S. debbono fom- „
titudine come dolciilimo;,, mamente deftderarc; chi più j»- amico; et da me
come dol-,, di G-i anc! orcio è da,, ci (Timo fratello; &• a quella»
„ fua Beatitudine amato ? ! « mi offero. Se raccomando.. „ Chi più di lui
fc ne può, Roma XI. Decembris Mdxxiii. „ ogni cofa promettere ì In j,,
lo. Cardin.dc Salviate,, Qucgnoria di Venezia (58 ); e giunto a
Roma fu da Clemente accolto con fegni di ftraordinario affetto, e
apprefso anche fu deftinato a ragguardevoli impieghi, come diremo più
fotto. Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel Luglio
dell’anno 1524. colle ftampe di Roma la fua Tragedia, pensò di dar fuora
nuove cofe a -utilità della noftra favella; e però fcarfo parendogli
l’Italiano alfabeto di caratteri atti a fignifìcare tutti i varj fuoni delle
voci, inventonne di nuovi, o a dir di più vero, ne tolfe alcuni
dall’alfabeto Greco, e all’ Italiano proccurò di aggiungerli. Ma non
tenendofi pago di aver ciò nelle propie fcritture ufato, diftefe nel
Dicem.bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo penfamento in una lettera al
predetto Pontefice intitolata ^59). Circa il principio del Secolo
XVI. vi fu veramente nell’ Accademia di Siena chi avvisò di aggiugnere
all’alfabeto Tofcano alcuni Elemcn* E ti per Quella
lettera fu flampata a \fubito mi fcrifft uno Brieve, ricar. xv ir. deila
Prefazione alle j cercandomi che io dovtfft andar Opere del Tr issi no
più voi- a Berna-, et io con il confenfo, te citata . I (he
d'Jft fuori fìmil pcnfìcro. Gli venne non per tanto fallita in buona
parte quella fua bella intenzione (come chiamolla l'Abate Anton Maria
Salvini di chiariflìma ricordanza): imperocché oltre allo avere egli
fteflo a rovefeio, e non nella dovuta maniera, ufate da prima le nuove lettere,
e così per lo modo del linguaggio Lombardo indicando falfa pronunzia, ebbe più
lodatori, che feguaci, come accenna Giovanni Imperiali y del quale errore avvedutotene poi
egli Hello n € Dubbj Grama ricali, ftampati appref* fo a difefa del fuo
ritrovamento? fe ne amrnen* dò U3), Da
Corr.ment. all' ]ftoria\ della Polgar Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ; a
car. 408. della ediz. di Venezia . j Fra l’ altre Lettere dal Trissino tolte
dal Greco alfabeto, ! due fono più offervabili, cioè Fi, ci’
a, Pro/e Tofane, Par. 1, Lcz.xxxi. a car.i9i. dcH’cdizione
di Firenze, apprejfo O'infeppe Manni, 1735. in 4. (Mufaum Hi/ioric.
pag. 4Z.„ Rem paritcr molitus per„ arduam, charaftercs Graecos „
noflris immifeendi litetis ad i » varios fonos aptius fignifi-j
candos, ut repente multosad » fui vel laudem, vel iurgi*
„ traxit Reclamante Do „ ètorum ccetu, quod in tan»> tis
dodtrinarum momcntis,,, monftruofa elemcntorum no„ vitate animos
haudquaquam „ turbandos putaverint. (63) Protelìa egli in
quefti Dubbi d’avere aggiunte le dette Lettere al noftro alfabeto a
fine folamcntc di giovare agli ftudiofi della noftra lingua; c
foggiugne, che non tralafcerà^ fuo potere coti bello, e coti nobile
injlituto : ringraziando i fuoi riprenfori, come quelli, che per lo
avergli fcritto contro d’O.. Da alcuni Scrittori fu il noftro Autore
per tal sua invenzione rigidamente appuntato; e prima da Lodovico
Martelli? Fiorentino, il quale manda fuori una Rìspofta all’Epì fi ola d’O.
delle Lettere nuovamente aggiunte alla Lìngua volga te Fiorentina (64); nella
quale s' ingegnò di inoltrare, che vana era Hata, ed inutile la di lui
invenzione, allegando fpezialmente, che non doveaA punto alterare la
maniera dell'antico fcrivere Tofcano. Indi comparve Agnolo Firenzuola, Monaco
Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre cofe, che poco lodevole tra,
e poco ncieffario, e infofficiente lo aggingnìmtnto delle nuove Lettere al
fcmpliciffimo alfabeto Tofcano, perette con effe gli fi toglieva la fua naturai
femplicità. In quella fua opera il Firenzuola trapafsò per
verità i limiti di quella moddtia, con cui fi vantò nel principio di
voler riprendere la invenzione del Trissino, perchè fì moftrò nel fuo
dire alquanto appallìonato, non curandofi di apparir tale ancora nel
frontifpizio, taccian E i . dolo tro furon cagione» che fi
fa- 1 nell’ Eloquenza Italiana ec..... ce (Te paltfe la natura, t la uti-
\ In Venezia appreffo Criftofor » lità di effe lettere. Zane . c.ir. 27J.
Nell' Non dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in
4. no d’aggiugner le nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucltere alla
lingua volgare Fioren- lo dello ftamparore, nè l’anno; tina, come avvisò
il Martelli; 1 nel fine però fi legge pompata in ma alla lingua Italiana
r il che Fierenzji . fu notato anche dal Montanini ! (Quell’ Opera c così
in filo Ddolo in fine d’ufurpatore degli altrui ritrovamenti, con
dire, che prima d’efia e l’Accademia Sanefe aveva avuti limili penfieri,
e alcuni giovani Fiorentini pi» per e fcr citare i loro ingegni, che per
metterla in Optra della medefima imprefa parlato aveano ; i ragionamenti de’
quali efsendo fiati naf cefi amente uditi dal T rissino, da eflo poi come
ftto proprio trovato fenza far di loro alcuna menzione, furono meli! in luce (
) . Finalmente Claudio Tolomei, fiotto nome di Adriano Tranci,
ftampò egli ancora un libro l’opra quella materia, e lo intitolò U
volito, Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori colla
fuddetta opera de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche col Dialogo intitolato il
c aftcllano, e molto bene fi difefe -, ma non fu fiolo in ciò, che anche
Vincenzio titolata : Difcacciamento delle nuove Lettere
inutilmente aggiunte nella Lingua Tofana ; fenza efprcflìone di luogo, c
di ftampatorc. Trovali anche tra le Prtfe del Firenzuola ifteflo
a car. 306. della edizione di Fiorenza, apprejfo Lorenzo Torrentino,
mdlii. in 8. Fu poi altre volte riftampata, ed eziandio nel Tom. 2. delle
Opere dei Tr issino della edizione di Verona. Non può negarfi »
che l’Accademia di Siena non avvilitile ella prima, che O. pubblicane la
fua Lettera, di aggiugncrc ( come già dicemmo ) nuovi elementi al
noftro alfabeto; ma che egli fi valeflc interamente di quello di
lei penfiero, come dille il Firenzuola, non è da credere, che troppa
ingiuria fi farebbe al fuo gran nome. E ’n fatti il Varchi nell’
Ercolano dell’ ultima edizione di Padova, apprejfo il Cornino, 1744. in 8. a
car. 468., dice avere il Firenzuola ferino contra il T
rissino piuttofto in burla, e per giuoco, che gravemente, e da
dover 0. La (lampa di quell’ Opera fu fatta in Roma, per
Lodovico Digitized by Google DEI Trissino. 37
cenzio Oreadino da Perugia flampar volle a di fefa del di lui
ritrovamento un dotto latino opufculo, il quale eflendo flato per lungo
tempo fmarrito, fu ritrovato per diligenza del Sig. Marchefe Maffei, che
Io fece ritlampare nel tomo fecondo delle Opere del medefimo noftro
Autore per lui raccolte. Che dovico Vicentino i j 30.
in 4. Ve- vifato dall' Accademia Sane/e * di fopra di ciò il Foncanini
nel- per quel che fcrive il Firenzuola Eloquenza Italiana, a car. la nel
Trattateli del Difcac- . ciamento delle Lettere, impref 11
Crefcimbeni nc’ Commenta- fo tra le fue Profe. Tutto ciò rj al! Jffor.
della Volg.Poef. Tom. abbiamo noi voluto riferire, r. lib. vi. a car.
408. dice, che acciocché (ì vegga quanto popcrché andò r Accademia indù- co a
ragione fia (lato il Trisgiando di pubblicare lì fatto av- sino dal Firenzuola
tacciato di vifo, Giovanciorgio Trissiwo ufurpatore. La qual cofa
più fu il primo che de ff e fuori un fi- evidentemente appare in
riflccmil penfiero : indi regiftra FAI- tendo, che O. avea fabeto
Italiano coi caratteri dal già medi in opera i Tuoi caratTr issino aggiunti,
che è ceri anche prima di dar fuori quefto; abcdtfgche gh j quello fuo
penfamento ; cioè kiljmnopqrustfu nella Sofonitba, fcritta, e far.
z v q x 7 th ph h: e poi dice I ta leggere, come dicemmo, fotcosi: In quel
medefimo torno, 0 to il Pontificato di Leone X.ladpoco dopo, M. Claudio T
olotr.ei dove folamente nel principio del non gli parendo, tra l’ altre
co - Secolo XVI., come dice ilcitafe, buono il penfier del Tris- to Crefcimbeni,
1 ’ Accademia sino, ritrovò un'altra manie- diSiena avvisò lo
aggiugnimcnra, togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi caratteri. rat
ieri, che avevano a duppli- ( 68 ) Il fuddetto Opufcolo carfi, dagli fi
effi caratteri del no- dell’ Oreadino in detta riftampa fico alfabeto,
Cime appare dall' è cosi intitolato : Vincentii Orcaalfabeto, che fiegue : a (T
c d dini Perufini Oprfeulum, in ecf^gh lilmneopqr 1 quo agit utrum
adjcìtio no va rum sftv-t/uz z . E quefio | litter aratri Italica Lingua
all(foggiugne il Crefcimbeni) noi quam utilitatem peperit : Ad crediamo,
che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum de Alphamt Vi- Che
alquanti dementi di greco alfabeto prendere egli per aggiungerli al nostro italiano,
non era certamente per mio avvifo quella fconvcnelezza, che gli antidetti
Scrittori credetterfi> condolila cola (come già notò il foprammentovato
Abate Salvini che l’Italiano alfabeto fia ftato altresì di parecchi altri
caratteri Greci formato. Tuttavia non riufcì affatto inutile il di lui
penfamentoi perchè due delle nuove Lettere da lui propofte, cioè H, e Kv
confonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbracciate dagli Scrittori, anche
Fiorentini, come necelfarie a torre ogni equivoco delle voci: onde a ragione
diflc il predetto Signor Marchefe Maffei (70j che * Luì » han» obligo’ le
Jlampe dì tutta C Italia, che le u fatto perpetuamente . Laonde non bene
fi appofe il celebre Signor Domenico Maria Manni, Letterato per altro
eruditismo, e dìgniflì- Virum eruditijpmum, et Cenci- I la
noftra lingua habbia bi fogno/ vcm Optimum . Girolamo Ru- 1 delle Lettere
aggiunte dal DRtsccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, et dal Tolomei
cc. doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e zionc di
Penez.ia > aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere lopracEredi di rinccnz.io
Talgrìfio, ' cerniate.. . a car. il. facendo! (7°) Profe Tofcane, In
Ftun’ ofT.rvazionc gramaxicale fo - rence, nella Stamperia diS.f. pra la
voce corrò ( accorciato A. -per I Guiduecit e Franchi » dal verbo
coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P ar * P 1 * 012 Acz. liofto comincia la danza 5 8. del ; a
car. 523. primo canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle Opequtjtt
tai voti Ji cottofee quanto, re del noftro Autore a car.xxx. dignifTimo
Accademico Fiorentino > in dicendo nelle, fue Lezioni di Lingua T
ofeana j che 1 ’ / confonante i cioè quello, che j lungo fi appella,
conte trovato d’O., e da Daniello Bar t olì po/lo in ufo, non è
ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio Io usò nelle medefime
Tue Lezioni (73)* Monfignor Fontaninij da cui fu UTrlssino chiamato In
Firenze nella] sintonie Muratori, legnata dì Stamperia di Pietro
Gaetano, Venezia li 12. Marzo 1701; fìViviani. in8. a car. 43. 1 gnificandogli
la allora frefea e- Bene è vero, che l’ufo I dizione delle Poche degli
antidi quello j lungo, o fia con - 1 detti d*ue poeti Vicentini, diffonance,
ritrovato dal T r i s- 1 fc, avere quelli in dette loro sino, fcfu
abbracciato univcr. poefic pretefo di ravvivare l’ orfalmente nel plurale de’
nomi, I 1 agrafia fcrupolofa del vecchio che nel numero del meno fini- Lr
Trijftno, ftnza però quelli f cono in io di due fillabe, in epfilon, e
quegli omega, co' quacui Vi non lìa gravato dall’ ac- li voleva imbrogliare
iinejlro alenato, come vizio t vario, eli- fabeto Italiano. Colle quali pamili,
i quali nel maggior nu- ! cole troppo veramente difprezmcro più rettamente il
ferivo- jzòe quelli poeti, e la buona vono col detto j lungo in ifcam-llontà
del Trillino, la quale, cobio de’ due ir, come a dir vime è delio, non riufeì
affatto zj, varj ; fu rifiutato l’ ufario do- I inutile, vcggendoli
abbracciapo l’L in luogo del G c dell* E | te dall' Accademia medefim*
nella voce EGLI, c in luogo del | della Grufca le due fopraddettc G
nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere J, e F* confonanti, come LJI,
come fece fempre il Trissi- ' fi può vedere nel fuo Focabolano. La qual maniera
di fcrivere fu I rio alla lettera I. §. xi.j e alla poifeguitata, ma con
poca lode, j Lettera F. La lettera poi delZeda Andrea Marana, e da Antonio no è
Hata ultimamente pubbliBergamini, amendue di Vicen- cara in un coU’ altre lue
erudiza, uomini per altro di lette- 1 udirne lettere in tre Volumi, ed
ratura Italiana, Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo, che ha ca molto
intendenti. Il Sign. I quello titolo : Lettere di jìpoApoflolo Zeno, di Tempre
glo- fole Zeno, Cittadino Fcneziariofa, e a me cara memoria in ! no, Iftorico e
Poeta Cefareo. ec. una fua lettera al Sign. Lodovico I Folumt primo in
Fenezia tO (74) Novello Cadmo, C Cadmo Italiano, fu di
oppinione, edere ftata altresì invenzione del medefimo noftro Letterato
1* ufare la z j n cambio del t dopo vocale, e innanzi all’ /, cui fegue
altra vocale, come nelle voci vìzio, malizia, e fomiglianti.
Ma, per pigliare il filo principale del noftro racconto, l'anno
1525 . ( nel quale il Re Francesco I. di Francia eflendo ritornato in Italia,
donde l’anno avanti era ftato cacciato, e avendo già prefo Milano,
attediava la Città di Pavia, la quale fu appreflò liberata dall’ efercito
di Carlo V- > che mife in Sconfitta 1* ofte Franzefe, e
fece affrtff» Pietro Falvafenfe . i Nella Eloquenza Italiana
a car. 36. e 339. In proposto delle Lettere aggiunte « Valerio Ccntannio.
Medico Vicentino, di cui parla lodevolmente il Marzari nella tua
Jftoria di licenza, a car. 183. fcriffe al Trissino il feguente
curiofo Sonetto, che ci fu comunicato dal più volte mentovato Sign.
sportolo Zeno . ì’O grande A» tji Urici nominato. A
dijfertnlia Ai quel, cb‘ i tu ir. a
rii VE difl' ignudo i 1 di pie» valori, A
luta ai Alph' al Giet" accorti pugnato i Ch* nel fcnvir
Tofcan ha ritrova • to Voflr’ alt’ ingegno i facindo
maggiori Numcr di Lettre : eh’ in vano tino’i Si anno a chi
nin ha 'l cervi ! fia catoi 1 Verrei faptr t Si noi Urica
Scrittura Leggenda > dtbben ritener* il futi-, no,
Che nel Uggir Tofcan Kiara fi finti. Ri ff tendete Signore
che la cenfura. Et gran judicio vofira, a mt tal fono,
Qual Sol ad g orno : a nette fioco ardiate. Andar mi vi in a
minte D' addimandar 1 fi l' Ita Gri't » timi La
voce t eh' a V E Taf co fi ceti « m». Et forfè dicttn
bini Quelli, che voljan pir ditti d' Hv miro L'
Ita fuonar s cimi il Taf cu E primiera . Bramo faper il vero.
Adunque fa- fi l' O Tofcan antico Terrà ’l fuun d' il Grt co
0 :cht minor dico. Il Servo di Veflra Magn. Valido
Cintannio fece prigione il Re fte{fo(7 Papa Clemente
impiegò in varj negozj il notlro Giova n gì orcio. e intra gli altri lo
mandò una volta Oratore alla Repubblica di Venezia C 77)» e ' [ferma per la
concordia degli Ma quel [degnato, horntil-vente fiero * Scrittori,
c per lo Elogio, che Con Pungine, ri rofiroil batti, elo '^tfU
Chiefa di San Lorendìmtna Si fai lamenti, eh' ci fuggendo a
fina Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò . Tal che aebaffata
in lui fi» con gran fretta, Et forfè affatto fjenra
l'arroganza, Che tutta Europa già foft in itlanza: ! dal Papa folte
O. Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza, mandato Nunzio prima alla RcChe
il Citi farà dei torti afpra ve »• pubblica di Ve.'CZÌa, e poi all’ detta
| Imperatore: ecco le fue parole: ACriflo fatti,§ a tuttala fua
fetta .1 >} Clemcr.tis Septimi acerrimi Cosi afferma il Tris-',, teftimatoris nutu ex
Romana sino medefimo nella fua Ari».',, Curia ad Carolum Carfircnt
ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl elc&us : inde ad eletto
al Pontificato,.,. S. Santità,, SapicntifTìmum Vcnetorum fubito mi
fcriffe uno P, rieve, ri- „ Scnatum . « In ciò fu egli cercandomi, ch'io
dove/fi andar (e guicato dal Signor Marchefe a Roma, et io col confenfo,
CT I Maffciìad Ri fretto deila P'ita del I zo di
Vicenza allato all’altare idi detto Santo fi legge, e die I di
fotto tra feri veremo . Gioivano! Imperiali nel Afufeo Jflo \rico a car. 44.
lafciò fcritto, che gno dì parttcolar menzione fi è un altro pubblico
contralfegno deiramore, che gli portava. Ciò fu l’anno 1530. in occafìonc
che dovea coronare folennemcnte in Bologna l’Imperatore fuddetto (79)1
imperciocché, fecondo che affermano alcuni Scrittori (80), e appare chiaro
da una d’O., e da altri : ma ficcome quelli
Scrittori non ci daono il tempo di corali Legazioni, cosi noi non ci
facemmo fcrupolo in notarne pri ma una che l’altra; e tanto più,
quanto che può edere veramente, clic andafle egli Nunzio a Sua
MaclU Cefarea molto tempo dopo di edere dato Oratore a Venezia,
cioè dopo il Sacco di Roma fatto dagl’ Imperiali nel IJZ7., in cui
effendo dato ditenuto Io Bello Pontefice, e poi liberato per commillìonc
dell’ Imperatore, edo lo mandò a ringraziare per un fuo
Nunzio, accennato folamente in una Lettera di congratulazione, che
Io Redo Imperadore al Papa riferirle in data di Burgos addi xxn. di
Novembre di detto annoi 517.; la qual lettera Ci legge nei tomo primo
delle Lettere di Priadpi » ecv raccolte da Girolamo Rufcclii, Ja Veneti a
appre/fo Giordano Ziletti, 1564. in 4. a car. no. a tergo; fe pure
ciò non fu l’anno 1529., cioè dopo la pace tra loro fatta in Barcellona,
di cui parla, tra gli altri, il Guicciardini nel terzo degli ultimi
quattro litri della fua Ifi$ria\ avendovi una lettera di Sua
Madia al Papa in data di Genova addi xxix. di slgo/lo ., che fi
legge nel citato tomo delle fuddette Lettere di Prinnpi a car.
123.» nella quale fa menzione di un fuo Nunzio con quelle parole :
Havendo intefo dal detto Duca,et da' Reverendijfmi Cardinali . fuoi
Legati ...., et dal SUO NUNZIO,. et Zmbafiiatore, cc.....; il quale
può perle fuddette cofc fondatamente crederli, foflTe Giovangiorgio.
Carlo V. fu coronato da- Clemente il giorno di Santo Mattia
Apoftolo, cioè a dì 24. di Febbrajo: ed è JlTervabile, che nei mede^mo*
giomcr egli e Ila nato, ed abbia prefo i fegni e gli ornamenti d’
Im- peratore. Si vegga Alfonfo Ulloa nella Vita di Lui molto eruditamente feri
tra ( 80 ) Gio: Imperiali, Mhfaum Hi/l or. a car. 44. Toirmiafini
Elogiaste, a car. 53. e Paolo Beni Trattato dell' Orig. della Famigl. Trijf.
lib. 2- manufcritto, a car. 34., ove nota anche di malevolo il
Giovio, che riferendo paratamente tale folcnuna lettera manufcritta
del noftro Autore medefimo (81), da tanti Principi e Cavalieri, che a
tale folennità fi trovavano, Clemente tralcelfe il TiussiNoa portargli lo
ftrafcico Pontificio; .onore» che per innanzi era /olito farli a
Perfonaggi di nobililfima Schiatta, e molto qualificati. Si trova
fcritto apprelTo qualche Autore (Si), che Carlo V. facefie conte e
cavaliere fi noftro Giovangiorgio» e lui co’ Tuoi difendenti
privilegiaffe, che potefse mettere nd/arme dellaFamiglia la Imprefa del
Tofone, c fi potefle in oltre dinorninare dal vello d'oro. Noi non vogliamo ora
dilàminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che conte e cavaliere egli
fteflò in qualche Tua lettera s intitolò (83), e alzò la detta Imprefa»
con foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme. ;non aax2ton (84), prefo
dall’ Edipo di Sofo F 1 eie folennkà, nulla facefle del
Tri jliN o menzione. JvQucfta lettera di prò. prio pugno*
del noftro Autore | c tra le altre lue manuferirte, cd è 'quella,
che diramino più d’una volta in quefta Vita, fcritta da Marano
all’Arciprete Giulio fuo figliuolo, fegnata 18. A/arz.0 IJ42. In effa
egli parla cfprcffamentcdi quefto étto, ricordandolo al figliuolo
qual /ingoiar h*neficiodal Pontefice a fe ufato. ( 8a_) Cioè
approdo il Tom mafjni, Elogia cc.-, a car. 54. c ’1 P. Rugeri,
T ratina ec. a car. xxxin. ( 83 ) Veggafi la lettera di lui al
Reverendo Prete Francefco di Grugnitola già fopracciiata, all’
annotazion. 3.C 26. Il Fontanini nell’£/tfquentLa Italiana a car.
380. riferire e fvariatamctwequAlo motto, rcrivendo in quefta guifa T
o 2HTOTMENON A A ftTON* diche fu appuntato dal Signor
Marchcfe Ma fife i a car. 8j. dell’ Fiume d’ elio libro del Fontani
eie (85)} che lignifica conftguir chi cerca ma nsn chi trafeura ;
ed anche ftamparc la fece o ne’ frontefpizj, o in fine delle fue Opere.
Si vuole bensì avvifare, che fe egli ebbe dall’Imperatore
Maflìmiliano primieramente» come abbiamo accennato al di fopra, e poi ancora da
Carlo V. il privilegio di potere l’arme gentilizia adornare di detta
Imprefaj come tengono alcuni, e come forfè volle dire il Signor Marchefe
Mafie i, quando difle, che il Trissino imperaci ere Maffìmilian » riporto
il Tofon d’ Or o\ e fe ; egli fu ni, che approdo citeremo,
tratto delle fue OffervaiÀoni Letterarie, fn Serena nella Stamperìa del
Seminario per Jacopo Saltar fi in la. Articolo VII. a c.vr. 103.
Verfo 110. (86) Nel fopraccinnaro Elogio, che è in San
Lorenzo di Vicenza, fi legge: Aurei fucilerie infìgnibui, et Corniti*
dignitate prò fe, et Pojlerit ab iifdem Impp. ( MaKimiliano, et Carolo)
decorato . Il Padre Rugcri nella Trotina &c. a car. 33. pare
che affermi, avere il T rissino avuto il fuddetto privilegio da
Carlo V., poiché gli t cbbc niarfdatoa donare (come diremo ) pel fuo
figliuolo . Ciro il Poema dell'Italia Liberata da' Coti. Quelle fono
le fue parole : T itm vero P o s TQ.U A m ledi 1T1 mai cjtjitm
fiiius Cyrus, poema iliaci eidem Carolo V. patrie nomine
donariam confccrauit, Aurei Velieri s Agalma dimidiato in Umbone
fui Aviti Stemmati!, Imperai or is auttoritate, et concezione appingi
voluìt, quo fa. cilius hac velati tejjcra, è fuo Pipite dedali a
Sobolet, ab aliis et Laude, et Vice ti *, f amili* nobilijfm*, et numcro/tjfimafurculit
dignofeerentur . Contutcociò noi troviamo* erteti* Giova» Giorgio denominato
dal Vello d' Oro ^rima che Ciro prcfeniaffc il detto Poema
all’Imperatore. Può effere bensì, che avendo egli avuto da Maflimiliano
il detto privilegio, confermato poi gli forte da Carlo V. Nel
Riflretto della Vita del noffro Autor, preme fl o la rirtìmpa delle
fuc Opere. egli fu veramente da’ Monarchi medefimi fatto Cavaliere;
non dee perciò dirfi, che forte egli da efli fatto Cavali er del Tofo»
d'oro: concioflìac»fache non fia mai fiato il T rissino arrolato in
quell’ordine (88). Le fa f88) Che ciò fia vero, ba-
Trissino, che non era da fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi,
quando veramente canini nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò
tanto meno, va, ove a car. 380. dopo regi- che in quefio affare ci
entrano Arata la primiera edizione del anche gli Araldi, 0 Re £ Armi,
Poema dell’ Italia Liberata da' per ajfegnare a ciafcun CavalieGoti, così
lafciò fcritto. Qui re lo Scudo, e /’ Infegne, tutte in fine, e in altri
fuoi libri fi le quali Ji leggono efprejfe dal vede la pelle, 0 vello
d'oro del C biffi elio . E a car. 474. dopo Montone di Friffo, da lui
fof- j aver regi fi rato i Difcorfi ini or pefo a un Elee in Coleo, e cu- f no
alla Tragedia, di Niccolò fi adito dal Drago Volendo | Rolli.,
tornò a dire, come fc il T R 1 ss 1 n o con quefia fua 1 guc ; Effendofi
già mofirato non Imprefa alzata all'ufo di que' \fujfi fiere, che il T
rissino, tempi alludere alle fue lettera - 1 comecnè talvolta fi dicejfe
oAr. rie fatiche, e da fe ancora in- \ Vello d’oro, e meritaffe per
- titolanàofi dal Vello d’Oro . j altro ogni onore, foffe perciò Ca.Ala non per
quefio egli intefe di valier del Tofone, perchè meri far fi Cavaliere
dell'Ordine del 'tare non vuol dir confeguire, qui T ofone - E poco
apprelTo ; L'\fi può aggiugnere, che quefio Su• Ordine del Tofone fu conferma-
premo Ordine, detto in latino to dai Sommi Pontifici Eugenio Vclleris
Aurei, nelle lingue voi IV. e Leone X. ; e Gianjacopo gari fi chiamò del Tofone
. ... Chifflezio ha data la ferie de' Nè può effere inutile il
ridurfi Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’ tempi del
Capi dalla prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia aie fino a
Filippo I v. Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del gna, erede
àe’ Duchi di Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc cagna: e ne ba fcritto ancora
un, nata* Se poi egli fi diffe Cotemo in foglio Giambatifia A/au-j me; et Equcs,
ciò nulla imporrizio e altri pure han- ita, petchè non fu foto a chiana
pubblicati gli Statuti dell' ' mar fi in tal guifa . 11 Mar C'rdine, e gli
Elogi de' Cavalle - 1 cii'eje Maffci nell’ E fame del ri: ma fenza alcun
merlo del [ (udektto. Libro del Fontanini, Digitized by
Google 4 fìccome l’altra volta, la fentenza incontro.
Tuttavolta collo ro infiftendo, agli Auditore Vecchi appellarono di ella
fentenza, dai quali fu poi rimeffa la Caufa al Configli dì xl, civìl-Nuovo.
Ma quella volta Gì ovan Giorgio delibero di orare elio pubblicamente, e
dire in Configlio le fue ragioni : per la qual cofa comporta in
comunal dialetto Lombardo una forte Aringa (pi)» sì bene, e con tale
efficacia davanti ai Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con grande
feorno e rabbia degl’ incaparbiti Comuni, egli fentenziarono a di lui
favore (p$). Sera egli ammogliato la feconda volta a Bianca
(P4). figliuola di Niccolò Trillino, e di Caterina Ver Quella è l'Aringa
da noi citata sì fpctfo nella prefentc Vita-, e Cc nc conferva
copia nella Libreria de’Cherici Regolari Soraafchi della nolìra
Città di Vicenza. Avvitatamente s r è detto all' ultimo, perciocché
non tappiamo, che il Tri ss ino per la narrata cagione
piatile più colle dette Comunità : ben è vero, che i di lui Poderi
appo fua morte ebbcro«a foffrir da colloro per lo ftctTo motivo nuovi
difturbi . Crediamo ciò fofle o' nel principio dell’anno x 5 3 1.
? 'o nella fine del precedente; e | lo argomentiamo da ciò
che e* 'dice nella citau Lettera al Pre~ ! re di Grugnitola,
ed è; Le cofe | della [acuità mia dopo molti tra| valji fono quaji tutte
rajfcttate, e trovami manco povero ch'io ' fojft nati,
I « quella .ftponda fua
| moglie fa il T r iss 1 no onoratole njènzione nc‘ fuoi Ritratti >
Citila» Re (fa fi parla altresì con lo.Je’nel libro intirolaro:7"
atte U Dgnne maritate, Vedove,, è’ I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Beccandoli
Bologne fé *»/ magnanimo’ Ai, Fr ance [co elei Scolari, Eresiano,
na Verlati (p?), e già vedova di Alvife Tri Arno (ptf): la quale partorì
a Giovangiorgio u n figliuol [ciano, [no Signore . in 4» fcnza
efprcffione di luogo» anno, e ftampatore. Se il Tommafini
negli Elogi, a car. 53. dicendo:,, De-,, funóto Leone X. in Pacriam rc„
diic.... Anno mdxxiii. fe» cundas cum Bianca fui Sxcu3, li Helena, Nicolai
Triffini », Vidua nuptias contraxit volle dire, che Bianca, quando fi
fposò a Giovangior g 1 o foffe vedova di Niccoli Trillino» prefe
certamente uno sbaglio, come lo prefe il Sigi Apollolo Zeno nella
Galleria, e gli altri, che ciò affermano apertamente. Imperciocché
Bianca non fu vedova, ma figliuola di Niccolo Tuffino, come dalli fcguenti
Alberi dal Sig.Co: Anco» nioTriffino del Sig.Co:Piero, corr
umaniflìma gentilezza fomminillratici, evidentemente appare» 1.
i Birtolommeo Trillino. NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino» in in
in Chiara Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua.
1 L 1 ALVISE BIANCA. CIOVANGIOR.GIOPoet.ec» in in
in BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»- BIANCA di
Niccoli Trillino ; da cui la li- mio Trillino . Trillino, da cui li
Nob» nei del Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. CiPiero.
Tuffino Poeta ee. r®, e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe,
figlio unico (cioè di MaTrattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In oltre
dalla Scrittumigl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’ effa Bianca,
fedove parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di Febbrajo.... della
detea Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife Trifa Bianca, dice; Bianca
peri fino, fi ha non pure che effo la fuafingolare belletta merita-' fu
il primo fuo marito, madie mente chiamata l' Helena della j il valore
della fua Dote fu di Dufua età, hebbe due mariti dell’ | cali
tremillccinqucccnto, cioè ifteffa famiglia: fu il primo . di lire Vi
niziane 21700. ; Dote Luigi figliodi SartoiomeoTrif-' affli Cofpicua 3
quc’tcmpi. EJ fino, et di Chiara Martine ri ] anclie di q-uefta notizia
ci con» ga, a cui partorì 6. figli mafihi, fediamo debitori al predato
Siti' 2. fenmine : fu il fecondo gnor Conte Antonio Trillino.
Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif: Triflino fe te» Gr Oratore, et hebbe
Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi,, c poco di poi
t I del Trissi.no. 4P figliuol mafchio,
appellato Ciro, ed una femmina . Ora dopo qualche tempo nacquero diffenfioni
tra Bianca, e l’Arciprete Giulio, figliuolo della prima moglie d’effo
Giovangiorgio: delle quali principal cagione fi fu, che amando ella
teneramente, ficcome è naturai coti, il fuo proprio figliuolo Ciro, s’ adoprò
in guifa, che il marito Umilmente facefle, e feemando l’affezione fua
verfo Giulio, lui più cordialmente inchinalfe ad amare . Le quali cofe
diedero apprelfo motivo all* Arciprete di piatire lungamente col padre,
da cui prctefe* e in fine poi confeguì non poca parte di fua
facoltà. In quello mezzo la Patria impiegollo in un affare
molto importante . Ciò fu fpedirlo fuo Oratore (in uno con Aurelio
dall’Acqua e Piero Valmarana, Gentiluomini Vicentini,) a Venezia per
contrapporre ad una troppo altiera richieda degli Uomini della Terra di Schio,
Dillretto di Vicenza. Volevano coftoro non iftar più foggetti al
Gentiluomo Vicentino, che reggevagli, e regge ancora con titolo di
Vicario; e però nel principio dell’anno 1534. ardirono di chiedere
al Senato Veneziano, che rimolfò quello, un fuo Nobile Patrizio defse loro a
Rettore . Ma sì giulle furono le ragioni da’ Vicentini G
Ora poi fopravviffe; ficcome colla \o in quell’ anno, o l’anno apiolita
gentilezza mi fc certo il preffo Bianca fi farà a G iovanSig. Co: Antonio
Trillino fud- ciorcio rimaritata, detto, fuo difendente; laonde
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in prò della Patria, che non ottante che Baftian Veniero, gentiluomo
Veneziano, incontra nringifse, i Giudici confermarono la giurifdizione della
Città noftra, e condannarono gli avverfarj a rimborfarla delle fpele
dovute fare pel detto motivo: loro davvantaggio vietando penalmente di più
contravvenire a tale deliberazione. E per dire di altri onori,
a cui fu egli dallaPatria elevato, troviamo, che nel 1536. addì 27. di
Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili della Città (p 3 >;
ficcome nel mefe fufleguente era Confervatore dette Leggi ( 99 ) : e
pochi anni appretto, fu ricevuto nel numero di que’ Nobili, che
formar doveano il Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo,
dcll^ Città, allora allora riformato.. Morì in que’ tempi il
celebre Poeta Giovanni Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il quale
fin dall’anno 1524. (nel qual tempo era Cartellano di Caftel Sant’Angelo in
Roma) avendo com Veggafi io Statuto no-| ( 9 8) Statuto noftro
fuddet firo lib. 4. pag. 176. a tergo . to, Lib. Novm Partium, pag.
Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- : 197. a tergo. Qui il Trissino nc
fattane con ! è schiantato Dottor, &£qnes. quello titolo ^ Jhs
À/nnicipale \ (99) "Statuto noftro, ivi » l'iccntinum, cum
sìddit ione Par- png. 19H. a tergo.. tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1
(loo)Statuto cc.. Ivi, pag. nttiit, Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186.
a tergo, cdanchcqui BartMomei Centrini. infoi. | il Trissjno è detto
Cavaliere. 1 compiuto il belliflìmo luo Poema delle /#/>/,
non volle pubblicarlo infinoattantochè il Tassino da Venczia>
ove era Legato di Papa Clemente, non foffe ritornato, perchè volea
farglielo rivedere.. Ma non avendo' potuto ciò effettuare fopraggiunto dalla
morte, al fratello Palla, nel raccomandargli prima di morire tra gli
altri Tuoi componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio
penfamento : onde quelli poi fauna 1 5 39. mandandolo alla luce, al Tm ss ino
lo intitolò (101). Intanto effendo la fopraddetta feconda fua
moglie Bianca pallata di quella vita l’anno 1540.. C102), le liti già
incominciate tra fe e’1. figliuol’ G 2. Giu. La Dedicatoria di
Pai- 1 Antonio Volpi, il quale poi lai ta Rucellai al Tr issi no è . fece
pubblicate in un col Pocfegnata *li Firtnzj addi li. di ma ftdlbdelle Api,
ecollaC*/.5.6 in e(Ta affer- ] tivazione di Luigi Alamanni „ ma di
efeguite in Dirar ai templi di Ciprigna, e Marte Le mie
vittoriofe, e chiare palme, Cosìdiceegli nella Dedicatoria del Poema
fletto a Carlo V.; ma in una Lettera al Cardinal Madrucci, che
appretto allegheremo, accenna d" averne glieli, per efsere anch’efso
malato di quartana;accomandando con fua lettera al Cardinal Criftofano
Madrucci, Vefcovo e Principe di Trento, il Dottore medcfimoi e pregandolo, che
ali' Imperatore lo facefse introdurreQuelli sì fece; el dono fu fommamente
gradito alla Maellà Sua, che moftrò nello flefsotempo gran delìderio d’ averne:
ancora il rcftante.. La qual cofa da Giov angiorgio intefa, ritornò
prettamente a. Venezia, e gli. ultimi diciotto libri, colla maggior,
follecitudine: a perfezionar fi diede; e poi fattigli ttampare l’anno^
1548., a quella volta pel figliuol Ciro gliel’inviò; elfo altresì al. lùddetto
Cardinale raccoman-dando con maggiore affetto-,, dicendogli, che per la
fua giovanezza egli più abbifognava di conliglio, e di ajuto (106): i quali
libri da fua. Maellà. Vegganfi le Lettere \ fiche fùe
cTAnhi Venticinque*. dall' Autor noltro fcritte a Sua ! che le avea
dedicate c mandaMacftà, e al predetto Cardina- te, grate le foffero Hate, e acle
in propoli to di ciò, inferite ! citte . foggiuogendo*. che nont nella,
già citata Prefazione del | a vendo ardi mento a chiedere coSig. Marchefe
Maffei alle Opere j fa alcuna, al perfetto giudici» di lui a car.xxt.
xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua, come fapien-' c xxiv.; in una delle
quali, I tiflìma, c liberali/fma che era,, che è a car. xxwi. al Cardina*
| fi rimetteva . le indiri eca * fegnata di Venezia I Qui vuol novamente
notarGiovcdì, addì x.. di Dicembre fi,. che dalPcHferfi il Trissino 1548.,
dice, che dcfiderava,! in quelle Lettere foferitto. Dal che da Sua Maefià
fojfe noti fi- ; Ve ilo d’OKo, chiaro» appare, cato ai Móndo per qualche
ma- ! non aver egli avuto da Carlo nifeflo fegno, che le vigilie e fa- [
V. per la Dedicazione del detto Maeftà furono ricevuti collo itefso
.gradimento, che i primi. Ma per pafsare ad altre cofe, fu il
noftro T r issino familiare eziandio del Pontefice Paolo III., a cui nel
.1541. efsendo per andare (come in fatti vandò) ad abboccarli la feconda
volta con Carlo V. a Lucca, indirizzò «un fuo Sonetto: e altra volta
certo vino mandoglf,3 donare ; del qual dono, e deH’efserfi ricordato di
fe, il Papa Io fece ringraziare pel Cardinale Rannuccio Farnefe (108),
grande amico del Trissino (iop). Nel tempo, che il noftro
Autore era lontano dalla Patria, ed infaccendato nel mandar a luce i
proprj componimenti, l'Arciprete Giulio, che pure continuava la fiera
lite contro a lui -, •tutte le fue rendite fece ftaggire: il perchè
in fran to Poema la conceflfìonc di cosi denominarli,
comcpare, che voIeOTc il P. Rugeri nella citata ' Declamazione; ma
fc pur da lui ! l’cbbe, come dicefi anche nell’ Elogio dianzi
mentovato, che in San Lorenzo di Vicenza fi legge, certamente molto
rem», po avanti la ebbe, cioè quando in Bologna alla Coronazione dell'
Imperatore medcfimo fi trovò prefente. Quello Sonetto,
che incomincia: Padre, fot to' l citi Scettro alto rifofa,
cc. | e che non è tra le fue Rime dcllà prima edizione,
eflcndo j Hate molto tempo avanti ftampare^ fi legge nella Raccolta
dell' Atanagi, par. pr. a car 89, a icrgo \ e nella edizione di
VeronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello Prelato al T rissino
(cricca d’ordine del Papa, c in data di Roma. Nella citata
Raccolta dell’ Atanagi a car. 90. fi vede un Sonetto d’O. al
predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato egli, fe
tc-ftamento, e in tutto e per tutto Giulio difereditando, Ciro
inftitui erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che morendo quelli fenza
dipendenza, gli fuccedelfero nell’ eredità del Palazzo di Cricoli i Dogi
di Venezia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori di San Marco con
ugual porzione . Dichiarò CommelTarj del detto Tellamento il
Cardinal Niccolò Ridolfi, allora Vefcovo di Vicenza, Marcantonio da
Mula, e Girolamo Molino; ordinando, che appreffo la morte di fe, folle il
fuo corpo feppellito fui campo di Santa Maria .degli Angeli di Murano in
un avello di pietra ijiriana: la quale volontà mutò dappoi in un codicillo,
ordinando invece, che volea cfsere fepolto nella Chicfa di San Baftiano di
Comedo * territorio di Vicenza, ce» ornamento di rofe, e lidia
fepoltura 'vi fofsc polla quella fempliee breve iscrizione; £uì giace ciò
: G io AG io t rissino . Pur finalmente anche quello piato ebbe; fine
ma Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie ro n’ebbe la fentenza
incontro, e dal figlio fi vide fpo (llo) Si può credere
fonda- \Janiculo, 1548. in 8., introdut. -urente, che per aver egli do- ì cede
il perfonaggio nominato vuto (offerire tante c si fiere ; Sìmitlimo
Rabbatti a così fdaliù, avvifatamentc nella fualmare contra gli Avvocati ;
c Commedia de' Simulimi* contro a ogni forte di Im para in Venezia,
per T olmmeo j gio . O rra fpogliato d’una gran parte de'
propri beni. Della qual cofa sì fi crucciò} e difpettò che rifolvette di
abbandonare affatto la Patria* e lafciati prima fcritti due molto
rifentiti componimenti in fegno di fua indignazione (ni), andofsenc
H dirit- O maledette fian tutte le liti » JT uni i
garbugli, e tutti gli Avvocati, Nati a ruina de f umane
Senti, Che fi nutrifeon degli altrui dif canài Difendendo i
ribaldi con gran cura'. Et opprimendo i buoni ; che i
feelefii • Gli fon più cari, e di maggior guadagno: Nè
cofa alcuna è federata tanto, *Che non ardifean ricoprirla,
e farla Rimanere impunita da le Leggi, Di cui
fono la pefie, e la ruina . Sono rapaci, e fraudolenti,
e pieni ~D' in fidie, di perjuri, e di bugie,
S end alcuna vergogna, e fenz.a fede, Servi de l'avarizia, e
del denaro . Mentre che fiato fon f, opra 7
Palaz.zo Quafi tutt' oggi in una lite lunga D' un
mio Parente, l' Avvo cato awerfo : Tanto ha ciarlato tc.
Da quelle ultime parole fi può dedurre, aver egli in ciò
avuta la mira alle proprie liti. I Componimenti die c’ fece avanti
la fua ultima partenza dalla Patria, fono primieramente il feguente
Epigramma latino, che fi legge eziandio llampatO' negli Elogi di
Monlìg. Tommafini pag. j 6., ed anche tra le OpcTe del noftro
Autore della riftampa di Verona Tom. 1 . in fine. „ Quatramus
terras alio fub 1, cardine Mundi,
f „ Quando mihieripitur frau„ de paterna T)omus. „ Et fovet hanc
fraudem Venetum fententia dura Qux Nati in patrem comprobat infidias:
>» Qux Natum voluit confe&um xtate Parcntem, „ Acque
xgrum antiquis pellcre limitibus. „ CharaDomus, valea*,
dulcef„ que valete Pcnates, „ Nam rnifer ignotos cogor adire
Larcs. Indi
un Sonetto, che fu inferito nella Biblioteca Potante del Cinclli, Scansìa
xxn. aggiun- dirittamente all’Imperator Carlo V., al quale cariflìmo
era* da cui apprefso licenziatofi, da Trento, fenza purpafsare per
Vicenza, fe n’andò a Mantova r e quindi da capo, tuttoché vecchio
fofse, e molto gottofo, fi ritorno a Roma, dove era Rato tanto onorato, ed
amato. Ma poco quivi fopravvifse, concioflìachè. tra per lo cruccio, e passa
di quella vita. Non fi fa veramente ove fia di prefen giunta
da Gilafco Eut elide» fc, Pafiore àrcade, ( cioè dal P.Manano Rude
Carmelitano cc. In Roveredo frego Pierantonio Perno, 1736. in 8.: a car.
82. e 83. il qual Sonetto fu comunicato all' autore di quella S con
zia dal ! Cavaliere Micbelagnolo Zorzi, | di cuifeperciòa car. 8+.
lodevol menzione, E' notabile l’errore cotnmeffo da Luigi
Groto, foprannominato Cieco d’sldria, in propoli to di quello Sonetto
nelle tue Lettere familiari. In Venezia, preffo Gioì sintonia Giuliani,
1616. in8.a car. 124.; perche quivi parlando del Tr issi no lo chiama Brlsci
ano, e Padre deir Jtalia Illustrata. (na) In alcune
manoferitte memorie intorno al noltro Autore, comunicateci cortefcrr.cnte
dalla gentilezza del lodato Sig. Apoftolo Zeno, dopo 1 ' Epigramma
e Sonetto fuddetti, ili legge come fcguc. M. Zan! zorzi fece ciò
per una lite, che \ veniva tra ejjo, et P Arciprete | M. Giulio fuo
figliuolo di la Ca \fa di licenza, ove dillo M. Zanzorzi hebbe una
fententia centra in Quarantia, et con queftà opinione andò a P
Imperatore, e ritornato in Trento fenza venir di qua per la via di
Mantova, Ticchio, pien di gotta Il rimanente non s’ intende per
edere rofo il foglio. Che il Trissino moridc l’anno 15 jo. conila
non folamente dal concorde confcnfo degli Scrittori, ma da una
Lettera di Giulio Savorgnano, fcritta a Marco Tiene, gentiluomo Vicentino,
fegnata di Belgrado addì 29. di Dicembre 1150.: della notizia della
quale al già mentovato Signor Abate Don Bartolommco Zigiotti ci
confefflamo unicamente debitori.
preferite il fuo monimento } ma Autóri parecchi hanno
fcritto, eflergli ftata data fepoltura in Roma medcfimo nella Chicfa di
Sant’Agata entro lo ftefso Depofito, in cui era ftato fepolto molto
tempo innanzi il famofo gramatico Giovanni Lafcari (114); e Jacopo-
Augufto Tuano nelle lue Morie) facendo di Giovangior.gio molto
onorata menzione) accenna) che gli fofse ftata anche fatta una lapida»
poiché dicc 5 che efsen H. 2 do
Tra gli altri Scritto - 1 della Città coltra, di cui il P, ri, che
addurre li potrebbono, Rugcri avea fatta menzione avvi Paolo Beni, che
nel T rat- nella detta fua Opera a car. xxvr. tato àell'OrigMlla P
amigl.Triff. | dice come fegue .,, Quoniam manoferitto, a car. 34.
cosi dice : Partitofi ( il noftro Autore) nell' A. 72. della fua et
4 per di f gufi 0 dalia Patria-, il che egli efpreffe con alcuni
verfi latini et volgari ( cioè l’ Epigramma, c*l Sonetto predetti)
li quali ferini a penna nella libreria Ambroftana di Alitano con altre
molte fue compojìtioni non ancora fiampate fi conferva . no, andò
in Germania a ritrovare l' Imp. Carlo r., et ritornato in Italia per la via
di Trento, e Mantova pafsb a Roma, ove morì, et fu il fuo Cadavere poflo
in Depofito nella fepoltura del Lafcari. E Olindro Trillino in
fine della DeclamazJone latina del P. Rugeti, citata di fopra,
da elfo fatta (lampare, traferi vendo il già mentovato epitaffio,
che fi legge in San Lorenzo meminit Au&or Epitaphii, „
Cenotaphio loann. Georg. •„ Trifiini Vice ti* infculpto „
(Relliquum cnim tanti Vi-,, ri, quod Claudi poterat, Ro-,, M.C in Tempio S.
Agatb* in „ Suburra Conditu.m Fuit) illud hic &c.“ E finalmente anche
lo Beffo Rugeri nel citato luogo afferma, che Eius offa-, ( di
G1oVAN GIORG I o ), Roma cum Jo. Lafcari cineribut affervantur .
Comunque lia di ciò, fatto fta che al prefentc in S. Agata di Roma
tuttoché fuffiffa il fepolcro del Lafcari, non fuffifte più veruna
memoria del Tr issino; come ci fe certi il P. Girolamo Lombardi
della Compagnia di Gesù con fua lettera fcrittaci da Roma
addi 11. di Novembre di queft’ anno 17} 2. do diroccato il monimento
nella reftaura2ione‘ del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*to
feppellito, gli eredi Tuoi un altro gliene pofero in San Lorenzo di Vicenza
nell’avello de’ fuoi Antenati In fatti in San Lorenzo fi vede
l’infrafcntto epitafio, opiuttofto elògio, tante volte in queft3 VitA
citato, da Pompeo Trillino, e da’ fuoi affini' fatto ivi fcolpire, non
veramente fa 1’ avello' degli antenati fuoi, come erroneamente ha lardato
fcritto ilTuano, ma allato all’altare dr detto Santo, a perpetua decorofà
memoria di; un sì grande uomo. IOAN- lllujhis Viri J m obi
Au~ Xufii T hunni Hiftoritrum fui tem. pori s Ab Anno Domini i J43.
nfque . libricxxxvt 1 I. Gcnev* apud Heredet Pctri de U
Roviere Lite. D. „ Obli c et hoc
anno « I. Georgius Triflinus peran» tiqua, nobiliquc Vicetise fa. »
milia, ad virtuccm, Se lite „ ra* natus, linguarum periti fj> fimus»
Se omni Scienciarum,, genere exercitatiffimus »> Roma laboriofz
virar finem „ impofuic anno xtaris lxxii. >» Diruto Monumento»
dum „ Templum inftauratur, in quo „ conditus fuerac, Hacrcdes al
iud i» ei ad S. Laurentii in Majo„ rum Scpulchro Vicctia pò»
fuerunt. IO' ANNI GEORGIO O. Putriti o Vicent.
tAtn nobilitate, quarti dottrina, (fi integt itato Leoni Decimo, et
Clementi VII. p 0 „t. Max. necnon Alaximil. (fi Car. V. Impp.
aliifique Pfincipibus acceptijfimo, Legationibus prò Cbrifiiana
Repub. temporibus difficillimit fattici cum oxitu apud eofdem per
alì is : Dacia inde Regi desinato . Jn Coronai ione Caroli
Imperatorie ad Sacra Palla Pontificia nitentis ferendi Syrmatis
Munus, infignioribus Principibus ad hoc ipfum afpirantibut pofi
habitis, Bononia eletto . Aurei Ve Iter ij Infignibus » (fi
Comitis dignitate prò fi » et Pofieris
ab eifdem Imperatori b. decorato. Apud Ser. Remp.
Venetam fapixs Legati nomine de Clodianis Satin ù, de Ve. rona refi
itut ione, De Pace, Deq\ aliis negotiis gravibus re ad votum
tran fatta. Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato. Operibut
plurimi e cum antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis* et Pofieris eidem Inclyta Reipublìca
Ven. ex tefi
amento commendatis . Vitaq; religiofijfimì funtto Anno Aitai
is Sua LXXII. Virgìnei vero Partus A4. D. L. P
ompejus Cyri Comitis, et Eq. fil. unicus Superfies, Nepes, (fi Hares,
AJfinefq; T anti Antecefioris Memores pii, gratiq; animi A4.
P.P. An. Salu. A4. DC. XV. Non (116) Di ciò
non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più fpecial menzione, perchè
nonjficure. Non dee tralafciarfi di qui trafcrivere
altresì l’ Oda latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in laude del noftro O.
- j) FAma centenis animata linguis » Aureo pergat refonare
cornu 3> Trissini Busto fuper 5 et jaccntés 33 Excitet
umbras. 33 Fas ubi trilli gemuere lu e Lamino Perugino nel
MDXXjy in 4. . e C^enza luogo > anno> e
ftampatore ) in i e (Cón la SofonUba, i Ritratti, e l'Orazione
al Principe Oritti ) In renezJat per Girolamo Penzio da Le.
che, C Venezia per Agoftino Sindoni e finalmente in
rerona coll’ altre Tue Opere ( 1*1 )• li. EPISTOLA de
le Lettere nuovamente aggiunte ne la 1 2 > Lin- Nel
Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de' Libri del fa Afarchcfe Alejf
andrò (ire. gor io Capponi, Patrizio Roma-\ no ec. C on Annotazioni
in di- j verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap- preso il Bernabb, e
Lazza. : rmi 1747. in 4. a car. 377 .| vedcfi regillrata tale
edizione;) ma farà forfè quella fleila, che fic fu fatta unitamente
co’ Ri- ! tratti, e colla Sofonisba, cd al- ‘ tro, da noi per altro
non ve-| duta, che ha quelle note in fi-| j ne P. Alex.
Benacenses F. Be- na. V. V.; fecondo che dice il j Cavaliere Zorzi
nel Ragguaglio ! JJlor. della rita d’O. manoferitto, in fine> cd
anche nel Difcorfo fopra le Opere di lui, llampato nel tomo 5.
della Rac colta A'Opufcoli ec. in Venezia apprcjfo Crijtoforo Zane,
i 7 jo. in la. car. jp8. Di quella Rac- colta ne è benemerito
Autore il celebre P. D. Angelo Calogerà. ( Tom. a. a car. 2 7
p. . Digitized by Googlc -. rugino e m
Venezia ( Tenz’ anno, e ftampatorc in 8. e ( COn la Sofonisba,
l'Epiflola de la Vita ec., ed al- Tom. 3. a car. 993.
( ia8 ) Tom. 2. a car. 201.
Il Fontanini nel regi- ftrare nella tua Eloqu. hai. a car. *
75 - la fudJetta edizione, prete uno fbaglio, notando Venezia in
vece di Vicenza. Tom. 2. a car. 243. ( l ì*J Nella Prefazione
alle I Opere del rioftró Autore a car. xxx. ( 1
3 2 ) Si legga il Difcorfo del I Cavaliere Zqizì {opra C Opere j
del noftro Autore a car. 440. Nel Catalogo della Libreria Cap-
[poni, a car. 377. Ih regiftrata [un’edizione di qucft’Opcra in j 8.
lenza nota di ftampa, ma quella ed altro ) In Venezia per
Girolamo Pernio da Ischi mdxxx. in 8. e V* net. per
Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope- re
Il T rissino fcrifle quell:’ Opera a mòdo di Dialogo, e in ella
lodò parecchie Donne rag- guardevoli del fuo tempo i facendo tra le
altre menzione )come fopra è già detto) di Bianca fua feconda
moglie, chiamandola beiuffima giovinetta . Vi. Il Castellano, Dialogo,
nei quale jì trae. ta de la lingua Italiana . In Vicenza ( fenza
nome dello ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo
Janiculo . ) in foglio. e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in
Ferrara per Domenico Alammarelli
1 1 K in 8. Fu riita mpato anche tra gli Autori del ben
parlare, e in Verona coll’altre fue Opere. O. manda quello suo Dialogo a
lo ili ufi re Signor Cefare Trivulzio, fottO il nome di Arrigo Dori a
; e iperfonaggi, che v’introdulfe a favellare, sono Giovanni
Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il quale di- fende l’Autore da quanto
gli fu fcritto contro circa le nuove lettere } Filippo Strozzi, che lo
Cdlfura, e gli quella forfè farà, che abbiamo] (133)
Tom. 1. a car. accennata al di fopra nell’anno- . Tom. r. a car. 41.
