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Thursday, October 23, 2025

Grice e Pacetti

 


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DELL’ARTE RETTORICA 


GIOVENTÙ STUDIOSA 


RAFFAELE PACETTI 


PRETE ROMANO 






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À 



DELL'ARTE RETT0R1CA 


ALLA 

GIOVENTÙ STUDIOSA 




ROMA 

TIPOGRAFIA DELLE BELLE ARTI 
Palazzo Poli numero 9t 
1800 


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t N 




V T^EIPARAE . VIRGINI . MARIAE 
QVAE 

NOSTRAE . CONSORS . NATVRAE 
NOSTRI . NIHIL . NISI . LABEM 
A . SE . ALIENVM . PVTAT 
VTI . OPERI . HVIC 
IWENVM . ANIMIS 
AD . HVMANIORA . STVDIA . INFORMANDO 
EXARATO 

SIET . VOLENS . PROPITIA N 
SE . QVE 

CLIENTVM . EIVS . INFIMVM . MERITO 
AT . NON . OBSEQVIO 
SOSPITET . IN . AETERNVM . AEVVM 
RAPHAEL . PACETTI . PRESBYTER . ROMANVS 
GRATI . FIDENTIS . QVE . ANIMI 
ERGO 

D . D . D . 




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Quidquid praecipies esto brevis, ut cito dieta 
Percipiant animi dociles, tencantque fideles 

Ilorat. ad Pisones. 


Longurn iter per praecepta, breve et efficax per exempla 

Quindi. 


L'autore riservasi il diritto di proprietà a norma delle 
leggi vigenti, e delle convenzioni fra li diversi Stati. 



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PROLOGO I. 


DELLE ARTI ESTETICHE E DEL LORO NOBILISSIMO UFFICIO 


I ,. . , t . A'v-' 

-1,/ue sono gli oggetti cui naturalmente tenue--*— e»-Su cui 

tutta dispiegasi l’attività dell’uomo, la conoscenza del vero, 
e la produzione di effetti utili, o sia il conseguimento delle 
scienze e l’esercizio delle arti. 

A raggiungere sì l’uno come l’altro scopo, il criterio, 
o la regola certa , si è , che l’ uomo sia fedele ministro e 
interprete di natura; il filosofo studiando la natura per co- 
noscer le cose quali sono in sestesse, e nelle loro vere ca- 
gioni ; l’artista imitando la natura, la quale se noi studio- 
samente torrem per guida, non ci dilungheremo mai dalla 
via della verità, della virtù e della vera utilità. Quam si 
sequemur ducerli, nunquam aberrabimus. Cic. Off. I. (2). 

Ogn’arte, che fedelmente siegua le sapientissime leggi 
di natura , produce senza fallo utili ed ubertosi frutti. Le 
arti inferiori, come quelle dell’agricoltore e del fabbro, pro- 
ducono cose utili all’uomo, al suo nutrimento cioè, e ai co- 
modi della vita. Ma le arti più sublimi (tra le quali ten- 
gono il primo grado la poesia e l’arte oratoria) agiscono di- 
rettamente sull’ uomo stesso, anzi sulla parte più nobile del- 
1’ uomo , cagionando maravigliosi mutamenti nell’ intelletto 
e nella volontà di lui. 

Ora il mezzo potentissimo e caratteristico , onde val- 
gonsi cosiffatte arti, per dominare la mente ed il cuore al- 

(1) Le arti estetiche, sono tutte le belle arti, le arti di buon gusto, cosi 
denominate dal greco vocabolo aìaSJ *o/x« sentire. 

(2) « Homo naturae minisler et interpres, tantum facit et inlelligit, quan- v 
» lum de naturae ordine re vel mente obscrvaverit ; nec amplius scit aut po- 

» test » Frane. Baconis de Verulamio : A’ovum Organum Scientiarum. 


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6 

trui, si è il diletto delle grazie, ispirate dal retto e squisito 
sentire il bello ideale ; o sia da quell’ interno senso, che ap- 
pellasi buon gusto. ^ 

Tutti gli uomini invero, come sono dotati di ragione, 
così posseggono più o meno una tal forza nell’ animo , un 
tal senso interno, onde a preferenza d’ogn’altro animale, sen- 
tono la proporzione, l’ordine, l’armonia, il bello ideale delle 
cose, tanto nel mondo fisico, quanto nel mondo morale (1). 
Ma quegli solo è nato fatto per le arti estetiche, cui, oltre 
la bontà dell’ intelletto, diè largamente natura c squisitezza 
di gusto, e vivezza di fantasia. 

Quantunque poi unico sia l’ intento nobilissimo di tutte 
le predette arti, quello cioè d’ istruire la mente, e di muo- 
ver dilettando la volontà altrui al vero bene ; pur tuttavia 
differiscon tra loro nel modo e nel grado di usar le grazie 
delio stile, e la vivezza delle immagini. 

La differenza precipua, che passatra l’oratore e il poeta, 
stà in questo, ebe l’oratore parla direttamente all’ intelletto 
altrui per insegnare, convincere e persuadere : ed a fine d’im- 
primere altamente nell’animo la verità, ed efficacemente muo- 
verne la volontà, fa uso come per indiretto delle grazie dello 
stile, c va accortamente toccando le corde del cuore umano, 
eccitando i più teneri e nobili affetti. 

Il poeta parla direttamente al cuore e alla fantasia al- 
trui, e dilettando con vaghe e vive immagini solleva la mente 
a sublimi concetti, porge alla volontà opportuno conforto, e 
l’infiamma alle più ardue e virtuose azioni. £ perù del poeta 
può dirsi, che delectando monet ; e dell’oratore, che monemlo 
delectat. 

(1) « Nec vero illa parva vis nalurae csl , rationisque , quod unum hoc 
animai senlit, quid sit ordo, quid sit quod deceat, in factis diclisque qui modus. 
Itaque eorura ipsorum, quae adspeclu senliuntur, nullura aliud animai pulchrilu- 
dinem, venustatem, convenientiam partium sentii- Quam similitudinem natura ra- 
tioque ab oculis ad ammutii transferens, multo edam magis pulchriludinem, con- 
stautiam , ordinerei in consiliis tactisque conserva ndum putat ; ravetque ne quid 
indecore, cQemiuateve, ne quid libidinose aut faciat sul cogitel ». Cic. de Od. I. 


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7 

Alla poesia sono germane la pittura, la scultura, la mu- 
sica. La pittura e la scultura, se negl’ istrumenti e nei ma- 
teriali differiscon tra loro, sono pur in sè una stessa cosa : 
sotto forme sensibili rappresentano i costumi e le passioni 
umane. Lo stesso intendimento ha la poesia, pictura poè'sis. 
La quale, se manca di colori e di forme materiali, da porre 
sotto i sensi le cose, pur vantaggiasi di molto sulla pittura 
c sulla scultura in ciò, che queste sono ristrette ad una azione 
sola senza successione; quella trascorre liberamente per varie 
vicissitudini di tempi, luoghi ed azioni. 

La musica è il linguaggio delle passioni , inteso viva- 
mente da tutti. Parla anch’ essa direttamente al cuore e alla 
fantasia, ma con tal virtù, che tosto rapisce l’animo, e dalle 
cose materiali, e sensibili sollevalo ad un ordine di sentimenti 
quasi celeste , dando insieme alla volontà energico impulso 
alle più grandi imprese. 

Unita poi la musica alle voci articolate, e massime alla 
poesia, raddoppia essa di forza. Imperocché la poesia deter- 
mina l’espressione al concetto vago musicale ; la musica vi- 
cendevolmente accende l’estro, ed ispira i sentimenti più no- 
bili al genio poetico. E però la musica è l’ intima compagna, 
e quasi direi, l’anima della poesia. 

Silvestre s homines sacer interpresque deorum 
Caedibus et victu foedo deterruit Orpheus, 

Dictus ob hoc lenire tigre s rabidosque leones. 

Dictus et Amphion thebanae conditor arcis 
Saxa movere sono testudinis , et prece blanda 
Ducere quo vellet. 

(Horat. ep. ad Pisones v. 391. ec.). 

La musica ne* combattimenti dà eroico ardimento ; ne’ fu- 
nerali e nelle tragedie volge l’ affetto a giusta tristezza e 
compianto verso i defunti c i virtuosi oppressi; nelle liete 
adunanze, nelle pubbliche feste, ne’ trionfi eccita l’ esultanza 
e la gioia universale ; nei templi la melodia sacra compunge 
i cuori più duri , ispira in ognuno sensi di religiosa vene- 


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8 

razione, c gli animi ben fatti trasporta in una dolce estasi 
dall’ umano al divino. 

Quanto poi all’architettura, essa distingucsi dalle altre 
belle arti per due capi, perchè partecipa delle arti mecca- 
niche, e delle arti liberali. Imperocché come ogn’ arte mec- 
canica , cosi 1’ architettura intende a produrre effetti utili 
all’ uomo, quali sono le abitazioni, i portici, i ponti, i tem- 
pli, tutte cose acconce ai bisogni dell’ uomo. Queste sue opere 
poi le rappresenta l’architetto con tale simmetria , ordine, 
proporzione e grazia di disegno, che non pur produce am- 
mirazione e diletto nei riguardanti, ma dà insieme alle fab- 
briche l’ impronta e il carattere morale lor proprio, sì che 
in un solo aprir d’occhio disccrnesi la varia lor condizione, 
e il vario loro uso ; come l’amena semplicità delle abitazioni 
campestri ; la comodità sodezza ed eleganza delle cittadine ; 
la magnificenza dei pubblici edilizi, altri fatti alla dimora dei 
principi , altri alla ragion pubblica , altri agli studi , altri 
agli spettacoli teatrali; e il carattere tutto misterioso e su- 
blime de’ sacri templi, che ispira venerazione, e colle sue for- 
me stesse ti dice : questo è luogo santo. Haec est domus Dei 
et porta coeli. 

Dono prezioso di natura si è quello dello squisito Sen- 
timento e della vivezza della immaginazione, di cui forniti 
sono quelli virtualmente atti alle buone arti: ma perchè que- 
sto felicemente consegua il nobilissimo fine inteso dal be- 
nefico autor di natura, vuol essere con molta cura e con 
assiduo studio ben coltivato e diretto. 

Qui studet optatam cursu contingere metam 
Multa tulit fecitque puer, sudavit et alsit (1). 

E però due grandi errori conviene accuratamente evi- 
tare il difetto di buona coltura, e l’eccesso quanto al modo 
e alla giusta misura d’usar le grazie dello stile. Imperocché 

(1) Chi studia per corso giugnere al palio, molte cose sostiene e là per po- 
tere venire al suo intendimento. (F. Bart. da S. Conc. Ammaestramenti degli 
Ant. D. II. c. 2). 


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9 

come inutili sarian gli sforzi dell’arte ove mancasse il natu- 
rai vigore d’ ingegno , così che mai gioverebbe l’ ingegno 
privo del severo magistero dell’arte ? 

. . . Ego nec studium sine divite vena, 

Nec rude quid prosit, video, ingenium. Alterius sic 
Altera poscit opera res, et coniar at amice (1). 

Che se pur fuvvi alcun mostro d’ ingegno , che senza 
quasi niuna cultura, tratto dalle sue forze trascendenti, pro- 
dusse talora opere originali e maravigliose , ciò si registra 
tra i più strani portenti di natura, che nulla toglie di forza 
alla generale induzione , e al sapientissimo canone , dianzi 
detto, dei sommi maestri dell’arte. 

L’altro scoglio vie più fatale, ove molti fanno misera- 
mente naufragio , si è il modo intemperante nell’uso delle 
immagini , delle figure , e delle grazie dello stile. Costoro 
trasportati dalla vivezza della fantasia , c sedotti dalle lu- 
singhiere dolcezze del sentimento, non cercano che il diletto. 
Ciò che più sorprende, e che più vivamente eccita le tenere 
e forti passioni del cuore umano, e come ei dicono, il più 
immaginoso, e il più altamente sentimentale, quello per essi 
è il vero bello, e l’ottimo dell’arte. AI volgo degli scrittori 
dell’età nostra è insipida l’attica semplicità. Quelle bellezze 
ingenue, e tutta natura degli antichi scrittori sono poste in 
non cale. Il romanticismo ha miseramente invaso la repub- 
blica letteraria. Voglion esser cose di strana fantasia, stre- 
pitose, atroci, passionate, altisonanti. Ecco il vero sublime ! 

Or da ciò si derivano due pessimi effetti, 1’ uno si é, 
che corrompesi irreparabilmente il buon gusto, e vassi al- 
l’esagerato, all’eccessivo fuor della via prescritta dalla na- 
tura, ove al dir di Orazio : 

. . . Sunt certi denique fines, 

Quos ultra citraque nequit consistere rectum 
E Dante Purg. 24. aggiunge 

(1) Io non veggio che prò faccia studio senza 'I naturale ingegno, nè ingegno 
senza studio, perchè l’uno ha bisogno dell’altro. F. Bari. cit. P. I. D. Il 6. 


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10 


E qual più a gradire oltre si mette 
Non vede più dall’uno all’altro stile. 

L’altro pessimo effetto si è , che perdesi lo scopo e il 
frutto preziosissimo delle arti estetiche. Imperocché costoro 
propongonsi per fine ciò che non può esser che mezzo. I co- 
lori della fantasia , la delicatezza de’ sentimenti , le grazie 
tutte dello stile debbon esser gl’ istrumenti, che rappresen- 
tino al vivo la verità , il deforme del vizio , il bello della 
virtù, per correggere i costumi degli uomini, e infiammarli 
al bene. 

Nulla dirò qui di coloro (ed oh ! quanti ve n’ ha di sì 
enorme delitto macchiati), i quali colle attrattive più lusin- 
ghiere della eloquenza, della poesia, della pittura ec. argo- 
mcntansi d’ insinuare errori, corrompere i costumi, combat- 
tere la Religione. Mostri detestabili, che dei doni più pre- 
ziosi di natura servonsi per far guerra empia al supremo 
suo autore : e che in vece di porgere salutari medicine e 
conforti all’ infermità degli uomini, propinano loro il veleno 
nelle melate tazze di Circe , trasformandoli nei più vili e 
sozzi animali. Oh quanto fia meglio , se costoro, anzi che 
allo stile, allo scalpello, ai pennello, pongano mano al ma- 
glio, al remo, all’aratro ! 

Sia dunque altamente scolpito nell’ animo de’ giovani , 
che accesi di nobile amore dedicami allo studio delle arti 
di genio , questo e non altro esser 1’ ufficio e il magistero 
delle arti estetiche, di formare un armonico accordo dei retti 
dettami della mente cogli affetti del cuore. 

E quegli meritamente può dirsi ministro e interprete 
di natura, che delle forze maravigliose della fantasia e della 
squisitezza del gusto servesi come di mezzo potentissimo a 
rappresentare nel suo più bello, più luminoso, più grato 
aspetto la verità e la virtù, unico fonte di nostra vera uti- 
lità. Questi veramente colpisce nel segno. 


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11 

Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, 

Lectorem delectando pariterque monendo. 

Hor. Poet. 343.344. (1) (2). 

\ 

(1) » Ogni punto ha compreso chi col dolce dire mischia 1’ utile dilettando 
il lettore e insieme con ciò movendolo ». Fra Bart. cit. 

(2) Lucr. IV. Nam veluti puerti absinihia tetra medentes 

Cum dare conantur, prius oras poetila circum 
Contingunt meliti dulci flavoque liquore, 

Ut puerorum aetas improvida ludificetur 
Labrorum tenue ; interea perpotet amarum 
Absinthi laticem, deceptaque non capiatur ; 

Sed potiue tali a tactu recreata valescat. 

E T. Tasso parafrasando 

Sai che là corre il mondo, ove piti verei 
Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, 

E che 'l vero condito in molli versi 
I più schivi allettando ha persuaso. 

Così alC egro fanciul porgiamo aspersi 
Di soave licor gli orli del vaso. 

Succhi amari ingannato intanto ei beve 
E da f inganno tuo vita riceve. 


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PROLOGO II. 


DELLA RETTORICA, DELLE SUE PARTI, 
E DELL’ORDINE DI TRATTARLE. 


LÀ a Rettorica è l’arte di ben parlare, o sia la Rettorica è 
l’arte, che per mezzo dell’acconcio parlare insegna e persuade 
altrui qualche utile verità (1). 

L’ arte di bea parlare non ha limiti, ma diffondcsi ad 
ogni genere di cose, e ad ogni maniera di discorso, dal più 
semplice e familiare al più sublime. 

Delf’eccellenza di quest’arte disse Tullio (de Orat. I. 8.) 
» Neque vero mihi quidquam praestabilius videtur , quam 
» posse dicendo tenere hominum coetus , mcntes allicere , 
» voluntates impellere quo velit, unde autem velit, deducere» . 
Niuna cosa mi pare maggiore, che potere, dicendo, tenere 
le menti degli uomini, attrarre loro volontadi, spingerle là 
dove voglia, ovvero d’onde voglia ritrarle. (Fr. Bartolommeo 
1. cit.) 

Ora ad ottenere un sì maraviglioso effetto negli uditori, 
deve l’oratore dire in tal modo da insegnare, muovere e di- 
lettare. E però quando accingesi a fare un discorso, fa d’uopo 
in primo luogo rinvenire le cose opportune da dire , deve 
cioè 1’ oratore trovare gli argomenti atti ad illuminare , e 
convincere l’altrui intelletto, c i motivi più validi ad ecci- 
tare gli affetti e muoverne la volontà a suo talento : 2.° deve 
ogni cosa disporre ordinatamente : 3.° con pura, elegante, 
ornata e copiosa elocuzione fondere il discorso : 4.° final- 
mente con buona pronunzia e modulazione di voce , e con 


(1) Vnropo( Se ToXvrv XbAjiv. Rìeetoris autem est vera loqui. Plato Apo- 
logia Socralis. 


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bel garbo di gesto deve proferire e porgere in pubblico la 
sua orazione. Quindi è che dai maestri dell’arte la Rettorica 
in quattro parti distinguesi, che vengon denominate l.° della 
invenzione, 2.° della disposizione, 3.° della elocuzione ; 4.° 
della pronunziazione, o azione. 

Le tre prime costituiscono l’oratore propriamente autore, 
e dirò cosi fabbro del bel parlare c del bello scrivere ; la 
quarta lo costituisce attore dell’opera sua. Questa , cioè la 
facoltà di ben pronunziare e di ben porgere , quantunque 
sia di sommo pregio e necessaria in atto ad ottenere negli 
uditori l’ effetto bramato , pure coll’età s’ infievolisce , e in 
ultimo viene a mancare colla vita stessa dell’ oratore. Ma 
l’opera fatta come autore, se pur fu egli eccellente nell’arte 
sua, per successione di secoli rimane immortale ad ammae- 
stramento e utilità delle generazioni future. 

Adunque allorché 1’ oratore , già formato , accingesi a 
trattare e di fatto tratta qualche argomento, deve osservare 
e praticare le predette quattro cose; e tenere altresì lo stesso 
ordine predetto. Ma per imparare l’arte di bene scrivere e 
di ben parlare, conviene tenere l’ordine inverso. Perciocché 
con questo come per gradi dalle cose più facili si sale alle 
più difficili ; e quelle servono come di guida a meglio e più 
agevolmente imparare le altre. 

In fatti se i giovanetti prima d’ imprender lo studio dei 
precetti di ben comporre un discorso , si eserciteranno nel 
pronunziare e declamare sensatamente quei tratti di autori 
classici, che vanno spiegandosi nelle scuole inferiori, ne in- 
tenderanno meglio il concetto , noteranno il vero e proprio 
significato delle parole, l’eleganza delle frasi, l’armonia, l’or- 
dine, la bellezza di tutto il discorso. In tal modo verranno 
insensibilmente formandosi il buon gusto: e quindi passando 
allo studio dei precetti rettorici, si troveranno già disposti 
c preparati a ben apprenderli e praticarli. 

E però il trattato del ben pronunziare e porgere lo se- 
pariamo dai trattati, che sono propri ed essenziali a formare 


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il buono scrittore, e lo porremo in un opuscolo distinto af- 
finchè possa servire anche agli studenti delle classi inferiori. 

Quanto poi alle altre tre parli, poniamo per primo il 
trattato della elocuzione , come quella che immediatamente 
siegue e congiungesi alla grammatica, perchè vale a perfe- 
zionare la lingua, a maneggiarla con proprietà ed eleganza 
c a fondere con eloquenza il discorso. 

Dopo i precetti e l’esercizio proposto sulla elocuzione 
siegue il trattato della disposizione, che è intimamente con- 
giunto a quello della elocuzione, e per dir meglio con Ari- 
stotele, ne forma parte integrale. 

Riserbiamo per ultimo il trattato della invenzione, per- 
chè è il più difficile , comprendendo tanto la logica retto- 
rica, quanto il trattato delle passioui. Le quali cose, quan- 
tunque da noi s’ insegnino in modo elementare e pratico , 
pure , dovendosi attingere dalla filosofia , esigono più so- 
dezza di mente e studio più attento. Ciò poi avvezzando i 
giovani a pensare c a fare le loro composizioni ragionata- 
mente, mentre dà compimento all’ istruzione elementare ret- 
torica , prepara insieme il loro intelletto allo studio delle 
scienze filosofiche, alle quali tosto passar dovranno. 


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LIBRO PRIMO 


nella Elocuzione 


MJ elocuzione (secondo il significalo proprio di questo vo- 
cabolo) si è il modo e la forma di esprimere e manifestare 
altrui colle parole i pensieri , e i sentimenti dell’ animo 
nostro : siccome il vocabolo stile (secondo la sua metaforica 
significazione) indica il modo e la forma di esprimerli per 
mezzo della scrittura (1). Ma nell’uso comune le voci elo- 
cuzione e stile prendonsi indistintamente a significare il modo 
c la forma di esprimere le nostre idee e i nostri sentimenti 
sia colla voce sia collo scritto. 

Ora affinché il discorso venga di buon grado da altri 
ascoltato, e produca in essi il suo buon effetto, deve, non 
pur la materia esser buona, cioè i concetti e gli argomenti, 
che il dicitore imprende a trattare, debbono esser veri, gra- 
vi, e atti al bisogno degli uditori, ma conviene altresì, ehe 
buona sia 1’ elocuzione. 

La bontà poi c perfezione della elocuzione, al dire di Ci- 
cerone, esige tre cose, cioè apte, distincte, ornate loqui. Alle 
quali cose, oltre la retta cognizione della grammatica, che 
qui presuppongo , è necessario anche il buon metallo della 
lingua, e l’arte di ben fonderlo e lavorarlo. E però diremo 

I. Della proprietà delle parole e delle frasi in sestesse 
considerate. 

II. Dell’unione logica delle parole tanto a fine di for- 
mare rettamente le varie proposizioni, quanto per collegarle 
convenientemente fra loro. 

(1) Elocuzione , in Ialino elocutio , formasi dal verbo eloqui , manifestare 
colla loquela, o sia colla lingua. Stile poi Stylus propriamente era quell’ islru- 
mento, col quale scrivevano gli anticlù. 

2 


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18 


III. Dell’ unione armonica delle parole, o sia dell’ar- 
monia del discorso, detta dagli antichi iunctura et numerus. 

IV. Delle figure, che mirabilmente chiariscono, raffor- 
zano e adornano il discorso. 

V. Dell’ arte di variamente amplificare i concetti c i 
sentimenti dell’animo. 

VI. Dell’arte di raccogliere il molto in brevi e succose 
sentenze. 

Adunque le regole, che riguardano la bontà della lin- 
gua, e l’arte di usarne in modo da rappresentare i nostri con- 
cetti nel più vero, spressivo ed elegante atteggiamento, sono 
la materia di questo primo libro. 

CAPITOLO I. 

DELLA PROPRIETÀ’ DELLE PAROLE E DELLE FRASI. 

È ufficio dell’oratore insegnare muovere e dilettare. Ad 
ottener ciò non basta che le cose ch’egli dice sieno belle e 
buone in sè stesse, conviene altresì esporle chiaramente e bel- 
lamente. Ora il primo e fondamentale requisito per la chia- 
rezza ed eleganza del discorso stà nella proprietà dei voca- 
boli e delle frasi, o sia dei modi scelti di dire. 

La proprietà poi dei vocaboli e delle frasi riguarda tre 
cose : l.° che sieno indigene , cioè proprie esclusivamente 
della lingua che parlasi : 2.° che sieno di buon metallo , e 
però proprie delle persone colte e oneste : 3,° che si adoprino 
nel lor proprio c nativo significato. 

ARTICOLO I. 

Che le parole e le frasi sieno proprie esclusivamente 
della lingua che parlasi. 

Quanto alla proprietà delle parole e delle frasi, debbonsi 
in prima evitare accuratamente quelle straniere, cioè appar- 


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19 

tenenti ad altre Ungile j come in italiano si è l’abuso invalso 
dei gallicismi ; per es. sortire per uscire, linea di dimarca- 
zione per confine o limite ; cosa eclatante per luminosa, evi- 
dente ; cosa rimarchevole per notevole ec. ec. ; e lo stesso di- 
casi dei latinismi e grecismi. Eccetto che tali vocaboli stra- 
nieri, per 1’ uso fattone dagli scrittori classici avessero otte- 
nuto la cittadinanza. 

Dicendo poi che le parole e le frasi debbono esser pro- 
prie della lingua , che parliamo , devono conseguentemente 
esser proprie della lingua, che comunemente parlasi e chia- 
ramente intendesi da tutta la nazione. E però a siffatta pro- 
prietà della lingua oppongonsi : l.°i dialetti, cioè quelle pa- 
role e quei modi di dire propri di alcun paese, ed ignoti al 
rimanente della nazione : 2.° le voci antiquate , che han per- 
duto la cittadinanza : 3.” le voci di nuovo conio , che non 
1’ hanno ancora acquistata. Su di che dice Monsignor della 
Casa nel Galateo 106. « Le parole voglion esser chiare, il 
» che avverrà, se tu saprai scegliere quelle, che sono origi- 
» nati della tua terra, che non siano perciò antiche tanto, 
» eh’ elle siano divenute rancie e viete ; e come logori ve- 
» stimenti , deposte e tralasciate ; siccome spaldo e epa , e 
» uopo e sezzaio c primaio ec. ». E Cicerone (de Orato- 
re III. 10) dice « Ncque tamen erit utendum verhis iis, qui- 
» bus iam consuetudo nostra non utitur, nisi quando ornandi 
» causa ». Similmente C. Cesare nel libro I de Analogia (vedi 
Geli. 1. I. c. 10) pone questa sentenza: Vive moribus prae- 
teritis , loquere verbis praesentibus . 

Lo stesso dicasi dell’ uso di recenti vocaboli , e molto 
più del coniarli di nuovo. Su di che dice con Cicerone Quin- 
tiliano I. e 5. Nova verbo non sine quodam pericolo fingi- 
mus. E Cesare loc. cit. dà questo avvertimento: Habe sem- 
pcr in memoria atque in pectore, ut tamquam scopulum fu- 
gias inauditum atque insolens verbum. 

Contuttociò potrà taluno usare i dialetti, quando richie- 
dalo l’argomento che tratta ; come se nei dialoghi introducasi 


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20 

a parlare un personaggio di cerio paese. Potrassi anche tal- 
volta, massime in poesia usar qualche vocabolo d’antica data, 
e similmente foggiarne dei nuovi , o unire insieme due di 
quei già noti, come postliminium , ritorno ai medesimi li- 
miti e diritti , donde taluno era stato tolto : velivolus , che 
va a vele, velivolum mare, mare pel quale si va a vele. So- 
livagus che va solo vagando ec. 

Ma secondo il precetto d’ Orazio ad Pison. ep. v. 46. cc. 
In verbis etiam tenuis cautusque serendis 
Dixeris egregie, notum st callida verbum 
Reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est 
Indiciis monstrare recentibus abdita rerum 
Fingere cinctutis non exaudita Cethegis (1) 

Continget : dabiturque licentia sumpla pudenter. 

Et nova fictaque nuper habebunt verba /idem, si 
Graeco fonte cadant par ce detorta. 

Come per esempio , ephippium sella da cavallo ; triclinium 
refettorio , o sia camera da mangiare con tre letti ; exan- 
tlare cavar fuori , o tollerare. E Virgilio usò i vocaboli 
lycni lucerne ; spelaeum speco ; thyas festa solenne ; triete- 
ricus triennale, o sia che si fa ogni tre anni, come triete- 
rica Bacchi orgia ec. 

Ma l’usare talvolta vocaboli antiquati, o il coniarne dei 
nuovi è riservato ai sommi scrittori. In generale abbiasi pre- 
sente il canone ciceroniano. De Oratore 1. 1. 3. che dice « Ut 
» in ccteris (artibus et scientiis) id maxime excellat, quod 
» longissime sit ab imperitorum intelligentia sensuque disiun- 
» ctum : in dicendo autem vitium vcl maximum sit a vul- 
» gari genere orationis atque a consuetudine communis sen* 
» sus abhorrere ». 


(1) Cicerone in Bruto pone fra pii antichi oratori M. Cornelio Celego. E 
però Orazio invece di dire agli antichi oratori, dice ai Cetegi Cethegis, c questi 
cinctuti» cioè suecinctis, vale a dire, cinti al modo antico, adattando la tunica 
sotto il petto. 


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ARTICOLO II. 


21 


Che le parole e le frasi sieno di buon metallo, 
cioè proprie delle persone colte ed oneste. 

Il precetto di Cicerone dianzi addotto, che cioè l’ora- 
tore non debba allontanarsi dal genere di parlar volgare, a 
vulgari genere orationis atque a consuetudine communis sen- 
sus, non prescrive già, che l’oratore debba usare il parlare 
incolto e vile del volgo; ma bensì che il suo discorso, quan- 
tunque ottimo di stile , pur sia tale da esser ben inteso sì 
dai dotti come dagl’ignoranti. 

E però la seconda cosà che riguarda la proprietà delle 
parole e delle frasi si è che la lingua comune della nazione 
sia genuina e intatta, non corrotta o per ignoranza o per vizio 
del volgo; in somma, che le parole e le frasi, che usiamo, 
sieno proprie delle persone colte e oneste. Su di che recherò 
qui l’ aureo precetto di monsignor della Casa ( oper. cit. 
§. 111. 112.), cioè «Dee . . . ciascun gentiluomo fuggir 
» di dire le parole meno che oneste. E la onestà de’ voca- 
» boli consiste o nel suono e nella voce loro, o nel signi- 
» Acato. Conciossiacosaché alcuni nomi vengono a dire cosa 
» onesta , e nondimeno si sente risonare nella voce istessa 
» alcuna disonestà. E però quelli che sono c vogliono esser 
» ben costumati procurino di guardarsi, non solo dalle di- 
» soneste cose, ma ancora dalle parole, e non tanto da quelle, 
» che sono, ma eziandio da quelle, che possono essere o an- 
» cora parere o disoneste, o sconcic c lorde .... 

» Anzi non solo si dee altri guardare dalle parole di- 
» soneste e dalle lorde ; ma eziandio dalle vili , e special- 
» mente colà, dove di cose alte e nobili si favelli ». 

Ma anche in questa parte può darsi alcuna eccezione; 
essendo talora lecito, ed anche mollo opportuno, usar qual- 
che vocabolo di cosa vile e sozza, o per eccitare lo sdegno 
contro taluni viziosi, o per abbassarne l’orgoglio, o per di- 


t-S" UOV.A 'vV 


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22 

mostrare 1’ altezza di un beneficio fatto a persone immeri- 
tevoli ec. E ciò lo veggiamo, di rado si, ma pure usato da 
Omero, da Cicerone, dall’ Alighieri, per es. quando nomina 
i fastidiosi vermi, le schianze maculale, le marcite membra, 
e simili lordure, degna mercede d’obbrobriosi vizi; anzi dalla 
stessa divina scrittura, ove per es. diccsi che Iddio sdegnato 
contro taluni ingrati ec. incomincia a vomitarli dalla sua 
bocca. E che l’alta sua bontà solleva dalla polvere i miseri, 
e dallo sterco i poverelli per collocarli nei gradi più eccelsi 
del suo regno ec. 


ARTICOLO III. 

Che le parole e le frasi adoprinsi nel lor proprio 
e nativo significato. 

Le parole diconsi i segni delle idee, perchè sono state 
istituite, a (ine di significare o sia indicare le differenti idee 
e affezioni dell’ animo nostro. Ora a lutto 1’ emporio delle 
cognizioni c affezioni umane corrispondono le parole com- 
ponenti la lingua per modo, che a ciascuna idea della mente, 
ed affezione del cuore ( almeno alle primarie ) corrisponde 
il suo vocabolo o segno distinto c proprio. Conseguentemente, 
si definisce cosi il senso proprio delle parole si è quello, che 
corrisponde precisamente all’ idea e al sentimento di chi fa- 
vella. E però non significa nè più , nè meno , né in modo 
diverso da come egli internamente concepisce e sente. 

Ora all’uso delle parole nel loro senso proprio e nativo 
tre cose si oppongono: l.° i termini ambigui, 2." i sinoni- 
mi : 3.° i vocaboli generali in cambio dei particolari e indivi- 
duali. 

I termini ambigui o equivoci sono quelli che , oltre il 
primitivo loro significato, ne hanno acquistato uno o più al- 
tri, come la voce cane per suo proprio e originario signifi- 
cato indica la bestia a tutti nota, ma si è adattata altresì 


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23 

a indicare la costellazione detta il cane o canicola , ed an- 
che ad altri istrnmenti meccanici come il cane del fucile ec. 
Così spiritus propriamente vale vento , soffio , ma prendesi 
anche ad indicare una sostanza immateriale , come l’anima 
umana ec. , o l’essenza e il distillato delle cose materiali , 
o il coraggio dell’uomo ec. E però nell’ usare questi c si- 
mili vocaboli ambigui è necessario determinare il loro si- 
gnificato apponendovi qualche aggiunto, o dichiarazione di 
ciò che precisamente intendiamo. Imperocché molti errori e 
molte quistioni fra gli uomini nascono appunto dall’uso vago 
e inconsiderato dei vocaboli equivoci. 

Simile confusione d’ idee , ed errori vien prodotta dai 
sinonimi , e dalle voci generali in cambio delle particolari, 
e singolari. Su queste ultime così saviamente ragiona il della 
Casa cit. 1. « Ancora vogliono esser parole , il più che si 
» può, appropriate a quello, che altri vuol dimostrare; e 
» meno che si può comuni ad altre cose. Perciocché così 
» pare, che le cose istesse si rechino in mezzo; e che elle 
» si mostrino , non con le parole , ma con esso il dito. E 
» perciò più acconciamente diremo , riconosciuto alle fat- 
» tezze , che alla figura o all’ immagine : e meglio rappre- 
» sentò Dante la cosa, quando e’ disse : 

Che li pesi 

Fan così cigolar le lor bilance 
» che s’ egli avesse detto o stridere , o far romore. E più 
» singolare è il dire il ribrezzo della quartana, che se noi 
» dicessimo il freddo ; e la carne soverchio grassa stucca , 
» che se noi dicessimo sazia ; e sciorinare i panni , e non 
» ispandere ; e i moncherini, e non le braccia mozze j e all’orlo 
» dell’acqua d’un fosso 

Stan li ranocchi pur col muso fuori, 

» e non colla bocca: i quali tutti sono vocaboli di singolare 
» significazione». 

Finalmente la principale cagione del parlare inesatto si 
é l’uso dei sinonimi. Diconsi sinonimi quei vocaboli i quali 


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sebbene esprimano la medesima idea , pur ciascuno di essi 
la esprime sotto aspetto diverso, variando per qualche qua- 
lità accessoria , che forma la loro distinzione. Eccone un 
bell’esempio, che prendo da Paolo Costa. Cavallo, corridore, 
destriero, palafreno, poledro, rozza, sono voci istituite a si- 
gnificare il medesimo animale, ma ognuna differisce dall’al- 
tra. Cavallo denota la qualità della specie; corridore la par- 
ticolarità d’esser veloce ; destriero ricorda l’uso di menare 
il cavallo a mano destra; palafreno quello di frenarlo colla 
mano; poledro la qualità d’esser giovane; rozza quello d’esscr 
vecchio c disadatto. 

Cosi tutus e securus spesso si confondono , e pure Se- 
neca disse: Tuta sedera esse possunt , secura non possunt. 
Poiché tutus è chi stà fuor di pericolo; securus chi è senza 
timore , senza cura e inquietudine. E Cicerone disse « Ut 
» scias, eum non a me diligi solum, veruni etiam amari , 
» ob eam rem haec tibi scribo»: ed anche ad Att. 1. 14. 
ep. 20. « Quis erat qui putarct ad eum amorem , quem 
» erga te habeam, posse aliquid accedere ? Tantum acccs- 
» sit, ut mihi nunc denique amare videar, antea dilexisse ». 
Amare esprime la naturale consonanza e inclinazione della 
volontà verso un oggetto appreso^ come conveniente c buono: 
diligere esprime un affezzione nata da riflessione , onde ex 
multis eligitur unum. Quello è più veemente c stabile, que- 
sto é più temperato, e più facilmente variabile. Quindi an- 
che la differenza dei vocaboli amico, e diletto. 

I vocaboli gratus e iocundus prcndonsi da taluni per 
sinonimi; ma Cicerone li distingue, dicendo: « Ista veritas, 
» ctiamsi iocunda non est, mihi lamen grata est » ad Att. 
1. 3. ep. 66. E rettamente , perciocché una verità , e no- 
vella, ancorché dolorosa, ma che sia utile a sapersi, ci è a 
grado; gioconda poi dicesi quella verità e novella che eccita 
in noi la gioia. 

II vocabolo facinus, se si usa solo, significa un misfatto, 
come anche prendesi sempre in mala parte facinorosa. Ma 


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aggiungendo a facinus un epiteto, si prende in buona o in 
mala parte. Onde Cicerone disse: Facinus praeclarissirnum, 
pulckcrrimum, rectissimum - j all’incontro: Scelesturn ac ne- 
farium facinus. 

Socordia e desidia indicano ambedue il vizio della pi- 
grizia e negligenza: ma desidia, derivata da sedeo , indica 
1’ effetto prodotto dalla pigrizia nel corpo della inazione e 
inerzia. Socordia, 6 socors, ovvero secors oppongonsi ai vo- 
caboli industria , industrius. Socors derivasi da cor , quasi 
sine corde, senza animo, senza cura e sollecitudine. Tacito 
dice socors futuri, non curante del futuro : e il medesimo: 
Languescet alioqui industria, intendetur socordia. Quindi può 
dirsi col Valla: Socordia est inertia animi , desidia autem 
corporis. ec. ec. 

Per avvezzarsi poi a ben distinguere il significato dei 
diversi sinonimi, può consultarsi il Grassi : Saggio dei sino- 
nimi italiani, e il Menage « Etimologie italiane »: e per la 
lingua latina II Gellio, Noctes atticae, il Vossio Etimologie, 
ed altri. 

Quanto poi a discernere il proprio valore delle parti- 
celle, che danno tanta chiarezza e forza al discorso può con- 
sultarsi 1’ opuscolo del Turscllini riguardo alle latine, e per 
le italiane il Cinonio ordinato dal Marc. Puoti. 

In generale poi affinchè le parole e le frasi , che vo- 
gliamo usare sieno proprie esclusivamente della lingua in 
cui parliamo e scriviamo, e sieno tutte di ottimo metallo, 
e adoperate nel loro proprio e nativo significato, la regola 
primaria si è lo studio diligente e assiduo degli autori clas- 
sici, spiegandoli, analizzandoli, e notando accuratamente il 
distinto c singoiar valore delle parole e delle frasi e l’op- 
portunità d’usarle. Così insegna Cicerone De Orai. Ili 10. 
« Sed usitatis (vocabulis) ita poterit uti, lcctissimis ut uta- 
» tur , is qui in veteribus sit scriptis studiose et inullum 
» volut a lus ». 


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CAPITOLO II. 

DELLA UNIONE LOGICA DELLE PAROLE. 

L’unione logica delle parole, non é qualsivoglia gruppo 
di parole comunque ammassate insieme , ma bensì quella 
unione che forma un senso completo. 

Ora l’unione delle parole atta a formare un senso com- 
pleto può essere in due modi, o in una proposizione posta 
isolatamente, o in molte proposizioni tra loro collegato per 
modo da comporne un intero discorso. E però prima parle- 
remo della natura e proprietà di una sola proposizione, quindi 
del modo d’unire logicamente insieme più proposizioni. 

ARTICOLO I. 

Dell’unione logica considerata in una sola proposizione. 

Siccome le proposizioni possono essere o semplici , » 
composte ; perciò è cosa conveniente , che diciamo separa- 
tamente della natura e proprietà delle unc e delle altre. Sia 
dunque 

§. I. Della natura e delle proprietà essenziali a qualsi- 
voglia proposizione semplice. 

La proposizione è un giudizio della mente espresso colle 
parole, o sia la proposizione è quell’unione di parole, con 
cui affermiamo o neghiamo qualche cosa, come dicendo : la 
rosa è odorosa; le bestie non sono ragionevoli. E però le parti 
essenziali a qualunque semplice proposizione sono tre : l.° il 
nome sostantivo (come negli esempi addotti è la rosa e le 
bestie) che dicesi soggetto della proposizione : 2.° l’aggettivo 
(odorosa e irragionevole) , che dicesi il predicato. 3.° il verbo 
essere, che dicesi copula perchè indica 1’ unione e la con- 
venienza, ovvero colla negativa non nega l’unione e la con- 
venienza del soggetto col predicalo. 




27 

Ciascun altro verbo poi di modo finito esprime anch’esso 
una proposizione completa. Imperciocché ciascun verbo di 
modo finito ha sempre espresso o sottinteso il nome che lo 
regge, che costituisce il soggetto della proposizione: il verbo 
poi, affermando o negando qualche cosa, contiene in sè la 
copula e il predicato : per es. Amo equivale ad io sono amante: 
rosa olet, vale rosa est olens : la rosa è odorosa. 

Adunque tante sono le proposizioni espresse e complete 
in un discorso, quanti sono i verbi di modo finito, che vi 
si contengono. 

Dico i verbi di modo finito, perchè l’ infinito de’ verbi 
si considera come un nome sostantivo o aggettivo. Ma in 
quanto ha la significazione del verbo, contiene egli ancora 
in sè una proposizione implicita , la quale in italiano, risol- 
vendo l’ infinito col che , diviene una proposizione espressa 
in tutte le sue parti essenziali : per esempio : io veggo il 
sole nascere, può risolversi in due, dicendo : io veggo, che il 
sole nasce. 

Or le proposizioni, che hanno un solo soggetto, un solo 
predicato c la copula , sono semplici. Ma nulla toglie alla 
semplicità della proposizione , se , oltre le sue parti essen- 
ziali, sianvi altri vocaboli, come aggettivi, avverbi, o altri 
tasi secondari, che servano a dichiarar meglio o il soggetto 
o il predicato, o la loro convenienza. Come p. es. dicendo 

10 amo ardentemente lo studio delle belle lettere. La rosa nella 
bella stagione di primavera è a tutti di gratissimo odore. 

§. II. Delle proposizioni composte. 

Dicesi proposizione composta quella, in cui si uniscono 
insieme due o più proposizioni per modo , che una sia la 
principale, le altre aggiungansi ad essa, come subalterne, le 
quali eziandio servono a meglio dichiarare o il soggetto, o 

11 predicato o la copula della proposizione principale. Eccone 
gli esempi. 

l.° Esempio di proposizione subalterna che serve al sog- 
getto della principale. Pietro, il quale rinnegò G. C. fu dal 


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D. Maestro fatto capo della sua chiesa. La proposizion prin- 
cipale é : Pietro fu fatto capo della chiesa : la proposizione 
subalterna : il quale rinnegò G. C. serve al soggetto della 
principale ; perciocché dichiara l’ indegnità di Pietro, d’onde 
meglio apparisce la somma benignità del D. Maestro nell’esal- 
tarlo al più sublime grado della sua chiesa. 

2. ° Esempio di proposizione subalterna, che vale ad in- 
dicare il modo e la ragione dell’unione fra il soggetto c il 
predicato della proposizione principale : 

Inops, potentem dum vult imitari , perit. 

Il povero va in rovina, quando vuole imitare il ricco. La 
proposizione principale è : inops perit ; il povero va in rovi- 
na ; la secondaria: dum vult imitari potentem, determina in 
qual caso, e in qual circostanza il povero vada in rovina (1). 

3. ° Esempio di proposizione subalterna che serve al pre- 
dicato della principale. 

Vidi ’l maestro di color che sanno 
Seder tra filosofica famiglia. 

Questi versi di Dante (Infer. IV. 131.) sono una pro- 
posizione composta, che equivale a questa : vidi Aristotele se- 
duto tra filosofi ; e però la proposizione secondaria esplicita, 
indicata dal verbo finito, sanno, c l’altra implicita, indicata 
dal verbo infinito, sedere (cioè che sedeva), servono ambedue 
al predicato della proposizione principale suddetta, 

Vi sono anche delle proposizioni composte, nelle quali non 
vi ha veruna proposizione secondaria ; ma hanno in sé o più 
soggetti, o più predicati, uniti insieme colle particelle o co- 
pulative, o disgiuntive : come dicendo Andrea e Giovanni e 
Pietro furono i primi discepoli di G. C., che direbbesi pro- 
posizione copulativa : c quest’altra : un verbo è o attivo , o 


(1) Di questa fatta sono tutte le proposizioni condizionali, e le causali-. 
nelle prime la proposizione subalterna è preceduta dalla particella condizionale ri, 
se ; nelle seconde dalla particella causale firia, o da altra simile: e le unc c le 
altre danno ragione dell' unione del soggetto col predicalo. 