(azione ITom. 2. a car. c gii
oppone le parole medcfime de’fuoi avver- sari ; e Jacopo sannazx.aro y
che difende le ragioni del Trissino. Della Poetica; Divisone i. n.
m.*iv, Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di
Aprile. in foglio . Monfignor Fontanini regiftrò nell’
Eloquenza ita. liana quelle
quattro prime Divijìoni in tal guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio
Trijfmo, Divijìoni iy. in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in foglio:
ma flc- come noi non abbiami vedute altre edizioni, che la
fuddetta del 152 p., e quella di Verona ; e di altre non facendo menzione
nè il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia - lego della
Libreria Capponi, nè ’1 Cavaliere Zorzi in nefliina delle due fue
Opere intorno al Traino, (138), nè finalmente chi compilò la
Biblioteca italiana; così crediamo agevolmente, che egli in ciò fi
fia ingannato . Lo Hello diciamo parimente della feguente impresone delle
altre due Divijìoni, da lui notata i 140) . A car. 354. j
1718. in 4. a'car. Coll’ altre fue Opere, e 17. e nell’Indice: Il Com-
Tom. a. a car. 1- ! pilatore di quella Biblioteca fu Cioè nel
Difcorfo /o-jNiccoIa Franccfco Haym Ro- pra le Opere di lui, e nella Vita
mano. del medefimo manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car,
{ li9) Biblioteca Italiana cc. In 354. Venezia prejfo Angelo
Geremia . 5 che pure non farebbe il folo errore conv meflfo dal Fontanini
in quella fua Opera. Della POETICA; Divifione . In Ve . - per
Andrea. Arrivatene, Sono fiate tutte ultimamente riftampate ì* a?»»*
coll’ altre fue Opere. Quelle ultime due Divìfioni furono dedicate
dall* Autore ad Antonio Perepoto Vefcovo di Aras ? con dirgli >
non aver loro data 1' ultima mano per effere fiato in quel tempo
grandemente occupato nella teffi.- tura del fuo Poema dell’ Itali *
Liberata da Goti, Nelle prime quattro Divìfioni tratta egli de’
Ver- fi, delle Rime, e delle varie maniere de’ Li- rici
Componimenti volgari : e dice in princi- pio » che fé bene da molti Poeti
tra fiato pot tic amen* te Jcrittoy e con arte, pure nefiùno fin al fuo
tempo avea deir^r/ a voffra Reve- Furono più volte flant-j
rtndìffìm a Paternità molto, et pata. V.
fopra car.31. annor 55. | molto mi raccomando. ove s’c favellato di
quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cincone . V‘t di Marza del mille cinque
Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il tutto di In fine di quefta
Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta. tcra fa il Tris sino menzio - 1
Giovanceougio Trissino. ile fuccinta eziandio di certi al - 1 Quefta
lettera non (apremmo tri Villaggi del Territorio di perchè non fi a (lata
inferita nelViectiza ; c poi termina con | la edizione di Verona, quefte
parole: A 1 on faro più I (^ P inrgia appreffo lungo, perciocché
effondo Monf,-\ Pietro dei Nicolini da Sabbio gnore Brevio noftre lo
apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^ 1, a tcr S 0, tare di quefta, egli
fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a car. bocca a quello, che io bavero. in
fine. D’O. GRAMMATICES introduci ionie Libcr Primus. Verona afkd
jintonium Putellettum Fu rijtempato quello Trattatello in Verona unitamente
coll’altre fue Opere dove si premette un breve avvilo al Lettore, dicendo
in eflb, che la detta Operetta forfè è quella, che fittone.
me di Grammatica fi cip* da quelli, C hanno fatto U Catalogo
dell'onere del *oJItq T*is«no, e forfè ancora nella prima edi. itone fi è
dallo Stampatore coti nominata > Libro Primo 5 per rifletto 4' altro
giceiolo Libretto » che contiene le inflituzioni della Grammatica del
celebre Guari» Veronefi, e che figuitandogli immediatamente, fui far le veci di
Secondo diquejfa materia. Non fi fa in fatti che il Tri ss ino
altri ne facefle i e certamente altri non ne avrà compofti,
concioffiacofachè nulla manchi alla perfezione dell’Operetta medefima* in
cui egli attenendoli alla Italiana Grammatùhetta, tratta
compiutamente delle otto parti dell’ Orazione . K i OPETota.
i.acar.197. OPERE i D’O. >.
In Verlì Stampate. LA SOFONflSBA ( in fine } Jfampata in I v
Rama per Lodovico Scrittore, et Lautitio Perugino intagliatore con p
rohibitione, che nefsuno poffa Jfampare queft opera per anni diece t - come
appare nel Brieve concedo al prefato Lodovico dal San . tifiimo Noflro
Signore Papa Clemente VII. per tutte le Opere nuove che 'Iftampa. in
8. Laltefià. Jn Vicenzjt per T olomeoj articolo e In Venezia (
con li Aitratti I* Epiftola a Margherita Pia Sanlevenna y f
Orazione ai Doge Gritdj e la Canzone a Clemente VII.) per
Girolamo Pernio da Lecbo. in 8» e ivi ( lenza la Canzone ) per
Agoflino Bìndoni Ivi ancora (reparatamente) prejfo u Gioliti
mdliii. in 12. c Ivi per Francefco Lerenzini MDLX, in
8# * e Ivi P” u Gioliti ( tratta dal fuo primo
efemplare) mdlxii. in n. - *' £ Jn Gntovrfapprtffo Antonio
Bellone * e Venezia per Ginfeppe Guglielmo, >s T
UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello Salica io Poi
In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio Greco compagni in
12. e in V me zia prejjo li Gioliti mdlxxxv. e mdlxxvi in n.
e Ivi per Domenico Cavale «lupo. ili 8. e Ivi preffo Michel
Bocobello " Poi ancora inVicenzA appreffo il Brefcia e in V
inezia per Gherardo Jmbcrti .
Fu riftampara eziandio unitamente con la Dpijtola de la Vita
ec. (con li Ritratti, e X Orazione al Doge Gritti) fenza nota di
ftampa, con certe note in fine, in 8. (15?) Finalmente fu impreffà
tre volte, in re. rena prej/b Jacopo raiUrji, F una . nel primo
tomo del 7 Wr» italiano (154), l’altra nel 1729, colle altre Opere del
noftro Autore, e la ter V. fopra annotazione l2c. a car.
67. ( >54 J Di quell’ Opera ne dobbiamo laper gradoni Signor
Marchefe Maffei, il quale v' ha premevo ancora una dotta Prefazione, da noi
altrove accennata, in cui difeorre molto eruditamente della Sofonisba,
che occupa il primo luogo. Quell’ Opera è cosi intitolata t
Tea-\ tro Italiano, o Jìa Scelta di Traj gedie per ufo della frena
; ec. i in reron a prefso Jacopo Vallar fi 171S. in 8.
Tom. 1. a car. . Tralafciando di riferire le vcrfiotti fatte
di quello Tragico Componimento in altre lingue, fedamente vuol di
rii, efTere cffo fiato tradotto in metro Jambico latino da Giulèppe
Trillino la terza nel prima toma del fuddetto Teatro italiano
ultimamente rillampatoQui dovremmo ftenderci a defcrivere a minunuto le
bellezze di quella Tragedia, aia per non dilungarci troppo, ci
riftringeremo (blamente a riferire ( come di fopra prometto abbiamo )
le oppenioni di parecchi illuflri e chiari Scrittori fopra la
fletta, £ primieramente Niccolò Rotti, tanta ftima ne fece* che non pure
ditte ( 1 5 . che ella tra tutte le Tragedie de’ Tuoi tempi teneva il
primo luogo? ma la fcelfe di più per materia de’ Tuoi Dimorfi intorno
alia t rogo dia. Angelo Ingegneri? Veneziano, laido lcricto, non
efler troppo agtvol cofa P arrivar P Arìoflo nella Commedia,
atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO fu pure Giovambatilla
Giraldi da Ferrara, per altro rigido appuntatore del Trissino, dicendo, che
tra’ noftri Comici è recito p Ariofio eccellentijfmo, et il TrHsino
nelle Tragedie ha riportato, et ragionevolmente grandijfmo honort . Benedetto
Varchi poi, uomo di molta erudizione fornito, non dubitò di dire
nelle fue Leudoni > là dove trattò dei no, Cherico
Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi intorno alla (cor la qual
traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car. 1j.aonot.44. nufcritta nella
Libreria de' P. P. I Della Poefia RappreSomafchi di Vicenza con que- 1
fentativa, et del modo di rap fta femplice ifcrizione: Sopho- I prefentarr le
Favole Sceniche cc. NUB/t Tragedia metrico-latina 1 In Ferrara per
littorio Baldini Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car. a. Lettera
a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi Difeorfi intorno dei Traici Tofani (159),
edere ftato il noftro CjIOVANGIORGIO il P R 1 AIO » che fcrivejfe
Tragedie in queJU lingua degne del nome loro. E flOIl pure il
Vàrchi gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddettoGiraldi, il quale
nel fine della Tua Orbecche introducendo la Tragedia a favellare a chi
legge, le fece dire cosi: £’l O. gtWtH, che col fno
canto Prima d Ognhn dd Tebro, e dall UH f so Già trajje la Tragedia
all’ end e et Arno . E a tralafciar altri autori, non fu minore
la ftimaj che d’efia fe il Signor Marchefe Maffei, il quale nella
fua raccolta di tragedie date a luce Col titolo di Teatro Italiano, dando all 1
Sofonisba nel primo tomo il primo luogo, dille, che ella il
primo luogo altresì occupa fra tutte quelle Tragedie, che dopo il
rinafeere delle bell' arti in moderne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo cfler
mira. HI terno al comporre dei Romanzi,] (160) Nel
principio della delle Commedie, e delle Trage-i Prefazione, o Difcorfo,
che vi dte, cc. in Vinezia appejfo Ga - premette . briei Giolito
de' Ferrari, &\ Avverte qui
dottameli. Fratelli, . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che
benLegioni di A 4 . Bene- j che vero fia, clic avanti la Sodetto Varchi
Fiorentino lette da' fonisba il nome di Tragedia in lui pubicamente nell'
Ac ademia J Italia fia ftato a’ componimenti Fiorentina, ec. in Fiorenza
per | volgari impofto, poiché, die’ Filippo Giunti 1590. in 4. a
car.J-egli, con queji' ijtejjo belliffmo 681 •, argomento una Tragedia
abbia ' mo, è il ctfa, come la [rim a Tragedia
riufcifle cui eccellente: C po CO apprell'o a fieri, che chiunque no n
abbia » come in molti accade, il gufo del tutto guafto da certe Romanzate
ftramere, non [otrà certamente non fentir/ì maravigliosamente com.
muovere dalle belle vue di queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi,
c Singolari, che in ejfa fono. E finalmente in un altro luogo
lafciò fcrittOj'che vera e regolata Tragtdia in quefla, o in altra volgar
lingua non fi vide avanti la Sofonisba d’O. a cui il bell' onore non dee
invi diarfi d'aver innalzate le nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi
efemplari de' Greci* Ma degno di (ingoiar lode 5 e d’eterna memoria
fi rendette il noftro Giovangiorgio per aver ufata in quefta Tragedia una
nuova maniera di verfi, e da veruno non prima ufata, dico i verfi fciolti,
cioè non legati dalla rima*, di che e il Giraldi e per la
condotta tanto fi allontanano dal regolato ufo del Teatro, e dalla
furia degli antichi Maeflri, che non hanno fatto confcguir luogo agli slutori
loro fra ^ Poeti Tragici; onde la gloriaci' aver data al Mondo la
Prima ! Tragedia, dopo il riforgiment» 1 delle lettere,
e delle bell' arti, è rimafia al O. . i A car. iv. della fud*
j detta Prefazione, o Difcorfo p.renjeflfo al detto T entro Italia
* no . I Difccrfi cc.
a car. 23 6. ! Di f par crebbe non altrimenti ap* 1
preffo noi una Tragedia fe di ver1 fifo tutti rotti, 0 mefcolati cogl’ !
intieri, o co gl' intieri foli c'h.u j veffero le rime, fifle tutta
compìfi a, che havtrebbe fatto appreflo i Greci, et i Latini, fefujfeft
at a 1 ccm . d’O. . ‘ Si Ivlaffei (154)
afsai lodatilo, e dicono, che perciò gli debbe fentir molto grado la noftra
lingua. Ben’è vero, che vi fu chi a Luigi Alatnanui., famofiilimo Poeta
Fiorentino, attribuì la gloria d’aver prima d’ognuno pofto in ufo co.tal
Torta di verfii e ciò perchè egli -nella Dedicatoria delle lue opere To/cane
dille d aver mejfi in ufo i .ver fi fenza le rime non ufati ancor
mai da' noftri migliori.,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditiffimo
Signor, Conte Giovammaria Maz 2 uchelli [166), o che l' Alamanni contezza
non ebbe della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘ efsere il
primo a fcrivere in detti verfi, o che accennar volle colla voce migliori
qué’foli antichi fcrittorij .che fon venerati per primi Maeftri L
della é compofia di Dimetri, di Adonii,\ Fiorenti* 15S
9. in 4. a car. 7. di Jindec afill ahi, ovtro di éjfa- come pure il
Bocchi nc’ fuoi E Iometri, perchè le fi leverebbe con' gj a car. 68., ed altri
allegati la gravità il verifimile ; le qua- \ dal Sig. Co.'Giovammaria
Mazli due cof* levatele, firimarreb-\ne ucheìli nella Pira dell’Alare ella
fenz.a pregio. Et però manni per etto dottamente ferie— debbono aver
molto grazia gli' ta, e (lampara • in Verona per huomini della nqfira
lingua al ! Pierantonio Berno, 174 j. in 4. T R 1 s s ino, eh' egli
quefli ver- j unitamente colla Coltivaz.icne Ji fcielti lor dejje, ne'
quali la j dello ftcflfo Alamanni, c colle Tragedia pigliale la fede
della \ Api di Giovanni Rucellai, fu* Maefià con vera fembianzut amendue
gentiluomini Fiorenatl parlar communi* I tini . (164) Nella
Prefazione al j A car. 47. della pcc’ Teatro italiano. I anzi citata Tita
di Luigi Ala Il Poccianti nel Cata-j manni. logo Scriptcr,
Florentitiorum della Poefia. Fatto fta però avere il T rissi no»
come già è detto» la Tua Tragedia comporta vi* ventc Leone X. a cui la
dedicò » cioè a dire prima che l’ Alamanni fcrivefle le Tue Opere»
che furono ftampate nel in 2 E perchè v'ha una Commedia di Jacopo
Nar* di, Fiorentino, intitolata amicizia (j e dell' ortografia
antica della predetta Commedia, e fu Taverla il Nardi
chiamata nel Prologo fabula nuova, c primo frutto di Ytvovo autore in
Idioma Tofco, decife francamente > effcr la piti antica, e la prima di tutte
le Commedie, che fi vedeffe feruta in 1/crf, Italiane: aggiungendo, che
dalle quattro stante ftampate in fine di efla Commedia ( 172), appar chiaro
efier efifa finta compo L 2 fila * I. " L - - u j,
j Il Crefcimbejoi nella [che egli verarnente prete yno Star,
della l^olg. Poef. dell’ edi- 1 sbaglio, perchè il Varchi dille zione di
Venezia* tom. r. lib. folamcnre, che il Nardi usi in lib. J. a car. 1 1 V
parlando del ! una fua commedia i verfi fciolti. verfo fciolto j dice,
cheiIVar| A car. 4J5. e fcg. chi, lafciando indubbio, fe il J Quelle
Stanze fono le Tris e dì guerre accefe in Tofcana, e per tutta l'
Italia : il che (dice egli) pienamente corriffondt all' annoi 494.
in congiuntura del. la venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della
cacciata de' Medici da Firenze . Ma quanto egli favellale a
capriccio? ognuno-, che fiore abbia di letteraria erudizione, può
agevolmente chiarirfene. Conciolfiacofachè quantunque Da quel-, da
cui ogni falute pende Letitia et paco: a cui fittoil tuo
fogno Si pofa : et lieto ogni tuo bene attende: j Et
ceffi il Martial furore et /degno:
Cbe fa tremare H Mondo: Italia incende, Chel clanger
delle tube, et il fuon dettarmi Non laffa modulare i
dolci carmi. Ma quello Dio, che olii alti in- gegni
afiira: Et ogni opera dif prezza abie- tta dr vile:
Tanto- favor benigno oggi ne fint- eti pur la fronte
extollt il ficco umile. Ma fi lodore antiquo non re-
fi™ Stufate lo idioma : et baffo fHle. Et fcujt
il tempo Ihuom fag. gio et difereto Che molto importa il
tempo fri fio 0 lieto . ]_ Quando farà che in porto al
| ficco lido Salva (Fiorenza mia ) tua barca
vegna Secura in tulio homai dal mare infido: T
efio : Se il Sacro -Apollo il ver minfegna Segua pure il
Nvcchkr ac- corto et fido : Et viva, et regni pur Chi
vive et regna-, -Allhor (fé alcun difir dal Citi' s
impetra) Diro le laude tua con altra Cetra .
-Allhor mutato il Cielo in altro afielìo Renoverà nel
Mondo il Secol dauro-.- si libar farai degni virtù re-
cepto : Cipta felice: et di mirto, et di Lauro Coronerai chi honore ha
per obietto. Et nota ti farai dallo Indo al
Mauro. Ma hor eh' il ferro et il fico it Mondo a in
preda Convita eh' a Marte ancor Minerva ceda 8$ tunque di
ciò, che il Nardi dice in principio delle fud dette Stanze, (cioè
che elle fi cantarono falla lira davanti alla Signoria» Quando fi recitò
la predetta Conr media) racC ogli e r fi poflìi e (Ter efsa fiata
rapprefen- tata in tempo che Firenze non avea cefsato ancora d efsere
Repubblica ; nientedimanco nè da quefte parole > nè dalle stanze
fiefse può dedurli che il tempo della recita d’efsa Commedia cor .
rifa onde Piènamente . in congiuntura de- gli avvenimenti fuddetti.
E fe egli in dette stanze fe menzione di guerre moleftillime a tutto
il Mondo, non che all'Italia, non ne fpecifica pe- rò il tempo j
anzi le accenna in maniera che fi potrebbe più verifimilmente conghietturare
aver egli voluto in efse indicare le guerre in cui dall’ armi ddl’Imperator
Car- f lo V. Roma fu prefa, e Taccheggiata, il Papa (che era
Clemente Vii. di cafa Medici) fatto pri- v gione, l’Italia molto
travagliata, e tutto il Mondo, dirò così, afflitto da gravilfime
turbolenze. Oltreché non è probabile, che la signoria in tem- po di
guerre e di turbolenze inteftine fi fofse data bel tempo, e fe la fofse
pafsata (comefuoi dirli) in allegrie, e in divertimenti di Gomme
die. Laonde con migliore probabilità fi può dire, che la Commedia del
Nardi fofse rapprefentata nell’anno 1530. giacché in queft'anno e
Clemente, Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col fud.
detto detto Imperatore, e dopo averlo anche
folenne-^ mente coronato nella Città di Bologna; c Aleflan- dro de
Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede- fimo Imperatore; fotto il
Dominio del quale la Città non lafciò in certo modo d’eflere tuttavia
Re- pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar volle il Nardi
nella voce Nocchiero, ufata nel quinto verfo della terza ftanza, e ad uno
de’ due pari* mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli PitA t
Rtgn? nel fedo verfo della ftanza medeilma r E viva > et regni
pur Chi vive et regna. Se poi egli chia- mo la Commedia fabula nuova i e
primo frutto di nuovo uè ut or e in idioma t ofeo, volle con ciò
indicare la novità dell’Argomento, ma non mai la novità del verfo,
come pretefe di farci credere il Fontani- ni nel citato luogo : c perciò
fu giuftamente cen- furato dal Dottore Giovannandrea Barotti nella
fila JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi
A quel che fi è detto fi può ancora aggiungere * che non fi
troverà certamente, che lo Zucchetta, per cui fi crede, che fofle anche
fiata fatta la pri- ma edizione della predetta Commedia * libro al-
cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più al più avanti > quando il Trissino avea già
com- Parte feconda A car.n j. I tutori / opra P Eloquenza
Italia- Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F anfanivi, Roveredo[
ma Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia) comporta là fua
sofonhba. Ma per- chè più chiaro appaia l’errore del Fontanini ? e
del Guidetti altresì nella fua relazione al Var- chi, e come a torto vuol
toglierli al Tr issino da alcuni moderni la gloria della invenzione
dei Verfi fcioltij vogliamo qui riferire ciò ? che al medefimo
noftro Autore dille Palla Rucellai nella lettera ? colla quale gl’
intitolò il Poema delle Api di Giovanni Rucellai ? Ilio fratello?
che che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che quejio
modo di fcrivere in •verfi materni liberi dalle rime ponefte in luce, il
q»al modo fa Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e poi nell'
ji- pi » 0 nell' Orefie abbracciato, ed ufato: e apprellò chia- mò
f Opere dello fteflo fuo fratello Primi frutti della Invenzione del
Trissino. Per le quali cofe tutte forza è, che conchiudiamo? che a gran
ra- gione non pure dagli antidetti Scrittori? ma dal Tuano e da
altri ( ìycr ) fu il noftro Au- tore . Veggafi la foprallega-
! FHJlor. &c. Toni. 1. lib,
ta lettera di Giovanni Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200. lctt. ai
Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G e or g i U s Tbis> terboaddt 8.
di Novembre mdsv. j », sihi's .... P ri m u s genu $ ftampata nella
Prefaz. alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur- re dello fteflo
Trissino a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr. xv.} e a car. xvm. v’ha
una „ pcirarchae Itali Kythniis ute- Lettera della Marchcfa Ifabclla,,
rcntur. di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo Pigafctta, Vi-
de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo mandata cui gli dice,
che avea ricevutola Celio Malafpina in materia una fua Lettera, Ferfi, et
Ope- ‘ dei due Titoli del Poema di retta, la quale fi può crede- Torquato
Tallo, premeflò al re, folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione
di Fette- Digitized by Googl SS •' La
Vita torc chiamato Primo inventore di qucfti verfi. Ma
per tornare alle opinioni degli Scrittori fopra la Tragedia del Tassino»
non fu ella efen- te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere,
in cui non fia ftato notato qualche difetto. Il Var- chi nel citato
luogo volendo darne giu- dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione,
dicendo COSÌ: Io per me quanto alla favola, e ancora in molte cofe
dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma in molte al* tre parti, e
fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei, volendola lodare, da
qual parte incominciar mi dovejfi . E nell* JErcolano diflfc: La La
Sofonijba del Tr isslno, c la Rofmunda di mefier Giovanni Rucellai, le
quali fono loda tijftme, mi piacciono sì, ma non pia quanto a molti
altri. 17 al C k Venezia per Francefco de' Fran- j che
come fi avea d aver grazia, cefchi. in 4., dice, che \\\al Tr 1 s j i N
o, c'havejfe dati Tr1ss1no fu il Primiero; que verfi ( fciolti ) alla
Scena, che in italiano abbia ofato, e | così cc. Finalmente il Giti
di faputo ..., camminare per fen - 1 medefimo in una delle fueLettiero
erto, non più calcato da terc.tra quelle di Bernardo l af' vernn altro dal
tempo antico in fo. In / 'a dova ., apprefi quà, faivendo in Verso dal-
fo il Cornino-, in 8.; toni. a. a la rima Sciolto, con avvefttu- | car.
198. apertamente chiamo 1 rato ardimento, la Sofor.isba Tra - ITr.ssino
Inventore di tali tedia ce.. HGiraldi poi ne* Di fi ! verfi : la qual
cofa fu olTervata cor fi cc. a car. 92. favellando dei anche dal predetto
Sig. Co: MazVerft Sciolti, chiama il noftro ! zuchelli, a car. 47.
annotaz. Gì ovangiorgio loro in- j 1 22. della fuddetta l'ita di
Luiventore-, e approdo dice qucdc' gi Alamanni, parole: Veramente mi pare,
che | Lezjzioni ec. a car. 68 r,. Monfignor il Bembo, giudiciofo A
car. 393. e 394 del Scrittore ..... il vero dice fio, | la ciraw edizione
di Padove quando a Bologna mi diffe, che I 7 -H -,n X» "E L T RI S S,I N O.
Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore; per eflcrfi in quella
Tragedia più dato (come £ dlfle) a fcrivtre i co fimi, e- le m
Anitre de i Greci, che nonfi conveniva ad uomo, che firiveffe cofa
Romano, nella quale tn. traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella
Sofinisba, Alla quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcrfi
colle parole del fuddetto Signor Marchefe Maffei (180), cioè che
certe azioni, 0 detti, che ci pa jonoJn Per finali grandi aver talvolta troppo
del famigliare > .non danno dif gufi 0 a. chi . ha cognizione de'
Tragici Greci, egra* ttìca de' co fi unti antichi * E sì .
parimente altri difetti furono appuntati an erta Tragedia, che per dir
breve fi ommet> tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i
dotti Tempre in grandilfimo pregio tenuta: perchè quantunque lì creda lontana
da quella perfezione, a cui fi può condurre un componimento teatrale! (oltreché
Tiftelfo potrebbe forfè dirli delle Greche Tragedie ancora, come dice il
predetto Signor Marchefe egli è per altro certo, no» molte prelfo chi ben
intende annoverarli Tragedie in lingue volgari, che portano gareggiar con la
Sofinuha, la quale fola farebbe ballante a tener tempre viva
gloriofamcnte M appreC f 179) Difiorfi del Giraldi e. liane
luog. cir, car. 179. in fine, e a car.
Prcfaz. alle Opere de ( lio) PreCaz. al Teatre Jta.\ Trissino a
car. xxvii. Dìgitized by Coogle 5>S 'La Vita
apprcfso i letterati la memoria del Tuo AutoreA ciò che abbiam detto fi
può aggiugnere ancora il giudicio del mentovato Signor Cavaliere Zorzi,
il qual dille, che la Sofonùba ì u n Tragico Poemetto, migliare de’greci,
e /nitriere ai Latini, Italiani » e Franzefi Scrittori. LA ITALIA liberata
tia i Goti. Stampata in Roma per Valerio, e Luigi Dorici a petizione di
plutonio A/aero Vicentino con Privilegio di N. S. Papa Paulo Jll, di
altri Potentati. RarifDifcorfo fopra l’ Opere \ al Clcmentijfimo ed Invit
tijfimo del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore Quinto CARLO
Quadrio nella Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi nove d' ogni
Poefia Voi. 3. libi 1. Dift. ì libri fono di carte 175 I fcI. cap. iv. Particcl
2. a car. 65. condì nove, che contengono regimando quella Tragedia, ac-
carte 181, furono Rampati l’anCenna i difetti fuddetti in clfa no approdo nel
Mcfe di Novem notati dai predetti Varchi cGi- bre, come appare da quelle
pallidi ; ma apprelTo foggiugne, fole, che in fine fi leggono : che efla
ciò non cjtantc ha fem- Stampata In Pene zia per T 0pre avuta ejiimazJone non
poca: torneo Janiculo da Brejfa nell' annominando anche la traduzio- no MDXLV
111 . di Novembre . ne Iranzcfc di detta Tragedia Con le grazie del Sommo
Fonfatta per Claudio Mcrmctto, c tifico, e de la JlluHriJfima Siimprcfla in
Lione l’anno 1583. gnoria di Venezia, e de lo Illu( Quello Poema fa dal
Jlrìjfimo Duca di Fiorenza, che Trissino, come è detto di ninno non la
poffa riftamparc lopra, mandato in luce in più per anni X. fot za
efprejfa licen tempi. 1 primi nove Libri » i za de l’Autore. Gli ultimi noquali
hanno il titolo fuddctto,;ve finalmente furono llampati ma co’fuoi nuovi
caratteri, fu- janch* effi in Venezia P anno rono llampati l’anno 1547.
nel Hello MDXLVII . per Io Redo Mcfe di Maggio ; attorno il qual
Janicolo, ma di Ottobre (cioè titolo v’ ha eziandio il motto un mcfe
innanzi a'Scconai no. della, imprcla da lui alzata TO ve) collo Hello
privilegio. E / HTOTvevon A auto >1 i e tutti quelli XXV II. Litui
(che dopo fegue la fua Dedicatoriafono, non già. come Ov
pi Rariflìma è quefta edizione } e due fole copie n’abbiamo noi
vedute in Venezia y una nella celebre Libreria Pifani? e l’altra nella preziofa
Libreria del fu Signor Apoftolo Zeno (184) 5 apprefso cui Vera anche un
efcmplare dell’ impresone feguente. J tali a &c. riveduta e corretta
per /’ Abate Antonini ec. in Parigi nella Stamperia di Ciovanfrancefco
Rteapen . Tom. 3- in 8. Fu anche riftampata unitamente
colle altre Opere del noftro Autore nell’edizione tante volte da noi
citata j (ma fenza i caratteri da efso in inventati) in Verona preffo Jacopo
PalUrfi 1729. i n e tiene il primo luogo nel tomo primo •
Ma Anche ionie diflero erroneamente il Fonranini nell’
Eloquenza italiana à car. 580. . e 1 Autor del Catalogo della Libreria
Capponi a car. 377.) fono uniti in un volume in 8. Il Cavaliere Zorzi nel
fuo Dif offa intorno alle Opere del Tkissino a car. 4 y). sbaglio
prefe in dicendo, che i primi libri furono ìmprtfft in Roma, e gli
airi IX. in Venezia . Dal Signor Apoftolo Zeno fu la
detta fua Libreria donata con teftamento a P. P. Domenicani della
flrctta offervanz.a di Venezia nel mefe di Settembre dell’anno i7jo.»
nel quale poi addì xt. di Novembre placidamente p.ifsò di quefta
vi ta. Della cui perdita li dorranno mai Tempre i Letterati, ed
tifa da noi non pure in quel tempo, in cui appunto eravamo in
Venezia, ma continuamente farà compianta. Cinqui abbiam voluto
dire., per Iafciare un pubblico arredato, della noftra gratitudine alle molte
cortcfie ufjtcci dal meiefimo. Per altro un elogio alla memoria di sì
grand’ uomo col Catalogo delle fuc Opere ha pubblicato
l’erudito Autore della Storia Letteraria d'Italia (il P. Francefco
Antonio Zaccaria Gcfuira ) nel Voi. 3. lib. 3. cap. V. num. 1. c
fegg. pubblicata in Venezia nella Stamperia Polttiv 1752. In 8.
Anche quefto Poema fu da varj letterati ITomi-^ ni e Iodato? e
cenfurato in molte cofe. E quanto alle cenfure, il Titolo primieramente
non è affatto piaciuto ad alcuni, giudicandolo dii troppo lungo, e
ravvolto, diròcosì* dicendo, non bene diftinguerfi, fe i Goti, o pure
altri da' Goti abbiano liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy Poi
nelle fue Rivolte di Parnafo Criticò 1 - AtJtore noftro, che fece fare fenza
necelfità veruna ai Perfonaggi del Poema lunghi ragionari, e che
introduce la gente nella Zuffa, parlante aguifa di Dialogo, facendo che l’uno
ricominci dove l’altro terminai il che è lontano affatto dal
verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non s’odano che poche voci, e
folamente fi fenta, il fragore delTarmi : e in altro luogo ky
criticò, perchè troppo alto cominciamento die. de alla guerra i dicendo,
che meglio avrebbe fatto', fe avefse porto Belifario o dentro a Roma, o
per lo meno in Italia v e tacciando in oltre gli amori di Giuftiniano di troppo
goffi c lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui furonoappropriati (188):
delle quali cenfure dell’Erri- CO fi Veggafi Udcno Nificli tic'
Proginnafmi ec. Rivolte di Parnafo di Scipione Errico . In Me
finn per gli Eredi di Pietro Urea 164.1. in iz. acar. 63.
Rivolte di Pam a fe a car. 64. Rivolte ec. a car. .
pj to fi dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla Lettera a lui
indiritta ? la quale fi legge nelfè efse Rivolte di Pimi/,, (i8p). Attché
il Fontanirri nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto fallo
commefso d’O., foggiugnendo, che egli Poi ravvedutoli, ne fece l’ammenda,
riftampando le carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ; s pafiando
appreffo a riprendere chi riftampò le Opere di lui, perchè avendo
tralafciata l’ortografia dal Tri ss ino fieflb inventata, v’ avelie poi
inferite le cofe ** M medefmo volontariamente ritrai utt (ipi). Da
S * ÌV r ° lte J C - * car - «o-. | eolie parole, e le parole io'
ben(iyo) A cai. 581. 1 fieri: le quali fofto perciò fem so^Aelìa Ubr^'r ^
C * ! * lo \t lici e P«re, e di quando in quan. go della Libreria Capponi
a car. | do con virgìnal modeffia trasfe &Y.T„“fT
''jT'I’t'v" 4 CanonTo G fZt d I Rissino, die*; nelle An- : ni
Checozzi nella fùa dotta Ltt TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»* di,enfiva ’ «tata
al di fopra An!dli r q '"'"^ont all 1 annotazione 101.,
dice che {jù 1 ; isst { ;j:zz:iu f :rr ir ™ s ìz o ìvT cho t
bcmì ! 2 *’ 119 J. \ io ’ »,iche > àoveglifcherzi qualche
e 1 31., che fi e tentato di leva - 1 volta p affano aver Inaio ma
UaVitìc *‘ r l ÌC l n ? }{ molto pia nelle ferie, et ed oraMa Vincenzio
Gravina nella fua tcrie. * Opera intitolata Della Ragion
Poetica libri due cc. Jn Venezia frejfo singioio Geremia
1731. in 4. lib. a. a car. 106. non dubitò di lafciarc
fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini nel luogo citato fono
quelle z Reca gran maraviglia (dic’egli j che ojjendendofi la
memoria, e riputazione dd Tritino nel ri fi n 1. ^ te
chela Qifd. -r riputazione del J njf.no nel ri te che lojhle del Tassino
\fiamparfi le fue Opere ( non pe e caffo e frugale; ma ancora che] ri con
l'ortografìa da lui fi tifo tatti ifitoi penfien fon mi furati j
inventata ) fiafi voluto in onta fua » .Vita'
Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta dilla Fdgar Totfm { ipj), fu il
Tr issino cenfurato di troppo efatto nella deferizione delle parti,•
e particolarmente del veftire dell’Imperatore Giuftiniano;
concioflìacofachè gli abbia fatto metter prima la camicia, e poi 1* altre
robe di mano in mano fino alli calzari; foggiungendo, che l’efempio
d’Omero inventore di cotali foverchio diligenti narrazioni, non lo dee in ciò
feufare. In fatti l’avere Giovangiorgio troppo efattamente imitato
quello Greco Poeta, fu la cofa principaliflìma, che. gli ha nociuto. Di che
eziandio Giovambatiila Giraldi ? Cintio, Ferrarefe, appuntollo, dicendo
(194)5 che £ energia non iftà ì come il noftro Autore fi credette, nel
minutamente feri, vere ogni copicela, qualunque volta il Poeta fcrive
eroicamente; ma nel fla, e non fenza contumelia della Chrefa
Romana fargli l' oltraggio di preferire alia giufta fua correzione le
cofe, volontariamente da lui meclefimo ritrattate, cantra le quali da
onorato gentiluomo-, e da buon Crifiiano altamente fi fdcg -crebbe,
Je foffe in vita. Con quelle parole accennò il Fontanini la
rillaihpa» che delle Opere del T n i s‘s i n o fi fece in Verona ;
del che il Marchefc Maffci fe ne rifenri nell’ E fame fopraccirato,
a car. 73., dove dice, che il detto Boema fi è ristampato a
Verona | fecondo /’ impresone con Privilegio di Papa Paolo Terzo
ufiiI ta . lo certamente non ho vo; Juro darmi la briga di confrontare la
primiera edizione ; colla riftampa' del Poema fieffo, per chiarirmi» fe
vere ricino quelle mutazioni predicate dal Fontanini . Bellezza della
Volgar ' Poefia di Gio: Mario Crtfcimj beni ; In Venezia, preffo Loren\zo
Bafeggio, in 4. Dialog. Vili, a
car. 157. Ne’ Di f cor fi ec . a car. 6 a. ma nelle cofe, che
fono degne della grandezza della materia* if'ha il. Poeta per le
mani: e prima ( 195 ) dille quelle parole: Come l'età di Omero e i
collumi di que' tempi, e le fingo lari virtù, che fi trovano in queflo
divino Poeta, fecero toler abili quelle- cof e in lui', così l'averle il
Trijsino in ciò imitato ne/r Italia, .altro non fece, che ffiegliere
dall'oro del componimento di quel poeta lo fi creo, (il quale non per fuo
vizio, ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j, ( parendogli di
avere affai fatto, fe bene gli efprimeva ), e accogliere tutto quello, che i
buoni giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in ciò foco grave.
Oltreciò lo Hello Giraldi (i 96 ) notò in quello Poema, vìziofe eflere le
invocazioni; e la favola di Farlo e di Lìgridonia elTervi introdotta, e
fuori dì ogni bifogno, e fuori d'ogni dependenza ; aggiungendo, quell’allegoria
efler tolta da altri, e in parte dall' Ar lofio nella favola et Ale in a,
e di Logifiill * * C finalmente in una. Lettera a Bernardo Tallo (198)
dille, chele il Tr ISSINO fiecome era dottiamo, così foffe fiato
giudiciofo in eleggere cofa degna delle fatica di venti anni, avrebbe
veduto, che così fcrivere, com'egli ha fatto, era uno fcrivere
Smorti ] inferir volendole il Poema non era letto. Ma
chi dogni appuntatura de'Critici a quello Poema parlar volette,
llucchevole forfè e nojofo riufeirebbe ; elfendo già flato fatto queflo
dal Difcorfi ec. a car. 33 .[quelle d’effo Taffo, ( Voi. a. t 9f> \ ^r
0T r cc ‘ 3 car ' 49 - a Car. 196. e fegg. ) (lampare — l J cor fi cc e
fopra i Poemi di alcuni più chiari Epici non dubitò d’, innalzarlo.
Nè minor conto ne fece Benedetto Varchi, poiché in una deile fue Leeoni
(20 6) dille, che 1 Italia Liberata da Goti fe bene era
lodata da pochijfimi meno che mezzanamente, e da molti in finii
amen. t e biafimata,.e quafi derifa, pareva a fe nondimeno, che
-Quanto a quello, che è prof rio del poeta, ella mcrìtdffc tanta
lode, anzi tanta ammirazione, quanta altra potft*, che JSj fia
dogo fico, ed a teffer lavoro Somigliante a quei di Virgilio, a d'
Omero, e di quejlo fpezialmente eh' egli prefe a imitar del
tutto. Lettere, Voi. 2.
acar. 416. Il T rissino > la cui dottrina nella noftra età fu
degna di maraviglia, il cui Poema non farà alcun» addito di negare che
non fia dijpojlo fecondo i Canoni delle leggi d' lArift utile, e con la
intera imitazione d' Omero, che non fia fieno d erudizione atto a
infegnar di molte belle cofe ec. 11 O. medefimo nel 1. libro di
quefto fuo Poema, a car.22.dcll’cdizione di Roma così dice ; „ Ma
voi beate Vergini, che „ fofte „ Nutrici, e figlie del divi -
1 a> no Homcro, [ „ Ch’i ammiro tanto, e vo
feguendo Torme „ Al me’, ch’io fo, de i fui „ veftigi
eterni; Reggete il faticofo mio viaggio: „ Ch’ io
mi fon pofto per „ novella ftrada, „ Non più calcata da
terrc.^nc piante . E in quefti ultimi verfi potrebbe crederfi, che avefle
egli voluto indicare non pure d’eflere flato il primo a comporre
Poemi a imitazione d’Omero, ma d’effere anche flato il primo inventore
del verfo fciolto » in cui il Poema è dettato. Lib. 2. acar. ioj.
I Lezzioni di M. Bcnedetto Varchi a car. f‘* dopo
Omero fiata firitta, e dopo Virgilio: foggiungcnclo appreflo, che deve
molti fi ridono del T n. i ss i n ® > che confi fio d'aver penato XX.
anni a comporla » a luì pareva, che ciò a gerle giudizio porre, e
attribuire fi gli doVcHè > Finalmente ( a tralafciare il
fentimento di altri Scrittori circa quello Poema, e fpecialmente
del Tommafini, e dell’Imperiali
Salvini, che fu uno de’ più begli ornamenti, che abbia avuto in quelli
ultimi tempi la Città di Firenze, così fcrille (2op) in torno al
Poema Hello, e al fuo Autore: 11 nofiro leggiadrijfimo Rutilai
tefii in verfi fiiolti il fuo poemetto dell' Api dedicandolo al Trissino,
che nello fiejfo tempo dello Alamanni » che la celebratifiima f u a
Coltivazione mife in verfi fiiolti > compofe alla gran guifa Omerica
I'Itau a Liberata dai Goti, il qual Poema fu tanto da un drappello
diPaftori Arcadi confidar ato ripieno di bellezza, e virtù poetiche, che ave
ano a varj /oggetti dato un Canto per uno, per metterlo in ottava rima, per
farlo più leggibile con quefio lenocinlo alle fihiz,. zìnafiy per dir,
coti, orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un e nel primo
tomo delle fue opere della riftampa di Verona j e con altre fue poefie nella
prima Parte della Scelta di Sonetti e Canzoni de' pi* eccellenti
Rimatori d'ogni fecolo (alj). . RI Jm
^214) Mi pare, che qui da tralafciar non fia il Sonetto da
Benedetto Varchi mandato al noftro Giovangiorgio j giacché con dio
non pare lui lodò, ma avendo forfè la mira alle altrui critiche fopra
il di lui Poema, inanimillo a?profeguire gl’incominciati fuoi Audi . 11
Sonetto è qticfio, e fi è traforino dal libro intitolato: J
Sonetti di M. Benedetto Varchi, ec. In Venezia per Plinio Pietra Santa,
155-5. in S.acar. O. altero, che con chiari inchiojtri T e
’nvoli a morte, e 7 foco l noftro bonari, Rendendo Italia a' fuoi
pajfati honori. Di man de' fin crucici barbari moftri
Tu con nuovo cantar l'antico' moftri Sentier di gire al Cielo,
e tra'migliori Le tempie ornarfi dì honorat i
allori Pi* cari a cor non vii, ohe gemme et oftri.
Per te l' Adria, la Brenta, e ’t Bacchillone Al dolce
fuori de tuoi graditi accenti Vanno al par di Pento,
del T tbro, e d'Arno . Deh, fe 'i gran nome tuo ftntpre alto
fuone, £ faccia ogni gentil pallido 1 e fcarno,
Tuo corfo l'altrui dir nulla rallenti. Scelta di Sonetti
e Canzoni de’piìt eccellenti Rimatori dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O-
roi XV. RIME. In Vicenza per Tolomeo laniccio. Diccfi j
che l’anno medefimo fofler ivi riftampatc per lo Hello janicoia in 8>; ma
quella edizionoi non l’abbiamo veduta. Furono bensì riftampate 1» Verona coll’
altre lue Opere. Il Tris si no dedicò quelle Rime al
Cardinale Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in quel tempo ( non a
Leone X., come fcrifle erro* nearnente il Signor Canonico Conte
Giovambatifta Cafottì, che fu perciò ne[ Giornale de' letterati £ Italia,
modcllarrrente corretto) e nella Dedicatoria, la quale non ha daLa, egli dice,
che gli mandava w'ft* Tuoi giovanili componimenti per ubbidire alle fue
molte infianze . Di quelle Urne, non meno che del loro Autore,
favellò con molta lode il Quadrio nella più volte citata Opera fua della
Storia e Ragione di ogni Ree* : c Federigo Menini lafciò fcritto et*
fere W4, che contiene i Rimatori an- Tom.
prim.acar.349i fichi del 1400. e del 1500. fino j Nella Prefazione.
In Venezia r Vrofe e Rime de'due Buonaccorpreffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi
« Rampate In Firenze nella Voi. iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di
Giufeppe A/anni 303. del Vol.i.e di efla se fatta 1 .
menzione al di fopra all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde* 56.
Olitila Scelta, che era fiata ix. a car. 224. in 12. prima in Bologna
Rampata, fu poi j Voi. 2. lib. I. Difi» riprodotta in Venezia inpiùVo-’i.
Cnp. 8. Parriccl» s. a car» lumi. IOÌ L A V i f A fere i
Sonetti del" noftro Autore e buri, fentenzàoft, e' patetici Sette
Tuoi sonetti, i quali mancano nelle fuddette Rime, furono ftampati nella già
citata Raccolta delle Rime di diverfi nobili PeetiTofeani fatta dall*
Atanagi: il primo de’quali fu da Giovan* Giorgio indirizzato al
Pontefice Paolo Terzo > e l’abbiamo accennato altrove; il fecondo
a Ottavio Farnefe, allora Duca di Camerino} e poi di Parma c Piacenza* il
terzo a Margherita dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe
foprammentovato; il quinto a Girolamo Verità, gentiluomo Veronefej il
fefto a Paolo Giovio» Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome»
il fettimo finalmente è il fopraferitto, da eflo fatto poiché terminato
ebbe il fuo Poema dell 5 Italia Liberata da Goti. Ancora Un fuO
Sonetto, fcrittO al Cardinal Pietro Bembo (224;, fi legge tra
le Rime di quefto Autore il quale un altro Sonetto
Nel Ritratto del So- j cenza fua Patria. Sono chiarii netto 1 e
della Canzone In Vene- \ fent trizio ft, e patetici, zia apprejfo il
Bertoni > 1678.' A car. 8?. a tergo, e in il., a car. io?. Ecco
le fuc, feguemi. parole Giovan - Giorgio!
V* fopra et car. 55. al. T rissino, nobile Vicentino, l
annotazione 1 07. oltre alla Tragedia delta Soft- j V. ivi.
nisba e oltre all'Italia' Quefto Sonetto C0 Liberata, Poema Eroico,
che \ inincia : fu il primo ad ejfer dettato fe- j Bembo, voi ftet
e a qne bei condo It regole d'^driftotele, e ftadj intento .
fatto ad, eferr.pio di Omero 1 fe J Rime di M. Pietro molti Sonetti
ftampati in Vi- Bembo: In Bergamo appretto Pietro DEL, TRI5SIN Q. j
^ .Sonato nelle medefime definenze gli mandò in rilpofta. Altre lue
Rime poi dono fparfe nelle Raccolte del Varchi» del Rufcelli, e d’ altri: ma
dal Signor Marchefe Maffei tutte adunate furono, e poi fatte
Rampare in un colle altre di lui opere, colla giunta ancora di altre poefie
del mcdefimo (ma non di tutte), non prima date in luce, e di alcuni
Sonetti da altri Poeti a lui fc ritti. Ma perchè alcune
poefie, che fono tra quelle del noftro Autore, veggonfi altresì tra le rime o
de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai però egli è ragione, che
diciamo intorno a ciò qualche cofa, avendone già diffufamente parlato
altri Scrittori, e fpezialmente il Cavaliere Zorzi. Tra le Rime adunque
de’ Buonaccorfi Ieggonfi quattro Sonetti interi, e cinque foli verfi di
un altro Sonetto (11 fuddetto Signor w tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car.
Quello Sonetto comineia: Così mi rentU il cor page, e
contente . e fi legge in dette Rime a car. 94 -Tom. l. a
car.Difcorfo /opra l Opere'. del T r 1 $ $ t n o, a car. 404. e !
feguenti 11 -primo ^i queftiSonerti, che a car. 1. delle Rime del noftro
Autore fi legge; ed a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac. 1
corfi, della mentovata edizione di Firenze 1718. in 12., comincia
coste La bella donna, che in virtù d" Amore . il fecondo
che principia: Li occhi foavi, al cui governo Amore ;
nelle Rime de’ Buonaccorfi c a car. La vita Signor
Conte Cafotti incaricando (2jo) modefìamente il noftro Trissino, favoreggia i
due Poeti: e nel domale de' letterati tf /taiu fi accenna folamente, ma
non fi feioglie cotal viluppo » Il Cavaliere Zorzi dice, che perciò
fare converrebbe andare a Firenze, ed ofservare fc Antico, o no,
fia il carattere, onde fono fcritte le poefie de’ poeti fuddetti •,
concioffiacofachè pofsaefsere, che da'copifti, (le copie fono)>
o come a car. ., cd in quelle del ine allenirne de’
Buonaccorfi a Trissino a car. 4. Il terzo, car. lvi.
che ha quello principio: j Tom. xxxvr. Artic. Qando 'l
piacer, che’l defia to bene; \ b o> he 1 Sonetti^/ I ; non fieno
del piovane Buonaccor-,è a car. 4. a tergo delle Rime fi, offendo firitti a
Palla di del noftro Autore, cd a car. Noffcri Strozza, ea'fioi figliuoli
quelle de’ Buonaccorfi . 11 li > tutti fuoi coni empcr enei - I quarto
finalmente, clic fi leg- '.y chc| DelLi edizione di Veti legge tra quelli di
qucfto \nez.ia 1546. in 8. a car. 7..; la Autore dell’edizione di Firenze
* qual Canzone, che nelle Rime e comincia: (del Trissino è a car.'
5. Quanto più mi dijlrugge il ( principia. mio pen fiero-, .
Amor, da eh' e' ti piace nelle Rime del Trissino cl -Chela mia lingua
parli-, cc a car, . j IOJ La
Vita con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti Tciolti, e
ufolla in una Cantone indiritta al Cardinal Ridolfi : il qual modo ftravagante e fconfigliata
cofa parve al Crelcimbeni (i* ma, come dille Maffei Tu bizzarria
d’un iblo componimento. I Simulimi (Commedia in verfo fcioito) In P
rnezja per Tolomeo J unitola da Breffa. Quella Commedia ( dì cui
non Tappiamo eflerci altra riilampa, Tuorchè quella Tatta in Perona
unitamente coll' altre Tue Opere) Tu da lui compoftaa imitazione dei
Mtnemmì di Plauto, aggiungendovi il coro-, e varie coTe mutando-,
Teguitando in effe altresì le tracce degli Antichi, ed accoftandofi
Tpezialmente ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria al Cardinal Farnefe dice,
che avendo in quefia lingua Italiana compoJ} 0 e l 4 Tragedia, e lo
Eroicoy gli ' t* rut ° oU tra futili di abbracciare ancora qaefb' altra
farle di $“fia, cioè la Com . Quella Canzone end
nd primo tomo ddla riftampa di Verona,. a car. 371. cola.., c
comincia; Paghi, fu feriti, * venerandi Colli i cc.
( ma non Tragedia, fi il
TafTo, che non compofe Commedia, fua non eflendo quella, che fu imprefla
col nome di lui (23P). A che volendo noi alludere abbiamo fatto di
quattro differenti poetiche corone adornare il Ritratto del noflro Autore,
che in fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz. alla ri- |
Rampa di Verona a car. Xxv. Tra’ lodatori della' Commedia del
noftro Autore, j uno fi fu il P. Rugcri, cosi parlandone nella
citata Declamazione a car. xxiiù,1 Hic fior Georgivs) anti„ quorum poetarum,
qui Co— n mie® Poefis lauream adepti,! » Slori® termino* pofteris
cir. j cumfcripfifle videbamur, Rre-,» nui adeò coocertationc ingej„ nii
adarquavir, eruditiflìmo !» PoCmatc, metro jfcripto quod Sim itL r mos
infcripfit ut quonefeumque >» Comicum illuci Carmen
le- ftionc parcarro, ipfa fe mihi » antiqure Poefis facies verert-,,
do, gravique afpc&u referar,» contemplanda. Egloga fafitrAie (in verfo
Italiano) nella quale Tìrfe pallore invitato da Bauo capraro» piange la
Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di DAfm bifolco. Quello
componimento fu inferito coll’ altre fue ogere nella riftartipa di Verona
Altra Egloga (parimente in verlo Italiano), in cui parla Batto Capraro
folo. E quella altresì fu llampata coll’ altre fue Opere
Pharmaceutria U4* )• De mtTU Anche quella Compofizione, che è
di clxxvil. verlì Latini, fu unita alle altre fue Opere nella
riftampa di Verona (244): e perchè nel Codice v’era Tom. I. a
car. \ffripfft, quifquis ille fiat,
qm Tom. I. a car 375. \titulum aididit, non ertim ei,m À Gli
eruditici ini Signo- arbitror effe a manu Io. Gìor rì Volpi di Padova, i
quali fic- gii Trissini, quei» come aveano ideata Una edizio- ÌGracas
litteras egregie caUuìJne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The ocn (
comc è detto nella Prefazione) J tum che ineptì hanc E- Fracaftoro.
tlogam
PiiAUM aceutri am in- (T Tom. U a car. IOS V’ erano alcuni
vani? perciò dal foprammentovato Gafpare Tri ss ino eruditamente furono empiuti
> e quivi fi veggono contraflegnati con carattere diverfo. Encomium
MAximUiàni ctfarit . Sta quefto altresì coll’altre fue Opere della detta
riftampa. Due Epigrammi latini. 11 primo di quelli Epigrammi
(i quali furono dati a luce parimente in detta riftampa (245); fu
fatto dal Trissino in morte di Pulifena Attenda, Celcnate, piagnendo egli
in perfona del Marito* Quefto fu tratto da un libretto ftampaco in
Venezia» in cui fi legge anche un’Orazione di Jovita Rapicioj da Rrefcia, detta
in Vicenza in morte della ftefla. L’altro Epìgramm* è quello, che s’è riferito
al di fopra, fatto da lui prima della ultima fua partita dalla
Patria. Tom. 1 . a car. più nella Seconda Parte, a car. Qucùo
Encomio è di CHI. Vcrfi 63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello eroici latini,
e comincia Cosi. Specimen Paria Ut ceratura, &c. Heor.rn Jì fatta
mihi, laudcfvo Btixia 173 9. 4. pubblicato dal -Dei-rum non meno per
dignità, che per Quandoq; ut ctlebrem permit - virtù inorali, cd
intellettuali tii carmini Phàebe, Eminentiffimo Cardinal Qui.
En tempus, ncque fallar, a- fini : e nella Libreria Ere defi} &c.
feiana di Lion ardo C o^z^ando,
Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq. per Gio: Maria Di
Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove fi trova latta menzione neli,
£’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice, colano del Varchi a car o che fu
lcctore di umanità in Vili ella Scan zia xx 1 1. della Biblio- j ccnza .
tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione m. Digitized by
Google tio L a Vita Alcune poetiche Latine Compofizioni
del Tr issi no non inferite nella fuddetta riftampa di Verona, furono ftampate
nella Scambia XXIL della Biblioteca Volante- di Giovanni Cinelli ( MW
• Quelle fono primieramente due ode; dopo cuifeguitano due evitati
in morte dì Vincenzio Magre, fuo caro amico j e appreflfo feguita un
epigramma ad fonticuium /: e finalmente una Compofizione intitolata leges
conviva les . L’Autore di efia scam.i a nel luogo citato dice»
che quefie Poefie ad intelligenti, che le hanno vedute, fembrano cofe
fatte dal TnissiNO ne'fuoi pii* giovanili anni: ag>» giungendo, che il
il Codice, onde le trajfe, benché fia ferie to net 1500;, mofira che già
inclinava al fine il fecole, ed in confcgutnz.a molto tempo dopo l A di
lui morte. DÌCC 1U oltre, che U Copifia era poco intendenti del Latine -,
per. che vi fi trovano > alcuni errori, che mai fi poffono ’
attribuire a n illufire Autore. xxxrn.' A
car. c 81. E‘ mentovata da noi all’ annotazione in. {
ajo) La prima di quelle Ode comincia: Du&urus aurum nobile
per Mare Carafve gemmai n avita fluttibus
Non ante fe cautus mari . nis Crederet, et rapidi s
procella 8 cc. L'altra' ha quello principio: Pulcher o
Sol, qui nitido s dies &' Das, et idem fubtrahis, a eque ter
rie Humidam noSlem *. et placidam quietone Riddi:
avarie Sic. Quello Epigramma è diverfo da un altro dal noftro
i Aurore Grecamente compollo fopra il mcdcGmo fuo Fonticello di Cricoli,
il quale di fotto regiftriamo tra le fuePoefie non ancora date a luce 1 VOLGARIZZAMENTO
.dì alcune Ode MQrazio* Quelle noi non le vedemmo» ma follmente ci
atteniamo .all’autorità del Fontanini {252), e del •Quadrio )1 il primo
de'quali dopo avere regiftrato un libro intitolato: Odi diverfe d'
Orario volganzjzate da Memi nobilitimi ingegni, e raccolte per
Giovanni Nar ducei da Perugia : fy Venezia, per Girolamo Polo. in
40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga fi datori fora XIJ. ai le f
andrò Cofanzo, Annibal Caro Cosimo Mortili, Curzio Gonzaga, Domenico
Venitro, Francefco Veranda, Francefeo Crìftiani, GiovangIOr cio Tri «ino,
Giulio Cavalcanti,, Marcantonio T ile fio. Sir . Jorio ELOQUENZA
ITALIANA, a alleai»»? di luì ftampate in 5er‘ Car falla fola autorità del gemo per Pietro Dance
dotti I7JX quale viene riferito quello libro in 8. a car. xxtv. tra le
opere anche nella Biblioteca degliauto- del Vcniero regiftrando anche
la ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di alcuneOde dtO«nferita nel
tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta, taluna dice, » della Raccolta
Calogeriana alla di quefte fi trova fiammata in un yoceOrazio, dovr
ai tomoxxiv. I libro, che io mai non ho potuta 3 ° 7 * f' sggiange ;
libro avere, e che ha penitelo : Odi rari fimo, che non ancora abbi*.
.diverfe ec. che è il libro da noi mo avuto incontro di vedere . ;
fopraeckato, E pure grande Tappiamo cffcrc 1 ( 25+ ) Veramente il
Signor ìiata la diligenza del P. Paico- j Anton.Fcdcrigo Seghezzi,
di m, autore di detta Biblioteca, 'chiara memoria, nella Vita del
per ritrovar un tal libro. [Caro per lui dottamente ferir V 2 J 3 ) Storia e
Ragione dì ta, e premcfTa alle lettere delio ogni Poefia-, tom. 2. lib.
t, Dift ! ftcflfo dell’ultima edizione di I. cap. vili. Particcl.iv. a
car. I Padova, apprejjo Giufeppe Comi* 394. e falla autorità di lui il|m>
. in 3. tomo primo, benemerito delle lettere Sig. Ab. niente dice, che il
Caro tra1 icr-Antonio Serrani nella Virai dotte aveffe Odi eli Orazio, di
Domenico Venterò, premeffa I uà La Vita torio Quattr ornarti,
e Tiùerio Tarfia. L'altro pòi riferì' fee medefimamente quefta
Traduzione, cd edizione, e i nomi degli fteftì Volgarizzatori. OPERE In
prosa non istampate. YV IV T\ UE ORAZIONI di Sereniffidee Mente di
re. JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed dir*"™ imgoftn
riedificazione delle J*e Mora.. ORAZIONE, ovvero ARINGA ( dettata
in lingua Lombarda) de, e. 2 M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘
^ V,.ni,d di de,,. Terre. Di quella Orazione s e già
favellato a baftanza per entro quella r „. . Breve Trattato ài
Architettura, coirai cune Piante di Edifizj fecondo le regole di
Vitravio.. Di quelloTrattateli, abbiamo fatta meuzione nel principio di quefta
r,ta IMD TRATTATO intorno ‘1 Mero
Arbitrio. Due lettere latine a Monlignore Jacopo Sadoleto. .
fopra paj- 8. annot. IJ. :I7$ Un Volume di lettere, fcritte a
molti ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo, tra le quali molte ve n’ha
da Soggetti cofpicui, e da dottiflìmi Letterati fcritte al T RrssINO ;
ficcome altresì ve ne fono di Principcfle, e di Dame illuftri di quel fecoio .
Da quello Volume fono -Hate eftratte dal Signor 'Marchefe Maflfei
quelle, che leggonfi inferite nella iu a Prefazione alla riftampa delle
Opere di Giovangiorgio» nella •quale egli nomina anche alcuni di
que’Soggetti* 2e Lettere de’quali indiritte al T RlS jrN© trovanfi nello
ftelfo Volume* e di quelle Lettere-, tanto llampate, quanto manuferitte,
ci fiamo noi fpezialmente ferviti per compilare quella vita . Gli
Originali di tutte le fuddette opere in Prof a manuferitte (fuori de\Y
Aringa) > e delle feguenti pur manoferitte in Verfo, fi confervano di
prefente apprelfo i mentovati Signori Conti Trilfini dai vello d'Oro,
difeendenti dal nollro Letterato 1 le quali tutte fono Hate con molthTima
diligenza raccolte, cd unite in due volumi in foglio dai Signor Abate Don
Bartolommeo Zigiot-ti, che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce
ne •ha data contezza* e ci ha proccurato la comodità di vederle.
Due LETTERE Volgari al molto Reverende Mejfer Hieronymo di Gualdo
Canonico . L’Originale di quelle Lettere, (le quali purcnon fono tra le
fuddette)* fi conferva prefentemente nella Libreria P
de u 4 tfc’PP, Somafchi della Salute in
Venezia, in una raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co:
Gualdi ; donde anche furono eftratte quelle che fono ftate pubblicate col
titolo di Lettere dPUomini Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin
fiampate L’ una di quefte due Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza
data OPERE he Venezia, nella li della Madre di Dio a
canili. Stamperia Baglieni, della Prefazione al fuo S. Pier edizione
p roccarata, e di note Grafologo ltampato Venetiis acorredata dal più volte
nomi- pud Thomam Bettinelli nato P. Paitoni. fol. „Ne... ingratiffìmis
quibufLa notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau. due Lettere ci
fu comunicata «datura iri non panar ci. et dal fuddetto P. Paitoni, a cui „do ut dr
eorum fibi gratiam cónciliarit y et magnani apud omnet auiloritatem
. Digitized by Google del Trissino; 117
Ìli Italiano ) In Vicenza per T olomeo Janiculo da Brejjfa >
mdxxix. in foglio. e ( col Dialogo del CafielUno ) In
Ferrara ter Domenico Mammartlli
in 8. e (nella Galleria di Minerva, parte feconda, a car. 3
5 *) InVi inezia preffo Girolamo Albrix.z& > 16 $6. in
foglio; e finalmente coll’altre fue Opere in j 5 ? tona
H Libro è dedicato da Giovambatifta Dona a l Cardinal de’
Medici. Si dubitò per lungo tempo ^ fe Dantè fia ve* ramente
fiato autore del tefto Latino di queft* Opera, di cui a tempi del Tr.
issino niuno v’ era, che ne a vette contezza. Egli fu il primo a
pubblicarla in Firenze, allora quando vi fu con la Corte di Leone X.,
come dice il Fontanini, il quale anche lungamente favella di molte
letterarie contcfe, alle quali die motivo la pubblicazione del Libro fteflb, che
finalmente fu riconofciuto per vera fattura di Dante . Ma cosi non
poniamo noi dice del Volgarizzamento, di cui e fi dubitò, e fi dubita tuttavia,
f e fia del Taissinq: e non oftante che tra le fue
Opere (a6i) Tom. 2. a car. 141. 1 ( 262 ) V. il
Fontanini nell’ Eloquenza lui. dalle car jjy. I tino alle car. 246.
e ndl'Aminta di Tajfo difefo ec. In Venezia 1730. per Stbaftia •
noColeti, in 8. a car. r Opere d annoveri, molti letterati vi Tono,
i quali affermano non effere di lui . Tra quefti fpezialmente v’ha
il Cavaliere' Zora, il quale nel Difcorfo /ofra r- opere del noftro
Autore {26$ )> dopo aver regiftrate le Opere di lui in Profé)
dice di ommetter la verfione de’ libri de vvlgari ELOQUENTI A di
Dante, torchi non li giudica tradotti dal Tri ss ino, nté fatalmente da Lui
fatti /lampare', aggiugnendo, provar egli ciò con buone
ragioni nella «m del me defimo Tjussino da lui fcritta A car. xj>o. a tergo » ciò
riferito il titolo nella Prefa-,c feguenti» . Jljj ;altro ci
fcmbra affai frivola, perciocché moke altre opere del noftro Autore han
tralafciato di regiftrare quefti Scrittori.) Oltre a ciò dice, che
effendo detta -verfione malamente dettata in Italiana favella, farebbe!! perciò
«* affronto patente ai. la fempre verter abil m (moria d’O.,
aggravando, . e sfregiando ing'mfiamente la fua reeognizione, col?
attribuirgli un lavoro male intefo, t malamente tradotto-, facendo
anche offervazione, che non d’O., ma da Giovambatifta Doria,
Genovefe, è ftata quella Traduzione dedicata al Cardinale Ippolito
de' Medici, con dirgli nella Dedicatoria, che Dante Jiccome ave a ferino f
Opera fieffa in Latino idioma, cosi la trafportaffe nell'Italiano.
Soggjllgne di più lo fteffo Signor Cavaliere, che fe Giova NG ioRGio
foffe flato l’Autore di quella verfione, e’ non l’avrebbe poi allegata nel fuo
dialogo del Gabellano a fua difefa, come fe foffe fiata Opera di penna altrui
Que- X B, . .1 M Fontanini neH’£/equenza Italiana a car. 10A. diffc,
eflere ftata la detta veriionc pubblicata dal Trjssino ; c ’l Muratori
nella Prefetta Poefta Italiana tom. prim. a car. 2 3. della edizione di
Modena Il T r 1 ss 1 ho nell’ accennato Dialogo fa, che
Gio. vanni Rucellai lotto nome di Caffettano dica ad Arrigo Doria
quelle parole: Deh per vofra gentilezza M. irrigo guardate un poco nel mio
ftudio, e fende, che il libro portate qui il Libro della VolDe Volgari
Eloquenti* trafporta-\gar Eloquenza di Dante tradotto in Italiano, fu dato alla
Ite- J to in Italiano . et dal Trissimo. ! no Quelle, ed altre
rimili ragioni adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi no non fia {lato
l’Autore di tale Volgarizzamento i alle quali aggiugner fé ne può
un’altra piò torte, cioè, che fé egli non ebbe alcun riguardo a
pubblicare, come è detto, in Firenze il tefto Latino di queft' Opera col
nome di Dante, Tuo vero autore, molto meno l’avrebbe avuto a iar
fapere? che fua propria era la traduzione Italiana*, e manco avrebbe
comportato, che il Doria nella Dedicatoria al fuddetto Cardinale dieeffe,
che Dante (il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera fteffa in Latino
compofe, affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì li, Provenzali, e Pranzo
fi) la TRASPORTASSE ancora nel r.oftro Idioma. Anche il
Fontanini U, con aggiugnere, che il noftro G io va n Giorgio net
pubblicare quella ver bone; fi f* r ì fervùo de\ fuoìcarat. t tri
Greci, perchè da lui creduti migliori per Pefprejfione perfetta di noftra
Italiana favella . Con quelle ragioni, e con altre, che ommettiamo a
motivo di brevità, foltengono i predetti Scrittori, non elfer del nollro Autore
la fuddetta verdone; e ’1 Signor Marcitele Maflfei fe la fece (lampare,
come abbiam detto, tra l’ altre lue Opere, non però di meno non dice»
elfer cflà fattura di lui. Comunque fi fia, abbiamo giudicato
miglior cofa elfere e non porla tra le Opere da lui fenza dubbio
compolle, e non tralafciare affatto di regillrarla, sì perchè va attorno
col nome di lui» e sì ancora perchè avvi qualche fcrittore> che la
cita come di lui fattura. R ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io. Georgio
Trusjno confcriptum . In fine leggonfi quelle parole : Ha* fìrhfi t*fi
dtpepulationtmUrUt Rome, dum Le. lattee tram apud Remp. renet am prò
Clemente rii. P.M. Quello Componimento non è mai flato Rampato 5 cd
una ( rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma Stor. e
Re. manuferìt. a car. 294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I. lib.
VeggaG il Qua dr nè da niuno certamente fi sa, dove effe fi
trovino di prefentev e non oftante che abbiano detto i predetti
Tommafini, e Beni, che allora fi con-[V. fopra a car. jr. f Trattar, dell' Orig. Prefazione alle
Opere * ec. tib. a. manoferitto a car. tc. z ar. xxxi. jj. Elegia
&c. a car. (180 ) Difcorfo ec. a car. 44»» D’O. ;i2,y fi
conferva vano preflfo i fuoi credi (28O? pure quivi certamente non fono.
Anche il Doni veramente ne regiftrò il titolo fenza più nella seconda lì.
ireria ( 2.8ì )* ma con quella differenza? che T ultima d’efle Opere fu da
lui chiamata Frontefpixio delle clone. E benché nel principio di quella
fua Opera dica il Doni di aver mejfo
infiemt tutti i Cicalai tri da sé veduti a ferma, de’quali 11 C aveva
avuta notizia j e benché foggiunga? che di tali litri etmfofii (e
regiftrati in detta fua Libreria, fochi c’credeva fodero per elfere
ftampati» con con ciò fofle colachè erano libri rari, e inma.
no di per fané, thè non li voleane dar fuori, mapiuttofio ardergli
: nondimeno ci accordiamo volentieriflìmo colla opinione del
Sig* Marchefe Maffei intorno a tali Opere? cioè che non fi fono vedute
mai ; ma che iono Hate alcune per equivoco, altre ridicolmente
intitolate. E crediamo parimente, che lo fteflfo fi debba
dire d’un altra Opera dal medefimo Doni, e dal Tommafin.
loog. eie- ! Nella Lettera, die egli jQfud Comitcs T rijfnos iffius i'
colla fua lolita bizzarria intitoFi are ics affervantur : La Bafe la A coloro
che non leggono, a del Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io. eli.
fc. lQ0g.cit.L4 Bafe del Chri- 1 {'184) Prefazione alle Opere
Jtianoec.con altre Operette ferie. 1 ec. a car. xxx 1. te in prò
fa, fono in Caf a de’ fuoi' (285) In un’ altra Opera, io Utrcdi.
cui regiftra le Opere ftampatc La Seconda Libreria ài Autori Volgari,
intitolata.' del Doni ec. Jn Vincgia 5 jj. La Libreria del Doni
Fiorenti. in 8. a car. 91. i no, nella quale fono ferini cut ti
ili Digitized by Google I2 c dove ftampata 47
-»-? 4 Meliini ( Giovanni) pittor celebre non fece il Ritratto del
Trillino. 64. effo Ritratto premefTo a quella noftra Opera perchè
adornato di quattro differenti corone poetiche 107. fua morte 6J.
Bembo (Pietro Cardinale,) lodato 4. ». 4. fue EpiftoU dove Rampate 23.
».40. citate 24. «.41 due di effe fcritte a nome di Leone X.
riferite a 3. e feg. fcrivc regole di noftra lingua 69. fa
autore il Trifsino del verfo fciolto 88.». 17 6. fue Rime
pubblicate per opera del Sig. Ab.Sertaffi citate 102. ». 225.
rifponde nellemedefimedefinenzea un 5onerto del Trifsino. Beni ( Paolo ) fi crede autore di
certo libro. 3. ». 2. filo Trat- Favola delle Cofie Notabili.
12.9 T ruttata del? Origine della Famiglia T rijfino dove
Rampato . ivi. iua erronea opinione incorno al Trillino 6. e intorno all’
ifcrizione dclfuo palazzo nella villa di Cticoli io. nora di
malevolo ilGiovio 4*. n. So. fa il Trillino autore di «ree opere . 51.
». xoi. 1 1 J.a fegg. fina al fine . lo fa fepolto pel
Depofuo del L afe ari 59. n. 114. parla con lode di Bianca
feconda moglie del Trillino 48. ». 95. citato 4. ia. ». 23.
23. w.41. Benrivoglio ( Ippolita ) a lei c indirizzata
un’ Ode latina dal Trillino 115. Bergamini imitò .con
poca lode la manieradi Ceri vere tifata dal Trillino •
Bragia ( Marco ), Con Agli e dell’ Accademia Olimpica vi mette un
SoRituto ». 28.48. Buonaccorfi . Vedi Montemagna. c
C Arco trote, a ( Demetrio ) fu macftro del Trillino nella Greca
letteratura. 4. dopo morte gli è dal medefimo eretto un Depofico con
Epitafio in Milano ivi. lodato dallo RefTo nel fuo poema dell* Italia
Liberata . 6. ». io. Calogeri ( P. D. Angelo ) lodato per la fua
Raccoltad'Opufcoli Scientifici, cc.lll.e / allog. già nel Palazzo
del Tri di no nella Villa di Cricoli * e quando . 12. ». 23.
fatto Cardinale * e poi Papa col nome di Ufbano VII. ivi .
Suo Bullo in pierra collocato in detto palazzo con ifcrizione, e quale,
ivi. Cartellano, uno degli interlocutori del Caflellano del Tuffino,
chi Ha ? t perche così detto 70. • ‘ Cavalcanti fu® Giudizio /opra
la C anace cc. dove ftampato
(fuo volgarizzamento d' alcune Ode d* Orazio, tu.
Centanni/) ( Valerio ) fuo curiofo Sonetto al Trinino, riferito 40. ».
7J. Checozzi (Canonico Giovanni) illuftta un luogo- del
Poema delle Api di Giovanni Ru* celiai, a difefa del Trillino 51.
rat 01. chiama pio e ca/tigato il Trinino 93. ». I9T. Chiapino Vedi
Bar- bar ano . C biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell*
Infatti* &c. Antuerpix ex officina Plantinian* 1632. in 4. )
-non mette tra’Cavalieri del Tofon d Oro il Trinino 4J. e fegg. ».
88. Cindli Vedi Raf- ie. Ciria{ Gìufeppe
Maria) Tua Ode latina in lode del Tuffino, ri- H
CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y 0 'J?%tfix doic^ftLpata ledici
antt t,cn .' - f :i te _ CoRoza, Villaggio deiscenti-, arre poetica
- J »* « £lo, ' A m famo'o Covolo vie- Ilo latino de
c.^1uon a «I"f |i 11-1 breria Brtffiann love Rampa- »o.
* 4- da cbi .Btoccurateiw. Coment* j dove Rampati }4-| e /^', .
pentiluomo ir. 6o. fa il T tiffino il primo, Dw-tfo ( Ermolao U
Martbcfa di ! Mantova ringrazia il TrifTi- 1 no per certa
Canzone man datale . 29. e feg. lo invita a fe, e perchè . ivi.
efaltata nei Ritratti del Trillino. 39. » 50. lettera a lei fcritta
dallo ftclTo, citata F arnese a lui viene indirizzato un
Sonetto dal Tuffino, c dóve fi legga. ( Rannuccio Cardinale )
grande amico del Tuffino, j j. icrive allo fieflb una lettera d’
ordine di Paolo HI. ivi ». 108. dal Tuffino gli è dedi- cata la
Commedia de’ Simu- limi. io 6. Sonetto dal Trif-i no a lui dove fi
legga fioretti (Benedetto) V.
Nifieli (Udcno). Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif-
(acciamente cc. dove Rampa- ! to 35. e feg. feri ve contro
a! Tuffino . ivi. e 37. ». lo taccia di ufurpatore . 36. e fg.
n.6j. quanto falfamcntc . ivi. fcriffe piuttofto per giuo- co, che
daddovero. è citato nell’ Ercolano del Varchi ivi . citato
68* Fontane delia Villa di Cricoli lodate dal Triffino con
lati- na poefia. ito. e con un c- pigr .mma Greco ivi ». Fontattini
( Monfignor Giulio) fuo libro dell' Eloquenza Ita- liana dove,
Rampato 35.» 64- Efami fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc
dal Si g. Marchcfe Mattici. 43. »j 84. difefo da ccnfura dello
lìdio 46. ». 88. chiama Novell 10 Cadmo, e Cadmo Italiano •
11 Trillino 39. giudica in- venzione di lui 1’ ufare la Z, in
vece del T. ivi. fuoi sba- gli. 69. ». 129. 71. e feg. 83. e f e
ii- . critica V Da- lia Liberata 93. non viene confermata la fua
ccnfura dal Catalogo della Libreria Capponi ivi. ». i9i. riprende
il Marchefe Ma Aci 94. « 1s2.il quale gli rifponde ivi. Vol-
garizzamento d’ Orazio da lui riferito, dubbiofatnente da noi
riportato . ni. Aminta del 7 affo da lui difefo ion le
Offervazietti d' un Accademi- co Fiorentino dove Rampato li luogo
ambiguo di quell' Opera lai. ». z6g. fua oppimene circa il iraduc-
tor del Libro de Volgari Elo. quentia di Dante. 120. e feg.
Fortunio (Francefco) feri ve re- gole di nollta lingua. 69.
Fracafioro ( Girolamo) amicif- fimo Tavola delle Cofe
Notabili. 1$; fimo di Giovambatifta della loda la Sofonùba ivi . la
bi*. Torre. 10S. ».. fimaS9. come gli rifpondail
Francefco I. Re di Francia, è Malici ivi. critica/’ balia li-
fatto prigione dell’armi dell* berata 94. nell’ Orbecchc la au-
Imperator Carlo V. e ’1 fuo torc il Trillino delle Trage-
cfcrcito feonfitto. 40. gedic ferine in Italiano 7 9. Erancefì,
feonfitti dall’ armi di come pure del verfo fciolto Carlo V.
Imperatore, c cac. 88. ». 17 6. fua lettera dove ciati d’Italia,
ivi. fi legga ivi, citato 90. ». Franti ( Adriano) V. T t tornei. (
Lilio-Gregorio ) fu con- G difcepolo del Trillino nel-
lo Audio delie lettere Greche. G aza (Teodoro ) nominato 4*
ne fa menzione in certo con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino
poema . ivi. ». 4. rata 6. ». io. ! Giulio II. Pontefice, fua mor-
Gemi/lb ( Giorgio) nominato al- ! te quando fucceduta 13.
tresi con lode nella Refluivi. 1 G abbi ( Agoftino ) fua Scelta
Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo' ài Sonetti cc. dove publicji- Teatro
d'Uomini letterati. Ve-\ t» 100. ». aij. nezJa perii G aerigli; Gonzaga
( Curzio ) fua tradu- non regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde
d’Orazio, Trillino il Volgarizzamento j citata ni. di Dante
de Fulgori Eloqucn~ j ti Gragnuola (Prete Francefco) tia. 118. j fu il
primo maeftro del Tril- Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3.
lettera a lui fcritto le., | dalTriffino ove fi legga ivi.
Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni- { citata 13. ». 26. ai. ». co
) Compilator del Calalo- 1 ». . go della Libreria- Capponi .
Gravina ( Vicenzio ) fua Ka > Vedi Capponi., ' ' I adone Poetica
dove ftampata Giorgio (Gio: Lorenzo) Noda-| 93* »• 191. in efla
loda il ro Veneziano 52. » 101. Trillino itti, fa grande
ftima Giornale de’ Letterati d’Italia del di lui poema dell’
Ita- ccnfura il Cafoni 101. «.228. 1 Un Liberata. 97. non decide fc
alcuni Soneui Gritti ( Andrea ) Doge di Ve- fieno del Triffinoio4.
9.231.) nezia, quando vi tulle elcr- lo fa bensì autore dell' in- 1 to .
30. gli è recitata in tal venzionc del verfo fciolto occaltone
un’Orazione con- 82. n. 167. gratulatoria dal Trilfino a
Gìovio (Paolo) tacciato di ma- nome della città di Vicenza, levolo
da Paolo Beni, c per- 31. citata 67 . 73 e feg.76. fua che . gli è fcritto morte quando feguita 30.
un Sonetto dal Triffino. 102. »-JJ. dove fepolto, e con Giraldi
(Gio: Battila ) fuoi Dif- qual Epitafio ivi. cerji dove Campati 7S. ».
tj8- Grato (Luigi) fuprannominat» i Cie. Tavoli, delle
Cieco. £ Adria, filo grotto sbaglio . 58. ». in. Gualdo
(.Girolamo) due lettere dal Tuffino aldi' fcriue » ove. liano - 11
3. e feg.. - ( Paolo ) fua Vita- di Andrea Palladio dove fi
legga 9. Lettere Originali a’ Guai* di dove fi. confcrvino- IV}e
feg. Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5 fcriflc colè gramaricali
io lingua Latina. 7J. Guicciardini- ( Franccfco ) fuoi
Quattro libri della fua Storia ( nott pia fiammati.. Venezia ftr
Gabriel Giolito 1 ciati
Guidetti. ( Franccfco ) fua rclazioae a Benedetto. Varchi,
. ccnfurata. H I ! . H a y m (-• Nicola-
Franccfco ) fua Biblioteca Italiana dovei Rampata I liingo, o fia
confonante, trovato dal Trillino > e abbracciato dagli Scrittori
an. che Fiorentini. 39. ». 73 Jjenicol» ( Tolommeo ) folito
Rampato» del Trinino .lai. Imperiali ( Giovanni ) fuo Mufaum Hifioricum
dove Rampato . 6 . ». 11. dove il fuo Mufaum Phyficum 8. ». 17fua erronea
opinione intorno ai primi Rudj. del Triffino.6. e intorno ad Andrea
Palla, dio . 8., loda il’. Tuffino . éj. ». lift. c il di lui
poema Co fé Notabili. deli’ Italia Liberata citato-
Ingegneri fua Opera della Poe fia Rapprefentativa ec. dove Rampata
78.». 157loda la Sofonùba. del Tuffino.. *»»• licrizione al
Sepolcro del Calcondila dell’Accademia Triffina attorno alla porta del
Palazzo del Tuffino inCricoli io., a che fine vi. fotte collocala .
. al BuRo di Vrbano Villa. »•»?•• — «1 sepolcro di
Andrea Gritti Doge. 30. ». J3al Sepolcro del T tifiino da lui
fòrmatafi, ma non. metta in ufo» e perchè. 56.., altra, in forma
diElogioéi IL L ascari ( Giovanni) nominarlo con lode nell
Italia /*barata ». io. ove fia. fqrpolto. . »• 114àttere di XIII - Uomini
illit~ftri dove Rampate n. ». 23. d' Uomini Illuftri dei Se.
colo XVII. dove» per cui ope. ra pubblicate» c donde cavante XM* »•
Z S 6, Libreria Arobrofiana 52^ ». io»j. - Bertoliana
di Vicenza 3. ». a. chi nc è. Bibliotecario ivi dei Nobili Uomini
Pifanj in Venezia ; conferva la prima edizione rariffima della
Italia liberata da’ Goti PI.. de’ 13 ' de’PP.Somafchi
della Sa* I Maffei ( MarChefe Scipione ) >b* Iute di Venezia,
confervava un MS.-de'Trifftni, ed uno del Beni originale7. ». 1 5.
con • fervagli originali di . olcilfi • me Lettere fcrittc
a’Gualdi .114. '• j - dei detti PP. di SS. Filippo, e
Jacop > di Vicenza conferva 1” Aringa MS. del Triffino 47. n.91.
e una eradazione in latino . MS. della Sofoniiba78. «.157. Vedi C Apponi
. Colando . Plutoni . Rude. Zeno ( Apportelo ). Lombardelli
(t'razio ) lettera di Torquato Taffo a lui fcritra • dove fi
legga 96. n 101 Lombardi (P.Giroiamo ) Gefui ta, citato 59. n.
114. Loredana \ Leonardo ) Doge di Venezia. Lettera del Ponrefi. ce
Leone X. a lui ferina, -e prefen taragli dal Trifòrio, riferita.
24. Leone X. Papa. Vedi de' Medi, ci (Giovanni).
M M acchiaveui (Faufto) Accademico Olimpico, in.
xerviehc a un Configlio. della fua Accademia . 28. ». 48. Madrucci
( Criftofano ) Card ni. Vcfcovo, Principe di Trento, introduce a
Carlo V. un meffo dei Triffino. 54. lettere a lui feriteci citate ivi 1
06. al lui c raccomandato Ciro 1 Trissino da 'Gioan.Giorgio
fuo Padre. 54. Mairi (Vicentino^ due Epigrammi latini fatti dal
Ttif- 1 fino, per la mòrte di lai do-, • ve fi leggano no.
dizione delle Opere del Trif. fino da lui procurata, premefiòvi un
Riftretto della Vita dello fteffo, citata foftiene, che il Trillino
valeffc nella Filofofia Platonica e Pitagorica 8. ». i^enore nel fuddetto
Riftrettodi luicommcflb 12. ». 24. fuo Teatro Italiano ci. tato 26
. ». 45. 79» c feg. n. 161.89.». 180. più volte ftam. paro 77. loda
la Sofonisba. la difende dalle altrui cenlure 89- loda la
Gramat iebetta del Triffino 69. e la Italia liberata e la invenzione
dc’nuo. vi caratteri 38, fua falla cppinionc intorno 1’ ufo che ne
avrebbe fatto il Triffino . VI. la fa autore del verfo fciòL to8l.
lo difende dalCrefcimbeni per una nuova maniera di Canzoni da lui ufata
106. interpreta fi ni Riamente un dettodcl Fontanini 46. ».
88. lo ccnfura giufiamente 43. ». 84. cenfurato da lui fc ne
Tifcnte 94. fuo E fame fatto all* Eloquenza Italiana dello fteflo
dove Rampato fue Offer. vazMtni letterarie dose ftam* pare 44. ».
84. lodato afferma non efierdi Torqua~ i I J/j
Tavola delle Co fe Notabili. quato Taflb certa Commedia che è
ftampata col nome di lui 107. Vedi 7 'ajfo (Torquato) . prova non effer
del Triflìno certa opera Latina 123. nè certe altre ridicole
compolmoni dn Malgrado (Vincenzio)
a lui fcrive il Trillino una lettera 4. ». 5. Mattiti (
Domenico Maria ) fuo detto cenfurato 39. lue Lezioni dove (lampare,
ivi. . Mattux.it} ( Paolo ) fua lettera a Bernardino Parremo
riferirà. . Marana( Andrea) imita con po ca lode la
maniera dì fcrive. re ufata dalTriffino. 3». ». 73 Martelli (
Lodovica ) fcrive contro al Trillino in proposto de Tuoi nuovi
caratteri. 35. fuo deteo coytrctto. ivi. ». «4.
Martintngo (Chiara) madre di Luigi Trillino primo marito di
Bianca feconda moglie di Giovan-Giorgio . Martiri ( Jacopo )
fua Jfioria di ricetta, dove ftampata z6. ». 4".
Maj]tmiiiatto, Imperatore, onora il TrifGiro. 16. fi crede, gli
abbia conceduto il Vello ef Oro . ivi . non gli falcia profdguir Certo
viaggio 18. lo rimanda fuo amb afe Latore a Papa Leone X. ivi . fua
lettera latina al detto Pontefice . 1 9'.»?-»47._fuo Specimen varia
litttrattcra dóve ftampato. ivi. ' R R aoona ( Alfonfo)
Accademico Olimpie o. Vedi Angioiello . • Rapido (Jovita) fua
Orazione accennata 109. menzionato da più autori . iviy ». 24.7.
fu Lettore di Umanità in Vicenza ivi. vicn chiamato Ra Cofe
Notabili. vizza dal Cozzando . ivi . Rccoaro, villaggio
del Viccntino.Vedi Comuni diRccoaro ec. Ridolfi ( Cardinal Niccolò
), Vcfcovo di Vicenza, eletto dal Trillino per uno de'Commiffari
del fuo teftamenco . J6. gli fono dedicate dallo Aedo le fuc Rime
101. Canzone del Trillino in di lui lode, accennata . 106.
Roma, Taccheggiata a’ tempi del Trifsino. 42. ». 78. 85.
Rojp ( Niccolò ) fuoi Difcorfi interno alla Tragedia dove
ftampati 2j. ». 44. citati 45. »• 88. loda la Sofonisba del
Trifsino. 2J. 7S. Rucellai ^Giovanni) fuo Poema dell ' sìpi
quando ftampato 51. ». 101* io elfo loda il Triffino. 8. ». 14. volea
fotte riveduto da lui prima di darlo in luce. 51. e 124. cosi le
fuc tragedie dell' Ore/?*, e della Rofmunda 123. e feg. luogo
ofeuro di detto Poema dell' Api illuftrato dal Signor Canonico Giovanni
Checozzi è grande amico del
Trifsino 17. rifponde a una lettera di lui ivi. dove efta rifpofta
fi legga ivi . ». 34. f*i. è Caftellanodi Caftel S- Angelo
50. * e con quello nome c uno degl’ interlocutori dell’ Opera del Tuffino, che
per ciò s’ intitola il Cafiellano. 70. a lui è intitolato il Poema dell’
Api. V. Rucellai ( Palla ). la fua Rau fmunda non piace affatto
al Varchi 88. corretta dal Trifsino 123. e feg. fua morte jo.
lodato dal Salvini 98. citato 2J. ». 43. 87. ». 174. $ % (
Pai . V 140 1“ avola delle Cefe Notabili» ( Palla) dedica al
Trillino li | poema delle Api di Giovanni 1 S filo
fratello, c quando 51.». ' 101. 87. lo fa autore del ver- qabellico
( Marc’Antonio) lofio fciolto 87. O dò in un fuo poemetto la £uele
(P. Mariano) Carmclita- Villa Cricoli, c quale 12. no, fua Stanzia
aggiunta al- 23. la Biblioteca Colante di Gio Sadoleto ( Jacopo )
gli fono vanni Cinclli, dove Rampata fcritte due lettere latine dal
$7' c f e t' n ' in. regiftra alcune Trifsino. iti. compofizioni dei
Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni ) più Rampate ivi . e 1 1 o.
fa meta- prefenta al Papa una Canzozione di J ovita Rapido 109. ne del Trifsino
31. fua lette. ». 247. ra al Trifsino, riferita. 32. Ruderi (
P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda un Breve dà feo . Sua 7
'ratina cc. dove Clemente VII. ivi . Rampata 4. rt.’j. da chi fatta
Salvini ( Anton-Maria) citato Rampare accenna Vili. 38. loda il Poema
dell’ T alloggio d’Vrbano VII. nel Italia liberata 98. e feg. e
P Palazzo di Crico/i 12. ». 23. Api del Kucellai, e la
Col vuole che Carlo V. f»cefle tivazione dell* Alamanni ivi.
Conte, e Cavaliere il Tri fsi- fu c Profs To/cane dove ftanv
no 43. e quando 44. ». 86. paté 34. . quanto in quello egli
s’ in- Sannazzaro (Jacopo ) uno deganni 55. ». 106. loda il gl lnterlocutori
del CaJleUaTrifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino 71. ca 73.
«.145. e la fua Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a media Ì07. ». 239.
accenna lei è dedicata un’Opera del aver il Trifsino icritti Infe-
Trifsino 67. gnamenti Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco )
edizio260. come debba!! intendere ne della fua raccolta di Orativi. zioni di
diverfi Uomini Ulte Bufcelli loda P /tri divifa in due parti,
cita invenzione de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa volte più
ri del Trinino, c del Tolo- volte pubblicata 74. ». 147. mci.38.
«.68. fua raccolradi in e da ha luogo un’OrazioLettere di Principi, ec. cita-
ne d’O., e quale ivi . ta . 42. ». 78. nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio)
lodapcr lui raccolte lì trovano to . Je. . delle compofizioni del
Trif- Savorgrtano (Giulio). una lettefino . 103. fuc note al Fu. radilui a
Marco Tiene ftabiriofii dcH’Arioflo, citate ivi. | lifcc l’anno della morte
del Trifsino. j8. «.113. Scaligeri (Mattino, e Antonio)
in qual tempo vi veliero. 71. Scamozzi (Vincenzio)
chiariffimo Tavola delle fimo Architetto . io. ». «.
difcepolo del Palladio ivi . di che non ne fa menzione nei Tuoi
libri ivi. Schio ( Girolamo ) Configliere dell’ Accademia
Olimpica, a chi foftituito 28. ». 48. . Vedi Angiolello . Terra del del Vicentino, manda Oratori
a Venezia a a chiedere un fattizio Veneziano in Rettore in vece del
Vicario Vicentino . 49, difefo da Baftian Venicro Gentiluomo Veneziano.
50. per. de in tutto, e per tutto, ivi. degli Scolari (
Franccfco). Vedi Bcccanuoli . Scotto nd fuo hi. nerarium ec.
parla dtlh AccademiaTriflìna. m. ». 22. Vedi da Cap ugnano.
Stghezii ( Anton-Federico ) fcrive la Vita di Annibai Caro in. ».
274. dove flampata ivi. non regiftra tra le Òpere di lui alcuna
traduzione dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a edizione delle lettere
diBcrnardo Tasso, citata Serra# ( PìcriAmoqiQjjpubbli. ca le
Rime del Bembo io». . e quelle de’ Venie» ledendo la Vita di
Domenico, HI. ». 2 JJ.Speroni ( Sperone ) Sue Opere dove ftampatc Giudizio
fopra la fra Canate da chi comporto, vedi Cavai, canti (
Bartolotnmeo ) . da Somacampagna ( Gidino ) primo Scrittoredc
11 ’ arte Poetica, in Italiano. 72. inqual tempo viveffe. ivi.
Statuto Vicentino citato ' feSS Strozzi
(Filippo) uno degli Interlocutori nel Cartellano . Sub a f ano . Vedi degli
Aromatari. T T Asso ( Bernardo ) edizione delle
Tue lettere ( proccurara da Anton-Federico Seghezzi ) citata aia.
loda 1 ’ Italia liberata. fue Lettere dove ftampate . 73.». 144.
96. ». 200. lodala Poetica del T tif. fino 7j. edizione della
Aia Gerufrlemme citata 87. e frg. ». 176. edizione di altre
fuc Opere ». aot. loda i’ Ita.,,
Ha liberata . 96. non è Aurore ( feconde il Sign. Marohefe Maffci (a) ) della
Commedia ("intitolata gl' Jtrichid' -S } Amo (a.) Facendo però
il Taffo menzione di certa Commedia, che andava lavorande in, Tua Lettera a
Giovambaiti'fta T.icinio, la quale fi legge a car. iff. del Libro
intitolato: Lettere del Sig. Torquato Tuffo, non più ftam . fate ec.
Bologna. por Bartelomto Cocchi quand’anche non fia egli l'autore della
Commedia degl' Intrichi d" Amore, di che per forti ragioni (e ne
moftra.anzi dubb>ofo, che no, l’autore della Prefazione alla
nobiiillìma edizione dell’-Qprrr di Torquato Tuffo in Firenze per li Tariini
e Franehi . iti Volumi m fol. viene a renderli affai vacillante la
decisiva temenza del Signor Marcitele, cioè non avere Tasso compofte
Commedie. Tavola delle Cofe Notabili. Amore) febbene porta il fuo ne
X. H. n. 31. vuole che il nome 107. fno Amine» da • Tri /Tino foffe
fatto- Conte, chi difcfo, vedi Font /mìni. t Cavaliere da Carlo V.
T»rji» (Tiberio) fuo volgnrìz- 43. fua cfpreflìone dubbiozamento d’ alcune Ode
d'Ora- fa. .». . riferifce unepì. zio citato uà. gramtna del Triffìno di
Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non fa menzione del ItalianodcH’ Arte
Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’ Elo. c quando ivi. quenza di
Dante fatto dal T ibride » ( Antonio ) fua Lettera Trillino 118.
attribuifee al dìfcnfìvAi citata ( della qua O. molte Opere
non le fi tiene eflcre Autore il mai vedute. 124. loda laSo-
Sig. Arciprete Girolamo Ba- fonisba 98. afferma effere fta- ruffaldì ) .
1 io. ta rapprefentata con grande Tiene ( Giovanna) prima mo.
apparato per comandamento glie del Trillino . 12. fua di Leone X.
25. ». 47. «itato morte ivi . 12. ». Accademico .
Olimpico foflnuifcc ano » della
Torri che intervenga a fuo no- fua mone pianta dal Tri/fì- me a un
configlio dell’ Ac- no fu amico di cademia. citato Girolamo
Fracaftoro. ivi. 0. ifteffa. ; j T rape futi z.io (Giorgio )
noroina- Vedi Saver- 1 to con lode nell’ Italia libe- &»»no !
rata. 6. ». io. Tilefio fuo voi- Triffina Famiglia. Sua antichi-
garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà. 1. divifa in più d’ Orazio
citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han- Tolomci (Claudio) fcrive con- no
fcritto . 3; ». 2. Alberi tra il Trillino in- propofito tre di quella
Famiglia alle» dei nuovi caratteri fotto no- g«i . J. i difecndenti me di ^idriono -f
ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio alfabeto > e caratteri
da lui inveititi delle Decime di ai- trovati . 37. ». 67. citato
38. cune Ville del Vicentino. . 1 fan lite per rifcuotetle con-
Tomafini ( Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe Ville., lippo)
fuoi E log. yirar. Lit - ivi. vengono loro confifca- ter. t ir
fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime, e perchè . 1 j.. ve ftampati
. 1 1 J. . 1. fu pofledono l’ Opere manofcric- il primo a parlar a lungo
te del detto GiotGiorgio.nj. del Trinino . 111 . lo fa ftu- Trijftno (
Co: Aleffandro) lodato, diofiffìmo dell’ Architettura . Vedi la noftra
Dedicatoria . 8 .». 16. accenna l’alloggio di . (Alvifej primo
mari. Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca Triflino . 48.
Cricoli. ta. ». 23. regiftra un quando abbia fatto il fuo Te. franamento
di lettera di Leo» fomento, Co: An. 7 avola delle Ceft Nut abili. Iodato 48. ». 9 j. e .
Padre di Alvife, primo marito di Bian- ca feconda moglie di
Giovan- J Giorgio j. feconda Moglie di Giovan Giorgio, fuoi
ge- nitori . ». fua dote .
ivi . fuo primo Marito chi folle ivi. di fomma bellezza. ivi. detta V
Eleva del- la fua età. ivi. di lei parla il Beccanuoli, e dove. .».
- f“o Teftamento. da chi rogato . lodata da Giovan-Giorgio
confervava on MS. appartenente alla Fa- miglia Triflina. j.
n.tj.figliuolo di Gio- van Giorgio Trillino ammalato. 53., e feg.
porta allTmpcrator Carlo V. gli ul- timi diciotto libri
dell’Italia liberata di fuo Padre.raccomandato da Gio- van-Giorgio
al Cardinal Ma- drucci. ivi. figliuolo di Gì
ovan-Giofgto^aaoti^io va- ne. za., fuo sbaglio intorno a
Giovan-Giorgio O. . ». zj. fuo
trac-) tato della fua Famiglia, cita- to. ivi. e h. 18.
( Gafpare ) padre di Gio- van Giorgio O.. 2. mi- lita a fue
fpefe per la Repub- blica di Venezia . ivi. fua mor- te. 3. traduce in metro latino la j Sofonisba
di Giovan-Giorgio ! O.. . h.ijj. dove fi cenfervi. ivi. fi lamenta
con Scipione Errico, per aver que- lli criticato l 'Italia
liberata . una lettera di lui dove fi legga . ivi . riempie alcuni
vani d’ un’ Egloga latina di effo Giovan Giorgio non llabilifce
fempre nello fteffo anno la fua nafeita. 2. ». 1. nominato nell’
ulpi del Ru. celiai. 8. ». 14. fuo Sonetto riferito, e in qual
occafione fatto. 41. ». 7 6. fu creato da Mafsimiliano, c daCarlo
V. Conte, e Cavaliere, ma non del Tofon d’ Oro con altri privilegj.
quando. altro fiso Sonetto riferito quanti anni abbia fpc- fi nell'
Italia liberata . 53. e feg. ». 106. Suo Epi- gramma latino
riferito 5 7. ». in. fatto Brcfciano erronea- mente dal Cieco d’
Adria. 58. ». ilteffa. La fua Italia liberata è chiamata
erroneamen- te dallo Hello Italia il latra- ta. ivi . da una
iferizionc Sepolcrale riferita, appare ef- fe re flato Nunzio per
le iali- ne di Chiazza, e per la refti- tuzione di Verona, diche
in altri luoghi non ne abbiamo trovata memoria Catalogo delle fue
Opere ftam. paté, e MS. tanto in Profa, quanto in Vc.tlo.67 ., e
fegg. la fua Italia liberata, come e quando Rampata. 53. e
feg. . di quanti libri compofta. ivi . errori in que- llo
dclFontaniai, e del Com- pilatore del Catalogo della Li- breria
Capponi, ivi. ia pri- mi Tavola delle ma volta ftampata per
Privi- legio di Papa Paolo 4. w. . fi tentò vetfione del- la
fiefia in ottava rima. . le lue Rime dedicate non al Cardinal Ridotti, ma
a Leo- ne X. 101. lue Opere ad altri attribuite, cioè lette
Sonetti a' BuonaccorfiJ. 101. -e feg. uno a Guittone d'
Arezzo ioj. ed una Canzone all’ Ariofto ivi . fuo Ritratto
in- tagliato dal Sign. Franccfco Zucchi perchè adornato 'di
quattro CoroncPoetiche . fila Opera imperfetta da chi compiuta (
Giulio ) figliuolo di Giovan-Giorgio -natogli dalla prima moglie.
12. lette- ra di fuo Padre a lui, citata. gì. ja. »Cameriere di Clemente
Vii. poi Arciprete della Cattedrale di Vicenza litiga contra il Padre, e per- chè 49.
cui fa ftaggire le rendite viene da lui di- fendalo vince la lite
con tro di lui. ivi. Padre di Bianca, moglie di Giovan-Giorgio pubblica
un' Opera del P. Rugeri, c quale. }.«.ii. dove facciafc-
polto Giovan-Giorgio ( Co: ParmcMiotie ) Bibliotecario delia Bere oliana
di Vicenza confcrva copia del Volgarizzamento di certa Genealogia
di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la Dedicatoria Nipote di Gio- Cose
Notabili. van-Giorgio fece in un cogli alrri fuoi affini fcolpirc
un Elogio allo Zio, e dove . lo Beffo Elogio riferito Trinizio
a lui manda O, il fuo Cartellano forco il nome di Dona fua morte
pianta in un’ Egloga da Giov.n-Giorgio^ xo8- Consonante,
invenzione d’O., abbracciata dalla Crufca Faccari avea traf-
pottato in . ottava rima un Canto dell’ Italia liberata io. Val d.’Agno. Vedi Comuni di Recoaro
cc. Fate» ararla (Piero) va con O. a Venezia Orator per la
Patria Farchi edizione del suo Ercolano citata. afferma c!- e il
Firenzuola fende contro O. per giuoco loda la Sofonisba la biafima
fue Legioni) dove stampate loda l’ Italia liberata. . no» decide la
quertione circa l’ inventore del verso stiolto. mal inteso da Fontanini
edizione de’ fuoi Sonet. ti, citata «.a
Sonetto ad O. riferito ivi. loda Jovita Rapido citato F'ewimi Nobile
Veneziano, avvoca in Venezia a favor della Comunità di Schio con Tavola
delle Cofe Notabili contro Vicenza, e perde
( Domenico ) tuo Vol- garizzamento di alcune Ode rvr In cambio del
T da chi, di Orazio citato ut. fue Ri- j / j e come fi comincia ad
ufa- da chi pubblicate. n. 1 re . ZaccariaVerità Sonetto ai nio)Gefuira,
fua StoriaLet- lui foriero d’O., ove) teraria, dove ftampata. si
legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto- Verlati, madre di; lo Zeno
ivi. Bianca, feconda moglie del ' Zeno ( Apposolo ) ritratta la O. sua
Vita d’O. inferi. Vicenza, perchè detta Primoge- ta nella Galleria di
Miner vita della Repubblica di Veva I. e feg. fue Lettere dove
nczia quando fi fia Rampate citate donata alla flefla ivi.
manda c fegfquarci Oratori di congratulazione al j di lettere
ferine all’Autore Doge Andrea Gritti, e chi j di quella vita c ne
invia contrai munica all’ Autore varie noti- la Comunità di Schio dozie
per telTtrc quella Vita ve manda un Vicario a governarla ivi . è fatta piena
WI12. donde l’abbia giuftizia alle fue pretefe. J eflratte fuo
sbaglio conlerifce ad O. varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna
fue | Libreria a chi donata ivi. Differì azioni promeffe Vili. | fua morte
quando feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria con Rampato
ivi. I lungo elogio, ivi . non tcn- Volpi lettera) ne, che O. folle
piti a loi fctitja dal Sign. Cano- j per ufare i caratteri da lui
nico Checozzì iir-tèifcfa del' inventati non tenne per O,, dove fi legga
fattura d’O. certa operi. ioi. | ra latina citato (il fo j Vedi Giornale
de’ Let- praccennato)eGaetano fratelli) I rerati d’Italia, (del quale
cf. furono i primi a idear una edi- clfedone egli il principale unzione
di rottele Opere delTrif- tore con ragione a lui fi at- fino U. u Io- 1 ttibuifee tuttociò, che inef- xo
( Ifcrvazionc erudita fopra j fo fi contiene). il titolo d’ un’
Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier. Caterino So, fino m. lodato Vrbano
Vedi Cafiagna. j Zigiof ti 1 cfamina P Archivio de’ Co: Trilfini
conferva co- Tavola delle pia del volgarizzamento di
certa Genealogia della famiglia d’O. lede un’ Opera delle Memorie del
Teatra Olimpico di Vicenza citato raccoglie
tutte le Opere MS. D’O. lodato ZorzÀ fuo
Ragguaglio Jjlonco intorno ad O. MS. ci- tato IV. fuo Discorso
intorno alle Opere dello Kctfo, do. ve fi fcgga . tao. citato
nominato con lode del P. Ruelc, c dove in. fuoi sbagli difende O. per l’invenzione de' nuovi
caratteri loda la Sofonisba numera le cen-. fare fatte alle opere d’O. e
dove - at- Cose Notabili rribuilce certa Opera ad O. ufi-fua opinione
circa alcuni Sonetti, at- tribuiti a’ Iluonaccorfi non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza
volgare di Dame nò d’ un’ altra Opera latina lo crede bensì
Autore di certe Opere, che mai non fi fono vedute ivi Zucchetta ftampatore
quando cominciò a pubblicare Opere dai fuoi torch) Zucchi fua Idea
del Segretario,ec. dove ftamta intaglia il Ritratto d’O. premeffo a
quella Vita il Fine della Tavola. Gian
Giorgio Trissino dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua
italiana, filosofia del linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di
comunicazione, il parlare umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la
parlata dei genovesi, la filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la
filosofia del linguagio, only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oro”
-- Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice ed Orrontio: la ragione conversazionale e la
scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino –
cited by Porfirio.
Luigi Speranza -- Grice ed Orsi: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista –
la scuola di Palma di Montechiaro -- filosofia siciliana – filosofia italiana
-- Luigi Speranza (Palma di
Montechiaro). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palma di Montechiaro,Girgenti,
Sicilia. Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’
where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to
prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella
sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione
dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” –
e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come
atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o
cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica”
“Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a Domenico D’Orsi,
back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi is associated with
“Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many and varied – but
most notably philosophical psychology, which the Italians call ‘psicologia
speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have the great
Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning the old
Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s psychological
behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on democracy. I
democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has also ‘cured’
the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to study Napoli!”
Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa. As most
Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a book
that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia speculativa. I
can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing Lotze’s ‘seele’ as
‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa, are elementary enough
– but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo
animato, corpo inanimate) is interesting. But far more interesting is Orsi’s
unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be confused with
LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of reflections. But
mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as discovered by
Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and ‘sentito’
and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico – Spaventa
goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is the
processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by Orsi,
calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita reflessiva
del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s cold qua
processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies cannot FEEL
cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from say, HEAT.
And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a ‘unita
reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or represents, or
stands for the sensation itself. Domenico
D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa,
gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice ed Ortensio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice ed Ortes –
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del verso – la
scuola di Venezia -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Being
English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle,
but then they were never the first! Which is good, since they are Cambridge and
Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato uno dei più
dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore nell'analizzare dal
punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti come popolazione e
consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo.
Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un
sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni della proprietà che
interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed è considerato per
questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione. Malthus
prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo esponenziale,
quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate
camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia
nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio
della filosofia degli antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei
fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione
delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori popolari intorno
all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), Donati
(Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. Milano,
Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto i suoi studi matematici
influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente, come in
fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle
opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni
e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato
dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero
determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa
qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli.
Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o
dallaprofessione,come la milizia, le lettere ecc.,o da qualche prerogativa,
come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste
qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si
studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un
esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della
stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie
nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300,
quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti,
e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i
nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300
+ 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser
pretesto la virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il
valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si
deve prima d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre
un'opinione predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA
libera e la conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di
Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ; finalmente
l’ozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI E
DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire
di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni sarà
più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più
sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così
parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo saggio.
Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina che tutto
ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera
piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del senso, dei dolori
e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che
il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi
mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè il piacere
essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di
più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario -- come
l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc. Il
calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre
onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla stima
che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina,
professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento
indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne
abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.:
un ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per
rapporto alla felicità umana; — e riflessioni
sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto
alle lingue. Ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a
dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio
delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle, anche queste
intitolandole scienze ma dilettevoli, in contrapposto delle altre che chiama
scienze utili. Nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle
l'imaginazione. Quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il vero ma
elaborato dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il
lavoro dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol la scienza
del ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dalla traduzione di Pope,
perchè volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così
accresciuta in mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne
un saggio a sè. In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà
reale degli oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre
l'adito a discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso
della parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era
partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità
apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli
animi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo
autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si
può negare che osservazioni argute si tro vino spesso in O. anche in queste
riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane
per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura
assai noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua
prediletta in economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica
persuasione, non già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente
dice, che allora un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in America, come un tempo un romito potea
condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così.
Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e
perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto
all'indolee ai pregi della propria lingua.
Chi volesse calcare l'autore straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un
ritratto con soprapporvi isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando
il quadro in un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli
scrittori s'accordino sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui O.
osserva, che il miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi
starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai
perchè il suo talento comico fosse così ben rilevato nella lingua francese a
Parigi, come il e già in Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta
sembrerebbe anche gaio,come quando si lagna che, temendosi la fatica dello
studio, si trascurassero le cognizioni vere, contentandosi di dizionari,
giornali, compendi o altri repertori per dilettare, divertire, o come diceano, per
amuseare! È USO DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo
governisi da chi più ciarla, non da chi più sa, egli conclude: se chi pretende
governar altri senza render ragione del suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe
non men certamente chi pretende governarli per sola copia ed eleganza di voci.
Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui
cade a proposito, così egli, d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di
richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune, cioè gli interessi
comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali)
perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni
a'tempi de'loro bisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e
la ragione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi
trasandati fosse stata più riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel
che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di
sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i
tempi. Ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando
tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua
natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in
sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a
quelli dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della
comun ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se
ciò fosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto
innocente, tanto inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella
comun ragione, per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo
suo artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in
sembianze ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè
medesima. Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non
esercitarsi che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la
verità, la ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni
esterne di tempi molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed
interno di queste virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle
materiali loro modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor
senso e significato. Si pigli intanto O. in parola, poichè avrem campo di
trovarlo in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel
desso. Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso
libro, che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi,
da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora
queste meditazioni di filosofia. Errori popolari intorno all'economia
nazionale considerati sulle presenti controversie fra i laici e i chierici in
ordine al possedimento dei beni; Della Economia nazionale, parte prima,
libri sei; Lettere concernenti la stessa (oltre quelle che si hanno
nel • Custodi, quelle publicatesi in questo libro); Dei fedecommessi
a famiglie, a chiese e luoghi pii, in proposito del termine di manimorte
introdotto a questi ultimi tempi nella econ. naz.; Lettere in
proposito;Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto alla econ.
naz.; Dell' ingerenza del governo nell'econ. naz., publicato da G.
Fovel. Venezia, tip. del Commercio; Della eguaglianza delle ricchezze e
della povertà nel comune delle nazioni, publicato dal Cicogna.
Portogruaro; Riflessioni sulle rendite del Principato e sulle rendite
publiche in proposito di economia nazionale; Discorso sull' economia nazionale;
Popolazione perchè non cresca per l'agricoltura, per le arti e pel commercio;
Vari pensieri economici sull' interesse del denaro, etc. Tra gli scritti
d'Ortes nella Marciana. LETTERARI. Traduzione del saggio di Pope
sull'uomo; Saggio della filosofia degl’antichi esposto in versi per
musica; Riflessioni sopra i drammi per musica e l'azione drammatica,
Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi; traduzione dei treni di Geremia, nella
Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di publicati in raccolte; FILOSOFICI.
Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ [cf. H. P.