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passivo, o neutro; che direbbesi proposizione disgiuntiva. Di- 
consi poi composte siffatte proposizioni, perchè ciascuna equi- 
vale a tante distinte proposizioni, quanti sono i soggetti ov- 
vero i predicati. 


ARTICOLO II. 

Dell’unione logica delle proposizioni 
in un discorso continuato. 

L’unione logica di varie proposizioni fra loro può farsi 
in due modi o per apposizione, o per deduzione, e però ne 
diremo in due distinti paragrafi. 

§. I. Dell’ unione logica delle proposizioni fatta per ap- 
posizione. 

L’unione logica di varie proposizioni fatta per apposi- 
zione è quella, ove recansi successivamente le proposizioni 
atte a descrivere e dichiarare le parti costituenti un ogget- 
to, o i vari avvenimenti di un fatto, a fine di darne un idea 
giusta e adequata. A modo d’esempio la descrizione di un 
tempio, di un bosco, di una regione come quella di Cesare (1. 1. 
de B. G). Gallia est omnis divisa in partes tres: quarum unam 
incolunt Belgae, aliatn Aquilani, tertiam, qui ipsorum lingua 
Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, 
legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flu- 
men, a Belgis Matrona et Sequana dividit ec. Lo stesso di- 
casi di qualsivoglia descrizione di cose , o di qualsivoglia 
narrazione di avvenimenti istorici o favolosi , nei quali le 
proposizioni unite per apposizione o descrivendo le parti co- 
esistenti di un oggetto, o gli avvenimenti successivi di un 
fatto, tutte servono a dare l’idea vera e completa dell’og- 
getto medesimo, o del fatto. E però cotale unione di pro- 
posizioni per apposizione meritamente appellasi unione logi- 
ca, cioè razionale. 


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30 


§. II. Dell’ unione logica di varie proposizioni fatta per 
deduzione. 

Cotesta unione delle proposizioni per deduzione è quella, 
nella quale rappresentasi la più nobile operazione dell’ in- 
telletto umano, cioè il raziocinio. E però per intendere bene 
ed esprimere colle proposizioni, come conviensi, una siffatta 
unione logica, egli è necessario dichiarare almeno in gene- 
rale che cosa sia raziocinio. 

Ora per intender bene in che esso consista, si consideri, 
come quando taluno vuol sapere la verità di qualche cosa, 
ohe ignora, o che dubita se sia vera o no, ne dimanda il 
perchè , cioè a dire, dimanda una ragione certa ed evidente, 
la quale gli serva come di lume a fargli discernere e disco- 
prire la verità della cosa, che era a lui ignota, ovvero in- 
certa. 

Ora quella verità certa ed evidente , che ne fa cono- 
scere un altra prima ignota o incerta, dicesi ragione, o ar- 
gomento. L’operazione poi che fa l’intelletto, quando da una 
verità certa e ben nota ne deduce un altra prima ignota o 
non ancora certa, dicesi raziocinio, o anche argomentazione. 
Benché sotto il nome di argomentazione piuttosto intendasi 
il raziocinio della mente quando viene espresso colle parole, 
o sia con distinte proposizioni. 

Dalle quali cose chiaro apparisce, come il raziocinio o 
l’argomentazione componesi almeno di due giudizi, o sia di 
due proposizioni ; una che esprime la verità certa c nota; 
l’altra che esprime la verità ricercata, che da quella dedu- 
cesi, come per es. vedendo da un tal luogo apparire il fumo ; 
(ecco la verità nota) tosto concludiamo : dunque vi è sotto 
il fuoco. Ovvero se un viaggiatore approdando in un isola 
deserta, s’ imbatte a caso in una croce ivi inalberata, e in 
altri oggetti sacri, come corone, sepolcri con iscrizioni cri- 
stiane , chiamando egli i compagni dice loro ; qui vi sono 
questi oggetti, che sono propri solamente del cristianesimo; 
dunque o vi sono stati, o vi sono tuttora dei cristiani. Si- 


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31 

milmentc vedendo taluno un uomo disteso in terra, pallido, 
senza moto, senza respiro, lo crederà probabilmente morto; 
ma appressandosi a lui, e ponendogli la mano sul lato man- 
co , e sentendo che gli palpita ancora il cuore ; conclude 
subito dicendo : Egli é vivo : perchè gli palpita il cuore. 

Ma sebbene talvolta bastino per un raziocinio due sole 
proposizioni ; pure più comunemente il raziocinio si com- 
pone di tre giudizi, c però si enuncia con tre proposizioni, 
che alcune volte è necessario esprimerle tutte e tre, altre 
volte se ne lascia una, sottintendendola, come a tutti no- 
tissima: così nell’ultimo esempio addotto: la proposizione a 
tutti notissima , si è questa , che l’ uomo vive fino a tanto 
che gli palpita il cuore, (ch’è il principio della vita animale 
come la costante esperienza a tutti dimostra): e perciò ba- 
stava dire, che a quell’uomo giacente gli palpitava tuttora 
il cuore : perché ognun potesse concludere che ancora era 
vivo. 

In ciascuno dei predetti raziocini, basta un solo perchè 
o sia un solo argomento; a fine di conoscere con evidenza 
la verità che prima ignoravasi. Ma spesse volte interviene, 
che per iscoprire una tal verità vi bisogna una serie di ar- 
gomenti, che successivamente uno dia lume all’altro, finché 
giungasi all’ullima conseguenza cercata. Per cagion d’esem- 
pio; volendo provare come il sonno porta la povertà, così 
ragiona il P. Segneri (Manna dell’anim. Luglio 1.) dicendo: 
» il sonno porta la pigrizia; la pigrizia porta l’ozio; l’ozio 
» porta la trascuraggine; la trascuraggine porta la povertà. 
» È questa una catena di mali tra loro sì intrecciati, e sì 
» inseparabili, che il Savio per ispedirsene prestamente, tra- 
» passa dal primo all’ultimo, e dice tosto. Noli diligere to- 
ri mnum, ne te aegestas opprimati). 

Similmente nei Fioretti di S. Francesco, ove rccansi i 
detti notabili di Fr. Egidio al capitolo del ben parlare e del 
male, si dimostra, come il parlare delle virtù porla ad al- 
tissimo grado di perfezione ec. dicendo: « Quando alcuna 


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» volta li buoni uomini spirituali sono congregati a ragio- 
» nare insieme , sempre dovrebbono parlare della bellezza 
» delle virtudi, acciocché più piacessero le virtudi, c più 
» si dilettassero in esse: imperocché dilettandosi e piacen- 
» dosi nelle dette virtudi , più si eserciterebbono in esse ; 
» ed esercitandosi in esse, perverrebbono in maggior amore 
» di loro , e per quello amore , e per l’esercizio continuo 
» e per lo piacimento delle virtudi, sempre salirebbono in 
» più fervente amore di Dio, e in più alto stato dell’anima; 
» per la qual cagione gli sarebbono concedute dal Signore 
» più doni e più grazie divine. Quanto l’uomo è più ten- 
» tato, tanto più gli è bisogno parlare delle sante virtudi: 
» imperocché come spesse volte per lo vile favellare delli 
» vizi, l’uomo leggermente cade nelle operazioni viziose; e 
» così molle volte per lo ragionamento delle virtù, legger- 
» mente 1’ uomo è condotto e posto nelle sante operazioni 
» delle virtudi ». 

Adunque l’unione logica delle proposizioni fatta per de- 
duzione si è quella che rappresenta uno o più raziocini in- 
sieme collegati. In quanto poi alla diversa natura dei ra- 
ziocini , ed alla diversa forma , che può loro darsi , se ne 
parlerà più opportunamente nel terzo libro della invenzione. 

Qui solo aggiungerò, come per la retta unione logica 
tanto dei vocaboli da formarne una proposizione , quanto 
delle proposizioni da collegarsi insieme , di somma impor- 
tanza si è conoscere il vero valore delle particelle della lin- 
gua; altre indicative o qualificative, altre congiuntive o di- 
sgiuntive e avversative; altre preordinative del discorso, al- 
tre còndizionali, altre causali, altre illative ec. 

Il saper adoperare con proprietà e opportunità cotali 
particelle , egli è opera di gran momento. Imperocché sic- 
come le molli commettiture delle ossa, i ligamenti, le car- 
tillagini, i nervi, e tanti altri piccoli amminicoli, servono 
con mirabile artifìcio a congiungerc, a dar vigore, moto, e 
regolare proporzione ai musculi , e alle membra del corpo 


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33 

umano ; così le predette particelle usate a dovere danno 
l’unione, l’ impasto, il vigore, il moto e la vita a tutto quanto 
il discorso. 

E però debbono i giovani studiosi porre tutta la loro 
cura per conoscerne bene il valore, e l’uso .opportuno. Su 
di che, non so assegnar loro altra regola migliore, se non 
di studiare attentamente negli autori classici il proprio loro 
significato e il modo d’adoperarle : nel comporre poi consul- 
tare continuamente i due preziosi opuscoli citati al fine del 
precedente capitolo, quello cioè d’ Orazio Tursellini per le 
particelle della lingua latina , c quello del Ginonio ridotto 
dal Puoti per le italiane. 

CAPITOLO HI. 

BELL’ UNIONE ARMONICA DELLE PAROLE DETTA DAGLI ANTICHI 
1UNCTURA ET NVMERVS. 

Come nella musica le ragioni principali deH’armonioso 
concerto sono l’accordo delle voci, e la divisione de’ tempi 
magistralmente numerati e fra lor compartiti ; cosi i mae- 
stri dell’ arte rettorica , parlando dell’ armonia propria del 
discorso, hanno distinto due cose, da essi nominate iunctura 
et nutnerus. 

Su di che molto dotte e sottili ricerche furon fatte 
da’ classici scrittori , e chi avesse di tal cosa brama , può 
leggere le opere di Cicerone, di Quintiliano , e di Dionigi 
d’ Alessandria. Noi ci contenteremo di alcune pratiche consi- 
derazioni, atte alla capacità e all’uso dei giovanetti. 

Divideremo pertanto questo capitolo in tre articoli, nel 
l.° parleremo deH’armonia in generale di lutto il discorso; 
nel 2.° della forma e misura delle sentenze foggiate in pe- 
riodi; nel 3.® delle proposizioni riunite per incisi. 


3 


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ARTICOLO I. 


Dell’armonia in generale di tutto il discorso. 

£ poiché , al dir di Quintiliano , nulla può penetrar» 
nel cuore, se nell’orecchio, che è come l’ ingresso, ritrova 
subito intoppo; perciò noteremo in prima quei vizi, che nella 
scelta, nell’unione e scompartimento de’ vocaboli vuoisi cau- 
tamente evitare. Or tali vizi possono essere di due sorte , 
o per difetto o per eccesso d’armonia. Per difetto sono vi- 
ziose quelle elocuzioni, che come ricscon difficili a pronun- 
ziarsi, così sono aspre e ingrate all’udito. 

E però in l.° luogo si è Io scontro di consonanti spe- 
cialmente doppie, che produce un suono aspro; come: felix 
rex Xerxes; urbs Zacynthos. 

2. ° Pel concorso frequente di vocali si ha un disgu- 
stoso iato, come 

Baccae aè'neae amoenissimae impendebant. 

3. ° La soverchia ripetizione della stessa parola , o di 
parole di simile struttura e suono produce quella cantilena, 
che dai Greci dicesi cacofonia come quel verso . . . 

0 Ti te tute Tati tibi tanta tyramne tulisti 
e quell’altro . . . 

Quidquam quisquam cuiquam, quod evenerit, negai 
Questi e simili modi disarmonici sono al tutto da evitare, 
meno che colla stessa asprezza del suono voglia taluno espri- 
mere qualche duro e spiacevole sentimento: ovvero se ciò 
facciasi per ironia , come non di rado usò Plauto: per es. 
Ego qui tuo moerore macerar, marcesco, consenesco et tabe- 
sco miser. 

Ma quantunque i vocaboli sieno armonicamente costrutti 
e fra loro collegati, pure si può facilmente cadere in un 
altro spiacevole difetto, in quello cioè che dicesi monotonia, 
servando sempre lo stesso tono, la stessa nota c misura. 


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35 

La qual cosa anziché i’ attenzione concilia potentemente il 
sonno degli uditori. 

All’incontro poi si può mancar per eccesso, o sia pel 
troppo studio nell’ armonizzare il discorso : per modo che 
taluni vengono anche in prosa a formarvi dei versi, il che 
dai maestri dell’arte è riputato grave errore (Cic. Orator20): 
e tanta cura poneva in ciò Cicerone, che eziandio nel ri- 
portare qualche tratto di poeti soleva spesso frapporvi altre 
parole, per toglier via il suono dei versi. Così prò Murae- 
na 14 dice. « Etenim ut ait ingcniosus poeta et auctor val- 
» de bonus, praeliis promulgati pellitur e medio, non so- 
» lum isla vestra verbosa simulatio prudenliac ; sed eliam 
» ipsa illa domina rerum , sapientia. Vi geritur res: sper- 
ai nitur orator, non solum odiosus in dicendo, veruni etiam 
» bonus: horridus miles amatur: vestrum vero studium to- 
» tum iacet. Non ex iure manu eonsertumj sed magis ferro, 
» inquii, rem repetunt » (1). 

Inoltre poi pel soverchio studio dell’ armonia , cadesi 
nella cantilena affettata, nel tono declamatorio e manierato: 
e si dà a conoscere, che l’oratore sia più inteso a dilettare 
le orecchie col suono armonioso dei periodi, che ad istruire 
la mente e muover gli affetti degli uditori. 

E però diceva Quintiliano. Io vorrei che il componi- 
mento fosse piuttosto duro ed aspro, che effemminato c sner- 
vato , com’ è presso molti. Laonde alcune parti , che sono 
legale, debbonsi a bella posta in certo modo slegare, per- 
chè non appaiano lavorate con troppo studio: nè tralasciar 
si dee mai alcun vocabolo acconcio e significante per ser- 
vire alla piacevolezza del suono. (Instit. 1. IX. c. 4.) 

(1) I versi di Ennio sono i seguenti. 

Pellitur e medio sapientia : vi geritur res 
Spernitur orator bonus : Iwrridu miles amatur ; 

Non ex iure manu conserlum, sed mage ferro 
Rem repetunt. 


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36 


Rimossi adunque cotesti vizi, che o per difetto o per 
eccesso corromperebbon l’armonioso accordo delle voci, già 
si sarà fatto un gran passo. A perfezionarsi poi in fatto 
di armonia, più che le considerazioni e i precetti, gioverà, 
come in ogn’altra cosa , cosi anche in questa , la continua 
lettura de’ classici scrittori. 

Pur tuttavia, parmi cosa utile, porre qui brevemente 
alcune massime, c regole che posson servirci di guida. 

1. ® Il tono, l’accordo delle voci, il numero del discorso, 
come ogn’altra cosa dettata dall’arte rcttorica , servir dee 
unicamente a meglio esprimere il concetto e sentimento del- 
l’animo. 

2. ® L’armonia del discorso, sia in pròsa, sia in versi, 
dev’essere adattata al genere d’argomento che trattasi, all’ in- 
dole, e alle circostanze di chi parla e di chi ascolta: altra 
armonia richiedendosi in un tema lieto e tranquillo , altra 
in uno triste, c impetuoso: altra ne richiedon le grandi ora- 
zioni, altra le narrazioni, e i discorsi didascalici, altra un 
tema epico o tragico, altra una novella, o un canto pasto- 
rale ec. 

3. ® Essendo la musica il linguaggio delle passioni niuno 
studio dee apparire, ma il tono e l’armonioso accordo delle 
voci nascere e scorrere spontaneo dal sentimento di chi parla 
o scrive, e così il suono, e l’armonia stessa ecciterà in al- 
trui, simili sentimenti. 

A queste massime poi gioverà aggiungere le seguenti 
considerazioni, sulla natura c combinazione dei toni corri- 
spondenti ai concetti e sentimenti dell’animo nostro. 

Le parole per verità sono quelle voci articolate, che per 
la libera convenzione degli uomini furon determinate a si- 
gnificare le idee della nostra mente, e gli affetti dell’animo 
nostro. E però sono desse generalmente diverse nelle diverse 
lingue; come per es. piacere e dolore diconsi dai Greci ijSsvjj 
xa t Xvjtì j; sole, terra, mare ijXtsj , yi«, SzXxaax, e così delle 
altre. 


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37 

Pur tuttavia (ponendo da parte le interiezioni, che sono 
segni naturali, e naturali espressioni delle passioni) in qual- 
sivoglia lingua havvi delle voci, che imitano i suoni natu- 
rali, c però valgono ad eccitarci le stesse idee, che gli og- 
getti esterni in noi producono. Queste sono tanto le parole, 
che imitano le voci istintive e le grida degli animali, come 
belato, mugito, nitrito, fischio, rugito, ululato ; quanto quelle 
che imitano i suoni di alcuni effetti più strepitosi di natura, 
come rimbombo, scroscio, tremore. 

E come poi osserva il Bembo, per la varia mescolanza 
delle vocali e delle consonanti, si hanno voci sciolte, langui- 
de, dense, aride, morbide, riscrrale, tarde, mutole, rotte, 
impedite, scorrevoli e strepitanti, le quali o sole, o acconcia- 
mente fra loro armonizzate, col solo suono esprimono mara- 
vigliosamente le cose. 

In generale può stabilirsi, che le parole, ove le vocali 
sieno bene scompartite colle consonanti, e vi abbondino vo- 
cali brevi, servono ad esprimer la dolcezza, e la rapidità, 
come il volo di una colomba espresso da Virgilio con un verso 
di cinque piedi dattili. 

Radit iter liquidum, celeres neque commocet alas. 

Al contrario le molle consonanti, c le quantità lunghe, 
servono alla robustezza, alla tardità, al parlar tronco. Cosi 
Virgilio esprime al vivo il lavorar de’ Ciclopi. 

Illi inter sese magna vi brachia tollunt. 

E talvolta gli scrittori , massime poeti , con avveduta 
scelta e accoppiamento di parole han saputo esprimere al vero 
i suoni ed effetti della natura. Per es. quel verso di Virgilio 
Quadrupcdante putrem sonitu quatit ungula campum. 
Anche chi non sa di latino sente lo scalpitar de’ cavalli. E 
in quel Procumbit fiumi bos, pur di Virgilio, odesi il tonfo , 
che fa il bue cadendo estinto. E Lucrezio II. 619 cosi espri- 
me lo strepitoso suonar de’ sacerdoti Galli. 

Tympana tenta tonant palmis : et cymbala circum 

Concava, raucisonoque minantur cornua canta. 


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E Dante con un verso esprime il crudele strazio che fa Cer- 
bero de’ dannati, dicendo: 

Graffia gli spirti gli scuoia ed isquatra. 

Ed a quel verso del medesimo Purg. IX. 

Non rugìo sì, nè si mostrò si aera - Tarpeia 
dice il P. Ant. Cesari. Questo rugìo mi tira in mente quel 
verso di Lucrezio 

Ne tu forte putes scrrac stridentis acerbum - Orrorem. 
Questo si dice dipingere a suon di voci .... avendo allogato 
in mezzo il verso sette r, che fanno proprio sentire quel 
suon rugginoso ed aspro della sega. 

Omero imita il suono delle onde marine che frangonsi 
al lido dicendo : 

Bij d'ày.éuv Ttapà nclu<p\ta t 2oto SaXaffenjj. 

Che anzi taluni poeti han coniato a bella posta delle voci 
di niun significato, ma di suono imitativo di ciò che inten- 
devano esprimere. Così Ennio imitò il suono delle trombe 
guerriere, dicendo 

Cum tuba terribili sonitu taratantara dixit. 

E il Buonarroti nella fiera esprime il suono del violoncello 
col zon zon liron liron. Ed Aristofane il gracchiar delle rane 
con BpaxÉXS? xsa£ xca|. Ma siffatta licenza di foggiar nuove 
voci meramente imitative de’ suoni naturali è da lasciarsi ai 
poeti. 

ARTICOLO II. 

Della forma armoniosa dei periodi. 

L’armonia come s’ è dianzi detto , riguarda due cose : 
l.° l’accordo delle voci o simultanee o successive: 2.° la 
misura c lo scompartimento del tempo. Essendosi nell arti- 
colo precedente parlato dell’accordo armonico dei vocaboli, 
resta che in questo parliamo della mjsura c scompartimento 
del tempo. 


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39 

Noi pertanto considereremo la misura e scompartimento 
del tempo nelle sentenze foggiate in forma di periodi, che 
dà il tempo largo posato e grandioso; e nella forma delle 
sentenze per brevi e tronchi incisi , che produce il tempo 
stretto e spezzato. Dal contemperare poi insieme questi op- 
posti tempi ne risulta il tempo medio, equabile, e diversa- 
mente variato. 

§. I. Che cosa sia periodo e quante specie ve n’abbia , 

Il periodo è una forma di dire armonica e ben propor- 
zionata esprimente a colpo d’occhio un concetto della mente 
completo. E più distintamente secondo Aristotele « Periodus 
» est oratio, quae ex se proportionatam habet magnitudinem 
» apto principio ac fine conclusam, quaeque uno intuitucon- 
» cipi possi t , absolutam scntentiam continens ». Rhetor I. 
III. 57. 58. Aé'yaa di nzptodcv lyjsao.v ùpyyv y.àt teAsutvjv 
xa3’ aimjv x«t [xéyùog èvoifasmov... oet di xr,v n spiedo) x«{ 
xy dcexvòioc xsxsXetàSaa xaì [xrj StaxoVrrsaSat. 

Siccome poi una tal sentenza o concetto della mente 
può risultare ed esprimersi o da una o da più proposizioni; 
perciò nel primo caso il periodo è semplice, e come lo no- 
mina lo stesso Aristotele, /LtcvsxuAsv, unimembre ; nel secondo 
caso il periodo è composto di più membri , quante sono le 
distinte proposizioni, che lo compongono, e dicesi periodo 
bimembre , trimembre , quadrimembre , secondo il numero di 
dette proposizioni. 

Adunque il membro del periodo è una proposizione espri- 
mente un senso in sé intero ; che nel periodo semplice , a 
differenza del composto, non è connesso con alcun’altra pro- 
posizione. 

Nel membro del periodo poi può esservi compreso qual- 
che inciso, il quale è una proposizione subalterna, che serve 
ad illustrare o il soggetto o il predicato o la copula della 
proposizion principale, formante il membro periodale. 

Eccone degli esempi : e in prima di periodi unimembri. 
Questa proposizione semplice : una sola notte ha quasi di- 


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strutto il nostro fiorente impero. Cicerone la esprime con un 
magnifico periodo unimembrc, distinto in tre incisi, che tutti 
fan parte delle proposizion principale dichiarandone vie più 
il predicato. Eccolo « Cogitate quantis laboribus fundatum 
» imperium , quanta virtute stabilitam libertatcm , quanta 
» deorum bcnignitate auctas exaggeratasque fortunas una nox 
» pene delerit». Ecco un altro periodo unimembre, preso 
dal Segneri (Manna Gen.II. 3). « Non ti potrà venir caso, 
» nel qual tu, se attentamente ti eserciti a meditar la vita 
» di Cristo, non abbi subito il documento opportuno ». Que- 
sto periodo in sostanza esprime questa sola proposizion prin- 
cipale ; il cristiano ha in Cristo % documenti opportuni : la 
proposizione subalterna non ti potrà venir caso; e l’altra 
se attentamente ti eserciti a meditar la vita di Cristo; sono 
due incisi , che dichiarano le circostanze e la condizione , 
nella quale si avvera la convenienza del soggetto col predi- 
cato della proposizion principale. 

Nei periodi poi di più membri, sebbene ciascun mem- 
bro contenga una proposizione principale, pure il senso dcl- 
l’ intero concetto rimane sospeso nel membro antecedente , 
e si collega e compicsi nel seguente : e però la prima parte 
di cosifalli periodi vien detta dai Greci npczxacg (praeordi- 
natio) derivata tal voce da npo , e w ordino ; e la se- 
conda ancdoGtg redditio, per solatio, composta da ano e Si da[U 
do, che è il compimento del periodo. 

Recherò alcuni esempi di periodi bimembre, trimembre, 
e quadrimembre: e prima di periodo bimembre. Cic. ad Qui- 
rit. post redilum. « Etsi homini nihil est magis optandum, 
» quam prospera aequabilis perpetuaque fortuna secundo sine 
» oflensione cursu : tamen si mihi tranquilla et pacata omnia 
» fuissent, incredibili quadam ac pene divina, qua nunc vc- 
» stro beneficio fruor, laetitiae voluptate caruissem ». 

Il primo membro di questo periodo contiene un senso 
in sé completo, cioè : una fortuna sempre prospera è som- 
mamente desiderabile; ma la voce etsi ne sospende il senti- 


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41 

mento, e va a legarsi col t amen del membro seguente ove 
compiesi tutto il concetto. 

È da notare poi come il secondo membro , formalo 
dalla proposizione condizionata; si mihi tranquilla et pacata 
omnia fuissent , incredibili quadam ac pene divina qua nunc 
cestro beneficio fruor laetitiae voluptate caruissemj contiene 
due proposizioni subalterne o incisi, cioè quella ch’esprime 
la condizione; si mihi tranquilla ec. e l’altra qua nunc cestro 
beneficio fruor, che dichiara meglio il predicalo della pro- 
posizion principale, la quale è : io sarei privo di questa le- 
tizia. 

Esempio di periodo trimembre « Nam cum antea per 
» aetatem huius aucloritatem loci contingere non auderem 
» statueremque nihil huc nisi perfectum ingenio, elabora- 
li tum industria afferri oportere: omne meum tempus ami- 
li corum temporibus transferendum putavi >i Cic. prò Leg. 
Mani!. 

Qui noterò solamente , come i tre distinti sentimenti 
contenuti nei tre membri del periodo, vengono legati colla 
particella cum, che regge e sospende i due primi membri, i 
quali rendon ragione del proponimento fatto da Cicerone di 
dedicarsi tutto a servir gli amici. 

Esempio di periodo quadrimembre , detto anche qua- 
drato Cic. prò A. Caecinna. « Si quantum in agris locis- 
» quo desertis audacia potcst ; tantum in foro atque iu- 
» diciis impudentia valeret : non minus in causa cederet 
» Àulus Caecinna Sextii Albutii impudentiae; quam tum in 
» vi facienda cessit audaciae ». 

I due primi membri qui sono distinti e legati fra loro 
per le voci quantum, tantum ; i due ultimi vengon distinti 
e legati insieme per le voci non minus e la relativa quam: 
quelli formano la prima parte del periodo o la npczaaiv, 
ove il senso riman sospeso; i due ultimi poi formano la se- 
conda parte o sia Vocnoioatv, o ’l compimento del periodo. 


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42 


I periodi che avessero un numero di membri maggiore 
di quattro, di leggieri stancherebbono e la lena del dicitore, 
c l’attenzione dell’uditore; e però miglior consiglio fia l’a- 
stenersene. 

§. II. Regola per la buona formazion dei periodi. 

Regola l. a Sulla giusta misura di tutto il periodo c 
delle sue parti. 

II numero poetico, o sia la misura armonica nei versi 
ha leggi certe c determinate. L’unità di misura in latino é 
il piede. Distinguonsi poi varie specie di piedi, più o meno 
lunghi , e di diverso suono e quantità. Ora cotcste leggi , 
secondo i diversi metri, prescrivono e il numero de’ piedi, 
e la lor qualità , c il posto ove collocarli : come per cs. 
nel verso esametro debbono esservi sei piedi, il penultimo 
dattilo , l’ultimo spondeo, i quattro primi dattili o spondei 
ad arbitrio. E similmente negli altri metri le leggi sono 
determinate. 

Non cosi però in prosa, che anzi è legge del numero 
o misura oratoria (come sopra 6 detto) di evitare al tutto 
la misura, che costituisca i periodi e li suoi membri a fog- 
gia di versi. 

Ma sebbene il numero oratorio sia più libero , non è 
però affatto privo di leggi. Ora la prima legge riguarda la 
giusta misura di tutto il periodo, e la giusta e proporzio- 
nata misura delle sue parti. 

Ed in prima dovendo il periodo contenere un completo 
sentimento che di leggieri comprendasi; richiedcsi conseguen- 
temente una giusta brevità. 

Est brevitate opus, ut currat sententia, neu se 

Impediat verbis lassas onerantibus auree. 

E però in generale tutto ciò che non giova a dar chiarez- 
za e forza al concetto, deesi come inutile e dannoso reci- 
dere. Obstat quidquid non adiuvat. Quinti!. 

Sia per esempio questa proposizione , che è un breve 
c armonioso periodo unimembre. Contento d’aver meritato 


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il trionfo ne ha ricusato l’onore. Colla stessa brevità c vi- 
bratezza mostrasi la magnanimità del riiinto. Ma quanto 
perderebbe egli di forza e di dignità, se vi si aggiungesse 
cosi. « Essendo ben contento e soddisfatto d’ aver colle sue 
» gesta meritato per comun voto il trionfo, ne ha generosa- 
» mente ricusato l’onore ». 

In particolare poi due cose molto giovano alla brevità: 
l.° Le proposizioni implicite come avviene per la regola di 
apposizione, per l’uso dei partecipi e gerundi c per l’abla- 
tivo assoluto: 2.° giova altresì la figura grammaticale detta 
ellissi, cioè quella per la quale logliosi da una sentenza 
qualche vocabolo , che dal contesto facilmente intendesi : 
come Virgilio. Sed vos qui tandem ? (intendi estis); e Cice- 
rone: in Pompeianum cogito, cioè ire; così Di meliora (in- 
tendi faciant ) , Fortuna fortes (cioè adiuvat). E Terenzio : 
Ego illud seduto negare factum (supp. caepi); e il medesimo 
Facile omnes perferre et pati, e Cicerone. Galba autemmul- 
tas similitudines afferre; multa prò aequitate dicere. In que- 
sti e simili esempi intendesi alcun verbo servile caepit, solet, 
potest, debet ec. Ecco un esempio di Cicerone, ove ometlesi 
l’agente il paziente, e due verbi, e la proposizione è molto 
chiara ed elegante. Facilius reperias qui Romam proficiscantur 
quam ego qui Athenas. 

Conviene però con molto maggior cura togliere le pro- 
posizioni inutili, quelle cioè che ripetono la stessa cosa sotto 
lo stesso punto di vista ; e le aliene , che distraggono dal 
concetto principale del periodo. 

Quanto poi alla giusta e proporzionata misura dei mem- 
bri del periodo, la regola si è che nel periodo unimembre 
sta bene una lunghezza maggiore c più grandiosa di quella 
del periodo di più membri : in questo poi i membri non 
debbono esser nè troppo lunghi, che non diasi conveniente 
spazio alla pausa c al riposo; nè troppo brevi e recisi, che 
tolgasi la rotondità del periodo; nè troppo disuguali: impe- 
rocché se taluni membri sieno pieni e rotondi, altri vibrati 


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e concisi , produrrebbesi un modo di dire parte posato c 
sostenuto, parte veloce e cadente. 

Oltre a ciò conviene eziandio attendere alla scelta delle 
parole, ebe sicno di tal forma, e di tal suono, e per modo 
fra loro armonizzate, che mentre dilettano l'orecchio, ser- 
vano colla stessa armonia al sentimento. 

Questa armoniosa grandiosità dei periodi poi deve esser 
varia secondo il vario genere di discorso. Massima sarà nelle 
grandi orazioni , più temperala nei ragionamenti tilosofici , 
nelle narrazioni istoriche ec. 

La 2.° regola riguarda la determinazione ed il colle- 
gamento delle due parti nel periodo di più membri, cioè la 
nporaatg che sospende, e ì’xnodsatg che compie il sentimento. 

Ed in prima] quando nel periodo paragonansi fra loro 
cose simili o dissimili, la predetta sospensione e complemento 
viene naturalmente determinata dalli vocaboli relativi, che 
per lo più sono sicut, ita ; quemadmodum , sic; qualis tali s; 
tam, quam ; cutn, tum ; quantum, tantum; quoties, toties ; 
etsi , t amen ; quamquam , verumtamen; quamvis, nihilominus. 

Lo stesso dicasi delle particelle italiane simili alle pre- 
dette latine. Solo noterò una cosa circa il si e così , e le 
particelle corrispondenti: perchè molti incautamente vi sba- 
gliano. Al si , o cosi posto in principio del periodo , o sia 
usato per la protasi può corrispondere nell 'apodosi o il che 
o il come. Quando il si, o cosi adoprasi in senso di in tal 
guisa, talmente, tanto o sia in senso congiuntivo, allora gli 
corrisponde il che, come presso i Latini è Vita, ut. Per es. 
(g. 10 . 8) « si nelle amorose panie s’ inveschiò , che quasi 
» ad altro pensar non poteva ». Ma quando il si adoprasi 
in senso distributivo o comparativo che corrisponde al latino 
cum, tum; allora o si ripete la particella sì, ovvero le si 
deve dare la particella relativa come, e sarebbe errore ap- 
porvi il che: sia per esempio (g. 5. n. l.°) « Era Cimone , 
» si per la sua forma , e sì per la sua rozzezza , e sì per 
» la nobiltà e ricchezza del padre quasi noto a ciascun del 


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» paese ». Ed anche Fiarnm. 9. I. « M’ era ciò caro ad 
» udire si per colui che il dicea; e si per i ineriti miei». 
Potrebbe in vece del secondo sì usarsi il come , dicendo : 
m’era ciò caro ad udire si per colui che il dicea, come per 
i meriti miei : non però potrebbe usarsi bene il che , di- 
cendo che per i meriti miei. 

Talora poi a far la sospensione nella prima parte del 
periodo , e a collegarla colla seconda , basta una sola par- 
ticella posta a principio. Ciò avviene quando il periodo è 
condizionale, ove la particella sì, se, o altra simile, chiama 
necessariamente il condizionato. Per es. Cic. Pro Archia disse 
« Si res eac , quas gessimus , orbis terrae regionibus defi- 
» niunlur ; cupere debemus , quo manuum nostrarum tela 
» pervencrint, eodem gloriam famamque penetrare ». 

Avviene altresì , che la sospensione della prima parte 
del periodo debba solamente indicarsi a principio senza più, 
allorquando il verbo della prima proposizione pongasi in con- 
giuntivo col cum, ut, o altra simile particella, che sospende 
il senso della prima parte, e chiama il verbo seguente della 
seconda. Può servire d’esempio il periodo trimembre. Cum 
anlea per aetatem cc. di sopra addotto. 

La 3.° regola finalmente riguarda il retto collocamento 
di tutte le parti del periodo. 

La regola generale si è che ciascun vocabolo nelle pro- 
posizioni semplici , c ciascuna proposizione secondaria nelle 
composte, pongasi là dove meglio serva a render chiaro ar 
monioso ed espressivo il periodo. 

E però nelle proposizioni semplici , determinato bene 
il soggetto e il predicato, gli altri nomi aggiunti pongansi 
in modo che chiaro apparisca , a qual dei due termini ri- 
feriscansi. Quanto poi agli avverbi , ad ai casi secondari 
che ne fanno le veci, siccome essi devono indicare il modo 
e la ragione dell’unione fra il soggetto e il predicato, per- 
ciò, sarà cosa ben fatta porli allato ai verbi, cui servono: 
come per es. « Themistocles et de instanlibus verissime in- 


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» dicabai, et de futuris callidissime coniiciebat ». Corn. Nep. 
e Cic. prò Ligar. « Noli obsecro , C. Caesar, simiicut illi 
» gloriae lauderò quam saepissime quaerere (1) ». 

Similmente dee dirsi delle proposizioni composte , che 
la primaria proposizione contenga sotto di sè le secondarie, 
cioè gl’mcm, affinchè quella primeggi, e tenendo sospeso 
il senso lino al fine , lo compia c sigilli. 

Recherò ora uno esempio di pessimo collocamento delle 
parti delle proposizioni. Scrisse Tertulliano. Christus prò 
nobis crucifixus est , idcst unctus: le voci idest unctus sem- 
brano la spiegazione di Crucifixus est: conveniva adunque 
dire Christus , idest unctus , crucifixus est prò nobis. 
Cristo , cioè I’ Unto di Dio , fu per noi crocifisso. Ed ag- 
giungerò due esempi di ottimo collocamento. Uno del Pe- 
trarca. Ma per conoscere tutto il bello , considero , che 
se fingasi , che un anima eletta apparendo dopo la morte 
a taluno gli desse la lieta notizia di esser nella gloria di 
Paradiso , c per fargli in qualche modo intendere la sua 
sorte, dicessegli: io acquistai l’eterna vita quando perdei la 
temporale , e apersi gli occhi alla luce eterna , quando gli 
chiusi alla luce del mondo : questo nobile sentimento, acqui- 
sterebbe cento tanti di bellezza, se quei due paragoni della 
vita e luce temporale coll’ eterna , pongansi come chiaro- 
scuro che faccia meglio risaltare l’ idea principale. Cosi 
appunto (P. II. S. XI) disse Laura apparendo al suo poeta. 


(1) Notisi, come la lingua latina ammette delle trasposizioni, che l’ italiana 
non comporla, come Saltatorem appellai Lu. Muraenam Cato. Multata malir 
liam docuit otiositas. Ma anche la latina negl’ infiniti dei verbi , e nell’unire i 
nomi dello stesso genere numero c caso , deve seguire 1’ ordine semplice come 
l’ italiana per non render falso o dubbioso il senso. Dicendo per es. Cainum , 
scimus, percussisse Abelem, e non inversamente. Un certo uomo (come riferisce 
Quintiliano) nel suo testamento ordinò Statuam aureatn hastam tenenteir.. Da 
ciò nacque il dubbio, se di oro dovesse esser tutta la statua, ovvero la sola asta • 
nel i.° caso conveniva scrivere statuam auream tenentem hastam, nel 2.° sla- 
tuam tenentem auream hastam- 


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Di me non pianger tu eh’ e miei dì fersi 
Morendo eterni; e nell’eterno lume 
Quando mostrai di chiuder, gli occhi apersi. 

Lo stesso dicasi di questo bellissimo periodo unimembre di 
Cicerone, che perderebbe molto di sua bellezza se venisse 
variata la collocazione delle proposizioni subalterne. Così ne- 
gli Off. I. « Philosophandi scientiam concedens multis, quod 
» est oratoris proprium , apte distincte ornateque diccrc , 
n quoniam in eo studio aetatem comsumpsi , si id mihi 
» assumo, videor id meo iure quodammodo vindicare ». 

E non pur solamente riguardo al senso dee procurarsi 
che il periodo vada gradatamente crescendo: ma giova al- 
tresì osservare una simile gradazione nella forma e lunghezza 
materiale dei membri. Al qual proposito così ragiona ret- 
tamente il Blair, dicendo. « Quando il periodo è composto 
» di due membri , il più lungo generalmente è quel che 
» deve conchiudcrc. Di ciò v’ba doppia ragione. I periodi 
» così divisi si pronunzian più facilmente; e quando il mem- 
» bro più breve è posto prima, si tiene a memoria nell’atto di 
» passare al secondo, e più chiaramente si vede la conncssion 
» d’ambeduc. Così il dire: Quando le nostre passioni ci hanno 
» abbandonato ; allora ci applaudiamo colla vana credenza 
» d’averle abbandonate noi stessi. E più grazioso e più chia- 
» ro, che il cominciar colla più lunga parte del periodo. » 

Finalmente molta cura dee porsi nel chiuder bene il 
periodo. Non igitur durum sii (dice Quintiliano) et abru- 
ptum, quo animi velut respirant et rejiciuntur. tìaec est se- 
des orationis, hoc auditor expectat, Aie laus omnis declamai. 

ARTICOLO III. 

Della elocuzione per incisi o sia in modo tronco e vibrato. 

La elocuzione per incisi è quella, ove unisconsi insie- 
me più proposizioni di forma breve, in modo tronco, e vi- 
brato a fine di raccogliere molte cose in poco. 


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48 


Ciò può avvenire o da animo tranquillo , che studiasi 
di communicarc altrui di colpo tutto il suo concetto. Come 
quella celebre epistola di Cesare al Senato Fent, vidi, vici, 
Così la forma delle leggi sacre (Cic. de iegibus). Ad divos 
adeunto caste: qui secus faxit, deus ipse vindex erit ec. Così 
quelle bellissime sentenze d’Orazio I. 1. Ep. 2. fra le quali 
per cs. quella 

Ira furor brevis est: animum rege, qui nisi paret 

Imperai : hunc fraenis, hunc tu compesce catenis. 

Così gli epiloghi che fa per es. Cicerone nelle sue orazioni, 
ove raccoglie in breve tutto il sugo e la forza dell’orazione. 
Così ancora nello stile semplice epistolare non di rado ve- 
desi usato il parlar per incisi. Come Cic. Tibi gratulor; mihi 
gaudeo,tua tueorjetquid agas, et quidquid istic agatur,cer- 
tior peri volo, vale. 

Può in 2.° luogo nascere spontaneo il dir per incisi in un 
animo preso da forte passione, che agogna di sfogarsi e tra- 
sfonderla in altrui. Cum acriter (dice Quintiliano) et instanter, 
pugnanterque est dicendum , membratim caesimque dicemus. 
Come Cic. prò Lig. 10- Erravi : temere feci ; poenitet : ad 
clementiam tuam confugio : delieti veniam peto : ut ignoscas 
oro ec. Similmente quando il medesimo con indegnazione pro- 
rompe (in Pisonem) . Non enirn color iste servilis, non pilosae 
genae, non dentes putridi deceperunt : oculi supercilia vultus 
denique totus, qui sermo quidam tacitus mentis est,hic in frau- 
dem humiles impulit, hic eos quibus eras ignotus decepit, fe- 
fellit, in fraudem induxit. Fauci tua ista lutulenta vitia no- 
ve r am us pauci tarditatem ingenii stuporem debilitatemque 
linguae. 

Giova poi qui in fine notare , come nel discorso fatto 
per incisi possono usarsi due diversi modi, o porre gl’ incisi 
slegati e tronchi, ovvero legarli e distinguerli tutti, appo- 
nendo a ciascuno la particella congiuntiva, o altra simiglien- 
te. Il primo modo esprime bene la rapidità, con cui la mente 
trascorre la serie delle cose per afferrarne tutta insieme. la 


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49 

somma. A modo d’esempio Cesare de B. G. I. VII descrive 
così un fatto d’arme : Nostri, emissis pilis, gladiis rem, ge- 
rani. Repente post tergum equitatus cernitur, cohortes aliae 
appropinquant ; hosles terga vertunt ; fugientibus equites oc- 
currunt, fit magna clades. Qui tutto scorre rapidamente, e 
scorgesi tosto la piena sconfitta de’nimici. 

L’ altro modo poi di unire e distinguer ciascun inciso 
colle congiunzioni serve c a rappresentar le cose rapidamen- 
te , e a farne insieme notare singolarmente le parti. Cosi 

10 stesso Cesare nel L. II. nel riferire un simile fatto d’ar- 
mi, mentre presenta una rapida successione d’avvenimenti, 
volendo pur portar l’attenzione su varii punti dell’azione , 
usa lo stile per incisi apponendovi le congiunzioni, dicendo : 
« His equitibus facile pulsis ac pcrturbatis, incredibili ce- 
» leritate ad ilumen decurrerunt, ut pene uno tempore et 
» ad sylvas et in flamine et iam in manibus nostris hosles 
» viderentur ». 

Dalle cose fin qui discorse chiaramente apparisce, come 

11 modo di dir per incisi può aver luogo in qualsivoglia ge- 
nere di stile. Ed è di molto uso anche nelle grandi orazioni 
il cui carattere è sempre grandioso, numerosa oratio ; ser- 
vendo opportunamente e alla parte narrativa , e per inter- 
rompere e variare la serie dei periodi, e per eccitar gli af- 
fetti, e per epilogare e dar l’ultimo colpo maestro al discorso. 

CAPITOLO IV. 

DELLE FIGURE RETTOKICHE- 

'< Le figure rettorichc in generale sono certi modi e 
» forme di dire di singoiar vivezza ed efficacia, dette per- 
» ciò da Cicerone orationis lumina ». Come appunto il chia- 
roscuro e i punti luminosi sparsi quà e là opportunamente 
dal dipintore producono il mirabile effetto della prospettiva 

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50 

c danno alle cose, alle persone, a tutto il soggetto la forma, 
il moto, la più viva espressione. 

Le figure poi distinguonsi in due classi: altre diconsi 
tropi , altre semplicemente figure. 

ARTICOLO I. 

Dei tropi. 

« I tropi (1) in generale sono quelle figure, ove le pa- 
» role tolgonsi dal significato proprio all’improprio ». Ora 
ciò può acconciamente farsi per tre diversi riguardi; l.° 
per qualche somiglianza o convenienza , che vi ha fra due 
cose: 2.* per dissomiglianza e opposizione : 3.° per una tal 
relazione o legame che siavi fra una cosa e l’altra come fra 
la causa c l’effetto, il tutto e la parte ecc. Quindi tre di- 
verse specie di tropi si hanno. 

§. I. Prima specie di tropi per somiglianza. 

I tropi per somiglianza sono la semplice metafora , o 
la metafora prolungata detta allegoria. 

Della Metafora. 

« La Metafora (2) è quel tropo, ove per la somiglianza 
» che vi è fra due cose, volgesi una parola dal senso pro- 
» prio all’improprio ». E più brevemente: la metafora è un 
traslato per somiglianza : ovvero una similitudine ristretta 
in una parola : per es. Cesare era un fulmine di guerra : 
Cicerone un fiume d’eloquenza. 

Sebbene poi inesauribile sia il fonte onde derivar si 
possono le metafore; pure le più espressive e gaie traggonsi 
in l.° luogo dalle cose che cadono sotto i sensi del gusto, 


(1) r porro; significa mutamento, conversione, trasferimento o traslato, ver- 
bale formato dal perfetto medio terpo ira del verbo rpsjru verto. 