Grice, “Notes on ends and happiness”] umana; Calcolò sopra il valore
delle opinioni, e sopra i piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana,
Riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per
rapporto alle LINGUE, alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e
delle virtù, nella Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA. Vita
del P. Grandl, Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un
estratto di lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della
Storia; Venezia; Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle
carte; Problemi geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella
Marciana. Parmi che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da
trascurarsi per gli storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo
scorso. RELIGIOSI. Della religione e del governo dei popoli per
rapporto agli spiriti bizzarri e increduli de' tempi presenti, Lettere di
estratto; Della confessione fra i cattolici; Delle differenze della
Religione cattolica da tutte le altre (nella Marciana). POLITICI. Dell'autorità
di persuasione e di forza fra loro divise; Della scienza e dell'arte
politica; tutti due publicati da Cicogna. Portogruaro. Inoltre lettere, in
parte stampate, in parte inedite presso Cicogna, e le memorie autobiografiche,
publicatesi da Cicogna. Ometto i saggi che Cicogna indica solo come
accennati d’altri, e ometto pure alcuni saggi che Cicogna indica nella
Marciana, ma che in parte sono manifestamente cose scolastiche, in parte mi
sembrano ricordi sceltisi d’O. per suo studio, senza che si possano sicuramente
dir cose sue, in parte son cose del momento. Del resto non importa aggiungere
se non l'osservazione, che volendosi ripublicare scritti d’O., converrebbe far
collazione delle edizioni coi manoscritti, che servirebbero a correggerle e
completarle. Riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle
cognizioni umane per rapporto alla LINGUA. Degl’oggetti apprensibili, de’costume,
e delle cognizione umane, per rapporto alla lingua.\>atu jB>ttl{otFircac
vMtì^^trì |^ynel tcv nr{» {« tRomaine ^«.^ieKHot .i^rtfi|/j^»jmnaj;o,
L e frefentì rìfle$ont innò origine d’una prefazsonCy cb' io volea premenere a
un opuscolo filosofico, da me tradotto pili' anni innanzi dalla lingua e
poejia della Britannia nella dell’ITALIA; nella qual traduzione efiendomì
allontanato dalle maniere solite usarsi dagl’altri in simili casi, O crede
di dover di ciè render conto al lettore. Questo non puo lui fare senza
entrare a ragionare della divergiti degl’oggetti, de’costumi, e delle
cognizioni, quali pili corrono nelle diverse nazioni, e della attiviti e spirito
delle lingue diverse per esprimere tutto quefioy sia con precisione sia
con eleganza ciò che non mi riufciva mai ben di fare, ne' brevi limiti eh'
io m' era prefiPfo (f una Refezione, per quante volte in piu modi la
volgefil e rivolgevi in mente. Depofto pertanto ogni pensiero per ejfa ò
giudicato piu facile, anzi che jerivere una prefazione insignificante,
di Jìendere tutto ciò che è detto proposìto della lingua, e di cose
per essa espresse mi si presenta alla mente in un trattato completo y e inteso
a questo espressamente; il quale così non d pili che fare colla traduzione suddetta,
ma à molto che fare per quanto mi sembra, colle maniere di pensare sugli studj, sulle
cognizione umana, sugl’affari comuni, e sulla religione medesima, per quanto
code/le maniere essendo al presente diverse dalle usate a'tempi passuti y si
reputano di quelle migliori. Questto trattata dunque b Lettore, c quello
eh' io qui ti presento e che h jeritto per mia e tua ijiruzione migliore
y e per avventura dt pochtjjimi altri, e non gid di tutti; sempre piu
falda in quella mia majjima che la cognizione vera e reale ha e puo esser di
pochi, a differenza delle superficialt e apparenti, che possono e debbono
ficnderfi a molti e sempre più convinto
altresì nel mio particolare, che nulla per me /limerei di f opere di
certo y fe nulla sapejji dt geometria DEGL’OGGETTI
APPRENSIBILI, DE’COSTUMI, E DELLA COGNIZIONE UMANA, PER RAPPORTO ALLA
LINGUA. vfc/ievAA<vdv> ^srssrSFST^. La favella nell’uomo è quel
dono eh’egli U 'f'^'^ M ^ COMMUNICARE ad altri l’immagini pre- Oggetti ap
Pii § fl Tentate al suo cervello dagl’oggetti efter- prensibili ori» W ^ quivi
combinate inpìbmodi dalla fa intellettiva, dono e qualità più ancor sìngolare
e più sublime dell’umana natura. Quelle immagini che se non s’intendono
per quello nome non s’intendono per spiegazione d’elio veruna, sono
più o men vive, a norma dell’impressìoni che gl’oggetti llein fanno diversamente
sull’un cervello più che sull’altro, o coll’aspetto loro attuale, o colla
memoria di elTi appresi altre volte, come la ftelTa percolTa imprime orma diversa
nella creta, nel gellò, nella cera o nel piombo. E quantunque s’imprimano
fors’anco su qualdvoglia materia pur insensata, non si combinano che sulla
materia animata mediante la facoltà intellettiva suddetta, o la separazione
delle più proporzionali ed armoniche dalle più dissonanti e deformi,
per la quale così diconfi appunto combinarli A ia'è<i 1 1 ^ .
infra esse. Una simile operazione dell’intelletto tende a confrontare gl’oggetti
fra loro, e d’un sìmil confronto a rilevare su essi e per essì quelle verità,
che senza ciò rimarrebbero ascole ed ignote, non arguendosi il vero che
dalle consonanze d’alcuni oggetti con altri, siccome dalle dissonanze degl’uni
dagl’altri se ne arguisce il falso. Perchè poi delle consonanze o dissonanze
d’oggetti ben arguite è indizio l’approvazione o disapprovazìone per elle d’altri
che abbiano o non abbiano similmentc combinate quelle immagini; e
perchè una simile approvazione o disapprovazione non può conseguirsi che
per qualche mezzo sensibile per cui esprimere e partecipare gl’uni agl’altri
codeste combinazioni; quindi è dunque che un simile mezzo fu ilHtuito nella FAVELLA
(FABVLA), per la quale appellando ciascune immagini o ciascuni oggetti dai
quali quelle derivano, con altrettante voci o parole diverse, e collocando
quesse con certa disposizione e corruzione analoga a quelle, H partecipa da ciascuno
ad altri i modi coi quali gl’oggetti che occorrono all’immaginazione son da se
appresì e combinati, afHne di verificare quanto sian efTì giusti, per
quanto reflino approvati dal concorso maggior di piu altri; di maniera
che quelle combinazioni d’oggetti s’appellin migliori, alle quali più
altri preflinò un assenso più facile e pronto, e quelle s’appellin
peggiori, le quali non sìan fecondate, ma sìano all’incontro contraffate da più
altre a quelle opposse e contrarie, COMUNICATE ciascune a tutti
mediante una comune favella. È chiaro, quelle immagini combinate e
COMUNICATE così altrui pella favella, non esser diverse dai proprj sentimenti
d’animo, coi quali ciascuno si manifesta agl’altri non solo ne’proprj giudicj sugl’oggetti
esterni, ma nelle proprie azioni ancora, e negl’ufiìcj e decenze della vita
comune che da quelli derivano, per non provenire tai sentimenti che dall’impressioni
appunto degl’oggetti esterni, e dalle combinazioni che sé ne formano nelle ciascune
menti. A quedo modo parlando pella verità e fuor d’illusione, pare che 1’uomo
tolto pella parte sua fifìca, non didèrifca dai tronchi e dai faflì, se
non in quanto imprimendosi si in lui che in quelli l’immagini degl’oggetti
coi quali del pari COMUNICANO, egli solo mediante 1’anima ragionevole che
lo informa, à la facoltà che non an quelli, di segregarne alcune dall’altre
e di combinarle insieme, e quindi di COMUNICARLE colla favella agli altri,
affine di verificarle, e di dedurne quelle verità che sugl’oggetti medesimi possono
per lui concepirsi, e dalle relazioni fra quelli », t. scuoprire per quanto a intendimento
mortale è concesso, gl’usi e le convenienze maggiori alle quali dall’autore
della natura son pur desinati. Che s’egli sì lascierà trasportare dalle
combinazioni casuali che l’immagini degl’oggetti imprimeranno sui suo
cervello senza scelta o interesse alcuno, quella facoltà non è in lui
diversa dalla Pazxìa, la quale in fatti non è che un abbandono alla
propria immaginazione, commossa dagl’oggetti veduti o rammentati, e stranamente
accozzati insieme. Se poi egli combina tali immagini per le sole consonanze
apparenti ed esterne di pochi particolari oggetti a sè vicini, pelli
quali pertanto ei è prevenuto per suo solo piacere e interesse, nulla
badando all’oltraggio o danno che quindi ne provenisse ad altri, per non
iflendere quelle combinazioni ai moltiffimi alr’oggetti ren-.oti coi
quali quelli avefTero relazione, e doveDero in conseguenza combinarsi;
quella facoltà si dice in lui errore, o ragione intereffata particolare, il cui
indizio è quefto d’ottener cita l’approvazione di alcuni, ma colla disapprovazione
di tutti gl’altri, potendo così l’errore eller bensì particolare di pochi, ma
non mai comune di tutti. E fe finalmente egli applicherà a combinare
le immagini colla scelta e discernimento più accurato, ed ellefo al
maggior numero d’oggetti, e dirtinguendone le relazioni e le consonanze tanto
più armoniche quanto più sparse in lontano, quali collocherù nel miglior
grado di Ibmiglianza fra elle, c quali fegregherà dall’altre colle quali
aveller quelle rapporto minore, o non ne avelfer nelluno; allora ei ftenderà l’interdlè
e il piacere che da tali combinazioni derivano, da sè ad ogni altro, senza
oltraggio d’alcuno, e una tal facoltà fi dirà \n\n\ verità o ragione comune,
come quella che riconofeiuta da tutti, non potrà contrallarfi da alcuni, o
contradata da alcuni, relterà ognor vendicata dall’allenfo comune di
tutti gli altri. Quello dà facilmente a conofeere, come gli uomini in
generale, mediante la facoltà intellettiva suddetta, o l’anima ragionevole che
gl’informa, paffino dall’insensatezza alla pazzia, col combinare gl’oggetti
fortuitamente ed a caso; e come dalla pazzia pallino all’errore,
combinandoli per proprio solo inteTcfle e piacere SENZA RIGUARDO AD ALTRI – of course
you don’t until I tell you --; e come finalmente dall’errore fiano tutti
condotti alla verità loro comune, pella quale combinandoli per interelTe e
piacerecomune, agitati dapalTioni particolari, ma corretti e follenuti pelle
comuni, tutti pur infiemc fudidono. E febbene tal non fia d’elTi in
particolare, per provvidenza pure particolare, giacché quafi tutti
invero dalla pazzia o dalla inconseguenza nella quale si trovano da BAMBINI,
padano all’errore nel qual si trovan d’adulti, ma non tutti da quell’errore
padano alla verità comune, nella qual si trovan ben molti nell’età più
matura, ma tutti non vi si trovan che al punto ellremo di vita; tal però è
d’elliin generale per provvidenza eterna. Che s’alcuni spiriti timidi e ombrofi
giudicano l’errore più comune della verità, in quanto gl’uomini bene spesso
contrallano, e non cosi di leggieri s’accordano ne’loro penfieri; ciò nondimeno
la verità fi feorgerà sempre dell’error più comune, in quanto elTa in
etì'etto o previene, o modera, o pon fine sempre a quei contraili
medellmi anco ad onta loro, fenza di \ che nulla v’avrebbe di certo
nelle combinazioni d’immagini, nelle cognizioni che ne derivano, e nelle azioni
per le quali fi fulTide, che da tali cognizioni dipendono, contro l’esperienza
manifesta, giacché pur fi fuflTifte. Ma intanto quindi apparisce, come non
edendò LA LINGUA idituite che per esprimere e COMUNICARE altrui i proprj sentimenti
dell’animo o le proprie combinazioni d’immagini, per quindi rilevare quanto
ciafcuno per le vie dell’insensatezza, del delirio, e dell’errore nello dato
materiale, di bambino, e d’adulto proceda nell’età ferma alla verità
comune nella quale alhn s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione di quelle
dipende dalla conoscenza di quede. Ond’è che per ben ragionare della NATURA
DELLA LINGUA dove ragionarsi PRIMA della cognizione umana da manifedarsi per
quella ad altri, non edendo certamente podibile ragionare o intender
i mezzi coi quali conseguire un fine, senza la conoscenza di quedo fine medesimo.
Siccome ancora da qued’edèr LA FAVELLA intefa a esprimer ioltanto la
propria cognizione falle verità o dilla ragione comune, e dall’cder eda
propria del solo uomo, si rileva, al W solo uomo dunque eder dato il
penetrare coll’intelletto e r alzarfi a simili cognizioni, occulte a tutt’altre
Ibdanze anco animate, ma prive della favella; in guisa che siccome ei solo possede
la favella, cosi ei solo in queda vita mortale è dedinato dalla
provvidenza eterna alla conofcenza delle cofe per una simil ragione, non
odante il deviamento da eda di alcuni, riconoicìuto sempre dalla ragione
medefima a tutti gli altri comune. Per comprender meglio le cofe fuddette,
e come gli oggetti combinati nelle ciafcune menti si comuni- Della fornichino
altrui mediante la favella, O. confidera da un 8'9 canto, che fogliono quedi
del continuo rinovarli gli . uni negli altri secondo alcune leggi di moto
in che consiste la vita, e la essenza di tutte le cose mortali, e senza di
che refterebbe il tutto coperto e ingombro di quiete, morte e nullità
eterna. Quelle leggi sono collanci e invariabili, cui natura non
preterifce giammai, come si dimollra nel lirico, e da quello li
arguifce pur nel morale, per la ragione di non procederfi a quello che per
le vie di quello, o per la Icorta de’sensi, onde non poter formarli regola
per lo morale che non è in conformità a quelle per cui si conofcc
proceder il fisico. Pertanto gl’oggetti rinovati per tali invariabili
leggi, debbono altresì elTere invariabili e fra loro consimili, ciò eh’ è
molto conforme all’ armonia universale e alla concordia di tutto il creato, non
prodotto dal caso cieco e impossibile, come figurano gli fpenfierati, ma
ufeito di mano di un folo, eterno e sapientidìmo autore. O. confidera
dall’ altro canto che quella somiglianza d’oggetti la quale feorre da
tutti ein in cialcuna specie a tutti ein nelle innumerabili altre
fpezie nelle quali lì trovan divifi, non toglie che gli oggetti medefimi
non fian fra loro diverfì, colla diflerenza ancora che gli oggetti della
HelTa fpecie come fon fra lor più confimili, così fono meno diverlì dagli
oggetti nell’ altre fpecie, dai quali più e più diverlìficano. Ciò che non può
provenire che dalle modificazioni diverfe e infinite, colle quali procede il
moto medefimo fìsico o morale fra gli oggetti. tutti creati, e che pur concorda
colla potenza e sapienza infinita del fupremo autore della natura, cui non
conviene replicar un oggetto nelle varie o nella llella fpecie di elTi, e
colla varietà di natura medefima, cui difdice ad altri fpogliare delle infinite
forme di oggetti de’quali è adorna, per rellrignerla folo ad alcune. Quelle
confiderazioni Habilifcono dunque quella verità, che gl’oggetti creati
fono bensì tutti Confimi^ li y per le llefle collanti leggi di moto fisico
o morale per cui fullìllono, ma che fono altresì tutti Diverfi, pelle
diverfe modificazioni di codello moto che procede colle tnedefime leggi,
fcorrendo quella Ibmiglianza e dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli
oggetti di ciafcuna Ipecie a quelli di tutte le altre contigue dal
regno minerale al vegetale, e dal vegetale all’animale fisico, e lo stesso
dee intenderli del morale, come è noto ai naturaliHi e agli altri filosofì per
quel misero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal quale
foltanto lice arguir di tutt’ella. Tal ogni oggetto in ciafcuna fpecie nel
confumarlì procede per gradi di fomiglianza indifcernibile, e conferva i
caratteri della fua fpecie con sè medefimo, e cogli altri ne’ quali va a
riprodurfi, paflando per insensibili gradi di modificazioni diverfe da
uno flato all’altro prima nella fua fpecie, e pofcia da quella ad altre
contigue più e più così fimili e refpettivamente diverfe in infinito,
finché dal tronco più informe e infenfato, fi pervenga all’uomo
megfioorganizzato e più faggio. Siccome dunque il moto è la caulà di
tutte le produzioni create, cosi certe leggi di elfo Habili fon la caufa
per cui fi producono e n confervano elle tutte confimili; e le diverfe
modificazioni di un moto che procede per le medefime leggi, fon la
caufa della diverfità di ciafcuni oggetti in ciafcuna delle loro fpecie e in
tutte le fpecie loro, reflando così il creato uniforme e moltiforme,
perchè prodotto e confervato per quel moto, per quelle leggi, e per
quelle mifure e modificazioni di elio . Senza moto, non vi avrebbe cofa
alcuna in natura . Senza leggi di elfo, non vi avrebbe per il moto che un
caos di follanze confufe ed incerte, e da una rapa per efempio ufcirebbe
una rofa, da una rofa una ferpe, da una ferpc un coniglio, ma il tutto
informe e inoHruofo fenza diHinzione e progreflìone di fpecie, con
ifconvoglimento di tutto il creato . Senza modificazioni diverfe di moto,
per elfo e per le fole fue leggi non s’ avrebbe in natura che una
fpecie di follanze inalterabili, folTer poi elTe tutte rofe, tutte rape,
tutte ferpi, o tutte conigli. £ folainente per un moto che proceda per le
medefime leggi e per diverfe modificazioni di eflb, può formarfi e confervarfi
in natura quella uniformità e varietàdi follanze, per le quali effa pur fi vede
ordinatamente fuflìftere . Che fe la rofa verbigrazia è più fimile alla
rofa che alla rapa, alla ferpe, o al coniglio ; ciò non deriva da
diverfità di leggi, ma da diverfità di modificazioni in un moto, che
ferbando le leggi medefime, più che da rofa a rofa, procede da rofa a
rapa, a ferpe, a coniglio. E d’altronde la rofa, la rapa, la ferpe, e il
coniglio fi diran fempre fimili, perchè prodotti per le flefle leggi motrici,
avvegnaché fempre diverfe per le diverfe modificazioni di quelle. Alcune
di quelle leggi colanti di moto, e di quefte modificazioni di eflo
diverfe particolari, furono alìegnate e conofciute dai geometri, ma il
pretender di tutte raccorle con mente mortale, o di portarli da
quelle che fi conofcono alla maffima di tutte dalla quale per avventura tutte
dipendono, farebbe lo ftelloche pretendere di mifurar l’infinito con una
fpanna, non che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però gli
oggetti fan fempre diverfi, fi conofce maffimamente da ciò, che la detta
rofa verbigrazia non è già alla fera qual era al mattino, e un uomo non è
in vecchiaia qual era in giovinezza, e io flefib può arguirfi d’ogni
altra cofa che abbia fenfo onon lo abbia. Quella variabilità poi negli oggetti
creduti più volgarmente gli flefii, dee maggiormente feorrere Irai creduti
diverfi, contemporanei o confecutivi, nella fielTa fpecie e nell’ altre
eziandio contigue e diffimili ; dimanierachè non folamente tutte le rofe fian
diverfe da tutte le uova, e tutte le uova da tutti gli uomini, ma di
tutte altresì le rofe, di tutte le uova, di tutti gli uomini, non ve n’ abbian
pur due, fra i quali non corra qualche indifccrnibile difparità,
mercecchè lefolfer perfettamente le fteffe, non due ma una farebber
quelle rofe, queir uova, quegli uomini, e la prima divina caufa
motrice non più infinita, ma farebbe limitata e finita. Ciò che negli uomini
può arguirfi dai fesni ancor materiali edefierni, per cui ciafcun
d’eiTifi didingue da ciafcun altro per iembianze di volto, di voce,
di carattere, di portamento e (Imili, e lo liefFo avverrebbe delle rofe,
dell’ uova, e de’ grani ftefli di miglio, fe fe n’ avede una pratica
corri fponden te . E quel che avvien delle rofe, dell’ uova, de’ grani di
miglio, dee avvenire d’ogni altro oggetto particolare minore e maggiore, e del
compleflb di più altri ancora vifibili e invifibili ad occhio umano,
della terra, degli adri, delie codellazioni, e di tutto infomma il creato
. Così la terra fempre a sè defla confimile, è pur fempre dasè diverfa, e
dove al prefente forgonole città, v’ aveano ad altri tempi i deferti,
dove s’ alzano! monti, fcorrevano i fiumi o i mari, e viceverfa ;
alla quale diverfità fi procede per gradi quanto infenfibili, tanto
continuati e incelTanti. Gli oggetti dunque creati pafTati, prefenti, e
futuri fono tanto fimili per le delle leg^i di moto, quanto diverfì per le
infinite modificazioni, colle quali può edb variare, padandofi per
infiniti gradi e in infinite maniere di madima fomiglianza e di minima
varietà, dall’uno all’altro nella deda fpecie, e dall’ una eziandio
all’altra delle infinite fpecie contigue di eflì, e accodandofi ciafcun
uovo ^r fomiglianza, e fcodandofi per diverfità da ciafcun altro o da Ciafcuna
rapa, per oggetti infiniti intermedi va rie fpecie, fenza però mai
adomigliarlo o didbmigliarlo del tutto; vale a dire fenza effer del tutto
quel dedb o quella rapa, o senza didrugger del tutto l’altr’ uovo o
1’altra rapa . Quel che s’ è detto degli oggetti filici, dee pur
applicarfi ai morali, giacché fìcome quelli fi confervano e fi rinnovano io
ciafcuni per le deffe leggi di moto fifico, così operan quedi per
le deffe leggi di moto morale che da quello dipende. In confeguenza di che 1’
equità, il valore, la codanza, 1’ amore e gli altri affètti umani
virtuofi [Oggetti come apprefì diverfamente . ] tuofi o viziofi
ancora, fi diran propagarfi dagli uni agli altri in ciafcuni fempre
conlìmili, ina tuttavia diverfi, non folo ciafcuni in genere, ma nelle loro
fpecie ancora in ciafcuno individuo, come paffioni bensì confimili, ma
che fono modificazioni diverfe d’ una verità o d’un errore, eh’ ellendo
lo fielfo e indivifibile in ogni paflione, è nondimeno vario in qualfivoglia
fua apparenza o modificazione particolare. Tallo Ipirito di conquida per
efempio in Alelfandro, in Maometto, in Roberto Guifeardo, o il genio di
filofofia in Salomone, in Numa, in Marc’ Aurelio, o il fentimento di
libertà comune in Giunio, in Catone, in Gregorio VII-, furono ciafeune
paffioni medefimein sè llefle, benché ciafeune diverfamente modificate
in ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe circollanze de’ tempi, e
le varie difpofizioni de’ popoli, per le quali ancora furono diverlàmentc
fecondate, e iortirono vario efl'etto. La fomiglianza e refpettivamente
diverfità d’oggetti fuddetta, è quella che coliituifce le diverie relazioni fra
effi, non riferendofi un oggetto all’ altro che per quanto ad effo è
fimilc, o da effo è diverfo. Le quali relazioni così fono infinite, per
gl’ infiniti gradi di fomiglianza e di diverfità, coi quali gli uni
fi accodano agli altri o fi feodan da quelli, e per li quali podbno
infleme paragonarli, fia l’uno coll’ altro nella deda fua fpecie, fìan gli uni
cogli altri nelle fpecic loro diverfe. Qui prima di proceder più oltre,
piacemi avvertire, che parlando io d’infinito, comeò fatto innanzi e farò
in féguito, non intendo parlarne come di cofa eh’ io comprenda per sè, ma
come di cofa eh’ io non intendo che per approlfimazione, immaginandolo
qual conviene a mente finita, vale a dire qual finito, maggiore di quanti
pollano alfegnarfi giammai in ciafeuna fua fpecie ; inguifachè egli fia
per l’aggregato di più e più finiti fenza fine di quella
Ipe cie eie d'oggetti di che fi tratta, per cui fi porga all’
intelletto umano queir idea qualunque incompleta, che àffi dell’infinito,
fenza perciò che fi confegua elFo, o fi raggiunga a comprendere
polìtivamente giammai. Ciò avviene per le forze intellettuali umane
limitate al contrario e finite; perciocché fe ad intelletto umano
fofle dato di apprendere verbigrazia tutti gli oggetti e tutte le
infinite relazioni fra loro, un intelletto tale non farebbe più umano o finito,
e non combinerebbe gli oggetti, nia farebbe un Dio, che fenza combinarli
li apprenderebbe tutti ad un tratto, come quegli che li avefle creati, e
ne avefle ordinate le relazioni di tutti i luoghi, e di tutti 1 tempi. £
quan* tunque di quella conofeenza l’uomo fcevro dai lenii, per
quanto comporta il grado di fua intellettualità, fia per partecipare
nella vita avvenire ; nella prefente di che II tratta, non potrà egli mai
flenderfi in elTa che per quanto lo conducano le tracce limitate de’fenfi
medefimi, reflrignendofi così le fue cognizioni ad alcuni oggetti per
combinazioni foltanto finite, fenza fìenderfi a tutte per comprenfione d’
efiì intuitiva e infinita . Ciò porto, non dirtinguendofi per or gli
oggetti che per le lor dette relazioni diverfe, ed elTéndo tali
relazioni per ciafeuni di erti tanto infinite, quanti i gradi di fomiglianza
odi diverfità, co’ quali poifan fra lor riferirfi, fia nella ftefla, fia
nelle fpecie loro diverfe, corrifpondenti alle infinite modificazioni
d’un moto che procede colle medefime leggi; ciafeun intelletto
particolare, che per le forze fue limitate dee apprenderli non per tutte, ma
per alcune fole di tali relazioni, dovrà apprenderli per relazioni
diverfe da quelle, per le quali le apprenda ciafeun altro, e in
confeguenza dovrà apprenderli diverfamente da tutt’ altri . In ellctto
dovendo la fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti a|>prenderfi da
ciafeun intelletto finito ad un modo, edeffendo infiniti i modi, coi quali
ciafeun oggetto può paragonare come fimile o diffimile agli altri ; non
potrà di quefti infiniti modi quello col quale apprende quell’oggetto uno,
effer quel delTo col quale lo apprende un altro, ma dovrà l’uno effer
dall’ altro diverfo, per quanto pur poffa efier a quello più e più confimile. A
quello modo faran gl’ intendimenti umani per gli oggettr medefimi tanto
diverfi, quanto le loro fifonomie o alia) C.II, n.^. tre fembianze loro efterne
fuddette che poffono bensì affomigliarfi in bellezza o in deformità, ma
non mai in modo di effer del tutto le fteffe, o di non corrervi qualche
differenza, per cui uno non fi ravvifi o non fi diflingua, pollo al
confronto coll’altro. Ed efIcndo gli oggetti diverfi e confimili, e le
relazioni fra effi infinite ; di infiniti ancora intelletti umani fe
fìa poffibile paffati, prefenti, e futuri, fu i quali cadano le
immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un fallo, non ve ne avran pur due che
le concepifeano ifleffamente a per le medefime relazioni ad altri
oggetti, ma farà 1’ immagine di quella (Iella, di quel fiore, di quel
faffo diverfa nelle ciafeune menti di quelle infinite perfone, confimile
però più o meno l’una all’altra, quanto queflc relazioni fian più proporzionali
ed armoniche, ancorché armoniche e proporzionali Tempre dìverfamente. Fuori di
quello cafo non due, ma uno farebbero quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero
gli flelli og. getti per le fleffe immagini, o riferiti ad altri oggetti per le
fleffe finite relazioni delle infinite che ve n’ànno, ciò eh’ è impoffibile. Qui
occorre offervare, come non è folamcnte la diverntà degli oggetti apprefi
avvertita difopra (r), ma quella ancora delle relazioni loro agli altri
diver\ (g gjjg (j avverte al prefente,
per cui fi concepìfcano quelli da ciafeuni in vario modo, tanto al medefimo
tempo uno lleflo identico oggetto, quanto à tempi diverfi quell’ oggetto
a sé confimile, ma da sè diverfo a diverfi tempi in sè fleffo o nella
fuafpecie. Per la qual cofa Tolomeo per efempio, Ticonc, e Galileo
n diranno aver tute’ a tre immaginato il Sole ' diverlamente, quantunque
il Sole veduto dal primo in Alessandria à Tuoi giorni, non folTe
identicamente lo Iteflo che il veduto per avventura dai due altri all’
idei fo giorno, quattordici fecoli dopo nella Dania o in Ita* lia,
ma folle da quello infenfibilmente dillimile, per rinfenfibile
alterazione fofl'erta da ogni corpo, e in confeguenza da ogni pianeta
nella Tua durata medefima, come s’è veduto. E ciò per le relazioni finite del
Sole dell’uno e dell’altro tempo, tolte dall’ infinità di tutt’ elle cogli
altri oggetti di qualfivoglia tempo, per le quali relazioni cialcun dei tre
potea concepire il Sole, e didinguerlo dagli altri oggetti, o paragonarlo con
quelli. Quello è ben vero che la diverlìtà, colla quale fi concepifcono da piò
perfone al medefimo tempo e nel medefimo luogo gli oggetti identici, farà molto
minore di quella, colla quale fi concepifcano a tempi e luoghi diverfi oggetti
folo confimili, per variar appunto in quello cafo gli oggetti ancora da sè
medeiìmi, e concorrer cosi non una, ma due ragioni a diverfilìcarne le
immagini . Ond’ è che ne’ diverfi luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà
ragionare di oggetti conlimili con più di diverfità, di quel che fi
ragioni al medefimo tempo e luogo di oggeui identici llelfi. Del rimanente
quella maniera in ciafcuno diverfa d’ immaginare gli oggetti llelfi o confimili,
fi riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano daciafcuni, i quali
giudici dipendono appunto da tali immaginazioni. Se quei giudici fugli oggetti
llelfi folTer gli llelfi, allora potrebbe dirli, che quegli oggetti
follerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma giudicando ciafcuni
diverlamente del color verbigrazia rolFo o del azzurro, convien pur dire,
le immagini di quelli colori eflér diverfe nelle ciafcune immaginazioni.
Anzi fe un giudicalTe del rolTo come un altro dell’ azzurro,
potrebbe dirfi, apprender quegli perrolTo quel cheque /V! Oesetii
come nominati per la fteffa favella. ’fti apprendelTe per
azzurro, e viccverfa . Ma ciò non è vero nemmeno e attefa la infinità
delle relazioni di ciafcuni oggetti a tutti gli altri, e la fingolarità
iti ciafcuni di apprenderli (/»), le immagini d’cfTì deftate fui ciafcuni
cervelli fon fcmpre diverfe, come diverfi ne fono i giudicj, e non folo uno
apprende ciafcun colore, ma li apprende ancor tutti in vario modo da ajuel che
li apprenda ciafcun altro, inguifachè il rollo, r azzurro, il bianco, e
il nero imprimati di sè diverfe immagini fui ciafcuni cervelli non mai
le Itelle, e non mai permutate, ma fempre diverfe e impermutate,
avvegnaché fcmpre conlimili. P orte quefte confiderazioni fulla
diverfità degli oggetti, e fulla maniera in ciafeuno diverfa di concepirli, per
apprendere come querto concepimento fi comunichi da ciafeuno ad altri
mediante la favella, è da avvertirfi, noneflcr certamente portibile il
communicarlo per voci del tutto corrifpondenti, e che il figurarfi un efatta
analogia fra le immagini colle quali s’apprendon gli oggetti, e le voci
colle quali s’ efprintono, è figurarfi un aflurdità . Imperciocché
ert'endo ciafcun oggetto infenfibilmcnte diverfo da ogni altro in
ciafeuna e in tutte le fpecie, dovrebber le voci colle quali
fignificarlo, variar infenfibilmentc com’eflb dall’ altre voci colle
quali fignifìcar gli altri oggetti, ed crtér così le voci tante quanti
fofler gli oggetti individui, appellandofi oggetti confìmili ma
noniilertì, con voci pur confìmili ma non iftelTe in partato, al
prefente e nel futuro; anzi appellandofi con voci diverfe una rofa fterta per
efempio al mattino e alla fera, e un uomo ftertb prima e dopo una febbre
quartana. Oltre ciò per effer ancora le immagini di quelli oggetti medefimi
nelle ciafcuni menti diverfe, o per apprender ciafeuno gli oggetti
diverfamente da un altro, ne dovrebbero altresì le efpreffioni
diverfifipre nelle ciafcuni bocche irtertamente, o dovrebbero le favelle
cfler tante quante le perfone favellatrlci, eiafeuna delie quali apprendendo
gli oggetti così diverfi per relazioni eziandìo diverfe ad altri oggetti,
dovrebbe altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun poi ..vede quel che
avverrebbe per un fimil garbuglio di favelle, per cui non farebbe poìTibile
intenderli fra padre e figlio, o fra marito e moglie, più che fra gli
antichi fabbricatori fcefi dall’ altiflima torre di Babelle. Poiché dunque non
è poHìbile applicar alia favella, nè la diverfità degli oggetti individui, nè
quella delle immagini loro nelle cìafcune menti, ed è pur necelTario che
quelle immagini lì comunichino dagli uni agli altri, per conofeere quelle
verità che da mente nmana polTono concepirfi nello flato di vita mortale;
non refla fe non che gli oggetti s’efprimano per voci identiche flelTe
accordate per confenlo e per ufo, per le quali gli oggetti o le figure e
immagini loro, s’ efprimano non elattamente, ma proflimamente, e non già
per quanto farebbe neceflario, ma per quanto foltanto è poflibile ; in
guifachè elTendo tali immagini tutte fimili e tutte altresì diverfe, le voci
corrifpondenti le efprimano bensì efattamente quanto alla lor,
fomiglianza comune, ma non quanto all'individua loro diverfità. Quello è
ciò che avviene in efietto, mentre oggetti precifamente non iflelTi, e non
concepiti da ciaIcuno ifleflamente, s’appellano non per tanto con voci flefle
precife, e un faflb per efempio, un fiore, una ilella fi proferifeono
fermamente con quelli flabili nomi quafi folTer indifcernibilmente gli llefli,
e li concepiflero ifleflamente, quando per verità non lo fono, e fono da
ciafeuni ^preli in maniera diverfa . Con ciò fi vede, come effetto della
favella è quello di rellrigner il numero degli oggetti e dellefimmagini
loro indeterminato e infinito, a numero tanto finito, quanto quel delie
voci colle quali fogiiono profcrìrfi gli oggetti medeOmi per quanto fono
confnnili, e non per quanto fono diverfi, giacché alla ìftcflTa voce d’
una lUlla, d’ un fiore, d’ un fafTo non fi deflano in ciafcu* ni le
flelTe immagini, ma fi deflano tanto diverfe, quanto quella (Iella, quel
fiore, quel fallo cosi appellati fono individualmente variabili, e fi
riferifcono da ciafcuni non agliflefli, ma ad oggetti altri diverfi
pur variabili, ed apprefi diverfamente, e appellati tuttavia per
quelle voci. Un tal lavoro poi non può feguire, che mediante cert’ ufo e
certa convenzione di quei particolari che piò comunicano di immagini e di voci,
di appellar appunto con voci immutabili e precifamente ifleffe, oggetti
individui e immagini loro, che non fono le flelTe colla precifione
medefima, fia per sè fia nelle ciafcune apprenfioni; o di appellar
verbigrazia col nome immutabil di rofa un oggetto tanto variabile quanto
una rofa, e lo flelfo dee dirfi d’ogni uomo e d ogni altro oggetto
particolare per sè vario, ed apprefo da ciafcuno in vario modo, ancorché
pure confimile . La qual convenzione e il qual ufo è arbitrario, e
libero, mentre come fu convenuto di appellar r acqua e il fuoco con tali
denominazioni, cosi niente impediva che non fi convenirle di appellare
alJincontro 1’ acqua col nome di fuoco, e il fuoco col nome di
acqua. Perché poi poflbno gli uomini convenire di chiamar gli
oggetti per quanto fono confimili con al. gypg yQgj jjQj, poflono convenire di
render quegli oggetti cosi invariabili come quelle voci, o di
concepirli ciafcuni al medefimo modo ; quindi avviene che r analogia delle voci
invariabili cogli oggetti variabili in sè fleflì, e nelle ciafcuni
immaginazioni, non può verifìcarfi che molto imperfettamente, o in
quanto fi affuman per oggetti invariabili, quelli che in effètto non fon
tali che per approlTimazione, variando eflì d’altronde del continuo per gradi
infenfìbili e indeterminabili. In fatti quelli oggetti eie maniere di
concepirli, cangiano del continuo non can giangiando le voci colle quali
s’appellano, ed emendo le voci in ogni lingua tanto finite, quante
poffononumerarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti e le immagini loropoffono dirfi
tanto finite, quante le innumerabili modificazioni di moto, dal qual derivano
quelli, o le innumerabili relazioni degli uni oggetti a tutt’ altri,
dalle quali derivano quelle in ciafcuno . Il qual ciafcuno benché
apprenda oggetti finiti per relazioni finite, per eller però quelli e
quelle in infinito variabili, li apprende in guifa diverl'a da quella d’ ogni
altro, febben in guifa d’ogni altro conlimile (<?), per le medeli me
leggi di moto, per le quali fi confervan gli oggetti, proferendoli però lempre
per le ftelfe invariabili voci d’ ogni altro. Onde redi pur llabilito, la
moltitudine di oggetti e d’ immagini loro nelle ciafcune menti, effer a
numero incomparabilmente maggiore della moltitudine delle voci, colle quali
pofian quelli denominarfi ed efprimerfi . Un contralTegno efpreflb della detta
imperfezione d’ analogia fra le voci, e le immagini d’ oggetti per effe
fignificati è quello, che ciafcuno nello fpiegare altrui le proprie
immaginazioni oi propri fentimenti d’animo, non trova cosi pronte le voci che
gli occorrerebbero, ech’ei defidererebbe, come trova le immagini, e non
v’è cofapiù familiare, quanto il dolerfi uno di non poter per voci dar così
bene ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e intende per sé medefimo, di
che gli amanti foglion lagnarli il piò fpeffo. Ciò che non può derivare,
che dal conofeerlui molto bene, che gli altri per quelle voci non
apprendon gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende, ma li
apprendono in modo piò o meno diverfo, e che quelle voci dellando nelle
altrui menti non le lleffe, ma confimili immagini, fpiegano ad altri
una verità apprefa fempre con maggior chiarezza da quei che la
proferifee, che da quegli cui vien proferita . Lo che fi verìfica tanto
delie menti piò chiare che delle piò confufe, effendo certo che ficcome
un uomo fensato per quanto ei fia eloquente, intende meglio i fuoi
penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai quali ei li fpieghi per
voci ; cosi un inCenfato ancora, benché non intenda lui ftelFo quel che
vuol dar ad altri ad intendere, è però fempre mcn capito da altri di
quel eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men feimunitoin sé, di
quel eh’ ei fia concepito da altri. Applicate come fopra una volta alcune
voci ad Oggetti co- jlA. alcuni oggetti in certo luogo e a certo temine
nominati po, fe quelle voci come fono finite riguardo a per favelle
quegli oggetti, così il follerò riguardo a fe ftellé, ® avellerò con
quegli oggetti una necclTaria connef qiie(p applicazione avrebbe dovuto elTere
univerfale di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e non v’ avrebbe al
mondo che una favella, la quale formata una volta, fi farebbe prefervata
dappertutto la fiefla, invariabile per tutti i fecoli, per efprimer
gli oggetti per quanto almen fono fimili, fe non (l)C.iy.n.t. per quanto
Ibno diffimili. Il fatto però è, che febbene le voci lian finite riguardo
agli innumerabili e infiniti oggetti per elle efprefli, fon però elle pur
innumerabili e infinite riguardo a sè medefimc, fenza perciò avere quella
infinità relazione alcuna con quella ; mentre laddove quella degli
oggetti dipende dagli infiniti modi, coi quali procede il moto, che
per le ItdTe invariabili leggi li prelerva e li rinuova in ciafeuna e in tutte
je fpecie; quella delle voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali
l’aria fiella può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli organi
della favella, e quei modi non àn che fare con quelli. Quindi apparifee
perchè le lingue abbiano ad elTer diverfe a diverfi tempi e nei diverfi
luoghi, perciocché elléndo le maniere, colle quali le voci poffono
articolarfi infinite, c dovendo elle adoprarfi a numero finito per
elprinier oggetti mcdelimi e confimili, benché infiniti j non v’à ragione
perchè a quell’ 'it nfo s’adoprino l’une anziché l’altre di effe, o
perchè CAP. vA un faflo, un fiore, una della appellati ora in
Italia con quedi nomi, non fodero appellati o non foder per
appellarli ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diverfi. Per quedo
s’è odervato, gli oggetti non appellarft con certe voci, che per convenzione
particolare divifa fra quei che più comunicano d’ immagini, a efclufione di
tutt’ altri chemen comunicano, non potendo quelli eder mai tutti. E
perchè l’infinità delle voci nonà alcun rapporto a quella degli oggetti,
quindi è ancora che una tal convenzione non è neccllaria per certe voci,
ma è libera ed arbitraria per tutte, e dove s’applicano ad oggetti dedì e
confimili alcune di ede, dove alcun’ altre, e quando quelte, quando
quelle, fempre diverfe perchè Tempre finite, tolte dall’infinità loro intiera.
Se l’tina infinità fode relativa all’ altra, il farebbero pur 1’ una
all’altra quede applicazioni, ma moltiplicandofi allora le lingue colle
imma< ginazioni delle perf>ne in infinito, ne feguirebbe quella
babilonia di lingue odèrvata di fopra per cui non farebbe più podìbile
fpiegarfi gli uni cogli altri, e per eder quede infinite quante le
perfone di tutti i tempi e di tutti i luoghi, non farebber nediine in
alcun luogo, o ad alcun tempo. Come poi egli avvenga, che LA LINGUA una
volta introdotta si cangia in altra ai diverfi tempi e ne’diverfi luoghi, si
comprenderà da ciò, che dovendo gli oggetti per le voci didinti eder gli
dedi per le dede invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni in
ciafeuna fpecie rinovarfi con infenfibili difparità per le infinite
modificazioni o mifure di quedo moto medefimo (c)j dovranno dunque efll
appellarfi per le (f)C. //. ». 2 . voci una volta loro affide e applicate,
in guifa però che confervandofi quede le dede per lo primo riguardo, fi
vadano insensibilmente alterando e degenerando in altre per lo fecondo.
Queda ragione s’ avvalora e s’accrefee per le nuove arti, per le quali
gli oggetti e amedefimi e confìmilì fi fan fervine a nuovi ufi, a(Tumendo
eflì quindi pur nuove denominazioni c divcrfe di pria, e introducendofi
nelle lingue nuove voci a efclufione di altre all’ introdurfi di nuove
arti, collo fmarrirfi delle antiche. Dell’introduzione di nuove
voci in qualfivoglia lingua fon prova evidente tutte quelle, che
nelle lingue vive fervono all’ arti di nuovo introdotte nella milizia, nella
meccanica, nella fiampa, e fimili ; o quelle colle quali fi
fpiegano le nuove foggie di vediti, di mobili, di utenfili e così
feguendo, le quali prima dell’introduzione di tali arti e foggienon
potevano avervi. E della perdita delle antiche fono indizio quelle innumerabili
nelle lingue morte, fulle quali indarno fofifiicano gli eruditi per trovarvi il
fignificato nell’ arti ed ufi di oggetti prefenti, quando meglio dovrebbero non
penfarvi, come ad appartenenti ad arti ed ufi di oggetti già fmarriti, e
la cui conofcenza col fignificato di tali voci rimarrà fempre irreparabilmente
perduta . Perciocché il figurarfi che al forger di nuove arti o di nuove
maniere di fuflillere non abbiano generalmente a fopprimerfene e a
perire altrettante, è una puerilità e debolezza di mente, per cui
fi credan gli uomini in genere più fiupidi o più fvegliati, e più
taciturni o più loquaci a un tempo che a un altro, ciò che non fi darà
mai ad intendere a chi meglio intenda la fpecie umana, e la natura
generai delie cofe. Variando dunque infenfibilmente gl’oggcìt loro ufo per
ordine di natura, e quindi per difpofìzione d’ arte ; le lingue altresì
debbono variare infenfibilmente per efprimere quegli oggetti e quegli ufi,
finché col lungo corfo di fecoli quelli e quelle prendano nuovi afpetti,
refiando gli oggetti gli rteflì per le fiefie leggi di moto, ancorché
diverfi per le diverfe modificazioni di quello ; e refiando le lingue pur
le lleflè per la llelTa perculTìone d’aria dai polmoni foIpinta, ancorché
fempre diverfe per le diverfe articolazioni di voci provenienti da quella
percufiione, modificata in varie maniere. Ad accrefcer però e ad affrettare
moltiffìmo una fimile alterazione e rinovazione di lingue, s’ aggiugne la
mefcolanza di popoli di lingue diverfe che comunichino di favella; perciocché
appellando gli uni e gli altri oggetti fteffi o confimili con voci
diverfe, e non avendo ciafcuni maggior ragione di così appellarli, è pur
forza che riefcano a inferir gli uni le loro voci nelle voci degli altri,
onde imballardite così le lingue, vengan di due a formarfene una o più
altre di quelle compone, e da quelle del pari diverfe. Egli è poi da
oflervare, come per cffer gli oggetti confimili fempre divertì, e per eflere
una tal diverfità molto più notabile a tempi e in luoghi difparati (a) ne’
quali s’ufino favelle diverfe, che alloflef- v.]. fo tempo e luogo, ove
non fe n’ufi che una ; quegli oggetti efprelTi in un tempo e luogo con
favella d’altro tempo e d’altro luogo, non fi concepifcono perciò quali
furono o fono a quei tempo o in quel luogo natio, ma feguono a concepirfi quai
fogliono in quello, colla fola diffferenza di replicarli così in mente, e
di cfprimerli altrui con favella ancora ftraniera . Cosi le
produzioni ftefre di animali, di piante, di minerali, più diverse nell’antica
Italia e nella presente Britannia di quel che il fiano nell’ Italia prefente,
efprelTe qui ora colle voci italiane antiche o colle presenti britannici, non
si concepifcono quali sono in Italia anticamente o quali sono al prefente
nella Britannia, ma quali sono al prefente in Italia. £ sebbene per la
voce VIR si fìgnifìca verbigrazia allora in Italia un uomo come un Lentulus,
e per la voce britannica man si significa ora nella Britannia un uomo come un
Richard, e per la voce uomo si concepisca ora in Italia un tale come un Giampietro.
Per tutte quelle voci VIR, MAN, UOMO, -- cf. Locke, a very rational parrot -- si
concepirà ora in Italia del pari un tale come un Giampietro, e non mai come un
Lentulus o come un Richard. Lo che fi dice per avvertire, che la
cognizione delle lingue morte o vive Oraniere, non amplifica
per nulla la cognizion degli oggetti, ma carica foltanto la mente
di più termini d’eflì apprefi ad un modo folo, diritto o torto ch'ei
fiafì, lafciando cìafcuno nello flato d’ ignoranza o di dottrina, nel quale
d’altronde ei fi trovi . Certo è che quantunque ciafcuno apprenda
gli oggetti diverfamente da tutt’ altri, per appellarli con più nomi non
li apprende con più maniere, o colle maniere degli altri, ma fegue a
concepirli all’ ulato fuo modo . Ond’ è che per apprendere più lingue n
apprendon più voci, per le quali replicar in mente gli oggetti, e
comunicarli a perlone di linguedìverfe non diverfamente all’une che all’ altre,
fcnza apprender perciò niente di più fu quelli, o fenza accrefcer per
nulla le proprie cognizioni ; quand’ ancora la mente occupata ed ingombra
dalla farragine di quei moltiplici termini fugli oggetti medefimi, non
reflafT'e perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con
più precifione, reflando così le cognizioni fu effi tanto più limitate e
riftrette, quanto apprefe per più mani di lingue, come v’ù gran luogo di
dubitare. /^Uella diverfltà e
refpettivamente fomiglianza, che Della divef- V^_s’è veduta correre
fra gli oggetti della (lefTa e fità poffibile di diverfe fpecie, e fra le
maniere diverfc di (^)> è manifefto dover molto più ampiaC./i/ »
" ^ver luogo fra le combinazioni di quelli nelle ciafcune
menti, le quali combinazioni cosi faranno diverfe e confimili non folo quanto
gli oggetti, ma quanto altresì pofTono quelli confimilmente combinarli o
accoppiarfi infieme a numero minore o maggiore, feparatamente gli uni dagli
altri . Da quelle moltiplici combinazioni d’ oggetti in ciafcuni
diverfe procede quell’ordine, per cui gli uomini diverfificanod’
inclinazioni, di genj, di temperamenti, e quindi di maniere di penfare e
d’operare, ciò che coflituifce i divcrfi cojìumi loro ne’ divcrfi luoghi e ai
diverfi tempi. Imperciocché llante una fimile diverfità di oggetti diverfamentc
combinabili, non farà poflìbile che s’accordin eglino di applicare tutti ad
oggetti delle ftelTe fpecie, ma dovranno applicare quali all’une, quali
all’ altre di quelle, e quando a quelle, quando a quelle, per
riferirli cialcuni e combinarli con altri oggetti di tutte le fpecie
diverfamente, onde deriveranno appunto le moltiformi inclinazioni e
coHumi fuddetti . Quindi apparifce la necedìtà di una limile diverfità di
collumi negli uomini adunati ancora più Hrettamente infìeme, la
qual procede dall’ impodìbilitàfuddetta di applicar ciafcuni in particolare, e
più ancora di ellì in comune, alle ftelTe fpecie d’oggetti, e di
combinarli e riferirli fempre al medefimo modo finito, quando tali
fpecie d’oggetti e tali modi di combinarli e riferirli fono infiniti, e
il finito tolto dall’infinito in palTato, alprefente, e nel futuro per infinite
fiate ancora fe fia polfibile, è fempre diverfo. Quella diverfità d’opinioni e
di combinazioni d’immagini, per ufo di combinare ciafcuni più
particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in luogo d’altre, è cofa
familiare, e fi manifella ai frequenti incontri per le impreflioni diverfe
degli oggetti medefimi fulle menti di quelli, che lìan più o meno avvezzi ad
apprenderli, e a combinarli. Ed è certo l’incantefimo per efempio del villano
fra i cittadini, l’orgoglio del cittadino fra i villani, laprelunzione del
cortigiano fra i dotti, la noja del dotto fra i cortigiani, non proceder
da altro, che da maggior ufo in ciafcuni di quelli di combinare più
particolarmente oggetti di diverfe fpecie, nelle varie circollanze nelle quali
ciafcuni fi trovano. Chi poi da una fimile diverfità d’opinioni ecofiumi
riputalfe derivar difordine e fconccrto fra gli uomini, s’ ingannerebbe di
molto, perciocché per quanto diverfi fian gli oggetti apprefi e combinati
più frequentemente da ciafcuno, purché le combinazioni cogli altri ne fiano
armoniche, e conformi alla llelTaragione comune, non potran quelle elTere che
pur consimili, e perciò conformi fra elle, nè potran i codumi che ne
derivano effer difcordi o generar fra cfli difordine, eflendo anzi tutti
in ordine a una ftelTa verità o comun ragione. In eflètto rcflTer le opinioni
e i coflumi diverfi non toglie che non poffan elTer confimili, e ficcome
gli oggetti fon confimili per la femplicità e invariabilità delle ftedè leggi
motrici, per cui Il confervano c fi rinnovano in cialcuna e in tutte
le l'pecie, e fono diverfi per le diverfe mifure e modificazioni, colle
quali procede quel moto in ciafcuniper le medefime leggi ; all’ ilidìo
modo le combinazioni loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur
confimili nella loro diverfità, per una ragione comune invariabile in sè
fiefia, ma variabile nelle fue modificazioni, lecondo le quali quegli
oggetti fi a ppret\dono, e fi combinano da ciafcuni . Che le fi domandi un
rifcontro, per cui conofcere quella conformità di coftumi colla
ragione comune, fi dirà quello efl'er quello, per cui apparila, che elTendo
elfi utili a sè niedefimi, il fiano altresì agli altri, lenza che alcun
ne rifenta nocumento od oltraggio, mcrcecchè fe elfendo quelli a sè utili,
fulfero ad altri nocivi, allora non firebber elfi alla comun ragione o
alla verità di natura conformi, la quale è Tempre concorde e non mai a sè
lidia oltraggiofa; ma làrebber in conformità all’errore o alla ragion
particolare d’ alcuni a quella comune contraria, dillruttiva disè
medefima neila dillruzione degli altri, come s’è dillinto da principio. Con
ciò apparifee, come la diverfità di combinazioni d’immagini, e quindi
d’opinioni e collumi, non folo non apporta difordine in matura, ma ne
collituifce aU’oppolto l’ordine e la concordia migliore, purché non s’
allontanino dalla llelTa ragione a tutti comune, ciò che può avvenire in
infiniti modi; e in tai modi appunto diverfi fi dirà pollo l’ordine e
l’armonia medefima di natura morale, come ne’ modi di combinazioni in
conformità alle ftefTe segni motrici filiclie, è polla l’armonia di natura pur
liiTca. E invero dall’ applicare gli uomini di concerto, quali fu
alcune, quali lù altre fpecie d’oggetti più particolarmente, ne proviene che le
cognizioni fu effi e per erti refpettivamente s’accrefeano, e gli uni
accorrano in foccorfo degli altri, derivandone quindi quella perfualìone
e prudenza umana, per la quale ciafeuni per quanto è polìibile, ne’ varj
ullicj, profertioni e modi di vita per erti intraprcli piacevolmente
fulfirtono. Senza ciò combinando ciafeuni calualmente gli onnetti fenza
fcelta e fenza difeernimento di fpecie, non s’avrebbe che confufìone, e per
clTer gli uomini di tutte le opinioni, i collumi c le profellioni, non
farebbero di nellune. Ov’è da oU'ervare altresì l’iinportìbiltà in alcuni foli
di riconofeer tutte le azioni e tutti i cortumi, per quanto fian quelli
utili a tutti, e conformi alla coniun ragione, dovendo una tal conofeenza
dipendere dalla ragione appunto comune, e non mai dalla particolare di
quegli alcuni . Se quello folfe portabile, la natura avrebbe dertinati
gli uomini non in foftegno, ma a carico ed oppreHione gli uni degli
altri, e avendo formato alcuni foli intendenti ed attivi, avrebbe collituito
tutti gli altri llupidi e inerti. Egli è ben necellario, che alcuni
riconofeano le azioni e i collumi tutti, per quanto forter quelli
contrarj al bene e alla ragione a tutti comune, al qual fine furono
illituiti i Governi de’ popoli; mentre il conofeer fe un’azione
coll’crter utile a sè il fia pur ad altri, o fja ad altri nociva, è dato
ad ogni uomo in particolare, e martime a chi è dertinato a quella conofeenza.
Ma il prefumer alcuni* d’ inventariare e regolar tutte le azioni, i
collumi, le opinioni e le profèlfioni, per quanto fian utili a tutti, è un
prefumer d’efler quei tali di tutte le azioni, i collumi, le
opinioni e le profertìoni, cofa allurda, non elTcndo ciò dato dalla
natura ad alcuni in particolare, ma agii uomini in generale di tutti i
tempi, e di tutti i luo IV. Infatti poiché le combinazioni di oggetti
fono infinite non folo in tutte le fpecic, ma in ciafeune ancora di e(fi,
e non può intelletto umano apprenderne che un numero finito ; e oltre ciò
poiché gli oggetti non fi combinano che per conol'cere le verità fu effi
c per efiì, e tali verità non poffono rilevarfi per tali combinazioni, che
pel confenfo di molti fu quelle; iàrà dunque forza, che molti
concorrano ad apprendere c combinare, quali oggetti di alcune fpecie,
quali di altre particolari, clTendo cosi altri di alcune, altri di
altre inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti, a efclulìone
limile di tutte le altre; non efi'endo d’altronde poHibile che tutti gli
uomini, ciafeuni de’ quali debbono apprendere e combinare alcune fpecie
fole d’oggetti finiti; delie infinite fpecie che ve n’ ànno, s’
imbattano ad apprenderli e combinarli delle lleflè fpecie finite a
efclulìone delle infinite altre, e in tal guifa ad eflér tutti d’un
umore, d’ un’ inclinazione, e d’ un collume. A quello modo fi può dire,
eh’ tlfendo le immaginazioni d’oggetti diverfe, edelfendo pur
diverfe le opinioni e i collumi, fra 1’ una e 1’ altra diverlità v’ à però
quello divario, che elfendo la prima in riguardo a ciàlcun uomo, la
feconda è in riguardo a più d’ elTi, e che non avendovi pur uno che immagini
gli oggetti come un altro (r), ve n’àn però moltilTimi della llelfa opinione c
collume, diverfi dalle opinioni e collumi degli altri; in guilàchè
ladiverlìtà di opinioni e collumi, anziché divider gli animi, tenda ad unirli
dalla diverlità molto più amplafra le loro particolari immaginazioni col
vincolo d’ una loia ragion comune, alla quale quelle opinioni e
quei collumi, avvegnaché diverti, fian pur femnre conformi. Lo che non
avviene indarno, ma è llabilito con provida dilpcfizione, alfine di
verificare l’armonia delle immaginazioni diverfe per la conformità delle
opinioni confimili, giacché la diverfità poid’opinioni fra tutti non induce
confufione o difcordia fraefll, per la uniformità appunto di molti in ciafcuna
di effe, e per non opporfi nelTuna alla ragion umana comune, della quale anzi
ciafcuna opinione particolare coitituifce una parte, ed è modificazione
particolare diverfa. Certo è, che ficcome la diverfità degli oggetti
immaginati non confonde la natura, anzi ne coltituifce la vaghezza e perfezione
migliore ; cobi la diverfità delle opinioni e cofiumi, che di quella è la
conleguenza, non incomoda alcuni come quella che coftituifce anzi la varietà
delle azioni, e colla varietà la libertà, che di quelle azioni è il
carattere più gradito e migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi umani
tanto necelTaria all’umana fulTidenza, quanto ladiverfità nelle fpecie d’
oggetti lo è nella natura univerfai delle cofe V. Per altro ciò che fa credere
come fopra, che WC.Ff. n.ila diverfità degli oggetti combinati, e de’ coflumi
che ne procedono, apporti confufione edifordine, è l’equivoco di
confondere la diverfità colla contrarietà di dii oggetti e coflumi, e di
prender quella per quella, non potendo negarfi, che per opinioni e
coflumi repugnanti e contrari non s’apporti fconcerto e non fi dia motivo
a difordini, ciò che non è da temerfi per opinioni e coflumi diverfi. La
contrarietà però è tanto lungi dalla diverfità in tutte le cofe, quanto è
appunta ad effa contraria, ed è quella tanto implicante nelle
immagini degli oggetti e ne’ coflumi che ne derivano, come lo è negli
oggetti tutti creati, i quali pofìbno bensì efler diverfi, ma non mai
contrari, per dover efier tutti confimili, e poter bensì la fomiglìanza
aver luogo fra gli oggetti diverfi, ma fra i centrar) non poterlo avere
giammai, come per più induzioni e rifeontri fi farà chiaro qui in
feguito. Della contrarietà impofTibile de’ coflumi. Per meglio
comprendere le cofe fuddette è daconfiderarH, gli oggetti de’ quali fi tratta,
e dai quali procedon le immaginazioni, le opinioni, e i collumi umani, non
poter efferc che gli efjftenti, politivi, e creati, e non mai i negativi, non
efiftenti, e non creati, i quali non vi fono, e non fon nulla .
Polli poi alcuni oggetti pofitivi, i negativi loro contrari non poter efl'er
pofitivi giammai, e in confeguenza non poter efl'er del tutto, e pertanto gli
oggetti contrari efler del tutto impoflibili . In efletto fe oggetti tali
folfer poflìbili ed efiftenti, rimarrebber dibrutti gli uni negli altri nella
loro efillenza medefima, nè vi avrebber più quelli nè quelli • e il fupremo
artefice della natura farebbe autor ai contrari, o farebbe un principio
contradittorio e implicante lui Ueflo, vale a dir nullo ; quando pur non
piacefle ricorrere al ripiego di due principi in natura contrari ed ambo
efiftenti, per il’piegar appunto codefta fuppofta contrarietà di oggetti
pofitivi cercati ; ripiego adottato in vero da alcune menti fupcrficiali,
ma tanto pur contradittorio e allurdo elio llelfo, quanto la fuppofizione
medefima, a fpiegar la quale fu vanamente chiamato in foccorfo . Il
fuppor gli oggetti pofitivi c creati contrari fraeflì procede da
materialità di mente, per cui fi crede contrario all’altro quel che
fembra diftrugger l’altro fol perchè il vince d’ efletto, e fi crede cosi
uno di quelli negativo dell’altro, quando fon tutt’ due pofitivi del pari,
e quella apparente dillruzione non procede da qualità contraria, ma da
forza maggiore, per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la vince
nella parte che per prefervarla nell’ tutto . Cosi r acqua per efempio
gettata fopra un incendio, fi dirà fpegner il fuoco, non perchè ad elfo
contraria, o il negativo di quello, ma per impedir al fuoco di diftrugger
il tutto. E all’ iftelfo modo fi dirà, una fornace di fuoco aflorbire e vincere
una pinta d’ acqua fparfavi fopra, per l’ attività allora fuperiore del fuoco
nel confervare fe flelTo, e del par pofitiva a quella dell’acqua, giacché
nell’ uno e nell’ altro cafo ciafeun di quelli elementi efercita
tanto di fua polla full’ altro, quanta ne efercita quello fu quello,
accordandofi così entrambi anco a collo di loro ellinzione particolare,
per la confervazione loro e delle cofe comun politiva, e non mai per la
diflruzione loro e comune, eh’ è negativa, impolfibile, e nulla. Se
li domandi un contralTegno, per cui dillinguer gli oggetti politivi e efillenti
dai negativi e inelidenti, giacché dal volgo fi confondon gli uni cogli
altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er quelli fufeettibili di piò
modificazioni o mifure, quando quedi il fon di nellune, come il nulla
ch’é appunto di nelTuna mifura e non efide . Cobi 1’ acqua e il fuoco fuddetri
perché fufcettibili di piò modificazioni e mifure, fi diran politivi ed
elidenti del pari, avvegnaché creduti negativi e contrari l’uno all’altro. E
all’incontro il calore, la luce, il moto, il pieno creduti contrari
e negativi del freddo, delle tenebre, della quiete, e del voto, faranno
tali in effetto, per elfer quelli di piò modi, quando quelli il fon di
neffuno . Ma per quedo appunto faran quelle qualità create pofitivc
ed elìdenti, quando quede faranno non create, negative, e
inefidenti, o non elideranno che nella mancanza di quelle. Con ciò fi
dirà, il volgo ingannarfi nel primo cafo col creder l’acqua contraria al
loco, quando èfoltanto da quello diverfa, e non ingannarfi nel credere
quedi due elementi del pari efillenti ; e nel fecondo fi dirà lui
ingannarfi all’incontro nel creder quelle qualità tutte efìdenti, non
ingannandofi nel crederle contrarie, mentre per quedo appunto eh’ efiflono il
caldo, la luce, il moto, il pieno che fon di piò modi ; i contrari loro
freddo, tenebre, quiete e voto che non fon di nclTun modo di quelli, non
potrebber fuffidere. E in vero col toglier del tutto il calore, la luce.
Il moto, 1’ eftcnfione, non è che fi generi cofa alcuna pofitiva,
come freddo, tenebre, quiete, voto, ma è foltanto che annichilate quelle
qualità nelle fofianze create, vi rimangon quelle come nulla di quelle,
giacché il negativo è nulla di quel che nega fenzaeffer cola alcuna per sé
pofitiva, e gli oggetti o follanze create di calde, lucide, mobili, ed ellefe
che fono in più modi, tolte quelle qualità, rellan non calde, non
lucide, non mobili, e non ellefe ad un modo, vale a dire a nelTun di quei
modi. Quel che s’ è qui detto degli oggetti creati fifici, dee altresì
applicarfi ai morali, oai collumi uma come fi li avvedrà dall’appiicarlo alle
umane palTioni figlie delle imprelTioni di quegli oggetti, e madri di
quelli collumi . Imperciocché tali palTioni effendo fra sé diverfe, e
fullillendo come tali, non fono fra sé contrarie, e come tali non potrebber
fulfillere che con ripugnanza e contraddizione, eh’ è quanto a dire non
potrebber fulTillere in modo alcuno. In ell'etto l’amore, la compallione,
la giullizia, la libertà, e r altre virtù morali fon tutte palTioni pofitive,
create, ed efillenti ; e 1’ odio, l’ ingiullizia, 1’ oppreffione, la crudeltà
tenute volgarmente per palTioni viziofe a quelle contrarie, non elìllono
altrimenti come tali, ma fono all’incontro quelle prime palfioni medefime
che in luogo di adoprarfi in ufo comune e polfibile, per lo quale fono create,
fi adoprano in ufo particolare e negativo, per lo quale non fono create
e fono impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni non é tale
in sé llella, ma é apprefa per tale dalla dillruzione che fi feorge per
elTe nel particolare per p'fefervare il comune, come la contrarietà degli
elementi è apprefa dal vederli uno vincer l’altro nel particolare, quando
quella vincita é intefa a prelèrvar 1’univerfale (A) . Con ciò fi dirà, che
quel che fa le palfioni pofitive, fia lo llcnderfi efiTe.da sé ad altri,
con che la fpecie umana fi conferva coll* ordine di natura creato c che
fuflìfte; e che quel che la fa negativa, fia il concentrarfi effe in sè llcffe
con danno d’ altri, contro quell’ ordine che non fuflìfte, e per lo
quale il tutto fe fofle poflìbile s’ annullerebbe e andrebbe in
difperfione ; lo che però non avviene per la provida natura, che converte
quel difordine particolare in ordine univerfale- Tal Tinterefle per le foftanze
fparfo da sè ad altri, s’appella equità, prudenza, gratitudine, e tali
altre virtù confervatrici ; e riftretto insè folo, degenera in avarizia,
ingiuftizia, ingratitudine, per le quali contro natura tutti languirebbero e
perirebbero . L’ ambizione di onore, di potenza, grandezza e fimili,
difufa da sè ad altri, è virtù d’ ordine, e di concordia pofitiva; e
confinata in sè folo, è vizio di fuperbia, di oppreflìone, e di difpotifmo . L’
amor di fenfo fparfo da sè ad altri, è amor pudico, amiftà, compaflìcne,
per cui la fpecie fi propaga e fuflìfte; e raccolto insè folo, è lafcivia,
odio, crudeltà, per cui refterebbe la fpecie fpenta e diftrutta. In fomma
qualfivoglia paflìone, eflèndo virtù confervatrice fra tutti difufa, lì cangia
in vizio diftruttore di tutti col contrarfi in sè folo ; e finché le foftanze,
gli oi»ri, i piaceri procurati per l’interefle, l’ambizione, famore, colfeller
proprj fi dilatano ad altri, quelle paflìoni fono virtù, non illando la
reità di elle nel procurare il bene per sè, ma nel toglierlo ad altri, o
ne! procurare il proprio utile e piacere con altrui feiagura, onta, od
inganno . Perchè poi tutti certamente fuflìftono, e finché ciò avviene
non è da dire che tutti non fufliftano, fi diranno le paflìoni effer
fempre virtù pofitive e come tali fulfiftcrc, e come vizj a quelle contrari o
negativi di quelle, non fuffilter efle giammai ( « ), eflèndo tanto
contraditto- (j) C.VlI.ti.\. rio che fulTiftano inficine vizj e virtù fra
sè contrari, quanto che gli uomini tutti fufliftano e non fuffillano . Non
dubito, che quello dichiarare cosi ampiamente, che le paflìoni non fufliilano
come vizj, non abbia a parer Urano e (ingoiare a quei poveri di fpirito,
a’ quali fembra molto bene veder i vizj trionfare in alcuni. Lo sbaglio
però di cortoro Ha, nel confonder che fanno il particolare col comune
degli uomini, e nello (lar colla mente pur fitti in quello, come
chiufi con quello in un facco, quando la natura e il grande fuo
aurore non opera che per lo comune, e ogni particolare alforto e immerfo
ncH’univerfale fi perde del tutto e s’annulla. D’altronde fe il vizio è
contrario alla (j) C. in, virtù ei contrari non fon pclHbili (//), poiché
la vir3 - certamente fudllte, il vizio dunque non può dirli che
ludiila che per equivoco. E quell’equivoco fi dirà proceder da vuote
immagini, per le quali fi prendono a torto per politivi, oggetti che non
fono che i negativi di quelli; e quindi fi apprendono gli uni e gli altri per
eiillenti, quando per verità i negativi perquefio appunto che fiifiiilono
i pofitivi, non potrebber lulli(lere c(Ii (ledi . Cosi quantunque gli oggetti
detti volgarmente contrari, li prendano a vicenda per, pofitivi e p.r
negativi gli uni degli altri, è certo nondimeno i pofitivi (oli eilere
efillenti creali, ei negativi noncnérche il nulla di quelli, o il nulla
alfoluto, il qu^l non fuffille, o (udìile folo nella negazione del pofitivo .
Per la qual cola il contrario dell’ amore, della compadione, della equità,
della libertà come (opra, non è 1’ odio, la crudeltà, la iniquità eia
opprefTione come volgarmente è creduto, ma è il non amore, la non
equità, non comp.idione, non libertà che non fudìllono, come il contrario del
fuoco c dell’acqua non è 1’ acqua o il fuoco, ma il non fuoco, e la non
acqua che pur non vi fono. Quelle coiifiderazioiii fulle padroni
umane, che elTendo virtù diverle non fon mai vizj contrarj a quelle virtù,
fan conofeere, che i codumi altresì che ne procedono, pollono bensì clfer
diverlì, ma non mai contrarj, e che fe perquefli tufcono difordini,
ciònon' avviene che per quel bene, che dovendo procurarli per sè e
per tutti com’è polfibile, fi vorrebbe procurato per se a efclufione
degli altri, quafi ^ruggendo in tutti quel che vuolfi per sè parte di
quelli tutti, ciò che non può avvenire, e che in fatti non avviene,
giacché ogni bene procurato per sè con danno di altri, lì diUrugge alla
fine in sè ancora per la oppofizione e il contralto di tutti gli altri .
Procurandofi il bene al primo modo, le difcordie faranno imponìbili, e
ciafcun di tempera diverfa e non mai contraria a quella dell’
altro, s’ unirà ad elio per coitumi diverfi e non pur contrari, il
collerico col tranquillo, il timido coll’ ardito, il fcmplice coll’accorto, e
limili altri, come l* acqua col fuoco, e la terra coll’aria nella
compoGzione de’ corpi fifica . Ma procurandofi quel bene al fecondo modo o con
altrui oltraggio, le difcordie faranno inevitabili per rimpollìbiltà di unire i
contrari, ^ poterfi bensì unir l’ardito e il timido, ma non 1’ ardito e
il non ardito, e il timido e non timido, come può unirfi acqua e fuoco
ne’ corpi, ma non acqua e non acqua, e fuoco e non fuoco, quafi fi
voIelTe fulllfter da un lato quel che fi volefre difirutto dall’altro, o
quel che non potefle fullìftere fenza la diliruzione di quello che pur
fullifte . Egli è ben vero, che ficcome un elemento nel fìfico non
illrugge mai 1’ altro, per quanto contrafiino nel particolare, attefe le
leggi di moto invariabili ed eterne ; cosi nel morale una paffione, e un
cofiume che ne deriva, non dillrugge mai l’altra nel generale, per quanto
pur nel particolare s’ apprenda per a quello contraria, per elTer tutti
pofitivi e conformi a una comune ragione, non mai a sè lleffa contraria. Ciò
che conferma quel che s’è detto, le opinioni e i cofiumi umani eficr
diverfi, e combinarfi diverfamente, mediante una ftefia verità comune,
della quale fiano modificazioni diverfe e non mai contrarie, come gli oggetti
fon diverfi e fi combinano ineme nell’ opere di natura inedianti le fleflè
leggi di moto, delle cjuali (ianpur modificazioni nsion trui contrarie c
tempre diverfe . Airoppotlo non pt)ter quelli nè queffi etler contrarj,
nè combinarli in contrario j er errore comune, o per contralleggi di moto
impoflibili e nulle, per le quali foltanto potrebbero clfer tali, e
per r implicanza di ruflilter la t'pccie umana per coiiumi, e la natura
umverl'ale per leggi di moto, infierne col principio che dovefle dillruggerle,
o per cui dovelfero eller nulle . E conferma ciò ancora quel che è
aggiunto (/»), di elFer bensì poflTibile per attenzione particolare d’ alcuni
nelle nazioni, il riconofccrvi ogni male e 1’ deluderlo da elle, per
elfcr quello negativo e d’ un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile per
l’attenzione meddima, o introdurvi o crearvi ogni bene, per la ragione
contraria di dfer quello pofitivo, e di modi infiniti, onde l'uperare elio ogni
particolare attenzione che s’è detto finora dà facilmente ad intenCollucni ere-
Vedere, che non è già la diverlità, ma la contraduci comrar) j-jetà e
ripugnanza de’ coflumi quella, per cui non 1 . noco- degenerino
quelli in errori, e per cui nal'can fra gli uomini Iconcerti e difordini,
e ciò per la contrarietà fimilmente e non divcriità di oggetti e di
combinawC.VI.n.i. zioni loro, ful’e quali verlin le umane menti, e dalle
quali quei collumi derivano. Quelle combinazioni d’oggetti diendo innumerabili,
ed elléndo gli uomini nelle diverte iorcircollanze avvezzi quali all’une,
quali all’al(OC. F/. n.i. tre Ipecie di elle, faran dii cosi di divcrli
collumi, allor conformi alla verità, quando gli oggetti combinaci
fian reali, pofitivi edefillenti; e allor contormi all’ errore, quando
tali oggetti fian negativi, imponibili, innefiflenti c nulli . Imperciocché
lebbene gli oggetti fian d’innunurabili modi, e il nulla d’ un folo,
ciò nondimeno ficcome la verità eh’ è una, è di tanti modi, di quanti
puòcfTa atlermarlì nelle cok divcriè; cosi l’errore altresì
eflTendo uno, s’apprende pur di tanti caP- Vili! modi, di quanti quella
verità può negarfi, inguilà che tanti fiano i modi politivi di fullìlìere
per la verità, quanti s’ apprendono i negativi di non rulTifìere per
1’ errore, fuililìendo ogni cofa a un modo, e non lulli» ftendo la
Aia contraria al modo a quello contrario, e corrifpondendo verbigrazia 1’
ardito, il timido, il collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti
negativi loro non ardito, non timido, non collerico, con cller ciò
non oAante quelli tutti di più mudi, e queAi d’ un modo folo o di
nelTuno, come il nulla eh’ è di neffun modo . E^li è poi da confiderare, eh’
effondo la verità e la eiiAenza tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’
errore o il nulla tuttociò che non efilìe, e non efilten* do cola alcuna
che per la combinazione di oggetti di> verli, e non mai contrari;
parrebbe che il tutto C.Vir.n.t. dovclie l'ulfiAerc per la verità, e
nulla per l’errore, e che ficcome nella efilìeriza degli oggetti, così
nelle combinazioni loro e nelle inclinazioni e coftumi che ne derivano, non
dovelfe avervi che verità, efclufo fempre l’errore, cofa non generalmente
creduta dal volgo, il quale all’incontro non parla che di errori, e di
contrarietà nelle inclinazioni e ne’coAumi fra gli uomini. Chi però
meglio rifletta, conolcerà, quello elTcr verifftmo, ed elfer l’errore cosi
lontano dai coAumi umani, come dall’ opere di natura, che non ammette contrari,
e non erra giammai . Che fe v’ à chi crede diverfamente, ciò deriva da equivoco
di prendere il particolare per lo comune, come s’è accennato, eco- C.W.
«.4, me più efprelTamente fi dichiarerà ora, per ifpiegar meglio coi
fatti quelle verità, che fon lempre alcofe al volgo, e che bene fpedo fi
nafeondono ai filofufi ancora, che nel fìlofofare non fanno Aaccarfi dalle
volgari maniere di penfare, reAand > coi,i nella loro filolofofìa più
all’nfcuro del volgo medeltmo. Si dice dunque che lo sbaglio di prendere
il negativo per pofitivo, o l’ errore per la verità, nafee da» £ z
equivoco di prendere il particolare per univerfafe, c di credere che ciò
che può efler in quello con ripugnanza e dilordine, poflTa pur avervi in quello
con ordine ed armonia. E invero l’errore col nome fuofteffo, non porta alla
mente che un’ immagine di mancanza e di nullità, e il crederlo nei collumi
comune quando non è che particolare, procede da errore appunto o da
mancanza di difeernimento, per cui occupata la mente da vani timori, dà corpo
all’ ombre ed al nulla. Del rimanente s’ ei fembra nafeere e avvalorarfi
:n alcuni, non fi vede mai (lefo a tutti, e in quegli alcuni medefimi non
lì vede che vinto, e dillrutto dalla verità a tutti comune . Il fullìller
poi vinto e didrutto non è fullìller in modo alcuno, in guifache
chi fi lagna dell’error ne’coflumi, fi lagni di elTo che volendo pur con
vane lulìnghe e con faifeapparenze inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non
tenta mai altrettanto neU’univerfale, e in quel particolare medelìmo è didrutto
da quedo univerfalc, che il difapprova e il dichiara pur nullo . Per
quedo il comune degli uomini fi vede Tempre correggere il particolare, e non
mai all’oppodo; di che prova evidente fono i governi de’ popoli, fra i
quali tolti i più colti e fenfati, non v’à dubbio che non confidano quedi
in ciò, che per ellì colla verità e la ragione comune di tutti fi
didruggan gli errori, o le ragioni particolari di alcuni a quella contrarie .
Che le il governo delTo reggede i popoli per la ragione fua
particolare alla comune contraria, o per 1’ errore contrario alla
verità, come nelle nazioni barbare o fconcertate ; allora non elTendo quedo
certamente poflibile, quell’ ederno governo fi vedrebbe cangiato in
fimulazione, o in nullità elTo dedb, redando nondimeno la ragione e la
verità comune interna a governar la nazione realmente, Tempre per 1’
errore particolare da elTa vinto e didrutto in ognuno, e nel governo medefimo ;
verilicandofi così Tempre, che la verità c la ragion comune fia cofa reale,
pofitiva’i^A~prv'ìTr. ed efiftente, e che 1’ errore fia cola negativa,
innefìilente e nulla, comechè i'empre dilirutta da quella verità
medelima. Chi dunque precorre provincie e climi diverlì, e incontra
opinioni e collumi, per li quali fi fulTide in un luogo, alieni da
quelli, per li quali fi fulTilte in un altro; creda pure tali coliumi
quanto fivogliandiverfi, ma non li giudichi giammai contrarj, per eller
ein modificazioni diverfe d’ una verità a tutti corna* ne, che non è mai
a sè fleffa contraria. £ fe apparifcon contrari, li creda tali per fola appunto
apparenza, attefo ungoverno pur apparente, fimulato c nullo, (a)
giacché l’apparenza e la fimuiazione è nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.che è in fatto.
Del rimanente che fin a tanto che tutti nelle nazioni fufTiliono, i
coliumi comuni benché diverfi, non fian mai contrarj a una verità comune,
fi manifclia da quelio, che 1’ errore contrario a quella verità fi
troverà periéguitato e punito, vale a dir diiirutto da per tutto del pari, e
ciò fempre nel particoJare e non mai nel comune ; altrimenti converrebbe
dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo e in un luogo per la
verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’ errore e per la menzogna contraria
e diliruttiva di quella verità, cofa affatto affurda e impolTibile. All’ilielTo
modo i difordini ne’ fenomeni ffici debbono ìmputarfi a irregolarità,
particolari ne’ moti conformi alle leggi collanti e generali, per le
quali il tutto fuffifte, vinte però quelle irregolarità e fuperate fempre
da quelle leggi, lenza di che il tutto perirebbe, effendo cosi il difordine, la
dillruzione e l’errore fempre particolare, e 1’ ordine, la confervazione e la
verità fempre comune, fia nel fifico. Ila nel morale, e quell’ errore
fempre vinto e diflrutto da quella verità. Qui può oflcrvarfi, come quell’
effer l’ errore fempre particolare in ogni nazione e non mai comune, e
quell’, e queft'annullarfi per quello, quanto per fa verità comune in e(Ta
ruflìRe, dà a conofcere, che le fedizioni, i tumulti, le dilcordie, le guerre
fono nelle nazioni Tempre errori particolari, e non mai verità comuni, come
quelle che in effe diliruggono ciò che pur Tuffìfte in modi diverfi, ma
non mai contrari . Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni intiere,
cuna’ è la Trafc d’efprimerfi de’ Gazzettieri, non è che uno
sbaglio, per cui come fopra (a) fi prende 1’ ambizione e Terrore particolare d’
alcuni, come Te TolTe comune di tutti, i quali all’incontro non pnfl’on
fufiìfiere e non fufiìfiono, che per la comun verità e dilàmbizione. E fi ila
pur certi, che ogni nazione adonta di qualfivoglia an bizione o interclle
particolare che muova in tifa difeordia, prefa in comune non amerà
che la concordia e la pace. Quell’ ambizione poi e quell’ intcreflfe fi
manifefiano particolari dal fatto, per iadifiruzione che del pari ne fegue
delle parti ambiziofe e interefiate, fufiìliendn le nazioni nell’ intiero
per la concordia, al tempo fieiìo che per la difeordia fi difiruggnno
nelle parti . Che fe quella difeordia parefie comune, non farebbe di
nazione che fufiìfielle, ma farebbe dell' ultimo particolare fuo avanzo, che
facrificaiTe fe (lelTo al riforgimento di altra nazione, che fulle
reliquie della già diilrutta a parte a parte per errori particolari, fi
nnovafle intieramente per la verità a tutti comune, eh' è il calò di tutte le
rivoluzioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine tutte le nazioni progrefiive
e contemporanee, e tutti gli uomini in genere, fempre fia che ogni
difeordia, guerra o tumulto fra effi abbia a terminar in concordia, pace
e amillà per la verità comune che difirugga 1’ errore particolare, quando pur
fi voglia prefervar la fpecie umana, ficcome ogni pelhienza o procella dee
terminar in aere falubre e tranquillo, quando pur fi voglia prelervar la
natura, e non mandar tutto il fifico e il murale in
nonnulla. S’aggiunge, che la detta prevalenza della ragione c A P. Vili,
o verità comune full’ errore particolare a quella contrario, fi manifeda non
folo negli uomini conolciuti per giudi, ma in quelli ancora che fi reputano,
e cliepià fembran malvagi, e ciò per lo timore che accompagna
infeparabilmente quedi fecondi . imperciocché un fimil timore fe ben fi
confideri, non è che una pofitiva virtù eh’ edinta ogni altra, reda in cialcuno
a moderare e rafirenar i luoi eccedi negativi medefimi.
Laonde edèndo qualfivoglia malvagio Tempre più timido che malvagio, non
efclufi i tiranni medefimi ; farà Tempre ogni uomo più virtuoTo che reo
nella deTfa Tua reità, e farà Tempre vero, che 1’ error negativo rimanga
annichilato e didrutto da virtù politiva a 'quello fuperiore in quegli
deffi, che più Tembran menarlo in trionfo. In queda guiTa il timor pofìtivo
e virtuoTo, con frenar l’ambizione e rintercH'e dall’ offènder altri,
impedifee che quede padìoni, di pofitive e virtuoTe che pur fono in
propria e comun fuffidenza, diventino negative e viziofe in didruzione
altrui e propria (<i), e tien luogo di virtù nello dedb malvagio,
ia)C.VlI.n.^. come un elemento altresì nel fìfico contradando coli’ altro
per la confcrvazion pofitiva del tutto, impedifee la didruzion generai di
natura, che tolto un (imii contrado ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno
lùlTida, Tempre per 1’ aperta implicanza di fudidere cola alcuna
negativamente. Una fimil providenza nel WC.W/.«.i. morale (i manifeda non
folo ne’ rei fuperbi come fopra, ma ne’ giudi ancora da quelli oppredì, i
quali fon così virtuoli nella loro tranquillità e nella loro fidanza,
come il fon quelli nella loro agitazione e nel loro timore; ed è certo,
ogni oppredb innocente eder così contento per la verità comune che lo
allolve fugli occhi dell’univerfo, come il fuo oppredbre è feontento per 1
error fuo particolare, che combattendolo con quel timore, lo cruccia
nella Tua ignoranza fe non à talento, efe à talento, illude nel fuo
rimorfo. Refta dunque Tempre più flabilito, non avervi di contrario in
natura che la verità e 1’ errore, ed elfer quella una modificazione di
tuttociò eh’ eflde, e quello una modificazione di tuttociò che non efifle.
Il confidcrar ciò cIT efìfle come contrario a ciò che pur efille, è un
afTurdità ; e fe gli uomini apprendono per contrarie quelle cofe che non fon
che diverfe, ciò è Tempre per errore particolare, che non paflà ad
cfTer verità comune. Il contrassegno poi, per cui avvederli Te gli
oggetti fian diverTi o contrar) farà quello, di eflTer effi o non efTer
efiflenti, mercecchè Te eTiftono Ton certamente diverfi, e Ton contrarj
Te non eTillono . Ma per ben giudicare di quella efillenza o non eTiflenza loro,
debbon elR riTerirfì non al Tolo particolare, ma al comune di tutti . Il
dolore per eTempin e il piacere, poiché ambo Tuffiflono, Ton
certamente TenTazioni diverTe, ed elTendo diverTe non Tono contrarie .
RiTerite però al particolare s’ apprendono per contrarie, ciò che non rieTce Te
Ti riTeriTcano al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che Tofl'ra il
dolor con piacere, Tol che il riTeriTca non a sé Tolo, ma al comune degli
altri ; come Muzio contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel
Campo di PorTena, e di llrignerTi con quei braccio al Ten la Tua
Clelia, per addurre un Tolo degl’ innumerabili eTempj di eroi
TacrihcatiTi con dolore al piacere di giovar alla religione, alla patria,
alla verità inTomma comune, ciò che non avverrebbe Te tali TenTazioni
ToTfer contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza (0
C.r/J.a.j. che la virtù (c), la qual contrallata dai vizj particolari e non mai
comuni, può dirTi travagliata, ma non per efiì opprelTa. Laonde elTa fola
può dirli comune, come quella eh’ è approvata da tutti, quando il
vizio non può appellarTi che particolare, come quello eh’ è
dctelfato da ognuno, e dilàpprovato da quei medeTimi che lo proTelTano,
indizio evidente di eller quella poTitiva ed efìllente, e di efier quello negativo
e nullo. Certo è die (iccome futTifle quel eh’ è voluto ed è approvato da
tutti, come la virtù ; cosi quel che non è voluto e non è approvato da
alcuno, come il vizio, non può dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di
conlìderar quello come efiftente Ila in ciò, di confiderar per efiftente quel
eh’ è voluto da alcuni coi contrailo di tutti, quando non può
confiderarfi per tale, che quel che voluto da tutti, non è contraHato da
alcuno. Io non fo, fé tali dottrine convengano con quelle che lì
dicono degli antichi iloici, accademici, platonici, o altri, interpretate
dagli eruditi, e eh’ io non ò mai avuto la flemma d’ interpretare . So
che le ò apprefe dai lume naturale, dal quale poteano apprenderle quelli,
e può apprenderle ogni altro che fia i'eguace della verità comune, non
alterata da errore o da educazione corrotta particolare, e fappia che
un uomo non è tutti gli uomini, nè tutto il creato, ma uno folo di
quelli, e un’opera fola di quello. Se poi le mie dottrine non convengono
con quelle che corrono al prefente anco fra i più fludiofi, ciò è per errore
appunto particolare di quelli, che fedoni maffìme a quelli tempi da
dottrine fuperhciali di Comici che fi fpacciano per fìlofofi, vorrebbero
pur perfuadere il tutto effer peggio, contro il fatto evidente, per cui
la natura e l’uomo, col conferv'arfi e fufliflere, dimoflrano il tutto
efler meglio . La dottrina fra le altre della nullità dei contrae) (a)
non dee dirfi nuova, dacché fi troverà ella convenire coll’ altra non
nuova del tempo e dello fpazio, che efiendo quello la durata fola, e
quello la fola diflanza degli oggetti e delle foflanze create, non fuflìflono
così che negativamente, e fulTiflendo in tal modo, pofitivamente fon
nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e create, il tempo e lo fpazio reflan
come nulla di quelle, o come nulla adoluto, non pntendofi inver concepire
come polfan pofitivamente fufliflere o tempo, o fpazio, o diflanza
di cole, che non fufliflauo elleno flefle. Procedendo le inclinazioni e i
coftmni dagli oggetDella (labilità ti creati ertemi, e dalle combinazioni loro
nelle e inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo tali oggetti
invariaro(lumi. bili per le rtelfe invariabili leggi motrici, dalle quali derivano,
faranno altresì quelle inclinazioni e coftumi invariabili e cortanti, per la
rtdià inalterabile verità e ragione comune, per cui naCcono, fi confervano,
e fi rinnovano. Per la qual cofa ficcome quegli oggetti fi vedon perfeverare
gli rterti in ogni fpecie, e ogni pianta e animale fi rinuova in
pianta e animale confimile, (enza degenerar mai in altra di natura
diverfa; all' ilierto modo l’ambizione, l’interertè, l’amore, il timore’,
e limili altre partìoni, dalle quali rifultano i cortumi, fon collanti in
natura, nè tralignan mai in partìoni diverte nel propagarfi dagli uni agli
altri, e il fimile avvien dei cortumi. Quanto però cederti cortumi per quelli
motivi tono rtabili e fermi nella loro natura, tanto nelle modificazioni
loro fon variabili e incollanti, come appunto gli oggetti dai quali derivano, o
le modificazioni delle rtellè leggi di moto, dalle quali quelli oggetti
procedono. Ertèndo poi le modificazioni dall’ una e dall’altra parte
infinite, ed ertendo quelle di ciafeun tempo e di ciafeun luogo finite ;
i cortumi di ciafeun tempo e luogo, fempre gli rtelll per la rterta
verità comune, faran per le modificazioni di quella verità fempre diverfi
da quelli di un altro, come gli uomini finiti d’ un luogo e d’un tempo,
fimili fra loro per la rtabile loro natura, variano nondimeno
infenfibilmente in infinito di fembianze, d’afpetto, di maniere da quelli
d’un altro per le modificazioni diverfe di quella natura rterta . Con ciò
rinovandofi gli oggetti e le loro combinazioni in altre pur fempre
diverlè, anco per tempi e luoghi infiniti ; i collumi, le opinioni,
i gen), e le inclinazioni umane di ciafeun luogo e tempo vi dovranno
variare in infinito, come modificazioni fempre finite tolte dall’infinità di
tutt’ effe fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’ infiniti oggetti i. creati,
o dei coflumi che ne derivano, doveffer gli uni a un tempo efier gli
ftellì che gli altri ad un altro, ciocché ripugna colla fapienza e
perfezione infinita del fupremo autore della natura nelle fue opere. Perchè
poi tutti gli ilabilimenti umani in riguardo alla fucieià, e gf Imper) lieffi
dipendono dalle opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer quelli
nelle loro modificazioni ederne cosi variabili, non potran tali focietà o
Imper) avere labilità alcuna dipendente da quelle, ma dovranno infenfibilmente
variar di maniere, cola comprovata molto bene dal fatto, per cui
fcorrendo con occhio fugace per tutta quanta la ferie de’ tempi e de’
luoghi da Noemo a noi, non ci fi rapprefenta alla mente, che una perpetua
rivoluzione di Stati e d’ Imper) . Infatti effendo le opinioni e i
collumi in ogni impero attualmente finiti, ed effendo quelli di maniere
infinite pollibili, debbono dunque col variar de’ tempi e de’ luoghi finiti
variare infenfibilmente di maniere attuali e finite , e con ciò variar quegP
Imper), la cui divifione cosi, ellenfione e forma effendo fempre tanto
(labile e ferma, quanto la verità e la ragione a tutti comune ; farà
eziandio tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle e infinite di
quella verità, o quanto la divifione, ellenfione e forma delle opinioni e
collumi in ciafcun impero particolari, e comuni. Vero è, che fimili rivoluzioni
negl’ Imper) o ne’ governi de’ popoli non fempre fon fubitanee e
impetuofe, anzi il più delle volte feguon per gradi infenfibili ; ma fono in
ogni cafo le lleffe, o producono i medefimi effetti, e la
differenza ne dipende folo dalla verità o ragione comune che Ila
piò o men riguardata dai particolari, e per la qual, folamente poffon le
nazioni fulfillere. Perciocché fe quella verità farà dalla nazione
fparita, l’errore ol’ ambizione particolare che d’ effa avanza, dovrà dì
flrug F a gerla,,. IiT~gerIa, o diftrugger fe ftcflb colle difcordie e le
guerre, per dar luogo a quella verità di ricorrere a rinovar quella nazione
fott’ altro afpetto, e talvolta fott’ altro nome, nel qual cafo fi
diranno feguir le rivoluzioni con più di violenza e di fdegno . Ma fé
quella comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di quìifìvoglia
errore particolare, le rivoluzioni allora vi feguiranno a (Irida quiete, fenza
violenza e per gradi infenfibili, trovandoli nondimeno ia nazione col
corfo di lunghi l'ecoli del pari cangiata da quella di prima per varietà di
opinioni e coliunii, non però mai fra loro contrarj. Del primo cafo è
elempio qualfivoglia Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato, e in
particolare l’antica Roma, volta di Regno in Repubblica a’ tempi di GIUNIO, e
indi di Repubblica in Impero a’ tempi di Giulio CESARE, per ia verità comune a
quei tempi in e(Ta fmarrita, e per l’errore o per 1’ ambi Ìone
particolare non da timore frenata redatavi fola, per cui non era
poflibile che quel go%^erno, (la in forma di regno o di repubblica più
fuUìdefle. E del fecondo polFon eller efempio quegli Stati prefenti
Europei più moderati, che contano più migliaja di fecoli per fuccedioni di
Sovrani, ma che per opinioni e codumi non fon certamente quali erano alla
loro origine y e ciò per la delTa verità o ragione comune non mai
da e(Ti partita, quantunque diverfifìcata in modificazioni diverfe, che
(on appunto quelle divcrfe opinioni e codumi. Tuttociò fa conofcere,
come quel che cangia gl’ Imperi è in ogni evento la ragione comune di
tutti, per la quale pur fi confervano, e la qual ricorre fempre a occupar
il luogo dell’ errore particolare, per cui fe folTe pofTibile rederebber
le nazioni tutte didrutte, fenza che l’attività particolare di Giunio, di
Giulio, o d’altri v’abbia più parte di quella di qualfi voglia altro che
podìeda una fimil ragione, e che coll’ unirla alla ragione di quelli la
renda comune . Del rimanente che le nazioni prefenti d’ Europa non fian quali
erano da principio, e fi fìan rinovate in altre, non ferbando di fe
(ielFe che i nudi nomi, fi comprova da quello, che tolta qualfivoglia diede,
potrà quella ben appellarfi collo (Iciro nome di due i'ecoli innanzi, come per
la lleda verità comune fudlilere, ma non perciò fi troverà la llefla per
forma d’ inclinazio' ni e coftumi comuni che la collituifcano, o per
modificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà da quella tanto
diverta per quello capo, quanto dall’ altre nazioni fue contemporanee, e lo
fieiro avverrà retrocedendo di due in due fecoli più o meno, per quanto
le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i Francefi prefenti
diflèrifcono forte più per maniere e cotlumi dai pur cosi detti Francefi
di due fecoli innanzi, di quel che differifcano dai prefenti Italiani dillinti
da etti di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon d’opinione di difertar per
l’America, avran forfè più di conformità coi prefenti Francefi loro emoli, di
quel che pretendano aver per cotlumi cogl’ Inglelì loro antenati, eh’
erano d’opinione dv difertar per Soria, e così di più altri . E’ poi
chiaro, una fimile rivoluzione di opinioni e cotlumi nelle nazioni dover efier
tale, da non ricorrere o rinovarfi mai in netfune allo lleflo, fempre per
la detta ragione delle combinazioni di oggetti, e delle modificazioni che
ne derivano ne’ cotlumi, che tolte dall’ infinito a numero finito, fon
fempre diverfe fune dall’ altre per quante pur volte fi prendano (rt) . E
ciò non per dil^fizione umana particolare, ma per fitlema imperferutabile
di natura. Il comprender quello fitlema, vale a dir 1’ ordine, la ferie,
i rapporti di tali combinazioni di oggetti, e di tali modificazioni di
cotlumi, o perchè e come a certune abbiano a fucceder cert’ altre, in
luogo di tutt’ altre qualunque, è rìferbato alla mente dell’ autore
del tutto, nè potrà ciò mai penetrarfi da mente creata, finché fi trovi
nel pafieggiero fuo flato, avviota c ridretu dalle ritorte e dagl’ inganni de’sensi.
Qui cade a propofito d’avvertire l’errore di quelli, che lì figurano di
richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune per quanto vi fi
folTe l'marrita, col rinovar quelle leggi che ne preferivevano le
modificazioni a’ tempi decloro bifavoli, progetto del tutto affurdo e
impofTibile . La verità e la ragione comune potrà ben richiamarfi per
leggi, per quanto a’ tempi trafandati folle Itaca più riconofeiuta per fé
ItelTa in quei coltumi, di quel che il fia a’ tempi prefenti per
coltumi che la modificairero in contrario di sè medelìma, giacché elTa in
sè llelTa è una fola di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ma il
richiamarla al prefente per le fue modificazioni antiche, quando tali
modificazioni debbon ad ogni tempo elTer diverfe, non può elTere che una
miferia di mente, per cui lì creda la natura non più capace d’invenzioni
in fua condotta, di quel che fiafi un povero Conllgliere fecreto che
creda operar in fua Wce. Chi declama contro i nuovi coltumi che fi vanno
introducendo, e deplora gli ufati che fi van diftifando; à molto ragione fe i
nuovi coltumi fon modificazioni dì una ragion men comune, di quel che il
fiano gli ufati che a quelli dan luogo . Ma fe i nuovi coltumi fon tanto buone
modificazioni della comun ragione, quanto gli ufati che fi perdono ; ei
declama inutilmente, come fe ciò foffe contro il variar de’ venti,
elTendo 1’ una e l’altra cofa quanto innocente, tanto, inevitabile e neceflaria,
e potendo, anzi dovendo quella comun ragione per difpofizion di natura, e
per fapienza illimitata del fupremo fuo artefice, praticarfi fempre per
modificazioni diverfe, e comparire in fembianze che non fiano giammai le
flelle, elTendo nondimeno la. ItefTa per sé medefima . Senza quelto
una fimile verità o ragione, correrebbe rifehio di non efercitarfi che
per inganno ; ed è ancor vero, che talvolta con richiamare la verità, la
ragione, il valore e la religione fteflfa per le fole loro
modificazioni eflcrne di tempi molto remoti, f» rielce a perdere tutto il
fenfo reale ed interno di quelle virtù, invariabili per sè flede,
riducendole a quelle materiali loro modificazioni eflerne, fenza alcun rapponto
a quell’ interno lor SENSO E SIGNIFICATO. Ma intanto è qui da
avvertire, che quel che s’è detto finora in ordine all’ illabilità
de’coflumi, non fa torto ad alcuno, e non è detto per accufar gli uomini
di leggerezza o d’incoflanza, ma per anzi giuflificarli d’ ella, e per renderne
ragione, come di cofa inevitabile e neceffaria, la qual non riguarda in
eflì coflumi che le modificazioni eflerne d’una ragione comune interna,
che debbon cangiare, come le modificazioni eflerne degli oggetti fenfibìli,
dalle quali quelle tengono dipendenza. Dail’altro canto ficcome quelli oggetti
cangiando modificazioni fon purglifleffi in tutti i luoghi e a tutti i tempi,
per le fleffe leggi di moto che li producono ; il medefimo avviene
de’coflumi, ed è fempre una flefla invariabil ragione e verità comune,
che per varie vie li guida e governa . Per quello s’ è veduto, quella ragione
comune effer la fola, per cui gli uomini lufTiflano infìeme, come per
quella che può ben effer diverfa nelle diverfefue modificazioni, ma non
può mai a sè flcffa effer contraria, nel qual cafo foltanto la comun
fuffiflenza farebbe impoffibile ; ond’ è che non è effa contraria che per
difetto o ragione particolare di alcuni, e non mai di tutti. Ciò fa che i
governi o gl’ Imperi fian fempre confimili, per quella fleffa ragione comune
per cui fullìflono, avvegnaché diverfi per le modificazioni diverfe di
quella ragione medefima, non oflante qualfivoglia irregolarità
particolare, come gli oggetti fenlibili eflemi fon fempre confimili
nelle loro fpecie, perchè fempre in conformità alle flefle leggi
motrici, benché ne fìano diverfe le modificazioni, e non oflanti alcune
irregolarità in eflì fifiche . £ potranno quelli e quelli fuffiflere a
ragione benché dive rfa, giacché i mollri nel filico e le calamità nel morale
lòn cafi infoliti e particolari, e il confueto e comune non è calamità e
difordine, ma é ordine ed armonia . In effetto la ragion comune, dalla quale
deriva il difintereffe, la dUambizione ed ogni altra virtù, per la quale
fuflillon gl’ Imperj, é invariabile, ed è di tutti i luoghi e di tutti i
tempi, e ne fon le modificazioni infinite. E iflelfamente la ragion
particolare, dalla quale procedono 1’ intereffe, l’ambizione, e gli altri
vizj per li quali col diflruggerfi fi rinuovan gl’ Imper), è pur la lidia,
in quanto é Tempre contraria alla comune, con modificazioni altresì
infinite a quelle contrarie . Ma è poi imponibile che quella
ragione particolare viziofa diventi comune, com’ è imponibile che i
turbini e i terremoti fiano incdlanti e collanti, mercecché in quello cafo
rimarrebbe la natura non variata, ma dillrutta, come in quello
rimarrebber non rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj. Nel rimanente le diverfe
circollanze comuni e particolari, nelle quali fi trovino le nazioni per
le divcrlé modificazioni d’ una lldfa ragion pur comune o particolare,
fon quelle che giullificano o non giuflifino le opinioni e i collumi diverli.
Così gl’ Inglefi avran per avventura tanta ragione di difettar ora
per l’America, quanta ne avevano innanzi di difettar per Sorla, fe
tali opinioni diverfe faran conformi del pari alle diverfe circollanze o
modificazioni di ragion loro comune d ambo quelli tempi, di che farà
indizio appunto l’ellèr quelle all’uno e all’altro tempo comuni. Perciocché fe
la nuova opinione non folfe cosi comune come l’antica, non farebbe quella
così conforme alla comun ragione, come lo era l’antica, ma potrebbe
elfere qualche opinione o errore ancora particolare alla verità comune
contraria. Il fuppor gl’ Inglefi che difertan per Bollon più fenfati di quei
che difettavano per Sorìa, quando quelli difettavano di comune
confenfo, e quelli difertano coll’oppofizione di mezzi i voti della nazione, è
un’ alTurdità . Del redo non fi nega che sì una fpedizione che un
pellegrinaggio non pofian eficr conformi alla comun ragione, purché fian
efiì tali da attirare il comune confenfo. E ciò non per attività d’un
Ammiraglio o d’ un Romito che li pcrfuadano, ma per ragioni piò alte, ordinate
da una fapienza eterna, la quale nel crear una fola ragione, ne coditu)
le modificazioni diverfe, e volle che non ladiverfità, ma la contrarietà delle
opinioni e coftumi fodè quella, che da queda comun ragione li dividede.
Quelche s’ è detto di fopra, che le immagini C A P. X. degli
oggetti da ciafcuni apprefi non tengan rap- De’ cofhimi 'porto necedario
alcuno colla favella e colle voci, efpreffi perla per le quali fian ede
efpredè agli altri, dee applicarfi f»ella. eziandio alle combinazioni di
quelle immagini, dalle quali derivano le inclinazioni e i codumi diverfi, le
quali combinazioni d’immagini non terran così nedunnecedario rapporto con
quelle delle voci, o colle regole gramaticali di lingua, per le quali fi
manifedano, oli partecipano agli altri. Ciò fi verifica idedamente
dall’ edere tali regole pure dabilite di comune confenfo arbitrario di
quei foli, fra i ^uali quelle combinazioni d’ immagini debbono
comunicarfi (c), e che così comu- (#)C.iF.«,i. nicano di codumi e
d’inclinazioni a efclufione d’ ogni altri . Ond’ è che ove manchi queda
comunicazione, nedune lingue o regole di ede fono in ufo, e ove effa
v’abbia, le lingue e le regole d’ede perciò introdotte, non s’ apprendono dalla
natura, ma da fola meccanica fcoladica, o da idruzione pratica d’altri, fenza
apprender perciò niente più di reale (d), e fuor di WCy.n.ì. queda
meccanica, l’ ufo dejle lingue farebbe impoflìbiIc. Del primo è prova ogni
felvaggio, il quale perchè non in calo di comunicar ad altri le proprie
combinazioni d immagini, non à favella veruna, nè articola alcune voci
introdotte fra gli altri, non occorrendone certamente a lui alcune per
efprimerfi a sè medelìmo. E del fecondo è prova ogni bambino, che alla
villa degli oggetti che le gli prefentano, non proferifce naturalmente che
llravaganze, finché colla propria efperien- za e coll’illruzione non
ifcientifìca, ma pratica altrui, non s’ alTuefaccia a proferirli e
cultruirli per voci alla maniera accordata fra gli altri, coi quali più
comunica, e non mai alla maniera fra quelli, coi quali non comunica
d’immagini e di collumi . Ancorché poi le combinazioni d’ immagini degli
lleflì oggetti, non ab- bian verun necelfario rapporto colle combinazioni
di voci, colle quali li proferifcono ; per elTere nondimeno quelle
tutte confimili, atteli gli (ledi oggetti, e tutte diverte, attefe le
diverfe combinazioni loro nelle ciafcune menti; c per edere altresì una favella
colla quale fpiegarle la della per ciafcuni, ma pur diverfe
le combinazioni in clfa di voci nelle ciafcuni bocche d’innmnerabili
perfone ancora le quali efprima- no altrui uno llelfo fentimento
colla llelTa favella, fic- come non ve n’àn pur due, che apprendendo gl’
og- getti dell! li combinino indiamente nel lor cervello ; così non
ve n’ àn pur due, eh’ efprimendoli con quel- la favella, li efpriman
colla deda difpolizione di voci; in guifa che poda dirfi eziandio, che
quede innume- rabili perfone liccome edendo della della fpecie, pur
fon diverfe ciafeune dall’ altre per fembianze ederne e per tuono delFo di
voce, così elFendo dello dedo fen- timento e della Itelfa lingua,
s’efprimano nondimeno agli altri cialcuno con diverta difpolizione di
voci o di termini di quella lìngua medefmia. II. Inoltre
quella idabilità d’oggetti, eh’ edendo gli dedt per le Itede leggi
motrici, pur lì cangiano del continuo per le infinite modificazioni di
codedo moto; e quella delle inclinazioni e codumi, eh’ ef- fendo gli dedi
per le delle padioni d’una ragione co- mune, van pur perpetuamente
cangiando di modificazioni,(! riconofce altresì nelle lingue, eh’ edendo le
llefle per la ftefla impulfione d’aria fofpinta dai polmoni, rielcon pur
diverle per l’ articolazione di voci, o per modificazioni diverfe di quell’aria
fofpinta. Perciocché eflendo effe intefe a efprimer le
immagini quali fon combinate, e i codumi quali fon praticati, egli
è pur forza che feguaciò che per nota efperienza fi vede feguire, vale a
dire che difufati in ciafeuna lin- gua del continuo alcuni termini, fe ne
foftituifean di nuovi, non per altro certamente, che per fecondare
la detta diverfìtà di modificazioni, (la nelle immagini de- gli
oggetti, fia nella pratica de’ coAumi che ne derivano. E quantunque quella
diverfìtà di modificazioni negli oggetti e ne’cofìumi, proceda con più
d’unifor- mità, per elTer ella opera di natura ; non manca però più
o men efattamente di tener dietro a quella la diverfìtà de’ termini in ciafeuna
lingua, con quella imperfezione, colla quale fi vede fempre l’arte imitar la
natura. In efi'etto, del difufo fuddetto di termini in ogni lingua viva,
e dell’introduzione in efla di termi- ni nuovi fuir eftinzione di quelli,
non fì faprà afìegnar altra ragione, che quella degli oggetti apprefì e
com- binati, e de’codumi che ne derivano, eh’ elTendogli flefit per
la flclTa ragion comune, fi van rinovando per modificazioni di quella
diverfe col variar de’feco- Ji, giacché le lingue non fono inllituite e
non fono intefe che a quello, di efprimere quegli oggetti e quei
collumi così combinati e cosi diverfamente modificati . Dimanieraché per
la ftefla ragione, per cui non v’ à luogo, in cui corrano le opinioni e i
coftumi di più fecoli innanzi, cosi non v’ abbia luogo, in cui s’
ado- pri la lingua d’ allora; e fia cosi impolfìbile di richia- mar
fra gli uomini quei coftumi (c), com’è impoffìttile il richiamar quella lingua. Da
ciò s’apprende, come il determinar una favella di tutti i luoghi e di
tutti i tempi, farebbe lo fteflo che determinar un opinione e un coftume,
ouna combinazione d’opinioni e di coftumi pur d’ogni luogo e d’ogni tempo
; vale a dire che determinar la facoltà intellettuale umana, e limiurla
non folo all’ellenfìo- ne, ma alla qualità ancora e ai modi delle fue
cogni- zioni in ogni luogo e ad ogni tempo ; cofa 1’ una e l’altra
imponibile, per non poter elTa accordafi colla fleda limitazione umana
intellettuale . Perciocché l’ in- telletto umano per quello appunto di
edere limitato nelle fue cognizioni, dee variarne’ modi e nelle
qua- lità di edè ; e per eder quedi modi e quede qualità infinite,
dee verfar più quando fu alcune di ede, quan- do fu altre, e quindi
adottar quando alcuni, quando altri codumi, elprimendo in conleguenza e
comuni- cando tuttociò altrui, quando coU’une, ^uandolcoll’al- tre
voci o favelle . Siccome poi col variar di combi- nazioni d’ oggetti e di
codumi non fi ricorre giammai ai modi ufati altre volte, ma le
modificazioni ne fon fempre diverfe ; così col variar delle lingue
vive non fi ricorre giammai a rinovame o a replicarne al- cune
delle morte oltrepadate, ma fe nc formano altre dapprima fempre inaudite,
e non mai per innanzi ado- prate. 11 tutto per le infinite maniere, colle
quali pof- fono combinarfi gii dedì oggetti, gli dedi codumi, e le
dede articolazioni di voci, colie quali proferirli, attefa una fapienza
eterna e infinita, che regola tut- to quedo magìdero con leggi uniformi
in sé dede, ma varie fempre nelle loro modificazioni . Per quedo
gli eruditi pudono bensì lufingarfi d’ idruird. e di ra- gionare de’
codumi e delle lingue antiche, per quan- to é podibile ravvifarle a un
lume che d va fempre allontanando, e per quanto è podibile alla vita
uma- na caduca tener dietro al tempo indancabile ed eter- no . Ma
il figurarfi d’ aver de’ codumi e delle lin- gue perdute, quella contezza
che fi à de’ codumi e del- fe lingue viventi, o il lufingarfi di
raccapezzar dai po- chi frammenti che redano, quel tanto più che
non teda de’ lècoli antichi, é una vana credulità ; ed è come lufìngarfi
d’ indovinar per le poche fandonie che foglion narrarfì delle Sibille, tutto
quel che per avventura avelTero quefte fcritto ne’ libri loro, che fi di-,
con arfi nell’ incendio del Campidoglio Romano. Per altro la diverfità di lingue,
che come fopra dee avervi nelle nazioni, per la diverfità in elle di
og- getti combinati, e di collumi che ne derivano, e 1’
impoHìbilità di elTer tutti d’ un collume e d’ una favella (a), fan conofcere
che la natura unifce in vero;. gli uomini hno a certa mifura, alla quale
polTan elTi giovarfi, ma li difgiunge oltre a quella mifura, nel
qual cafo la loro unione elTendo inutile, farebbe incomoda, e potrebbe renderft
ancora nociva. Certo è, che fe r ufo dell’ illelTa favella indica la
necelTità di llar gli uomini uniti, per accorrere gli uni in foccorfo
degli altri, ciò che non può verifìcarfì che per favella che fia la llelTa ; 1’
ufo di fevellar diverfamente indica la nelfuna necellìtà di Har elTi
uniti a quell’effetto, giacché fra perfone di favella diverfa nelluna
comunicazione di fentimenti, o nelfuna fcambievole ali^ llenza può
interceder giammai . D’ altronde le occorrenze umane fono ognor limitate, e non
poflbno llenderfì oltre a quei limiti che con difagio comune degli altri,
e con illufione particolare disè medefimi, elfendo in vero un’ illufione e un
inganno, che quel foccorfo Ila di provedimento, di diletto, di piacere,
di difefa o d’altra qualunque occorrenza, che ognun può confeguire
da altri loncan tutt’ al più dieci miglia, abbia da attenderfi
edalanguirfi da altri, di favella inintelligibile, e lontani le migliaia e
migliaia di mK glia. Con ciò^ fì direbbe, che quel che congrega gli uomini
lino a certo numero, al quale poffano confervarfi dell’ illelTa favella,
fia la natura amica della fuflillenza e del piacere verace ; e che quel che li
congrega oltre a quello numero, al qual non pollano confervarfi d’
una favella, fia T ambizione particolare dillruttiva della fpecie,
corruttrice del vero piacere, e amica del De’ coftumi
efpreflì per favelle diverfe piacere ingannevole. Ciò fi comprova dal fatto,
per cui gli uomini finché fon dell’ ifiefla favella, più convengono
infieme, e più s’ accrefcono per arti di moderazione c di pace, come
nelle nazioni più limitate d’ Europa, e qualor diventano di più lingue,
come negl’ imperj più valli dell’ Afta, non polfono fofienerfi che per la forza,
e fi diftruggono per queir arti ftefle di luflb e di guerra, per le quali
credono bonariamente di confervarlì, e di foccorrerfi gli uni gli altri ;
come in fatti fi trovano quivi a molto minor numero che nell’ altre nazioni d’
una fola lingua, avuto riguardo all’ellenfion delle terre . E fi comprova
ciò pure dalla dipendenza neceflarìa degli uni dagli altri, quando pur voglian
gli uni cogli altri fupplire ai bìfogni comuni . La qual dipendenza di
ordinazione e fubordinazione può ben avervi fra perfone della fleU'a
lingua, ma fra quelle di lingue diverfe non può avervi che con inganno,
eflendo invero impoffibile che gli uni dipendan dagli altri, quando ignorano
fin la favella, per la quale dipendere . Dacché fi conclude, che la
faggia natura vuol veramente uniti e congiunti infieme tutti gli uomini
dell’ univerfo, ma per il folo vincolo di amore e di ragione loro comune
; e che quel che li tiene uniti per tutt’ altro titolo, non fia che la
llolta ambizione e 1’ interefle loro particolare, ben divcrfo da
quell’amore e da quella ragione, e talvolta a quelli contrario . Q
uella ragione che fa, che gli uomini dell’ illef_ fo luogo e dell’ ifteflb
tempo fiano dell’ illeffa favella, per la necelfità di comunicare infieme d’
immagini d’ oggetti, e di collumi (rf), fa non meno che a luoghi e tempi
diverfi fian di diverfe favelle, per la nelTuna necelfità allora di una limile
comunicazione, elTendo d’altronde le voci, colle quali comunicar
d’immagini e di collumi per le llef fe infinite, ed eflendo finite
quelle, colle quali a' qualunque tempo e luogo particolare, comunicar
d’immagini c di collumi di quel tempo, c di quel luogo particolare . Ma
oltre ciò quella ragione che fa, che ciafcuna lingua vada alterandoli
riguardo a sè llefla, per r alterazione che va feguendo nelle
modificazioni degli oggetti e de’ collumi medelimi allo IlelFo
tempo e nello ItcITo luogo, fa che s’ alteri molto maggiormente riguardo
all’ altre di tempo e luogo di verfo, per feguire l’alterazione degli
oggetti e de’ collumi molto più notabilmente ne’ luoghi e tempi feparati e
lontani, che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al medefimo afpetto
de’ pianeti . Da ciò ne deriva, che non polfan gli uomini mai fpiegar
così bene le proprie combinazioni d’ immagini, e i proprj collumi e
fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luogo, come li fpiegano colla
propria, ciò intefo degli uomini in genere, e degli affari e collumi loro
non già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle accademie 0
ne’ gabinetti, ma dei più fìgnificanti e comuni, che fi trattano nelle
piazze e nelle famiglie. E invero effendo ogni favella illituita per elprimere
gli oggetti e 1 collumi d’ un luogo e d’ un tempo, e dovendo quella
variare col variar di quelli; l’adoprar a un tempo c in un luogo una
lingua illituita per efprimere oggetti e collumi d’ un altro, farà ognor più
difficile, per doverli allora follituire alle voci più proprie e
più precife di quegli oggetti e collumi, voci intefe a clprimcrne altri
da quelli diverfi, e in confeguenza men proprie per elprimerli, e men
precife . Che gli oggetti e collumi di ciafeun luogo e tempo fian
diverti da quelli di ciafeun altro, e che per ciafeuni corrifpondano
termini e voci diverfe, fi manifella oltre per quel che s’è detto, per li
Dizionari ancora particolari, ciafeun de’ quali fi vede più carico e
ricco di quelle voci, che più corrifpondono agli oggetti e collumi del
luogo e tempo, in cui la lingua d’eiTi è nativa; carichi in confeguenza
cricchi meno di quelle, che più corri fpande{Iero agli oggetù e
coftumi d’ogni altro luogo e tempo, incuifolTe quella lingua ftraniera. Non per
altro certamente, fé non ' perche ciafcun luogo e tempo à i Tuoi coflumi
che non fon precifamente quelli d' un altro, e per efprimer ì quali non
mancando mai le voci nella lingua di quel luogo o tempo, mancano bene
fpefTo nella lingua dell’altro. Per elempio nel vocabolario arabo diceli, il
Cammello efpredo con voci mille ed una, quando nell’italiano fi tiene per
efpreflTo abbadanzapet qued’una fola, lafciate fuori le mille ; e ciò non
per altro, che per la moltiplicità d’ufi di codeiio animale nelle
contrade arabe maggiore che nelle italiane, per la quale moltiplicità,
gli oggetti e i coftumi diverfihcando nell’une e nell' altre regioni, diverfamente
s’ efprimono. E lo fteifo fi direb^ d’ innumerabili altre produzioni animali e
vegetali diverfe degli uni luoghi e tempi, in riguardo a quelle di altri
. Ch’ è la ragione, per cui un Dragomanno pratico del pari della
lingua araba, e dell’ italiana s’ arreda bene fpelTo nel ragionar di cofe
italiane colla prima lingua, e nel ragionar di arabe colla feconda ; e
per cui parrebbe ancora, che Cicerone defl'o non potcfle al prefente
elTer cosi buon fecretario di lettere latine in Roma, come alcun
crederebbe, per gli oggetti e affari romani prefenti molto diverfi da
quelli, de’ quali ei fcriveva ad Attico a’ fuoi tempi, e richieder
pertanto gli uni e gli altri qualche diverfità ne’ modi di efprimerli. Tutto
ciò fi dice, non perchè il poffeder più lingue non abbia a riputarfi un
ornamento, neceffario ancora a chi non contento degli oggetti e codumi
vicini, che forfè non intieramente intende, anela ed applica ai più lontani che
intenderà fempre meno; ma perchè fi fappia che gli uomini delle nazioni,
ficcome ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diverfi da quelli
degli altri, cosi ànno una propria lingua, per cui efprimerli, che non può
effer quella degli altri: e che~^~ A T vi" ficcome non adotteranno
mai bene gli altrui oggetti e coftumicomei propr), cosi non efprimeranno
mai quedi cosi bene coll altrui, come colla propria favella. Dall’
altra parte la cognizione di più lingue non è cognizione f«r se Itella, ma è un
mezzo per cui comunicare foltanto a più altri quelle cognizioni, che
folle cofe e non fulle parole, fi foflcro apprefe - e un WC.F. n. 3. dotto farà fempre
tanto dotto con una lingua, come con dicci, ficcome uno fciocco non fi
manifefterà men Iciocco con dieci lingue, che con una fola. A ciò
riguarda lo zelo, col quale ipiù fenfati antichi, e moderni ancora, fi fono
ognor dichiarati a favore, e àn fempre altamente parlato in commendazione
de’ patri lari, de patrj collumi, de’patrj iflituti, e della patria
tavella .Ognun che trafcuri tutto quefto per quanto é fuo, affine di
adottarlo per quanto folle dUltri, fia certo che trafeura quel che a lui è più
naturale, per aflumere e tenerfi a quel che gli è meno, e che ciò è coinè s ei
fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui, che non fe gli
adatteranno mai bene indoflb . Un uomo di tutti 1 coftumi, di tutti i
fentimenti, e di tutte le lingue, fuole dal popolo e dai romanzieri
ammirarfi come un portento . Un uomo tale per la verità c per la natura,
farebbe un arnefe infignificantee contraddittorio, di nelTun coftume,
fentimento, o favella che almen foffe Aia propria (A), com’ei farebbe di
nelTuna nazione e religione, quando intendeffe eflèr di tutte. Del
rimanente col diffinguere come fopra, idiverfi oggetti e coffumi di ciafeun
tempo e di ciafeun luogo (c), non s è già pretefo di dividerli in modo,
y che non abbian poi a convenire allo llelTo, per auan *°‘“«,'.P™«donp
dalle ffefle invariabili leggi motrici, c dall iffefla ragion urnana
comune ; per la qual cofa le lingue altresì fi vedon poi quafi confluir
tutte in una, allorché gli oggetti, i coftumi e i fentimenti in
fomma umani efpreffi in una favella, fi trafportano a qualfivoglia altra.