(2) Metafora derivasi da puraf/pu transfero , composto da pura trans e 
fipu fero. 


51 

dell’odorato, del tatto, dell’udito, e massime della vista. 
Onde con molta grazia e vivezza dicesi : dolce amor della 
patria, dolci amici, dolce favellare, spargere odore di virtù 
e di santità: durezza di cuore: c il Conte Ugolino a indi- 
care l’intenso dolore dell'animo suo disse: 

l’ non piangeva, si dentro impietrai. 

Così di taluno di buona o cattiva fama diciamo che bene 
vel male sonat: diciamo anche nero tradimento, anima can- 
dida, e della S. Vergine disse il Petrarca. 

Di questo TEMPESTOSO MARE STELLA. 

In secondo luogo di molta vivezza, grazia ed eviden- 
za son quelle metafore, ove le proprietà degli esseri d’un 
ordine supcriore adattansi a quelli di ordine inferiore, come 
quando alle cose inerti e inanimate s’ attribuisce il moto , 
il sentimento, la vita, il consiglio dicendo a modo d’esem- 
pio: crudele disastro, cieco timore, e con Virgilio 
Uaesit, virgineumque bibit h asta cruorem 
c con Orazio: pontem indignatus Araxes , e di quel leone 
che in vesti vaio disse Dante Inf. I. 

Questi parca che cantra me tenesse 
Con la test’alta e con rabi osa fame, 

Si che parea, che l'aer NE temesse. 

Cicerone prò Ligario alle armi di Tuberone attribuisce il 
senso, l’azione, il consiglio, dicendo « Quid enim, Tubero, 
» districtus ille tuus in acie pharsalica gladius agebat? Cu- 
» ius latus ille mucro petebat ? Qui sensus erat armorum 
» tuorum ? ». 

Tre principali utilità poi si ritraggono dall’uso ben fatto 
delle metafore. l.° Serve talvolta la metafora a coprire con 
un velo di modestia e di urbanità le cose, che espresse con 
voci proprie ecciterebbono idee triste , volgari , disoneste. 
Cosi (dice Orazio Salir. 1. 3.) con blande metafore un padre 
nomina la sconcezza de’ suoi figliuoli 


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52 


Strabonem 

Appellai paetum pater: et pullula, male parvus 
Si cui filius est, ut abortivus fuit olim 
Sisyphus: hunc varum distortis cruribus: illum 
Balbutii scaurum pravis fultum male talis. 

2.° La metafora , per ia similitudine, che in sè contiene , 
dà maggior vivezza, evidenza e grazia al discorso. 3.° Fi- 
nalmente con le immagini di oggetti sensibili e comuni la 
metafora solleva la mente anche a concetti spirituali e su- 
blimi rendendoli facili quasi offerti alia vista e agli altri 
sensi corporei. Così Orazio (imitando Omero L. I. 518) ad 
esprimere come Iddio con un alto di volontà governa il 
mondo, dice di lui: cuncta supercilio moventis. E quella 
metafora di Divid : Caeli enarrant gloriam Dei; e quel- 
l’altra del D. Redentore agli Apostoli: faciam vos fieri pi- 
scatores hominum con somma semplicità ed evidenza in- 
dicano l’infinita sapienza, potenza e bontà di Dio, una nel- 
l’ ordine naturale, l’altra nel soprannaturale. Recherò per 
ultimo la metafora usata da Dante (Parad. XXVII) ad espri- 
mere la bellezza del Paradiso, dicendo: Ciò eh,’ io vedeva mi 
sembrava un Riso dell’univ erso. AI qual luogo il P. Ce- 
sari fa questo comeuto « Questa (dic’egli) è la più grande 
» e piena e magnifica idea ch’io mai m’ avessi del paradiso. 
» Immaginale l’universo con tutte le sue parti, che ride; e 
» sappiate se più avanti vi resti da immaginare di dolce. Il 
» riso s’adopera da’poeti per esprimere la maggior letizia e 
» giocondità , che vi venga da cosa qualunque sia nell’atto 
» delia maggior sua bellezza, e però diciamo che il cielo ride, 
» che ride il mare, che ride l’aprile ecc. Ora raccogliete tutti 
» questi alti di maggior bellezza, con tutti gli altri possibili, 
>» nel maggior grado di perfezione , e ’l piacere , che quindi 
» verrebbe a chi gli gustasse, e avrete un riso dell’universo 
» qual parea a Dante il tripudio c la festa armonizzante 
» de’comprensori. », 


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53 

Dalle quali cose apparisce, come l’uso di cosiffatte me- 
tafore è naturalissimo, c al tutto acconcio per noi, che per 
mezzo dei sensi esterni apprendiamo le cose. Onde giusta- 
mente disse in tal proposito Dante (Parad. IV). 

Così parlar conviensi al vostro ingegno 
Perocché solo da sensato apprende 
Ciò che fa poscia d’ intelletto degno. 

Per questo la Scrittura condiscende 
A vostra facultate, e piedi e mano 
Attribuisce a Dio, ed altro intende. i 

E S. Chiesa con aspetto umano 
Gabbriell’e Michel vi rappresenta, 

E l’altro che Tobbia rifece sano. 

Or le regole per bene usar la metafora riguardano tre 
cose, la chiarezza, la naturalezza e la convenienza. 

1. ° La chiarezza della metafora consiste nell’ evidente 
somiglianza dell’oggetto, onde si prende la metafora coll’og- 
getto al quale vuoisi appropriare. E però difettosa sarebbe 
la metafora, ove fra i due detti termini niuna o leggeris- 
sima somiglianza vi avesse ; o se vi fosse , pure non fosse 
ben nota a quei a cui parliamo. 

2. ° La naturalezza della metafora si è che nasca in 
modo spontaneo dalla forza del concetto, deiraffctto, e dalla 
vivezza di ben ordinata immaginazione, senza apparenza di 
studio, senza esagerazione. E però contro questa regola pec- 
cherebbe, chi un valoroso guerriero nominasselo figliuol del- 
V acciaio ; o il tempestoso figliuol della guerra ec. Tengasi 
dunque il precetto di Cicerone, che dice «Verecunda debet 
» esse transla tio , ut deducta esse in alienum locum , non 
» irruisse; atque ut precario, non vi venisse videatur». 

3. ° La convenienza della metafora consiste in questo , 
che sia bene appropriata, coerente a sè stessa, e che con- 
cordi col senso delle parole, che l’accompagnano. Quindi si 
dirà convenientemente, che il Divin Redentore c il Sole che 


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illumina le menti degli uomini. Ma non così quegli che par- 
lando della morte di lui disse, che sul monte Calvario il Sol 
di giustizia spirò , essendo cosa stranissima immaginare che 
il sole stia e spiri sopra un monte. Nè dirai che Tullio col 
fiume della sua eloquenza infiammava gli animi degli udi- 
tori. E P Ariosto offrendo il suo poema ad Ippolito, per in- 
dicare modestamente la piccolezza del dono, potè ben dire 
Quel eh’ io vi debbo posso di parole 
Pagare in parte , e d’opera d’ inchiostro : 
ma non cosi convenientemente direbbe altri, che l’angelico 
volto di Madonna Laura fu al vivo dipinto collo squisito in- 
chiostro del Petrarca. Sia dunque fermo il precetto di Fabio 
Quintiliano : Quo genere transitionis caeperis hoc fmies. 

Dell’Allegoria (1). 

Suol dirsi comunemente, secondo la forza della parola, 
che « l’allegoria è un discorso col quale una cosa si dice 
ed un’altra simile s’ intende». Ma più precisamente si de- 
finisce così : l’ allegoria è una metafora continuata : si che 
quella similitudine , che la metafora accenna con una sola 
parola, l’allegoria la svolge e l’amplifica. 

Conseguentemente tutto ciò che si è detto della sem- 
plice metafora circa i fonti migliori onde derivarla , circa 
Futilità, e le varie regale per bene adoperarla, tutto egual- 
mente deve appropriarsi all’allegoria. E però non resta che 
addurne degli esempi. 

E una bella metafora il dire che la parola di Dio è un 
seme : ora svolgendola diviene una bellissima allegoria; come 
leggesi nella vita del B. Colombino, c. 21. « Dicca l'umile 
» Giovanni a suoi dilettissimi fratelli : Dio ha seminato in 
» noi seme di buona operazione: e però se questo seme na- 
» sce, cresce e moltiplica, non ci dobbiamo però gloriare; 
» perchè non è nostro , e per noi medesimi non possiamo 

(1) Ij parola allegoria è composta dalle vori a»o;, », o» alias, a, d, 
ed àyopivti* cunriouari, dicere. 


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55 

» fare alcun frutto; ma gloriamoci in Gesù Cristo, il quale 
» è nostra vera gloria: e quanto migliore seme in noi se- 
» minato fosse, e maggior frutto facessimo, tanto più siamo 
» obbligati al seminatore, cioè Iddio, e quanto crescono le 
» opere buone, tanto cresce l’obbligo nostro al buono e gra- 
» zioso Dio: perchè dalia nostra parte non sappiamo se non 
» guastare ». 

Lucrezio (L. IV.) ad esprimere la novità dell’argomento 
che tratta, prende l’ immagine di chi viaggia per vie ignote, 
e la svolge in questa bellissima allegoria, dicendo : 

Avia Pieridum peragro loca nullius ante 
Trita solo ; iuvat integros accedere fontes r 
Atque haurire, iuvatque novos decerpere flores. 
Insignemque meo capiti petere inde coronam, 

Unde prius nulli velarint tempora Musae (1). 

Dante (Purg. X. 121. ec.) contro i superbi, che spreg- 
giando la vera agognano ad una gloria falsa, usa l’allegoria 
del filugello o baco da seta, dicendo 

0 superbi cristiani , miseri lassi , 

Che della vista della mente inferma. 

Fidanza avete ne’ ritrosi passi, 

Non v’accorgete voi che siete vermi 
Nati a formar l’angelica farfalla 
Che vola alla giustizia senza schermi ? 

Di che l’anima vostra in alto galla ? 

Poi siete quasi entomata (2) in difetto 
Siccome vermi in cui formazion falla. 

Cicerone (in Pisonem) sotto l’allegoria d’una nave così 
rappresenta la Repubblica nel tempo del suo consolato « Ne- 
» que tam fui timidus , ut qui in maximis turbinibus ac 
» fluctibus Reipublicae navem gubernassem , salvamque in 

(1) Vedi P imitazione di questo passo fatta da Dante Farad, fi. 

(2) Bacherozzi, insetti non bea formati. 


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56 

» portu collocasscm , fronti* luae nubeculam, aut collegae 
» contaminatilo) spiritimi perborrcscercm. Alios ego vidi ven- 
» tos ; alias pcrspexi animo procellas ; aliis impondenlibus 
» tempestatibus non cessi ; sed unum me prò omnium sa- 
» Iute obtuli». 

§. II. Dei tropi per dissomiglianza e opposizione di due 
cose fra loro. 

Questi tropi, coi quali si dice una cosa per significarne 
un'altra al tutto opposta, sono due l’ ironia , ed il sarcasmo. 

» L’ ironia (1) è un finto discorso, col quale si vuole 
» in modo scherzevole fare intendere una cosa diversa da 
» quella che indicano le parole » : come 0 praeclarum ovium 
cuslodem lupum ! 

Quattro sono le regole principali da osservarsi nell’ iro- 
nia, riguardanti l.° la chiarezza: 2." la materia: 3." il modo: 
4.° il fine. 

1.” E prima quanto alla chiarezza; siccome coll’ironia 
non s’intende nò di occultare le cose, nè di mentire; ma 
di far anzi per mezzo del suo contraposto risplendcre più 
brillante la verità: perciò o dalla evidenza della cosa stessa 
o dalle circostanze , o dalla dichiarazione che se ne faccia 
in fine , deve chiaramente apparire che chi parla o scrive 
intende significare tutto l’opposto di quello che le parole per 
sé indicherebbono. Per es. i fatti a lutti noti danno eviden- 
temente a conoscere l’ ironia usala da un certo poeta riferito 
da Svetonio , colla quale deride il vanto vano di Nerone , 
che si gloriava di essere della stirpe d’ Enea. 

Quis neget Aenaeae magna de stirpe Neronem ? 

Sustulit hic matrem, sustulit ille patrem (2). 

{1} etpoveia dissimulano in oralione, ab cipuv, «voj dissimulale loquens-lh. 
iput dico, vel tip») necto. 

(2) Ognun sa, come Nerone per brutale crudeltà tolse di vita la sua ma- 
dre: Enea per filiale pietà tolse sulle spalle il vecchio Anchise per camparlo dal- 
i’ incendio di Troia 


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57 . 

Similmente evidentissima per sè stessa è l’ ironia, colla 
quale Marziale (L. 2.) deride un tal Paolo, che recitava gli 
altrui versi come suoi, dicendo 

Carmina Paulus etnie, recitat sua carmina Paulus, 

Nam quod emas possis dicere iure tuum. 

Ma quell’ ironia riferita da Cicerone contro un servo 
ladro : Solum esse , cui domi nihil sii nec obsignatum nec 
occlusum : siccome può anche indicare la fedeltà di un buon 
servo; perciò o dal modo di dire, o dalle circostanze, o dal 
proseguimento del discorso converrebbe far apparire il senso 
determinato di chi favella. 

2. ® Quanto alla materia dell’ ironia, questa può essere 
si il bene e il vero, come il male ed il falso : ma circa il 
male è da tenersi la regola che pone Cicerone, dicendo; che 
cioè non possono esser materia di riso e d’ ironia nè l'enormi 
scelleratezze, nè le grandi calamità e miserie : le prime ec- 
citando disgusto e grave sdegno, le altre compassione : ma 
solo i difetti e vizi comuni sì di animo si di corpo (1). 

3, ® Riguardo al modo d’usar l’ironia fa a proposito un 
altra regola che pone Io stesso Cicerone circa l’adoprare il 
faceto e ridicolo (che è appunto la caratteristica propria e 
specifica dell’ironia) cioè evitare il difetto e l’eccesso del 
burlesco , ma temperatamente usarne quanto bisogna. « In 
» quo (dice egli 1. eit.) non modo illud praecipitur, ne quid 
» insulse, sed eliam ne quid perridicule possis. Vilandum 
» est oratori utrumque, ne aut scurrilis iocus sit aut mi- 
» micus . . . Temporis igitur ratio, et ipsius dicacilatis mo- 
ti) Cie. de Orai. « Nec insignis improbità.* et «celere iuncla , nec rursus 

miseria insignis agitala ridclnr. Facinoroso* maiore qnadam vi, quam ridicoli vul- 
nerari volunt, nisi si se forte iactanl. Parcendum est au lem maxime rliarilali homi- 
num ne temere in eos dicas qui d il i guntur. Itaque ea farillime ludunlur , quae 
ncque odio magno, neqtie misericordia maxima digtia sunl. Quamobrem maleries 
omnium ridiculorum est in islis viliis, quae sunt in vita hominum, ncque caro- 
rum ncque ralamitosorum , ncque coroni, qui ob furimi*, ad stipplirium rapiendi 
videnlur; eaque belle agitata ridenlur ». 


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58 

» dcratio et temperanlia, et raritas dictorum dislinguct ora- 
» lorem a se urrà ». 

4.° Ma sopra tutto dee aversi riguardo al fine deli’ iro- 
nia. La retta ironia dev’avere un buon proposito, quale si 
è o l’utilità della persona stessa, che coll’ironia è presa di 
mira, ovvero ciò non potendo, almeno l’utilità altrui. E in 
prima l’utilità della persona stessa, por es. quando un mae- 
stro imita il gesto scomposto, la mala pronunzia, lo sconcio 
modo di dire, o altri difetti del suo scolare, per far sì con 
ironia di fatto e di parole, che esso ridendo e vergognando 
si emendi, come appunto dice Cicerone quorum (scilicet di- 
scipuiorum) vitìa imitantur emendandi causa magislri. Si- 
milmente per umiliare la superbia e millanteria di taluno: qual 
fu l’ ironia di Fabio Massimo, onde represse l’ impudenza di 
Salinatore. Questi vilmente abbandonò ad Annibaie la città 
di Taranto, c rifuggiossi nella rocca; quando poi per con- 
siglio e opera di Massimo fu ritolta la città ad Annibale , 
Salinatore disse impudentemente a Fabio. Mea opera , L. 
Fabi Tarentum recepisti. Certe inquit ridens : Nam nisi tu 
amisisses, nunquam recepissem. 

Di cosiffatto modo scherzevole e lieto dell’ ironia ser- 
vivasi comunemente il padre della filosofia Socrate per cor- 
reggere gli erranti e ricondurli nella via di verità; del quale 
Cicerone de Off. 1. 30. afferma « De Graecis autem duleem 
» et facetum, festivique sermonis, atque in omni ratione si- 
» mulatorem, quem stpavx Graeci nominaverunt, Socratem 
» accepimus » . 

In secondo luogo il fine dell’ ironia si è l’ istruzione 
o la tutela dei buoni colla giusta critica e censura degli 
altrui vizi ed errori. Come per es. Giovenale deride ironi- 
camente la superstizione degli Egiziani dicendo. 

Oppida tota canem venerantur ; nemo Dianam; 

Porrum et Caepe nefas violare , aut frangere morsu, 

0 sanctas gentes, quibus haec nascuntur in hortis 
Numina! 


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59 

Valgonsi anche molto opportunamente dell’ironia i di- 
fensori a tutela dei loro clienti. Citerò due insigni esempi 
di Cicerone, uno l’esordio ironico nell’orazione prò Ligario, 
ove ponsi in ridicolo la sciocchezza dell’accusa, e 1’ impu- 
denza degli accusatori : l’altro nell’ orazione prò Muraena, 
ove a togliere il pregiudizio che cagionava nei giudici l’au- 
torità di Catone suo avversario , Cicerone fa scaltramente 
uso dell’ ironia : e mentre ivi innalza a cielo le virtù di Ca- 
tone, ironicamente censura la filosofia stoica che quei pro- 
fessava, per modo da eccitare le risa e il disprezzo in tutta 
la Curia. E in generale Cicerone considera come sia di molta 
utilità nel difender le cause adoperare acconciamente il di- 
scorso faceto ed ironico, dicendo. 

(De Orat. II. 58). « Est piane Oratoris movere risum, 
» vcl quod ipsa hilaritas benevolentiam conciliatei, per quem 
» excitata est ; vel quod admirantur omnes acumcn uno sae- 
» pe in verbo positum, maxime respondentis, nonnunquam 
» etiam lacessentis : vel quod frangi! advcrsarium, quod im- 
» pedit, quod elevat, quod deterret, quod refutat ; vel quod 
» ipsum oratorem politura esse hominem significat, quod eru-- 
» ditum, quod urbanum, maximeque quod tristitiam ac se- 
» veritatem mitigat, et rclaxat, odiosasque res saepe, quas 
» argumentis dilui non facile est, ioco risuque dissolvit ». 

Del sarcasmo. 

Il sarcasmo è un ironia amara e mordace (1), o sia « il 
» sarcasmo è un finto discorso col quale si vuole in modo 
» amaro e mordace far intendere una cosa opposta a quella 
» che indicano per sé le parole ». Questo può nascere o da 
animo maligno , o da giusto sdegno che temperatamente in 
cuore avvampa. Non è mai lecito con animo maligno scher- 
nire niuno; cioè prendere a diletto la vergogna, che noi 
facciamo altrui, senza prò alcuno. Solo potrà l’oratore o il 


(1) <Tapxa<Tjxis;, ou, o ; irrisio amarulenta a. captalo cameni detrailo; ileiu 
diduclo riclu irrideo. ih. oafì; o-afxo(, v raro, pidpa. 


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60 

poeta riferire l’altrui sarcasmo maligno per mostrare il per- 
verso di lui animo : come quel di Virgilio , ove Turno al 
misero Troiano da lui tralitto e già spirante , con amaris- 
simo scherno insultava, dicendo : 

En agro» , et quam bello , Troiane petisti 
Hesperiam metire iacens. llaec proemia, qui me 
Ferro ausi tentare, ferunt : sic moenia condunt. 

E quell’altro del furibondo Pirro, che ai rimproveri del vec- 
chio Priamo , che sotto i suoi occhi , innanzi all’ ara degli 
dei, ov’ crasi rifuggiato, vcdeasi da lui trucidare barbara- 
mente il suo figliuolo Polite, con ischerno insultante risponde. 
Cui Pyrrhus: referes ergo haec, et nunlius ibis 
Pelidae genitori, llli tnea tristia facta 
Degenercmque neoptolemum narrare memento. 

Aunc morere. 

Ma può talvolta prorompere il sarcasmo da giusto e vivo 
sdegno contro enormi fatti, come Dante Inf. XXVI. 

Godi Firenze poi che se’ sì grande 
Che per mare e per terra batti l’ale 
E per lo ’nferno il tuo nome si spande. 

E il medesimo (Purg. VI. 127. cc.) dopo aver deplo- 
rato universalmente i mali di tutta Italia, volgesi a Firenze 
con questo egregio, ma mordacissimo sarcasmo. 

Fiorenza mia, ben puoi esser contenta 
Di questa digression, che non ti tocca, 

Mercè del popol tuo che si argomenta. 

Molti han giustizia in cor, ma tardi scocca, 

Per non venir senza consiglio all’arco ; 

Ma ’l popol tuo l’ ha in sommo della bocca. 

Molti rifìutan lo comune incarco ; 

Ma ’l popol tuo sollecito risponde 
Senza chiamare ; e grida: io mi sobbarco. 

Or ti fa lieta , che tu hai ben donde: 

Tu ricca, tu con pace, tu con senno. 

S’ io dico ver, l' effetto noi nasconde. 


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Atene e Lacedemona, che fenno 
L’antiche leggi e furon sì civili, 

Fecero al viver bene un picciol cenno 

Verso di te, che fai tanto sottili 
Provvedimenti, eh’ a mezzo novembre 
Non giunge quel che tu d’ottobre fili. 

Quante volte del tempo che rimembre, 

Leggi, monete, offici e costume 
Hai tu mutato e rinnovato membre? 

E se ben ti ricordi, e vedi lume, 

Vedrai te simigliante a quella ’n ferma 
Che non può trovar posa in su le piume , 

Ma con dar volta suo dolore scherma. 

Iddio stesso ad umiliare la stolta presunzione d’Adamo, 
con acerbo sarcasmo rimprovcrollo, dicendo. « Ecce Adam, 
» quasi unus ex nobis factus est, sciens bonum et malum. 
» Nunc ergo ne forte mittat manum suam, et sumat de li- 
» gno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. Et emisit 
» eum Dominus de paradiso voluptatis ». 

Ma cosiffatto genere d’ironia mordace, quantunque muo- 
vasi da diritto zelo , debbesi pur serbare solo alle persone 
di maturo senno e di grande autorità. 

§. III. Dei tropi fatti per certa relazione e legame che 
siavi fra due cose fra loro. 

Quando fra due oggetti, ovvero fra le parti dello stesso 
oggetto, scorgesi uno stretto legame o relazione, sovente per 
eleganza, e per maggior vivezza d’esprimere, nominiamo uno 
per intendere l’altro suo termine correlativo. Questo genere 
di tropi distinguesi dai relori in due specie, l’una chiamano 
Metonimia, l’altra Sinecdoche. 

Della Metonimia. 

« La Metonimia è quel tropo , ove di due cose , che 
» hanno stretta relazione fra loro, si nomina una per inten- 
» der l’altra ». Ciò avviene per tre diverse ragioni. l.° per 
rapporto di causa e di effetto. 2.° di segno e di cosa signi- 


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ficata. 3.° di continente e di cosa contenuta. Eccone gli 
esempi. 

1. ° Quanto al nominar la causa per intenderne 1’cfretto; 
come Cerere per significare il frumento, Bacco per il vino , 
Cicerone per le opere da esso scritte ec. Quanto al nominar 
rcffctto per denotar la causa, come dicendo la canizie per 
la vecchiezza ; ovvero ciò eh’ è proprio dell’ effetto attri- 
buendolo alla causa, come pallida morte, timor fugace , tre- 
pido, quali aggettivi convengono, l’uno ai morti, gli altri alle 
persone prese da forte timore. 

2. ° Quanto a nominar il segno per la cosa significata; 
come disse il poeta 

Cedant arma togae, concedat laurea linguae. 

Ove per toga intcndesi il magistrato civile, per arma il co- 
mandante della milizia, per laurea il guerriero onorato di 
corone pel suo valore, per lingua l’oratore. 

3. ° Finalmente quanto ai nominare il continente per la 
cosa contenuta. Sia d’esempio quel di Virgilio 

Cile impiger hausit 

Spumantem pateram et pieno se proluit auro 
Ei pronto bevve la spumante coppa 

E nel pieno oro si tufTó 

Similmente nominiamo il cielo intendendo i santi che vi di- 
morano; le città e le provincie per gli abitatori ec. 

Della Sinecdoche. 

La Sinecdoche differisce dalla metonimia in questo so- 
lamente , che la metonimia considera due distinti oggetti , 
quali termini relativi , e nomina uno per l’altro ; la Sine- 
cdochc poi considera i termini relativi in un solo oggetto. E 
però o si nomina il tutto per indicare una sola parte o vi- 
ceversa come 

Aut ararim Parthus bibet aut Germania tigrim. 

Ove si nomina tutto il fiume delle gallie arar , o sia la 
Senna , e il tigri fiume dell’ Asia , per quella porzione che 
bevesi. Dicesi poi ivi in singolare Parthus per indicare tutta 


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la nazione dei Parti; come diciamo talvolta Romanus, Graevus , 
per tutto l’esercito, o per tutta la gente romana, e greca. 
Similmente nominasi la parte pel tutto ; dicendo il tetto per 
intender la casa , la poppa , la carena , le vele per la nave. 

Così per Sinecdocbe si nomina la materia, di cui è for- 
mata qualche cosa ad indicare la cosa stéssa, come il ferro 
per la spada, il pino per la nave ec. l’oro o l’argento pel 
vaso da quei metalli formato. Appartiene alla Sinecdoche 
eziandio la figura di Antonomasia ; quando cioè usiamo il 
nome appellativo c generico in vece del proprio e partico- 
lare, dicendo per es. l'Oratore per indicar Cicerone, l'Urbi- 
nate per Raffaele Sanzio, Urbs invece di Roma. 

E qui per ultimo giova considerare come queste due 
figure, nelle quali nominiamo una cosa per intenderne un 
altra correlativa, servono a dare maggior vivezza, nobiltà, 
o più distinta espressione al nostro concetto , c per darne 
un esempio : se in vece di nominar le navi diciamo : fug- 
gon per l’alto mare le vele ; ci sembra di vedere la direzione 
e la velocità delle navi , che si fa più sensibile alla vista 
delle vele, e cosi del resto. 

ARTICOLO li. 

Delle figure ret loriche propriamente dette. 

Le figure del discorso propriamente dette differiscono 
dai tropi, perchè in questi le parole tolgonsi dal significato 
proprio all’ improprio; quelle ne ritengono il senso proprio 
e diretto. 

Ora cosiffatte figure derivano da tre distinte fonti; o 
da forte passione d’animo, o da vivezza d’ immaginazione, 
o da sagacità d’ingegno: e però ne tratteremo separatamente. 

§. I. Figure che derivano da forte passione. 

Le figure; che nascono da impeto d’affetto e di passione 
sono principalmente queste. l.° Conduplicazione; 2.° regres- 


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so ; 3.° correzione ; 4.° intellezione ; 5.° reticenza ; 6.° apo- 
strofe; 7." precazione e imprecazione ; 8.° esclamazione , 9.° 
ept fonema; 10.° iperbole ; 11." enfasi. 

I. La conduplicazione è quella figura , ove per impa- 
ziente desiderio ripetesi due volte la stessa parola : come 
quel di Virgilio. Nane nunc insurgite remis , Uectorci so- 
di : e quel di Dante. Dimmi maestro mio , dimmi signore. 

II. Regresso è una ripetizione enfatica o sia è la lìgura 
ove un vocabolo della proposizione antecedente si replica 
con più forza nella seguente: come (Virg. Ecl. V). 

Addit se sociam timidi sque supervenit Aegle, 

Aegle Naiadum pulcherrima. 
e Dante Purg. XXX. 29 ec. 

Ma Virgilio navea lasciati scemi 
Di se, Virgilio dolcissimo padre 
Virgilio a cui per mia salute diemi. 

III. Correzione è la figura per cui quasi per subito 
pentimento ritrattasi c correggcsi la parola o sentenza dianzi 
delta. Come (Teren. Eautont.) 

Filium unicum adolescentem 

Habeo: ah! quid dixi habere me. Imo habui, Creme 

Nam habeam nec ne incertum est. 

E Cicerone prò Coelio « O stultiliam ! Stultitiam ne dicam, 
» an impudentiam singularem ? » Ed il medesimo in Cati- 
linam. « Hic tamen vivit. Vivit? Imo ctiam in scnatum 
» venit ec. ec. ». 

IV. Intellezione è la figura ove per tema di grave e 
imminente pericolo si accennano solo le cose principali, la- 
sciando altre che facilmente intendonsi. Per es. Virgilio ad 
esprimere la smania di Niso di togliere dall’ imminente strage 
il suo amico Eurialo , alla conduplicazione aggiunge l’ in- 
tellezione, inducendolo a gridare. 

Me me..., adsum qui feci...; in me convertite ferrum 

0 Rutuli; mea fraus omnis.., nihil iste.., nec ausus,.. 

Nec potuit. 


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V. Reticenza è la figura ove tralasciasi qualche parola 
a fine d’ ingerire negli animi altrui l’ idea di cosa maggiore 
d’ogni loro espettazione : come quando Nettuno sdegnato mi- 
naccia i venti (Aeneid. I). 

Iam coelum, terramque meo sine numine, venti , 

Miscere, et tantas audetis tollere moles ? 

Quos ego . . . Sed motos praestat componere fluctus 

Post mihi non simili poena commissa luetis. 

VI. Apostrofe è quando 1’ oratore preso da veemente 
commozione d’animo, interrompendo il suo discorso volgesi 
a parlare ad altra persona presente o assente , vera o im- 
maginaria. Come prò Milon. Cicerone. « Vos vos appello, 
» fortissimi viri, qui multum prò rcpublica sanguinem ef- 
» fudistis ; vos in viri et civis invidi appello periculo cen- 
» turiones, vos milites ; vobis non modo inspectantibus, sed 
» etiam armatis, et buie iudicio praesidentibus, haec tanta 
» virtus ex bac urbe expelletur ?... 

VII. Pr coazione e imprecazione è la figura ove espri- 
mesi il vivo desiderio e i voti in prò o in danno proprio o 
altrui. Esempio di precazione Orat. Ode 3. 1. I. 

Sic te diva potens Cypri 

Sic fratres Helenae , lucida sidera 
Ventorumque regat pater, 

Obstrictis aliis praeter Japyga , 

Navis, quae tibi creditum 

Debes Virgilium, (inibus atticis 
Reddas incolumem, precor, 

Et serves animae dimidium meae. 

Esempio d’imprecazione quel di Didone. Aen. IV. 

Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat, 

Vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras, 
Pallentes umbras Èrebi, noctemque profundam, 

Ante, pudor, quam te violem, aut tua iura resolvam. 

A questo genere di figure appartiene anche quella che 
dicesi ossecrazione la quale si definisce così : Obsecratio est 

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ratio impetratali quod petimus : quando cioè si domanda istan- 
temente il soccorso altrui adducendo le ragioni e i motivi 
più alti ad impetrarlo: sia pér esempio quel passo di Ci- 
cerone prò. reg. Dejot. « Quare hoc nos primum metu , C. 
» Caesar, per lidem et constantiam, et clementiam tuam li- 
» bera, ne rcsidere in le ullam partem iracundiae suspice- 
» mur. Per dcxteram te istam oro , quam regi Deiotaro 
» hospcs hospiti porrexisti ; istam inquam , dexteram , non 
» tam in bellis et in praeliis, quam in promissis et in fide 
» firmiorem ». 

Vili. Esclamazione è quella figura che esprime il vivo 
sentimento d’ammirazione di cose maravigliose sì in bene si 
in male, come. « O clementiam admirabilem atque omni 
» praedicatione, literis, monumcntisquc decorandam ». prò 
Ligar. - E in Catilin. « 0 tempora, o mores ! Senatus haec 
intclligit ecc. ». Ed il medesimo : « O miscrum et infelice») 
« diem; quo consul omnibus censuris P. Sylla rcnunciatusest. 
» O fallacem et volucrem fortunam ! O caccam cupiditatem! 
» O praepostcram gratulationem ! Quam cito illa omnia ex 
» laetilia . . et voiuptate ad luctum, et lacrymas redierunt! » 
IX. Epifonema. Cosi la definisce Quintiliano « Epipho- 
» noma est rei narratae vel probatae summa acclamatio». 
Per. es. Virgilio, dopo descritte le gravissime traversie di 
Enea, e dei compagni conclude: 

Tantae molis erat romanam condere gentem ! 

E il medesimo dopo aver detto di Polinestore 

Fas omne abrumpit: Polidorum obtruncat, et auro 
Vi potitur , 

prorompe con isdegno in quest’ epifonema : 

Quid non mortalia pectora cogis 
Auri sacra farnesi 

X. Iperbole è quando per vivezza d’affetto si esagera 
qualche cosa; come un assetato dicendo mi beverei un fiume ; 
ed un amico rivedendo l’amico molto desiderato, prorompe 
dicendo, è un secolo che ti bramo. 


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XI. Enfasi è la figura ove alcuna parola, sebbene presa 
nel suo proprio senso, pure nel modo come ò usata esprime 
un alto sentimento. Così Hannibal pacem peto ; e Foimus 
Troes, fuit lliumj e quell’enfasi divina Ego sum , che at- 
terrò nell’orto tutti i nemici del Divin Redentore. 

§. II. Delle figure che derivano da viva immaginazione. 

L’ immaginazione (phantasia) è quella nobile facoltà del- 
l’uomo, per la quale si rappresenta al vero e contempla come 
presenti e reali gli oggetti assenti o meramente ideali. 

Ora il rappresentare al vivo colle parole le cose da noi 
così immaginate costituisce varie specie di bellissime figure; 
dette però d’ immaginazione, e delle quali le principali sono 
hypotiposis, prosopopaeia , ominatio. 

I. Hypotiposis, o sia sub oculis subiectio, è quella figura 
d’ immaginazione , per la quale gli oggetti reali ma assenti 
rapprescntansi con tutti i loro atti e fattezze, come tuttora 
fossero presenti , ai nostri sensi (1). E ciò può farsi o dei 
semplici luoghi, o di animali, o di persone, o di fatti isto- 
rici con tutte le loro circostanze. 

L’ ipotiposi è poi differente dalla mera narrazione isto- 
rica, in ciò che questa richiama solamente alla memoria le 
cose passate e lontane, quella non pur le rammemora, ma 
le dipinge , le pone in essere , in atto , le fa quasi vedere 
cogli occhi c toccar colle mani. 

Nelle opere dei sommi poeti incontransi quasi in ogni 
pagina siffatte meravigliose pitture: pictura poesis. Tito Li- 
vio non pur narra la storia romana, ma la pone in dramma: 
vedi sott’ occhio i luoghi, le persone, i costumi, le battaglie; 
odi le dicerie, il fragor delle armi ec. Anche l’oratore, e 
gli altri scrittori di stile mezzano , e di stile semplice , di 
quando in quando accendonsi nella fantasia, e ti stampano 


(1) ùiroTu meri; »«; r> exemplar. figura apud Oc. de Orat. 1. II. illustrir 
cjcplanatio, rerumque, quasi gerantur, sub aspcctum pene subiectio. ab u noronau 
Iti. rwira; typus, nota, exemplar ec. 


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e rappresentano al vivo le cose rimote, e assenti, come fosser 
presenti. Recheremo alcun esempio. 

È celebre il cavallo descritto da Virgilio. Aen. IV. 134. 

Ostroque insignii et auro 
Stat sonipes et fraena ferox spumantia mandit 
Recherò qui per esteso il Cerbero di Dante Inf. VI. 

Cerbero , fiera crudele e diversa 
Con tre gole caninamente latra 
Sovra la gente che quivi è sommersa. 

Gli occhi ha vermigli , c la barba unta ed atra 
E'I ventre largo, e unghiate le mani. 

Graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra. 

Urlar gli fa la pioggia come cani, 

Dell’un de’lati fanno all’altro schermo, 

Volgonsi spesso i miseri profani. 

Quando ci scorse Cerbero, il gran verino, 

Le bocche aperse, e mostrocci le saune, 

Non avea membro che tenesse fermo 
Cicerone così descrive Verrc : 

» Ipse inflammatus scelere et furore in forum venit. 
» Ardebant oculi : toto ex ore crudelitas eminebat. Expe- 
» ctabant omnes , quo tandem progressurus , aut quidnam 
» acturus esset. Cum repente hominem corripi : [atque in 
» foro medio denudari, ac deligari, et virgas expediri iu- 
» bet. Clamat iile raiser se civcm esse romanum ». 

Nella vita di S. Antonio del Cavalca descrivonsi con 
viva ipotiposi le battaglie date ad Antonio da’ diavoli « Ecco 
» subitamente per opera del diavolo un suono repentino 
» sopra 1’ abitacolo d’ Antonio , sì grande e mirabile , che 
» tutto quell’edificio si commosse dal fondamento; e quasi 
» aprendosi le pareti e le mura, entrarono dentro molte turbe 
» e forze di demoni, li quali avendo preso forma di varie 
» bestie e di serpenti, tutto quel luogo empierono di forme 
» fantastiche di leoni, di tori, di lupi, di basilischi, di ser- 
» penti e di scorpioni, e di leopardi e d’orsi; li quali tutti 


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» animali grillavano e ruggivano, ciascuno secondo sua qua- 
» lità e natura. Ruggiva il leone dando vista d’ andargli 
» addosso; il toro mugghiando lo minacciava di ferire colle 
» corna : il serpente verso lui acceso sibilava; i lupi urla- 
» vano: e cosi ciascuno con crudele vista, e volto, e grida 
» contra lui fremivano. Delle quali tutte cose Antonio, quan- 
» tunque ancora debole e pesto per li flagelli di prima; fa- 
» cendosi beffe , stava con mente sicura e immobile, e di- 
» ceva : Se nulla potenza aveste, bastava uno di voi ad uc- 
» cidermi : ma perocché Dio v’ ha prostrati e tolta la po- 
» tenza, per moltitudine tentate di mettermi paura. E poi 
» anche in Dio prendendo maggiore fiducia, diceva: Se nulla 
» potenza avete, e se Dio contra me v’ha data licenza, di- 
» voratemi: ma se non potete, perchè v’affaticate in vano? ». 

II. Un’altra specie d’ipoliposi si è quella figura che ap- 
pellasi npoacùnoncu'oc (1) o sia personificazione, quando cioè 
il poeta, e talvolta eziandio l’oratore , gli oggetti inerti e 
privi di ragione , o anche meramente ideali , rappresentali 
quasi persone viventi in atto di favellare , di adoperare e 
conversare con noi. 

Cosi Cicerone contro Catilina (I. 7.) fa parlare la patria, 
come persona vivente. « Quac lecum, Catilina, sic agit, et 
» quodammodo tacita loquitur : Nullum aliquot iam annis 
» facinus extitit nisi per te ; nullum ilagitium sine te : tibi 
» uni multorum civium neces, tibi vexatio direptioque so- 
» ciorum impunita fuit ac libera ; tu non solum ad negli- 
» gendas leges ac quaestiones, verum etiam ad evertendas 
» perfrigendasque valuisti. Superiora illa, quamquam ferenda 
» non fuerunt, tamen, ut potui, tuli : nunc vero me totam 
» esse in metu propter te unum ; quidquid increpucrit, Ca- 
» tilinam timeri ; nullum videri contra me consilium iniri 
» posse, quod a tuo scelere abhorrcat, non est ferendum. 

(1) Tlpomiroirouu* #{, v. fictio personae a irpo<ruirov'ov,m, facies, aspcctus, 
persona, composita ex *fOf, et «4/, *nro;‘oculus, vultus, facies. 


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» Quamobrem discode , atque hunc ruihi limorem eripc : si 
» esl verus, nc opprimar; sin falsus, ut tandem aliquando 
» timore itesi nani ». 

Nei poeti poi c cosi nei pittori e scultori, è molto fa- 
miliare cotesta figura di personificazione delle cose astratte 
c ideali, come per es. l’immagine del tempo, delle varie 
stagioni, delle virtù, dei vizi, delle passioni umane. 

III. Questa stessa figura d’ ipotiposi ha luogo talvolta ri- 
guardo agli avvenimenti futuri, che da’ retori nominasi om»- 
natio o sia augurio cioè la viva rappresentazione degli av- 
venimenti futuri, che o pel consueto andamento delle cose 
umane preveggonsi dall’oratore o dal poeta : ovvero per di- 
vina rivelazione conosconsi dovere avvenire. Così in prima 
per es. Cicerone nella IV catilinaria. « Videor cnim mihi 
» hanc urbcm videro, lucem orbis terrarum, atquc arcem 
» omnium gentium, subito uno incendio concidentem ; cerno 
» animo sepulta in patria nùseros atque insepultos acervos 
» civium ; versatur mihi ante oculos adspectus Cethegi et 
» furor in vostra cacde baccantis ». 

Fra i molti esempi poi di cosiffatte vive pitture rap- 
presentate dai veri profeti ne sceglierò uno tradotto con au- 
rea lingua del 300. 

Il vecchio Tobia prima di morire, a conforto de’ com- 
pagni della sua prigionia, predice loro la vocazion delle genti 
al conoscimento del vero Dio, e la splendida gloria di Ge- 
rusalemme, immagine della chiesa militante e trionfante : di- 
cendo: » O Gerusalemme città di Dio, il Signore t’ha ga- 
» stigata nell’ opere delle tue mani. Confessati al Signore 
» ne’ beni tuoi, e benedici Iddio de’ secoli, acciocché egli 
» edifichi in te il suo tabernacolo, c richiami a te tutti i 
» tuoi prigioni, e rallegrati in tutti i secoli : Tu rilucerai 
» di luce chiarissima, c tutta la terra adorerà te. Le na- 
» zioni verranno a te da lungi, e recando doni adoreranno 
» in te il Signore, e la terra tua avranno in santificazione, 
» e invocheranno in te il suo gran nome. E maledetti sa- 


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» ranno quelli, che ti dispregeranno .j e tutti quelli che ti 
» bestemmieranno saranno condannati. E saranno benedetti 
» quelli che edificheranno te. E tu ti rallegrerai nei tuoi 
» figliuoli ; perciocché tutti saranno benedetti, e rauneran- 
» nosi a Dio. Beati tutti quelli che te amano, e rallegrc- 
» rannosi della tua pace. O anima mia benedici Iddio: per- 
» ciocché egli libera Gerusalemme sua città. Beato sarò se 
» le reliquie del seme mio saranno a vedere la chiarità di 
« Gerusalemme. 

» Le porte di Gerusalemme saranno edificate di zaffiro 
» e di smeraldo ; e tutto il cerchio delle sue mura di pietre 
» preziose ; e tutte le sue piazze si lastricheranno di pietre 
» bianchissime e nette, e sopra le sue strade si canterà AI- 
» Ieluia. Benedetto Iddio che l’ha esaltata, acciocché il suo 
» regno sia sopra lei in saecula saeculorum. Amen ». 

§. III. Delle figure prodotte da sagacità d’ ingegno. 

Le figure prodotte da sagacità d’ingegno distinguonsi 
in due classi, altre sono di parole, altre di sentimento i le 
prime consistono nella mera forma e nel modo non comune 
di adoperar le parole, che pur serve a dar luce e forza ai 
concetti della mente : l’altre consistono nella forma e nel 
modo non comune di rappresentare i concetti stessi della 
mente. Quindi è, come dice Cicerone (de Orat. III. 32) che : 
» inter conformationcm verborum et sententiarum hoc in- 
» terest , quod verborum tollitur , si verba mutaris , sen- 
» tentiarum manet, quibuscumque verbis uti velis. » 

, Considera poi il medesimo come le figure di parole e 
di sentimento sono innumerabili, ed egli nel capo citato e 
nei seguenti ne accenna un bel lungo catalogo. Ma noi 
parleremo solo delle principali e di maggior uso. 

I. Figure di parole. 

Le principali figure di mere parole sono : l.° la ripe- 
tizione, che variamente usata costituisce quattro specie di 
figure dette dai retori simplex repetitio, traducilo , conversio, 


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complexio : 2.° la forma delle parole armonicamente disposte 
di simile cadenza o di simil desinenza. 

E in prima la ripetizione della stessa parola può farsi 
o a principio di varie sentenze e incisi, o al fine, o al 
principio insieme e al fine. Al principio ripetendo una pa- 
rola (simplex repetitio) come Dante Parad. XXXIII. 20. dice 
della S. Vergine. , 

In te misericordia , in te pietate , 

In te magnificenza, in te s’aduna 
Quantunque in creatura è di kontate, 

Ripetizione della stessa parola di forma diversa (tradu- 
rr elio) Cic. prò Archia. « Pieni sunt omnes libri, plenae sapien- 
» tium voces, piena exemplorum velustas ». 

Ripetizione alfine di ciascuna sentenza (conversio). « Do- 
» letis tres exercilus interfectos ? intrrfecit Autonius. Desi- 
» deratis clarissimos cives ? Eos quoque vobis eripuit Anto- 
» nius. Auctoritas huius Ordinis a Mieta est ? Afflix.it Anto- 
» nius » Cic. 

Ripetizione al principio e al fine (complexio) « Quis le- 
» gem tulit ? Rullus. Quis maiorem partem popoli suffra- 
» giis privavit? Privavi! Rullus Cic. ». 

Queste figure di ripetizione fanno sì, che la mente di 
chi ode non trascorra su i fatti narrati o i vari argomenti 
trattati , ma ponderi bene ciascuna parte e ciascuna sen- 
tenza singolarmente. 