Ma s’è pretefo con quello foltanto di far conofcere, che quella convenienza che
corre fra r une e 1’ altre lingue in riguardo appunto a codefie leggi e a
codefia ragion comune, per cui gli oggetti e i cofiumi fono confimili,
non pofla correre in riguardo alle modificazioni di quelle leggi e di
quella ragiotie diverfe, per le quali gli oggetti e ico». 1 . Itumi fon pur
diverfi. Ona è che per 1’ une e T altre lingue s’ efprimono oggetti bensì
confimili, ma diverfamente modificati, e per le voci vir, uomo, e
s’ cfprime il medefimo uomo, ma diverfamente modificato in Lentulo,
Giampietro, e Ricardo, come s’è veduto. Quefte modificazioni dunque
diverfe d’oggetti e cofìumi confimili fan fempre conofcere, eh’
efpreffi ciafeuni di quelli in una favella per modificazione a sè naturale e
nativa, trafportati ad un altra non pefTon ferbare la nativa lor
proprietà e vivezza, ma debbon perdere di loro efpréffione più naturale. A
quello modo fi dirà, che pofla ciafeun valerfi d’una lingua flraniera
qualunque, per quanto gli oggetti, i collumi e i fentimenti fono gli
llelfi e confimili a tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che non pofla
poi così propriamente valerli di efla come della propria, per quanto
quegli oggetti, collumi e fòntimenti elfendo confimili nelle loro fpecie, fon
poi diffimili nelle loro modificazioni col variar de’ tempi e de’ luoghi
. Dacché apparifee di nuovo, come natura fempre a fe fteflà uguale e
fempre faggia, avendo ordinato gli oggetti, i collumi e i fentimenti tutti
confimili, ma pur diverfi ; col conceder agli nomini la ilefla favella
perchè poteflero foccorrerfì gli uni gli altri per quanto occorrefle, la
concefle altresì diverfa, per quanto un fimil foccorfo poteflè renderfì
loro inutile, o potefle ancora convertirli in dannofo. Ma all’illeflb
tempo confervò nondimeno tutte le favelle confimili, per avvertirli d’ una
Ulefla ragione e amore comune, per cui doveflero tutti trovarfi
uniti e concordi ; quafi avvertendoli, che per fuppLire ai bifogni
fcambievoU di iudilienza, baftava 1’ opera im* mediata di pochi fra loro
vicini d’ una litigai medesima; e che peramarfi dovevano tanto Stenderli,
quanto le favelle loro cflendo diverfe, foflcr tutte confimili, dovendo
cosi il circolo dell’ amore fra eSli edere incomparabilmente più ampio, di
quello dell’ interede comune medeSitno. V. Ma ritornando
airalterazione Solita feguir col progredo de’ tempi in ciafcuna lingua viva, è
da odervarfi, che Sebbene queda foglia, e debba molto imputarli al
commercio degli uni cogli altri popoli di lingue diverfe, e all’invafioni d’un
popolo d’una lingua folle terre de’ popoli di un’ altra; eda nondimeno
dee fempre principalmente attribuirfi alle modificazioni degli oggetti e
codumi, che col progreSTo de’fecoli fon Sempre diverfe nelle confimili Specie
loro ^ Perciocché lafciando pur dare, che prescindendo ancora da invasioni e
commercio ederno, la lingua italiana o l’ inglefe d’ ora non è già la delTa che
la italiana di Guiton d’ Arezzo, o la inglefe diCaucer; è certo che per
quelle invasioni e per quel commercio ederno, non è che gli uni adottino
la lingua degli altri, ma é che dall’ impado di due lingue (e ne forma
una terza, che non è alcuna di quelle, liccome dalla compofìzione dell’
une coll’ altre inclinazioni e codumi ne rifulta un’ altra a quelle
consimile, ma non mai la deSTa che quelle, prevalendo però Sempre in tutto
quedo l’ indole degli oggetti edemi attuali e prefenti, e non mai dei lontani e
padati . L’introdurre in una nazione i codumi e la lingua d’un’ altra,
quando tutto ciò va cangiando in qued’ altra fteSTa, è un’ aperta
implicanza ; e il pretender tutti d’un codume e d’ una lingua medefima
farebbe lo deSTo, che limitar la natura come in ciafcuna Sua opera così in
tutte, quando eSTa è tanto infinitamente Simile in tutte, quanto infinitamente
diffi H z niile in ciafcune. Quindi è che per quanti barbaci) C. II. n.z.
ri così detti, fian mai fceft in Italia, i coftumi iu> liani àn potuto
bensì coiromperfi ed alterarfi, ma non mai perciò renderli così barrati,
come i colìumi di quelli. E Io lleflb è avvenuto delia lingua, che
coll’ alterarfi per quello motivo, confervò Tempre 1’ indole dell’
antica latina, e non già della gotica antica . Il tutto per gli oggetti e le
produzioni italiane Tempre nel rinovarfi men diverfe da sè medeTime, di
quel che il potelTero eflere da quelle della Gozia . Per la qual
cofa dovevano ben i Goti più piegare ai collumi e alle inclinazioni
italiane, che gl’ italiani ai collumi e alle inclinazioni de' Goti,
giacché quelli col traTpor* tarfì nelle pianure del Lazio e della
Lombardia, non vi avevano trafporcato i diacci o le rupi delle loro
regioni . Certo, la verità delle coTe non apparire airafpetDelle cogni- to
ellerno di elTe, ma doverli invelligar per induzioni reali, e ^ioni da cagioni
occulte ed interne, quando più quando e e ipparen- come apparifce dalle
molte implicanze nelle quali s’ incorre nel giudicarne di prima villa,
per le quali implicanze quel che Tembra vero all’ ellerno, Ti
Tcuopre realmente non efler tale, e Ti riconoTce fovente elio Hello
eller Talfo. E’ certo altresì, una tal verità dover nelle cofe eller unicamentre
fe folTe più d’ una o folTc da fe Heffa diverla, quella cofa ancora di
cui fols’ elTa la verità, farebbe pure più d’ una, o farebbe
diverfa da sè medefima, ciò che certamente è impoffibile . Ond’ è che fe d’ una
cofa llelTa fi giudichi in più maniere, tali giudici non faran veri, ma
faran dubb) ed incerti, e tutt’al più faran probabili e verifimili, come
foglion pure appellarfi ; e allora foltanto faran elfi veri, quando
elfendo d’un modo, fi riconofcano non poter elTere d’ alcun altro. Ciò fa ch’io
dillingua le cognizioni umane vere t reali, dalie verifiOlili ed apfarcnri,
conlidcrando quelle per tali, la cui verità non poffa cambiarfì con altra,
comechè dedotta da ragioni immutabili e neccfl'arie, colle quali non
poflan altre competere, o polTan a quelle refiilere ; e confìderando quede per
tali altre, la cui verità poffa eziandio cfler diverfa, comechè
fufcettibile di più e di meno, o proveniente da ragioni che s’ arreffano
Aiirefferno, e che eflendo a quel modo, potrebbero ancora efferlo a un’ altro,
ancorché non da altre apertamente fmentite. Del primo genere fono
le cognizioni che fi direbber geometriche affratte, della cui
verità l’animo riman talmente convinto, che di più non ricerca per effe .
E del fecondo fon tutte le più ufate, folite fpacciarfi da chi applica
coi metodi più comuni all’ifforia, alla fifica, alle leggi, alla politica
e fimili ffudjpiù praticati, filile quali per quanto la verità apparifca lotto
a un afpetto, lafcia pur luogo di apparir fotto a un altro fenza
contraddizioni, conofciute almeno ed efpreffè; fcgno evidente di
non effer dunque tali cognizioni reali, ma di effer foltanto apparenti,
giacché le reali non fon che di un modo ( rt), e quelle fon di più modi .
Dell’ incertezza di quelle feconde cognizioni in confronto alle prime,
non diffentono gli rtefli coltivatori di effTe Ilorict, filici, legilli,
politici ed altri, quando convengono, le cognizioni loro ei fiffemi di più
modi, non effer cosi evidenti come le verità per efempio numeriche
elementari, da loro pure e da ogni altro conofciute a un fol modo. Chi
ben attenda a quello conofcerà, l’intelletto umano effcre molto più
inclinato alle cognizioni efferne ed apparenti, che alle interne e reali, ciò
che procede non già dall’ effer ei più capace del falfo che del vero,
come immaginan alcuni ; ma dall’ effer quelle cognizioni più facili di
quelle, non efigcndofi per le apparenti che certa attenzione
fuperficialc, quando per le reali fi efige un’ applicazione più diligente
e più dilìntereffata. Quella applicazione poi più diligente
e difintereflata richieda per le cognizioni reali, proviene ‘ dalla
neceflltà di 6flar per elTe lo fpirito per sè volubile e fugace, a un punto
foto dei moltiflinii, fra i quali ei fuole fvagare trafportato da’
cavalli dell’ immaginazione fervidi di natura; e molto pià provien ella
dalle feduzioni de’fenli a proprio interelle, a che ei (la fortemente
attaccato . Per la qual cofa la mente umana o non cura idruirfi di fotta
alcuna, e fchiva d’ ogni applicazione, s’abbandona all’inerzia; o
nell’ iftruzione medefima s’ arreda alle prime imprellìoni, o fegue
più la fcorta de’ fenlì in fuo prò, che quella della ragione, intollerante di
quel freno che quella cerca d’imporre a quelli, perchè non la traggano
lunpi dal vero . Certo è che tolta quell’ inerzia e quella intolleranza,
farebbero gli uomini cosi ben idrutti della verità delle cofe, come ne fon mal
idrutti/ gli ottimi conofcitori del vero farebbero nelle piazze e ne’
mercati, nelle accademie e nelle corti, cosi familiari e frequenti, come
vi fon gl’ ignoranti e gl' impodori, e tutti parlerebbero di verità, come i
Parrochi nel. le Chiefe, e come i filofoli migliori ne’ privati loro
recedi. Pare dunque, che la verità reai del le cofe dia fituata a certo
punto di mezzo unico e indivifibile, innanzi e oltre il quale fia vano il
cercarla, o non fia podibile il rinvenirla che con dubbierà e incertezza
; e che gli uomini per lo più o non fi muovano a ricercarla del tutto, o
neirinquifizione di elTa trafcendano quel punto, (edotti e ingannati dai
fenfi, che per loro interede particolare li trafportano dall’ une
all’ altre apparenze, lenza difcernere o arredarfi al punto reai delle
cofe, fuor che ben rare volte . In effetto il didinguer fra tutti quel punto
folo, efìge certa infidenza e applicazione, che non è volentieri
incontrata, ma è al contrario fchivata e abborrita ; e dall’ altra parte l’
affidarfì ad un punto folo degli infiniti che ve n’ ànno, fra i quali può
la mente fvagare nella traccia del vero, è cofa ardua e difficile .
Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp xiT fempre più coltivate
delle alcune o migliori, e gli uomini ad ogni tempo e in ogni luogo faran
Tempre nelle lor cognizioni medefime più Aiperfìciali e diftratti, che
rifleffivi e raccolti ; perciocché non potendo le cognizioni reali
acquiltarfi che per applicazione più laboriofa, c per aftrazione dai fenfi,
non faranno dunque elleno mai comuni fra gli uomini, alieni comunemente da quel
lavoro e da quell’ aerazione, maffime per l’interelTe loro che
v’interviene particolare, al quale principalmente riguardano i fenfi
. S’ aggiunge a ciò, che quel che induce gli uomini ad applicare di via
ordinaria alle cognizioni apparenti, non ollante refler clTe divcrfe dalle
reali, è ancor quello, che quelle cognizioni per quanto fian dubbie,
oltre al prefentarfi Tempre in fembianza di reali, lon bene fpeffo reali
effettivamente effe fteffe ; e la differenza dell’ une dall’ altre
confifte foltanto in ciò, che laddove le reali fon conofciute tali
immediatamente per sè medefime, le apparenti non fi riconofcono per reali che
dagli effetti confecutivi, o dall’ cfperienze eventuali che lor
corrifpondano o non corrifpondano, attendendofi cosi da quelle la prova
della verità loro reale, o della apparente . Allora poi le cognizioni
corrifpondono cogli eflfetti confecutivi, o fon comprovate per elfi,
quando effendo quelli dagli altri diverfi, non fono a quelli contrarj; e
allora non ccrrifpondono, o non fi verificano per gli cfl'etti che ne
confeguono, quando quelli fi trovano implicanti, e a tutt’ altri o ai
comuni contrarj . Imperciocché le cognizioni, all’ illello modo che gli oggetti
creati, e i cotlumi c le ^inioni umane che ne derivano, poffon bensì
cller diverfe, ma non poffon fra sé trovarli giammai contrarie, e quelle e
quelle finché fon diverfe, fon reali e conformi alia verità comundi
natura ; e qualor fi readon contrarie, fono apparenti, imponìbili, e
conformi al/alfo e all’errore. Le cognizioni dunque apparenti polTono e(Tcr
reali ancorché fempre noi (ìano, perchè dipendendo dagli effetti
confecutivi, poflbno queffi effer dagli altri diverfi, ancora chè poffano
eziandio efler a quegli altri comuni contrari ; a differenza delle cognizioni
reali così dette, le quali non dipendendo da effètti confecutivi alcuni,
ma da sè fole, ed effendo fra sè diverfe, non poflbn efler
contrarie nè fra sè ffeffe, nè negli effètti comuni che le confeguono .
Gli uomini poi inclinano più a quelle che a queffe cognizioni, per eflTer più
facile attendere la verità dagli eventi confecutivi benché dubbioli, che
logorarli il cervello, come lor fembra, nel ricercarla per sè medefima e di
prima mano. E ciò tanto più, quanto per le lufìnghe de’ fenfi, o per interefie
loro particolare, le cognizioni apparenti dilettano molto più delle reali,
avvegnaché queffe iffruifeano più di quelle, e ognun vede, che inclinando
elfì fempre più ai diletto de’fenfì che all’iffruzion della mente, faranno
dunque efft fempre più avidi di cognizioni apparenti che di reali, in tutto ciò
che riguarda la ricerca del vero. Ma intanto qui fi vede, come le
cognizioni diverfe e reali, alle apparenti ad effe contrarie tengono la ffclTa
relazione, che gli oggetti pur diverfi e reali, ai contrarj ad effì e aita
comun ragione, per queffo appunto, che quei primi coffumi procedono da
quelle prime cognizioni, e queffi fecondi da queffe feconde. Quello
ch’io vorrei qui malTimamente avvertito, egli è, che quantunque il punto
fuddetto nel quale fu detto dler polla la verità reai delle cofe,
per edere indubitato e folo, fembri non poter convenire e non poter
confeguirfi che nelle cognizioni affratte e geometriche cosi dette,
convien elio nondimeno e fi trova molto bene in ogni genere di cognizione
pratica. Chi crede la fola geometrìa e l’ altre cognizioni affratte,
dette ancora teoriche, capaci di certezza reale, e l’altre
cognizioni dette volgarmente pratiche, non ca-‘ paci della certezza
medefìma; non avverte, l’adrazione di quelle prime non confidere appunto
che nell’ a<ha> rione dai fenll, e la evidenza di elTe dipendere
dal metodo d’ inveliigare il vero, o di dedurre le verità più
compone dalle più femplici. La qual aerazione dai ienfi e il qual metodo
può aver luogo, anzi dee averlo, ed applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi,
di Itoria, di fìfìca, di politica, di teologia liefla e di morale,
e di tant’ altre, nelle quali foglion dividerfì le cognizioni umane; di
ciafeuna delle quali fi giudicherà Tempre realmente, fol che fi aftragga dagl’
inganni e dalle feduzioni de’ fenfi, e fi giudicherà femprd con dubbio,
non afiraendo datai feduzioni, o non correggendole per lo reale della ragion
comune, come fi pratica nelle cognizioni dette appunto afiratte e
teoriche. In guifa che 1’ incertezza delle feienze pratiche come le
appellano, in confronto delle teoriche o afiratte, dipenda Tempre dall’inganno
de’ fenfi, dai quali gli uomini s’ingegnano in vero di aflrarre o di
prefeindere, quando meditano, ma non fan rifolverfi di far lo fieflb, o
duran fatica a farlo, quando operano. A quello modo ogni fpecie di
cognizione umana, qualor lia verace e reale, fi renderà una fpecie di
geometria, e non rendendofi tale, non farà che una cognizione fuperficiale,
apparente ed incerta, come quella che involve le illufiioni de’lènfi, perle cui
apparenze può ciafeuno cafualmente imbatterfi nei vero, ma può ancora
rellar ingannato o trovarli involto nel falfo. Anzi la Geometria cosi
detta, non farà per sà flella cognizione, ma parlando più propriamente,
farà il metodo ola regola, per la quale dillinguereinqualfivoglia fpecie
di cognizione il reale dalF apparente, e di rilevare in ella la verità
per quanto è poflìbìle, o di difingannare per quanto non è polfibile di
rilevarla convenendo così elTa colla Logica comune, o ellendo la
Geometria una Logica pratica, quando la } comune cosi detta, non è
che una Logica fpeculativa, men facile a praticarli e men ficura . Del rimanente è poi vero che parlando in
genere, lo fpirito umano in ordine a cognizioni, parte (i trova fotto al
punto reale e più precifo di elTe difopra accennato, e parte ancor Io
oltrepalTa e trafcende e che quello è il coliume del popolo più incolto
ed abietto inclinato alla pigrizia, quando quello è il folito del popolo
più colto e volgarmente Hudiofo, amante per lo più delle follecitudini e della
gloria alfannola . Perciocché egli è vero, che gli uomini fchivi di
quella laboriofa applicazione eh’ elige la ricerca del vero reale,
s’abbandonano fpeflb all’inerzia e non v’ applicano di Torta alcuna . Ma
dall’altra parte è vero altresì, che avidi elTi di cognizioni, e Idegnofì
per mancanza di quelle di vederli confufi col comun della plebe, s’alzano
fopra quella nella ricerca medellma, nella quale poi impazienti di freno,
lìlafciano trafportare dalie illulìoni de’fenfi come s’è detto, oltre
quel punto, e lo sfuggono fenza avvederfene, feorrendo dall’ignoranza
propria del volgo più rozzo, a quella propria de’ comuni (ludiofi,
che per lo più fono i troppo lludiofi. L’una e l’altra ignoranza può dirfi
comune, ef< tendo ben pochi quei che fcevri da illulìoni, ricerchino
la verità con accuratezza fenza penofa follecitudine, e eh’ elTendo tranquilli,
non fiano pigri ed inerti. E l’una e l’altra ignoranza fi dirà ancora
comune^ del pari ; mercecchè chi toglielTe a follenere, quella' de’
comuni lludioli elTere meno ellefa, e più tollerabile di quella de'
comuni idioti, torrebbe a follenere ardua e didicil cofa, e a ben
riflettere s’ accorgerebbe, la differenza dell’ una dall’altra ignoranza elTèr
polla in ciò foto, che elTendo quella degli idioti più fempliceemen
fallofa, quella dei più fludioiì tien più di fallo, e men di
femplicità. Poiché le cognizioni apparenti ed ellerne fon molto pià
coltivate delle reali ed interne (a), egli è certo, che gli uomini nella
condotta de’ loro aSari, dovranno di regola generale govemarfi per
quelle, più che per quelle cognizioni, dovendo certamente govemarfi ellt
comunemente Mr cognizioni che fiano fra lor più comuni, anziché per
quelle che fodero men comuni. Una llmil condotta loro non può negarli in
pratica da chi dia ad olTervarli, ed ogni perfona più accorta s’ avvedrà
molto bene, che tenendo ciafcun in mente certa verità reai delle cofe non
abballanza da lui fviluppata ed attefa, pure co’ fuoi penfìeri e colle
fue azioni fa forza a sè delTo per adattarli alla verità di quelle
apparente, e ciò per conformarli al comune degli altri, che paghi di
quella verità, mal foflfrono di procedece a quella . Nè v’è cola più
familiare, quanto il vedere i più fenlati in ogni fpecie d’ aflàri loro
economici e civili ancor più fer), adattarli con certa ripugnanza interna
colle cognizioni loro reali per quante ne tengono, alle apparenti dei men
fenfati, come altresì a quantità di ulRcj, formalità, e convenienze ederne di
vita vane ed inutili, che di quegli adari più fer) fon per lo più la
difpofizione, il. veicolo, e l’impulfo maggiore . Lo che non per altro
certamente fuccede, che per la facilità maggiore, colla quale quegli adari fi
conducono a proprio intereffe colla fcorta dei fenfì per cognizioni apparenti,
di quel che li conducedero per reali, con più d’efame e con più
adrazione dai fenfi, fodrendo così ciafcuno con qualche fua pena negli altri
quella negligenza di cognizioni, che brama con maggior fuo comodo da altri
fodèrta in lui dedb . Tutto quedo poi avviene fenza difordine, e con
efito ancora felice, purché- quelle cognizioni apparenti non s’oppongano alle
reali, ciò che negli uomini che fi regolino a quedo modo non può
conofoerfì che per gli effetti 1 2 con- Cognizioni
apparenti più pratiche delle reali . Confecutivi come s’è
veduto, o per Toltraggio o danno che fe ne fcorga provenuto negli altri.
Perciocché fe quegli aflari cosi condotti, eflendo utili a sò fteflì, non
riurciran dannofi ad alcuni ; le cognizioni apparenti,- per le quali (I
conducono, faran conformi alle reali e procederanno elll felicemente, e
il contrario avverrà, fe da quell’ utile particolare ne feguirà danno ad
altri, nel qual cafo non potrebber gli ad'ari procedere, che con
ifconcerto e difordine. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero
direttamente per cognizioni reali e teoriche, gli fconcerti fra loro farebber
tolti del tutto e farebbero impolTibili, tutti fi troverebbero d’ un fcntimento
conforme ed unanime, nè vi avrebbe il cafo di diirenfioni dell’uno
coll’altro in qualfivoglia genere d’ intereife o . d’ affare. Ma effendo
quello iirpoffìbile, attefa la (0 feduzione de’fenfi a proprio intercfle,
ei bada dun* que per evitar gli fconcerti, che governandoli effi
per apparenza e per pratica, non s’oppongano almeno al reai delle
cole . Quegli fconcerti poi procedono dalla verità di natura, la quale
non laida di regolare gli uomini per io reale, ad onta d’ogni lor
propenfìone, dilegno e inffllenza di regolarfi pure per apparenze .
Ond’ è, che fe tali apparenze fon contrarie a quel reale, debbono quelle andar
vuote d’effetto, o confeguir-i lo con difordine, per poter bensì
l’apparente averluogo, quando non na al reale contrario, ma non pcteraver mai,
quando al reale s’ opponga {d) . Quello regolarfi gli uomini da sè fteflì
per apparenze, e regolarli la natura irrefiffibilmente per io reale, fa
conofeere, che fe effi pur reggono e fuffiffono, e i loro affari procedono
felicemente, ciò avviene per difpofizicne e faper di natura, e non mai per
fapicn-za loro, giacché governandofi effi al primo modo errano bene
ImITo, e fi trovano fvergognati dalla verità reale, quando natura governandoli
al fecondo non erra giammai, ed è Tempre a sè llelTa conforme . Egli è
ben vero, esser poi quefto ftcflTo il gran delirio di quei politici, ed altri
che più prefumono di prudenza umana, i quali vedendo cosi fpenb mancare i
loro progetti più ipeciofì, non s’ accorgono derivar ciò da quello
appun< to, di elTcr quelli contrari al reai delle cofe, per non
riguardarne che l’apparente, per la qual cofa la natura che non intende
apparenze, fconcerta le loro inifure, e delude per lo reale quanto per 1’
apparente eflt tentano, e non è Tempre polTibile che riefca . Peg §
io però intendono e ufan quei fcimuniti, che vedeno i molti difordini che corion
fra gli uomini, fogliono imputarli alla natura, o al grande autore di e(Ta
« quando è certo che debbon quelli imputarfi agli uomini Itein, che in
luogo di applicare al reai delle cofe, applicano all’ apparente, che può
a quel reale elfer conforme, ma può ancora a quello cder contrario,
e perciò impolTibile a riufcire ( <» ) ; in guifa eh’ effen-
».j do gli uomini Tempre occupati a imbarazzarfi infìeme per fole
loro follie, la natura non fembri occupata d’altro, che di sbarazzarli,
emendando e correggendo quelle follie medefime . Quello che qui lì dice è
tanto più vero, quanto la verità reale non è già per gli uomini un arcano, ma è
cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fappia prelcindere, o non fr lafci
ingannare da illulìoni di fenfi . Ciò fi manifella, oltre per la forza
che come (opra ognun fa a fe llelTo nell’ adattarfi al penfar apparente
degli altri (é), per quello ancora, chegrin-iganni medefimi, nei quali bene
fpelTo cadono gli uomini per quelle illufioni, appena incontrati da una
parte da alcuni, fono riconofeiuti da tutti dall’altra, non folo per gli
effetti contrarj che fpelTo ne derivano, ma per lo pianto ancora, e pel rifo
che più ancor di frequente fi fparge full’ azioni umane. Perciocché le ben fi
confideri, l’uno e l’altro di quelli non è pollo che in ciò, di
riconofeer gli uni, che s’ollinino gli altri a regolarfi per apparenze,
quando la natura e Hiria neceffità li aftrigne a regolarli per lo reale .
Dacché procedon fra loro quei tanti inganni, e quelle miferie, che vedute
in altri folTerte per altrui opera, generan la compaflìone ; e vedute fofferte
da altri per loro colpa, generano il ridicolo . Non avendovi poi genere di
peribne di quallivoglia arte, ufficio, o profeflìone, fui quale non cada
qualche fpecie di compaffione o di ridicolo conofciuto da tutti, non v’avrà
genere di perfone, che non fi governi per apparenze . Ma quella
riconofcenza comune medefima farà molto ben noto, una verità reai delle
cofe elTer da tutti fentita, ancorché men coltivata, per eflcre veramente
più facile compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui inganni, che
coltivar quella verità con più d’ attenzione, aliraendo dai fenfi e dalle loro
illufìoni a proprio favore, E qui s’ oflfervi, come di quella verità
reale fentita, ma non attefa, fon del pari lontani ed ignari e quei che delle
azioni umane fentono compaflìone, e quei che ne conofcono il ridicolo,
colla fola differenza, che l’ignoranza dei primi pare efler quella della
plebe meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella degli fludiofi di
fole apparenze, o dei vanamente ftudiofi, quando quei che applicano al reai
delle cofe, non piangono nè ridono mai delle verità che conofcono. Così
Eraclito, e Democrito, come vien detto, erano tanto faggi, quanto a
conofcer le apparenze per cali, ma non quanto a diftinguerle dai reale o
a conofcer le verità uefTe reali, al che nelTuni procederono tanto
innanzi, quanto ifilorofì del crillianefimo. Quello però non impedifce, che in
ogni flato, poiché le cognizioni reali vengono in confeguenza della
iflruzione, e le apparenti in confeguenza del diletto durato nell’
acquiflarle, gli uomini più propenfi a quefto diletto che a quella
illruzione, non lian più ricchi di quelle che di quelle cognizioni, e che
gli affari loro condotti per aroarenze, non fi conducano femprecon
implicanze e difordini, di che non lì ceflTa di lamentarfi, e a che non fi
cefla di fiudio per provvedervi. 1 quali difordini, (oliti mal attribuirfi alla
debolezza delle umane cognizioni, e peggio a diHètto di natura, abbian
tutti a cadere come s’ è detto, fuU’ WC.A^///.».z, avverfione fuddetta
all’ifiruzione migliore^ e filila pròpenfione al diletto fiiperfìciale e
peggiore ; mercecchè dovendo Tempre gli affari proceder per verità reali,
e con certo ordine di natura flabilito dal fupremo Tuo autore,
qualora voglian diflrarfi per apparenti contrarie a queir ordine, non potranno
a meno di non procedere con difordine. Qui non può a meno di non
prefentarfi alla mente una verità, la quale è quella, che diflinguendofi
gli affari particolari dai communi, poffano nell’, ellerno molto piò
facilmente condurfi per cognizioni, reali quelli che quelli, per edere
appunto il particolare più facilmente condotto per Io reale, di quel che fiafi
il comune, che come s’ e veduto, non è con- WCJCILn.i, dotto che per
apparenze . Una fimile verità quantunque di fatto, non fi efprimerebbe da
alcuni con parole, quafi per timore di non mollrar per effa dì credere, o di
dar a credere, che al governo degli altri non fi richiedan che cognizioni
apparenti, polle le reali tutte dapparte. Allopollo però di quello, chi
ridetta più finceramente apprenderà, che per quello appunto di dover il comune
degli uomini regolarfi per cognizioni apparenti, è necelfario fra elfi un
governo ellerno, per cui da quell’ apparente fian tutti condotti al
reai delle cofe ; mercecchè fe il comune degli uomini fi regolalfe per lo
reale, ogni governo allora fra loro ellerno farebbe inutile e vano . In
edètto fe fi confìderi che per necedità di natura debbon gli adàri
procedere per lo reale, e che l’apparente può invero elfere a quello
reale conforme, ma può ancora non eflèrlo; ^li è dunque d’ uopo per non
trovarfi colla natura in contrailo, che v’ abbian alcuni, i quali più
bene intefi, più efperti ed illrutti degli altri nelle verità reali ( che o
bene o male fon fentite da tutma non da tutti dalle apparenti dipinte prefìedano agli altri, e diftinguan loro quali
di tutte le cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò alle
reali couformi, e quali fìano a quelle contrarie . Quefto infatti è ciò
cn è intefo per ogni Governo, prima per la perAiaHone della Religione,
depofìtaria delle verità reali non corrotte da apparenze contrarie, e
desinata così a infegnarle ai popoli per regola delle loro paOioni, delle
loro azioni, e de’ loro coftumi ; ed indi per la forza o il comando del
Principato, deAinato a far valere quelle verità medefime, e a difènderle, per
Quanto colle apparenti a quelle contrarie foffero contralUte . La qual
difinzione di Religione e di Principato nel governo non è un giuoco dì
fpirito, ma una necefìtà di natura, per cui nella condizione umana non è
pofibile, che un perfuada a ciò a che dovefe pur af rignerc, o afringa a
ciò a che dovefle pur perfuadere, per l’ abufo d’una di quefe facoltà che
ognun vede poter allora feguire nell’ ufo dell’ altra, come ò
altrove dimofrato ampiamente . Io qui parlo de’ governi ben ordinati e fenfati,
ne’ quali la Religione appunto e il Principato nelle refpettive loro
appartenenze iuddette, fon del pari lìberi e indipendenti, come
nelle nazioni più colte e più crìfiane,* e non de’ governi
difordinati, ne’ quali confufe quelle due appartenenze in una, o oppredà
l’una dall’altra, il governo (lelTo non è che una fìmulazione o impofura,
rapprefentato da una fola autorità più forte, e foggetta alle UriTe
illufioni d’ ogni altro, come nelle nazioni men colte, o nelle quali più
prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza. In qualunque modo però proceda un
governo* egli è fempre vero, che attefa l’inclinazione comune
all’apparente più che al reale, elTo non efibifce oprefenta mai ai popoli le
verità reali, che coll’afpetto delle ‘ apparenti, e che nel adattare
appunto 1’ apparente conforme e non il contrario al reai delle cole, è
pollo tutto l’arcano e l’arte ben difficile di regger i popoli, fenza di
che quella non farebbe, che un’arte ben facile di follazzare sè lleflì . I
governi poi ben ordinati dagli fconcertati fi dillinguono appunto per
quello foto, eh’ eflendo gli uni e gli altri occupati nell’ accomodare il
reale all’ apparente, o all’ intendimento fuperficiale del popolo, i primi per
quell’ apparente non li fcollano mai dalle verità reali molto ben
conofeiute da chi governa, quando i fecondi per quell’ apparente s’
oppongono più o meno a quelle verità reali, feonofeiute ed ignote talvolta
più a chi governa, che a chi da altrui è governato . Ma intanto
quindi apparifee, come non potrebbe dirli cofa più inlenfata di
quella, che la Religione non abbia ad aver parte nel governo de’ popoli
nell’ illruire, come loà l’Impero nel comandare, o nell’ allrignere alle verità
medefime, per le quali i popoli fon governati; Tempre ciò intefo de’
governi (inceri e reali, e non delle fimulazioni o apparenze di ellì, contrarie
elTe (lede talvolta al reai delle cofe. Quello poi ch’è pur detto da alcuni
con qualche circofpezione e riferva, toma però a quello che con minor
riferva è detto da più altri ; cioè che al governo Udrò ballino
cognizioni pratiche, vale a dire apparenti, e che le teoriche o reali fìano
del tutto inutili . lo fon certo, che gli uomini di (lato più accorti,
converran Tempre meco, che ogni lor pratica abbia da procedere da
conifpondente teorica, e che per quella fola da quella difgiunta, gli
(latifli non dovelTer riufeire che a tanti ciechi, che lì
battdTero infìeme / nel qual cafo i popoli di elfi più faggi àvrebber
ragione di lafciarli fare, governandoli inunto da loro llelfi. P t^emefle
quelle conftderazioni Tulle cognizioni urna ne reali e Tulle apparenti,
per rilevare 1’ effetto Imperfeiione della favella nel comunicarle
altrui, gioverà confiderà- dell» favella re in prima pur quella fotte un
doppio afpetto, o di dichiarare ad altri le cognizioni della prima
fpeciepià ardue e men note, o di trattenerli su quelle della fe>
conda più facili, e quai fon conofciute comunemente ; giacché in eflètto
quallìvoglia ragionamento verfa fempre su qualche foggetto, noto bensì ad
ognuno per le lue apparenze più generali ed elìerne, ma ignoto
altresì comunemente per li Tuoi principi afcolì ed interni. Siccome poi
le prime cognizioni fì fon vedute intefe a idruire, e le feconde a dilettare
ciafcuni che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà
pur doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per anco da effi
acquilìate, o di dilettarli nelle giàacquilìate; quello molto più familiare di
quello e frequente, giacché il più confueto degli uomini è d’ intrattenerfì fra
lor per diletto, favellando di quel che fanno; e l’inllruir gli uni gli altri
di quel che quelli non fanno, par cofa riferbata alle fcuole, e da non
praticarfi fuor d’efle che con altrui fallidio, dai foli pedanti. Nientedimeno,
poiché la favella é pur dellinata a partecipare ad altri le cognizioni da
cialcuni acquiUate, e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e combinati;
é altresì da confiderare, eh’ elfendo 3 ue(li oggetti a numero
incomparabilmente maggiore elle voci, per le quali poflfano denominarfi
(r), le voci in ogni favella mancheranno bene fpelTo, come per nominar
quegli oggetti, cosi molto più Mr efprimerne le cognizioni, e la favella a
quell’ enetto rinfeirà un mezzo dubbio, confulo e imperfetto . E
invero quantunque ciafcuni oggetti in ciafeuna favella tengano alcune
voci più efprelfìve e diUinte, dette perunto \ot proprie", ciò non fa che
tali voci non pollano eziandio applicarli ad oggetti da quelli diverli,
per le quali diventan traslate, non per altro certamente, che per
la povertà appunto di clTe voci in riguardo agli oggetti, eaU’impoinbiltà
di appellar ciafcuni con voci talmente proprie, che non pòiTan elTer
d’altri . Oad’,é che una voce medeGma dellinata cosi a più oggetti,
gli cfprime Tempre con proprietà maggiore o gap. xiv. minore, ma non mai
per la fola e precifa, che cor-' ril'ponda per la cognizione di
dii. II. S’ arrese, eh’ dTendo le apprenfioni e le combinazioni
d’oggetti diverfe nelle ciafeune menti
y tali combinazioni che ne derivano, debbon pur dier per
ciafeuni diverfe, e il comunicar uno agli altri le proprie, potrà bensì
edere per regolarle e confrontarle con quelle degli altri, ma non mai
perchè diventino cosi proprie d’altri, come fon fue. All’incontro la
favella è a ciafeuno comune, ed è la deda in una deffa nazione, e quando dante
la diverfità d’apprenfioni e di combinazioni d’oggetti, le cognizioni
particolari fono in altri più chiare ed edefe, in altri più ofeure
e ridrette ; le voci per cui efprìmerfi, non fon più chia> re o
copiofe per ^elli o per quedi, ma fon le dede per tutti, e il più fciocco
parlerà forfè tanto e più ancora del più lenfato. Per la t^ual cofa la
favella dovrà ognor trovarfi inedìcace o imperfetta per efprimere le cognizioni,
dovendo eda eder tanto comune al dotto che più ne podìede, che all’
indotto che ne poffiede meno, e dovendo necedariamente adattarfi all’
intendimento non dei più, ma dei meno intendenti, che fono a maggior
numero fra quei che l’adoprano. A quedo modo parlando più propriamente, fi
direbbero le lingue idituite non a efprimere le cognizioni, ma a
fufcitarle più o meno nelle menti a norma dei ciafeuni intendimenti,
giacché per le dede voci altri le apprende più didinte e moltiplici,
altri più limitate e confufe . Perciocché per quanto il dotto tenti
partecipar le fue all’indotto, ufando la deda di lui favella; quedi non
le concepifee mai che in relazione alle per lui apprefe dianzi, per gli
ometti dedi da lui combinati diverfamente dall’altro. Per quedo di cento
che odano un rt^ionamento, o che leggano un libro deffo, ciafeun fe ne
idruifee a norma della qualità delle cognizioni da lui podedute e apprefe
dianzi, e il dottO' K a puù può per un libro fciocco >
rettificandolo e migliorandolo per le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto,
<|uando l’indotto per un libro de’oiù Irafati, può divenir più
sguajatodt prima, o renderli per quella lettura più (Iucche vote e
più Impertinente, ma non già più dotto. Se ciò non fofle, ogni
difcepolo al folo udire il maedro, diverrebbe così dotto che lui, e per divenir
Capiente come il Galileo dovrebbe badare il leggere le fue Opere, che parlando
generalmente è tanto vero, quanto il pretendere di partecipare alla fua
dottrina, per adìbiarri quel fuo certo collare che forfè fi conferva per
memoria di un tanto uomo, ma non per ridampar qued’uomoad ognun che
Io adìbj. III. Per altro qui cade a propofito di riflettere
alquanto Alila diverlità delle cognizioni umane, e Alila moltiplickà per
ede e varietà, con cui procede natura nelle Aie operazioni. Perciocché
edcndo in prima le voci in ciafcuna lingua a così gran numero, quanto è
pur noto ; quedo numero moltiplica colla ferie de’ tempi infiniti e
de' luoghi finiti, efomminidra una moltitudine innumerabile di lingue, in
ciafcuna delle quali le voci lon all’ idedb modo moltidtme . Contuttociò
fe A confiderino le maniere, colie quali quede voci prefe a numero
maggiore e minore fogliono combinard e permutarA in una favella, A
conofcerà, tali combinazioni e permute collocate pur con fenfo e
difcemimento, edere a numero incomparabilmente fuperiore a quello delle
voci in eda, ed eder in tutte le lingue a tanto più ancora, quanto
imfwrti quedo gran numero di pennute e ' ' di combinazioni in una lingua,
moltiplicato nel numero delle lingue di tutti i luoghi e di tutti i tempi
Padando poi dalle voci e combinazioni loro, agli oggetti ocmbinati per ede
efpredt, e alle maniere di cognizioni che ne derivano ; A conofcerà, la
moltitudine di tutto quedo edere incomparabilmente ancor fuperiore a quella
delie combinazioni di voci, e tantoAiperiore in ciafcuna lingua, quanto per
ciafcuna combinazione di voci in efla ciafcun apprende e combina gli oggetti
fiedì difl'erentemente, e ne forma diverfe le cognizioni, proferendole
iftelTamente . Tantopià poi fuperiore in tutte le lingue, quanto quel numero di
cognizioni diverfe in ciafcuno di diverfa lingua, moltiplicato pure nel numero
delle lingue tutte diverfe palTate, prefenti, e future . Quello poi che
reca maggior forprefa egli è, che tutta quella prima prodigiofa quantità di
voci e combinazioni loro, non deriva da più, che da venti elementi o lettere d’
alfabeto, più o meno pronunziate in ogni lingua . E che queda feconda
tanto più prodigiofa e incredibile quantità di apprenfloni e di combinazioni
d’oggetti, e di cognizioni su e(Tì, non deriva che da alcune leggi
di moto quanto più femplici e vere, tanto più uniche e fole,
giacché tutte le apprenfioni e cognizioni umane, per quanto fiano
individualmente diverfe in ciafcuno, pur fono in tutti confimili. Tutta poi C.
II. mi.. codeda varietà e fbmiglianza di cofe è unita e concatenata
infìeme, e procede e fi confegue con certoordine e ragione eterna e immutabile,
lenza la quale {^un comprende nulla poter avvenire, e a comprendere
la quale ognun conofce in sè dedb, poter edenderfi ben per poco la umana
capacità, colla fcorta di fenfi infermie fallaci. Niente di meno in quedo dedo
natura non manca, giacché dal minimo faggio che di ciò fi trafpira, può
altresì ognuno arguire, quanta e quale fiala pofTanza e la fapienza del fupremo
autore di tutto quedo, e quanto ammirando l’ordine e il raagidero con
ch’ei governa e regola l’univerfo. U NA affai curiofa confeguenza che
dalle cofe Aid- dette fi viene a dedurre è queda, che l’ imper-
ImMrfezione lezione accennata delle lingue, per cui le voci riefcono
dell» favella a numero molto minore di quello degli oggetti per
dell effe efpredi, par che torni non già a diffctto come fi.
crederebbe a prima vida, ma a perfezione ed eleganza di quelle maggiore, in
quanto non avendovi cosi nefTune voci talmente proprie e attaccate ad alcuni
oggetti, che non poiTano applicarfì anco ad altri ; gli oggetti tiefli
polTono efprimerri, o dedarfene le immagini negl’ intelletti, non folo per voci
dirette, ma per fHÙ altre ancora indirette chiamate traslate come s’è
veduto, d’t^getti a quelli analoghi e confimili. A quello modo lebbene manchino
nelle lingue le voci dell’ ultima precisone alle immagini degli oggetti
determinate, foprabbondano per le indeterminate, e in mancanza e
neU’impofTibiltà di adoperare per ciafeuna immagine ciafeuna voce
diverfa, le ne adoprano non una, ma più e più altre d’ oggetti a quelk affini e
confimili, per le quali non una, ma più immagini fìmilmente occorrono
all’ intelletto pur fra sè confimili e combinabili, ciò che Tuoi avvenire
con molto diletto e foddisfazione dell’ intelletto medefimo. Cosi
appellandofi DIO ottimo e grandiffimo, non folo per quello venerando più
proprio fuo nome, ma per altri ancora traslati di via, di verità, di vita
e fimili, fi dellan nell’ animo tutte le immagini proprie e bro affini,
polTibili più o meno a dellarfi per quelle ciafeune voci, a mifura
dell’attività dell’animo Udrò, onde figurar alla mente con più efficacia
e grandezza r idea di quella ineUàbile elTenza . E generalmente
laddove fe ciafeuna voce propria corrifpondellè efattamente a ciafeuna immagine
a efclufione di tutt’ altre voci, da dieci voci proprie per efempio, non
fi deUerebber nell’ animo che altrettante - immagini combinabili in alcuni
modi; corrifpondendo quelle nonefattamente e non a efclufione di altre, vi fi
dellan per dieci voci proprie e più altre traslate, pur altrettante
immagini combinabili in nioltifiime più altre maniere. Su quella condizion
delle lingue, o fu quello difetto in effe di vocaboli per efprimer gli
oggetti, è pollo tutto i! pregio deli’ eloquenza, e da ciò derivano tutte
le perfezioni e tutti gl’ incantcTimi dell’ arte oratoria, e più della poetica;
vaie a dire non folo i traslati, ma le allegorie ancora > le allulioni,
le parabole, le (imiiitudini, le analogie, le efagerazioni, il palTaggio
dal proprio al metaforico, dal ferio al gio<cofo, dall’ animato
all’inanimato, e fimili ornamenti che fan la grazia, la forza, e la
bellezza eh’ è invero delle immagini dedate e .combinate nell’
intelletto, ma che in eflb non fi dellerebbero e combinerebbero,
fei termini nelle lingue coi quali efprimer gli ometti, foffer tanti quanti
eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli a molto meno, ne avviene che non
fiano quelli cosi propr) di alcuni oggetti, che non polTanu
eziandio trasferirfi ad altri, per li quali con numero d’ immagini
maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rapprefentino all’ intelletto
con più di vivacità e di vaghezza . Egli è ben vero che affinché ciò riefea
felicemente è d' uopo, che tali traslati feguano con certa fcelta e
giudicio, fenza di che tutti gli ornamenti rettorici e poetici non avrebbero
fenfo; e non confidendo edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazione
d’oggetti fatta fenza dilcernimento, fe le voci proprie fofler applicate ad
oggetti trasìati pure fenza difeernimento ed a cafo, non potrebbe quindi
derivare che ofeurità e confufìone . Laonde i traslati nelle lingue per
quanto pur fian difparati, debbono ferbare certa conneffione e mifura,
per la quale fian conofeiuti fimili e relativi agli oggetti lor propr), fenza
di che chi fi credefle il più l'ublime nell'eloquenza, potrebbe
edere il più proffimo alla fatuità, e dalle immajgini più ardite e più
ingegnofe di Pindaro, lì potrebbe Korrere con breve pafso alle più infenfate
aisurdicà d’ un vifionario. Quefta .condizione non è della fola rettorica
e poetica, ma di tutte le bell’ arti ancor cosi dette, e di tuue le opere di
entufiafmo, nelle quali il più fublime delirio confiru infcnlìbilmente
col più Urano ridicolo, e il pittore e il mufico più eccellente neirarte
fua, con un pafso più oltre trafcende il giudicio, e diventa una Aia caricatura
di piazza, nella quale pur procedendo per gradi, può toccarfi
l’eftre* mo, fino all’efser condotto allo fjpedale qual pazzo dichiarato
. Ch’ è la ragione, per cui comunemente ancor fu odervato, ogni pazzo tener un
non fo che di poeta, di mufico o di pittore, fìccome ciafeun diqueAi,
tener talvolta in lor virtù qualche irregolarità, che li denota prodimi
alla pazzia. Per altro quedo diletto che così apporta la favella, col
trafportar l’intelletto dal projprio al figurato degli oggetti, fa
conofeere che l’ imperfezione e la incapacità conofeiura in efsa difopra («),
per partecipa». 1. 2. re altrui le proprie cognizioni, dee edere intefa in
riguardo principalmente alle reali, per le quali reda la mente idrutta, e
non già in riguardo alle apparenti, per le quali fuol eda dilettare. E in
vero i traslati, le analogie, e gli altri ornamenti rettorici fuddetti,
convengono molto bene alle cognizioni di quedo fecondo genere, per eder
ede note comunemente, onde giovar rapprel'entarlc altrui con pluralità d’
immagini, che imprimendole nelle menti con più di novità, producano quel
diletto . Laddove per efprimere le cognizioni del primo genere più afeofe
e men conolciute, ognun vede edere necedario valerfi di termini più propr) e
precifi per quanto è podibile, e che r uiare i traslati non farebbe che
od'ufcar quelle cognizioni maggiormente, e renderle a chi n’ è privo più
ofeure ancora ed ignote. Ed è vero che per quedo fecondo edètto, le voci
proprie mancano bene fpeA fo, quando per quel primo le traslate non
mancati giammai . A quedo modo parlando più propriamente, didinguendo
la favella dall’eloquenza, fi dirà, che ficcome quella è imperfetta, cosi
queda è nociva finché fi tratti di verità reali, o d’ idruir altri
di quel che non fanno. Ma che trattandofi di fole verità fupcrficiali e
apparenti, conofeiute comunque da tutti, quella favella dovelTe eflere un’ arte
non folo inperfetta, ma ancora nojofa, quando non fofle foccorfa
dall’eloquenza, la quale con rinovar alle menti quelle verità coli
qualche varietà d’immagini, riefcille così a dilettarle per elle • Quella
attività maggiore della favella per le cognizioni fuperficiali più conofciute,
che per le reali men conofciute, perchè aHìdita dall’ eloquenza, fa che
lepcrfone più applicate alle verità reali lian parche di parole ne’
familiari difcorfi, che d’ordinario non fon che ferie confecutive d’immagini
conofciute, e rapprefentate altrui colla favella fenza efame, e fenza
conneflìone dimodrativa per effe ; al contrario delle perfone contente
della • cognizione più volgar delle cofe, le quali fon copiofiffìme di
parole, e parlan rapidamente di tutto . Le donne in particolare, men atte
per la delicatezza e debolezza de’ loro organi a penetrar nelle verità
men comuni, fe non fon frenate dalla modeffia, che di quella debolezza
è il compenfo più caro e gradito, favellan delie più comuni con più
diff'ufìone eprontezza degli uomini, più robuffi di tempera, e più (ermi
dipenfamento. Vero è che per quello lleffo parlando generalmente, i
menrillelHvi c più loquaci dilettan più quando illruiì'con meno, a
differenza de’ più taciturni eritìeffìvi, chediJettan meno quando più
illruifcono . £ che i gran parlatori di verità apparenti, lafciano per lo più i
loro uditori muti e llorditi, quando i parchi dicitori di verità reali,
lafciano i loro più fereni di mente, e migliori ragionatori di prima. Per
comprovare che l’eloquenza nella favella fia intefa non già a illruire,
ma a fol dilettare, gioverà ancora avvertire, che una delle condizioni
principali, per le quali piùeffa rifalta, è quella dell’accento,
del numero, della inflellìone tenue o piena, grave o dolce, affrettata o
fofpefa nelle voci, per le quali fi porti effa all’ udito, cofa più
efpreiramente praticata nella poefia, ma che fi llende a ogni genere di
eloquenza, L per Eloquenza come nociva alle cognizioni
reali. per cui il periodo giunga air udito piùfonoro, quali a guifa
di canto. Tutto quello certamente non è diretto che a dilettar l’udito,
percuotendolo con vibrazioni d’aria pìd regolari; e perchè le l'enfazioni della
favella qualunque fieno, dall’ organo dell’ udito paUàno all’intelletto;
quindi è che quello Hello per quelle sensazioni a lui tramandate, nerella
dilettato al modo medelimo, prefeindendo da cognizioni di qualunque genere, e
non rellando cosi più illrutto delle cole, di quel che ne redi l’orecchio
materiale. Ognun vede quanto per quello capo rellino pregiudicate le
umane cognizioni, per Tabulo allora così evidente della favella, la qual
dellinata a illruire, o a pur dilettare T intelletto colle cognizioni
reali, o almeno apparenti delle cofe, s* arrclla all’ udito per
follcticarlo con percuflìoni più rodo grate che ingrate, e non tramanda alT
intelletto che il diletto elimero che da tal folletico ne deriva;
quali deludendolo con prefentargli per cognizioni quelle, che per
veritù non fon tali. Certo è che T armonia mu(leale, dipendente da confonanze
di fuoni uditi, è diverl'a dalla intellettuale, dipendente da confonanze
d’ oggetti e di cofe intefe, perciocché podbno efprimerfi con verfi
canori i più alti drambezzi, ficcome podbno efprimerfi con afpro fuono di voci
le verità più reali, non che le apparenti ; ed io conofeo un gran
filolbfo che canta aliai male, come ò conofeiuto un celebre violinilla,
che ragionava molto male del fuo violino. P oiché come s’è
veduto, le cognizioni reali ed interne non elìgono eloquenza, ed è queda
ferbata per le apparenti cd ederne, chiara cofa è che il più che prevarrà
nelle nazioni e nello fpirito del fecolo T eloquenza, il più prevarranno
quelle cognizioni, prevalendo men quelle. Perciocché per quanto l’intelletto
umano fia capace ed attivo, e forpadì per cognizioni Tua l’altro, eiTcndo non
per tanto eì Tempre limitato e finito, non potrà quell’ attività niedefima pii adoprarfi falle cognizioni più trafcurate a
tutti comuni eh’ efigono eloquenza, fenza flenderfi meno Tulle rifervate
a pochi che non la efigono, attenuandofi cosi in tutti le cognizioni
reali, quanto più lo fiudio dell’ eloquenza, che non può occuparfi che
Tulle apparenti, farà coltivato ed efiefo . Si Ta che chi inclina al
diletto più comune, sfugge l’iftruzion men comune, e viceverfa
fimilmente; e per regola generale ^ gli applicati all’ une e all’ altre
cognizioni, tanto più riefeono in ciafeune, quanto men fi (iendono ad
altre, e ognun che fi flenda a più generi di cognizioni, riefee in
ciafeuno più leggiero e più fuperficiale . L’ elTer poi gli uomini in
generale, non fol più inclinati a cognizioni apparenti perchè più facili, che a
reali perchè più difficili, ma dcfiderofi eziandio di renderfi per
cognizioni accetti a maggior numero d’ altri, fa che inclinino altresì
facilmente allo fiudio dell’eloquenza, proprio di quelle, e non di quelle
cognizioni > Onci’ è che fcbbtne le lingue fian dellinate a iflruire e
a dilettare, lo fiudio e l’ufo più frequente d’ efle fia in riguardo più
a quello fecondo, che a quel primo ufficio, affine d’elT'er uno cosi per
efle intelò, approvato e applaudito da maggior numero di perfone,
rellando intanto per la molta eloquenza più riputate ed eltcfe le
cognizioni apparenti,, e le reali più trafcurate e neglette. Qui cade a
propofito di oflervare, che fe le cognizioni fra gli uomini fembrano a’ nollri
giorni più avanzate che ad altri, e fi reputan eflì p«ù illuminati
e più. iflrutti delle cofe di quel che foflero i loro antenati, ciò non
potrebbe accordarft che in riguardo alle cognizioni apparenti, giacché
una fimite riputa- zione ridonda inelTì dalla facilità maggiore, colla
qual fi ragiona da tutti d’arti e di feienze, e dalia molti-
plicità de’ libri che feorrono dappertutto fu ogni genere di cognizione, tanto
più comuni a tutti, quanto L z più adorni de’ pregi dell' eloquenza.
Quefto giudicar però le cognizioni più avanzate, perchè più comuni
e perchè più facili, indica abbalianza eflb fteflb, non poter tali
cognizioni elTer dunque che le apparenti, che in effetto fon tali ;
laddove le reali, per la diffi- cile aerazione daifenfi, eia infiftenza
maggiore richic- fta nell’ acquiftarle, non è poffibile che lian facili
o fian comuni. Il pretender poi per iftudio d’ elocuzione o per
meccanifmo di parole, di render facile e comune ciò che per sò è
difficile e non comune, o d’ inclinar gli uomini generalmente più alla
fatica di apprendere il reai delle cofe, che al diletto di tratte-
nerfi full’ apparente, farà fempre difperato configlio, ad onta di quanti
dizionari – I give a hoot what the dictionary says -- , Giornali, Compendi
o altri repertori poffan formarfi di cognizioni qualunque fieno, e
che fembrino facilitarle . Di ciò par che con- vengano gli fieffi autori
de’ libri letti il più comune- mente, quando dichiarano di fcriverli per
dilettare, divertire, eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo,
di maniera ch’ei lembri, che ognun di quelli dovefle quafi recarfi a
vile, di fcrivere per iftruir feriamente lol pochi, nelle verità reali ed
interne. Con ciò fi direbbe, che tanta follecitudine fra noi di applicar
tut- ti a tutte le cofe non folle intefa, che a meglio elu- derfi
gli uni gli altri per apparenze, e che dovendo le verità reali rimaner
tanto addietro, quanto le apparenti procedeffero innanzi; per effer
dunque quello fecolo d’ ogni altro il più adorno per cogni- zioni
apparenti, doveffe trovarli ( fia detto per mo- dellia ), il più
fcempiato d’ogni altro per cognizioni reali. Comunque fiafi, nelTun
negherà che llante l’inclinazione comune al diletto, non potendo le
verità reali eller comuni (c), lo lludio dell’ eloquenza, col render
le apparenti più diffufe e più riputate, noti efcluda maggiormente di
infra gli uomini le reali, e che ogni eloquenza così adoprata per
diffonder le verità in genere, lungi dall’ ottenere di ftender la più
reale, non ottenga al contrario di llenderla meno, per non adoprarfì
quella che l'ulla verità apparente più comu- ne, a elclulione della men
comune e reale, che non elige eloquenza. Lafcio conliderare, fe fia
perciò che folle creduto, le verità più venerabili e più arca- ne di
religione, la cui cognizione reale può certamen- te tanto meno clièr
comune al popolo, doverli ad elio annunciare con lingua a lui ignota, e
da lui più ri- fpettata che intela . Certo è, le religioni ancora
più materiali antiche, eirerli cipolle al popolo fra le nazio- ni
riputate più laggie con liinboli, hgure ed emble- mi, c non mai con
elprelfioni verbali ; per elFerlì 'ognor giudicate le verità d’clfe
qualiunque follerò, tan- to più venerande, quanto più ineH'abili, e non
con voci eiprimibili . Ma parlando pure di verità femplici naturali, che
1’eloquenza col lublimar le apparenti tenda ad allontanar le reali, lì
troverà verificato trop- po ancora per pratica ; e chi poflìede l’arte
d’inten- dere, non potrà certamente a meno di non farli un tri- llo
Ipettacolo, diveder come alcuni polFedendo eminen- temente l’arte del
dire, riconvochino IpelTo intorno gran turbe di popolo nobile e ignobile,
e prevalendofi della comun debolezza bro e pigrizia per le cognizioni
reali, li traggan l'eco perle più fuperfìciali e apparen- ti, non
lapciido elfi Itelli ove abbian a riulcire . Per- ciocché l'oratore,
adulatore fempre e lulìnghiero, rap- prelentando almo uditore credulo
fempre e vano l’ap- parente, come le folle indubitatamente reale, lo
confer- ma bensì nel vero quando ei lìa tale, ciò che avvien rare
volte, ma Io conferma altresì e indura nel falfo ? quand’ei noi
lìa, il che avviene più fpelfo, fenzache né lui, nè la ciurma de’ Tuoi
uditori aguifa di pecore, fappiano lo perchè, o lo come. Per altro
quel che s’è detto finora delle cogni- zioni apparenti, non fia già
creduto clferfi detto pec difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi
creda detto fol-,'^o*t3nto per avvertire, di noa prender in effe
per rea- le quel che folle folo apparente, e perchè non s’attri
bulica tanto a quello eh’ elìge eloquenza, quanto a la* feiar del tutto
da banda quella che non la elìge. Dall' altra parte egli è poi vero, che
non potendo le co> gnizioni reali effer comuni, giova che per
occupazio- ne almeno, per commercio di vita, e per diletto ap-
punto comune, tali fian le apparenti, pur che ciò avvenga in modo, che non s’
oppongano alle reali, ma che dipendano Tempre quelle da quelle . £ in
vero quel che s’ è detto de’ collumi, ch’cffendo diverli poHono
non- dimeno aver luogo lenza implicanza, ed effer utili a tutti
purché non fiano centrar) (a); Io Hello dee ap- plicarft alle cognizioni
umane, che eilendo apparenti poflono illeffamente non effer implicanti,
nel qualcafo . non fono alle reali contrarie, ma fi concilian con efe
fupplifcono a quelle. 11 diltinguer poi quan- do r apparente difeordi, e
quando concordi col reale in genere di cognizioni, dipende dalle
cognizioni ap- punto reali, o apprefe per fe medefime e per teoria,
allraendo da illufioni di fenfi ; cofa che non può ap- partenere al
comune degli uomini incapace di tali allra- zioni, e Iblito verificar le
fue cognizioni per fola pra- tica confecutiva de’ fatti, bene fpeffo
ingannevole ; ma dee appartenere a pochi fra tutti piò faggi, e più
il- luminati degli altri. Quelli s’è già avvertito dover ef- fer
quelli che agli altri prelìeduno, fia colla perfuafio- ne della Religione,
fia colla forza del Principato ( 0 C.A///.b, 4 ._( f j dellinati perciò
all’ ufficio di giudicare quali fra tutte le verità apparenti, per le
quali fi conducon gli ailàri comuni, concordino colle verità reali, e
quali da effe difeordino, o fiano a quelle contrarie.. £ ve-
ramente che un fimil giudicio o una fimile cogni- zione abbia ad
appartenere, e poffa convenire del pari, non folo al nobile e al
manovale, o al citta- dino e al rifuggiate, ma al chierico ancora che
iflrui- £ce, e al cialtrone che dee effere iflruito, o al
Ma giflraciftrato che comanda, e al fuddito che dee obbedirlo,ó quella un’
aperta impitcanza, malTime quando già tutti convengono, chegli uomini
generalmente fon più fpenfierati che riflelTivi, e che le cognizioni
reali fon riferbate ai foli più rifleinvi . Ora piacemi ancora
olfervare, che quell’ clTer le cognizioni reali note per sè ftelTe a fol
pochi, e quello dover perciò tutti rcllar a quei pochi fubordinati, non
fa torto ad alcuno, e non è che per quello flanatura cogli uomini parziale od
ingiuHa. Imperciocché non è già elTa, che concedendo le cognizioni reali
ad alcuni, le ricufì a tutti gli altri ; ma fon gli uomini flein,
che inclinando più al facile che al dilhcile, lì lafcian condurre da
illufìoni de’fenfi a proprio favore, anziché da rifledione, per cui
conofcere fe le cognizioni che quindi loro derivano, fiano reali, adraendo
ancora dai fenfi . E quella fubordinazione non fi rende neceflaria, che
per fecondare codeda loro inclinazione più geniale al facile, e per
follevarli da quella più difficile riflelfione . Sol che gli uomini tutti s’
accordino d’elfere riHclfivi, ogni fubordinazione ceflerebbe fra loro,
tutti fi governerebbero da sè per cognizioni reali, nè v’ avrebbe d’ uopo di
chi li govcrnafle per quelle. Ma efl'endo quello impolfibile, per la
propenl'ione comune più aldiletto delle cognizioni apparenti, che all’
illruzione delle reali, come s’ é replicato più volte; e dovendo pur
eglino governarfi per cognizioni reali, quando voglian fulTillere infieme
; egli è dunque forza che alcuni almeno fra edì aduman le veci di
tutti, o fupplifcano al loro dilètto, prefìedendo al governo degli altri, con
quella verità reale, che altri ricufan di darfi la pena di didinguere e d’
invedigar per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione lleffa
invincibile e comune all’apparente e al facile, quella verità mcdellma non può
poi produrli al popolo da chi governa che per l’apparente, ciò che può
avvenire lènza implicanza, per edere ogni apparente al reale conforme, quando
non fia a quello contrario: Dimanierachè il fiflema d’ ogni nazione fia
quello, che le verità reali fi propongano per le apparenti non a
quelle contrarie, e per tali conofciute e difiinte da un governo,
procedendo così tutti gli affari per apparenze, con ficurtà di non opporfi per
quefìe al rcal delle cole, mercè l’intelligenza fuperiore di chi a tutti
prefiede. Se in un fimil governo la perfuafione eia forza faran libere e
indipendenti, il governo farà giufio e fenfato, e la nazione libera e
tranquilla ( giacche quelle due facoltà nella condizione umana debbon
pure dilìinguerfi, e o bene o male fi difìinguono dappertutto ). Se faran
le due facoltà confufe in una, o una minilira e non compagna dell’altra,
farà il governo fimulato e difpotico, e la nazione inquieta ed opprelfa.
Il tutto non per difetto di natura, ma degli uomini e de’ governi fleffi in
particolare, che anzi eh’ effer liberi e tranquilli, amaffero elfer
opprcflì e agitati. Sempre però Ila, che la fubordinazione a un
governo fia per fc flcffa non un dilòrdine, ma un ordine anzi faggio e
ammirando, per cui 1’umana fiacchezza fi alìolve dall’ applicare a quelle
verità reali, che fofier per eflà faticofe ad apprenderli, e fi concede ad
ognuno di abbandnnarfi ancora alle apparenze e al diletto Hello de’ lenii,
purché ciò fia in conformità alle regole, calle leggi llabilite e
preferitteda un governo, che per la fuperiorità de' fuoi lumi, e
per fenno e fapienza fia più illrutto degli altri, nel difeerner quale
apparente fia al reale conforme, e quale fia ad elio contrario. C
Olfellerli dichiarato di fopra, di dover l’eloquenza verfare fulle cognizioni
più comuni, non s’è perciò intefo di degradarla in modo, che
abbiano gli oratori, e i poeti a confonderli per fapere colvolgar della
plebe . All’ incontro fi sa, dover efli molto bene dilìinguerfi per cognizioni
dal volgo, e laco/ pia pii di cognizioni, e lo ftudio degli oggetti su i
quali ftenderfi la loro eloquenza, dover precedere l'eloquenza medefìma,
fenza di che non farebbe poflibile dilettare per ella, e non favellando
l’oratore al fuo uditore che di ciotole e di pianelle, anziché diletto,
non potrebbe recargli che noja e faftidio . L’oratore dunque dee più del
fuo uditore elTere iihutto e ricco di cognizioni, per ornarle pofcia coi
fregi dell’arte fua, e fì; li dice tali cognizioni dover efler comuni,
ciò non può verifìcarlì che in quanto abbian elle ad elTere delle più
apparenti, e delle più facili a concepirli da Mnuno . Ciò conviene con
quanto s’ è avvertito pur mpra ( ), di ftar la giuHa cognizion delle
cofe in certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa vano il
cercarla, come che quinci e quindi ha polla r ignoranza di elTa ; col
folo divario d’ efler dalf una parte la ignobile, propria degl’ idioti e
del popolo più rozzo i e dall’ altra la ignoranza nobile, propria
delle perfone più colte . A quello modo fi dirà, l’oratore e ri poeta rare
volte comunicar di cognizioni e d’immagini col popolo più ignobile al di
qua di quel punto, e folo trattenerli quivi con quello ne’ foggettì
più comici, burlefchi, o latirici; e qualor s’alzi colla tromba più fonora a
celebrar eroi, o a trattar argomenti gravi e fublimi, allor fi dirà lui
trafcender quel punto, e confarfi col p<^lo più nobile e più ri S
utato . Ma intanto fempre Ila, che al giullo punto i mezzo, al quale
s’arrellano le cognizioni reali, ei rare volte o non mai fi foflèrrni,
per^ l’ inutilità dell’ arte fua qualor lì tratti di verità reali,
fuperiori a ornamenti rettorici e poetici, atti più tollo a ofcurarle, quando
fulle fuperliciali e apparenti quell’arte fa di sé prova e pompa
maggiore. L’ufo delle efagerazioni – GRICE HYPERBOLE, de? traslati, delle
allegorie, e rimili figure proprie della fola oratoria e poetica, fan conofeere
tutto quello, e come tali articoli’ amplificare o ellenuaie gli <^etti,
fi trattengano fotto quel punto o lo formontino ; mentre quantunque le
c(^nizioni Tulle quali verfano, ogii argomenti de’ quali trattano, fiano
agli uditori men noti; pure per efler quelle cognizioni fuperficiali e
apparenti, e in conleguenza facili ad apprenderfi dall’ uno e dall’
altro popolo, polTono da quello elTer apprefe nell’ atto lieflo di
ellerne ei dilettato . Con ciò fi direbbe, che il partito degli oratori e
de’ poeti in ordine al vero, foffe quello dei disperati, i quali diffidando di
sè stessi per assegnarlo al giullo suo punto, scegliellero più to Ito
di raggirarvisi intorno inocrtamente, e di quasi controillruire per più
dilettare con varietà d’immagini facili, ma tirane e TpetTo IMPLICANTI,
nell’incapacità conosciuta d’iltruire colle piu difficili e più
veraci. Quindi ebber luogo quei tanti poemi su passioni ed azioni
oltre il credibile. Le donne, i cavalier, l’armi, gl’amori, e quei tanti strambezzi
sugli eroi là volosi e sull’antica mitologia, i quali dilettan molto più
di quei che versano su argomenti filosolici e morali, Alila vera religione, e
su azioni deferitte quai son accadute precifamente, che non diletterebbero
più di un processo civile o criminale, cfpolio a un auditor di rota.
E ciò sol perchè in quel caso può la mente svagare dappertutto a suo
talento, quando in quello elTa è allretta a hllarfi ad un punto, e a Aarvi
confìtta come ad un chiodo; elfendo d’altronde impossibile di supplire ad un
tempo llelTo a due oggetti, di dilettare e d’ iAruire precifamente, o supplendosi
almen meglio ad un solo di quelli oggetti, che infieme ad entrambi. Per
quello ftelTo le rappresentazioni massime teatrali, tanto più fogliono
dilettare, quanto più dal vero, o dal verisìmile ancor di natura, trafeendono
all’IMPLICANTE od al falso dell’immaginario, brillando sempre il diletto a
spefe dell’ iAruzione migliore; tanto è quello comunemente diverso da
queAa, e tanto1’eloquenza e1altre arti analoghe ad elfa, c compagne
del diletto più comune, sfuggono l’iAru zion XCI xion più
feverj c meno comune. Chi trova indecente che Temiftode canti andando a morte,
non bada che a queda Uhuzione, che non trafcende il vero ed èbeti di
pochi; ma sol ch’ei badi a quel diletto, che trascende il vero ed è di
molciffimi, troverà quel canto adattato all’azione, e piagnerà ad eflb, purché
fia preparato a dovere, e accompagnato da quel debile che richiede
l’azione medefima. Ma infomma generalmente chi riprende i poeti per la
futilità degl’argomenti, ai quali d’ordinario e’ s’appigliano, e per la
fallacia delle cognizióni che inOnuan per edi, non bada a quedo, d’eifere
il hne Principal loro quello di dilettare e non d’istruire e di
dilettare non i più dotti ma il comune del popolo che non è dotto, e che
parlando generalmente,.n.i ceflTan eglino di dilettare, todochè prendono
a istruire. Le allusioni certamente, le immagini, i traslati suddetti,
proprj e neceflarj dell’arte loro, occorrono alla mente a numero
incomparabilmente maggiore pelle cognizioni più facili al volgo note, che per
l’efatte e didicili riferbate ai più dotti, per le quali non è così
agevole passare dal proprio e preciso – youre my pride and joy -- al metaforico
– you’re the cream in my coffee -- e figurato. Cosi la luna per esempio,
concepita pelle immagini più facili che ne dànno le antiche favole, non
che col nafoecolla bocca Come sugl’almanacchi, dà motivo a mille allusioni e
figure che non darebbe apprefa per lo reale de’suoi monti, e delle fue ombre
nel sistema planetario; e finché il popolo la concepirà più facilmente al
primo che al secondo modo, il poeta canta, e ha ragion di cantare con più
dolcezza del naso della luna che de'suoi monti. Gl’occhi ideflamentc, cosa la
più conofeiuta e più triviale, appresi pelle cognizioni di effi più volgari
e comuni, somminidrano alla mente mille immagini, ond’effer chiamati luci
leggiadre, vezzofi rai, fiammelle vivaci, lucide delle, pupille ferene,
drali omicidi, faci gemelle, adii d’amore, che non somminidrerebbcro appresi
pell’irruzione d’ effi più efatta, o pelle dottrine ottiche e anatomiche
migliori, ma men conofciute. Anzi s’olfervi di più, come da ciò procede,
che l’oratoria, la poetica, e l’altre arti dilettevoli non soffron nemmeno
regole istruttive per esser tai regole ellratte dalla ragione più elàtta
per cui appunto s’iftruHca, quando quell’arti per illituto principale, debbono
trascender quello reale per dilettare coll’apparente. Quindi avvien bene rpelTo
che un’orazione, un poema, un’azione teatrale dettata secondo tutti i precetti
che ne dànno Longino, Aridotele, ORAZIO, o GRAVINA, dilTecca nondimeno
l’anima, e fa sbadigliare, quando un’altea senza quelle regole, ma
ornata più di drane apparenze, attrae tutto il popolo fìa noÙie o ignobile, il
quale seguace del diletto, schiva ogni idruzione per eflo, e prevenuto
anzi per lo mirabile falso e apparente che per lo vero naturale e
verisimile ancora, non intende precetti, per cui fìa qnello confinato e
ridretto; giudicando di quel che ode e vede, pelle ragioni superficiali
pur vedute ed udite, e non per le interne che non vede, e che non
potrebbe vedere che prefeindendo dai sensì di che il popolo ( e il fod'ra
LIZIO ), non è mai capace. Quedo preferirfì poi per l’oratoria sempre
l’apparente al reale, non può negarsì che non torni in abuso, il quale
però faria tollerabile finch’ei fi reftrignede al divertimento appunto teatrale,
e all’ozio delle corti e dell’accademie, senza perciò opporli al
U)CJOI.n,j. medefìmo, com’è pur podibile. Ma il fatto è, che bene fpeflb
ei li dende ancor filila condotta degli affari più fer), ne’ quai l’
eloquenza col folfermarfì più full’ apparente, fa più perder di vida il
reale di edi, con altrui dainno e feiagura ; come apparifee ki
pratica per più (inceri uomini e dabbene, fopradàtti e delufì ne’ loro
intereffì da chi per fola facondia, e per artificio di ragionare vai più
di loro . E il peggio è ancora, che dagli affari particolari, l’
abudo medefimo s’inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo, ne’quali
per l’adulazione, la lusinga, e la simulazione che più o meno indispensabilmente
v’àn luogo, L’ARTE DEL DIRE è ancor più accetta che altrove . C^d’è, che
Aiblimando quella più le verità apparenti, mette più a rifehio d’allontanarfi e
d’obbliar le rnli. Su quelle conliderazioni farebbe a riflettere, fe giovi
a’ di nollri tanto animare e apprezzar l’eloquenza su i tribunali e nei fori, o
fe anzi oltre al dovere non fi trovi effa incoraggita e apprezzata. Certo
è che sebbene gl’affari comuni abbiano a condursi per cognizioni apparenti;
nientedimeno ciò dee seguire senza scollarfi dalle reali, come s’ è ridetto più
voi-’ te, e ciò per imitar per quanto è poflìbile la natura, che falciando
difputar gl’uomini, accarezzarfi e idolatrarfi fra loro, regola il tutto
per lo reale SENZA PROFFERIR MAI PAROLA. Se poi chi pretende governar
altri senza render ragione del suo governo, come ufa natura, sarebbe un
uomo affai vano; il farebbe non men certamente chi pretende governarli per
sola copia ed eleganza di voci. Quei medefimi che si reputan più valere per
eloquenza ne’congressi, e ne’PARLAMENTI, converranno di quelle verità, se L’ARTE
DEL DIRE è in lor pari al buon senso; e accorderanno non meno che quegli
oggetti grandiosi di prosperità, di felicità, di potenza pubblica, che si spesso
dai rollri amplificano all’orecchio del popolo, non fon poi tali
quai da lor ir promettono, o almen ne dubitan ellt nelfi, e ne rellan in
gran parte fofpefi. Dall’altra parte, le repubbliche antiche non sono mai più
feoncertate che a’tempi dell’eloquenza più sublime di Demostene e di CICERONE,
quafichè si governano allora per cognizioni più popolari e apparenti, che
per vere e reali, per le quali quelle repubbliche si farebber per
avventura meglio follenute, come A TEMPI DEL PARCO LICURGO E DEL RELIGIOSO
NUMA. Fi 1TInora ei pare che non fi fia ragionato di doquenza, che affine
di screditarla, e di renderla fra gli quen» filile uomini odiosa,
proverbiandola come inutile, vana, cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e
nociva alla miglior condotta de’privati e de’pubÙici affari. Perchè però non
fia creduto, efferfi di cosi mal umore contr’efla, quanto a volerla
del tutto sbandita dalle nazioni, è da avvtrtirfi, non efferfi cosi favellato
dell’eloquenza, che in quanto fuoleffa versare sulle cognizioni apparenti
e fallaci, lardate a parte le reali e migliori. In coneguenza di che si apprende
che l’odiofità suddetta non cade già full’eloquenza in genere, e che non è
effa cosi pregiudiciale nelle nazioni per sè medefima, ma pella
qualità appunto delle cognizioni alle quali d’ordinario s’appiglia, e alle
quali stante la propensione comune umana al piò facile, dee eifa
cotnunemente appigliarfi. Con ciò confiderando ogni cofa, s’arguirà dunque
eziandio, che fe l’eloquenza, in luogo d’occuparfi a fiabilir negl’animi le
cognizioni apparenti, s’applica ad ornare e a meglio prcfentar alle menti co’suoi
vivi colori le più reali; lungi dall’elfer nelle nazioni nociva, fi renderà
anzi a quelle utile e giovevole. Infatti s’ è veduto, ufficio della
favella esser quello d’istruire e di dilettare, vale a dire d’istruire nelle
verità non conosciute, e di dilettare nelle già conosciute. E perchè le
verità di qualfivoglia genere non polTono esser conosciute che per qualche istruzione,
questa dunque dovrà fempre precedere il diletto che proviene dalla favella,
e 1’oratoria così, la poefra, non meii che r altr’arti tutte dilettevoli,
dovran generalmente conseguire la filofofia, la morale, e 1’altr’arti klruttive,
fiano apparenti o fiano reali, fcnza che polfan mai quelle preceder quelle,
non elfendo certamente polfibile adornar coi fiori dell’eloquenza, e con
immagini traslate e sublimi, ciò che non fi fia pri xcv prima
appreso per voci PROPRIE, più piane e precise. Stando dunque al diletto della favella,
è certo che dovendo quello cunfeguir l’istruzione, tanto può conseguir la più superficiale
e comune, quanto la più vera ertale eh’ è mcn comune; e che ficcome possono
con figure – GRICE FIGURES OF SPEECHL METAPHOR MEIOSIS LITOTES HYPERBOLE
-- e immagini adornarsi le verità men el'atteepiù popolari, conofeiute da
molti; cosi si poflbno pur le più efatte e men popolari, riferbare a sol
pochi . £ la differenza farà, che effendo nel primo caso 1’eloquenza la
più popolare e comune, della qual s’è favellato finora; fi renderà ella nel secondo
più particolare, difufa a non molti, della quale s’aggiungerà qui qualche
cofa. Egli è vero' pertanto, che gl’uomini amanti generalmente più del
diletto che dell’istruzione, foglion trattenerli più fulle cognizioni
apparenti perchè piùfiicili e perchè apprefe, che sulle reali perchè non
apprefe, e perchè foticofe ad apprenderli, ond’ è che il più
frequentemente ufino 1’eloquenza fu quelle cognizioni, applicandola ben di
rado a quelle \b) Ma ciò non teglie che non poflà effa a quelle applicarli,
e che non vi fi applichi talvolta effettivamente. Anzi quello fa, che
l’eloquenza medefima coll’effer nel primo cafo più comune, Ila altresì più
apparente ed equivoca, e in tal guila perigliofa come s’ è detto ; quando
nel fecondo coll’ elfere men comune, fi rende più ficura e reale, e con
ciò giovevole, prendendo il diletto che ne proviene ognor tempera e
qualità, dall’iUruzione e dalla cognizione apparente o reale che lo
precede. Così uno fpirito altiero e ambiziofo, potrà tirarfi dietro un popolo
di fpenfierati, e -condurli per le verità apparenti all’incredulità, e
quindi alla fchiavitù, alle difeordie, alle guerre, e alla povertà che ne
derivano, e ciò con tanto più di veemenza, quanto in lui fìa maggiore l’ARTE
DEL DIRE. E dall’altra parte può un tìlofofo più sensato colie verità reali,
perfuadere i più rideliìvi ' per quanti ve n’ànno, alla religione non finta, e
con ciò alla libertà, alla concordia, alla pace e alla felicità che
pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di forza e di grazia, quanto in
lui v’abbia più di facondia. £ la prima eloquenza farà indubitatamente
futile e dannosa, eflendo quell’ altra più utile e reale, giacché in
eflètto ogni apparente termina in reale, per la 'natura che non devia mai
da quello, per quanto gli uomini fi lafcino sbalordire da quello . Ond’ è
che (ebbene quel primo cafo (ìa il più frequente in pratica umana, rella
nondimeno e^o fempre tolto per lo fecondo, o per la pratica della natura,
eh’ è la più vera, perchè pratica infieme e teorica, di quanto a.v viene
nel corfo generai delle cofe. IH. S’arroge, che la detta
dillinzione xkll’ idruzionc dal diletto che procede dalla favella, non è
poi tale, che 1’ un di quedi s’ efcluda per 1’ altro, o che abbian perciò
f arti dilettevoli a non efler idruttive, e le idruttive non dilettevoli
. Perciocché aU’ incontro può ancor dirli, che 1 ’ idruzione deda non
vada difgiunta dal diletto, ancorché quedo proceda non dalla favella, ma dalla
verità per eflà avvertita ed intefa, il qual diletto così é compagno e
contemporaneo all’ idruzione medefima, quando r altro che procede dalla favella,
confegue 1’irruzione, e non mai 1’accompagna, e molto men la precede . E fi
dirà idedanaente, qud di letto eder di quedo molto maggiore, mafdine in
riguardo alle verità reali, come quello che li dende all’ intelletto,
quando quello della favella (i porta all’immaginazione, e talvolta s’ arreda
all’ orecchio. Certo é che il diletto d’ un geometra nel concepire
una verità, fupera di gran lunga quello d’ un Oratore nelteder l’elogio, o nel
commendar legeda d’un eroe, come lo fupera eziandio quello di quedo
eroe ncH’efequir quelle geda, quand’ ei pur le efequifea ; e quattro
linee di Euclide con illruire piit di dieci orazioni di CICERONE (vedasi),
dilettano altresì più di quelle, che ben fovente dilettano con inganno.
Per quello i precetti fondamentali, e le regole generali di morale, di
giurifprudenca, e tali altre verità, per quanto fono reali e geometriche,
dilettano coll’ illru- 1«) zione tanto a’ dì noUri, quanto a mill’anni
innanzi ; vale a dire con diletto più fenfato e durevole . Laddove i
lìmboli di Pitagora, i fogni di Platone, le minuzie d’ Omero, che a’ lor tempi
rapivano gli animi, col diletto per avventura fugace della fola
elocuzione ; al prefente o non lì comprendono, o non apportan diletto,
quando ciò non folTe in riguardo lòlo a chi avelTe l’abilità, di formarfene uno della loro
antichità medelima. Le lingue dunque finché si trattengono nell’ufficio
d’istruire, ancorché non dilettino per fe lleffe, dilettano per le verità,
delle quali ilhuifcono; e le s’ avanzano a dilettar per fe Ireire, ciò
non é, che per figurar alla mente con colori più vivi le verità medefime
per efle apprefe, e ciò con eloquenza frivola e vana, fe le verità fon comuni e
volgari, e con eloquenza robulla creale, fe le verità fon pur reali e
fuor d’ ogni inganno . Verbigrazia s’ io dirò : La Luna coll’ attrar più
la fuperficie convelTà che il centro, e più il centro che la fuperficie
conca„ va più dillante della terra, alza la parte acquola „ che più cede,
filila falda che men cede nell’ una e „ nell’ altra fuperficie di elTa ;
ond’ é che quelle due „ elevazioni d’ acque comparifcono tulle llabili
ripe, al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore e in„ feriore del
meridiano di ciafcun luogo terrelhe Io con ciò non farò, che dilettar
l’intelletto colla illnizione men comune, ma più vera che polla darli del
fiulTo del mare, fenza punto dilettarlo per la favella, per cui Cia efpolla
quell’ illruzione, non potendo ella efportì per termini più femplici e più
precisi. Che fe dopo aver dilettato T intelletto con quc Ha
iftruzione, dirò come in quel terzetto: Sai perché fale alternamente, e
fcende Il mar, che a Cintia che fi /pecchia in ejfo, Innamorato in
fen fi /pigne e tende ; allora palTerò di più a dilettar l’
intelletto medefimo coir eipreflìone ancor d’ eloquenza fu quell’
iHruzione, tralportandolo dalle immagini proprie di Luna, di mare, di
attrazione, alle figurate e fimboUche di Cintia, di fpecchio, d’amore,
per le quali quella verità già conofciuta, fe gli prefenta con più di
novità e di vaghezza; e ficcome quell’ iftruzione è migliore febben men
comune, cosi quella eloquenza che la confegue, può appellarfì migliore .
Ma fe in luogo di tutto quello, fupponendo 1’ uditor pure iftrutto
di qualcuna di quelle più volgari dottrine, per le quali iogliono. più
comunemente fpiegarfi le maree, io prendelfi ad ornarla con immagini
fimilmente traslate, con figure rettoriche, e con efprellìoni enfatiche ;
potrei pur con ciò dilettarlo, defcrivendo un cieco turbine interno, una
prelfìon d’aria verticale, una imprelfion di vento orientale ellerno, o fimil
altra opinione folita fpacciarlì a quello propofito, delle quali tutte vien
detto, che mal loddisfatto un filofofo dell’ antichità, prendelTe la
rifoluzione di gettarli in mare, dichiarando elfer giudo che folTe da
quello capito, chi non potea quello capire- Comechè però tali opinioni, per
elTer più facili e più comuni, fon meno efatte e peggiori ; così la
eloquenza fu clTe che le confeguilfe, farebbe imperfetta, o farebbe
un inutile vaniloquio. Il diletto dunque che proviene dall’
eloquenza, può confeguire le cognizioni tanto apparenti e comuni, quanto
reali e meno comuni, e per quello ilelTo di elTer ogni eloquenza
confecutiva all’ illruzione. Bc, chiunque afpira al diletto d’ efla
migliore, dee prevenirlo per la migliore irruzione corril'pondente, e per
le verità non quai fon conofeiute dal popolo, ma quai fono in fe ftede,
mentre quel diletto confeguendo la irruzione fuperfìciale del popolo, non potrà
appunto elTcre che fuperficiale, e talvolta efimero e menzognero, come
nel cafo degli equivoci, de’ fofirmi, degli enimmi, de’ paralogifmi, e degli
altri prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual cofa, che
i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono apprefi popolarmente, s’
è detto ciò eflTere in riguardo al popolo, al quale più frequentemente
favellano (/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor con inganno, in. quanto quel
diletto che confegue 1’ idruzinne peggiore, è ingannevole, e non v’à diletto
di eloquenza reale, che quel che confegue pur l’ irruzione vera e reale
{b)^ Dacché s’apprende, perchè 1’eloquenza, e generalmente 1’ arti di diletto
più comoni, rade volte appaghino le genti di miglior fenno, e perchè gli
fciocchi fieri ne refiino cosi toflo annoiati per elTer quelle in
confeguenza .della irruzione peggiore, che foggetta ad inganno, non può
dilettare che con inganno, e quero non avvertito ancora, non può a meno di non
generar noja e fpiacere. Quindi è che agli fpettacoli, alle fere, ai conviti, e
a ogni fpecie infomma di divertimenti comuni nobili e ignobili, è d’uopo
dar fempre nuove forme, Quando ancor del tutto non fì cangino in
altri, fenza i che ogni fpecie di popolo alto e bafTo' ne reda
rucco e ammorbato. L’ uomo è fatto dall’autore della natura per l’ irruzione
inreme e pel diletto reale, ad onta, de’ fuoi fenH che lo incantano full’
apparente ; come H convince da ciò,. che l’ irruzione allor più. diletta,
quando è più diligente ed efatta ; prova J |uefla. evidente della
fuperiorità, e immortalità del i uo intendimento fopra tutte le
cofe mortali.(#) c.hu.j^ Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto
apparente Ni fcnza iftrurione, o coll’ irruzione priore, non
pnò alfin ciò riufcire che a Aio rincrefcimento, e con fu» naturai
ripugnanza. L'oAinarfi poi a contraAar quel reale con quello apparente, è
come contrallar il cor* fo del Sole con un tiro di cannone, o penfar
di dillnigger la natura in sè Aeflb, come fi dillruggono J
uattro poveri ingannati, che A difendono in una iazza . QE piaccia
applicare il detto finora folle cognizioni Delle tradu- O umane, e Alile
lingue per le quali s’efprimono, alle zioaidall’uoa traduzioni dell’
opere d’ingegno ferine dalP una all’ altra all’ altra fa- favella, èda
avvertirfi, eh’ elTendo le lingue intele oa velia. iAruire nelle
cognizioni reali, o a dilettare colle appa(a}CJC/Kn.i. tenti (a), il trafporto
delle cognizioni dall’ una all’altra lingua potrà agevolmente riufcire,
quanto al primo capo dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA a
ciò che un’ efprellìone d’oggetti per li termini lor più proprj e precifi,
queAi in ciafeuna lingua fono determinati, o efprimon gli oggetti colla
precilìone medefìma, eh’ è una per tutti i luoghi e per tutte le lingue. Laonde
baderà a queAo effetto, che il traduttore ben intefo del fentimento dell’
autore, e iArutto per pratica de’ termini precifì d’ ambe le lingue,
foAituifca gli uni agli altri di quelli, con quella coAro-, zìone o difpoAzione
che a lui fembri piò naturale nel la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà
così bene in queAa, come 1’ autore nella lingua Aia originale . Ma quanto
al fecondo capo di dilettare colle cognizioni apparenti, poiché il
diletto delie lingue proviene da Amilitudini, alluAoni, e altre immagini
d’oggetti anco traslate, queAe in ciafeuna lingua fon più o men naturali,
più o men giudiciofe o ingegnofe, a norma degli oggetti Aedi, eh’ eAendo
conAmili, Aan più o meno diverA, e a combinar i quali Aa una
nazione piùo meno familiarizzata. E pertanto trafportate quelle iminagiai
per foAituzione di termini come fopra, dall’ una favella, debbono perder
di molto della lor grazia, e della lor forza nell’altra. In effetto,
quelladifferenza che nelle combinazioni d’ immagini proprie, e molto più
traslate, s’ è oflervato paflàre fra perfone di varie condizioni in una fteffa
nazione (a)j non (a)C.n.n,i. v’à dubbio che non abbia a rendersi vieppiù
notabile fra perfime di varie nazioni e lingue, i cui coflumi, profeflìoni,
e modi altri efierni, per impreflìoni più o men forti e frequenti d’oggetti
diversi benché consimili, son più rilevanti, non sol fra ciafcuni in specie, ma
fra tutti eziandio generalmente; procedendo da ciò un SIGIFICATO più o men
eliefo ne’termini delle lingue, per eprimer gl’oggetti fterti o consimili, che
si direbbe tanto più efiefo nelle lingue diverse, quanto quella diversità supera
quella dei diversi dialetti in una lingua medesima. Egli è certo, da
quella diversità d’oggetti consimili nelle varie nazioni, derivar le diverse
indoli, spiriti, e umori nazionali, come pur le diverse indoli e spiriti
cosi detti delle lingue. Concioflìachè siccome le piante, gl’animali, i
minerali di qualsivoglia specie, e gl’uomini flefli nel lor materiale,
ancorché consimili, son pur diversi in ciascuni climi per C. T. ».
j-tcflìtura di parti più dure o più elafliche, più dense o più rare, più
fragili o più compatte; all’ifleflo modo il SIGNIFICATO delle voci, colle quali
esprimer tuttociò nelle lingue, è più o meno eflefo, e le voci stesse più
aspre o più dolci, più risonanti o più molli, più acute o più ottuse. Ciò
eh’é ben noto ai viaggiatori, che vaghi d’investigar una tal varietà,
feorrono da"^ dima a clima e da nazione a nazione; e un britannico che
per tal suo capriccio muova da Londra all’Egitto, o un affricano che per sua disperazione
sia tratto d’Algeri in America, non trova minor disparità fra i suoi
coflumt e i coflumi egizj o americani, di quella che trova fra le maniere
diverse d’esprimerli lotto ciafcuni di quelli climi, rimanendo ciafeun C.Jff. dei
due allettato più, come delle fue die delle altrui immaginazioni e collumi
cosi de’Tuoi che degl’altrui modi d’esprimerli; non per altro che pella diversìtà
deg’oggetti e voci corrispondenti – TO COWARD: WHAT DID YOU LEARN IN AUSTRALIA,
KANGAROO -- ai quali le respettive lor menti sìan più afluefatte ed
avvezze. Per efler dunque la verità delle cose reale una, ed invariabile
dappertutto, e per elTer le maniere di apprenderla e di dilettare con elTa
moldplici e innumerabili, saran le lingue tutte del pari, qualor lì tratti
d'idruire nelle verità reali, ma saran fra elTe diverse, qualor si tratti
di dilettare culle apparenti, essendo generalmente elle illituite non per quel
fulo udìcio, ina ancora per quello, e non per tutti in tutte le nazioni, ma
per ciafcuni in ciafcune. La copia e moltiplicità di termini in una lingua
al paragone dell’altra è un indizio di tutto questo, e di quanto una lingua puo
dilettar più d’un’altra; per provenire quella moltiplicità dalla maggior quantità
d’immagini, colle quali esprime ciafcuna gl’oggetti llein o consìmili; non
introducendosi una nuova voce in una lingua che per introdurvi una nuova
immagine, o per dividere e appellar per due voci l’immagini, che prima s’appella
per una. Pella qual coa la lingua più ricca di voci è più capace d’immagini
divise o traslate, per esprimere la lidia quantità d’ oggetti, e per
dilettare con elTi; perciocché se un oggetto stesso o consimile vorrà esprimersi per
due lingue, lì dove pella più povera di voci appellarlo talor pella voce che
folle pur propria d’un altro; laddove colla più ricca appellando 1’uno e
l’altro con voci diverse – WHAT IS THAT: A FLOWER – FIORE --, coll’applicar poi
a quello la voce propria di quello, e viceversa, u viene a esprimerli
entrambi per traslati e figuratamente. Per esempio un britannico appellando
propriamente un furbo e un fervo per la llelTa voce knave non può per
queAo capo indur analogia veruna fra quelle due persone; e l’italiano
appellando ciadcun di questi con quelle voci proprie diverve, collo stender poi
all’uno la voce propria dell’ altro, riesce ad appellarli tutt’a due allusivamente,
e a significame i caratteri, quando occorra, con più di forza e con più di
vivezza. Con tal fondamento ei parrebbe che numerandoli nella favella
italiana da 38000. termini o voci, e non numerandosene nella britannica che da
zdooo, deflunti gl’uni e gl’altri proflimamente, e colla Udrà regola dai
più comuni respettivi dizionari; la prima favella superalTe la seconda per
capacità di alluuoni allusioni, e d’immagini traslate, in ragione di ip.aiz.,e che
di tanto più potesse quella sopra di quella dilettare nell’opere a ingegno scritte. Ma
fopra tutto è cosa mirabile TolTervare, come dalla detta diversa ellenlion di SIGNIFICATO
ne’termini delle lingue, e dal grado impercettibile d’elTa con cui li palla
dall’uno all’altro oggetto, unitamente a non li là dir quale collocazione dei
termini lleffi, dipende quella inesplicabile forza, armonia, e grazia di Jiiley
che nelle produzioni d’ingegno rapifcegli animi, e fa bene spesso il più bello
e il più dilettevole di elTe; lieve così, che sfugge molte volte il senso dei
nazionali medesimi, e che i forellieri cerumente non aggiungon giammai. Io non
ò trovato oltramontano, per illudiofo che fosse della lingua italiana che
rilevalTe differenza veruna jIì flile infra il sonetto per esempio del Cafa sopra
la gelosìa, e quello d’ogni altro comune studente di RETTORICA che imita quello
poeta, e non folfe disposto a giudicar il primo del secondo autore, e il secondo
del primo, quando ciò gli folfe stato dato ad intendere. Le bellezze
altresì che trovano i forellieri nello flile del Petrarca, d’ALIGHIERI, del Tasso,
son diverse da quelle che vi riconoscono gl’italiani, e la novella di
Giocondo, dilettando del par gli uni e gli altri pell’invenzione; pelle grazie
dello stile, e pell’efficacia dell’elocuzione, non diletterà mai tanto un gallo come
un italiano nell’Ariosto, nè mai tanto un italiano come un gallo nel Fonténe.
Ciò che fa, che di via ordinaria, chi giudica dell’opere d’ingegno d’altra
lingua e d’altro tempo, s’attacchi ai difetti che hanno in elle dalla parte del
sentimento, del quale è giudice ognuno, come di cosa di tutte lingue
e di tutti gl’intendimenti, senza badare che Hando al diletto dell’espresione,
quello sfuggendo un tempo e un luogo, spazia molto bene in un altro,
rilevando talvolta sui sentimento medesimo. Così il moto verbigrazia della
terra pell’annua sua paralade colle Helle fìlTe, che n’è la cagione di
tutti i luoghi e di tutti i tempi, può comprenderfì d’ognuno del pari, fiaper
la propria, sia per l'altrui favella ; quando il Capitolo dei Lorenzini sulla
vendetta, o simil altro tratto di poesia italiana, il cui pregio confida
nella sola collocazione, cnfafi, dite, e SIGNIFICATO di voci, per cui
dipingere all’immaginazione le passioni umane, non fa mai da neduno cosi
ben rilevato, come dall’italiano, per eder tutto ciò diverlb in ciascuna
lingua, e in ciascuna nazione Egli è dunque vero che trattandosi di traduzioni
d’opere d’ingegno scritte dall’una all’altra favella, non potran quede mai
riuscire quanto al diletto della favella deda, o qualora il traduttore aduma di
dilettare coll’espresìoni del suo autore, trasportate nella propria lingua.
Quedo nondimeno è quel che volgarmente suol farli, ed è queda la ragione per
cui le traduzioni quand’anche idruifcano ugualmente che gl’originali,
dilettan sempre meno di quelli, e riescono per quedo capo quanto inutili per
chi intende ambe le lingue, tanto imperfette per chi non ne intende che
una. E ciò allor più, quando nell’opere tradotte, il diletto della favella
prevale alla dottrina deir idruzione, come nelle novelle, ne’romanzi, nelle
produzioni teatrali, poetiche, e sìmili altre, più cv di spirito che
di sentimento. II pretender di dilettare per sodituzioni grammaticali di
termini d’una lingua a quelli d’un’altra, come nel caso suddetto d’idruire
\a)y è una vanità, simile a quella di chi crede di meglio ricopiare un ritratto
originale, con soprapporvi i suoi colori, cuoprendone cosi e confondendone le
tinte, e cangiando il quadro in un mascherone, o in un empiadro. S’aggiunge
trattandosi di poesia che il numero, L’ACCENTO (Grice), la rima (“Never
seek to tell they love, love that never told can be, pleasure, treasure” –
Donne, four-corners – cabbages and kings -- ], e 1’altre condizioni, per le
quali il diletto dell’eloquenza rileva moltidimo, e che dipendono
dall’armonia che palTa all’intelletto per le vìe dell’udito, sono
if>)C.XF.n. del tutto imponibili a tral^rtarfì dall una all’altra favella;
e che sìccome la musica dell’Italia può farsì udire nella Gallia, e la della
Gallia in Italia, ciascuna nel suo carattere, ma non è podibile tradurre la musica
verbigrazia di GALLUPI (vedasi) in quella di Monsù Ramò. All’ ideflb modo non è
podibile per quedo capo, tradurre r una nell’altra poesia. E il miglior poeta
comico d’ITALIA de’nostri tempi, potrà darfene nella GALLIA per padar
quivi meglio i fuoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico
da così ben rilevato in Parigi, nella lingua galla non sua, come il è
già in Venezia, nel dialetto suo veneziano. Da ciò A conclude, che non
potendo il traduttore nella nuova lingua dilettare coll’epressioni dell’originale,
non gli rederà dunque per tradurre ben che dilettar coll’espresioni della
propria; inguifachè impodedato A lui del sentimento dell’autore per
idruire com’edo, l’esponga poi con quei colori di stile, e con quelle fraA
d’eloquenza, che nella sua lingua son più vive e più forti, per dedare il
piacere, n terrore, la tenerezza, la compasione, e gl’altr’affetti, quai
più occorredero. £i dee Agurarn d’effere autore, per non isAgurare il suo
autore, e lasciar a lui l’arte di dileture colla sua lingua, per
dilettar O ci €» colla propria; e alTumendo le dottrine e l’immagini di
quello, esprimer 1’une e rappresentar 1’altre, coi COLORI (COLORE – Farbung –
Grice) colori della sua lingua e poesia che meglio conosce, e non con quei
dell’altra lingua e poesia, che non potrebbe mai cosi bene conoscere. In
altra guisa gli riulcirebbe bensì di privar la sua traduzione del diletto,
che potesse provenirle nella propria lingua, ma non mai di venirla del
diletto che 1’animala nell’altra. L’indizio poi per cui ravvisare, s’ei si fia
nel tradurre comportato con quelle regole, fa fo que fio, di piacer
tanto la sua traduzione a quei della lingua tradotta, quanto l’originale a quei
della lingua originale, o di poter quella palTar per opera così originale
fra quelli, come 1’originale medesimo pafia per ule fra
quelli. Accogliendo ora le principali verità efpofte di fo- Epilogo,
e pra, fi apprenderà facilmente, una di quefie CoDcluCone . efl'er quella,
di dover difiinguerfi fra le cognizioni umane le apparenti, e le reali.
Perciocché io non ò già preteso per quanto ò qui scritto, di persuadere
gl’uomini a governarli col solo reai delle cose, e di difiruggere infra lor 1’apparente
del tutto, come potrebbe alcun lòspettare. Ciò faria fiato come voler
persuaderli a lasciar le vie piò facili e pronte di governarsi, per
appigliarfi alle piò lontane e difficili, e ad abbandonar quegli
alietumenti de’sensi, dai quai dipende tutto quel commercio di passioni,
dipende ri, e d’azioni grandi e luminose, per cui piacevolmente fufiifiono; cosa
che non s’è mai ottenuta, e che in conseguenza non è da sperarsi che s’ottenga
giammai. Al contrario di ciò, mio disegno è fiato sol quello, di
didngannare gl’uomini fu su quello apparente mededmo, e di rappresentarlo
loro per quello eh’egli è, avvertendoli che oltre a quello, per cui fogliono
elfi governarsi, v' à nelle cose un reale, per cui li governa
irredllibilmente natura, o riferire 1’uno all’altro di quedi, dipende
quella felicità, di cui fon tanto ansiosi e soJlecitt, o quella infelicità,
per cui alzan- si trilli e si fpein lamenti. E ia vero non potendo gl’uomini
acquillar cognizioni che per mezzo de’sensi, e non^ iflendendofi quelli che
alla superficie apparente degl’oggetti, le cognizioni loro fu quelli non
possono al primo tratto essere che superficiali e apparenti. Vero è che
oltre ai sensi, son eglin dotati dalla natura eziandio d’un intelletto,
per cui confrontando giuHamente fra loro quegli oggetti inferiori ed
ellerni, arguir le verità fu elH piu sublimi ed interne, e farsi cosi dal
visibile degl’oggetti creati, all’invisibile di Dio eterno e increato. Ma efigendofi
a ciò certa allrazione dai sensi medefimi, da non praticarsi che con
ripugnanza, per l’amor proprio che tiene a quelle apparenze fortemente attaccati/
non è poi llupore, le gl’uomini di via ordinaria s’ arredano sulle prime impressioni,
e fe paghi dell’intereire proprio per quelle, non elaminanpoi, fe quedo
concordi o non concordi col comune degli altri, o colla ragione reale di tutti.
Una fimil pigrizia in edi e tanto più fcufabile, quanto le apparenze medelìme
non son fallaci per sè, ma per sola mancanza di ridedìone, poda la quale, si
rendono elTe dede il reai delle cofe . £ oltre ciò i disordini che quindi
ne seguono, facendo ben todo accorti gl’uomini de’loro inganni dopo edervi
incorsi, fan si che se ne correggano, e conoscano quegl’errori che potean
prevenire, ma che non àn prevenuto, ciò che non è altro che condurli
idedamente dall’apparente al reale, benché proprio mal grado, a che
riguarda quel detto popolare che la necedità, o le angudie alle quali
li conducono gl’uomini da sè dedi, insegnan gran cose. Un’altra
verità dedotta dalle cose suddette è pur queda, che le dette cognizioni
reali, alle quali O z conducono l’apparenti, non son poi tanto fconoIbiute
ed ignote, nè da ^efte tanto diverse, quanto raflembrano, e eh’eifendo anzi
quelle inufitate nella pratica edema, nel sentimento e nella pratica interna, son
più note e paleft di quede. Lo che si comprova non sòlo per quella
coinpadione e quel ridicolo che s’è odervato cadere sì di frequente sulle
azioni e debolezze altrui \ ma per quella circofpezione ancora, e dudio d’ognuno
d’occultare le verità, o di presentarle e palliarle ad altri con colori
alterati, e talvolta MENTITI – GRICE MEAN MENTARE MENTIRE -- da quel che si
conoscono. Perciocché in ed'etto ciò non è, che tacere il reai delle cose
che più si sente e s’approva, per regolarci cogli altri pel1’apparente, che 11
lente e s’approva meno, amando meglio adulare e lufingare col facile che
illuminar col mdìcile, e infadidir sà dedi con tacer quel reale, più todo
che offendere o turbar altri con lor palefarlo. E ciò non ]xr altro che
per conciliare una pari condifeendenza d’altri verso di sè medefìmi, contenti
cosi gl’uomini con sì bel garbo, quasi d’ingannarfi a gara a chi fa far meglio,
e di convenzione comune. Essendo poi queda più o meno la pratica universale,
il reai delle cose non è dunque così arcano e incredibile, come è creduto,
ed è anzi più noto ed approvato dell’ apparente, ancorché fimulato quello, e
adombrato nelle azioni comuni ederae. E s’odervi, come queda simulazione delle
verità reali conofeiute in occulto, è poi altresì SMENTITA – GRICE MEAN MENTIRE
MENTARE SMENTIRE SMENTARE -- elfa deda io palele d’ognuno, allor eh’ei
dichiara ad alta voce, che le cognizioni umane son tutte incerte e fallaci, e
che gl’uomini son soggetti tutti a sbagli e a illusioni, alle quali espressioni
tutti fan eco ed applauso; ciò che propriamente é un vero accordarsi da
tutti che sebbene gl’uomini si regolino pell’apparente, per cui
s’ingannano, tengono nondimeno mi mente e in cuore un reale, per cui alla
line del conto, puc ad onta loro li disìngannano. Ed è cosa maravigliosa, come è
lecito ad ognuno di dichiarare impunemente e con lode che fian gl’uomini
in genere deboli, lufinghieri, e ad errore soggetti; e non ardisca poi
alcuno di far la ileda dichiarazione ad un altro, di quello stesso in ispecie, anzi
sia quella creduta cosa villana e indiscreta. L’ignoranza dunque delle verità
reali è polla non già nel non conoscerle, ma nel simularle ad altri pelle
apparenti j mercecchè d’altronde se tutti conoscono, le cognizioni umane elTer
generalmente fallaci, in quella conoscenza medesima additano molto bene,
le reali eHer loro pur note, e a qualche modo non son più nell’inganno, rollo
che conoscono d’eflTervi . Quindi si presenta f altra verità pur
avvertita, la qual è, che se gl’uomini prendono errore nel regolarsi per
cognizioni apparenti, senza badare se convengano o non convengano quelle colle
reali, il prendono molto maggiore, quando condotti perciò in un pelago di
contraddizioni e d’IMPLICANZE O IMPLICATURE, dal qual non fan come ufcirne,
e per ufcire dal quale son indi allretti a ingannarli, a tradirfi, a
combatterfi inlieme con quella serie di calamità, delle quali non cessano di
lagnarsi, si volgono a imputar tutto quello alla natura, o ai grande
autore di ella; quando C.Z//7.n.a» ò indubitato doverli tutto ciò ascrivere
aHa loro pigrizia, per cui non curano di proceder dall’apparente al reai delle
cose, e s’arredano alle prime im» S rdfioni degl’oggetti edemi a
loro favore, senza ba- are se con ciò ìiano giudi o ingiudi cogli altri.