Quanto alle altre, che servono aneli’ esse a distinguer 
bene le parti di un tutto, e quasi a sigillare armonicamente 
le sentenze, sono due dette similiter cadens, similiter desi- 
nens-, la prima è quella figura ove i nomi cadono nei me- 
desimi casi, i verbi nei medesimi tempi come, Cic. prò lege 
Munii. « Ac primum quanta innocentia debent esse impera- 
» tores? Quanta inde omnibus in rebus lemperantia? Quanto 
ingenio? Quanta humanitate? ». e prò Arch. poeta « Hunc 
ego non diligam? Non admirer? non omni ratione defenden- 
dum putem? ». 


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73 

L’altra figura, detta similiter desinens è quella ove i 
vocaboli di varii incisi e proposizioni hanno una simile ter- 
minazione c quasi rima. Per es. Cic. prò lege Man. « Ut 
» eius scraper voluntatibus non modo cives assenserint, socii 
» obtemperarint, hostes obedierint, sed etiam venti tempe- 
» statcsque obsecundarint ». 

II. Figure di sentimento o di sentenza. 

Le figure di sentimento, o di sentenza, come dianzi è 
detto, sono quelle per le quali con sagacità d’ingegno rap- 
presentansi i concetti della mente sotto forme e modi non 
comuni. Le principali sono otto, delle quali tre, che diconsi 
preoccupazione, concessione, e comunicazione , servono spe- 
cialmente a rimuovere i pregiudizi e gli ostacoli dall’animo 
degli uditori mal prevenuti o contro l’oratore o contro l’ar- 
gomento che imprende a trattare: l’altrc sei figure poi, che 
vengon dette sospensione (substentalio), dubitazione, preteri- 
zione, interrogazione, similitudine e antitesi servono principal- 
mente a dare più evidenza e forza agli argomenti. 

I. Figure atte a rimuover gli ostacoli. 

« La preoccupazione (prolepsis) è la figura colla quale 
» scaltramente l’oratore previene gli uditori in ciò che po- 
» Irebbe opporglisi » mostrando con ciò di non temerne 
punto contro la sua causa. Peres. Cic. Pro Roscio: Credo, vos 
iudices mirari cc. e Divin. in Vcrrem: Siquis vestrum, aut 
eorum , qui adeunt , forte miretur cc. E prò Arch. 15. 
« Quaerct quispiam ; quid ? illi ipsi summi viri , quorum 
» virtutes litcris proditae sunt , ista ne doctrina , quam 
» tu effers laudibus , eruditi fuerunt ? Difficile est hoc de 
» omnibus affirmare: sed tamen est certum quod respon- 
» deam ». 

Simile alla preoccupazione si è la figura detta conces- 
sione per la quale per ferma fiducia nella sua causa fa vi- 
sta l’oratore di permettere, e quasi concedere come vero e 
giusto, ciò che non è tale. Così Cicerone prò Lig. dei pom- 
peiani dice « Fuerint cupidi, fuerint irati, fuerint pertina- 


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» ces; scclcris vero crimine, furoris , parricidii liceat (In. 
» Pompeio morivo, liceat multis aliis carere » e Terenzio : 
« Tibi, si istuc plàcet, profundat, perda!, pcreat, nihil ad 
» me attinet ». _ V 

— La comunicazione cosi la definisce Cicerone de Orai. 
III. 53. Communicatio est cum iis ipsis apud quos dicas de- 
liberano. E. g. Ciccr. Verr. II. « Nunc ego vos constilo, 
» quid tnihi facicndum putetis. Id enim consilii profecto 
» taciti dabitis, quod ego mihi necessario. capicndum intel- 
» ligo ». 

II. Figure d’ingegno atte a porre meglio in luce le cose. 

« Sospensione (substentatio) è quella figura ingegnosa , 
» colla quale tiensi incerto e sospeso l’ animo di chi ode 
» affinchè giunga finalmente inaspettata e di maggior effetto 
» la cosa che vuoisi inculcare. » Sia d’esempio quel di Ci- 
cerone in Verrem VII. « Eius iussu isti homines compre- 
» hensi. Quid deinde? Quid censetis? Furtum fortasse, aut 
» pracdam expectatis aliquam? cc. ec. Etiamnum mihi cx- 
» poetare videmini : expectate facinus quam vultis impro- 
» bum, vincam tamen expectationem omnium .... Quod 
» multo improbius est, illi nomine, sceleris, coniurationis 
» damnati ad supplicium traducti , ad palum alligati , rc- 
» pente multis millibus hominum inspectantibus , occisi 
» sunt ». • 

Nell’usar poi la figura di sospensione avvertasi di avere 
tale argomento da soggiungere , che veramente sorprenda , 
come sarebbero fatti eroici inaspettati , inaudite crudeltà. 
Altrimenti non si farebbe negli uditori una forte impressio- 
ne , ma avrebbesi un effetto contrario da muovere piutto- 
sto a riso, c a disprezzo ; e direbbesi : Parturient montes, 
nascetur ridiculus mus. 

Molto affine alla predetta è la figura di dubitazione , 
» cioè quella ingegnosa figura colla quale l’oratore ricerca 
» fra più cose quello che affermare o far si debba , e in 
» certo modo tutte le rifiuta ». Cotesta figura vale ad esag- 


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gerare le cose , e a tener sospesi gli animi degli uditori 
e far concepire così un alta idea della cosa che intende 
l’oratore di lor persuadere. Cosi T. Livio Dee. IH. intro- 
duce Scipione a fare un forte rimprovero ai soldati , di- 
cendo : « Apud vos quemadmodum loquar nec consilium 
» nec oratio suppeditat; quos ne quo nomine quidem ap- 
» pollare debeam, scio. Cives ? Qui a patria vestra desci- 
» vistis. An milites? qui imperium auspiciumque abnuistis, 
» sacramentum religionis rupistis. Hostes ? Corpora , ora , 
» vestitura, habitum civium aspi ciò; facta, dieta, consilia, 
» animos hostium video ». 

« La figura detta preterizione è quella con cui diciamo di 
voler passare sotto silenzio quello che massimamente diciamo». 
Per esempio Cicerone lodando Pompeo disse : « Ita non sum 
» praedicaturus, Ouirites, quantas ilio res domi militiaeque 
» terra marique, quantaque felicitate gesserit , ec. . . Hoc 
» brevissime dicam ec. » 

» La figura A' interrogazione è quella colla quale non 
» si domanda una cosa ignota o dubiosa, ma si usa per espri- 
» mere con più forza una verità a tutti notissima». 

Poteva per es. Cicerone dire positivamente contro Ca- 
tilina: è assai tempo che ti abusi della nostra pazienza , e 
tenti sfacciatamente d’ illuderci; i tuoi fatti e i consigli sono 
ormai a tutti noti ec. Ma quanto maggior forza acquista il 
discorso per la figura d’ interrogazione? « Quousque tandem 
» abutere , Catilina paticntia nostra ? quem ad fìnem sese 
» effraenata iactabit audacia ? NihiI ne te nocturnum praesi- 
» dium palatii, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil 
» concursus bonorum omnium , nihil hic munitissimus ha- 
» bendi senatus locus , nihil horum ora , vultusque move- 
» runt ? Patere tua consilia non sentis ? Constrictam iam 
» horum omnium conscientia teneri coniurationem tuam non 
» vide» ? Quid proxima , quid supcriore nocte egeris , ubi 
» fueris, quos convocaveris, quid consilii caeperis, quem no- 
» slrurn ignorare arbitraris ? » 


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Talvolta poi all’ interrogazione s’aggiunge anche la ri- 
sposta, come in quel passo di Cicerone: Phil. II. n. 2. «Quid 
» putem ? contemptum ne me ? non video nec in vita, nec 
» in grafia, nec in hac mea mediocritate ingenii quid de- 
» spicere possi! Antonius. An in senatu faciliime ad me de- 
li trahi posse credidit ? qui ordo clarissimis civibus bene 
» gcstae reipublicae tcstimonium multis , mihi uni conser- 
» vatae dedil. An decertarc mecum voluit contentione di- 
» ccndi ? hoc quidern bencficium est: Quid enim plenius , 
» quid uberius, quam mihi et prò me et contra Antonium 
» dicere? Illud profecto est; non existimavit, sui similibus 
» ex isti mari posse, se esse hostcm patriae , nisi mihi esset 
» inimicus ». 

Le due ultime figure nate da sagacità d’ ingegno, sono 
la similitudine e l’antitesi, altissime a porre in evidenza le 
cose da noi trattate col confronto di altre simili, ovvero dis- 
simili o anche al tutto contrarie. 

« La similitudine è il paragone di due oggetti distiuti che 
in qualche cosa convengono». Così l’avaro e l’idropico, quan- 
tunque sieno fra loro differenti, pure in questo convengono 
che non possono saziarsi, l’uno di bere acqua, l’altro d’ac- 
cumulare ricchezze. 

Nota poi quanto alla similitudine Quintiliano che « Ad 
» inferendam rebus lucem reperlae sunt similitudines. Prae- 
» cipue igilur est custodienduin , ne id quod similitudinis 
» grafia adscivimus, aut obscurum sit, aut ignotum. Debct 
» enim id quod iiluslrandae alterius rei gratia assumitur , 
» ipsum esse clarius eo quod illuminatur ». Recherò uno 
altro esempio. Così Cicerone. « Ut quidam morbo vel 
» sensus stupore suavitatem cibi non sentiunt; sic libidinosi, 
» avari, facinorosi verae laudis gustum non habcnt ». E 
nella Filippica Vili. « In corpore si eiusmodi est, quod re- 
» liquo corpori noceat , uri et secari patimur membrorum 
» aliquod polius quam totum corpus intcrcat; sic in rcipu- 
» blicae corpore, ut totum salvum sit, quidquid est pesti- 


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» ferum amputalur ». Il Cavalca nella vita di S. Antonio 
dice «Antonio, come ape prudentissima, tutti visitando (i 
» solitari) c le virtù di ciascuno considerando , di tutti si 
» studiava di guadagnare, e di trarre mele spirituale ». 

Finalmente « V antitesi, o sia il contraposto è quella in- 
gegnosa figura colla quale pongonsi a fronte cose tra loro 
diverse o anche al tutto contrarie , affinchè (come avviene 
nella pittura per il chiaroscuro) spicchi più luminoso il sog- 
getto principale ». 

Sia d’esempio quel passo di Cicerone prò Mil. « Quern 
» igitur cum omnium grafia inferficcre noluit, hunc voluit 
» cum aliquorum querela ? quem iure , quem loco , quem 
» tempore, quem impune non est ausus, hunc iniuria ini- 
» quo loco, alieno tempore, periculo capitis non dubilavit 
» occidere ? » 

Porrò termine con un bellissimo passo di Cicerone (Pro 
Muraena. X.) che può dirsi similitudine insieme ed anti- 
tesi, ove pone a confronto la giurisprudenza (esercitata da 
Sulpicio), coll’arte militare (esercitata da Murena) dicendo 
» Qui potest dubitari , quin ad èonsulatum adipiscendum 
» multo plus afferat dignitatis rei militaris, quam iuris ci- 
» vilis gloria ? Vigilas tu de nocte , ut tuis consultoribus 
» rcspondeas; ille,- ut eo, quo intendit, mature cum exer- 
» citu perveniat. Te gallorum , illum buccinarum cantus 
» exuscitat. Tu aclionem instituis, ille aciem instruit. Tu 
, » cavcs ne tui consullores; ille ne urbes aut castra capian- 

» tur. Ille tenet, et scit, ut hostium copiae; tu, ut aquae 
» pluviac arceantur : ille exercitatur in propagandis fini- 
» bus, tu in regendis. Ac nimirum (dicendum est enim quod 
» sentio) rei militaris virtus praestat ceteris omnibus. Haec 
» nomen populo romano, haec huic urbi aetcrnam gloriam 
» peperit : haec orbem terrarum parere huic imperio coé- 
» git; omnes urbanae res, omnia haec nostra praeclara stu- 
» dia et haec forensis laus et industria latcnt in tutela ac 


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» praesidio bellicae virtutis. Simul atquc incropuit suspi- 
» ciò tumultus, artcs illico nostrae conticcscunt ». 

CAPITOLO V. 

dell’amplificazione kettokica. 

La proprietà delle parole , la loro logica c armonica 
unione, i traslati e le altre figure giovano molto alla per- 
spicuità eleganza e forza del discorso; ma ciò che forma il 
sommo pregio della elocuzione si ò l’arte di bene amplifi- 
care i concetti. « Summa autem laus eloqucntiae est, am- 
» plificare rem ornando : quod valet non solum ad augen- 
» dum aliquid, et toliendum altius dicendo ; sed etiam ad 
» extenuandum, atquc abiiciendum, Gic. de Orat. HI. 27 (1). 

Ora V amplificazione rettorica è quell’ingrandimento o svi- 
luppo , che per mezzo delle parole si dà ai concetti della 
mente , rappresentandoli nel loro vero, completo e più lumi- 
noso aspetto e atteggiamento. 

£ però alla retta amplificazione oppongonsi due vizi 
fra loro contrari: l.° la soverchia minutezza, che snerva il 
concetto: sectantem levia nervi deficiunt animique (Hor. poet.) : 
2.° Yesaggerazione, dicendo assai più di quello, che le cose 
sono in sestesse: professus grandia target, (idem); il che 
viene meritamente deriso e spregiato. « Quid enim tam fu- 
» riosum , quam verborum vel optimorum sonitus inanis , 
» nulla subiecta sententia ? » Cic. de Orat. I. 

(1) È da considerarsi qui la differenza che noia Cicerone fra l’arte di ben 
parlare dialetticamente, e rettoricamente. Cosi egli de Orat. II. 38. « Dioge- 
» nem fuisse , qui dicerei , artem se tradere bene dicendi, quam verbo graeco 
» SiaXsxri xriv appellare!. In hac arie .... nullum est pracceplum quo modo 
» verum inveniatur, sed tantum est quo modo iudicetur .... Genus sermonis 
» aflert, non liquidum, non fusura ac profluens, sed exile,* aridum, concisum ac 
» minutum. Quod si quis probahil , ita probabit , ut oratori tamen aplum non 
» esse fateatur. Haec enim nostra oralio mullitudinis est auribus accomodanda, 
» ad oblectandos animos , ad impellendos , ad ea probanda , quae non aurilicis 
» staterà; sed quadam populari trotina examinantur », 


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ARTICOLO I. 


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Del modo d’ amplificare una cosa considerata per sè sola. 

Quattro sono i modi d’amplificare una cosa considerata 
per sè sola. l.° la perifrasi 2.® l’espolizione 3.° l’enumerazion 
delle parti, che la compongono 4.° l’enumerazion delle cir- 
costanze che l’accompagnano. 

§. l.° Della Perifrasi. 

Il più semplice modo d’ amplificare si è la perifrasi , 
quando cioè invece d’ indicare una cosa col proprio nome, 
descrivonsi alcune sue proprietà , atte a farla tosto rico- 
noscere: come Omero in cambio di nominar Giove, disse : 
Ilcayp àvSpàv re Gscòvrs, il padre degli uomini e degli dei. E 
Dante Par. X senza nominarlo così descrive il sole. 

Lo ministro maggior della natura, 

Che del valor del cielo il mondo imprenta, 

E col suo lume il tempo ne misura. 

E il medesimo per significare Omero lo dice 

.... Quel signor dell’altissimo canto 
Che sovra gli altri com’ aquila vola. 

Altrove dello stesso Omero dice, colui che con mag- 
gior cura le Muse allattar on. 

Maravigliose poi e svariatissime sono le perifrasi, che 
usa Dante per indicare Iddio. Or lo dice : quell’ imperador 
che lassù regna ; or l’avversario d’ogni male ; ora il re del- 
l’ universo , il sommo duce, l’ imperador che sempre regna , 
colui lo cui saver tutto trascende ec. E nella iscrizione sulla 
porta dell’ inferno usa questa sublime perifrasi della augu- 
sta Triade, 

Giustizia mosse ’l mio alto fattore, 

Fecemi la divina potestate, 

La somma sapienza e ’l primo amore. 

Il mio alto fattore indica l’unità di Dio. Le tre divine 
persone poi sono significate dagli attributi che per appro- 


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priazione i teologi assegnano a ciascuna di loro; la potenza 
al Padre, la sapienza al Figliuolo, l’amore allo Spirito Santo. 

§. 2. Della espolizione. 

L’espolizione è quel modo d’ amplificare che sotto di- 
verse forme esprime la stessa cosa (1). Cosi Cicerone esprime 
l’alta gioia dell’cssersi allontanato da Roma il gran nimico 
della patria, Catilina. « Tandem aliquando Catilinam furen- 
» tem audacia, seelus anelantem, pestoni patriac nefarie mo- 
» lienlem ex urbe vel ciecimus vel emisimus , vel ipsum 
» egredientem urbe prosecuti sumus; abiit, excessit, eva- 
» sit, erupit » 

Similmente questa sentenza ; che cioè la difesa anche 
violenta della propria vita è di diritto naturale, l’amplifica 
Cicerone (prò Milone), con questa espolizione, dicendo « Est 
» haec non scripta, sed nata lex, ad quam non dodi, sed 
» facti; non instituti, sed imbuti sumus , ut si vita nostra 
» in aliquas insidias, si in YÌm, si in tela aut latronum aut 
» inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset exspe- 
» diendae salutis. . . . Hoc et ratio doctis, et necessitas bar- 
» baris, et mos gentibus, et feris natura ipsa praescripsit, 
» ut omnem semper vim, quacumque ope possent, a corpore 
» a capite, a vita sua propulsarent. » 

Similmente invece di dichiarare una cosa con una con- 
cisa definizione , che ne indichi strettamente l’cssenziali e 
caratteristiche proprietà , l’oratore suole largamente espor- 
la. Per cs. in vece di dire : homo est animai rationale , 
Cicerone dice lo stesso per espolizione: « Animai hoc pro- 
» vidum, sagax, multiplex, acutum, memor, plenum ratio- 
» nis et consilii, quem vocamus hominem ». Cosi definereb- 
besi strettamente la Curia il supremo tribunale, o la consulta 
di stato. Cicerone prò Mil. l’amplifica dicendo « Curia tem- 
» plum sanctitatis, amplitudini, mentis, consilii publici, ca- 
li) Quintiliano la nomina congerie 1. Vili, e IV. al fine, dicendo « Potest 
» adscribi amplifìcalioni congeries quoque verborura ac sententiarum idem signi- 
» Gcanlium ». 


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» put urbis, ara sociorum, porlus omnium gcnliuin, sedes 
» ab universo populo romano concessa uni Ordini ». . 

Similmente la storia logicamente si definirebbe il rac- 
conto successivo dei fatti e dei costumi della società umana : 
Cicerone oratoriamente la descrive dicendo. « Historia est 
» testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra 
» vitae, nuncia vetustatis ». 

Ma avvertasi bene , che neU’cspolire uno stesso senti- 
mento, una stessa cosa con parole diverse, presentisi sotto 
diversi punti di vista, a fine di dare maggior lume, forza 
c larghezza al concetto medesimo. 

§. 3." Dell’ amplificazione per enumerazione di parti. 

L’amplificazione per enumerazione delle parli si è quella 
ove descrivonsi le parti componenti un tutto, ovvero una cosa 
si distribuisce nelle sue parti principali. Questo modo d’am- 
plificare essendo facilissimo ad intendersi, e molto comune, 
basterà recarne un solo esempio. In vece di dire con una sola 
proposizione, che il consolato di Pisane era da tutti detestato, 
Cicerone descrive per parti cotesto aborrimento universale, 
dicendo. « Oranes memoriam consulatus tui, facta, mores, fa- 
te ciem denique ac nomen a republica detestantur: legati qui 
» una fucre alienati, tribuni mililum inimici, ccnturiones et 
» si qui ex tanto exercitu reliqui milites extiterunt, non di- 
» missi abs te, sed dissipati, te oderunt, tibi pestem exoptant, 
» te execrantur. Achaia cxausta, Tessalia vexata, laceratae 
» Athenae, Apollonia exinanita, Ambracia direpta, Locri exu- 
» sti, Atamanum gens vendita , Macedonia condonata bar- 
» baris, Aetolia amissa, Dolopes finilimiquc montani oppidis 
» atque agris exterminati , cives romani , qui in iis locis 
» negotiantur, te unum solum suum depopulatorem, vexa- 
» torem, praedonem, hostem venisse senserunt». 

§. IV. Amplificazione per descrizione delle circostanze 
che accompagnano un qualche fatto. 

Le circostanze o aggiunti di qualche cosa o di qual- 
che avvenimento così li definisce Cicerone (Topic.) « Ad- 

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» iuucta rerum et personarum sunt ca, quae rem circum- 
» stani et comitantur, aut sunt in hominis sive animo sive 
» corpore ». 

Ora la considerazione delle circostanze dà ampia ma- 
teria all’ amplificazione , potendo spesso avvenire che una 
cosa per sé anche minima , attese le circostanze , divenga 
massima, e viceversa: e spesso anche per esse una cosa muta 
al tutto natura divenendo di buona cattiva, e di cattiva buona. 
Così, che un militare nel combattimento ferisca e uccida i ne- 
mici è cosa comune e può esser anche argomento di gran virtù 
e valore militare. Ma per le circostanze di persona, di tempo, 
di luogo, di modo ec. può cangiarsi in azione empia, atroce, 
inumana. Sia d’esempio la morte di Priamo descritta da 
Virgilio. Pirro insolente per la vittoria inscgue Polite da 
lui già ferito a morte , che rifuggiavasi nel sacrario della 
reggia, e sotto gli occhi di Priamo l’uccide; al pianto e ai 
giusti rimproveri del padre divenuto Pirro più fiero, affer- 
rando per i capelli il misero vecchio tremante e sdruccio- 
lante sul sangue del proprio figliuolo lo trascina fino all’ara 
degli dei, ed ivi col più maligno sarcasmo insultandolo ne 
fa crudele scempio. Ecco i versi di Virgilio che sono uno 
dei più belli passi dell’Encidi 1. II. v. 526. ec. 

Ecce autem elapsus Pyrrhi de caede Polites 
Unus natorum Priami per tela per hostes 
Porticibus longis fugit, et vacua atria lustrai 
Saucius. Illutn ardens infesto vulnere Pyrrhus 
Inseguitur, iam iamque manu tenet, et premit hasta. 

Ut tandem ante oculos evasit, et ora parentum, 

Concidit, ac multo vitam cum sanguine fudit. 

Hic Priamus, quamquam in media iam morte tenetur 
Non tamen abstinuit, nec voci iraeque pepercit. 

At tibi prò scelere exclamat, prò talibus ansie, 

Di, si qua est coelo pietas quae talia curet, 

Persolvant grates dignas, et proemia reddant 
Debita: qui nati coram me cernere lethum 


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Fectiti , et patrios foedasti funere vultut. 

At non ille, satum quo te mentirti, Achilles 
Tolti in hoste fuit Priamo: sed iura fidemque 
Supplici s erubuit, corpusque exangue sepulchro 
Rcddidit Hectoreum, meque in mea regna remtiit. 

Sic fatue senior, telumque imbelle sine ictu 
Coniecit: rauco quod protinus aere repulsum, 

Et summo clypei nequicquam ambone pependit. 

Cui Pyrrhus : Referes ergo haec et nuntius ibis 
Pelidae genitori, liti mea trtitia facta 
Degeneremque Neoptolemum narrare memento ; 

Nunc morere. Hoc dicens altaria ad ipsa trementem 
l'raxit, et in multo lapsantem sanguine nati, 
Implicuitque comam laeoa, dextraque coruscum 
Extulit, ac lateri copulo tenue abdidit ensem. 

Ecco come la semplice proposizione Pirro uccise barba- 
ramente il re Priamo, amplificata nelle sue primarie circo- 
stanze, diviene un fatto il più tragico e sublime. 

ARTICOLO II. 

Del modo d’amplificare una cosa considerata 
in relazione con altre. 

I modi d’amplificare una cosa considerata in relazione 
con altre possono principalmente ridursi a tre l.° per pa- 
ragone di cose simili o dissimili, 2° per incremento o decre- 
mento, 3.° per ragionamento. 

§.I. Amplificazione per confronto di cose simili o dissimili. 

Trattando delle figure rettoriche si è parlato della si- 
militudine, c come questo può trasmutarsi in metafora; or l’una 
e l’altra figura può essere amplificata: la metafora può svol- 
gersi e prolungarsi divenendo allegoria, come si è ivi no- 
tato: la semplice similitudine parimenti descrivendo per parti 
le cose simili, ovvero annoverando molte similitudini insieme. 



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Sebbene poi cosiffatte amplificazioni per similitudini sian 
comunissime ai poeti, pure anche le vediamo di quando in 
quando usate dai prosatori eccellenti. Eccone un esempio 
di Cicerone (in Catil. 1.): dice egli che piuttosto che uc- 
cidere subito Catilina, conveniva aspettare quando si fosse 
riunito ai suoi partigiani, per estinguerli tutti insieme, e vi 
porta questa similitudine. « Ut saepe hoinines aegri morbo 
» gravi , cum aestu febrique iaclantur , si aquam gelidam 
» biberint , primo relevari videntur, deinde multo gravius 
» vchcmcnliusquc aiflictantur ; sic hic morbus, qui est in 
» republiea, rclevatus istius poema, vebementius, vivis re- 
» liquis, ingravcscet ». 

Recherò un esempio in prosa di varie similitudini ag- 
glomerate insieme. Nel Decamcrone G. VI. l.° « Come nei 
» lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo, e nella 
» primavera i fiori de’ verdi prati, e de’ colli i rivestiti ar- 
» buseoi I i ; così de’ lodevoli costumi, e de’ ragionamenti belli 
» sono i leggiadri molti ». 

Mi astengo dal recar altri esempi di poeti, chè quasi 
ad ogni pagina se ne incontra dei bellissimi. 

Similmente può amplificarsi la figura d’antitesi o anno- 
verando più cose contrarie , o descrivendone largamente 
una e ponendola a fronte colla sua contraria. Ecco due 
esempi di Cicerone « Hoc autem quis ferre possit , inertes 
» homines fortissimi insidiari ? Stultissimos prudentissimi, 
» ebriosossobriis, dormientes vigilantibus?» ed anche (in Ca- 
lilin.) « Ex hac enim parte pudor pugnat, hinc petulanza ; 
» hinc pudicitia, illinc stuprum; hinc fides, illinc fraudatio; 
» hinc pietas, illinc scelus; hinc constantia, illinc furor; hinc 
» honcstas, illinc turpitudo, hinc continentia, illinc libido». 

§. II. Amplificazione per incremento, o decremento (l). 

L’amplificazione per incremento consiste in una grada- 
li) L’incremento e il decremento detto anche gradatio, xàipof suole porsi 
fra le figure di parole. A me piace meglio considerarlo come un modo di ampli- 
ficare , o anche come figura di sentimento nata da sagacità d’ingegno. 


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zione di cose dello stesso genere sempre crescenti, fino che 
giungasi a quella massima di cui parliamo: il contrario è il 
decremento. Cosi di Cicerone contro Verro. « Facinus est 
» vincire civem romanum ; scelus verberarc ; prope parri- 
» cidium necare; quid dicam in crucem tollere? » Le figure 
poi di sospensione e di dubitazione offrono per se materia 
a questa specie di amplificazione , come può vedersi negli 
esempi ivi addotti. 

E nell’orazione prò Ligario VI usando insieme dell’incrc- 
raento e decremento impiccolisce Cicerone e quasi annulla 
la colpa di Ligario e degli altri pompeiani, dicendo contro 
Tubcrone « Scelus tu illud vocas , Tubero ? Cur ? isto enim 
» nomine illa adhuc causa caruit. Alii errorem appcllant , 
» alii timorem, qui durius spem, cupiditatem, odium, per- 
» tinaciam; qui gravissime temeritatem ; scelus practcr te 
» adhuc nemo. Ac mihi quidem, si proprium et verum no- 
» men nostri mali quaeratur, fatalis quaedam calamitas in- 
» cidisse videtur , et improvidas hominum mentes occupa- 
» visse », 

§. III. Dell’amplificazione per ragionamento . 

L’ amplificazione per ragionamento può farsi in due 
modi, o in modo diretto, o in modo indiretto. 

L’amplificazione per ragionamento in modo indiretto è 
quando s’ ingrandisce una cosa per far comparire un altra 
maggiore, aliud augetur ut aliud crescat. (Quintili. Vili. 3) 
Come esaltando l’insigne valore militare d’ Annibaie per vie 
meglio encomiare le virtù del vincitore di lui Scipione. 

Il modo poi diretto di amplificare per ragionamento si 
è quando da alcuni antecedenti e dalle cause ben note , si 
deducono, descrivendole e annoverandole, le conseguenze e 
gli effetti: ovvero da taluni effetti noti si risale alle cause 
descrivendole e annoverandole. Addurrò un solo esempio di 
Cicerone, che comprende l’uno e l’altro, dicendo. « Quereris 
» raultis modis vexatam esse provinciam , sed causas cala- 


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» milalis attende. Vigebat in ea ambitila, luxuria domina- 
» batur, segnes erant magistratus, populus ipse molli otio- 
» saque segnitie diffluebat. Expccta igitur damna longe ma- 
li iora. Exaurientur pecuniae, iacebit spreta religio , fures 
» impure crassabuntur cc. » 

Basti di aver qui brevemente dato 1* idea dell’amplifi- 
cazione , c dei principali modi d’ amplificare. E poi officio 
del maestro, e degli scolari diligenti notare negli autori clas- 
sici l’uso continuo che ne fanno, e l’arte varia e squisita nel- 
l’adoperare e variare le amplificazioni, che come a princi- 
pio fu detto formano il sommo pregio dell’oratore e di qual- 
sivoglia scrittore in prosa o in poesia. 

CAPITOLO VI. 

DELLE SENTENZE E DEI MOTTI ARGUTI. 

L’opposto dell’amplificazione sono le sentenze. Imperoc- 
ché l’amplificazione svolge un concetto e lo dilata ampiamente, 
la sentenza al contrario raccoglie in poche parole il senti- 
mento, e come il succo di lunghi discorsi, o di universale 
esperienza. Onde la sentenza (presa antonomasticamente) si 
è una proposizione di largo e profondo intendimento : come 
initium sapientiae timor Domini: ed anche, adolescens iuxta 
viam suam, etiam cum senuerit non recedei ab ea , e così : 
La morte agguaglia il signore al servo, e la verga reale alla 
marra, traendo le persone dissimiglianti con simigliante con- 
dizione: ed anche, ninna cosa è che guadagni tanto gli animi 
quanto la benignità. Di tal fatta sono le sentenze morali delle 
favole d’Esopo, i proverbi di Salomone, gli aforismi filosofici 
di Talete, di Seneca, e tante altre sentenze sparse qua e là 
negli autori classici, molte delle quali possono vedersi rac- 
colte e volgarizzate con aurea lingua da Fra Bartolommeo 
da S. Concordio, col titoli ammaestramenti degli antichi. 


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87 

Ora cosiffatte sentenze sono opera di alto intelletto, di 
lungo stadio ed esperienza; e però non possono i giovanetti 
per se stessi formarle; ma solo diligentemente raccoglierle dai 
grandi maestri e farne nella lor mente tesoro , per quindi 
usarne all’opportunità quali gemme per ornare ed illustrare 
i loro componimenti. 

Oltre cotesto genere di gravi sentenze ve n’ ha un al- 
tro di motti arguti e scherzevoli, che sono anch’cssi pro- 
posizioni contenenti in sé molto succo e molto sale. Ai quali 
motti scherzevoli ed arguti, oltre l'acutezza d’ingegno, ri- 
chiedesi naturale attitudine, e genio lieto e arguto, che non 
può per precetti acquistarsi , ma solo alquanto regolarsi; 
affinchè (come si disse parlando della ironia) nè ecceda in 
buffonerie, nè cada in bassezze plateali , nè in scipitezze ; 
altrimenti contro chi affettasse di comparir faceto in tal 
modo, converrebbe appropriarsi quel motto arguto dicendo: 
lui esser più per la faccia che per le facezie ridicolo. Potrà 
anche leggersi utilmente il discorso che su tali motti arguti e 
faceti fa Cesare presso Cicerone de Orator. 1. II. cap. 54. ec. 
E circa le sentenze in generale può eziandio consultarsi la 
Rettorica d’ Aristotile tradotta da Ann. Caro 1. II c. 21; e 
Quintiliano 1. Vili c. 5. 

Or le sentenze sì gravi come scherzevoli, quando vengano 
usate opportunamente, c quasi da sè nate nel discorso , di 
molto illustrano , abbelliscono e rafforzano qualunque ma- 
niera di componimento , e per fin 1’ epistole familiari. Ma 
come il sale nelle vivande , così conviene usarne , tanto 
quanto basti a condire il discorso c nulla più. 


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LIBRO SECONDO 


Deirartc di comporre ed ordinare il discorso. 




J. ulte le cose esposte nel primo libro circa la buona elo- 
cuzione sono come i preludi dell’ arte rettorica , non però 
ne costituiscono il pregio principale e per cosi dire 1’ es- 
senza dell’arte. 


Di ciò ne abbiamo un chiaro esempio dalla pittura. 
L’arte di scegliere e impastare i colori, di adoperare il pen- 
nello o altri argomenti per disegnare i contorni, incarnare e 
modellar le figure, ritrarre con naturalezza il panneggio, trat- 
teggiare opportunamente il chiaroscuro, queste e simiglianti 
cose sono come i materiali , gl’ istrumenti e le predisposi- 
zioni all’arte nobilissima del dipingere. Cose al tutto neces- 
sarie a far sì, che la mano obbedisca all’ intelletto e al ge- 
nio dell’ artista; non consiste però in queste il pregio pri- 
mario e costitutivo della pittura, nè formano esse di per sé 
sole l’eccellenza del dipintore. 

L’ arte e il genio pittorico sta nell’ ideare e concepir 
bene il soggetto , e nello scegliere , disporre , atteggiare e 
animar le figure per modo, che tutto con evidenza e natu- 
ralezza rappresenti al vero l’ ideato. 

E però quest’arte sì sublime come nella pittura , così 
nell’eloquenza e in ogn’altra delle arti di genio, risulta da 
due cose , dall’ invenzione , e quasi direi creazione della 
materia, e dal dare alla materia stessa la forma, la dispo- 
sizione, la vita : e in breve, risulta dall’arte d’ inventare, e 
di comporre. Noi pertanto riservando per ultimo il trat- 
tato della invenzione , come il più difficile , parleremo ora 
dell’ arte di comporre, e in prima : 


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CAPITOLO I. 


DELLE QUALITÀ’ ESSENZIALI A QUALSIVOGLIA COMPONIMENTO. 

Le qualità essenziali a qualsivoglia componimento le 
racchiude Orazio in questo verso: 

Denique sit quodvis simplex dumtaxat et unum. 

Cioè in ogni componimento richicdesi la semplicità e l'unità, 
ovvero la semplice unità. 

E qui dee notarsi , come per unità non intendesi già 
quella matematica, che esclude qualunque numero e com- 
posizione di parti; ma s’ intende l’unità di sistema. Il sistema 
poi si definisce, «» complesso di forze coordinate ad un fine, 
ovvero, un complesso di parti coordinate a formare un tutto. 

Chi pertanto imprende a favellare o a scriver di qualche 
cosa, dee proporsi un fine determinato, cioè d’ insegnare e 
persuadere altrui qualche utile verità. E quindi tutte le im- 
magini , tutti gli argomenti , tutte in somma le parti del 
suo discorso debbono tendere al fine da lui inteso. 

Ora siffatta unità di sistema , affinchè riesca perfetta , 
esige due cose, l.° scelta di mezzi atti ad ottener quel fine: 
2.° conveniente disposizione e ordinamento nell’adattarveli. 
La sceltezza de’ mezzi forma la semplicità, il buon coordi- 
namento di essi forma l’unità del componimento. 

E quanto alla scelta de’ mezzi, essa consiste in ciò, che 
nelle nostre composizioni non siavi nè più nè men del bi- 
sogno. Non meno; perocché il poco spesso produce oscurità: 
brevis esse laboro, obscurus fio: sempre poi rende il compo- 
nimento secco, mancante, snervato. Non oltre il bisogno; 
poiché, come la soverchia copia de’ cibi produce sazietà, e 
fastidio, così la ridondante loquacità annoia e stanca 1’ at- 
tenzione dell’ uditore. La moltiplicità stessa poi delle cose 
cagiona altresì confusione, e porta di leggieri fuor di strada. 
Sian pur belle in sè le descrizioni, le erudizioni, gli epi- 
sodi, se non sono a proposito, a nulla valgono. E direbbesi 


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Non erat his locus. Quindi anche avverrà , che mentre io 
scrittore erasi proposto di trattare un argomento, troverassi 
sbalzato in un altro: e potrem dir con Orazio : 

Amphora caepit institui, currente rota, cur urceus exit? 

Ma non vuoisi già riprovare con ciò la fertilità dcl- 
l’ ingegno, che ingrandisce magnificamente, c variamente le 
cose: solo riprovasi, e dee togliersi 

Quod non proposito conducat, et haereat apte (1). 

Il pregio sommo de’ classici autori, sì in belle lettere, 
come in qualunque altra delle arti di genio, si è: con poco 
esprimer molto; usare il minimo dei mezzi a produrre effetti 
maravigliosi. Qui stà appunto la schietta , ingenua e natu- 
rale semplicità prescritta da Orazio. Chi altramente adopera, 
meritamente è deriso. Così un tal vizio di molli degli scrit- 
tori e artisti dell’ età sua con mordace ironia scherniva 
l’Alfieri. Sat. XIV, dicendo : 

Tutta del secol nostro è l’arte nuova, 

Dei mezzi immensi, e impercettibil opre, 

Colla clava d’ Alcide infranger l’uova. 

A dar poi l’unità ai nostri componimenti, oltre la scel- 
tezza dei mezzi, è necessario altresì disporli e coordinarli in 
modo, che rettamente collimino al fine propostoci. 

Ora non essendo altro l’ ordine se non che la disposi- 
tiva delle parti atta a ben formare il composto, conseguen- 
temente si dee concludere , che a fine di ottenere un sif- 
fatto ordine, richieggonsi tre condizioni, cioè giusta propor- 
zione, collocamento, e legame delle parti fra loro. 


(1) Dee qui notarsi con Cicerone De Orai. II. 2t. « Volo (dic’egli) se ef- 
» feral in adolescente foecnnditas. Nani sicut facilius in vililius rcvocanlur ea 
» quae sese nimium profundunl , quam si nihil valet materies , nova sarmento 
» cultura excilanlur: ita volo esse in adolescente , unde nliquid ampulem. Non 
» enim polesl in eo succus esse diuturnns, quod nini» celeriler est maturitatem 
» assequutum # ; Può anche consultarsi Quintiliano I. II. c. 4. che molto bene 
discorre in questa sentenza. 


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92 


E però qualsivoglia discorso o componimento deve avere 
principio , mezzo e fine , o sia una conveniente introduzióne 
al nostro tema , il suo sviluppo , e la conclusione , e che 
queste parti sien proporzionate, e ben collegate fra loro: 
Primum ne medio , medio ne discrepet imum (1) 
Altrimenti saremmo simili a quell’ inetto pittore , che 
ad un pigmeo ponesse la testa di gigante , ovvero che nel 
ritrarre una immagine, mentre è tutto inteso a dipingerle 
gli occhi neri e i neri capelli, facciale poi uno sconcio naso, 
e le membra slogate e distorte. 

Ciascuna parte poi, sia primaria, sia secondaria debb’es- 
ser collocata al posto suo e ben collegata colle altre 
Singula quaeque locum teneant sortita decenter. 
Pongasi cioè ogni cosa là dove valga meglio insieme colle 
altre ad ottener reffctto bramato. Imperocché la virtù del- 
l’ordine consiste in questo, che le parti sien poste per modo, 
che le antecedenti preparino c guidino alle susseguenti fino 
a tanto che giungasi allo sviluppo intero dell’ argomento, a 
guisa di una scala salendo di grado in grado fino alla som- 
mità ove posarsi. 

Così a modo d’esempio in una commedia i fatti devon 
presentarsi e procedere senza veruno studiato artificio; ma 
naturalmente a poco a poco vada svolgendosi l’intreccio sì, 
che l’intero sviluppo giunga al fine inaspettato, ove lo spet- 
tatore rimanga lietamente sorpreso e soddisfatto. Che se fin 
dal principio dia a conoscersi ove andrà a terminare la cosa, 
la commedia perderebbe ogni suo pregio. 

E però, quando lo scrittore avrà ben concepito il suo 
tema, e fissato precisamente Io scopo, vegga ciò che debba 
dir prima e ciò che sia da portarsi in seguito , quello che 


(1) A questo proposilo dice Cicerone De Orai II. 76 « Nam ul aliquidante 
» rem dicatnus; deinde ut rem proponamus; post ul eam probemus nostris prae- 
» sidiis conQrmandis , contrariis refutandis ; deinde ut concludamus , atipie ita 
» peroremus. Hoc dicendi genus natura ipsa praescripsit ». 


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debba appositamente trattare e lumeggiare, e delle altre cose 
quali appena accennare, quali, sebbene in sè belle c magni- 
fiche , pure siccome lo trarrebbon fuor di via, tralasciarle 
affatto. In somma di questo solo debbo esser sollecito , di 
trarre cioè le menti e le volontà degli uditori al suo partito 
potentemente. 

Così facendo avrassi naturalmente la sceltezza dc’mezzi, 
la proporzione , il conveniente collocamento , c legame di 
tutte sue parti, e l’opera riuscirà semplice ed una; della quale 
potrà meritamente dirsi: qui non v’ha nulla da togliere, nè 
d’ aggiungere , nè da mutare. « Quidquid aut addideris , . 
» aut mutaveris, aut delraxeris , viliosius , et deterius fu- 
» turum ». (Cic. DeOrat. III. 8.) Il che è proprio delle sole 
opere perfette e classiche. 

CAPITOLO II. 

DELLA NARRAZIONE ISTORICA. 

La narrazione in genere si è il racconto di qualche fallo 
singolare. Se il fatto sia veramente avvenuto, dicesi narra- 
zione istorica; se sia finto, diccsi mitologica. Dell’una e del- 
l’altra specie di narrazione unico e pregevolissimo è lo scopo: 
insegnare per via d’esempi qualche utile verità. 

Tratteremo in questo capitolo della narrazione istorica. 

E quanto a ciò diremo tre cose : 1° della proprietà carat- 
teristica di siffatto componimento, cioè della veracità. 2.° 
delle regole per ben comporre e condurre una narrazione * 
3.° Della varia forma di elocuzione che può darsele. 


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ARTICOLO I. 


Della veracità della narrazione istorica. 

Allineilo la narrazione di un fatto sia altrui- di vera uti- 
lità, oltre Tesser grave, decorosa, onesta, come presuppon- 
go (1), deve avere altresì la proprietà sua caratteristica la 
veracità: cioè non solo dev’esser il fatto in sè vero, ma deve 
eziandìo apparir vero a chi l’ode. 

Ora che cosa richiedesi affinchè alla narrazione di un 
fatto prestisi piena fede dagli uditori ? Richiedonsi due cose: 
l.° debb’ esser a tutti manifesta la perfetta cognizione del 
fatto in chi Io narra : 2.® l’animo suo sincero e verace nel 
narrarlo : in breve, dev’esser nota la sua scienza e probità 
istorica. 

Apparirà in primo luogo nel narratore la conoscenza 
piena e certa del fatto, se l.° manifesti i fonti sicuri, onde 
lo abbia attinto: 2.° se il racconto sia chiaro, distinto, ade- 
quato , notando ordinatamente i più considerevoli aggiunti 
e circostanze di tempo, di luogo, di persone, ec. 

La veracità poi nel narratore si farà manifesta, se costi, 
che non ha egli animo d’ ingannare, mostrando di non esser 
in ciò condotto da spirito di parti, nè da verun’altro inte- 
resse, ec., e che il fatto da lui narrato sia di tal natura, 
che se pur volesse, non potrebbe mentire. 

Recherò ad esempio la narrazione della congiura di Ca- 
tilina manifestata in senato da Cicerone, nella quale è così 
evidente la scienza e probità di lui in quel fatto, da con- 
vincere pienamente della verità non pure i senatori, ma gli 
stessi nimici. Cicerone (Cat. I. c. 4.) dice a Catilina: 

Finalmente confessami il Recognosce tandem me- 

fatto dell’altra notte: e vedrai , cum noctem illam superiorem. 

(1) Vedi il Prologo sull’officio delle arti estetiche, ed anche P. I. c. I §. 2. 
daH'onestà in genere del discorso: e può altresì consultarsi il Galateo di M. della 
Casa c. 9 - c. 44. 


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ch’io veglio più agramente per 
la salute del comune di Roma, 
che tu non fai alla sua morte. 

10 noi ti dico di nascoso. Tu 
venisti l’altra notte intra Fal- 
cavi , e nella casa di Marco 
Leca si radunarono molti di 
tua amistate e compagni d’un 
medesimo misfatto. Ardiscilo 
tu negare? Perchè taci? Se tu 

11 neghi , apparecchiato sono 
di provarloti. Chè io veggio 
qui nel senato alquanti di co- 
loro, che vi furon con teco... 
Fosti dunque Catilina, a Leca 
quella notte ; distribuisti le 
parti d’Italia ; fermasti dove 
si dovesse andare; chi rima- 
nere in Roma , cui menassi 
teco; segnasti di quale parte 
della città si mettesse fuoco , 
e dicesti, che indugiavi anco- 
ra un poco, perchè io viveva. 
Allora si trovarono due ca- 
valieri romani, che dissero di 
trarti di quel pensiero, e pro- 
miserti d’ uccidermi quella not- 
te poco innanzi il dì nel letto. 
Tutte queste cose seppi io a 
tale ora, che appena era sce- 
verata quella vostra compar 
gnia; e guarnii l’albergo mio 
di maggiore sforzo, e serrailo 
meglio, e misine fuora coloro, 
per cui tu m’ avevi mandato 


95 

Iam intelligcs, multo me vi- 
gilare acrius ad salulem,quam 
te ad pernicicm rcipublicae. 
Dico, te priore nocte venisse 
inter Falcarios (non agam ob- 
scure) in M. Laecae domum; 
convenisse eodem complures 
eiusdem amcntiac scelerisque 
socios. Num negare audes ? 
Quid taces ? Convincam si 
neges. Video enim esse hic in 
senatu quosdam , qui tccum 
una fucrunt.... Fuisti igitur 
apud Laecam iila nocte, Cati- 
lina, distribuisti partesllaliae; 
statuisti quo qucmque profi- 
cisci placeret; delegisti quos 
ftomae relinqueres, quos te- 
cum adducercs ; descripsisti 
urbis partes ad incendia; con- 
firmasti te ipsum iam esse itu- 
rum;dixisti paululum tibi esse 
etiam nunc morae, quod ego 
viverem. Reperti sunt duo 
equites romani , qui te ista 
cura liberarent , et sese illa 
ipsa nocte paulo ante lucem 
me meo in lectulo interfectu- 
ros pollicerentur. Haec ego 
omnia vix dum etiam coctu 
vestro dimisso comperi; do- 
mum meam maioribus praesi- 
diis munivi atque firmavi: ex- 
clusi cos, quos tu mane ad me 
salutalum miscras, quum illi 


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96 

salutando la mattina : concios- 
siacchè quelli vi fossero ve- 
nuti , de’ quali io aveva detto 
dinanzi a molti grandi uo- 
mini, che verrebbono a me a 
quel tempo (1). 


ipsi venissent, quos ego iara 
multis ac summis viris ad me 
id lemporis venturos esse prae- 
dixeram. 


ARTICOLO II. 

Regole per ben condurre e coordinare la narrazione. 

Nella narrazione, come in ogn’altro genere di compo- 
nimento ben fatto , dee verificarsi quel precetto d’ Orazio 
sit quodvis simplex dumtaxat et unum ; e però debb’esservi 
principio , mezzo e fine lutto suo proprio e proporzionato 
per modo, che primum ne medio, medio ne discrepet imum, 
e che ciascuna cosa sia locata al posto suo. Singula quaeque 
loeum teneant sortita decenter. 

In prima dunque richiedesi un principio adattato, cioè 
un introduzione, che guidi naturalmente alla narrazione. E 
però non sia nè troppo rimoto dal fatto, e come suol dirsi 
preso ab ovo: nè troppo grandioso, che il racconto poi non 
corrisponda all’ espettazione degli uditori ; ma sia semplice 
e proprio, atto ad eccitare la curiosità e la fede in chi ascolta. 

Che se il fatto fosse più vero che credibile per una sua 
apparenza di falsità, sarebbe da stolto venire di slancio alla 
narrazione, chè verrebbe dispreggiata, e direbbesi con Orazio 
Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi. 

E però sarà molto opportuno in tal caso usar la figura di 
preoccupazione , e più distintamente indicare i fondamenti 
che rendono certo il fatto; come a cagion d’esempio il Boc- 
caccio volendo narrare alcuni strani accidenti della peste di 
Firenze, preoccupa gli animi dei leggitori, dicendo: Mara- 
mi) Volgarizzamento del buon secolo, trailo da’ MS. Corbelliano e Chigiano. 


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97 

Tigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire , il che se 
dagli occhi di molti, e da miei non fosse stato veduto, ap- 
pena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quan- 
tunque da fededegno udito V avessi. Similmente Dante nel 
C. XXV dell’Inferno prima di narrare la maravigiiosa tra- 
sformazione di Gianfa ec. dice : 

Se tu se’ or lettore a creder lento 
Ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, 

Che io che ’l vidi appena il mi consento. 

Quanto al mezzo poi cioè all’ intera narrazione vuoisi 
l.° scegliere le cose principali e più interessanti, tralascian- 
do le altre circostanze minute, o al più accennandole; 2.* 
seguire l’ordine successivo dei tempi de’ luoghi e delle cir- 
costanze più notevoli; 3.° collocar le cose per modo che il 
soggetto principale del fatto primeggi, e ogn’altra cosa serva 
a farlo vie più spiccare : siccome veggiamo in qualsivoglia 
quadro d’ insigne pittore, che alcune figure vengon poste in 
distanza, appena accennate c sfumale, altre più prossime e 
meglio delineate e distinte, altre in ombra e di fianco, al- 
tre (quelle cioè che formano il soggetto principale) in piena 
luce e nel mezzo , espresse al vivo in tutti lor atti e fat- « 

tczze. Queste regole riguardano i costitutivi essenziali ad 
ogni buona narrazione, affinchè sia di giusta brevità, chia- 
rezza c probabilità : quanto poi al dare alla narrazione il 
colorito, per così dire, e la vivezza, da renderla gioconda, 
aggiunge Cicerone de Or. II. 80 « Sed et festivitatem habet 
» narratio distincta personis, et interrupta scrmonibus; et 
» est probabilius , quod geslum esse dicas , quum , quem- 
» admodura actum sit, exponas : et multo apertius ad in- 
» telligendum est, si consistitur aliquando, ac non ista bre- 
» vitate percurritur ». 

La fine poi o conclusione del fatto dev’esser brevissima, 
come sarebbe una sentenza morale , un cpifoneuia , o altra 
di tal fatta suggerita dalla cosa stessa. 

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Ora qui recherò in esempio una novella di Boccaccio, 
che mentre ha in sè tutte le doti richieste ad una ben con- 
dotta narrazione, mostra insieme i vizi di un imperito nar- 
rator di novelle. G. VI. N. I. 

« Nella città di Firenze fu una gentile e costumata 
donna , chiamata madonna Oretta , la quale per avventu- 
ra essendo in contado , e da un luogo all’ altro andando 
per via di diporto insieme con donne e cavalieri , i quali 
a casa sua il di avuti avea a desinare , ed essendo forse 
la via lunghetta di là , onde si partivano , a colà , dove 
tutti a piè d’andare intendevano, disse uno de’ cavalieri della 
brigata: madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi por- 
terò gran parte della via , che ad andare abbiamo , a ca- 
vallo , con una delle belle novelle del mondo. Al quale la 
donna rispose: Signore anzi ve ne priego io molto, e sarammi 
carissimo. II cavaliere, al quale forse non istava meglio la 
spada allato che ’l novellar nella lingua, udito questo, co- 
minciò una sua novella, la quale nel vero da sè era bellis- 
sima: ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una 
medesima parola , ed ora indietro tornando , e talvolta di- 
cendo , io non dissi bene , c spesso nei nomi errando , un 
per un altro ponendone, fieramente la guastava. Senzachè 
egli pessimamente, secondo le qualità delie persone, e gli atti 
che accadevano, profferiva. Di che a madonna Oretta, uden- 
dolo, spesse volte veniva un sudor freddo c uno sfinimento 
di cuore, come se inferma fosse, e fosse stata per terminare. 
La qual cosa poiché più sofferir non potè , piacevolmente 
disse: Signore questo vostro cavallo ha troppo duro trotto: 
perchè io vi priego, che vi piaccia di pormi a piè. Il cavaliere, 
il quale per avventura era molto migliore intenditore, che 
novellatore, inteso il motto, mise mano in altre novelle, e 
quella che comincialo avea, e mai seguita, senza finita la- 
sciò stare ». 



ARTICOLO HI. 


99 


Della varia forma di elocuzione che può darsi 
alla narrazione. 

La narrazione può presentarsi sotto due diverse forme 
di elocuzione , o in modo semplicemente narrativo e com- 
memorativo del fatto : o in modo rappresentativo e dram- 
matico. Il primo ama la semplicità e ingenuità del favellare, 
e giusta la natura del fatto può essere o tranquillo e se- 
reno , o anche animato da forte passione : siccome quello 
sopra riferito della congiura di Catilina. 11 secondo modo poi 
rappresentativo, come quello che è dettato da una viva fan- 
tasia, e da forte sentimento, che fa presenti e quasi pone 
su gli occhi gli avvenimenti trapassati , vuole sempre uno 
stile sostenuto e vibrato. Esempi del primo genere si hanno 
in tutti i comentari di Cesare , e nelle narrazioni che usa 
Cicerone alle sue orazioni. Abbondantissimi esempi del se- 
condo genere trovansi nei poeti; e in tutta la storia di Tito 
Livio. Recherò qui per modo d’esempio due narrazioni una 
del primo genere, tratta da Cicerone, colla traduzione del P. 
A. Cesari, e l’altra del 2." genere di Tito Livio colla tra- 
duzione italiana del 300. 

I. Narrazione Miloniana. 

Milone essendo stato quel Milo cum in senatu fuis- 

dl in senato, finché l’adunanza set eo die, quoad senatus di- 
fu sciolta , tornò a casa : si missus est, domum venit; cal- 
mato t calzamenti e le robe; ceos et vcstimenta mutavit : 
e finché la moglie (come fanno) paulisper dum se uxor (ut fit) 
si mettesse a ordine , sopra- comparat , commoratus est ; 
stette alcun poco : indi partì deinde profectus est id tem- 
a tale ora , che Clodio (il quale poris , cum iam Clodius , si 
dovea quel di venire a città ) quidem eo die Romana ventu- 
avea a tornar tutto l’agio, rus erat, redire potuissct. Ob- 
Clodio gli si fa incontro lesto viam fit ei Clodius, expeditus 


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100 

lesto a cavallo ; non cocchio , 
non bagaglio, niuna compa- 
gnia dei Greci, come era so- 
lito, senza moglie, che l’avea 
quasi sempre : laddove questo 
insidiatore, che quel suo viag- 
gio uvea ordinato per assas- 
sinarlo , veniva colla moglie 
in cocchio , impalandranato , 
con gran codazzo di gente, e 
un corteo lezioso di donne, di 
fanti e ragazzi. S’abbocca in 
Clodio , dinanzi al fondo di 
lui forse alle undici o in quel 
torno. Di presente da un luo- 
go , che gli era a cavaliere , 
ben molti gli sono addosso 
con istocchi. I primi, affron- 
tato il cocchiere, l’ammazzano. 
Milane, gittalo via il tabarro , 
salta del cocchio, e valorosa- 
mente si difende: ma quei che 
erano con Clodio , sguainate 
le coltella, parte danno volta 
al cocchio , per assalir dalle 
spalle Milone ; parte credutol 
già morto, cominciano ferire 
i servi di lui rimasi addietro: 
de’ quali quei ch’ebbero cuore 
e fede al padrone, altri rima- 
sero uccisi j altri , veggendo 
al cocchio appiccato un fatto 
d’ arme , ed essendo ritenuti 
che non soccorressero il pa- 
drone , e sentendo anche da 


in equo, nulla rheda, nullis 
impedimentis , nullis graecis 
eomitibus , ut solcbat , sine 
uxore , quod nunquam fere. 
Cum hic insidiator, qui iter 
illud ad cacdem faciendam ap- 
parasse^ cum uxore vehere- 
tur in rheda, penulatus, vulgi 
magno impedimento, ac mu- 
liebri et delicato ancillarum 
puerorumque comitatu. Fit 
obviam Clodio ante fundum 
eius, hora fere undecima, aut 
non multo secus. Statim com- 
plures cum telis in hunc fa- 
ciunt de loco superiore im- 
petum: ad versi rhedarium oc- 
cidunt. Cum autem hic de 
rheda , reiecta penula , desi- 
luisset, seque acri animo de- 
fenderet , illi qui erant cum 
Clodio, gladiis eductis, par- 
timi recurrerc ad rhedam, ut 
a tergo Miloncm adorirentur; 
parlim, quod hunc iam inter- 
fectum putarent, caederc in- 
cipiunt eius servos qui post 
erant; ex quibus, qui animo 
fideli in dominum et pracsenti 
fuerunt, partim occisi sunt, 
partim cum ad rhedam pu- 
gnar! viderent , et domino 
succurrere prohiberentur , 
Miloncmquc occisum etiam ex 
ipso Clodio audircnt , et ita 


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101 

Clodio, come Milane era già esse putarent , fecerunt id 
stato ucciso ; questi servi di servi Milonis , (dicano enino 
Milone (e lo dico non per im- non demandi criminis causa, 
porre ad altri la colpa , ma sed ut factum est) neque im- 
perchè il fatto andò pur cosi ) perante , ncque sciente , ne- 
non di ordine del padrone , non que praesenle domino , quod 
sapendolo lui , nè essendo qui- suos quisque servos in tali re 
vi, fecero quello, che ciascuno facere voluisset. (Cicer. prò 
in cosi fatto termine avria Milone §. X). 
voluto veder fare a suoi servi. 

Annotazioni rettoricke. 

Considera il Blair , come lo scopo di Cicerone nella 
celebre difesa di Milone è di mostrare, che sebbene Milone 
per mezzo de’suoi servi abbia ucciso Clodio, nondimeno ciò 
non ha fatto se non per propria difesa ; e che le insidie non 
sono state tramate da Milone alla vita di Clodio , ma da 
Clodio alla vita di Milone. Tutte le circostanze per render 
ciò probabile sono dipinte con arte maravigliosa. Nel riferir 
la maniera, con cui Milone parti da Roma, ci fa una de- 
scrizione naturalissima della partenza d’una famiglia per la 
campagna, sotto di cui non potea nascondersi alcun disegno 
sanguinario. 

Notisi con qual’arte finissima conchiude la narrazione. 
Non dice apertamente , che i servi di Milone uccidesser 
Clodio : ma che nel tumulto, senza ordine del padrone, senza 
sua saputa, fecero quello che ognuno vorrebbe, che i pro- 
pri servi facessero in simil caso. 

II. Combattimento degli Orazi e Curiazi. 

Quand’ebbero ciò fatto, i Foedere icto; trigemini, 
fratelli gemelli s’armaro , sì sicut convenerat , arma ca- 
come era ordinato. E come piunt. Quum sui utrosque ad- 
ciascuna parte confortasse i hortarentur, deos patrios, pa- 
suoi a ben fare, dicendo, che triam ac parcntes , quidquid 
il paese, i loro padri e le lo- civium domi , quidquid v in 
ro madri, i loro parenti e i exercitu sit, illorum tunc ar- 


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102 

loro amici, quelli che nono nel- 
l’oste, e quelli che sono nella 
città rimasi, riguardano a lo- 
ro e alle loro armi : allora 
uscirono nel campo tra le due 
osti fieri per natura, ed ina- 
nimati per li conforti. L’una 
oste e l’altra s’assettarono di- 
nanzi alle tende, sbigottiti e 
pensosi si del presente peri- 
colo, e sì della condizione av- 
venire : però che la quistione 
dell’ imperio era messa nelle 
mani di così pochi combatti- 
tori. Egli erano pensosi e in- 
tenti a riguardare la batta- 
glia , la quale non era loro 
a grado. 

Le trombe suonarono : 
allora si corsero sopra i gio- 
vani tre a tre , siccome due 
schiere , portanti il cuore e 
l' ardire di due grandi osti j 
e più pensavano al comune 
imperio ed alla servitudine , 
eh’ egli non facevano al loro 
pericolo; e che tale stato sa- 
rebbe il paese , quale egli il 
farebbono. Quando in prima 
s’assembrarono, ed ebbero trat- 
te le spade , grande paura e 
grande spavento prese a colo- 
ro che gli riguardavano ; e fu- 
rono sì duramente smarriti , 
eh’ egli non dicevano niente. 


ma, illorum intueri manus : 
feroces et suopte ingenio, et 
pieni adhortantium vocibus , 
in medium inter duas acies 
procedunt. Gonsedcrant utrin- 
que prò castris duo exercitus, 
pcriculi magis pracscntis , 
quam curae expertes: quippe 
impcrium agebatur in tam 
paucorum virtute atque for- 
tuna positum. Itaque ergo 
crecli suspensique in minime 
gratum spectacuium animo in- 
tenduntur. 


Datur signum: infestis- 
que armis , velut acies, ter- 
ni iuvenes maguorum exer- 
ciluum animos gerente», con- 
currunt: nec his nec illis pe- 
riculum suum; publicum im- 
pcrium servitiumque obversa- 
tur animo: futuraque ea dein- 
de patriac fortuna, quam ipsi 
fccissent. Ut primo statim con- 
cursu increpuere arma , mi- 
cantesquc fulsere gladii, hor- 
ror ingens spectantes perstrin- 
git: et neutro inclinata spe , 
torpebat vox spirtusque. Con- 
sertis deinde manibus, quum 
iam non molus tantum cor- 


I 

! 

I 

! 

i 


/ 





Egli si percuotono tra loro 
duramente de’ corpi e dell’ ar- 
mi, e si danno insieme grandi 
colpi delle spade taglienti, si 
ch'egli si fanno grandi ferite 
e profonde, onde il sangue cor- 
re in abbondanza. A quello 
iscontro furono gli albani tutti 
e tre feriti, e due de’ romani 
caddero morti l’uno sopra l’al- 
tro. A quella caduta levò l'o- 
ste degli Albani un grande 
grido e rumore-, ed a Romani 
fallì la speranza , e furono 
in gran dubbio di lor cam- 
pione, il quale era attorneato 
da tre nemici. 

Avventura fu eh’ egli 
non fu niente ferito ; e sì 
come egli non si potea com- 
battere solo con tre, cosi ave- 
va egli il cuore fiero e cru- 
dele di sconfiggerli ad uno ad 
uno. E perciò si mise a fuga 
per dipartirli , pensando che 
ciascuno de’ tre il caccerebbe 
tanto più di presso , quanto 
meno avesse indebilito il corpo 
per la ferita. Egli s’ era già 
alquanto dilungato quindi ove 
s’ erano combattuti: allora si 
riguardò indietro, e vide ch’egli 
il seguitavano assai di lungi 
l’uno dall’ altro ; e V uno di loro 
era già presso a lui. Egli si 


103 

poruin, agitatioque anceps te- 
lorum armorumque, sed vul- 
nera quoque et sanguis specta- 
culo esscnl; duo romani, su- 
per alium alius , vulneratis 
tribus albanis, expirantes cor- 
ruerunt. Ad quorum casum 
quum conclamasset gaudio al- 
banus exercitus, romanas le- 
giones iam spes tota, nondum 
tamen cura deseruerat exani- 
mes vice unius , quem tres 
Curialii circumstcterant. 


Forte is integer fuit , 
ut universis solus nequa- 
quam par, sic adversus sin- 
gulos ferox : ergo , ut se- 
gregare pugnam eorum, ca- 
pessit fugam, ita ratus secu- 
turos, ut quemqnc vulnere af- 
fectum corpus sineret. Iam 
aliquantum spatii ex eo loco, 
ubi pugnatum est, aufugerat, 
quum respiciens videt magnis 
intervallis sequentes : unum 
haud procul ab sese abessc: in 
eum magno impctu redit. Et 
dum albanus exercitus incla- 
mat Curiatiis, ut opem ferant 
fratri , iam Horatius , caeso 
hoste , victor secundam pu~ 


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104 

tornò tantosto verso lui, e in- 
tanto che gli Albani gridava- 
no agli altri due che soccor- 
ressero il loro fratello , Orazio 
V uvea già morto , e correva 
sopra l’altro. Allora levaro- 
no i Romani un gran grido, 
sì come sogliono spettatori che 
dal disperare passino al rin- 
corare, e confortarono il loro 
battagliere ; e quegli si affrettò 
di compiere sua battaglia. Si 
che innanzi che ’l terzo l’ar- 
rivasse, che già non era molto 
di lungi , ed accorreva , egli 
ebbe l’altro conquiso e morto. 

E così rimase uno degli 0- 
razii, e uno de’ Curiazii: ma 
egli non erano niente eguali, 
però che il Romano era nè 
tanto nè quanto ferito, ed era 
fiero e coraggioso della vit- 
toria ch’egli avea avuta j l’al- 
tro era sì lasso, si per lo correre 
e si per la ferita, la quale for- 
temente l’avea indebilito, e fu 
sì sgomentato per la morte 
de’ suoi fratelli, che giacevano 
morti dinanzi da lui, che ap- 
pena si tenea ritto. Quella più 
non era battaglia. Orazio l’as- 
sali valentemente: io ho dis- 
s’egli, mandato all’inferno due 
de’ tuoi fratelli , e il terzo 
manderò incontanente, sì che 


guani pelebat: tum clamore, 
qualis ex insperato faventium 
solet, Romani adiuvant mili- 
tem suum: et ille defungi proe- 
lio festinat. Prius itaque quam 
alter, qui nec procul aberat, 
consequi possct , et alterum 
Curiatium coniicit. 


Iamque acquato Marte 
singuli supererant ; sed nec 
spe , nec viribus pares : al- 
terum intactum ferro cor- 
pus et geminata victoria fc- 
rocem in certamen tertium 
dabant : alter fessura vul- 
nero , fessum cursu trahens 
corpus, victusque fratrum an- 
te se strage, victori obiicitur 
hosti: nec illud praelium fuit. 
Romanus exultans, duos, in- 
quit, fratrum Manibus dedi: 
tertium causae belli huiusce, 
ut Romanus Albano imperet, 
dabo. Male sustinenti arma 
gladium superne iugulo defi- 
git, iaccntem spoliat. Romani 
ovantes et gratulantes Hora- 


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105 

per cagione di questa batta- tiumaccipiunt:eomaiorecum 
giia i Romani abbiano sigilo- gaudio, quo prope metum res 
ria sopra gli Albani. Curia- fuerat. 
zio sosteneva appena il suo 
scudo. Orazio il fiere da alto, 
e ficcagli la spada per la gola: 
e quando egli l’ebbe abbattu- 
to alla terra, egli lo spogliò. 

1 Romani lieti ed allegri ri- 
cevettero Orazio ; e di tanto 
ebbero maggior gioia, in quan- 
to il fatto era stato in mag- 
gior pericolo. 

Allora si tornarono am- Ad sepolturam inde suo- 

bedue le parti a seppellire i rum, nequaquam paribus ani- 
suoi morti ; ma egli non e- mis vcrtuntur , quippe im- 
rano già d’ un animo ; pe- perio alteri aucti, alteri ditio- 
rò che V una parte a vea ac- nis alienae facti. Sepùlcra ex- 
cresciuto il suo imperio, e tant, quo quisque loco cecidi!: 
l’altra era tornata a servitù- duo romana uno loco propius 
dine altrui. I sepolcri furono Albam , tria albana Romam 
fatti là, dove ciascuno era ca- versus, sed distantia locis, et 
duto : i due de’ Romani in un ut pugnatum est. (Tit. Lir. 
luogo verso Alba, e quelli di 1. I. 25.) 

Alba verso Roma ; l’ uno di 
lungi dall’altro siccome era 
stata la battaglia (1). 

Annotazioni rettoriche. 

Non bavvi qui esordio, perchè ('avvenimento è parte di 
storia per se gravissima. Somma semplicità e unità d’azione. 
Accennato il sagrifìcio , l’ armamento de’ combattenti , e la 
viva esortazione de’suoi, con una pennellata dipingesi il luogo, 

(1) Volgarizzamento del buon secolo , pubblicalo per cura del prof. C. 
Dalmazzo. Torino 1845. 


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[ 



106 

e le circostanze del fatto. Gli eroi doppiamente feroci pro- 
cedere in mezzo alle dne armate, innanzi alle tende schie- 
ratesi, incerte della lor sorte. 

E qui qual vivezza dà alla narrazione quel subito , e 
tronco, datur signum ! Infiamma i combattenti alla pugna, 
gela il cuore agli spettatori. 

Notisi come sia bene espressa la magnanimità e il valore 
dei combattenti, dicendosi, che non il proprio pericolo, ma 
quello sol della patria avendo fisso in animo scagliansi contro 
a guisa di due schiere , cui l’ardor de’ due grandi eserciti 
era quasi trasfuso. 

Nè potrebbe più al vivo dipingersi l’ effetto prodotto 
negli spettatori, che dicendo, che allo squillo della tromba, 
e al primo furioso scontro dei prodi, horror ingens spectantes 
perstringit , per modo che non osavan pur trarre il fiato , 
torpebat vox spiritusque. Notisi come espressivo sia il suono 
stesso delle parole. 

Quanto poi alla descrizione del combattimento noterò 
l.° come quelle parole, duo Romani , vulnerati s tribus Al- 
banie, corruerunt , servono opportunamente a due cose, e 
ad indicare il valore dei vinìi, che cadendo dieron sangui- 
nosa vittoria ai tre Albani ; ed a preparare la via all'ultimo 
memorando avvenimento , nel quale trovandosi il Romano 
intatto, e i tre Albani spossati dalle ferite, scorgesi chiara 
la ragione del combattimento e della vittoria. 

Considero poi in 2.° luogo, come la pugna di uno contro 
tre è al sommo animata sì per la fierezza de’ combattenti , 
come per le grida e per li vari sentimenti degli eserciti ; 
ma ciò fino a tanto che cade estinto il secondo Albano : ivi 
cessa il furore, e la narrazione altresì procede pacatamente, 
dicendosi , che aeguato Marte, quanto al numero, non però 
quanto alle forze di corpo e di animo dei due campioni , 
il Romano già sicuro della vittoria, colle parole e colla spada, 
senza contrasto, offre e svena il terzo qual vittima alla sal- 
vezza della patria. 


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107 

La conclusione è brevissima, e la più naturale. Romani 
ovantes et gratulantes Horatium accipiunt ; c l’uno e l’altro 
esercito ad sepulturam suorum nequaquam paribus animis 
vertuntur. 

CAPITOLO III. 

DELLA NARRAZIONE MITOLOGICA 0 SIA DELLA FAVOLA. 

La narrazione mitologica, o sia la favola, è il racconto 
di un finto avvenimento, fatto non a fine d’ingannare, ma 
d’istruire altrui dilettando. 

Le favole poi sono di tre specie : l.° quelle composte 
di tutte persone ragionevoli, dette comunemente parabole o 
novelle, come sono quelle di parecchi scrittori sacri c pro- 
fani. Al tutto divine sono poi le parabole, che usò il divin 
Redentore per insegnare anche ai più rozzi in un modo 
sensibile c piano le più sublimi verità (1). 

2. ° L’altra specie di favole, dette comunemente apologi , 
componesi di bestie ed eziandio di esseri inanimati, cui s’at- 
tribuisce il sentimento e la favella umana : come quello del 
lupo e 1’ agnello , della vipera c la lima di Fedro , quello 
della congiura fatta dalle membra- contro il ventre di Me- 
nenio Agrippa, e l’apologo narrato nel libro de’Giudici c. IX. 
v. 8 e seg. degli alberi che cospirarono per eleggersi fra loro 
il re. 

3. ° La terza specie di favole è mista di esseri ragio- 
nevoli e irragionevoli come la favola del vecchio e l’asino ec. 

Le regole a ben formare e condurre coleste finte nar- 
razioni sono le stesse di quelle da noi già poste nel capo 
precedente per le narrazioni vere. E però nulla occorre su 
di ciò aggiungere. Quello che rimane a dire come lutto 

(1) Anche le commedie , le tragedie, i poemi possono in cerio modo ap- 
pellarsi favole, non essendo essi , che un complesso di molli finii avvenimenti , 
cosi bene Ira loro intrecciali, da rappresentare in atto i costumi degli uomini. 


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108 

proprio di qualunque specie di favole, si è la verosimiglianza . 
Sembrerà forse cosa strana a taluno , come non pur nelle 
parabole, ma per fin negli apologi, ove e alle bestie, e alla 
stessa materia bruta dassi il senso c il discorso umano , 
possa rinvenirsi il verosimile. Ma qual cosa più naturale 
all’uomo che siffatte finzioni ? Trova egli in tutta la natura 
oggetti simili a sé , meltcsi in comunicazione con tutte le 
cose , quasi fossero dotate di sentimento e d’ intelligenza , 
prende da loro argomento di rappresentare al vivo le pro- 
prie idee. Quindi l’uso frequentissimo delle metafore, delle 
allegorie, delle personificazioni ec. E però da questo stesso 
fonte naturale derivasi l’uso delle favole d’ogni maniera. 

Or questa propensione naturale dell’uomo di ravvisare 
negli oggetti che cadono sotto i sensi altrettante immagini 
di sè stesso e de’suoi atti ; e dalle cose materiali sollevarsi 
ai concetti intellettuali, fè nascere ad Esopo l’idea di com- 
porre l’insigne opera delle favole, per le quali sotto forme 
le più semplici c leggiadre di animali ecc. rese facili e di- 
lettevoli anche ai fanciulli i più gravi e utili ammaestra- 
menti. Opera che dai sapienti di tutte l’età fu riputata un 
tesoro di morale sapienza , c che Io stesso Socrate , padre 
della filosofia, gloriavasi- d’averla posta in versi (1). Per la 
quale gli Atenicnsi fecero scolpire a Lisippo una statua 
d’ Esopo c poserla per prima fra quelle dei sapienti della 
Grecia (2). 

Vediamo ora quali regole debbonsi tenere, affinchè le 
favole abbiano la verosimiglianza. La favola ha due parti, 
una è la narrazione del fatto , l’altra è 1’ applicazione del 
medesimo o sia la morale: e sì l’una come l’altra debb’esser 
verosimile. 

Pertanto ad ottener questa duplice verosimiglianza quan- 
to alle parabole sono necessarie quattro cose : I. fingere un 

(1) Piai’ in Phoedonc. 

(2) Vedi Fedro. Epilogo al 1. 2.° ed Agazia I. 4.° dell’ Antologia lit. 34. 
sopra i filosofi. 


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109 

fatto probabile ed interessante : II. determinare il carattere 
proprio di ciascun personaggio. E ciò può farsi in due modi: 
primieramente si posson fingere nuove persone, dando loro 
il carattere ed il costume proprio secondo 1’ età, il paese, 
l’educazione, lo stato e la professione, che vuoisi a ciascuno 
appropriare: in 2.° luogo possono scegliersi dei personaggi 
noti già dalla storia , o finti dagli autori classici come la 
novella del Boccaccio di Giotto e Forese , gl’ interlocutori 
nei dialoghi di Platone e di Cicerone; l’Achille, il Nestore, 
l’ Ulisse ec. d’ Omero. III. Determinato poi il carattere di 
un personaggio conservarglielo fino al fine 
.... Servetur ad imum 
Qualis ab incacpto processerit, et sibi constet. 

IV. Poste finalmente in atto , e in comunicazione fra loro le 
persone, lo scrittore non deve punto più apparire ; ma ogni 
cosa procedere da sè , come le speciali circostanze natural- 
mente portano fino al pieno sviluppo dell’avvenimento. 

Le stesse quattro regole dianzi poste per le parabole 
valgono eziandio per gli apologi , e per le favole miste , 
con questa sola differenza, che dovendosi personificare e dare 
il discorso alle bestie, alle piante, e ad altri esseri naturali, 
conviene por mente alle lor qualità naturali , ove meglio 
rassomiglino ai fatti c costumi degli uomini. 

Le forme il carattere e le operazioni istintive delle be- 
stie , chi ben le considera , rappresentano molto da vicino 
l’ indole e i costumi varii degli uomini, come la fedeltà del 
cane, l’astuzia della volpe, la mansuetudine della pecora ec. 
Così le piante buone e cattive rappresentano i buoni e cat- 
tivi effetti prodotti dall’uomo virtuoso c vizioso. 

Adunque colta bene la natura e le proprietà delle be- 
stie e di altri esseri naturali , la personificazione sarà ve- 
rosimile c gaia; quindi avran luogo le predette quattro re- 
gole sulla scelta del fatto probabile e interessante, sulla spe- 
ciale caratteristica dei personaggi, sul conservarne in sino 
al fine l’ indole e ’l costume coerente a sestessi, e sul pro- 


I 


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110 

cedimento spontaneo dell’ azione. Ora recherò ad esempio 
una novella ed un apologo. 

Novella di messer Forese e dt maestro Giotto. (Boc. V. Gr. VI.) 

» Egli avviene spesso , che siccome la fortuna sotto 
vili arti alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, 
cosi ancora sotto turpissime forme d’uomini si trovano ma- 
ravigliosi ingegni della natura essere stati riposti. La qual 
cosa assai apparve in due nostri cittadini, de’ quali io in- 
tendo brievemente di ragionarvi. Perciocché l’uno, il quale 
messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona 
piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, ... fu di 
tanto sentimento nelle leggi; che a molti valenti uomini un 
armario di ragione civile fu reputato. E l’altro, il cui nome 
fu Giotto, ebbe un ingegno di tanta eccellenza, che niuna 
cosa della natura , madre di tutte le cose ed operatrice , 
con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse 
sì simile a quella, che non simile, anzi piuttosto dessa pa- 
resse : intantochè molte volte nelle cose da lui fatte , si 
trova, che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello 
credendo esser vero, che era dipinto. E perciò avendo egli 
quell’arte ritornata in luce, che molti secoli, sotto gli er- 
rori d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degli ignoranti, 
che a compiacere all’ intelletto de’ savi era stata sepulta ; 
meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puo- 
te: e tanto più, quanto con maggiore umiltà maestro degli 
altri in ciò vivendo quella acquistò, sempre rifiutando d’es- 
ser chiamato maestro. II quale titolo rifiutato da lui, tanto 
più in lui , risplendeva , quanto con maggior desiderio da 
quelli , che men sapevan di lui , o da’ suoi discepoli , era 
cupidamente usurpato. Ma quantunque la sua arte fosse 
grandissima, non era egli perciò, nè di persona, nè d’aspetto, 
in niuna cosa più bello, che fosse messer Forese. Ma alla 
novella venendo, dico. 

Avendo in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni 
ed essendo messer Forese le sue andate a vedere in quegli tempi 


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Ili 

di state che le ferie si celebran nelle corti, e peravventura 
in su un cattivo ronzino a vettura venendosene , trovò il 
già detto Giotto, il qual similmente, avendo le sue vedute, 
se ne tornava a Firenze: il quale nè in cavallo, nè in arnese, 
essendo in cosa alcuna meglio di lui, siccome vecchi, a pian 
passo venendone, s’accompagnarono. Avvenne, come spesso 
di state veggiamo avvenire , che una subita piova gli so- 
prapprcse. La quale essi, come più tosto poterono, fuggi- 
rono in casa d’un lavoratore amico e conoscente di ciasche- 
duno di loro. Ma dopo alquanto , non facendo l’acqua al- 
cuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì 
a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantelletti 
vecchi di romagnuolo, e due cappelli tutti rosi dalla vec- 
chiezza , perciocché migliori non v’ erano , cominciarono a 
camminare. Ora essendo essi alquanto andati, e tutti molli 
veggendosi, e per gli schizzi, che i ronzini fanno co’ piedi 
in quantità zaccherosi , le quali cose non sogliono altrui 
accrescer punto d’ orrevolezza ; rischiarandosi alquanto il 
tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, comincia- 
rono a ragionare. E messer Forese, cavalcando ed ascoltando 
Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a con- 
siderarlo, e da lato, e da capo, e per tutto, e veggendo 
ogni cosa così dissorrevole e così disparuto, senza avere a 
sè niuna considerazione, cominciò a ridere e disse : Giotto, 
a che ora venendo di quà all’incontro di noi un forestiere, 
che mai veduto non t’avesse, credi tu, che egli credesse, che 
tu fossi il miglior dipintore del mondo, come tu se’ ? A cui 
Giotto prestamente rispose: Messere, credo che egli il cre- 
derebbe allora , che guardando voi , egli crederebbe , che 
voi sapeste 1’ a , bi , ci. Il che messer Forese udendo , il 
suo error riconobbe , e videsi di tal moneta pagato , quali 
erano state le derrate vendute ><. 




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112 


Favola del lupo e della gru. 

Fedro I. I. f. Vili. 

Chi fa servizio a’ mal- Qui pretium meriti ab im- 
vagi per ottenerne ricompensa, probis desiderai, 

due falli commette ; primiera- Bis peccai: priinum quoniam 
mente perchè dà aiuto agl’in- indignos adiuvat; 

meritevoli, l’altro perchè non Impune abire deinde quia iam 
può più partirsene senza dan- non potest. 

no. Os devoratum fauce cum hae- 

H lupo avendo intraver- reret lupi, 

salo in gola un osso da lui Magno dolore victus coepit 
ingoiato, vinto dal gran do- singulos 

lore si mise a lusingare la Inlicere pretio, ut illud ex- 
gcnte con promessa dipremio, traherent malum. 

che gli levassero quel dolore. Tandem persuasa est iureiu- 

Finalmente una gru per rando gruis, 

giuramenti vi si lasciò indur- Gulacque credens colli lon- 
re, e affidando il lungo collo gitudinem, 

alla gola del lupo , gli fece Periculosam fecit mcdicinam 
quella cura pericolosa. Per lupo. 

la quale dimandando il pat- Pro qua cum pactum flagi- 
tuito premio: ben se’ ingrata tarct praemium: 

le disse , che avendo portata Ingrata es, inquit, ore quae 
salva la testa dalla mia boc- nostro caput 

co , dimandi anche mercede. Incolume abstuleris, et mer- 
(Traduz. di M. Tom. Azzoc- cedem postulcs. 

chi). 

Annotazioni retoriche (1). 

Questa favola è breve e semplice, ma di una bellezza 
da non potersi imitare nella sua semplicità, ch’è la princi- 
pal sua dote. Os devoratum : questo vocabolo è molto pro- 
prio ad esprimere l’azione d’un lupo affamato, il quale non 
mangia, ma ingoia o piuttosto divora con avidità. Magno 

(1) Rullili. Della maniera d’insegnare e di studiare le belle lettere ec. tom. 1. 


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113 

dolore victus caepit singulos illicere predo. Il lupo natural- 
mente non è un animale mansueto e supplichevole. La vio- 
lenza è sua proprietà. Gli costò dunque di molto il discen- 
dere a tanto umili preghiere. Segui lungo combattimento 
fra la sua naturai fierezza e il dolore che soffriva. Questo 
alla fine superò: e tanto bene lo esprime la parola victus. 
Dolore magno oppressus non avrebbe presentato la stessa idea. 
Inlicere ovvero illicere predo. Questa voce è elegante e de- 
licata. Se ne faccia sentire c ben intendere la squisitezza, 
non meno che negli altri composti allicere , pellicere , e se 
ne adducano degli esempi tratti da altre favole di Fedro ec. 
Ut illud extraherent malum, in vece di dire illud os : l’ef- 
fetto per la causa; qual differenza? Tandem. Questo voca- 
bolo dice molto: e fa intendere , che gran numero d’ altri 
animali era già stato invitato ; ma non erano stati tanto 
sciocchi quanto la gru. Persuasa est iur durando. Neppur 
ella avrebbe prestato fede alla semplice parola del lupo. Fu 
necessario un giuramento, e senza dubbio de’ più terribili; 
e con ciò la semplice si credette in sicuro. Gulaeque cre- 
dens colli longitudinem. Si può meglio esprimere 1’ azione 
della grù ? Per intendere tutta la bellezza di questo verso, 
basta ridurlo alla semplice proposizione : et collum inserens 
gulae lupi: collum solo è poco, collum longum dice di più: 
ma non presenta così al vero l’ idea, come col sostituire al- 
l’aggettivo il sostantivo colli longitudinem. Pare che il verso 
si allunghi non meno che il collo della grù. Ma la pazza 
temerità di questa bestia, che ora mette il suo collo den- 
tro la gola del lupo, si può meglio esprimere che con que- 
sta parola credens ? . . . Periculosam fecit medicinam lupo. 
Poteasi dir semplicemente: Os extraxit a gula lupi: ma fe- 
cit medicinam ha molto più di grazia; e l'epiteto periculo- 
sam esprime a qual rischio siasi esposto questo medico im- 
prudente. Si abbia la diligenza, spiegando medicinam , che 
qui significa un operazione chirurgica, di far notare ai gio- 
vanetti, come presso gli antichi i medici non erano distinti 

8 


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da’ chirurgi e nc facevano le funzioni. Flagitaret. Questo 
verbo significa dimandare con istanza ed importunità , sti- 
molare, sollecitare, ritornar sovente a far la richiesta: pe- 
teret, postularet non avrebbono la stessa forza. Ingrata es, 
inquit ec. Questa maniera assai comune presso Fedro, e in 
tutti i racconti , è molto più viva , che se si dicesse t re- 
spondit lupus , ingrata es , cc. Si faccia anche osservare 
quanto abbia di vivacità e di forza la risposta del lupo. Ore 
nostro è molto migliore, che meo. Il lupo si tiene come un 
animale d’importanza. 

CAPITOLO IY. 

DELLE LETTEBE (1). 

Le lettere in generale sono un colloquio fallo per iscritto 
fra persone assenti. Queste poi dividonsi in due classi, altre 
sono di ragion privata, altre di ragion pubblica. 

Di ragion pubblica sono quelle che trattano di cose ap- 
partenenti al bene generale delle società, quali sono le let- 
tere scritte da’principi e magistrati fra loro o ai ministri, e 
anche di dotti politici circa la pace, la guerra, il commer- 
cio, in una parola il regime e l’andamento della repubblica. 

Le lettere di ragion privata, dette comunemente fami- 
liari , sono quelle che trattano delle cose appartenenti alle 

(1) Giusto Lipsie [Ep istolica institulio) la queste annotazioni erudite. 
« Epistolam àtri tòu im<7T« AXsiv, quasi missoriam (cum Isidoro missam dieas) 
» aliis eliam nominibus prisci appeliavere ; literas (podice eliam literam) ob 
„ emincnliam , et quia hoc genus creherrimi inter literas omnes usms. Item fa- 
» baiai, tabellas, codicilla s. Isidorus aiL Ante charlae et membranarum usum 
u in dolatis ex tigno codicilli s epi'.tolarum colloquia scribebantur. Unde et 
» portatore s earum tabellarios vocarunt. Apud Homcrum Proleus literas Bel- 
» lorophonlis tradii scriptas sv jtivcxxi irruxru in tabella plieala. — Fieri solitae, 
» includa cera, e fàgo, abiete, buso, tilia sive phylira, acere, citro, ebore. Usi 
» tamen et diaria, ut ex Marliaie chartae epistolare! . Formà crani pagellae et 
» spccies minuti libelli. Al publicas literas grandiorc forma et transversa cliarta 
» scribcbanl ». 


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singole persone, e che sono nella vita comune. Di queste in 
primo luogo diremo 

ARTICOLO I. 

Delle lettere di ragion privata. 

Le lettere di ragion privata e familiari , come si é 
detto, riguardano le persone e le cose degl’individui, e come 
dice Lipsio, quae res tangunt nostras aut circa nos, quae- 
que in assidua vita. Ora di queste considereremo tre cose: 
l.°la materia: 2.° la forma o sia la disposizione della ma- 
teria medesima: 3.° la elocuzione sua propria. 

I. Quanto alla materia , le lettere non hanno deter- 
minati confini, essendo svariatissime e quasi infinite le cose, 
che posson dare argomento al dialogo fra gli uomini si a 
voce come in iscritto. Pur tuttavia , (presupposto eh’ elle 
sieno cose vere, . utili ed oneste) tutte necessariamente com- 
prendonsi sotto due soli generi. Imperocché o appartengono 
all’ istruzione dell’intelletto, o all’eccitamento della volontà 
per qualche partito da prendersi. E però le lettere, tanto 
se sieno di proposta, quanto di risposta, secondo la materia 
le distinguiamo in due classi, che denominiamo o di genere 
dimostrativo, o di genere deliberativo. 

Quelle di genere dimostrativo poi suddividonsi in tre 
specie, che diremo istoriche, patetiche, critiche. Le istorichc 
sono quelle lettere, ove si danno o si richieggono le notizie 
di fatti avvenuti, che interessano le persone cui scriviamo, 
o dello stato attuale di prosperità o di avversità nostro, o 
delle persone a noi congiunte per parentela o per amicizia ec. 

Le patetiche son quelle, ove manifestaci i sensi affet- 
tuosi di amicizia, di ossequio, di benevolenza, di compas- 
sione, di gratitudine peri benefici offerti, o dati, o ricevuti. 

Le critiche finalmente son quelle , colle quali dassi 
qualche insegnamento dottrinale , ovvero si proferisce sen- 
tenza circa le azioni altrui , e circa le cose bene o male 


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avvenutegli, o che preveggonsi in avvenire. Di questa specie 
sono le lettere di lode di biasimo, di rallegramento, di con- 
doglianza, di buono o cattivo augurio: e le relative risposte 
di ringraziamento, di scusa, di proponimento ec. 

II genere deliberativo poi si è quello, ove studiasi di 
persuadere altrui qualche azione da farsi , o da evitarsi. 
Tali sono le lettere di commissione, le precettive, le con- 
sultive, P esortative, quelle di preghiera o di raccomanda- 
zione. 

II. Quanto alla forma o sia alla disposizione da darsi 
alla materia , sebbene soglia dirsi, che nelle lettere ottimo 
consiglio sia di non badare punto all’ordine, ma scriver le 
cose come cadono in mente c sotto la penna : pure ciò 
deve intendersi cum grano sali s (1). Con ciò non altro si 
vuol intendere, se non che l’ordine e la disposizione nelle 
lettere dev’essere cosi naturale e spontaneo, che non venga 
pur il minimo sospetto di studio. 

Per altro anche al genere epistolare conviene pur che 
si adatti quel gran principio d’Orazio 

Denigue sit quodvis simplex dumtaxat et unum. 

E però anche le lettere debbono avere il lor principio , il 
mezzo e il fine, proporzionato e proprio. 