E in vero che gl’uomini per certa inerzia e condifcendenza, prefertfcano d’adularfi
e d’accarezzarfi insieme con vide d’ambizione, di fado, e di altre verità
apparenti, in luogo d’iltuminarfi colle reali, temendo ancora per quede di
od'endere o conturbare i più inclinati a quelle; può ciò palfarfi, benché
con poco onore dell’umana ragione, purché ne’mali che O 3 con 'Òt ex con
ciò s’adunano intorno, si compatifeano e si difendan fra loro. Quello infatti è
ciò che avviene di via ordinaria, e ben fel vede ogni più faggio ed attento,
nel quale eccita ancor tenerezza il vedere come quelli poveri spenlìerati,
poiché son caduti per inavvertenza negl’inganni più vergognosi, fatti
indi accorti di quelli per li difordini che ne confeguono, accorrano
ad alfillerfi per ufeirne, a compatirli, e a prellarfi SOCCORSO GL’UNI AGL’ALTRI
– HELPFULNESS --, comprovando cosi a elTervi incorfi quasi di consenso
uniforme. Fin qui li mollrano elfi di un carattere timido e incauto,
ma buono almeno e sincero. Ma che poi vi fian di quelli, i quali degli
errori e de’mali che s’attirano sopra per loro pusillanimità e miseria di spirito,
accusino la natura, quando quella con ingenuo candore fuggerifee loro che
oltre all’apparente v’à negl’oggetti un reale, cui va quello riferito, al qual
fine oltre ai sensi, per cut apprender gl’oggetti, dà altresì un
intelletto, per cui confrontarli; quella non può negarsi che non sia la
cecità r e la llolidezza maggiore. PalTando poi al proposìto delle
lingue, la verità più considerabile avvertita di sopra in ordine ad elTe e
che quantunque sian quelle dellinate a rapprefentare ad altri, e a esprimere gl’oggetti
e le cognizioni per quelli apprese; non son però così atte a far quello,
come il sembrano a prima villa; e eh elTcndo anzi elTe imperfette per esprimer
le cognizioni reali, servono di fomento per dilatare e dar rifalto
al- (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a esclulìone delle reali medellme. Cib
avviene per mancanza d’analogia necessaria fra le cose e le parole – GRICE
ON GELLNER AND FOUCAULT -- per cui s’esprimono, e fra la diver-11 tà colla
quale s’apprendono e si combinano gl’oggetti, e quella colla quale si
proferifeono e si combinan le voci; come altresì fra le foggie, colle
quali cangiano quelli e quelle, che non àn connefilone o dipendenza
necessaria veruna l’une coll’altre. Quefta osservazione che pare nuova nell’enunciarla
non n trova tal nella pratica, se si ponga mente alle tante ^legazioni,
coment!, glose, e interpretazioni che {penb occorrono per i’ intelligenza degl’altrui
pensamcnti sui libri, o sulla lettera di efli, massiime se sì tratti di leggi,
di costumi, e d’azioni antiche cfprefie con lingue perdute. Le quali
interpretazioni fan conoscere che non solo i costumi diversi pallati non
àn relazione necessaria conosciuta veruna cogli (ieflTi presenti, ma che
le lingue pur morte diverse non 1’anno con una llefla pur viva, e ciò senza
dipendenza di ciascuna di quefle relazioni coll'altra; giacché per le
flelTi voci antiche si dedano diversi, e talor contrari concepimenti in
persone d’una lingua medefìma da quella diversa, alfiflellb tempo.
Quindi molto più apparisce l’incapacità delle lingue per dettar regole di
vita, che servano a tutti i tempi e i luoghi, ne’quali si cangiano e i costumi
e le lingue; e come elTendo le azioni, per quanto pajan connmili, ciascuna
diversa da tutte l’altre alio flelTo, e molto più a’tempi diversi, ciascuna
doveflb (j)C.F/. ».t. efigere quasi una legge diversa, o dettata diversamente,
essendo invero impossibile il comprenderle e regolarle tutte, colla fiefia esprefiìone
di voci. Certo è che nella pratica ancor più sensata una legge per esempio
che non può dettarli dai legislatore che su tutti i casi in afiratto non
avvenuti, dee sempre dal saggio giudice interpretarsi nell’applicarla ai
casi avvenuti particolari, cial'cun de’quali è noto diversificare da tutti gl’altri
per adiacenze, occasioni, circostanze e motivi che lo accompagnano; senza
di che quella legge si trova sempre al proposito o rigida o lenta, o
mancante o eccesiiva, o facile o severa. I britannici che pa|ono aver sempre
del singolare, col soggettarsi alla lettera materiale delle lor leggi più tolto
che al SENSO O SPIRITO d’esse, non si sono accorti che d’uomini
ragionevoli eh’ ei sono, si son contentati di confiderarsi come tanti automi,
da muoversì per quelle leggi come per molle, a guisa di figure in un
quadro movibile; operando cosi non pella ragione lor viva, ma per la morta
di alcuni loro vecchi parlamentari, non certamente d’efll più ragionevoli. Finalmente
dall’esser le lingue più atte a diffonder le cognizioni apparenti che a efpor
le reali, si conferma la verità prima suddetta che gl’uomini in generale
abbiano ad elTer più ricchi di quelle che di quelle cognizioni; giacché la
favella, per cui s’avanza 1’apparente, è infatti più comune della
riflelfione e della meditazione, per cui s’avanza il reale. Ciò che
conviene col detto ancor popolare che la verità e la virtù sincera Ila nell’azione e
non nella favella – a man of words and not of deeds is like a garden full of
weeds --, e che gl’uomini più millantatori e loquaci – come CICERONE -- Ibn
meno attivi degl’altri – COME MARCO ANTONIO --. Il giudicarli più virtuosì e
più saggi, perchè più parlano di virtù e di saviezza, ognun fa eh’è un
giudicio dubbio ed equivoco; e che quando ancora si verifica elTo della
virtù e faviezza apparente, della reale non potrà verificarli giammai. Del
rimanente io son certo che in proposito di quella mia solenne distinzione
d’apparente e di reale – BRADLEY APPEARANCE AND REALITY --, di che ò fatto qui
si grand’uso, alcuni avrebbero desiderato eh’io ravelli meglio specificata,
esemplificandola su soggetti particolari, e tnalTime su quei che
riguardano la comun fulTillenza e i comuni aflàri, e aflegnando in elfi
ciò che sia apparente e ciò che sia reale, o distinguendo 1’uno diair
altro. Quello non puo io qui fare, trattando d’oggetti, di costlumi, e di
cognizioni in genere. Trovo però d’averlo fatto in altro luogo, ove trattando
particolarmente dell'economia e del governo de’popoli, ò polle molte proposizioni
col titolo d’errori popolari, che sono tante verità apparenti alle quali
ne ò contrappollo altrettante col titolo di ^JJiomi, che non sono
che veri- '-Secxiii ^ errori contrarie delle quali proposizioni un saggio
fa ancor veduto da alcuni. Lo lleflo potrà farsi d’ognuno in qualsìvoglia
altro particolare soggetto che se gli presenti alla mente j o eh’ ei
prenda in consìderazìone, fui quale procedendo col metodo col quale io son
proceduto in quello, allora dovrà sempre temere di giudicare per 1’apparente,
quando flando alle prime impressioni de’ (enfi, badi al particolare di sè
fteflo o d’alcuni, trafeurando il rimanente degl’altri; e allora potrà
a(^ sicurarsi di giudicare realmente, quando badando al particolar
di sè (le(To o d’alcuni, abbia altresì riguardo al comune di tutti, a somiglianza
di giuda e imparziale natura. Que(ia amica di tutti, non tien nelTuni
nemici, e non opera mai per uno, che con relazione all’univerfale degl’uomini
e di se def- (a ; e il medesimo dee fare chiunque penfi imitarla. I
N- /^Ggetti apprenGbili origini della fiTelIa. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library. Ortes.
Luigi Speranza --
Grice ed Ostiliano: la ragione converazionale e il portico romano -- la
filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower
of the Portico. His claim to fame is that Vespasiano (si veda) banishes him
from Rome. Ostilliano.
Luigi Speranza -- Grice ed Otranto: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola d’Otranto -- filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto
wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as
when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written
‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse
la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue
competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete
al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani.
E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”,
con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi
liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro i
Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O.
Abt von Casole. Beiträge zur
Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich
II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata
Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine
convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola
Nettario d’Otranto. Otranto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool
Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ottaviano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il principato
d’Ottaviano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Il primo principe. Historia
augusta, scritta d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The
education of a prince. O. lascia alla
sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti.
Svetonio in particolare racconta che una volta morto, lascia tre rotoli, che
contenevano: il primo, disposizioni per il suo funerale, il secondo, un
riassunto delle opere, da incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti
al suo mausoleo, il terzo: la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto
le armi e dove erano dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle
casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato
da un'iscrizione in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla
città di Roma e ad O., situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della
Turchia -- e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie,
molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti
dei templi a lui dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza
concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli
erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da
lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale
allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni
dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il
documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro
della sua famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio
Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e
totus politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue
memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le
sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista
e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato.
Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in
un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani
frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il
fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie -
credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di
Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa
consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il
quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una
gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in
essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e
storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che
stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O.
diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in
concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale
prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con
l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione
superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico
astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga.
La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in
ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente
all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino
all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse
già allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO
Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente
vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come
premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità
dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade
quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria
indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro
sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare
chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana
delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta
(Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un
figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un
capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore.
Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali
viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la
certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più
disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel
perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione,
dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace
non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario,
congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da
qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se
Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae
ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare
ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico
accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per O.,
alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò,
quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e
monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e
sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi,
non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce
in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero
e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte,
oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato
intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca
dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui
Druso. Per Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra,
sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun --
e del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo
di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare
anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare
accettare questa verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la
successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro
grandezza e, insieme, la loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo
capitolo del primo libro delle Res memorandae, racconta d’essergli
avvenuto, ancora giovinetto, di leggere un libriccino contenente gli epigrammi
e le lettere agli amici dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum
facetissima gravitate et luculentissima brevitate adorno di forbita
dignità di stile e di eloquente brevità; un volumetto quasi intonso
e mezzo divorato dalle tarme, che andò per- duto, e che, per quanto
disperatamente cercasse, Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti
dubitano della veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto,
giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men- tire la notizia, e
da nessun’altra fonte che dalla diretta lettura avrebbe egli potuto
derivare un giudizio così vero e preciso sulle doti stilistiche degli
scritti di Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti che
a rivelare al mondo la grandezza di Cesare Augusto scrittore sia stato il
primo umanista d’Italia, e che a nessun altro sia riuscito meglio che a
lui di definire, in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello
stile del figlio adottivo di Giulio Cesare. Molti secoli
passarono prima che si ponesse di nuovo mente ad Augusto scrittore, e
solo quando fu ritrovata l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si
diedero a raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a riprodurli
più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando meticolosamente il
benchè minimo frammento. Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici
e filologi discutono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi
d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro documenti che O. consegna,
insieme col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte
fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i
funerali, il resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione
militare e finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come
reggere e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il
secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio,
obbedendo alla volontà di Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due
pilastri collocati innanzi al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella
parte setten- trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Flaminia;
bensì nella copia che fu incisa nella pietra dell’Augusteo di Ancyra,
capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara, capitale della
nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res gestae
Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato dall’Imperatore e
nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio, perchè le parole
di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle popolazioni
orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum ancyranum,
da venti anni a questa parte riprodotta in un testo sempre meglio
corretto, essendo stata rinvenuta un’altra copia dell’originale latino nella
colonia imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto
innanzi, i dotti discutono ancora sul significato del documento, nel
quale Augusto volle rendere pubblica ragione delle cariche ricoperte, dei
donativi elargiti e delle imprese operate. E, purtroppo, anche in
questo caso, taluni critici, per cercare di scoprire i diversi
momenti della redazione dello scritto, hanno affermato che il piano
generale dell’opera è disorganico e disordinato, che molte sono le incoerenze
di alcune parti, e che però Cesare Augusto ha redatto il documento
ampliandone uno precedente, più modesto e meglio ordinato. Insomma... una
quistione omerica, che, a parer nostro, è facilissimo distruggere nelle
sue false ed ingannevoli argomentazioni con poche parole. Il documento di
Augusto non è un bilancio, non è un testamento politico, non è
un'iscrizione del tipo degli elogia; ma è rendiconto, testamento ed
elogium, perchè Augusto l’ha redatto quando si appressava il giorno
della morte. Per ciò stesso non rientra in nessun genere. La solennità
del latino del documento augusteo non è soltanto nello stile, ma è nei
fatti che vi sono esposti, e soprattutto è nel fatto che al Senato e al
Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre della Patria,
Augusto, e non per esaltare la sua propria opera, ma per proclamare che
essa rimarrà in eterno legata alla fedele collaborazione del Senato e del
Popolo di Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere
tutto ciò che dovesse dire, che scriveva perfino quello d’importante che
dovesse dire a sua moglie Livia; e che si era assuefatto a scrivere
meticolosamente i suoi discorsi al punto che, quando la troppo
cagionevole gola gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg-
geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis voce ad populum
contionatus est. Perciò io dico che anche questo documento è un discorso
al Popolo di Roma: l’ultimo discorso nel quale il Padre della Patria,
Cesare Augusto, rende conto dell’opera sua. E le prove della
mia affermazione sono la presunta incoerenza e il presunto disordine
scoperti e biasimati dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli
quei critici i quali cercano di dimostrare in « sede scientifica »
che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti capitoli di un libro dei
commentarii della guerra gallica (e sono, purtroppo, Italiani); o questi
altri (e fortunatamente non sono Italiani) che scoprono in Augusto un
errore di cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro, O.
avrebbe commesso l’errore di menzionare alla fine del documento i due
maggiori titoli del Pater Patriæ e di Augustus conferitigli dal Senato e
dal popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che nel
trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo, Augusto avrebbe dovuto
ricordarli, a giudizio di cotesti critici, molto prima: chè insomma
avrebbe dovuto fare opera di storico mediocre e dimenticare di
essere Cesare Augusto. Leggete il documento. Esso comincia: annos undeviginti
natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem
rem publicam a dominatione fac- tionis oppressam in libertatem vindicavi:
« all’età di diciannove anni, di mia iniziativa e con danaro mio
apparecchiai un esercito, e con esso restituii libertà allo Stato
oppresso dalla prepotenza di una fazione. E si chiude così. Tra il sesto
e il settimo consolato mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed
assunto, per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo
potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato e Popolo
romano il governo della cosa pubblica. Per questa mia benemerenza, mi fu
conferito, con decreto del Senato e Popolo romano, il titolo di
Augustus... Durante il tredicesimo mio consolato, il Senato,
l’ordine equestre e il Popolo romano mi acclamarono Padre della
Patria, e decretarono che questo titolo dovesse essere iscritto nel
vestibolo della mia casa e nella curia Giulia, sotto la quadriga che per
decreto del Senato fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo
documento, avevo settantasei anni. Comincia: annos undeviginti natus; finisce:
annum agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo questa chiara
e significativa corrispondenza tra l’inizio e la chiusa del documento,
nella quale sono compresi i cinquantasette anni della vita politica di
Cesare Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime orgoglio il
primo cittadino della Roma imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla
plebe romana, di tutti i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia
ricordare alle generazioni avvenire il nome di Augustus e il titolo
di Pater Patriæ? O. era infermo, la morte si appressava non temuta, ma
serenamente attesa, chè infatti morì di bella morte. Egli parla per
l’ultima volta al Senato e Popolo di Roma, come un cittadino, che,
amministrata la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al
successore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba, il
benservito. C’è in questo documento un crescendo di tono, che verso la
fine raggiunge il maestoso: dal venticinquesimo paragrafo in poi esso si
fa solenne come litania: mare pacavi a praedonibus; omnium
provinciarum populi romani fines auxi; Ægyptum imperio populi romani
adieci; colonias deduxi; signa militaria reciperavi; Pannoniorum gentes
imperio populi romani subieci; ad me ex India regum legationes saepe
missae sunt; ad me supplices confugerunt reges; a me gentes Parthorum et
Medorum reges habuerunt; e finalmente i due ultimi paragrafi
sopratradotti. Sui mari ha debellato i pirati, ha allargato i territori
di tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova provincia
di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni colonie di Roma, ha
recuperato bandiere e vessilli: a lui hanno fatto ricorso in atto di
supplica i re di tante nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i
re che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo si chiude
il rendiconto delle imprese operate da Cesare Augusto; nel
trentaquattresimo e nel trentacinquesimo paragrafo risuona il ricordo del
nome di Augustus e del titolo di Pater Patriæ. Al Senato e Popolo
romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire
Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena giornata si
chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo. ws
Cesare Augusto affida il manoscritto alle vergini Vestali perchè
fosse consegnato dopo la sua morte al Senato e inciso sul bronzo. Il
successore Tiberio fece riprodurre il testo com’era, con una brevissima
appen- dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe-
rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale modificazione. Dunque,
noi possediamo un’opera intera di Augusto, la quale ci rivela la sua
grande personalità di scrittore. Il latino d’O. non è QUELLO DI
GIULIO CESARE. O. scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si può dire che in
questo scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commentari. Non
giudica, NON AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente e
senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici
pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite all’erario e alla
plebs, delle genti soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre
conquistate, delle leggi promulgate, spira il calore dell’epopea e della
leggenda. La sua opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di
ripen- sare ai primi quattro versi della prima epistola del secondo
libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti un po’ di tempo con
una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro l’interesse dello
Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia
difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi
la emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche là dove
sono riassunte in brevissime parole imprese che durarono anni. Colonie
militari ho inviato in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due
Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in
Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte per ordine mio, le
quali, per tutto il tempo ch'io vissi, sono state assai popolose e
prosperose. Leggendarie appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai
generali suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista in
conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda
sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse
poni “bi ski audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse
l’Oceano dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad
Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano prima di allora
era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto
enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono sempre
esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il
Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione
delle parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in
questo periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum
senatus consulto inclusum est in saltare carmen, et sacrosanctus in
perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per
legem sanctum est. Il mio nome per decreto del Senato fu compreso
nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo, ed a
vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito. Non fa mai
il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che
assassinarono il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos
in exilium expulsi iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea
bellum inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-
sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con procedimento
legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi portaron guerra allo
Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua, pacato e
grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in
tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore risparmiai tutti i
cittadini che dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu
possibile, senza pericolo, perdonare, preferii conservarle anzi che
distruggerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit- tadini
romani militarono. Di essi più che trecentomila mandai nelle colonie o
feci ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto gli anni di
servizio, e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa
del servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo
numero quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. Entrai in Roma
ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato
imperator, sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi,
ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e
così sciolsi il voto che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le
imprese felicemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici
operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque volte decretò che
si rendessero grazie agli dèi immortali. Ottocentonovanta furono i giorni nei
quali, per decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove
re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi al mio cocchio.
Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la sua opera di
legislatore: « Con leggi nuove da me promulgate richiamai in vigore le
consuetudini antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra
generazione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di
molte cose, degni d’essere imitati. Sentitelo quando ricorda gli onori
che il Senato e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi,
e leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre per
l’immatura morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano e affettuoso
compiacimento suo nel ricordare che appena quindicenni essi furono
acclamati principi della gioventù romana e designati consoli. I due figli
miei, che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e Lucio Cesare,
il Senato e Popolo romano per farmi onore li designò consoli appena
quindicenni, che entrassero in carica dopo cinque anni. E il Senato
decretò che dal giorno della loro presentazione nel Foro partecipassero ai
pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li acclamarono principi
della gioventù, e offrirono in dono scudi e lancie di argento ». E,
infine, ascoltatelo quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima
guerra civile. Mi giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spontaneamente, e
mi volle condottiero della guerra nella quale vinsi ad Azio. Mi giurarono
fedeltà anche le provincie delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di
Sicilia, di Sardegna. O. è filosofo accortissimo, che aborre da
ogni lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel giuoco delle
congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a far leggiero o
grave il tono della voce, più lento o più celere, ma non mai concitato il
movimento della frase. Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in
cui le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono più
solenne l’immagine del mondo romano stretto nel giuramento intorno al suo
Duce; eccone, invece, un altro di polisindeto, là dove O. ricorda
l’iscrizione dello scudo d’oro offertogli dal Senato. Il testo originale
dell’iscrizione era il seguente. Il Senato e Popolo di Roma offre ad O. questo
scudo per il suo valore clemenza giustizia pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET
PIETATIS CAVSA – e, naturalmente, VIRTVS sta a significare l’opera del
condottiero d’eserciti, e PIETAS il profondo ossequio alle
istituzioni religiose. Ma O. riunisce più efficacemente in due
endiadi le quattro virtù, essendo le due prime proprie dell’opera sua di
condottiero, le altre due del magistrato civile e supremo amministratore
dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS CAUSA. Perciò io dico che
è molto difficile tradurre bene i paragrafi delle res gestae d’O. A
questa grande iscrizione, che Mommsen chiama la regina delle iscrizioni
latine, è mancato chi la traducesse nella lingua del principe, perchè è
stata rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe potuto
tradurla solo Tommaseo, ma non l’ha fatto perchè non la conosce. TOMMASEO
traduce solo le sette parole che son citate da SVETONIO nella vita d’O,
ed io le ho ripetute nella mia traduzione copiandole dal Dizionario
d’estetica, e le ripeto di nuovo con accanto il latino d’O. BIS OVANS
TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS TRIVMPHOS. O entra in Roma ovante, due
volte: tre volte ha trionfi solenni. Solo la collocazione delle
parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento nella scelta dei
vocaboli e dei sinonimi potrebbero soddisfare il desiderio nostro di una
traduzione italiana che riproduce gl’effetti del latino d’O. O. e filosofo elegante
e temperato. SVETONIO riferisce che egli filosofa su molte cose, alcune
delle quali legge NELLA CONVERSAZIONE DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un uditorio
come le risposte a BRUTO (si veda) intorno a CATONE (si veda), che essendosi
messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, finalmente stanco dovè farne
terminare a Tiberio la lettura; l’esortazioni alla filosofia, ed alcune
notizie della sua vita che espose giungendo fino alla guerra
cantabrica e non più in là. Compone anche qualche verso. Rimane, al tempo
di Svetonio, un volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di
Epigrammi, i quali egli e andato COMPONENDO DURANTE IL BAGNO. Anche incomincia con grande alacrità una
tragedia, ma non essendo contento della forma la distrusce, e agl’amici
che un giorno gli dimandano che fa di bello il suo Aiace, risponde che il
suo Aiace s’e buttato non sulla spada, ma in una spugna. Spregia di
fare uso di vocaboli dotti e difficili o com’egli stesso li define
reconditorum verborum fetoribus. Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti,
ciascuno vizioso nel suo genere, e talvolta li mette in derisione e sopra
ogni altro il suo MECENATE (si veda) di cui continuamente riprende i riccioli
stillanti unguento, come li chiama. Non la perdona neppure a
Tiberio che anda a caccia di parole stantie, e da del matto a Marc’ANTONIO
(si veda), come colui che FILOSOFA PIÙ PER FARSI AMMIRARE CHE PER FARSI
INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei quali leggesi in CICERONE menzione
entusiastica, sappiamo che O. si preoccupa di riuscire eloquente senza
mai ricorrere alla verbosità e pesante sentenziosità dell’allora
decadente oratoria. In una lettera ad Agrippina, lodando l’ingegno di
lei, l’ammonisce che si studi di non CONVERSARE in modo
disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì che tutti potessero
capire, preferiva una sintassi limpida ad una sintassi più armoniosa e serrata,
e adopera le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città, facendo cosa
che un diligente maestro dei nostri tempi sottolinea con frego azzurro
nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi
particolari della grammatica e sintassi d’O, e che ha modo di consultarne
gl’autografi, ricorda anche che O non divide mai le parole in fine di
riga per terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto
chiudendole con una linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato
a scrivere per CONVERSARE, e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se
dobbiamo credere agl’antichi, d’O. restano famose le lettere. Raccolte per
tempo in più volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costituirono
mai un vero e proprio corpus, ma andarono a poco a poco disperse. Esse
non hanno la buona e cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro
di testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia. Restano
però i giudizi degl’antichi e alcuni frammenti degni d’essere ricordati. O.
discorre alla buona, familiarmente, sia che filosofa di affari politici,
sia che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecita VIRGILIO (si veda)
che gli mandas almeno l’abbozzo dei primi versi dell’Eneide; scherza con
ORAZIO (si veda) rimproverandolo che non conversa mai di lui, e
chiedendogli se per caso non crede di rimanere infamato presso i
posteri, qualora dai saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico
MECENATE (si veda) un giorno scrive che essendo infermo e tuttavia
indaffarato in più cose, chiama e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo
richiama cioè dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua
mensa di pontefice massimo. VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM
ET NOS IN EPISTVLIS SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una
lettera che si chiude con questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di
Medullia, città etrusca, avorio d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla
tiberina, smeraldo dei Cilnii, diaspro degl’Iguvini, berillo di Porsenna,
carbonchio d’Adria, e, per dirle tutte in una parola, céccolo delle
meretrici. Suo nipote Gaio Cesare e da lui chiamato in segno di affetto,
asellus tucundissimus; e al figliastro Tiberio egli scrive lettere gonfie
di tenerezza e confidenza, raccontandogli come avesse passato il giorno,
quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti
dalla cagionevole salute, e d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al
palazzo, un’oncia di pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio,
il quale milita lontano con gl’eserciti, scrive di essere smagrito
per le continue fatiche della campagna, ei lo supplica di riguardarsi,
chè, alle cattive notizie della sua salute, et ego et mater tua (Livia),
expiremus et summa imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia
Giulia vuole un gran bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia
assai l’animo suo. Sole dire di aver DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME,
la RES PVBLICA E GIULIA. E molto spesso nelle lettere, come riferisce il
vecchio PLINIO, recrimina penosamente la dissolutezza di lei. Umano
egli e sempre e ricco di sentimento. Qualunque cosa scrive, politica o
familiare, alieno da ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad
accogliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non scrive die
quinto ma diequinte, chè così comunemente dicevasi. E per esprimere la celerità
di un avvenimento, dice ch’esso e accaduto più prestamente che non cuoce
uno sparagio, celerius quam asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera
baceolus che corrisponde al nostro baggeo. E per dire che sta male
in salute dice vapide se habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero
la sola iscrizione delle res gestæ in latino, e alcuni decreti ed
editti in greco, non tradotti da lui direttamente, ma certo da lui
corretti e controllati. Svetonio racconta che O., sebbene conoscesse il
greco e sempre lo legge e studia, tuttavia non si prova mai a scriverlo,
chè teme di non conoscerlo abbastanza. Studia con retori greci, i quali gli
appresero cose di larga erudizione. Ma scrittore, come ci appare nel
lapidario latino della iscrizione delle res gestæ, egli s'e formato
sull’esempio di Cesare, nell’azione ed esperienza militare e politica di
tutti i giorni. Aveva innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia,
ma la loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE NEL NON FAR
MOSTRA D’ELOQUENZA: PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM ABSCONDERE -- che è
poi la grande virtù della parola destinata a commuovere i popoli e
a guidarli alla vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono coi
versi di VIRGILIO. Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e che
resusciterà nel Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava
Saturno, l’età del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan
e all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile
Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro dei cieli. Lo avevano
veduto entrare tre volte in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi
d’Italia l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di
trecento templi, e fra l’applauso della folla e i canti delle vergini e
delle matrone, mentre sugli altari fumanti cadevano immolati migliaia di
tori, l'avevano ammirato, sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio
di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli sottomessi per
abbellire le magnifiche colonne del superbo porticato. L’immagine
virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di Augusto si è trasmessa,
di generazione in generazione, come l’immagine della pace
romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla
volontà pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione
politica e ideale di civiltà: riformatore della costituzione, difensore
del territorio, organizzatore dell’amministrazione e della società,
Cesare Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Impero e il diritto
fondamentale dello Stato. I simboli del suo destino, l'adozione di
Cesare, la battaglia di Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel
tramonto di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale; più
chiaramente ancora l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator
Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un solo
destino l’eroe creatore e la volontà implacabil- mente lucida del
fondatore dell’Impero. Religiosa eredità fu quella di Cesare: e
infatti duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli ordina-
menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto del divus Iulius
e diventato il culto dello Stato, garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma
rafforzando e difendendo la Romanità così che niente mai potesse
distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente l’antitesi tra
l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva drammaticamente vissuta negli
ultimi anni della vita sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e
tragica, nella lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco Antonio. È
però costruendo in Occidente la Roma imperiale sognata e creata da Cesare,
Augusto che aveva da Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla
grandezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo la civiltà
europea. Insieme con GIULIO (si veda) Cesare, O. è il simbolo della
dignità imperiale, e il nome suo di imperator cæsar avgvstvs
consacra l’identificazione dell’impero con l’occidente. Il titolo di ‘cesare’
da il diritto di successione al trono; quello di ‘augusto’ concede la
dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente inaugurato d’Adriano
e poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore dell’impero e
Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far sopravvivere l’opera e
la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di Cesare fa
il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di conseguenze
per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare proclama suo
erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una
battaglia, mentre fa tagliare un bosco per costruirvi il campo delle
legioni, ordina si risparmiasse una palma come augurio di vittoria, e
quella sùbito gitta polloni alti e fiorenti. All’albo della Rinascenza, quando
si inaugura la ricerca storica e si annunzia fecondo di civiltà il quasi
voluttuoso amore del passato, e la romanità risorge nella cultura e
nell’arte nutrite dalla possente vita dei sensi, allora i due nomi
di cesare e di augusto tornano ad essere creatori della religione
dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo celebra ed esalta
l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che gl’italiani ne
trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone
straniero spoglia e insozza le loro terre. E da quel grido di amore
per l’antica grandezza romana nasce un appassionato libro del
Risorgimento, sul primato della nostra gente e sulla universale missione
d’Italia. |Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui monumenti
che sono rimasti segni tangibili della sua presenza, a testimonio della
grandezza d’O. Ed O. apparve garante del miracoloso destino d’Italia,
come nella formula dell’impero che saluta l’imperatore con l’augurio che
fosse più fortunato di Augusto: felicior augusto. E si divulga la
fama che nel mausoleo comunemente noto col nome di Austa sorge circondata
dalle tombe un’abside, ed O. e i sacerdoti suoi vi celebrassero
sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del
mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa divenne una
fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, ed e strascinato
allo campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e là e bruciato
in un fuoco di cardi secchi, in quegl’aanni che
Petrarca scopre e vaticina nella grandezza di Roma imperiale l’ideale
politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e
l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha costruita presso il
Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nasce, più
suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto la torre e un
palazzo incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe dal
sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni, quando Roma e
pronta a reggere e guidare per la seconda o terza volta le sorti del
mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta. Ottaviano. Luigi Speranza, “La
ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,” pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Ottaviano.
Luigi Speranza -- Grice ed Ottaviano: all’isola -- la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo – la
scuola di Modica – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica).
Filosofo siciliano.
Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “Perhaps with Holllinghurst,
and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have cherished in the
analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a debate which should
fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano.
Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la
cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e
diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande
conoscitore della filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e
studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, da
spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima
Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum,
scoperto da Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e
diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ha
seguito. Saggi principali: PAbelardo. La vita, le opere, il pensiero,
Poliglotta, Roma; Il Tractatus super quatuor evangelia, di Fiore, Archivio di
filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA
(si veda), Abelardo, Incertus auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber
contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da FIORE (si veda)), Reale Accademia
d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di
Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli); Pier LOMBARDO (si veda), in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino; Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli; Metafisica
dell'essere parziale, MILANI, Padova; “La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova; Campailla.
Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia,
introduzione e note Orsi, MILANI, Padova; Scarcella, Dizionario Biografico degli
Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”,
Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia, Catania,. E. Scarcella, Dizionario
Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Pace, Info Magazine. Grice: “I love
Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy.
More specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy,
which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile –
he corresponded extensively with him! La
visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro
sul Prepositino, Rivista di filosofia neoscolastica, Traduzione, prefazione e
note di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba,
Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo,
Signorelli, Roma. Ricerche lulliane, Estudis universitaris catalans; Abelardo.
La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Lullo,
Rivista di cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la
bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in
francese: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le
Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin. Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero,
Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A proposito di un libro su AOSTA (si
veda), in Rivista di filosofia neoscolastica. I problemi del realismo, Giornale
critico della filosofia italiana; Le Quaestiones super libro Praedicamentorum” di
Faversham, R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di
AQUINO (si veda), Saggio contro la dottrina dell’unità dell’intelletto,
Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio
sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione, traduzione e note
critiche d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani, Rivista di cultura,
Prof. P, Loescher, Roma. Il Tractatus super quatuor evangelia di FIORE (si
veda), iArchivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti del
problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della
nozione di individuo, Archivio di filosofia. Il pensiero e il suo atto,
Archivio di filosofia. La riforma della logica di Aristotele, Archivio di
filosofia. Nota polemica, Rivista di cultura. Le opere di Faversham e la sua
posizione nel problema degl’universali, Archivio di filosofia. Traduzione,
curatela e note di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito ad AQUINO (si veda), cur. di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione,
traduzione, prefazione e note di AOSTA (si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia
del pensiero medioevale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi
medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Pietro
Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la
vita, le opere, il pensiero, Lincei, Traduzione, prefazione e note di FIDANZA
(si veda), Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di
O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il
pensiero di Orestano, Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in Varisco,
Archivio di filosofia, Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario
completo. Contributo agli studi sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it.
e note critiche d’O., Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum.
La Scuola di Gioacchino da FIORE, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Studi e
documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un
manoscritto romano, Estudis franciscans, Un documento intorno alla condanna di FIORE
(si veda), Rondinella, Napoli, Siculorum Gymnasium, Catania). Storia,
filosofia della storia, scienza della storia, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Un brano inedito della Philosophia di Conches, Morano, Napoli. Il
cosiddetto riferimento necessario alla coscienza nell'idealismo, Atti del Congresso
di Filosofia, Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova. LOMBARDO (si
veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la
Illustrazione del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani,
Padova, Traduzione, prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e
La regola del Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba,
Lanciano. L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, La scuola attualista ed Eriugena, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Curatela di: CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno
(Fisiologia italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle
edizioni latine, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Roma, Kritik des
Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen:
Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI,
Padova. L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI,
Padova. Scritti con giudizi della critica italiana, Tipografia agostiniana,
Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il problema morale come fondamento
del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo trascendentale e la
metafisica classica, Rivista di Filosofia Neoscolastica; La soluzione
scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze della
scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la
Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla
democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI,
Padova, Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI,
Padova. Presentazione di Sepinski, Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda),
presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del
reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI,
Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà
per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti,
ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica
e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge
della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La
Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La
Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO.
Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti.
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI, Padova. Sophia: fonti e studi di
storia della filosofia, Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in:
rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in:
rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore
variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni dei saggi più
significativi da O. per Sophia: Le rationes necessariae in AOSTA (si
veda), in Questioni e testi medievali, Sophia, Novità abelardiane, in Questioni
e testi medievali, Sophia; Storicismo attualista, Sophia, Storicismo attualista,
seconda puntata, Sophia; Controversie medievali. A proposito della paternità
tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de universibus, e della data del De
unitate intellectus, Sophia», Intorno al Congresso di Filosofia di Padova,
Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia, Critica del principio di
immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I grandi idealisti, Sophia.
L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni idealistiche, Sophia. La
fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa del principio di
immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo, Sophia». Idealisti
per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo, in Sophia; Fanatismo
idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Nuova illustrazione del
documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla, Sophia; Intorno
all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a Chiocchetti: “A proposito
dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno, Sophia; Intorno alla critica
all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione della filosofia, Sophia; La
teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, Sophia; La natura della
sensazione e la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori
in occasione della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato
della relatività galileiana nel movimento,
Sophia. Natura pura e soprannaturale, Sophia. I fondamenti logici della
relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno
al significato storico dell'idealismo italiano, Sophia; Intorno alla legge di
conservazione dell'energia, ossia del materialismo, Sophia, Intuizionismo e
logicismo in matematica, Sophia, Intorno alla gratuità dell'ordine
soprannaturale, Sophia; Postilla a Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo
logico, Sophia; Valutazione critica del pensiero di Croce. L'estetica, Sophia,
Valutazione critica del pensiero di Croce; Lo storicismo assoluto, Sophia,
Bilancio di Croce, Sophi. Einstein filosofo, Sophia, Giudizio intorno alla
Logistica, Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla l'idolo
einsteiniano, Sophia, Il“compagno Scioccherellov, ossia la tragicommedia del
comunismo, Sophia, Mi intrattengo ancora con il compagno Scioccherellov,
Sophia, “Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia
come idea-forza, Sophia, Giudizio su Croce come uomo politico, Sophia. L'assalto
alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del
tesoro della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia l'anti-stato
contro lo stato, Sophia, L'ordine della scuola italiana”, Sophia, In difesa
dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come integrare
la dottrina relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia del Novecento,
Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario,
Prometheus, Milano. A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del
tragico nell'opera di O., cur.
Ghisalberti e Rando, Prometheus, Milano Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.: una rivista a
tutto campo, in La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, cur. Giovanni,
Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di
tromba, Critica, Orsi, Il filosofo della
quarta età: ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra Socrate e Gesù, Sicilia”,
Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica d’O., Archivium
Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una
vita filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e
alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI,
Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato
del Progresso e postulato del Peccato, Mulino, Bologna, Noce, Gentile, Mulino,
Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci
dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta Ferro, L'anti-moderno di O., Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu,
La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier,
Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, Rivista
di Filosofia Neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano. P. Mazzarella, Il
contributo di O. agli studi di filosofia medievale, Sophia, Mazzarella, Tra
finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O.,
Tradizione, Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico
italiano: il confronto tra Preti e O., Protagora, Aspetti e problemi della
filosofia italiana contemporanea, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario
Biografico degl’Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca,
Di una recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche»,
Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice ed Ovidio: la ragione conversazionale e l’implicatura
convrsazionale – Roma – la scuola di Sulmona -- filosofia abruzzese --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona).
Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo. Publio Ovidio Nasone. Muore a
Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da
Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo
della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di Crotona deriva in larga
misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora -- di cui si dice che si
innalza sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura
nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla
natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle
carni animali, giustificando questa proibizione con la teoria della
metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che
anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece
influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.), in
complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a
Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader of Ovid's
Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way through the
labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes in some ways
a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks this formal
boundary, Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis. Troy is
founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman matter, settings, and
themes occupy ever more of our attention as the thing approaches its end. Ovid
includes some of the same tales that he had used in his less successful (less
read, not even the emperor read it!) in
the Fasti, his “most Roman work” in terms of its proclaimed matter: the very
Roman calendar – “tempora cum causis Latium digesta per annum.” – And the
Romans always found a cause to celebrate! As we read of Hippolytus deified as
Virbius, or encounter the list of Alban kings, the last pentad of the
Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more imperial readership the
“Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of of the Metamorphoses is
fully continuous with the first part, simultaneously a fresh start and a
seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is a development of
long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects signal the work's conclusion,
wherein the large-scale historical progression promised in the work's opening
lines will be fulfilled: having set out "from the first beginnings of the
world," primaque ab origine mundi Ovid's narrative will now reach "my
own times," mea tempora the present for both author and readers. Thus, if
we, after reading of so many nymphs and maidens transformed into trees or
waterfowl, are surprised to find Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's
development and fulfillment of narrative patterns also remind us that from the
start we had reason to expect such figures to appear. His vast work of
transformative myth embraces even them. Whereas Rome contribute something new
to the last pentad of the Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid
has made throughly familiar. Already at the start, the council of the gods,
called by Jupiter to discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of
heaven's architecture and social distinctions, with mention of “atria nobelium,”
“plebs,” and the like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to
the “palatia Caeli,” Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of
Ottaviano, whose casino stood on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter,
Ovid explicitly addresses Ottaviano in a context that links Lycaon's
assassination attempt on Jupiter to contemporary attempts on Ottaviano’s life.
Both crises cause astonishment throughout the world. “Nec tibi grata minus
pretas, Auguste, tuorum est, quam fuit illa loui.” Thus, in returning to
current events Ovid recalls to our minds their heralded arrival near the
beginning. Also familiar is the narrative use Ovid makes of the Roman matter.
Rome functions largely as a frame for other tales, which are often only
tenuously related to the newly-prominent national theme – or rather the theme
of the history of the nation. We are well aware, when we arrive at this point,
that traditionally important and familiar cycles of myth, such as those
concerning Theseus and Hercules function mainly as framing devices that connect
tales. Many of these are only tangentially related to the framing narrative, or
are even altogether remote from it. No sooner does Ovid introduce Troy than he
begins to employ it in this now-familiar narrative mode. The traditional story
appears to establish a structural pattern for the progress of the narrative,
but it is soon displaced, as tales succeed tales. Troy may be familiar ground,
but its familiarity does not enable us to predict our convoluted path through
Ovid's work with any confidence. Who could guess, when Laomedon founds Troy, that
Ceyx and Alcyone would occupy much of our attention? As we read their tragic
tale, we may observe thematic links to other tales in the Metamorphoses, as in
the personification of Somnus, which formally recalls those of Inuidia and of
Fames. Yet the topic of Troy has disappeared, at least for now, from view. So
has the new historical emphasis. For the tale of Ceyx and Aleyone is as
mythical, as fabulous, as anything in the preceding material. Indirection and
unpredictability remain characteristic of the narrative even as Ovid draws
Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical themes
to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters them. An
especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his last and
most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and Aleyone, Ovid
abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts the sacrifice
of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But before proceeding
with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive passage on Fama,
beginning with these lines: “orbe locus medio est inter terrasque fretumque
caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod est usquam, quamuis
regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis ad aures. Fama tenet
summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at the middle of the
world, between land, sea, and the heavenly region, at the boundary of the
threefold universe. From here one can see anything anywhere, however distant
its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor holds it, and
selected its topmost summit for her house. This is the last and the most
ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications in the
Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid achieves a
rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive
language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description.
The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a
way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at
the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be
called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats
such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et
nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti,
tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque
silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a
thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night
and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and
repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and
out of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue
uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum
confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a
light crowd; lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and
the confused words of rumor roll about. Only when this expansive description is
finished do we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek
expedition have reached Troy. This house of Fama and her attendant rumors,
"lies mixed with truth," creates a remarkable preface to the
beginning of the Trojan War, inviting us readers to consider it as an
interpretive comment on all that follows. Feeney connects the passage to themes
of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic
predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at
issue in the later books of the Metamorphoses, where extensively adapted
sometimes severely distorted-versions of their tales are woven into a new
fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the
battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad: but Homer's
version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its context, Ovid's
a vast expansion that engulfs its context, displacing the Trojan War in our
attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of Ovid's poem, from
Book 12 to the end, not only because of the formal introductory description of
the house of Fama, but also because of the increasing role of internal
narration in the later books: as the poem proceeds, the epic narrator recedes,
and more and more tales are reported by an internal narrator to an internal
audience. Fama also forms a boundary, prominently recurring at the very end of
the Metamor-phoses, where fama provides the means of the poet's continued
sur-vival: perque omnia saecula fama,/ siquid habent veri uatum praesagia,
winam. The recurring presence of Fama serves as a reminder of the fundamental
lack of definition and stability characteristic of narrative style throughout
the work. Flux remains Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol
and an embodiment of flux within the narrative. Fama resists the tendency
toward interpretive simplicity and transparency that the introduction of
historical and political topics might lead us to expect. As we proceed through
the last pen-tad, historical and historico-political modes of understanding
events, however pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux
to order. Fate, for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and
Roman historians, whose workings they trace in the unfolding of events, duly
turns up from time to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of
historicized myth that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas
the Aeneid is deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a
teleological understanding of myth and history, fate is an historical prop in
the Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from
dominating its context, the context dominates it, as in the summaries of the
Eneide that Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum
moenibus esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure
from Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil
integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the
“Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest
summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that
vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous,
echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all
within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers
familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet
Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to
interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by
introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian
fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his
readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to
sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one
interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the
structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is
another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid
invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world
outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical
themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in
the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the
Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding
to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his
contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions
of this story. Ovid could not retell this story with directing readers
awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis
of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their
thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo –
Roma’s first king --, and to accompanying images and slogans concerning the
foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place
among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least
provisionally to define the relationship between this figure from the remote
past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the
later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus,
Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures
are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that
they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the
statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's
parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it
will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of
meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes.
The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to
promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past
to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of
change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing
patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns
are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these
sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by
means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,”
the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but
also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus
joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the
sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door,
wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation
in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the
tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich
reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict
her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of
Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic
message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the
power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the
Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does
not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the
con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome
of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because
the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring
official interpretations within view, it is worth noting that, according to one
political approach to literature currently in favor, only official
interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading
takes place within a fixed political system, often unrecognized by the
participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents
of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important
about literature except the historically determined power-relationships that
govern its production and reception; all attention to literary qualities of a
text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view
contracts all understanding of literature to the narrowly political, some
recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger
field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of
Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from
mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad
similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of
history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical
principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For
instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a
narrative technique characteristic of universal history. The poem's
chronological framework from first origins to the present also reflects the
aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view
the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos,
culminating in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for
a subtler and less overtly political patterning of events, Wheeler traces
historical principles behind the increasingly historical subject matter of the
last pentad. The movement from myth to history represents "a shift,"
in Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis."
The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses
alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and
comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity
into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used
the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well
as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of
Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does
not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that Ovid's
work in fact thwarts and defies. The historical vision of the Metamorphoses
remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing, and
intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse,
unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede
them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the
'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be
sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book
1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary
reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes
throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up
as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly
brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans,
in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War
tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next
three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a
narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the
moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad,
"mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from
Roman history and even "current events," all brought within the
narrative sweep. Among "current events" we may locate the
transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is
thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess
Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's
patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity
of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed
the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach
Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it
is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But
Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by
internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological
movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent
or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with
manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in
the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city
after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's
death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler
has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules'
death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that
"Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead
and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective
events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological
thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting
Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of
Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but
chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal.
Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical
topics results in a more linear narrative explication and greater chronological
regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a
larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of
Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's
historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's
transpositions of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis
are a deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the
narrative of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates
his earlier chronological scheme to provide new beginning points for the final
pentad i.e., from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the
present) As a result, the formality and regularity of the pentadic structure
produces a paradoxical result: on the one hand, it divides the work
symmetrically into thirds and hence to some extent structures the experience of
the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in
allusive reference to the Odyssey and Iliad." On the other hand, in
effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative
indirection and unpredictability that have characterized the Metamorphoses from
its beginning. The tales that follow the foundation of Troy both illuminate and
obscure the newly initiated narrative patterns of the last pentad. At this
point, Ovid's readers may expect him to expand upon the origins of the Trojan
conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis, the parents of
Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that are
traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will bear
a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids mating
with Thetis "lest the universe contain anything greater than Jupiter"
(ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters the authority for the
prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus for Themis as its
source. He then develops the story in his own way, dwelling upon a description
of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she
thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus that he tie her up as
she sleeps, and the successful results. Some of this account will remind us of
epic predecessors, for Proteus is familiar from the Odyssey as well as from a
brief appearance carlier in the Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet
in emphasizing shape-shifting and sexual assault, Ovid flaunts the unedifying
nature of his account and its lack of relevance to any of the large-scale
themes, providential, historical, and originary, that one might expect at the
threshhold of events that lead to the foundation of Rome. An account of origins
this may be, with reference to historical subjects, and formally analogous to
Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid. Yet Ovid offers it
manifestly without the interpretive guidance that would associate it with
Virgilian themes. As an account of origins, it explores causes of the Trojan
War still more remote than those developed by Ovid's pre-decessors, suggesting
a line of interpretation that traces events back to lust, violence, and
deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid on the one hand
traces Trojan subject matter from its origins, and on the other
characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of
Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately
linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling
digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the
Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than
formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another
tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam
first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy
tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal
couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his
neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise
turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of
learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which
of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si
fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked
by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even
inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt
huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex Priamusque
nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui nisi
sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen haberet. And
if you wish to follow his lineage down to him in continuous sequence, his
ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and Priam,
allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he had not
experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no less a name
than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure authority
for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as ordo
perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his carmen
perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from first
beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly
indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology,
incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's
brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who
in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her
pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic
in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/
pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon
be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are
his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est.
ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound
was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the
snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws
himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into
the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at
its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's
name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of
the natural world. Trojan history, along with all notions of historical
progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into
aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and
suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural
actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the
Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his
narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The
poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and
catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her
descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent
Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's
death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even
subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with
irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in
modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the
larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the
apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it
raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's
nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and
Ovid's version of Aeneid begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic
me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By
emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls
attention to an etymological explanation of her name from kaiew, glossed by
cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in
a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find
a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's
revision is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to
the story than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary
of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to
Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his
earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to
brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not
in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad,
expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and
adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between
Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the
arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it
is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had
offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to
seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.). In
Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical of
the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis
(Met.). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of
Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event
foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy
to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's
apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have
not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem
et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean;
neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you
unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will
carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision
has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed
well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a
reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the
reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for
the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera
luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius
referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore,
harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her
plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of
all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a
reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the
foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually
occurs in Aeneid. There, shortly before the final encounter of Aeneas and
Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating
that the Latins not be required to give up their language and dress, and that
Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales”
in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's
own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia
bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil
mentions the chronologically later reconciliation long before describing the
former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a
conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of Carthage,
will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's reconciliation in
Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only some of Juno's
grudges, it contributes only a partial sense of closure to the end of Virgil's
poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges more specifically
recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of Jupiter's address
to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/ deberi caelo
fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the chronology of Juno's
reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead to a time beyond
Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas, which indeed it
serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem ucteres
finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli tempestius erat
caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all the gods,
even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of rising
lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for heaven. The
thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid introduces these
lines into bizarre, surreal surroundings of his own making. Their immediate
context is one of the strangest transformations in the poem-the tale of
Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town Ardea may
be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote from Virgil,
and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is typical of
Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of a species,
tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of traits and
features in the change from the old to the new shape. This case goes beyond the
typical in the sheer imaginative effort required to make the shift from a
ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human social
organizations, are characteristically distinct from the natural. This is not
just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical,
and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is profoundly
historical, for how Romans understand the altars and temples of their gods, how
they connect the remote to the recent past, depends on the symbolic narrative
or narratives that their minds associate with monuments in their city. Ovid's
revision of Vergil is the revision of a well known and compelling historical
vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as editors note, offer a
parallel to the language of an inscription for a statue of Aeneas found at
Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum n/umero relatus (CIL
= Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to the apotheosis of
Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic structuring of
the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses. Like the renaming
of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman readers their reading
of inscriptions. This king-list also recalls earlier lists in the
Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His transformation is a
natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine status as “indiges”
can be viewed as just another transformation, an addition to the tale of Ardea
transformed into a heron. We might almost think of it as an undifferentiated
item in a vast accumulation of transformation-tales that could be arbitrarily
lengthened by further addition. The reason, however, that we cannot quite do so
is the fact that it is not isolated, but participates in a pattern of
apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that is reinforced
strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's soul. Their
greater number toward the end of the poem appears to signal both their own
importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does not lead
directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and Vertumnus,
which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural features,
cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an incident
of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of Vertumnus
can also appear a distraction, leading the reader's attention away from the
transformation of historically important heroes into gods. The tale is a
"romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It is
no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations
themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because
Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of
Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His
text demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of
them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death,
Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus
aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been
placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by
emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from
clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his
principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History
appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with
Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite
having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus
tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt
portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit
nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures,
keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose
bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had
barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she
turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation
earlier, in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly
inconsistent. We may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's
historical framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War.
But Ovid makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency;
indeed, he appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno,
exploiting it for its comic absurdity. There are serious consequences as well:
the equation of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable
to the Romans once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other
divinities intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in
unbarring the gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the
Forum Romanum to come to her assistance. Their spring, normally cold, they
bring to a hasty boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the
Romans time to arm themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting
deification for Romulus as the fulfillment, now: due, of a long-standing
promise. Mars cites Jupiter's original words, representing them as an exact
quotation: tu mihi concilio quondam praesente deorum (nam memoro memorique
animo pia uerba notaui) "unus crit, quem tu tolles in cacrula caeli"
dixisti: rata sit uerborum summa tuorum. Once, at an assembled council of the
gods, you told me (for I remember, and marked the pious words in my retentive
mind),there will be one whom you will carry to the blue of heaven.' Let the
content of your words be fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even
more authority by referential confirmation from outside the text of the
Metamorphoses doubly cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid
cites Ennius's Annales. Readers of Ovid's contemporary Fasti will remember the
recurrence of Ennius's line in a third context, for Mars cites it there as part
of a parallel appeal for Romulus's deification. Although Marte describes his
son to Jupiter as the latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's
exploits have no part in the appeal. Deification results directly from
Jupiter's promise, so strongly emphasized, and at the beginning of the speech
Mars needs only to establish that now is the time for its fulfillment: tempus
adest, genitor, quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab
uno, praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris
inponere caelo. Since, father, Roman affairs are well established on great
foundations, and do not depend on a single protector, it is time to pay the
reward it was promised to me and to my worthy grandson to remove him from the
earth and to place him in heaven. In all this there is no mention of Romulus's
great benefactions, such as might sustain a euhemeristic interpretation of the
hero's advancement to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius,
Ovid ostentatiously quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact
that in stripping the hero of exploits he has eliminated Ennius's
interpretation of them. Ennius's words, transferred to so un-Ennian a context,
may appear well suited to a familiar allegorical parallel, reminding Roman
readers once again of their second Romulus, likewise destined for the skies. Yet
Ovid's apotheosis of Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely
because of its lack of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's
Romulus offers readers little to go on in drawing conceptual parallels to the
achievements of Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis
of Romulus in the Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes
an emphatic identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing
relatively recent developments in the story. In both Ovid quotes the line from
Ennius and repeats the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment
when the apotheosis occurs. Yet in their larger contexts the two passages are
remarkably dissimilar. While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his
whole story -simply one in a series of apotheoses extending from Hercules to
the end of the work, in the Fasti his apotheosis has a context in the life and
exploits of the hero. Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes
concerning him are numerous enough to trace out a biography of him, even if by
installments. Ovid's version of the Roman year gives Romulus an unprecedented
amount of space, far beyond the natural occasions offered by tradition (such
as, for example, Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual
rituals of the Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with
Romulus even to the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of
Romulus. If the violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti”
make him a problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives
himself an easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of
his narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead
brother Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas
in the Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio
Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According
to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted
from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance
seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of
Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill.
A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she
passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body,
calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's
apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel
to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's
goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he
has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even
scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made
amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic
rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both
available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again
conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's
apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance,
similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's
progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also
may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates
even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a
joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their
fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last
pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway
of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama,
while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces
Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured
historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna,
Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I
Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è
un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici
elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende,
oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda
tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo
l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a
Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della
differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in
cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni
“INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio
di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le
festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al
suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o
valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da
gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che
non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe
Ovidio e che non gli permise di terminarla. Indice 1Struttura 1. 1Libro
I: gennaio 1. 2 Libro II: febbraio 1.3 Libro
III: marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci
correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il
primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora
spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di
Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto
stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del
calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi
passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul
modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio,
modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei
riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione
sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali
è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di
aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso
d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare
dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la
rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di
Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste
Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a
parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa
degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento
opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile Festività romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in
terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor
Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve Publio Ovidio Nasone Portale Antica
Roma Portale Lingua latina Portale Religioni Categorie:
Opere letterarie in latino Opere di Ovidio Opere letterarie del I secolo.
Ovidio. Publio Ovidio Nasone. Ovidio. Keywords: implicatura trasformativa.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ovidio.” Ovidio.
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