Il principio naturalissimo si è, oltre l’invocazione della 
persona con qualche gentile epiteto , come mio carissimo 
amico, pregiatissimo signor N. ec. l’indicare eziandio l’oc- 
casione e l’oggetto, onde imprcndesi a scrivere. Se la let- 
tera sia di risposta , l’ occasione la porge la stessa lettera 


(1) Giusto Lipsio op. rii. C. VI. dice delle lettere « Nec in ordine quidem 
» admodum laboro, qui optimus in epistola negleclus aut nullus. Ut in coUoquiis 
» incuriosum quiddam et incomposilum amamus , ila hic. Adeo ut nec in re- 
» sponsionihus ordine et disiincte ad capita sempcr respondeamus, sed ut visura 
» atque ut hoc illudve in raentem aut calamura venit. Omnino decora est haec 
» incuria: et magnus magister (Cic. ad Alt.) recle monuit ; epistola* debere in- 
» terdurr. hallucinari. Itaque die ipse haesitat, revocai, turhat, miscel: nec quid- 
» quam magis curasse videlur, quam ne quid curae praeferret ». 


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ricevuta : come per esempio il Redi. Di nuova e grande 
contentezza mi è stata la lettera di V. S. mentre porta la 
conferma della sua ricuperata sanità. E P. Farini così in- 
comincia una risposta di condoglianza. Mi è stata di grande 
afflizione la novella, che mi avete data della morte di vostro 
padre, cc. Se poi la lettera è di proposta, sta bene indicare 
senza più l’oggetto o argomento che vuol trattarsi: come 
Paolo Costa, per esempio incomincia: Mi rallegro che siate 
stato fatto professore in Forlì j e il Bembo. Mando a V. S. 
il primo frutto , che quest’ anno nella mia villetta è stato 
colto ec. E A. Caro. Questa sarà per dirvi che io son vivo 
e che quei che vi scrive son io e non un altro , ec. (1). 

Quanto poi al mezzo, o sia al corpo della lettera, con- 
viene distinguere due sorte di lettere, altre di un solo, al- 
tre di moltiplice argomento. Quelle di un solo argomento 
hanno in sè l’unità del pensiero. E però fa d’uopo conser- 
vargliela nello sviluppo, scegliendo cioè quelle idee e quelle 
cose, che a questo unico fine conducono, né troppe nè po- 
che, e aver cura di ben collocarle. 

Le lettere poi di moltiplice argomento debbono aver 
pur esse un ordine lor proprio. Ed in prima le materie non 
sien confusamente poste, ma ben distinte fra loro. Sien poi 
collocate con discreta gradazione, sì che non si passi dalle 

(1) G. Lipsio C. HI. dice De praeloquio, quod ex rii u praemittitur. « Olira 
» in fronte ponebant bina nomina nuda, suum et alienum; nec addebanl nomina 
» honorifìca , nisi quis in imperio esse! aut magistrati!. Ex. gratin P. Servili»? 
» Rollìi? Trib. pi. X. Vir. Gneo Pompeio Proconsoli ; nec epilhela olla nisi 
» ad unice caros et domestico.?, uti humanissimos, optimos, suavissimos, suas 
» anima* , plerumque *uo*. Al hodie addi solet ; maxime rex , illustrissime 
» princeps, amplissime domine ec. per miserala ostentatone m. -Post nomina, 
» ex colloquiorum more addilum de salute, uti apud Graecos j^aipsi*, Siaysi», 
» «vsptTTn»; quod ita expressit Horatius 

Celso gaudere et bene rem gerere Albinovano 
Musa rogata refer. 

» En velus ordiendi formula S. V. B. E. E. V. Si vales, bene est ; ego valeo, 
» vel S. V. G. E. V. Si, vales gaudeo ; ego valeo. Omitlebant hacc inlerdum 
» reges quasi per maieslatem ». 


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cose di grave momento alle minime , nè dal lieto e scher- 
zevole al triste c luttuoso. Per ultimo dee procurarsi ehe 
siavi un certo legame fra le materie, come appunto avviene 
nel discorso familiare , che un idea ne suscita un’ altra e 
così di seguilo. 

Finalmente la conclusione, o termine della lettera dev’es- 
sere analogo all’ argomento che si è trattalo nella lettera 
medesima, come appunto suol avvenire nel congedarsi due 
persone dopo il colloquio avuto, cioè la preghiera, l’augu- 
rio, il saluto ec. Aggiuntavi di più la sottoscrizione del pro- 
prio nome, e la determinazione del luogo, giorno, mese 
ed anno che si scrive. E fuori la soprascritta col nome e 
i titoli onorevoli della persona cui si scrive, e il luogo ove 
diriggesi la lettera (1). 

III. Quanto all’elocuzione e allo stile poi, sogliono as- 
segnarsi dai maestri {parecchie doti o qualità , come per 
es. Lipsie dice: (in epistolis) servando est brevità s , perspi- 
cuità s, simplicitas, venustas , decentia, la più parte delle quali, 
a mio avviso , sono comuni a qualunque altro genere di 
componimento: una principalmente si è la dote caratteristica 
delle lettere, la schietta ingenuità. Deve in essa risplendere 
il candore d’animo sincero e libero , come appunto è nel 
discorso familiare c amichevole fatto a voce. Imperocché 
(come dice Demetrio Falereo. Della elocuzione) : ciascuno 
fa quasi il suo ritratto scrivendo le lettere. E sebbene in 
qualunque discorso conoscasi in qualche modo il costume 
dello scrittore ; pure in nessun altro scorgcsi tanto bene , 

(1) » Valedictio ab antiquis cxprimehalur plerumqoe per verbum Vale: 
aliquando cum addictiuucula mi anime, mi euavisrime: vel alio verbo ad ar- 
gomentimi apio: Vale et veni: vince et vale: Deum precor ut te servet , con- 
ni io tua fortunet ec. Supcrscriptio nunc semper usurpanda cuna titoli* ob ta- 
bellari couimunes , et ob eos qui recipiunt. Olim quia per certos tabellari 
nolos millelmnt, saepe nil aliud adhihcbanl quam tignum, quod plemmque eral 
imago propria , aut alienili; e maiorilms , impressa ceree sive crelae : et tinum 
seu vinculum, quo epistola diligala, et cui signum impositum crai ». Cosi Ià|isio 
cit. cap. IV. 


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quanto nelle lettere. 2 /éSèv yàp ùxòva I xatate; rijg eauta 
<pu ^5 ypatpei xat £7r«7ToX>jv: x«i Èuri fc£y x«i e? àXXa XÓ78 
Traviò; ìoéiv rò sSog rS ypatpcv rag : èl ; sSsvò; de sia; , àg 
iniGTohjg. 

E però, come nota il medesimo Demetrio, una tale sin- 
cerità di parlare esclude la rotondità di grandiosi periodi, 
c gli studiali ornamenti: ama bensì la nitidezza cd eleganza 
dello stile, ma al tutto ingenuo e spontaneo, secondo qucIPan- 
tico detto ouxcy ouxsv, ficus ficus ,che in italiano direbbesi: 
pane pane , vino vino. 

E quanto alle grazie ed eleganza aggiungcsi da Lipsio: 
Duplex admonitio. l.° ut adagia allusionesque ad dieta et 
facta velerà, versiculos aut argutas senlentias utriusque lin- 
guae interdum immisceas: 2 .° ut iocis, saliòusque interdum 
condias . 

E siecome in ogni genere di componimenti caput artis 
est scribere accommodate ; così le lettere debbon essere adat- 
tate alle particolari circostanze di tempo, di luogo, di cose, 
e alla persona ebe scrive, ed a quella cui scrivesi. 

In somma il carattere proprio di qualsivoglia lettera si 
è che esprima una sincera, affettuosa, e sensata conversa- 
zione fra persone civili e colte. 

E però la regola compendiaria e pratica a bene scriver 
lettere si è, primieramente di pensare alle cose che vogliamo 
scrivere, e anche notarle per summa capita, e ordinarle in 
carta : quindi rappresentarsi alla fantasia come presente la 
persona cui scriviamo: e come direbbonsi le cose a voce cosi 
scriverle. Voglio questo stesso interessante precetto ripor- 
tarlo colle parole del chiarissimo Avv. Luigi Fornaciari 
(Esempi di bello scrivere in prosa - Lettere .) Cosi dice egli: 

« Vuoi tu scriver lettere ? Fingi che colui , al quale 
vuoi scrivere sia presente , e che tu a voce gli dia quella 
notizia , gli raccomandi quella persona , gli chieda quella 
grazia , gli faccia quella riprensione ; in somma gli parli 
di quell’ affare , di che scrivere gli vuoi ; e cosi come gli 


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parleresti, gli scrivi. Scherzeresti tu ? E tu gli scrivi schei'-* 
zando. Gli useresti rispettose parole ? E tu rispettosamente 
gli scrivi. Gli parleresti col cuor sulle labbra ? E la tua 
scrittura sia calda di queH’affetto. Tanto più la lettera è da 
pregiare, quanto più è immagine del familiare discorso: salvo 
(già s’ intende) quella maggior nettezza di modi, che a chi 
scrive è dato meglio di conseguire, che a chi parla». 

Resta ora che i giovani molto si applichino alla lettura 
e allo studio delle lettere di classici autori, quali al certo 
in latino sono le pressoché 1000 epistole di Cicerone, tesoro 
conservatoci dal liberto Tirone: e in italiano quelle di A. 
Caro , di T. Tasso , del Bembo ec. Ne recherò alcune ad 
esempio al fine di questo capitolo. 

ARTICOLO II. 

Delle lettere di ragion pubblica. 

Le lettere di ragion pubblica non sono quelle che trat- 
tano di cose riguardanti 1’ utile privato delle persone che 
conversano fra loro per via di scritto , ma sì bene quelle 
che riguardano l’utilità comune o di una intera repubblica, 
o anche di tutta la razza umana. 

Queste distinguonsi in due generi; o sono lettere dot- 
trinali, dirette alla coltura speculativa c pratica degli uo- 
mini; ovvero sono lettere politiche, che trattano dell’anda- 
mento, e del regime delle repubbliche. 

Le dottrinali , o riguardano punti speculativi di filo- 
sofia, di teologia o di altre materie scientifiche e artistiche, 
ed allóra tali lettere sono mere dissertazioni, come per es. le 
lettere accademiche di Genovesi ec: ovvero riguardano punti 
morali e religiosi ad istruzione comune : e allora tali epi- 
stole sono vere orazioni didascaliche, omelie ec. come sono 
I’ epistole filosofiche di Seneca : l’ epistole canoniche degli 


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Apostoli, quelle dei vescovi , dei concilii, dei romani pon- 
tefici a tutta la cristianità. 

Le lettere politiche poi o sono scritte tra privati che 
ragionan fra loro dell’andamento della repubblica, come fu 
la celebre corrispondenza di Cicerone con Attico , ovvero 
sono lettere scritte da principi e magistrati fra loro per trat- 
tare della pubblica amministrazione , cioè di alleanza , di 
pace, di guerra, di milizia, di commercio ec. 

Cosiffatte lettere sono di somma utilità e per la storia 
e per la scienza politica. Piacemi di recare qui ciò che ne 
dice Bacone da Verulamio, gran filosofo, e gran politico. 
(De Augmentis Scientiarum 1. II c. 12). Dopo aver detto 
che per la politica conviene studiare e conservare nella me- 
moria i fatti c i detti degli uomini illustri , soggiunge : 
« Sed rnaiora adhuc pracstantur auxilia ad instruendam pru- 
» dentiam civilem ab epistolis, quae a viris magnis de ne- 
» gotiis seriis missac sunt. Etenim ex verbis hominum, ni! 
» sanius aut praestantius , quam huiusmodi cpistolae. Ha- 
» bent enim plus nativi scnsus, quam orationcs; plus etiam 
» maturitatis, quam colloquia subita. Eaedem quando con- 
» tinuantur secundum sericm temporum (ut fìt in illis quae 
» a legatis, praefectis provinciaruin, et aliis imperii mini- 
» stris ad reges vel senatum, vel alios superiores suos mit- 
» tuntur, aut vicissim ab impera toribus ad ministros) sunt 
» certe ad historiam, prae omnibus pretiosissima supellex ». 

E nel 1. VII c. 2 dopo aver commendato lo studio degli 
annali e delle vite degli uomini illustri per acquistare la 
prudenza politica; afferma riuscire anche più giovevole lo 
studio di siffatte lettere, dicendo: « Imo reperire est basim 
» ad praeceptioncm de negotiis utraque illa historia adhuc 
» commodiorem. Ea est, ut discursus fiant super epistoias* 
» sed prudentiores et magis serias, quales sunt illae Cice- 
» ronis ad Atticum , et aliae. Siquidem epistolae magis in 
» proximo, et ad vivum negotia solent repraesentare, quam 
» vel annales, vel vitac ». 


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Di qualunque genere o dottrinale o politico sian coteste 
lettere, ognuno facilmente conosce , che non possono scri- 
versi se non da uomini di molta dottrina, maturità ed espe- 
rienza, e però non sono temi da trattarsi da giovanetti. Le 
regole per la disposizione, ed elocuzione quanto al l.° ge- 
nere sono presso a poco le stesse di quelle che daremo per 
le orazioni perfette rispetto alla parte argomentativa delle 
medesime : quanto al 2." genere poi sono le stesse di quelle 
che abbiamo già date per le lettere di ragion privata; con 
questa sola differenza, che essendo e le cose che traltansi, 
e le persone cui scrivesi, gravi e di alta dignità, conviene 
che anche lo stile sia alquanto più elevato, ma sempre pur 
conservando l’urbanità, schiettezza, e libertà di favellare : 
re rs X'Xpnvrog xxt «j/va. (Demetrio). 

ARTICOLO III. 

Esempi di lettere latine e italiane di ragion privata. 

Lettere di Cicerone colla traduzione del P. A. Cesari. 

I. Lettere di genere dimostrativo. 

1 .° Lettere istoriche, ove si danno o si dimandano notizie. 

Epistolar. ad div. 1. VII. ep. 26. 

Racconta che in una ce- Argumentum. Fungos et 

na augurale alcuni funghi ed herbas in augurali cocna sua- 
erbe con grato sapore appre- viter condi tas sibi morbum 
state gli han fatto male. attulisse narrat. 

Dal Tusculano. Cicerone In Tusculano. GalloS.D. 

a Gallo S. 

Avendo io da dieci giorni Quum decimum iarn 

mal di budella, e non potendo diera graviter ex intestinis la- 
(per non aver febbre) a coloro borarem ; neque iis qui mea 
che dimandavano l’opera mia, opera uti volebant, me pro- 
provare che io non istessi bene , barem non valere, quia febrira 
mi son rifuggito nel Toscola- non haberem, fugi in Tuscu- 


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no; dove son da ben due giorni 
che non gustai eziandio del- 
l’acqua : di che rifinito di lan- 
guore e di fame, io desiderava 
meglio un tuo servigio , non 
che io pensassi che tu ne di- 
mandassi da me. Or io , il 
quale ho gran paura di tutte 
le malattie, ne ho troppo più 
di questa , per la quale gli 
stoici mordono il tuo Epicuro, 
perchè dicesse, sé portar con 
molestia la dissuria e la dis- 
senteria, delle quali questa di- 
cono venire da ghiottoneria, 
l’altra da intemperanza viep- 
più vergognosa. Veramente io 
temeva di questa dissenteria : 
se non che mi pare che o il 
mutar del luogo , o anche il 
ricreamento dell'animo, e forse 
lo stesso allentare del mor- 
bo , che viene invecchiando , 
m abbia giovato . Tuttavia, ac- 
ciocché tu non li maravigli , 
e sappia onde mi sia questo 
male incontrato , e per qual 
mia colpa, quella legge circa 
lo spendere , la quale mostra 
aver indotto la frugalità, essa 
mi ha governato così. Imper- 
ciocché volendo questi nostri 
gaudenti recar in onore i frut- 
ti della terra e l’erbe che per 
essa legge sono eccettuate, per 


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lamini; quum quidem biduum 
ita ieiunus fuissem , ut ne 
aquam quidem guslarem. Ita- 
que confectus languore et fa- 
me, magis tuum otfieium de- 
sideravi, quam abs te requiri 
putavi rneurn. Ego autem 
quum omnes morbos refor- 
mido, tum in quo Epicurum 
tuum stoici male accipiunt , 
quia dicat duaspmcc xai òvg-v- 
xepntx nocSrj sibi molesta esse: 
quorum alterum, morbum c- 
dacitatis esse putanl; alterum 
etiam turpioris intemperan- 
tiae. Sane Svge'sctpt'av perti- 
mueram. Sed visa est mihi 
vel loci mutatio , vel animi 
etiam relaxatio, vel ipsa for- 
tasse iam scnescentis morbi 
remissio profuissc. Attamen 
ne mircre,unde hoc acciderit, 
quomodove commiserim. Lex 
sumptuaria quae videtur Xtxó- 
T>jT0t attulisse, ea mihi fraudi 
fuit.Nam dum voluntisti lauti 
terrà nata, quae lege cxcepta 
sunt, in honorem adducere ; 
fungos , helvcllas , herbas 
omnes ila condiunt, ut nihil 
possit esse suavius. In cas 
quum incidissem in cacna au- 
gurali apud Lentulum, tanta 
me duzpfoia arripuit, ut ho- 
die primum videatur caepisse 


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modo condiscono i funghi, i le- 
g umetti e tutte l' erbe, che egli 
è una vera delizia. Adunque 
essendomi ad esse abbattuto, in 
una cena augurale in casa di 
Lentulo, e’ me ne prese siffatta 
diarrea, che questo è il primo 
dì, che pare cominciata a ri- 
stagnare : e così io , il quale 
senza fatica mi astenea dalle 
ostriche e dalle murene , ri- 
masi alla stiaccia dalla bietola 
e dalla malva. Ma quinci in- 
nanzi andrò ben più avvisato. 
Or avendo tu saputo ogni par- 
ticolarità di questo accidente 
da Anicio ( che mi vide collo 
stomaco riversato), ben avevi 
giusta cagione non pur di 
mandare a me , ma eziandio 
di venirmi a vedere. Io fo ra- 
gione di starmi qui finché mi 
riabbia: conciossiachi forze e 
carne ho perduto: ma caccia- 
tone il male, spero di legger- 
mente ricuperarle. 

Stà sano. 


consistere. Ila ego qui me o- 
streis et muraenis facile ab- 
stinebam, a beta et a malva 
deccptus sum. Posthac igitur 
crimus cautiores. Tu tamcn 
quum audisses ab Anicio (vi- 
ditenimme nauscantcm), non 
modo mittendi causam iustam 
habuisti , sed etiam viscndi. 
Ego hic cogor commorari 
quoad me rcfìciam. Nam et 
vires et corpus amisi. Sed , 
si morbum deputerò, facile, 
ut spero, illa revocabo. Vale. 


Annotazioni. 

Epicuro ostentando fortezza d’animo sul finir della sua 
vita scriveva ad Emarco dicendo « Tanti autcm aderant vi- 
scicae et torminum morbi, ut nihil ad corum magniludinem 
posset accedere : ut pccf/tspia rè napyxeXsSst xoct Svav/rspixcè 
nàBì], vnepfioXrjv sx ùnoXunóv ra rS sv iavroìg piy&ug. Cice- 
rone 1. II. 30. De finib. pone in contradizione i detti d’Epi- 
curo col fatto : e mostra quanto sia stata più gloriosa la 


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125 

morie di Epaminonda, di Leonida e di altri illustri perso- 
naggi. Gli stoici poi attribuivan quei mali agli stravizi 
d’ Epicuro. 

Coena augurali. Gli Àuguri nel ricevere il sacerdozio 
davano ai colleghi lauta e splendida cena. 

Epistolar. ad Quinlum fratr. 1. III. 7. 


Conta del finimondo di 
pioggia che fu in Roma: che 
arrivato a Roma scriverà al 
fratello , come altresì a Labie- 
no e a Ligurio. 

In Roma , e troppo più 
nella via Appia fino al tem- 
pio di Marte , è uno smisurato 
allagamento. La camminata 
di Crassipede giardini ed alber- 
ghi a gran numero portati via. 
Ecco verificato quel d’Omero. 
D’autunno quando Giove ri- 
versa rovinoso acquazzone. 
( Tutto il caso dell' assuluzion 
di Gabinio) : quando crucciato 
carica la mano su gli uomini, 
i quali per violenza ne’ lor 
concilii fanno le ingiuste sen- 
tenze e cacciano la giustizia, 
non curando la vendetta degli 
dei. Ma di siffatte cose io son 
fermo di non darmi pensiero. 

Venuto che io sia a Roma, 
ti scriverò d’ogni cosa che ci 
avrò trovata , e soprattutto 
della dittatura. Scriverò a La- 
bieno e a Ligurio. Queste cose 
ho scritte avanti dì , ad un 


Argumentum. Magnam 
Romae proluvicm fuisse nar- 
rai: se, si Romana redierit , 
ad fratrem scripturum , epi- 
stolasque ad Labienum et Li- 
gurium missurum ostendit. 

Romae, et maxime Appia 
ad Martis , mira proluvies : 
Crassipedis ambulatio ablata, 
horti , tabernae plurimae : 
magna vis aquae usque ad 
piscinam publicam. Viget il- 
lud Homeri (Iliad. XVI. 385.) 
llpocx’ bnapt'j'Z , ere XtxftpGTU- 
TGV UOM/5 Zeu'g. 

Gadit enim in absolutionem 
Gabinii 

. . .ore dy p’ èvdpsaoc xoneex- 
f itvog xxhntxtvri 
Oi fiiy èy àyopy oxsXìag xpt- 
vaai Szpt'jTxs 

Ex SedtxrjV ÌXolaaai, Ssav oncv 
cùx àXiyovxig 

Sed haec non curare decrevi. 
Romam quum venero , quae 
perspexero scribam ad te, et 
maxime de dictatura : et ad 
Labienum , et ad Ligurium 
literas dabo. Hanc scripsi ante 


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126 

piccolo lumiccino di legno, il 
quale per questo mi dava som- 
mo piacere , che mi fu detto 
essere quello appunto che tu, 
essendo a Samo, ti se’ fatto fa- 
re. Stà sano, o mio ottimo e 
dolcissimo fratello. 

Ad Div. 1. 

Delle pratiche tenute con 
Cesare circa il richiamo di 
Ligario ; e dimostra quale spe- 
ranza nutra di salvezza, ed 
esorta ad esser d’animo lieto. 

Cicerone a Ligario. 

Stammi sicuro che io nel- 
l’ attendere al tuo ben essere 
stò logorando ogni mia fati- 
ca, ogni opera, ogni studio, 
ogni cura: al che mi tira l’a- 
more che ti portai sempre gran- 
dissimo ; e così la singoiar 
pietà ed affetto de’ tuoi fratelli 
verso di te, i quali io come te 
mi tenni e tengo stretti nel cuo- 
re , non mi lasciano trascu- 
rare ufficio nè opportunità , 
che all’affetto e diligenza mia 
sia richiesto. Ma quello che io 
faccia ed abbia fatto per lo 
tuo bene, io amo meglio, che 
tei dicano le loro lettere, che 
le mie. Quel poi che io speri, 
o di che pigli fidanza , o mi 
tenga in mano circa la tua 
salute , mi piglio io la parte 


lneem ad lychnuchutn ligneo- 
lum, qui nubi erat periucun- 
dus , quod eum te aiebant , 
qnum esses Sami, curasse fa- 
ciendum. Vale mi suavissime 
et optime frater. 

VI. Ep. 14. 

Argumcntum. Quae cum 
Caesare egerit de Ligarii resti- 
tuitone, et quam spcm salutis 
liabeat, declarat , eumque ad 
lactitiam exhortatur. 

Cicero Ligario 

Me scilo omnem mcum 
laborem, omnem operam, cu- 
ram , studium in tua salute 
consumere. Nam quum te 
sempcr maxime dilexi , tura 
fratrum tuorum, quos aequo 
atque te summa benevolentia 
sum complexus , singularis 
pietas amorque fraternus, nul- 
lum me patilur oflìcii, erga te 
studiique munus aut tempus 
praetermittere. Sed quae fa- 
ciam fecerimque prò te, ex ii- 
lorum le literis, quam ex meis 
malo cognoscere. Quid autcm 
sperem aut confidanti, et ex- 
ploratum habeam de salute 
tua , id tibi a me declarari 
volo. Nam si quisquam est 
timidus in magnis periculo- 
sisque rebus, semperquc ma- 


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di dichiarar loti. Imperocché 
se c è uomo timido al modo 
ne’ casi forti e dubbiosi, e che 
sempre s’aspetti che caschi il 
mondo , anzi che speri nulla 
di bene, io son desso ; e se que- 
sto è difetto, io me ne rendo 
in colpa. E tuttavia io mede- 
simo , essendo , a’ prieghi dei 
tuoi fratelli , venuto a casa 
Cesare la mattina dell’ultimo 
di novembre, e tollerata l’in- 
degnità, quant’ella fu lunga , 
e ’l fastidio del dimandar u- 
dienza, e dell’essere ammesso ; 
stando i fratelli è parenti tuoi 
gittati a’ piè di lui, ed io 
avendogli detto quello che por- 
tava la causa e la circostan- 
za , non solo la risposta di 
Cesare, che fu ben larga e be- 
nigna, ma e gli occhi di lui 
e l’ aspetto e più altri segni 
( che più facile mi fu vedere 
che ora scrivere) mi condus- 
sero a tenermi per bella e con- 
chiusa la tua salute. Adun- 
que fa grande animo e forte ; 
e se già saviamente ti sé por- 
tato nè termini più scuri del- 
la vita, ora che essi schiari- 
scono, stammi allegro. 

Tuttavia io farò ad ogni 
tuo bisogno , come farei nel 
più disperato: nè a Cesare so- 


127 

gis advcrsos re rum exitus me- 
tuens , quam sperans secun- 
dos, is ego sum; et, si hoc 
vitium est, co me non carere, 
confiteor. Ego idem tamen 
quum a d.V.kalendas intcrca- 
lares priores, rogatu fratrum 
tuorum , venissero mane ad 
Caesarem, atque omnem ade- 
undi, et conveniendi illius in- 
dignitatem et molesliam pertu- 
lissem;quum fratres et propin- 
qui tui iacerent ad pedes, et e- 
go esscm loquutus,quac causa, 
quae tum tempus postulabat: 
non solum ex oratione Caesa- 
ris,quae sane mollis etlibera- 
lis fuit, sed etiam ex oculis et 
vultu, ex multis praeterea si- 
gnis, quae facilius perspicere 
potui , quam scribere , hanc 
in opinionem discessi, ut mihi 
tua salus duina non esset. 
Quamobrem fac animo magno 
fortique sis; et , si turbidis- 
sima sapienter ferebas, tran- 
quiiliora iaete feras. Ego ta- 
men tuis rebus sic adero, ut 
diificillimis; neque Caesari so- 
lum , sed etiam amicis eius 
omnibus, quos mihi amicissi- 
mos esse cognovi , prò te si- 
cut adhuc feci , libcntissime 
supplicabo. 

Vale. 


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128 

lamente, ma a tutti gli amici 
di lui, i quali ho trovati di 
me amantissimi , ti terrò (co- 
me ho fatto fin qui) della mag- 
gior voglia raccomandato. 

A Dio. 

Annotazioni. 

Questa visita privata fatta a Cesare da Cicerone insieme 
coi fratelli di Ligario fu in preparazione della celebre ora- 
zione prò Ligario , c in questa orazione se ne fa menzione 
al §. V. E però può servire di erudizione alla medesima, 
quando si spiega nelle scuole, come suol farsi, essendo essa 
una delle più brevi insieme, e delle più squisite e perfette. 

2.° Lettere patetiche ove dimostrami i sensi d’amicizia, 
di benevolenza ec. 

Epistolar. ad Atlicum III. Ep. 5. 

Scrive essere a lui stati Argumentum. Gratissima 

sommamente grati i tratti di sibi esse Attici in Tercntiam 


cortesia di Attico verso Teren- 
zia , c lo prega che porti a 
lui stesso anche infelice quel 
medesimo amore , che sempre 
gli ha portato in passato. 

Cicerone ad Attico S. 

Terenzia ti fa spessi e 
caldissimi ringraziamenti: il 
che mi è carissimo. Io vivo 
tribolatissimo, e mi consumo 
d’infinito dolore. Che cosa scri- 
verti non so io medesimo: con- 
ciossiacchè se tu se’ anche in Ro- 
ma già non puoi raggiugner- 
mi;se tu se’ in viaggio, trovan- 
doci insieme, tratterem di pre- 
senza quello che da far sia. 


officia scribit, et ut scipsum, 
quem semper amaverit , mi- 
serum quoque eodem amore 
complectatur, rogat. 

Cicero Attico S. 

Terentia tibi et saepc et 
maximas agit gratias. Id est 
mihi gratissimum. Ego vivo 
miserrimus, et maximo dolore 
conlìcior. Ad te quid scribam 
ncscio. Si enim es Rum ac , 
iam me assequi non potes : 
sin es in via, quum eris me 
assequutus , coram agemus , 
quac crunt agenda. Tantum 
te oro, ut, quoniam me ipsum 


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I 


* 

129 

Di sola una cosa li prego , semper amasti, eodem amore 
che come sempre mi amasti, sis. Ego enim idem sum. Ini- 
cotal sempre mi ti mantenga; mici mea mihi, non me ipsum 
da che io sono sempre quel ademerunt. Cura ut valeas. 
medesimo. I miei nemici ben Dal IV. id. apr. Thurii. 
mi tolsero le cose mie , non 
me stesso. Conservati sano. 

A’ 10 di Aprile, di Turio. 

Annotazioni. 

( Thurii ) Ista urbs Brutiorum , seu Calabriae , dieta 
Thurium et Thuriae, olim Sybaris, quo nomine propter som- 
mas incolarum voluptates innotuit. (Schiitzii) 

Epist. XVI. ep. 3. 

Significa a Tirone la sua Suum desiderium Tironi, 
pena circa lo averlo lasciato quem Patris aegrotum reli- 
infermo a Patrasso, e gli rac- querat, significai, eique va- 
comanda di aver cura di sua letudinis curam diligenter 
salute. commendat. 

M. Tullio, e’I mio Cice- M. T. Cicero et Cicero 

rane e’I fratello e’I nepote al meus et frater et fratris fii. 
swo Tirone S. Tironi S. P. D. 

Io mi credea portar bene Paulo facilius putavi pos- 

più leggermente il dolore di se me Terre desiderium tui : 
non esser teco; ma egli è l’op- sed piane non fero; et quam- 
posito. Or sebbene assai im- quam magni ad honorem no- 
porti al mio onore il venire strum interest, quam primum 
a Roma al più presto, al con- ad Urbem me venire, tamen 
trario mal mi sembra aver peccasse mihi videor , qui a 
fatto a partirmi da te. Ma te discesserim: sed quia tua 
perocché mi parve che tu fossi voluntas ea videbatur esse, ut 
fermo di non voler al tutto prorsus, nisi confirmato cor-. 
metterti in mare prima d’es- pore, nolles navigare, appro- 
sere ben riavuto, ed io appro- bavi tuum consilium , neque 
vai il tuo consiglio; e se tu nunc muto , si tu in eadem 
se’ del parer medesimo , non es sententia. Sin autem po- 

9 


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13Q 

mi rimulo eziandio al presen- 
te. Che se dopo aver cominciato 
a pigliar cibo , ti senti da po- 
ter seguitarmi , fa tu. T’ ho 
mandato Marione con ordine 
o di venir teco al più presto , 
ovvero di tornar di presente , 
se a te convenisse badare. Ora 
tu vivi sicuro, se la tua sa- 
nità non ne debba patire , non 
esserci cosa, che io meglio de- 
sideri che di averti meco: ma 
se tu vedi essere necessario 
alla intera tua riavuta di ri- 
manerti qualche tempo in Pa- 
trasso , non esservi cosa che 
io meglio desideri, che di ve- 
derti sano. Se tu puoi di trat- 
to metterti alla vela, mi rag- 
giugnerai a Leucade : ma se 
tu vuoi rifarti ben forte, tu 
ti darai tutta la cura di aver 
buon tempo, buoni compagni, 
e buona nave. Di sola una 
cosa ti guartla, o mio Tirane, 
di non darti pena per la ve- 
nuta di Marione e per que- 
sta mia lettera. Tu non po- 
tresti meglio fare la mia vo- 
lontà, che facendo quello che 
torni meglio alla tua sanità. 
Metti mano al tuo ingegno in 
pensar bene a questo , che io 
ti desidero sì, ma per amore: 
V amore mi ti fa desiderare 
di veder sano: il desiderio , 


stea quam cibum cepisti vi- 
deris tibi posse me consequi, 
luuni coosilium est. Mario- 
nem ad te co misi , ut aut 
tecuin ad me quamprimum 
veniret, aut, si tu morarere, 
statim ad me rediret. Tu au- 
lem hoc tibi persuade, si com- 
modo valetudini tuae fieri 
possit, nihil me malie, quam 
te esse mecum: si autem in- 
telliges opus esse , tc Patri» 
convalescendi causa paullum 
commorari , nihil me malie , 
quam te valere. Si statim na- 
vigas, nos Leucade conseque- 
re; sin tc confirmare vis, et 
comiles et tempcstatcs et na- 
vem idoneam ut habeas dili- 
genter videbis. Unum illud , 
mi Tiro, videto, si me amas, 
ne te Marionis adventus et hae 
Iiterac moveant. Quod vale- 
tudini tuae maxime conducet, 
si feceris; maxime obtcmpe- 
raris voluntati meae. Hacc 
prò tuo ingemo considera. Nos 
ita te desideramus, ut ame- 
mus; amor, ut valcntcm vi- 
deamus hortatur; desiderium , 
ut quamprimum. Illud igitur 
potius. Cura ergo potissimum 
ut valeas: de tuis innumcra- 
bilibus in me oificiis crit hoc 
gralissimum. 

III. nonas novembres. 


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131 


che ciò sia al più presto. Dun- 
que la cosa del vederli sano 
mi preme più. In questo adun- 
que attendi di forza, che de’ 
tuoi innumerabili servigi que- 
sto mi sarà di tutti più caro. 

A’ 3 di novembre. 

3.° Esempio di lettere critiche. 

Epistolar. ad Atticum I. XIII ep. 19. 


Scrive d essersi consolato 
del miglioramento della salute 
di Attica ; e della raccoman- 
dazione della orazione liga- 
rianaj in fine de’ libri Acca- 
demici dedicati a Varrone. 

Cicerone ad Attico S. 

Non era appena a ’ 28 par- 
tito Ilaro cancelliere , ed io 
gli avea dato per te una let- 
tera, che ecco il corner con 
tue lettere del giorno innan- 
zi: le quali senza fine mi con- 
solano del pregarti che fa 
Attica, che non ti pigli ma- 
linconia, e di ciò che tu scrivi, 
il mal non esser di risico. 

Il tuo credito ha messo 
in del come veggo la mia li- 
gariana: da che Balbo mi scris- 
se con Oppio, come senza fine 
è loro piaciuta ; e che egli per 
questo aveano mandato a Cesa- 
re quella mia orazioncella. E 
questo medesimo m’ avevi già 
scritto tu. 


Gratum sibi fuisse seri- 
bit, quod Atticae melius sit 
factum : et quod ligarianam 
orationem praeclare commen- 
daverit: postremo de Acade- 
micis ad Varronem scriptis. 

Cicero Attico S. 

Commodum discesserat 
Hilarus librarius IV Kal., cui 
dederam literas ad te, quum 
venit tabellarius cum tuis li- 
teris pridie datis : in quibus 
illud mihi gratissimum fuit, 
quod Attica nostra rogat te 
ne tristis sis , quodque tu 
àxt'vSvva esse scribis. 

Ligarianam , ut video , 
praeclare auctoritas tua com- 
mendavit. Scripsit enim ad 
me Balbus et Oppius, mirifice 
se probare; ob camque cau- 
salo ad Caesarem eara se ora- 
tiunculam misisse. Hoc igi- 
tur idem tu mihi antea scri- 
pseras. 


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132 


Quello che di Varrone 
ho fatto , noi feci già per non 
dar vista di uomo ambizioso 
(da che io aveva fermato di 
non introdurre ne’miei dialo- 
ghi persone vive), ma per quel- 
lo che tu mi scrivi, lui desi- 
derarli, e farne gran conto , 
gli ho forniti, e conchiuso in 
quattro libri, quanto bene non 
so , ma con tanta diligenza , 
che di più non avrei potuto, 
tutti i punti accademici. In 
essi la parte delle cose egre- 
giamente compilate da Antio- 
co, contro il non potersi nulla 
comprendere, V ho attribuita 
a Varrone: alle quali rispondo 
io, e tu entri terzo nel nostro 
ragionamento. Se io (come tu 
novellamente mi confortavi) 
avessi messo a disputar fra 
loro Cotta e Varrone , io re- 
stava persona muta. Ciò fu 
fatto convenevolmente nelle per- 
sone di que’ vecchi; e così fece 
Eraclide in molte opere, e noi 
altresì ne’ sei libri della repub- 
blica. E c’è anche i miei tre 
libri dell’ oratore, che forte a 
me vanno a sangue ; ne’quali 
sono altresì messe in campo 
tali persone, che a me non si 
addicea di parlare. Concios- 
siachè parlano quivi Crasso , 


In Varrone ista causa me 
non moveret, ne viderer <pt- 
Xsvdolsg (sic enim constitue- 
ram , neminem includere in 
dialogos eorum, qui viverent): 
sed quia scribis et desiderari 
a Varrone , et magni iIJum 
aestimare, eos confeci, et ab- 
solvi, nescio quam bene, sed 
ita accurate, ut nihil posset 
supra , acadcmicam omncm 
quaestionem. In eis, quae c~ 
rant contra óxarratXi ifyfav prae- 
clare collecta ab Antiocho , 
Varroni dedi; ad ea ipse re- 
spondeo; tu es tcrtius in ser- 
mone nostro. Si Cottam et 
Varronem fecissem inter se 
disputantes, ut a te proximis 
literis admoneor, meum xs>- 
fó» rcpèoancv esset. Hoc in an- 
tiquis personis suaviter fit , 
ut et Heraclides in multis , 
et nos in sex de republica li- 
bris fecimus. Sunt etiam de 
oratore nostri tres, mihi vehe- 
menter probati. In eis quo- 
que eae personae sunt , ut 
mihi tacendum fuerit. Crassus 
enim loquitur, Antonius, Ca- 
tulus senex, C. lulius frater 
Catuli, Cotta, Sulpicius. Pue- 
ro me, hic sermo inducitur, 
ut nullae esse possent partes 
meae. Quae autem his tem- 


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Antonio, Catulo il vecchio, C. 
Giulio fratei di Catulo, Cotta 
e Sulpizio. Ora il dialogo è 
introdotto, che io era fanciul- 
lo: onde a me non si conve- 
nia pigliar nulla parte. Ma 
le cose di me scritte oggidì 
hanno forma aristotelica; le 
altre persone vi sono poste per 
forma , che egli ci tiene le 
prime parti. Così ho compo- 
sto cinque libri de’ fini, asse- 
gnando la parte epicurea a 
L. Torquato , la stoica a M. 
Catone , ed a M. Pisone la 
peripatetica. Il che ho io cre- 
duto fuor di ogni invidia es- 
sendo loro tutti morti. Or 
queste cose accademiche aveva 
io, come sai, date a trattare 
tra Catulo , Lucullo ed Or- 
tensio ; ma in effetto mal s’ag- 
giustavano alle persone, essen- 
do esse troppo più sottili , che 
fosse da credere loro averle 
eziandio mai sognate. Il per- 
chè, appena letta la tua let- 
tera , che dicea di Varrone , 
l’ho afferrato come fortuna ca- 
dutami tra le mani. Non è 
cosa al mondo , che meglio 
quadri a quello studio filoso- 
fico, che è proprio la sua be- 
va , nè a quelle parti , nelle 
quali non mi venne fatto di 


133 

poribus scripsi, AptcTcts'Xsjcv 
morem habent; in quo sermo 
ita inducitur cetcroruin , ut 
penes ipsum sit principatus. 
Ita confeci quinque libros 
nepi reXfijv , ut epicurea L. 
Torquato, stoica M. Catoni, 
ncpcnazrjuxx M. Pisoni darem 
AEijXoTUTrvjrcv idfore putaram, 
quod ornnes illi deccsserant. 
Hacc academica, ut scis, cum 
Catulo , Lucullo , Hortentio 
contuleram. Sane in pcrsonas 
non cadebant: crani enim Xg- 
yn'wrsp*, quam ut illi de iis 
somniassc unquam vidercn- 
tur. Itaquc ut legi tuas de 
Varrone, tanquam ippLxlcv ar- 
ripui. Aptius esse nihil potuit 
ad id philosophiae genus, quo 
illc maxime mihi delcctari vi- 
detur , measque partes (seu 
easque partes) , ut non sim 
conscquutus, ut superior mca 
causa videatur. Sunt enim 
vehementer rtSxvx antiochia: 
quae diligenter a me expres- 
sa, acumen habent Antiochi, 
nitorem orationis nostrum ; 
si modo is est aliquis in no- 
bis. Sed tu , dandosnc putes 
hos libros Varroni, etiam al- 
que etiam videbis. Mibi quae- 
dam occurrunt : sed ea co- 
ram. 


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134 

superarlo. Imperocché le prove 
di Antioco sono assai ragio- 
nevoli. Or essendo poste in 
lutne da me, ed hanno V acu- 
tezza d’ Antioco, ed il lustro 
delle parole che loro do io , 
se però alcuno ne ho. Ma se 
questi libri tu li creda da as- 
segnare a Varrone, tu ci pen- 
serai sottilmente. E’ mi occor- 
rono diverse considerazioni : 
ma a bocca. 


Lettere di genere deliberativo. 


Lib XIII. 

Raccomanda Manio Cu- 
rio a Servio Sulpicio prefetto 
dell’ Acaia. 

M- T. Cicerone a Ser. 
Sulplicio S. 

Io amo M. Curio traf- 
ficante in Patrasso ; ed ho 
molte e gravi ragioni di farlo: 
conciossiachè m’é amico di lun- 
ghissimi tempi davanti , cioè 
fin da quando si fu messo 
nel foro : ed in Patrasso , si 
per innanzi assai volte, e sì 
novellamente in questa misera 
guerra , tutta la sua casa 
stava a mia posta; ed io, bi- 
sognandomi , ne avrei fatto 
come di casa mia. Ma il le- 
game che a lui più mi strinse, 
quasi d’una colai sacra ami- 
cizia, si è l’ esser lui intrin- 


Epistol. 17. 

Manium Curium Servio 
Sulpicio Achaiae praesidi com- 
mendai. 

M. T. Cicero Sulpicio 
S. P. D. 

M.’ Curius , qui Patris 
negotiatur, raujlis et magnis 
de causis a me diligitur. Nam 
et amicitia pervetus niihi cum 
eo est, ut primum in forum 
venit , instituta : et Patris 
quum aliquoties antea , fum 
proxime hoc miserrimo bello, 
domus eius tota mihi palai! : 
qua, si opus fuisset, tam es- 
sem usus, quam mea. Maxi- 
mum autem mihi vinculum 
cum eo est quasi sanctioris 
cuiusdam necessitudinis, quoti 
est Attici nostri familiaris- 
sima!), cumque unum praeter 


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seckissimo di Attico nostro , 
e lui solo sopra tutti ama ed 
onora. Di che se tu per ot- 
tura l’hai già conosciuto, veg- 
go questo mio uffizio essere 
troppo tardo: da che egli è di 
tale bontà ed osservanza, che 
io V ho per raccomandato a 
te già per sé stesso. Tuttavia, 
se la cosa è come dissi , ti 
prego con tutto l’ardore, che 
sopra quell’ affezione, che pri- 
ma di questa mia lettera io 
vo’ credere cheta gli abbi por- 
tata, tu lasci aggiugnere un 
colmo larghissimo della mia 
presente raccomandazione. Che 
se egli , a cagione della sua 
modestia, usò teco a riguar- 
do, ovvero non ne hai anche 
piena conoscenza, o per chec- 
ché sia altra causa , egli ha 
bisogno di più viva raccoman- 
dazione ; io tei raccomando 
per forma, che nè con più ar- 
dore , nè per più giuste ra- 
gioni potrei nessun altro rac- 
comandare. £ furò quello, 
che debbono fare que’ che rac- 
comandano in vera coscienza, 
e senza piagenterìa: poiché ti 
prometterò, o piuttosto ti pro- 
metto e ti entro pagatore per 
lui, tali essere le maniere di 
M. Curio, tale e la sua pro- 


135 

ceteros observat ac diligit. 
Quem si tu iam forte cogno- 
sti, puto, me hoc, quod Ca- 
cio, facere serius. Ea est enim 
humanitate , et observantia , 
ut cum (ibi iam ipsum per se 
commcndatum putem. Quod 
tamen si ila est , magnopere 
a te quaeso, ut ad eam vo- 
luntatem , si quam in illuni 
ante has meas literas contu- 
listi, quam maximus post mea 
commendatione cumulus ac- 
cedat. Sin autem propter vere- 
cuddiam suam minus se libi 
obtulit, aut nondum eum sa- 
tis habes cognitum, aut quae 
causa est, cur maioris com- 
mendationis indigeat; sic tibi 
eum commendo, ut neque ma- 
lore studio quemquam, neque 
iustioribus de causis commen- 
dare possim. Faciamque id , 
quod debent facere ii, qui re- 
ligiose et sine ambitione cora- 
mendant. Spondebo enim tibi, 
vel potius spondeo, in meque 
recipio , eos esse M. Curii 
mores, eamque tum probita- 
tem, tum etiam humanitatem, 
ut eum et amicilia tua , et 
tam accurata commendatione, 
si tibi sit cognitos , dignum 
sis existimaturus. Mihi certe 
gratissimum feceris, si intei- 



136 

bità e si la gentilezza , che, lexero , has litcras tantum , 
conosciutolo, avrai a dire, lui quantum scribcns confidebam, 
esser degno della tua amicizia apud te pondus habuisse. 
e di tanto calcata raccoman- 
dazione. Io avrò certo carissi- 
mo di conoscere , che questa 
mia lettera sia tanto valuta ap- 
po di te, quanto scrivendola 
mi dava il cuore. 

Ad divcrsos X ep. 3. 


Gli fa animo a bene am- 
ministrare la repubblica, e a 
cercar gloria dal lasciarla in 
fiore. Diede Cicerone questa 
lettera a Furnio legato di 
Planco, che a lui ritornava. 

Scritta da Roma Vanno 
709, il mese di novembre. 

Cicerone a Planco S. 

Mi fu carissimo il veder 
Furnio per esso medesimo, e 
anco più caro perché nell’ u- 
dirlo pareami di udire te stes- 
so. Perciocché egli mi venne 
sponendo e il tuo valor mili- 
tare, e la giustizia nel gover- 
no della provincia, e la pru- 
denza in tutte cosej aggiun- 
sevi anco quella tua gr ozio- 
sità nel trattare domestico , 
ch’io già conosco, e in fine la 
somma tua cortesia inverso 
di lui. Tutto mi rallegrò, ed 
anche V ultima cosa mi fu 
gradita. Io sono entrato , o 


Hortatur, ut rem publi- 
cam bene goral, ex ciusque 
optimo stalu gloriam quacrat. 
Hanc epistolare Cicero Furnio 
legato ad Plancum redeunti 
perferendam dedit, 

Scr. Roinae mense no- 
vembri A. U. C. 709. 

Cicero Planco S. D. 

Quum ipsum Furnium 
per se vidi libentissime, tum 
hoc libentius, quod illuni au- 
diens te videbar audire. Nam 
et in re militari virtutem , 
et in administranda provincia 
iustiliam; et in omni genere 
prudcntiam mihi tuam cxpo- 
suit, et mihi non ignotam in 
consuetudine et familiaritate 
suavitatem tuam adiunxit : 
praeterea summam erga se li- 
beralitatem. Quae omnia mihi 
iucunda, hoc extremum ctiam 
gratum fuit. Ego, Plance, nc- 
ccssitudinem conslitutam ha- 


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mio Planco, in amistà stretta 
con tua famiglia fin di prima 
che tu nascessi ; a te poi ho 
posto amore sin dalla fanciul- 
lezza ; e cresciuto in età sì 
per mio talento , sì per tuo 
avviso stringemmo insieme di- 
mestichezza. Per queste ragio- 
ni io porto in palma di mano 
la dignità tua , cui penso di 
fermo aver teco comune. Tu 
se’ giunto alla somma altezza , 
con per guida la virtù e per 
compagna la ventura ; e gio- 
vane ti se’ guadagnato quello, 
che a molti fa invidia , ab- 
battutili coll’ ingegno , e col- 
l’industria. Ora se tu darai 
retta a me, che ti porto amo- 
re smisurato , e non la cedo 
a niuno che teco possa van- 
tare una intrinsichezza più 
antica, ti partorirai la dignità 
per tutto il restante della tua 
vita dal migliore ben essere 
del comune. Ben tei sai ( che 
sdimenticartelo non puoi) esser- 
vi stato un tempo, in cui la 
gente era d’avviso, che tu an- 
dassi troppo a versi del tem- 
porale ; il che avrei anch’ io 
tenuto per fermo , se avessi 
creduto , che tu quelle cose 
approvassi, le quali sofferivi. 
Ma nel mentre eh’ io m’ ap- 


137 

bui cum domo veslra , ante 
aiiquanto, quam tu natus es- 
ses ; aiuorem autem erga te 
ab ineunte pueritia tua; con- 
tinuata iam aetatc, familiari- 
tatem quum studio meo, tum 
iudicio tuo consti tu tara. His 
de causis mirabiliter faveo di- 
gnilati tuae , quam mihi te- 
cum statuo habere commu- 
nem. Omnia summa consequu- 
lus es, virlutc duce, comite 
fortuna; eaque es adeptus ado- 
lescens, multis invidentibus, 
quos ingenio , industriaque 
fregisti. Nunc me amantissi- 
mum tui , nemini conceden- 
tem, qui tibi vetustate ncccs- 
situdinis potior possit esse , 
si audies, omnem tibi reliquac 
vitae dignitatem ex optimo 
reipublicae statu acquires. 
Scis profecto (nihil cnim te 
fugere potuit), fuisse quoddam 
tempus quum homines exisli- 
marent, te nimis servire tem- 
poribus: quod ego quoque exi- 
stimarem, te, si ea quae pa- 
tiebare, probare etiain arbi- 
trarer. Sed quum intellige- 
rem, quid sentires, te arbi- 
trabar videre , quid posses. 
Nunc alia ratio est. Omnium 
rerum tuum iudieium est, id- 
que liberum. Consul cs desi- 


138 

poneva bene circa all’animo 
tuo , stimava anco che tu ve- 
dessi quel che fare potevi. Or 
la bisogna va diversamente. 
Tu puoi giudicar di tutto e 
liberamente. Sei nominato con- 
sole nel fior dell’età , parlatore 
bellissimo, e di cotante forze , 
mentre il comune è allo estre- 
mo tapino. Deh! per gl’iddii 
immortali datti a luti’ uomo 
a quell’ opera ed a que’ pen- 
sieri , che ti hanno a frut- 
tare una dignità e gloria ol- 
ire ogni termine grande. Pe- 
rocché una sola via havvi alla 
gloria, massime oggidì, fatto- 
si della repubblica uno stra- 
zio per tanti anni, il ben go- 
vernare essa repubblica. Que- 
ste cose m’avvisai di scriverti 
a spinta piuttosto dell’amore , 
che perch’io credessi, che am- 
monimenti e precetti ti faces- 
ser mestieri: perocché ben mi 
sapeva, che tu cotesto attignevi 
a quelle medesime fonti che io. 
Laonde io farò finé: avendoti 
anzi voluto dimostrare l’amor 
mio, che il mio senno. Intanto 
io farò ogni opera e diligenza 
rispetto a quello che stimerò 
metter conto all’onor tuo (1). 


gnatus, optima a e tate, summa 
eloquentia , maxima orbitate 
reipubiicae virorum talium. 
Incurobe, per dcos immorta- 
les, in eam curam et cogita- 
lionem , quae libi summam 
dignilatera et gloriam afferai. 
Unus autem est, hoc praeser- 
tim tempore , per tot annos 
republica vexata, reipubiicae 
bene gercndae cursus ad glo- 
riam. Haec amore magis im- 
pulsus scribenda ad te putavi, 
quatti quo arbitrarer te mo- 
nilis et praeccptis egere. Scie- 
bant cnim, ex iisdem te haec 
haurire fontibus , ex quibus 
ipse hauseram. Quare mo- 
dum faciam. Nunc tantum si- 
gnitìcandum putavi ; ut po- 
tius amorem tibi ostenderem 
meum, quatn ostentarem pru- 
dentiam. Interna quae ad di- 
gnitatem tuam perlincre ar- 
bitrabor studiose diligenter- 
que curabo. 


(1) Ho riportalo queste otto lettere di Cicerone per esempio , ina chi 
bramasse proseguire un si utile esercizio sullo stile ejassieo epistolare, tanto nel 


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139 

Torquato Tasso dà l’ultimo addio al suo grande amico 
Antonio Costantini , segretario di Ferdinando Gonzaga 
Duca di Mantova. 

» Che dirà il mio signor Antonio quando udirà la morte 
» del suo Tasso ? E per mio avviso non tarderà molto la 
» novella ; perchè io mi sento al fine della mia vita, non 

» essendosi potuto trovar mai rimedio a questa mia fasti- 

» diosa indisposizione , sopravvenuta alle molte altre mie 
» solite, quasi rapido torrente, dal quale, senza poter avere 
» alcun ritegno, vedo chiaramente esser rapito. Non è più 
» tempo che io parli della mia ostinata fortuna , per non 
» dire della ingratitudine del mondo, la quale ha pur vo- 
» luto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico, 
» quando io pensava , che quella gloria , che malgrado di 
» chi non vuole , avrà questo secolo da’ miei scritti , non 
» fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone. Mi 

» son fatto condurre in questo monastero di s. Onofrio , 

» non solo perchè l’aria è lodata da’ medici più che d’alcun 
» altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo 
» luogo eminente , e colla conversazione di questi devoti 
» padri , la mia conversazione in cielo. Pregate Iddio per 
» me, e siate sicuro, che siccome vi ho amalo et onorato 
» sempre in vita, così farò per voi nell’altra più vera, 
» ciò che alla non finta, ma verace carità s’appartiene. Ed 
» alla divina grazia raccomando voi c me stesso. Di Roma 
» in s. Onofrio. » 

Annotazioni. 

In questa lettera, colla quale il Tasso dà l’ultimo ad- 
dio al suo caro amico , dimostra i sentimenti della vera 
amicizia, e della fortezza c grandezza d’animo; che mentre 
sente tutto il peso delle sue infermità, della miseria, e «lolla 


Ialino quanto nell'Italiano, putì consultare l’egregia opera ilei P Antonio Cesari 
intitolata: l.cttere di M. T. Cicerone, disposte secondo l'ordine de' tempi tra- 
duzione di A. Cesari P. O. 


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140 

ingratitudine degli uomini, e ne fa giusto lamento coll’amico, 
non s’ invilisce però punto , ma ne prende anzi argomento 
a disprezzare le cose caduche, e sollevare la mente e tutto 
il suo desiderio alla vera vita , ove col guiderdone delle 
sue buone operazioni anche 1’ amicizia si perfezzionerà , e 
sarà eterna. 

A. Caro scrive a Francesco Cenami per ismentire 
la nuova della sua morte. 

» Questa sarà per dirvi che io son vivo , e che quei 
che scrive son io , e non un altro. Dicolo perchè uno dei 
vostri napoletani , per aver inteso da non so chi , non so 
donde, che io era morto, se n’è venuto qui affusolato per 
impetrare la mia abbazia di Somma. Ma perchè son vivo, 
e la voglio per me , se ne dovrà tornare condennato nelle 
spese. Se non m’avete scritto, perchè abbiate ancor voi in- 
teso che son morto, io vi replico la terza volta che vivo, 
e mangio e beo e dormo e vesto panni , ed anco prima che 
muoia fo pensiero di rivedervi. Intanto vivete ancora voi, 
perchè mi venga fatto. Mandate le incluse a Palermo. 

£ state sano. Di Roma alli 16. Agosto 1539. 

Bernardo Davanzati a Giovanni Bardi gl’ invia 
il suo scisma d’ Inghilterra. 

» Io stimo, illustrissimo signor Giovanni, che al mondo 
si farebbe grandissimo giovamento (poiché la vita nostra è 
breve, e questa infinità di libri va sempre crescendo, e ri- 
diconsi le cose medesime il più delle volte) se di ciascun 
autore si traesse il troppo e’I vano, e si riducesse il nuovo 
e ’l buono a una quasi stillata sustanza. Il che questa no- 
stra fiorentina lingua propria sarebbe troppo ben fare per 
la sua naturai brevità , destrezza e gentilezza. Della qual 
cosa mi è venuta voglia per gloria di lei di fare questo poco 
di cimento nella scisma d’ Inghilterra (sino alla morte della 
rcina Maria , per non entrare ne’ fatti della vivente Elìsa- 
betta), il quale mando a V. S. illustrissima, pregandola per 
la nostra grande amicizia e per lo suo perfetto giudizio , 


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141 

che me ne dica il parer suo. Nostro Signore Iddio la con- 
servi. Di Firenze, il^dì l.° d’Aprile 1600. 

Il Redi augura le buone feste del S. Natale a N. N. 
scusandosi di non avergli scritto di prima 
per non aver argomento da ciò. 

» Ho scartabellate le epistole di Cicerone familiari , 
ho lette e rilette quelle ad Attico, non ho lasciato addietro 
quelle di Plinio, ho meditate con devozione quelle dei santi 
Basilio c Girolamo, ho letta l’ idea del segretario del Zuc- 
chi, di Panfilio Persico, e del Sansovino, ho fatta seria ri- 
flessione sopra Peranda, Guarino, Annibai Caro, Pietro Are- 
tino, Visdomini, Card. Bentivoglio, Gabrielli, e cento mila 
altri antichi e moderni, c pure non mi è stato possibile il 
trovare un luogo topico da potere scriver lettere agli amici 
fuori di proposito, e senza averne il soggetto; che però ho 
tralasciato sino ad ora di scrivere a V. S., caro il mio Po- 
lidoro. Ma ecco che improvvisamente sento più che di trotto 
venirmi addosso il Santo Natale , sicché teso un laccetto 
all’occasione non me la son lasciata scappar di mano : 
Onde rivolto al del gridare io voglio 
Oh feste ben venute, oh feste sante, 

Che m’avete cavato d’un imbroglio. 

Le auguro a V. S. felicissime : sta mo a quello che fa le 
minestre il concederle: ma se glie le ha da concedere con- 
forme il merito, e secondo che io glie le desidero, eh ehei, 
non basterà farla degli Indi e Nabalhei arcimonarca. E qui 
vi lascio con la pace del Signore. 

Annotazioni. 

In questa lettera vedesi 1’ arte di amplificare maestre- 
volmente un concetto semplicissimo. E vi si annoverano gli 
autori da consultarsi per imparare a scriver bene le lettere. 
A. Caro a Gherardo Burlamacchi raccomanda un suo amico. 

Per rispondere alla vostra, che mi scriveste per messer 
Gioseppo, ho, come vedete, aspettato d’aver bisogno di voi. 
Così soglio fare con gli amici più cari , e ho grandissimo 


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142 

piacere che ancora essi facciano il medesimo con me. E per 
risposta, non accade che vi dica altro, se non eh’ io vi amo 
con tutto Paniino, perchè voi lo meritate, e perchè io sono 
tenuto, amando voi me. E poiché ci siamo amici, mi pare, 
che , lasciando staro le cortigianie da canto , ci dobbiamo 
richiedere c servire l’un l’altro alla libera. E per mostrarvi 
come avete a far voi , voglio cominciar io a valermi del- 
l’opera vostra. Mcsser Lucio Francolino, amico mio gran- 
dissimo , dottore eccellente ed uomo da bene , desidera il 
giudicato della vostra città (di Lucca); e se fosse conosciuto 
da voi altri come lo conosco io, so che lo desiderereste e 
lo chiamereste voi medesimi. Ora per qualche suo disegno, 
vi si offerisce e ne priega voi. Vorrei che per l’amor mio, 
tra P autorità e la diligenza vostra e l’aiuto degli amici , 
voi faceste per modo , che questo suo desiderio avesse ef- 
fetto: ed io che in maneggi del Duca di Piacenza di molta 
importanza , ho conosciuta la dottrina , il valore e l’ inte- 
grità sua, v’assicuro che se lo fate, ne avete onore, e me 
ne ringrazierete. Ma io ve ne voglio aver nondimeno ob- 
bligo infinito. E perchè confido molto nell’amore e nell’of- 
ferte vostre , non voglio perder più tempo a pregarvene. 
State sano. 

Di Roma alli 27. d’Aprile 1551. 

Epistola di S. Paolo a Filemone 

Avea S. Paolo guadagnato a Gesù Cristo un nobile cit- 
tadino di Colossi chiamato Filemone, insieme colla sua mo- 
glie Appia, c la sua famiglia. Onesimo servo di lui lo ruba 
e fugge di casa. Consumato il furto, si riduce a Roma, e 
va a trovare S. Paolo, il quale lo accoglie e lo fa cristiano, 
ed egli serve lealmente l’apostolo nella carcere. S. Paolo il 
rimanda al padrone con una sua lettera. Essa ha questo fine: 
di ottenere ad Onesimo il perdono del fallo e del furto e 
la remissione del debito; di recar Filemone a donargli la 
libertà, e rimandarlo così licenziato a lui medesimo a Roma 
per adoperarlo ne’ servigi suoi e della chiesa. 


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143 

Paulus vinctus Christi lesu et Timothens frater Phi- 
lemoni dilecto et adiutori nostro et Appiae sorori carissitnac, 
et Archippo commilitoni nostro, et ecclesiae, quac in domo 
tua est. Gralia vobis et pax a Dco patre nostro et domino 
lesu Christo. 

Gratias ago Deo meo, scraper memoriam lui faciens in 
orationibus meis, audiens charilatem tuam , et fìdera quam 
habes in domino lesu , et in oranes sanctos. Ut communi- 
catio fidei tuae evidens fiat in agnitionc oranis operis boni, 
quod est in vobis in Christo lesu. Gaudium cairn magnum 
habui, et consolalionem in charitate tua: quia viscera san- 
ctorum requieverunt per te, frater. 

Propter quod multata fìduciant habens in Christo lesu 
imperandi tibi quod ad rem pertinet. Propter charitatcm 
magis obsecro, cura sis talis ut Paulus senex, nunc autem 
et vinctus lesu Christi. Obsecro te prò meo filio, quem gc- 
nui in vinculis, Onesimo. Qui tibi aliquando inutilis fuit; 
nunc autem et mihi et tibi utilis:qucm remisi tibi. Tu au- 
tem illum ut mea viscera suscipe. Quem ego volueram me- 
cum detincre, ut prò te mihi ministrarci in vinculis Evan- 
gelii. Sine consilio autem tuo nihil volui facere, uti ne ex 
necessitate bonum tuum esset , sed voluntarium. Forsitan 
enim ideo discessit ad horam a te, ut aeternum illum reci- 
peres. Iam non ut servum , sed prò servo carissimum fra- 
trem, maxime mihi : quanto autem magis tibi et in carne 
et in Domino? Si ergo habes me socium, suscipe illum si- 
cut me. Si autem aliquid nocuit tibi, aut debet, hoc mihi 
imputa. 

Ego Paulus scripsi mea manu: ego reddam, ut non di- 
cam tibi , quod et teipsuin mihi debes. Ita frater. Ego tc 
fruar in Domino. Befice viscera mea in Domino. Contìdens 
in obedicntia tua scripsi tibi; sciens quoniam et super id , 
quod dico, facies. Simul autem et para mihi hospitium: nam 
spero per orationes vestras donari me vobis. 


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144 


Salutai le Epaphras concaplivus meus in Christo Iesu, 
Marcus, Aristarchus, Demas, et Lucas adiutorcs mci. 

Gratta Domini nostri Iesu Christi cum spiritu vestro. 
Amen. 

Traduzione libera del P. A. Cesari. 

Paolo prigioniero di G. Cristo , e Timoteo il fratello, al 
diletto Filemone nostro cooperatore nell’ Evangelio, e ad Ap- 
pio sorella carissima ; ad Archippo vescovo, nostro fratei di 
milizia, ed a tutta la chiesa, che è nella tua casa. La gra- 
zia e la pace sia con voi da Dio padre nostro , e dal suo 
figliuol Gesù Cristo. 

Io nelle mie orazioni mi ricordo sempre di te, e per te 
ringrazio Iddio mio , che ben so la tua fede e la tua ca- 
rità, st verso di G. C., e sì verso di tutti i fedeli: la quale 
è tanta e si luminosa, che da tutti è celebrata per le tante 
opere buone che tu fai in G. C. Il che mi dà al cuore in- 
finita consolazione e allegrezza, ricordandomi che le viscere 
di tutti i fedeli furonefrefrigerate da te, e dalla tua carità, 
o dolce fratello. 

Or tutto questo m’ ispira una assai ragionevol fiducia, 
di poter usare con te l’autorità che mi dona il mio essere di 
padre tuo, e d’apostolo di Gesù Cristo , cioè di comandarti 
una cosa che è di dovere, per la quale singolarmente ti scrivo 
Ma io voglio a ciò adoperare in vece l’uffizio dell’ amor tuo 
e mio, e per questo, in luogo di comandarti, ti priego, ri- 
cordandoti, che tu se’ vecchio come me, e che io sono oltre a 
ciò legato e prigioniero di G. C: e per questo titolo te ne 
prego. Io ti scongiuro, non punto per me; ma per un mio 
figliuolo. Sì uno ne ho io a me carissimo, perchè generato 
nelle catene, figliuolo del mio dolore, figliuolo che io amo per 
questo teneramente, questo figliuolo mio tu il dei ben cono- 
scere, egli è Onesimo che ti dà la mia lettera. Questo mio 
figliuolo , tempo è , ti fu inutile ; ma al presente a te sarà 
utile, come fu a me. Ecco dunque io te l' ho rimandato, sa- 


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145 

pendo che è cosa tua. Ricevilo, te ne priego, come le viscere 
mie, cioè come figlimi del mio cuore, come me stesso. Io ve- 
ramente, avendo trovato sì tenero di me questo mio figliuolo, 
voleva ed era quasi deliberato di ritenerlo qui meco, accioc- 
ché mi servisse ne’ bisogni della mia prigionia ; e parsami 
poterlo fare , pensando ehe egli avrebbe supplito per te, ser- 
vendomi in persona tua propria, e mi parea che tu ne sa- 
resti contento, ma senza tua permissione non ho voluto: ac- 
ciocché non paresse , che questo tuo beneficio fosse forzato , 
ma libero e volontario. E che sai tu, se Onesimo non sia 
partito per questa poca d’ora da te, acciocché tu, per non 
averlo più a perdere, dovessi ora riguadagnarlo? e già non 
più come servo, ma come fratello dilettissimo in G. C.? Ora 
se Onesimo è singolarmente carissimo a me, come vedi, trop- 
po più dee essere a te , al quale egli è ora legato per dop- 
pia ragione, cioè di servo secondo la carne, e di fratello se- 
condo lo spirito di G. C. Adunque se tu mi tieni tuo amico 
e fratello, ricevi Onesimo come me stesso. Se poi egli ti fece 
ingiuria o danno nessuno, non te ne dare fastidio ; scrivilo 
alla mia ragione. Ecco io te ne fo carta di mia mano , ed 
entro pagatore del tuo debito. Io Paolo sottoscritto te ne pa- 
gherò: senza metter fuori un debito che tu hai con me: chè 
veramente tu mi dei te medesimo e l’ anima tua , avendoti 
io generato a G. C. e salvato. Così è, e tu noi negherai, 
o caro fratello. Adunque ristora e racconsola le viscere mie 
nel Signore. La tua obbedienza filiale, a me nota, mi diede 
tanta sicurtà di scriverti di questo modo: e questa mi rende 
sicuro che tu lo farai: ma che dico io così? tu farai anche 
sopra di quello , che ti ho dimandato : tanta è la fidanza 
che mi dà l’amor tuo. 

Resta ancora, o Filemone, che io venga io medesimo a 
ringraziartene. Tu farai dunque di apparecchiarmi l’ospizio 
in tua casa: perocché io spero, che per le orazioni di voi 
tutti , il Signore mi renda la libertà , e mi voglia a voi 
ridonare. 

10 


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146 


Quindi salutatolo a nome degli amici comuni, che ave- 
va in Roma ; finisce la lettera pregandogli la grazia di G. C. 

Annotazioni- 

S. Paolo a principio saluta Filemone , a nome anche 
di Timoteo , chiaro per le sue specchiate virtù , dice ego 
vinctus Christi, e Filemone diletto, c coadiutore nell’ Evangelio: 
saluta insieme la persona più cara a Filemone Appia sua 
moglie che dice sorella carissima, e il Vescovo di Colossi, 
e tutta la famiglia , onorandola col titolo di chiesa di G. 
C. Tutte cose che dispongono egregiamente alla beneficenza. 
Il dire poi, ch’egli sempre ricordasi di lui nelle orazioni, 
che ringrazia Iddio , e grandemente rallegrasi della fede e 
carità di lui inverso G. C. e tutti i fedeli, apparecchia il 
posto nel suo cuore anche ad Oncsimo. Per le quali tutte 
cose dice che avrebbe fiducia di comandargli ciò che brama, 
ma che piuttosto vuole pregarlo per la carità sua. 

Notisi quella giunta (così Cesari) , che Paolo vecchio 
prega il vecchio Filemone dalla prigione , dov’è posto per 
G. C. Oh che assalto a quel cuore ! Egli è come un dipin- 
gersi a lui curvo e canuto, stendendo ad esso le mani e le 
braccia con tutte le catene , di che 1’ avea stretta la fede 
sua e l’amore per G. C. : deh quali memorie ! Quai forti 
motivi! Or che è quel finalmente, di che Paolo vuol pre- 
gare il suo Filemone ? Obsecro te. Ti scongiuro , non per 
me, ma per un mio figliuolo, a me carissimo, generato a 
G. C. in prigione: prò filio meo , quem genui in vinculis , 
Onesimo. O sottile artifizio di carità ! Oncsimo era nome 
odioso: e pertanto egli non nomina questo ingrato servo in- 
fedele, che da ultimo, dopo aver ammollito l’animo del pa- 
drone .... Egli non vuol negar la sua colpa: ma comincia 
ad accennarla cosi dalla lunga, e alla maniera che fanno i 
padri: cioè coprendola e cambiandole nome. Questo mio fi- 
gliuolo, tempo è, ti fu inutile. Oh Dio ! come inutile ? dovea 
dire ti danneggiò, ti fece villania ed ingiuria: e in quella 
vece dice il meno di male che poteva essere: ti fu inutile: 


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147 

ma al presente a te sarà utile come fu a me. fn questa rac- 
comandazione di Paolo tutto fa prova: ogni parola è effica- 
cissima al fine proposto. Onesimo grecamente vuol dire utile: 
anche dal nome S. Paolo trae ragione di scusar questo servo, 
e di prometter bene di lui ... . (Di fatti) quando egli fu 
qui in Roma servì a me fedelmente nelle mie necessità , 
meglio da figlio che da servo . . . , il che Filemone dovea 
gradir sommamente come benefìcio fatto a sè stesso . . . . 
Comprendete voi forza di quel remisi tibi ? io te 1’ ho ri- 
mandato ? Egli importa un bel dire a Filemone : Onesimo 
partito da te si ricoverò qui nelle mie mani, commettendosi 
lutto a me; or volendolo io a te rimandare, egli non s’ar- 
rischiava di venirti davanti, temendo della tua collera: ma 
io gli ho fatta sicurtà ... tu autem illum ut mea viscera 
suscipe . . . Qual violenza all’ amoroso cuor di Filemone ! 
sentir che Onesimo, lo schiavo, il ladro, è l’amore, il cuore, 
le viscere di Paolo, di quel magno apostolo, di quel padre 
di Filemone !... Ma Paolo, usando assai accortamente la 
figura di correzione , procede a farsi il ponte ad un altro 
punto, al quale egli mirava . . . cioè a costringere Filemone 
di rimandarglielo libero. Io poteva senz’altra licenza tener 
meco Onesimo . . . , ma un sospetto di offenderti e di man- 
care alla riverenza che ti porto, usando liberamente di cosa 
tua , me Io vietò. Quantunque io il feci anche per altra ca- 
gione, ... io voglio ricevere Onesimo libero dalle tue mani 
in dono ... Ma che ?... io credo che lutto questo fatto 
sia di ordinazione peculiare di Dio . . . , il quale da ciò 
che permise volea trarne per te maggior bene ec. 

In fine tocca del furto e anche in modo dubitativo, e 
prende su di sè il debito , sebbene Filemone sia debitore 
a Paolo di tutto sè. Conclude dicendo : Refice viscera mea 
in Domino, sia che per viscera intenda sè stesso, sia Onesimo, 
che è tutt’uno. Certo che egli farà anche più di quello di 
che è pregato, gli dice di preparargli in casa l’albergo, ove 


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! 


148 

spera poler andare, e ringraziarlo. Chiude coi saluti: e col 
pregargli la grazia di G. C. 

Filemone rimandò Oncsimo libero a S. Paolo , che lo 
servisse in suo luogo , sotto la cui disciplina divenne per- 
fetto cristiano: e S. Paolo ordinollo poi vescovo della città 
di Efeso, nel luogo del suo gran discepolo Timoteo, come 
vogliono alcuni ; o certo vescovo di Borea , come ad altri 
sembra più simile al vero: e morì in fine martire di G. C.: 
e la Chiesa a dì 16. di Febbraio ne fa memoria. (Vedi Ra- 
gionane XXXV. del P. A. Cesari nell’ Op. I fatti degli 
Apostoli.) 

CAPITOLO y. 

DELLE ORAZIONI ESTE.MrORA.NEE DETTE COMUNEMENTE 
ALLOCUZIONI , PARLATE, ARINGHE. 

L’orazione in generale è quel discorso, che fa un di- 
citore ad un’ adunanza di persone , e talvolta eziandio ad 
una sola persona, a fine di persuaderle qualche verità , o 
indurla a qualche utile e onesto consiglio. 

Le orazioni poi possono distinguersi in due classi; la 
prima sono le allocuzioni estemporanee; la seconda sono le 
orazioni preparate e perfette, nelle quali sta la somma arte 
dell’ oratore. Ora queste due sorte d’orazioni non differi- 
scono fra loro nelle qualità essenziali, ma solo nelle acci- 
dentali, cioè nel maggiore o minore sviluppo e perfeziona- 
mento. Imperocché la natura stessa ci suggerisce la forma 
e il modo conveniente di favellare in qualunque siasi di- 
scorso « Nam (cosi Cicerone De Orat. II. 76) ut aliquid 
» ante rem dicamus; deinde ut rem proponamus: post ut eam 
» probemus nostris praesidiis confirmandis; contrariis refu- 
» tandis : denique ut concludamus , atquc ita peroremus. 
» Hoc dicendi genus natura ipsa praescripsit ». 

Adunque ogni orazione di sua natura deve aver tre 
parti, che diconsi esordio, contenzione, e perorazione. L’esor- 


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dio o principio del discorso ha in mira due cose, l.°«< aliquid 
ante rem dicamus a fine di conciliarci l’attenzione e la docilità 
degli uditori: 2.° di determinare precisamente il tema o la 
proposizione del discorso medesimo: deinde rem proponamus. 
La contenzione poi, che é il mezzo e quasi il corpo dell’ora- 
zione, comprende le ragioni e i motivi atti a persuader l’in- 
telletto altrui e muovere la volontà al fine da noi inteso : 
post ut eam (scilicet rem seu propositionem) probemus nostris 
praesidiis confirmandis (cioè colle prove dirette), contrariis 
refutandis (colla soluzione delle opposizioni). La perorazione 
finalmente, che è il termine del discorso, ha due uffici; l.° la 
conclusione del ragionamento fatto: 2.° l’esortazione ad ap- 
provare o eseguire ciò che si è dimostrato vero ed utile. 

Queste tre parti poi debbon essere così tra loro propor- 
zionate e collegate, al dir d’ Orazio, 

Primo ne medium , medio ne discrepet imum 
E come ripete il Petrarca 

Se al principio risponde il fine e ’l mezzo 
Ora venendo all’applicazione di queste semplicissime regole 
incominceremo dai discorsi estemporanei , perchè più facili 
c più atti agli esercizi scolastici , e che contengono in sé , 
come in seme ed in embrione, tutti gli elementi delle ora- 
zioni perfette. E siccome per gli esempi meglio intendesi il 
modo di comporre siffatti discorsi, che per astratti ragiona- 
menti: perciò scelgo a tal uopo sei bellissime parlate di T. 
Livio, incominciando dalle più semplici e spontanee, e gra- 
datamente andando a quelle di maggiore sviluppo, e di più 
posato ragionamento. Pongo poi a fronte di ciascuna di esse 
la traduzione fatta nel buon tempo della lingua nostra: per- 
chè abbiano i giovani delle due lingue esemplari classici. 
Al fine poi di ogni parlata aggiungo le annotazioni , per 

farne meglio conoscere l’artificio e la bellezza rettorica. 

* 


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150 


ESEMPIO I. 

Parlata di Veturia al suo figlio Coriolano 
che assediava Roma 

Coriolano essendo stato mandato in esilio da Roma, ne 
concepì tant’ odio, che collegatosi coi nemici del nome ro- 
mano, allo testa di un poderoso esercito dc’Volsci mosse con- 
tro Roma : e dopo aver tolto ai Romani molte castella, c 
messo a sacco e devastato le terre d’intorno, crasi appros- 
simato a cinque miglia dalla città e minacciavaie estrema 
rovina. 

Avea già fieramente disprezzalo gli ainbasciadori ro- 
mani, che insieme ai sacerdoti eransi recati colà a suppli- 
car per la pace: quando vennegli detto che fra uno stuolo 
di femmine veniva a lui la sua madre Veturia , con Vo- 
lunnia sua moglie e due piccoli figliuoli, allora egli uscito 
quasi di mente e costernato andò incontro alla madre per 
abbracciarla. Ma Veturia sentendo da ciò come rinascere 
in sé tutta la materna autorità, mutato l’aspetto supplichevole 
in severo e disdegnoso, proruppe in colali voci. 

Sofferitevi ; innanzi che Sine, priusquam comple- 

to» to' abbracciate , io voglio xum accipio, sciam, ad ho- 
sapere, se io sono venuta a mio stem, an ad iìlium venerilo; 
figliuolo , o a mio nemico : e captiva, mater ne in castris 
se io sono nella tua tenda come tuis sim ? 
prigioniera cattiva, o come tua 
madre ? 

A questo sono io con- In hoc me longa vita et 

dotta per lunga vita , e per infelix senecta traxit, ut exu- 
lo mio peccato, che in mia vec- lem te, deinde hostem vide- 
chiezza ti vedessi scacciato e rem ! Potuisti populari hanc 
poi appresso nemico ! Come terram, quae te gcnuit atque 
potestà guastare questa terra, aluit ? Non tibi, quamvis in- 
ove tu fosti ingenerato e nu- festo animo, et minaci perve- 
trito ? Quando tu entrasti neras, ingredienti fines ira ce- 
ne’ confini di Roma, avvegna - cidit ? Non , quum in con- 


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151 

che tu avessi il cuore ìnfiam- spectu Roma fuit, succurril: 
mato e enfiato e pieno di mal intra illa mocnia domus et pe- 
talento, non ti cadde l’ ira P nates mei sunt, mater, con- 
Quando tu vedesti Roma, non iux , liberi ? Ergo ego nisi 
ti ricordò egli, che dentro da peperissem, Roma non oppu- 
quelle mura era il tuo albergo, gnaretur. Nisi fìlium habe- 

tua madre, tua moglie e tuoi rem , libera in libera patria 

figliuoli ? Dunque s’ io non mortila essem ! 
avessi partorito, Roma non si 
sarebbe assalita. 

E s’io non avessi figliuo- Sed ego nibil iam pati 

lo, io sarei morta franca in nec tibi turpius, quam mihi 
terra franca ! - Ma io non miserius possum: nec ut sim 
posso oggimai sofferire alcuna miserrima diu futura sum. De 
cosa , ond’ io abbia maggior bis videris , quos , si pergis , 
duolo , nè tu maggior on- aut immatura mors, aut longa 

ta avere: e s’ io sono dolente servitus manet. (Tito Livio 

e angosciosa, sì non sarò già 1. II. c. 40). 
lungamente, eh’ io morrò di 
dolore. De’ tuoi figliuoli ti 
prendi guardia , i quali , se 
tu perseveri in tuo proposito, 
o morranno di piccol termi- 
ne, o vivranno in lungo ser- 
vaggio (1). 

Annotazioni rettoricke. 

Questa piccola orazione è un capo d’opera di eloquenza 
sublime. Il suo principio o esordio, è compreso in quel pe- 
riodo unimembre. Sine prius quam complexum accipio, ad 
hostem an ad filium venerim: captiva mater ne in castris 
tuis sim. Esso nasce spontaneo dall’atto rispettoso e affettuoso 
di Coriolano inverso la madre sua altamente trafitta e sde- 

(1) Volgarizzamento del buon secolo , pubblicato per cura del prof. G. 
Dalmazzo. Torino 1845. 


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gnata contro di lui per l' iniqua oppugnazione di Roma. L’ in-* 
tento di Veturia (che non si esprime essendo per sè mani- 
testo) si é di far cessare il figliuolo da siffatta impresa. Il 
corpo poi del discorso contiene tutte quelle più valide ra- 
gioni, che poteansi da qualsivoglia oratore rappresentare a 
Corioiano per rimuoverlo dal suo iniquo proponimento: l’in- 
giusto suo odio contro Roma concepito per 1’ esilio da lui 
meritato (vedi T. Livio , ovvero discorso sulle decadi del 
medesimo di Machiavelli p. 33, 34); l’aver questo odio por- 
tato tant’oltre da collcgarsi coi più fieri nemici del nome 
romano; l’averli eccitati alla guerra, e postosi esso stesso a 
capo delle armate de’Volsci; l’aver portato la desolazione a 
molte castella e colonie romane, mettendo ogni cosa a sacco 
a ferro a fuoco; c posto in non cale ogni umano e divino 
diritto, non che il debito amore, che dovea far lieta la vec- 
chia sua madre, la sua moglie c’ figliuoli, portar furibondo 
il servaggio e l’eccidio alla stessa sua patria. 

Or tutte queste ragioni non le dice Veturia , come fa- 
rebbe un qualunque altro oratore; ma come era proprio di 
una tal madre oppressa da profonda afllizion d’animo c al- 
tamente sdegnata contro il suo figliuolo: parla essa in modo 
breve, tronco, disdegnoso, autorevole. E però l’enormezza 
del delitto di ribellione , glielo rappresenta principalmente 
per gli effetti, che produceva nell’ animo suo, dicendo, 
che l’ infamia dell’esilio del figlio, il suo odio, le ostilità , 
i danni, l’estremo furor contro Roma, mentre facevano de • 
testabile il nome di lui a tutto il inondo , cagionavano in 
lei tanta amarezza d’animo, che avrebbe voluto esser morta 
pria di veder tali cose, vorrebbe non aver partorito un tal 
figliuolo, che rendeva schiava e infelice la patria sua - — Di 
quanta forza e vivezza poi è il rimprovero che gli fà d’animo 
ingrato e brutale, dicendo: Potuisti populari terram quae te 
genuit ? Non libi . . . ingredienti fines ira cecidil ? Non cum 
in conspectu Roma fuit succurrit intra illa moenia , e< . 


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153 

La conclusione finalmente non contiene veruna preghiera; 
ma è severa e tragica: dice che ella inevitabilmente si morrà 
di dolore; che solo pensi egli che se non desiste dall’iniqua 
impresa , i suoi o incontreranno una morte immatura , o 
una obbrobriosa e perpetua schiavitù. 

Ma se le preghiere e le lagrime non si convenivano ad 
una madre nel sommo dolore e giusto suo sdegno : pure a 
compiere la perorazione , si aggiunse il pietoso aspetto dei 
figliuoli e della moglie, e le lagrime delle altre matrone ro- 
mane: « uxor deinde ac liberi amplexi: fletusque ab omni turba 
» mulierum ortus , et comploratio sui patriaeque fregere tan- 
» de in virum. - Complexus inde suos dimisit. Ipse retro ab 
» urbe castra movit ». Dopo queste parole la moglie sua ed 
i suoi figliuoli l’abbracciarono. Tutte le donne ch’erano ivi per 
la pietà cominciarono a piagnere, c tanto il pregaro pietosa- 
mente, che l’animo gli si cambiò, ed egli si rimutò dal suo 
proponimento. Allora abbracciò i suoi, e donò loro commiato, 
ed egli medesimo si tornò addietro coll’oste dalla città. 

esempio II. 

Tito Mallio Torquato condanna a morte il figliuolo 
per aver combattuto a duello privato col nemico Geminio 
nella guerra contro i Latini. 

Nell’ anno di Roma 415 i Latini coi Campani si ribel- 
larono a’ Romani. Nell’accingersi i Romani alla guerra con- 
tro i Latini, per la difficoltà dell’ impresa i consoli tennero 
ragione tra loro e decretarono il seguente ordinamento. 

Ordinaro altresì , che , se Agitatimi eliam in con- 

mai avessero alcuna guerra silio est, ut si quando unquam 
aspramente governata che ora severo ullum imperio bellunt 
riducessero la disciplina della administratum esset , lune 
cavalleria (militare) alla ma- uti disciplina militaris ad pri- 
niera antica. Elli furono in scos redigeretur mores. Cu- 
gran forse, però che si dovea- ram acuebat quod adversus 
no combattere colli Latini, Latinos bcllandum erat; lin- 
i quali avevano una medesima gua, moribus, arrnorum ge- 


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154 

lingua , e quel medesimo co- nere , institutis ante omnia 
stume , e quella maniera d’ ar- militaribus congruentes niiii- 
me, e eh’ erano sopra tutte cose tes inili tibus , centurionibus 
ammaestrati d’ (una medesima) centuriones, tribuni tribunis 
arte di combattere , e di ca- comparcs, collegaeque iisdem 
valleria ; ed aveano cavalle- praesidiis , saepe iisdem ma- 
ri contra cavalieri , centu- nipulis permixti fuerant: per 
rioni contra centurioni , tri- haec ne quo errore) milites 
buni contra tribuni, i quali caperentur, edicunt consulcs: 
spesse volte erano stati com- ne quis extra ordinem in ho- 
pagni de’ Romani nelle batta- stem pugnare!. (T. Liv. 1. 8. 
glie, e in un medesimo drap- c. 6.) 
pello. E acciò che per queste 
cose li cavalieri (i soldati) non 
fossero per alcuno errore in- 
gannati , li consoli vietaro , 
che alcuno non fosse ardito di 
combattere colli nemici fuori 
d’ordine (1). 

Or movendosi P esercito romano contro i ribelli , T. 
Mallio figliuolo del Console fu mandato colla sua schiera 
ad esplorare la posizione de’ nemici. A caso s’ imbattè nel 
campo de’ Latini, e uscitogli incontro Geminio Mezio, con- 
dottiero della cavalleria tusculana; dopo breve altercazione, 
provocato da Geminio combattè secolui a duello, l’uccise, e 
trattene le spoglie, recolle al padre suo, dicendo : a te l’offro, 
affinchè ognuno conosca eh’ io dal tuo sangue son generato. 

Torquato, rivolta la faccia altrove , fece incontanente 
colla tromba convocare 1’ esercito a parlamento , e stando 
tutti in silenzio e sospesi d’ animo , egli con volto severo 
così parlò al suo figliuolo: 

T. Manlio, poiché così è Quandoquidem tu , T. 

che tu non ridottasti (2) il Manli, neque impcrium con- 

(1) Traduz. del buon secolo cit. 

(2) Ridonare, temere, derivato dal nome dòtta (coll’o largo) timore 


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comando de’ consoli, né la mae- 
stà di tuo padre , e contro il 
nostro divieto ti combattesti 
fuor d’ordine ; e tanto, come 
a te appartiene , guastasti e 
rompesti la disciplina di ca- 
valleria, per la quale lo im- 
perio di Roma s’è mantenuto 
infino al dì d' oggi , e hdmi 
condotto a questa necessità eh’ 
egli mi conviene dimenticare 
la repubblica, o me medesimo 
e li miei: meglio vale, che noi 
siamo puniti del nostro pec- 
cato , che la repubblica per 
tanto suo danno comperi caro 
il nostro fallo. Noi daremo 
doloroso esempio alla gioven- 
tù (1) che è avvenire. Senza 
fallo l’amore naturale del pa- 
dre verso il figliuolo e tua 
prodezza (ingannata da falsa 
immagine di gloria) muove il 
mio cuore a pietà verso te. 
Ma con ciò sia cosa che bi- 
sogno sia, che li comandamenti 
de’ consoli sieno con fermati 
per la tua morte, o sieno sem- 
premai da dispregiare per la 
tua follia (impunità), io cre- 
do, se in te ha punto di mio 
sangue, che tu non rifiuterai, 
che la disciplina della caval- 


li 

sulare, ncque maiestatem pa- 
triam veritus, adversus edi- 
c tum nostrum extra ordinem 
in hostem pugnasti: et quan- 
lum in te fuit , disciplinai» 
militarci», qua stetit ad hanc 
diem romana res, solvisti: me- 
que in eam neccssitatem ad- 
duxisti , ut aut reipublicae 
mihi, aut mei meorumque o- 
blivisccudum sit ; nos polius 
nostro delieto plectemur , 
quam respubliea tanto suo 
damno nostra peccala luat. 
Triste exemplum, sed impo- 
sterum salubre iuventuti eri- 
inus. Me quidem quum in- 
genita charitas libcrum, tum 
specimen istud virtutis, dece- 
ptum vana imagine decoris in 
te , movet. Sed quum aut 
morte tua sancienda sint con- 
sulum imperia, aut impunitate 
in perpetuum abroganda; ne 
te quidem, si quid in te no- 
stri sanguinis est , rccusarc 
ccnseam, quin disciplinam mi- 
litarci» culpa tua prolapsam, 
pocna restituas. I lictor, col- 
liga ad palum. 


(1) Nel testo dice giovenaglia forma antiquata da non usarci ora, ehe in 
senso peggiorativo di gioventù sfrenala, come dicesi gentaglia. 


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156 

Urta , la quale per la tua 
colpa è schernita , non sia 
per tua pena ristorata. Va , 
diss’egli al littore, e legalo al 
palo. 

Annotazioni rettoriche. 

L’ esordio di questo discorso non è di parole , ma di 
fatto. Imperocché il turbamento di Torquato nel vedersi re- 
car dal suo figliuolo le spoglie del nemico ucciso, il rivol- 
gere da lui lo sguardo senza far motto, la subita convoca- 
zione dell’ esercito a parlamento , erano assai chiari indizi 
del tragico discorso che intendeva fare , validissimi per sé 
ad attirarsi tutta l’attenzione de’ Romani. E però Torquato 
entra tosto in materia. In questo breve discorso scorgesi , 
come nell’animo di Mallio contrastava vivamente l’amor pa- 
terno col zelo della giustizia e del pubblico bene : e que- 
sto prevalendo l’ induce a condannare a morte il suo stesso 
figliuolo , che teneramente amava , e che nel mancamento 
stesso dimostrava segni di non picciol valore : ed insieme 
vuol trasfondere nel figlio la stessa fortezza d’animo al gran 
sagrificio della sua vita. E notisi come la pena di morte non 
la dice sola del figlio, ma comune anche a se. Onde con- 
clude: piuttosto che la repubblica paghi il fio de’ nostri pec- 
cati, assoggettiamei noi volontariamente alla dovuta pena, 
con esempio triste sì, ma salutare a tutta la posterità. 

Il modo di dire , come conviene agli atti eroici , e a 
chi è acceso da forte passione, è conciso, sentenzioso, ri- 
soluto, tronco. 

L’ amore così eroico della giustizia e della patria nel 
padre, e la docilità e fermezza d’animo nel figliuolo destò 
da prima un alto stupore in tutto l’esercito ; troncato poi 
il capo al giovane Mallio , seguì il compianto generale , e 
ricopertone delle spoglie il corpo, con solenne pompa fu sul 
rogo brucialo. 


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157 


Nè l’effetto salutare di si 
che al dir di Livio 

Nondimeno la crudeltà 
di quella pena fece la gente 
di quell’ oste esser più obbe- 
diente a comandatori , e più 
guardingamente facevano le 
guardie , e le vegghie , e ciò 
ch’era loro comandato ; e non 
ch’altro , quando si venne alla 
battaglia fu quell’ asprezza 
utile. 


severa giustizia andò fallito: 

Fecit tamen atrocitas poc- 
nac obedientiorem duci mili- 
tem : et praeter quam quod 
custodiae vigiliacque et ordo 
stationum intensioris ubique 
curae erant, in ultimo eliam 
certamine, quum dcscensum 
in acicm est,ca severitas pro- 
fui t. 


Ho voluto qui notare gli antecedenti e i conseguenti 
e le circostanze che accompagnaron la breve parlata di T. 
M. Torquato; si perchè se ne conoscesse meglio lo spirito; 
si perchè queste cose possono dare materia ubertosa a chi 
prendesse per tema a difendere e commendare la severa sen- 
tenza di tal console e di tal padre. 

esempio III. 

Camillo con Valerio condussero l’oste, ch’egli avevano 
scritta, a Satrico , ove quelli d’ Anzio aveano grande oste 
ragunata , non pur solamente della giovenaglia de’Volsci , 
ma ancora de’ Latini e degli Ernici , i quali erano abbon- 
devoli in genti d’arme, però che lungo tempo aveano avuta 
pace. Si che per li novelli nemici , che s’ erano congiunti 
co’ vecchi , furono li Romani isbigottiti. Ed avendo i cen- 
turioni fatto sapere a Camillo, il quale ordinava sue batta- 
glie, che li suoi cavalieri (soldati) erano turbati, e che mol- 
lemente prendevano le armi , e che lardando e come a loro 
malgrado erano usciti delle tende; e ch’egli aveno, non ch’al- 
tro udito alcuno dicente, ch’egli andavano a combattere uno 
contro cento, e che appena potrebbero sostenere tanta molti- 
tudine disarmata, non che armata: Camillo montò a cavallo, 
c dinanzi alle insegne si volse a’ suoi, e trascorrendo gli or- 
dini, disse 


158 


Che è ciò ? Perekè siete 
voi smarriti? Di che vi scon- 
fortate voi ? Perchè siete voi 
più codardi che voi non so- 
lete essere ? Non conoscete voi 
i vostri nemici, ovvero me o 
voi medesimi? I vostri nemici 
non sono altro che perpetua 
materia di vostra virtù. Voi 
per lo contrario ( lasciando che 
sotto la mia capitaneria pi- 
gliaste Falena e Veio, e nel 
mezzo della città presa ed 
arsa, sconfigeste le legioni de’ 
Galli), di questi medesimi ne- 
mici , cioè de’ Volsci e degli 
Equi , e degli Etrurii aveste 
triplice vittoria , e tre volte 
ne trionfaste. Non mi cono- 
scete voi , perdi io non sia 
dittatore , ma sia tribuno di 
cavalieri ? Io non desidero 
d’avere sopra voi grande si- 
gnoria, nè voi non dovete in 
me altra cosa riguardare, che 
me medesimo. Unque la dit- 
tatura non mi diede ardimento, 
nè lo esilio noi mi tolse. Adun- 
que tutti siamo quelli mede- 
simi , che sogliamo essere : e 
con ciò sia cosa che noi ab- 
biamo tutti le virtù, e le bouta- 
di ch’avute abbiamo nell’ altre 
guerre, siate certi che questa 
guerra avrà la fine ch’hanno 


Quae tristitia , milites , 
haec ? Quae insolita cuncta- 
tio ? Hostem, an ine, an vos 
ignoratis ? Hostis est quid 
aliud quam perpetua materia 
virtutis gloriaeque vestrae ? 
Vos contra, me duce, (ut Fa- 
lerios Veiosque captos, et in 
capta patria Gallorum legio- 
nes caesas taceam) modo tri- 
geminac victoriac tripliccm 
triumphum ex his ipsis Vol- 
scis et Aequis et ex Etruria 
egistis. An me, quod non di- 
ctator vobisj sed tribunus si- 
gnum dedi , non agnoscitis 
ducera ? Ncque ego maxima 
imperia in vos desidero , et 
vos in me nihil practer me 
ipsum intueri decct. Neque 
enim diclatura mihi unquam 
animos fecit , ut ne exilium 
quidcm ademit. Iidem igitur 
omnes sumus: et cum eadem 
omnia in hoc bcllum aflera- 
mus quae in priora attulimus, 
eumdem belli eventum expe- 
ctemus. Simul concurreritis , 
quod quisque didicit ac con- 
suevit , facict: vos vincetis , 
illi fugient. (T. Livio L. VI. 

S- VII.) 


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159 


avuto le altre. Quando noi ci 
affronteremo co’ nemici ciascu- 
no faccia quello ch’egli è usato 
di fare. Voi vincerete , ed egli- 
no fuggiranno (1). 

Annotazioni rettoriche. 

Questa parlata é brevissima come richiedeva la circo- 
stanza di un capitano che esorta i soldati sul punto d’ at- 
taccar la battaglia. E però non vi premette esordio , ma 
colta l’occasione dell’ insolito abbattimento d’animo ne’ suoi 
soldati , entra tosto in materia esprimendo con due piccoli 
incisi la proposizione e la divisione, ma nel modo più vivo 
per la figura d’ interrogazione , unita a pungente rimpro- 
vero quasi fossero alienati di mente da non conoscere nep- 
pure sestessi. Quae tristitia haec ? quae insolita cunctatio ? 
ch’ò quanto dire : non vi è nulla da temere. Ecco il tema 
del discorso. Ifostem, an me, an vos ignoratis ? Ecco la di- 
visione degli argomenti. 

A dimostrare poi l’ indicibile superiorità loro sotto la 
condotta sua a paragone dei nemici , adduce le gesta da 
loro stessi operate sotto la sua disciplina. Delle quali altre 
le accenna per praeteritionem, cioè di Faleria, ove non solo 
il valore apparve, ma più anche la equità e grandezza d’ani- 
mo di Camillo nel rimandar a quei di Faleria il maestro 
de’ figliuoli dei principi traditore : di Veio, già da 10 anni 
assediata da’ Romani, e vinta e distrutta dall’esercito di Ca- 
millo: di Roma presa e arsa da’ Galli, meno il Campidoglio 
e la rocca , riacquistata gloriosamente da Camillo , che ri- 
chiamalo dall’ esilio raccolse i Romani fuggitivi , c vinse e 
disperse i Galli. 

Altri fatti direttamente adduce come quelli che più fa- 
cevano al caso presente , cioè la triplice segnalatissima vit- 
toria decorata da triplice trionfo , riportata contro quegli 

(1) Volgarizzamento del buon secolo come sopra è dello. 


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160 

stessi nemici , che avevano a fronte , i Volsci, gli Equi e 
tutta l’Elruria. 

1 predetti fatti poi sono appena accennati , sì perchè 
l’ imminente combattimento non permetteva lunghe dicerie, 
sì perchè bastava indicarli a chi n’era stato l’attore , cioè 
a quelli che nelle dette guerre aveano militato; e sì anche 
perchè epilogate tutte insieme e vedute in un punto face- 
vano maggior impressione. 

Quanto poi al modo di ravvivare la confidenza dell’eser- 
.cito inverso il suo duce, sono da notare quelle poche ma 
gravissime parole. An me, quod non dictator vobis, sed tri- 
bunus signum dedi, non agnoscitis ducem ? e la risposta ne- 
que ego ec. Questo passo è di molta forza, e bellezza , non 
solamente per la massima, eh’ ivi contiensi, che li gradi di 
onore e di dignità non danno il vero valore, nè la lor pri- 
vazione lo tolgono; ma inoltre perchè quelle tre parole di- 
ctator , exilium , tribunus rammemoravano li fatti più glo- 
riosi di Camillo. Dictator rammentava come a comune suf- 
fragio Camillo per ben quattro volte era stato fatto ditta- 
tore, e gloriosamente avea vinti i nemici di Roma. Exilium 
rammentava , come ad onta dell’ ingratitudine de’ suoi cit- 
tadini, che aveanlo rimeritato coll’esilio, pure nell’estremo 
pericolo della patria era corso a liberarla. Tribunus. Que- 
sto titolo rammentava un fatto più glorioso per lui della 
stessa dittatura. Imperocché quando s’ accese la presente 
guerra dei Volsci, ec., ritrovavasi Camillo nell’ufficio di tri- 
buno con potere di console insieme con cinque altri per- 
sonaggi: il senato (dice T. Livio) rendè grazie agli dei, che 
Camillo era nel magistrato ; però che s’ egli fosse stato sen- 
z’officio, egli l’avrebbero fatto dittatore. E li suoi compagni 
medesimi confessavano, che il sovrano governamento di tutte 
le cose era in quell’uomo, quando si dubitava d’ alcuna guerra: 
e ch’egli s’ aveano posto in cuore di sottomettersi a lui, e di 
dargli tutta la signoria: e non credevano che la loro maestà 


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161 

di niente fosse abbassata s’ egli s' inchinassero e sottomettes- 
sersi alla maestà di un tal uomo. Il senato di ciò lodò molto 
i tribuni. (Volg. Dalmaz.) 

Nella conclusione del discorso si contiene quella sen- 
tenza, che cioè le stesse cagioni nelle medesime circostanze 
producono gli stessi effetti: e però dice: quum eadem omnia 
in hoc bellum afferamus, quae in priora attulimus, eumdem 
belli eventum expectcmus ; le quali parole sono il più forte 
impulso all’ impresa. E però dà la cosa per fatta. Simul con- 
curreritis, quod quisque didicit ac consuevit faciet. Vos vin- 
cetis, illi fugient. 

ESEMPIO IV. 

Terminata la guerra contro i Latini, L. Furio Camillo esorta 
i senatori , a voler rendere in perpetuo tranquilli e sog- 
getti quei popoli usando inverso di loro generosa clemenza. 

Questa parlata (dice Dalmazzo loc.cit.) è piena di tanto 
senno civile e di tanta umanità, che il segretario fiorentino, 
non solo la chiosò nei discorsi 1. II. c. 23., ma la tradusse 
e ne fece come la posizione del suo lodato discorso Del modo 
di trattare i popoli della Valdichiana ribellati. Ecco la parlata. 

Padri, diss’ egli , quello Patres conscripti , quod 

che fu da fare contro li La- bello armisque in Latio agen- 
tini per guerra e per forza dum fuit, id iam Deùm be- 
d’arme, è venuto a fine per nignitate, ac virtute militum 
la benignità degli dii , e per ad finem venit : caesi ad Pe- 
la virtù della nostra cavalle- dum Asturamque sunt exer- 
ria (milizia). Le osti de’ ne- citus hostium : oppida latina 
mici sono state sconfitte e ta- omnia, et Antium ex Volscis, 
gliate a Pedo e ad Astura : aut vi capta aut recepta in 

tutte le città de’ Latini ed dedilioncm pracsidiis tenen- 
Anzio de’ Volsci, o sono prese tur vestris. Rcliqua consul- 
per forza, o arrendute, e ab- tatio est, quoniam rebellando 
biamle fornite. Uno consiglio saepius nos sollicitant, quo- 
ci conviene pigliare (però che nani modo perpetua pace quie- 
spesse volte ribellando ci mo- tos oblincamus. 

11 


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162 

testano) come noi possiamo 
avere con loro pace perpetua. 

Gli dii immortali v hanno 
donato sì grande potere di 
prendere questo consiglio, che 
nella vostra balta è di distrug- 
gere, e di cassare per sempre 
mai li Latini, o di lasciarli. 
Cosi potete avere da loro per- 
petua pace, usando contro loro 
crudeltade o misericordia. Se 
crudeltade volete usare contro 
loro eh’ a voi si sono arren- 
dati, tutti gli potete distrug- 
gere , e far diserto e foresta 
di quella contrada, della quale 
in molte grandi guerre spes- 
se volte avete avuto bello soc- 
corso e nobile. Volete voi ac- 
crescere l’imperio di Roma per 
esemplo de’ vostri antichi ri- 
cevendo li vinti dentro dalla 
cittade? Materia avete dell’ ac- 
crescere per somma gloria. 
Certo quella signoria è dura- 
bile e ferma, alla quale ubbi- 
discono i suggetti lietamente. 

Ma brevemente e tosto con- 
viene determinare ciò che a voi 
piace di fare. Però che gli 
animi de’Latini (i quali sono 
grande gente, come voi sapete) 
pendono tra paura e speranza, 
e però conviene , che brieve- 
mente voi (vi) diliberiate di 


Dii immortales ita vos 
potentcs huius consilii fece- 
runt , ut sit La ti u m deinde, 
an non sit , in vestra manu 
posuerint. Itaque paccm vo- 
bis, quod ad Latinos attinet, 
parare in perpetuum vel sae- 
viendo vel ignoscendo pote- 
stis. Vultis 'crudeliter eonsu- 
lere in deditos victosque ? 
Licet delere omne Latium : 
vastas inde solitudine» facere, 
unde sociali egregio exercitu 
per multa bella maguaque 
saepe usi estis. Vultis eicm- 
plo maiorum augere rem ro- 
manam , victos in civitatem 
accipiendo? Materia crescen- 
di per summam gloriam sup- 
peditat. Certe id firmissimum 
longe impcrium est, quo obe- 
dientes .gaudent. 


Sed maturato opus est, 
quicquid statuere placet: tot 
populos inter spem metumque 
suspensos animi habetis. Et 
vestram itaque de eis curam 
quamprimum absolvi; et il- 
lorura animos, dum e xpec ta- 
tuine stupent, seu poena seu 


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163 

questo pensiero , e gittiate i loro beneficio praeoccupari opor- 
animi del forse ov' etti sono, tct. 
donde tanto sono sbigottiti , 
dandoli a morte e a distru- 
zione, o appaciandoli per be- 
neficio. 

A noi appartenne di fare, Nostrum enim fuit effi- 

che voi abbiate balìa di met- cere, ut omnium rcrum vo- 
lere consiglio in tutte cose: a bis ad consulendum potestà» » 

voi appartiene di sguardare esset; vestrum est, decemere 
e determinare quello che sia quod optimum vobis reique 
il migliore per voi e per la publicae sit.(T. Liv.YIII.13). 
repubblica (1). 

Annotazioni rettoriche. 

Quantunque lo scopo di Camillo sia d’ indurre i sena- 
tori a un generoso perdono verso i Latini da lui domi colle 
armi: pure per non parere arrogante nel suggerire ciò che 
convenisse fare al senato, in cui risiedeva la suprema mente 
e l’arbitrio della repubblica, conduce egli il suo discorso a 
modo di rendiconto della amministrazione della guerra latina 
a lui commessa , a fine di dare loro materia e occasione 
di provedere all’avvenire. 

£ però nell’ esordio dice , con somma modestia senza 
pur nominar scstesso , come per benignità degli dei e pel 
valore de’ soldati erasi compiuta felicemente la guerra con- 
tro i Latini e che tuttora tenevansi a bada dalle armi ro- 
mane. 

Ciò posto , viene naturalmente la proposizione del di- 
scorso, che cioè conveniva prender consiglio per assicurar 
la pace in avvenire. E dice , come gli dei gli avevan co- 
stituiti arbitri della sorte di quei popoli con pieno potere di 
usare inverso loro o il partito di sommo rigore , o quello 
di generosa clemenza : e qui come in modo di amplificare 

(t) Testo di lingua cit. di Dalmazio. 


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164 

questo concetto, indirettamente e brevissimamente porta le 
più valide ragioni , che persuadono il partito di clemenza 
esser l’ottimo : cioè l.° la somma gloria che acquisterebbono 
col perdonare ai nemici vinti c dar loro cittadinanza roma- 
na : 2.° l’esempio de’ maggiori che così ingrandirono la città: 
3.° la speciale e grande utilità che ne ritrarrebbero facen- 
dosi amici e soggetti quei popoli, che già altre volte aveano 
arrecato molto giovamento alla repubblica : 4.° la gran mas- 
sima: id firmissimum imperium esse quo obedientes gaudenti 
che cioè la base più stabile di qualsivoglia stato è l’amore 
e non il timore de’ soggetti. 

In fine gli esorta a non lasciarsi fuggire il momento , 
che gli animi di que’ popoli eran tra la speranza e il timore: 
concludendo ch’egli avea compiuta la sua parte, nel far sì 
che liberamente potessero disporre di loro; ad essi stava ora 
il decidere. 

esempio V. 

Aringa di T. Quinzio capitolino fatta al popolo romano , 
quando gli Equi e i Volsci, senza niuna opposizione , de- 
predando e devastando ogni cosa erano venuti armati presso 
alle mura di Roma. 

1 . 

Quiriti , diss’egli , tutto . Etsi mihi nullius noxac 
sta io senza colpa, sì ho gran- conscius, Quiritcs, sum, ta- 
de onta di parlare in vostro men cum pudore summo in 
concilio di ciò che voi sapete, concioncm vestram processi. 
e quelli che dopo noi verran- Hoc vos scire, hoc posteris me- 
no il sapranno, che nel mio moriae traditum iri, Aequos 
quarto consolato gli Equi ed et Volscos vix Hernicis modo 
i Volsci , che non è ancora pares , T. Quintio quartum 
guari che appena si difendeano consule, ad raoenia urbis Ro- 
dagli Ernici , senza contro- mae impune armatos venisse. 
detto sono venuti armati presso 
alle mura di Roma. 


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Se io avessi creduto che 
questo disonore ci dovesse es- 
sere avvenuto quest’anno fav- 
vegna che noi viviamo in tale 
modo , e siamo in tale stato 
che l’ animo non m’ indovina 
alcun bene) io mi sarei fug- 
gito fuori del paese , e s’ io 
non avessi in altra maniera 
potuto schifare quest’onore , io 
mi sarei innanzi ucciso colle 
mie mani. 

Adunque se quelli che 
vennero alle nostre porte cor- 
rendo fossero prodi uomini , 
si sarebbono presa la città di 
Roma nel mio consolato! j4s- 
sai avrei avuto d’onore, assai 
avrei vissuto e più ch’io non 
dovrei: io doveva morire nel 
terzo consolato. 

Ma in cui dispetto ven- 
nero i nemici alle porte? Di 
noi consoli o del popolo di 
Roma? Se noi siamo in colpa, 
deponetici, sì come non degni 
della signoria; e se questo non 
basta prendete di noi tale ven- 
detta chente si conviene. Se 
la colpa è vostra non siate 
puniti nè per gli dei nè per 
gli uomini, ma voi pur sola- 
mente vi ripentite del vostro 
misfatto. 


165 

Hanc ego ignominia!» 
(quamquam iam diu ita vivi- 
tur, is status rerum est , ut 
nihil boni divincl animus) si 
huic potissimum immincre an- 
no scissem , vel exilio vel 
morte, si alia fuga honoris non 
esset, vitassem. 


Ergo si viri arma illa 
habuissent, quae in portis fue- 
re nostris , capi Roma , me 
consulc potuit ! satis honorum 
satis superque vitae erat: mori 
consulem tcrtium oportuit. 


II. 

Quei» tandem ignavissi- 
mi hostium contempsere ? Nos 
consules, an vos Quirites ? Si 
culpa in nobis est , auferte 
impcrium indignis: et si id pa- 
rum est, insuper poenas expe- 
tite.' Si in vobis, nemo deorum 
nec hominum sit, qui veslra 
puniat peccata, Quirites: vos- 
met tantum eorum poeniteat. 


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166 


Etti non dispregiano mica 
vostra codardia, nè non si fi- 
dano in loro prodezza ; però 
che tante volte gli avete scon- 
fitti e dispogliati di loro tende 
e di loro beni , e messi sotto 
il giogo , che ben conoscono 
la vostra potenza e la loro. 
La discordia degli ordini è il 
veleno di questa città: le riot- 
te de’padri e della plebe fan- 
no questo male: perchè noi non 
vogliamo avere misura in no- 
stra signoria , nè voi nella 
vostra libertà: e voi invidiate 
i magistrati de’ patrici ; e i 
padri invidiano i magistrati 
della plebe : tra queste riotte 
i nemici hanno preso cuore e 
ardimento. 

Per gli dei che volete voi? 
Voi desideraste i tribuni, e 
per cagione di concordia noi 
li vi concedemmo. Fo* deside- 
raste che i decemviri fossero 
stabiliti, noi li sofferimmo. Poi 
appresso voi gli odiaste : noi 
li deponemmo del magistrato. 
E poi eh’ sili furono deposti , 
durando V ira vostra contro 
a’ medesimi, noi sofferimmo che 
onorabili uomini fossero sban- 
diti e giudicati a morte. Voi 
voleste rifare i tribuni ; rifatti 
gli avete. Voi faceste tanto che 


Ndn illi vestram igna- 
viam eontempsere , nec suae 
virtuti confisi sunt; quippe 
totics fusi, fugatique, castris 
exuti, agro mulctati, sub iu- 
gum olissi, et se et vos novere. 
Discordia ordinum est vene- 
num urbis huius; patrum ac 
plebis certamina; dum nec no- 
bis imperii nec vobis libertatis 
est modus ; dum taedet vos 
patriciorum, nos plebeiorum 
magistratuum , sustulere iili 
aniinos. 


Pro deóm fidem ! quid 
vobis vultis ? Tribunos plebis 
concupiti; concordiae causa 
concessimus. Decemviros de- 
siderasti; creari passi sumus. 
Decemviro rum vos pcrtaesum 
est; coégimus abire magistra- 
tu. Manente in eosdem priva- 
tos ira vestra, mori atque esu- 
lare nobilissimos viros, hono- 
ratissimosque passi sumus. 
Tribunos plebi creari iterum 
voluisti ; creastis. Consules 
facere vestrarum partium,etsi 
patribus videbamus iniquum, 




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voi aveste consoli che mante- 
cano la vostra parte, e noi 
il sofferimmo senza contra- 
detto , quantunque noi ce ne 
tenessimo aggravati ; e vedem- 
mo pure quel magistrato pa- 
tricio dato a grado della plebe. 
Voi avete l’aiuto de’ tribuni; 
voi avete l’ appellagione ; voi 
avete fatte le plebiscite contro 
li padri: sotto titolo d’aggua- 
gliare le leggi la nostra ra- 
gione avete messa al di sotto; 
sofferto l’abbiamo e sofferiamo . 

Che fine farete voi di que- 
sta discordia? E quando sarà 
la città tutta unita e lo paese 
comune a tutti? Noi che sia- 
mo vinti ci sofferiamo più in 
pazienza, che voi ch’avete vin- 
to. Non vi basta etti che noi 
vi ridottiamo? Contro di noi 
si piglia l’ Aventino , contro 
di noi s’occupa Sagromonte , 
li nimici furo presso di monte 
Esquilino, i Volsci già salivano 
sopra l’aggere ; nè alcuno non 
si mise a difendere : contro 
noi siete armati , contro noi 
avete cuore e ardimento. 

Quiriti, poiché voi avete 
qui assediata la corte, infestata 
la piazza , e di principi la 
carcere piena , abbiate ardi- 
mento d’ uscire per porta Esqui- 


167 

patricium quoque magistra- 
tura plebi donum fieri vidi- 
mus : auxilium tribuniciura, 
provocationem ad populum , 
scita plebis iniuncta patribus, 
sub titulo aequandarum fe- 
gum nostra iura oppressa tu- 
limus et ferimus. 


Qui finis erit discordia- 
rum ? Ecquando unam urbem 
habere; ecquando communem 
hanc esse patriam licebit ? 
Vieti nos aequiore animo 
quiescimus, quam vos victo- 
res. Satis ne est nobis vos me- 
tuendos esse ? Adversus nos 
Avcntinum capitur, adversus 
nos sacer occupatur mons. 
Esquilias quìdem ab hoste 
prope captas, et scandentem 
in aggerem Volscum hostem 
nemo submovit: in nos viri, 
in nos armati estis. 

Agite dum, ubi hic cu- 
riam circumsederitis , et fo- 
rum infestum feceritis, et car- 
cerera impleveritis principi- 
bus; iisdem istis ferocibus ani- 


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168 

lina, o se voi non avete tanto 
di cuore riguardate i vostri po- 
deri dalle mura, i quali sono 
guasti e malmenati : riguar- 
date la preda , che i nemici 
ne menano ; riguardate le vil- 
le che tutte sono affocate. Cer- 
tamente e per tutte queste co- 
se il comune è a peggior con- 
dizione: le ville s’ardono, la 
città è assediata, i nemici han- 
no il pregio della guerra: Che 
più? vostre proprie cose in qua- 
le stato sono? A ciascuno di 
voi verrà tosto dalle ville la 
novella del suo danno. Di che 
rifarete voi la vostra perdita? 

Rtstorerannovi i tribuni 
quello che avete perduto? Elli 
vi daranno tante di parole , 
quante voi vorrete, e biasime- 
ranno a voi i gentili uomini, 
e farannovi leggi assai l una 
sopra l’altra e assembramenti 
ciascun giorno. Ma di que- 
sti assempri mai niuno di voi 
torna più ricco al suo alber- 
go. E qual prode n’avete voi 
riportato alla moglie ed a’ fi- 
gliuoli, altro che odio e cor- 
ruccio e nimistà palese e celata? 
Onde voi vi difendete , non 
mica per vostra bontà e per 
vostra innocenza , ma per 
aiuto altrui. Ma quando voi 


mis egredimini extra portam 
Esquilinam ; aut si ne hoc 
quidem audetis, ex muris vi- 
site agros vestros ferro igni- 
quc vasta tos , praedam agi , 
fumare incensa passim lecta. 
At enira eommunis res per 
haec loco est pciore : ager 
uritur, urbs obsidelur, belli 
gloria penes hostcs est. Quid 
tandem privatae res vcstrae 
quo statu sunt ? Iam unicui- 
que ex agris sua damna nun- 
ciahuntur : quid est tandem 
domi, unde ea expleatis ? 

Tribuni vobis amissa red- 
dcnt ac restituent ? Vocis ver- 
borumque quantum voletis , 
ingerent, et criminum in prin- 
cipes, et legum aliarum super 
alias, et concionum. Scd ex. 
illis concionibus nunquam ve- 
strum quisquam re , fortuna 
domum auctior rcdiit. Ecquis 
retulit aliquid ad coniugem et 
liberos praeter odia, offensio- 
nes, simultates publicas pri- 
vatasque ? A quibus sempcr 
non vestra virtute innoccntia- 
quc , sed auxilio alieno luti 
cslis. At Hercules! quum sti- 
pendia nobis consulibus non 
tribunis ducibus, et in castris 


siete nell'oste in guida de' con- 
soli, e non in guida de’ tri- 
buni nella piazza, e i nemici 
odono e ridottano le vostre gri- 
da in battaglia , non mica i 
padri, voi prendete preda e 
guadagnate sopra gl’inimici, 
e ritornate alle vostre mogli 
e a’ vostri figliuoli con trion- 
fo e con gloria sì pubblica , 
come (1) privata , e carichi 
di tutti beni: ora ne lasciate- 
andare i vostri nemici cari- 
chi de’ vostri beni. 

Tenetevi qui bene al con- 
cilio de’ tribuni e siate in piaz- 
za: necessità vi costringe al- 
la guerra , la quale voi an- 
date schifando: s’egli v’ incre- 
sceva d’ andare nel paese de- 
gli Equi e de’ Volsci a guer- 
reggiare, voi avete ora la guer- 
ra alle porte ; e chi non la ces- 
serà quindi, ella sarà per tem- 
po dentro dalle mura : i ne- 
mici assedieranno la rocca, e 
Campidoglio , e assalirannovi 
alle vostre magioni. Egli è 
due anni che il senato coman- 
dò, che oste fosse fatta e me- 
nata in Algido ; e noi dimo- 
riamo qui riottando intra noi 
e tencionando a guisa di feni- 
li) li testo dice che per errore 


169 

non in foro faciebatis, et in 
acie vestrum clamores hostes, 
non in conciono patres ro- 
mani horrebant, praeda parta, 
agro ab hoste capto, pleui for- 
tuna rum gloriaeque simul pu- 
blicae simul privatae trium- 
phantes domum ad penatcs re- 
dibalis : nunc oneratimi ve- 
stris fortunis hostem abire si- 
nitis. 


Haerete affixi concioni- 
bus, et in foro vivitc: sequitur 
vos necessitas militandi quatti 
fugitis. Grave erat in Aequos 
et Volscos proficisci ? Ante 
portas est bcllum. Si inde non 
pcllilur, iam intra moenia e- 
rit , et arcem et Capitolium 
scandet, et in domos vestras 
vos pcrsequetur. Biennio ante 
scnatus dclectum haberi , et 
educi excrcitum in Algidum 
iussit. Sedemus desides domi 
niulierum ritu intcr nos af- 
tercantcs; praesenti pace laeti 
nec cernentes ex olio ilio bre- 
vi multiplex bellum reditu- 
rum. 


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170 

mine , lieti della presente pa- 
ce non reggiamo la grande 
guerra , che di questo nostro 
riposo si leverà in piccai ter- 
mine. 


Io so che altre cose si po- 
trebbero dire che più vi ag- 
gradirebbono, ma la necessità 
mi costringe piuttosto a dir 
cose vere , che aggradevoli , 
tutto che V ingegno mio noi 
mi suggerisse. Io vi vorrei vo- 
lentieri piacere ; ma io amo 
più il vostro salvamento, qua- 
le grado voi me ne dobbiate 
sapere. Egli avviene cosi per 
natura, che quegli che parla 
a moltitudine per sua propria 
quistione, è più grato che que- 
gli che non attende ad altro, 
che alla comune utilità; sal- 
vo tanto se voi credete , che 
questi aringatori, questi go- 
vernatori della plebe, che non 
vi lasciano essere in pace nè 
in guerra , vi sollecitino e 
attizzino per vostro prode. 
Quando voi siete per loro 
smossi , elli n’hanno onore e 
prode ; e per ciò che veggono 
bene che mentre che gli ordini 
sono in concordia, elli non so- 
no nè temuti nè pregiati, elli 
amano più d’essere capi e co- 


His ego gratiora dictu 
alia esse scio ; scd me vera 
prò gratis loqui , etsi meum 
ingenium non moneret, neces- 
sitas cogit. Ve I lem equidem 
vobis piacere, Quirites , sed 
multo malo vos salros esse , 
qualicumque erga me animo 
futuri estis. Natura hoc ita 
comparatum est, ut qui apud 
multitudincm sua causa loqui- 
tur, gratior eo sit, cuius mens 
nibil praeter publicum com- 
modum videt. Nisi forte as- 
sentatores publicos , plebico- 
las istos, qui vos nec in ar- 
mis, nec in otio esse sinunt, 
vestra vos causa incitare et 
stimolare putatis. Concitati 
aut honori aut quaestui illis 
estis: et quia in concordia or- 
dinum nullos se usquam esse 
vident , malae rei se , quam 
nullius, turbarum ac seditio- 
num duces esse volunt. 


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171 


nestaòili di malvagie imprese 
si come di discordie e di ni- 
mistà , che d’ alcuna cosa. 

Ma se queste cose vipos- Quarum rcrum si vos tae- 

sono finalmente dispiacere , e diuin tandem capere potest , 
voi volete tornare a’ vostri co- et patrum vestrosque antiquos 
stumi antichi, e de’ vostri pa- mores vultis prò his novis su- 
dri, e lasciare questo novello mere, nulla supplicia recuso, 
modo; io non rifiuto alcuna nisi paucis diebus hos popu- 
pena , se in piccolo termine io latores agrorum nostrorum 
non sconfiggo questi ladroni fusos fugatosque castris exue- 
ch’hanno guasti i nostri cam- ro; et a portis nostris, moe- 
pi ; e non faccio la guerra , nibusque ad illorum urbes 
che v’ha cosi spaventati, tor- liunc belli tcrrorem, quo nunc 
nare dalle nostre porte , e vos attoniti estis, transtulero. 
dalle nostre mura alle loro (T. Livio 1. III. c. 67. 68.) 
città (1). 

Annotazioni rettoriche 

L’intendimento di Quinzio nella sua aringa si è di far 
cessare la discordia civile, e muovere i Romani a prendere 
immantinente le armi contro i nemici. Or questo suo in- 
tendimento , o sia proposizione , non 1’ esprime a principio 
come farebbesi in un discorso tranquillo: ma entra di slancio 
in materia, e va per modo esaminando le cose, che la detta 
proposizione venga come per ultima conseguenza, che esso 
non esprime, ma lasciala agli uditori stessi dedurre, come 
di fatto fecero. 

Ora considero tre cose l.° l’orditura o sia la condotta 
di tutto il ragionamento: 2.° il modo di trattare gli alleiti: 
3.° l’effetto prodotto dal detto discorso. 

I.° Orditura o sia condotta di tutto il ragionamento. 

Nel breve esordio (N. l.°) mostra Quinzio 1’ alto suo 
dolore e l’indignazione tanto per la grave onta e danno fatto 

(1) Volgarizzamento dei buon secolo pnlrblicato per C. Dal mazzo. 


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172 

ai Romani, senza sua colpa, nel quarto suo consolato da’ne- 
mici i più codardi; quanto per le sciagure molto maggiori 
che ne seguiranno , se il modo di vivere introdotto nella 
città non si muli. Or questo esordio l.° contiene, come in 
seme, gli argomenti e’ motivi che svolgonsi poi nel discorso, 
c però è tutto proprio di esso: 2°. è attissimo ad eccitare 
nell’ animo de’ Romani forte rammarico dei mali passati e 
timore de’futuri; ed insieme a far concepire stima, amore 
e fiducia pel console che ne li voglia e sappia campare: e 
però dovea attirarsi tutta l’attenzione della mente degli udi- 
tori ; e la docilità della volontà a ricevere di buon aria 
qualunque benché aspro rimprovero, e a seguirne i veri e 
utili consigli. 

La condotta poi di tutto il ragionamento (N. 2.°) si è 
una ben ordinata analisi , o sia un esame per rintracciare 
le cause dei mali arrecati or ora ai Romani dagli Equi e 
dai Volsci , a fine di apporvi opportuno rimedio. Dimo- 
strando in prima che tali effetti non erano d’attribuirsi nè 
alla prudenza de’ capitani nè al valore dei soldati nemici: 
poiché quante volte vennero alle mani coi Romani; sempre 
furono pienamente sconfìtti. L’ unica cagione che diè loro 
anza a tanto osare cd eseguire si fu la discordia civile, che 
da due anni avea resi i Romani indocili ad ogni militare di- 
sciplina. 

Esamina quindi chi sia di codesta dissenzione il colpe- 
vole. E confessa che a principio la reità stava d’ ambedue 
le parti , da quella del senato , e da quella della plebe ; 
dicendo : dum nec nobis imperii , nec vobis libertatis est mo- 
dus. Ma aggiunge, che avendo poi i padri condisceso a tutte 
quelle cose che volle la plebe; ornai la colpa del continuare 
la civile discordia era solamente nella plebe , e in ultima 
analisi nei tribuni istigatori e guidatori perversi di essa. 

Per venire poi all’applicazione del rimedio, pone a con- 
fronto i tribuni coi consoli; il mal talento di quelli animati 
da gelosia ed interesse personale col zelo de’ consoli sempre 



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diretto al publico bene ; 1’ inettitudine dei tribuni a risto- 
rare i danni coH’efficacia de’ consoli, sotto la prudente e va- 
lorosa condotta de’ quali hanno sempre i Romani conservato 
e accresciuto l’onore c i beni privati e pubblici. 

Finalmente nella perorazione (n. 3.°) il console non 
prega nè esorta , ma contento d’ avere scoperto e la causa 
del male, e l’opportuno rimedio promette loro al certo, sot- 
to pena della sua testa, che se cesseranno dal rioltare co’pa- 
dri, e riprenderanno l’antico loro costume, tosto l’onore e 
ogn’altro bene perduto sarà ampiamente restituito. 

II. Del modo di trattare gli affètti. 

T. Quinzio, che più della vita amava l’onor suo e il 
bene della repubblica , era profondamente trafitto dal do- 
lore di tale onta e di tanto danno; ed era quindi al som- 
mo sdegnato contro gli autori. E però tutto il discorso è 
l’espressione naturale delle più forti passioni , ed attissimo 
a comunicarne vivamente l'impressione in altrui. 

Nell’ esordio , ove 1’ acume di tali passioni era ancora 
tutto concentrato nell’animo suo , parla con brevi e tron- 
chi periodi, con sentenze concise, con esclamazioni, epifo- 
nemi; come quello: Ergo si viri arma illa habuissent, capi 
Roma me consule potuil ! cosa che dice più acerba della 
morte. 

Ma la foga degli affetti trattenuta a pena nell’esordio, 
tutta si spande con impeto nella contenzione. Con qual vi- 
vezza di metafora pronunzia quella sentenza, che è lo sco- 
po principale, contro cui tutto si scaglia ? Discordia ordi- 
num est venenum huius urbis. Notisi poi come amplifica per 
enumerazione di parti il peccato d’ ostinazione della plebe 
contro le larghissime concessioni de’ padri: e con qual ve- 
rità c naturalezza usa quelle figure che sono al tutto pro- 
prie d’un animo sdegnoso, che duramente rampogna e vuol 
confondere e vincere l’altrui pervicacia Proh deùm (idem ! 
Quid vobis vultis? Tribunos plebis concupistis ? concordiae 
causa concessirnus ec. 


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Dopo aver cosi esagerato 1’ enormità della loro ostina- 
zione, aggiunge lo stimolo potentissimo dei mali già avve- 
nuti e di quelli molto maggiori, che, se non vi si pone 
pronto rimedio , certamente avverranno. Le quali cose le 
dipinge airimmaginazione colla più viva ipotiposi, usandovi 
anche un amaro sarcasmo , ove dice , che quando avranno 
sfogata tutta la loro ferocia contro i padri, colla stessa fer- 
mezza d’animo s’ affaccino dalle mura a veder i danni , e 
odano le notizie che loro vengono riportate. Agite dum ec. 

Ma siccome non intendeva Quinzio d’ irritare o d’av- 
vilire l’animo de’ Romani , ma solo di farli pentire ed ec- 
citarli alle armi; perciò deprime per modo i nemici a fronte 
del loro valore , che li dice vix Hernicis pare s , ignavissi- 
tnos hostium , men che uomini , e depredatori de’ campi ; 
che tanto aveano ardito fidati solo nella vergognosa inerzia 
e disscnzione dei Romani , da’ quali erano stati già tante 
volte sconfitti e posti sotto il giogo. 

A mostrare poi il suo diritto zelo dice che s’egli co’padri 
fosse colpevole di tal dissenzione , non ricuserebbe qualsi- 
voglia supplizio ; ma se la colpa fosse nel popolo non vo- 
leva egli altro che il lor pentimento. Si in vobis ( est culpa), 
nemo deorum nec kominum sit qui vestra puniat peccata , 
Quirites: vosmet tantum eorum poeniteat. E notisi quel sì 
spesso ripeter Quirites, segno di vivo affetto. 

Per temperare poi vie più l’acerbità del rimprovero e 
afTezzionarli ai padri e ai consoli, fa cadere la colpa prin- 
cipalmente nei tribuni. E però con maravigliosa antitesi pone 
a confronto la sordida ed iniqua maniera d’operare de’ tri- 
buni, colia generosa e prudente dei consoli, amplificando i 
pessimi o gli ottimi effetti ottenuti dal popolo nel seguire 
il consiglio o degli uni o degli altri. 

Finalmente nella breve perorazione, ovvero conclusione, 
l.° protestasi che a malincuore ha dovuto parlar così du- 
ramente, ma per loro utilità, piuttosto che o tacere o lu- 
singarli con tanto lor danno : 2.° aperto poi così tutto il 


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175 

suo animo ai Romani , riprende la calma , e con dignitoso 
periodo gli rassicura colla certa speranza che, se saran do- 
cili ai suoi consigli, ogni danno quanto prima sarà ampia- 
mente ristorato. 

III. Effetto prodotto dal detto discorso. 

L’ effetto di questo discorso fu maraviglioso ; lo narra 


così T. Livio ivi §. 69- 

Poco spesso avvenne , che 
parlamento d’ alcun tribuno , 
quantunque mantenesse la ple- 
be , piacesse più alla plebe , 
ch’il parlamento del fiero co- 
sole. . . Quando il senato fu ra- 
gunato, tutti si tornarono a 
T. Quinzio , e riguardarlo 
come vendicatore e difenditore 
della maestà romana , ed i 
primi fra padri dicevano, che 
bene uvea parlato a guisa di 
consolo, e che bene era stato 
il parlamento suo tale, chen- 
te si convenia a lui, che tante 
volte era stato consolo, e tan- 
to d’onore aveva spesso avu- 
to, e più n’avea meritato. 

Per consentimento di tut- 
ti fu deliberato che oste fosse 
scritta. Tutti i giovani furono 
apparecchiati la mattina (in 
campo marzio) . Le coorti ordi- 
narono loro centurioni : due 
senatori furono ordinati a 
ciascuna coorte. Tutte queste 
cose furono sì tosto fatte, che 
quel medesimo giorno le inse- 


Raro alias tribuni popu- 
laris oratio acceptior plebi , 
quam tum severissimi consu- 
lis fuit ... In senatum ubi 
ventura est, ibi vero in Quin- 
tium omnes versi , ut unum 
vindicem maiestatis romanae 
intueri, et priores patres di- 
gnam, dicere, concionem im- 
perio consulari , dignam tot 
consulatibus anteactis , di- 
gnam vità omni piena hono- 
rum saepe gcstorum saepe 
merito rum. 


Consensu omnium dele- 
clus decernitur, habeturque. 
Omnis iuventus affuit postero 
die (in campo Martio) Coortes 
ibi quacque centuriones lege- 
runt. Bini scnatores singulis 
coorlibus pracpositi. Haec 
omnia adeo mature pcrfecta 
accepimus , ut signa eo ipso 
die a quaestoribus ex acrario 


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176 

gne furo tratte fuori della ca- prompta delalaque in calu- 
merà del comune per li que- punì; quarta dici hora mota 
stori, e portale nel campo. E ex campo sint; exercitusque 
quella novella oste con alquan- novus , paucis coortibus vo- 
te coorti di vegliardi, i quali tcrum militimi voluntate sa- 
per loro volontà s’armaro, si quentibus, inanserini ad de- 
dilungò quel dì dieci miglia cimum lapidem. Insequens 
dalla città di Roma. L’altro dies hostem in conspectum 
di ebbero la veduta de’nimici. dedit. 

esempio VI. 

Annibaie , trapassate le Alpi col suo esercito e giunto a fronte 
delle truppe romane, esorta i suoi a combattere valentemente. 
Prima di dirigger le parole ai suoi soldati giudicò più 
opportuno Annibaie di preparar gli animi loro con un esem- 
pio sensibile. Fece disporre l’esercito in cerchio, come spet- 
tatore di un torneo, e mise nel mezzo molti prigionieri al- 
pigiani legati , e gittando loro a’ piedi molte arme , inter- 
rogò chi di loro, essendo sciolto volesse combattere, c re- 
stando vincitore avere arme e cavallo. Domandando eglino 
tutti 1’ arme , per combattere ; ed essendo ordinato a tale 
effetto di trarli a sorte, ciascuno desiderava d’ esser colui, 
che la fortuna elegessc a far tal pruova : e così quello, a 
cui dava la sorte, pronto, e per l’allegrezza tra quelli che 
seco si congratulavano, ballando e saltando secondo l’usanza 
loro, pigliava in fretta le armi : e poi ch’ei venivano alle 
mani, tale era la sembianza dell’ animo, non solo tra quei 
che erano nel grado medesimo, ma ancora comunemente di 
chi stava a vedere , che non solamente era lodata la for- 
tuna di quei, che vincevano, ma di coloro ancor eh’ ono- 
ratamente morivano. 

Ciò eseguito, fece Annibale convocare l’esercito a par- 
* lamento: e disse 

l.° Se voi prestantissimi l.° Si quem animum in 

cavalierie compagni fedelissimi alienac sortis cxcmplo paulo 
avrete al presente quel mede - ante habuistis, eumdem mox 


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simo animo in estimare la for- 
tuna vostra, il quale poco to- 
nanti aveste nell’esempio del- 
la sorte altrui , noi abbiamo 
la vittoria nelle mani. Però 
che certamente quello , che voi 
poco fa riguardaste non era 
solamente spettacolo , ma fu 
siccome una immagine , o co- 
gitata dire esempio e similitu- 
dine della vostra condizione. 
E non son certo se la fortu- 
na in questo loco abbia voi 
attorniato e circumsesso di 
maggior legami e necessitade 
che i vostri prigioni. 

2. ® Duo mari ci chiudono 
da destra uno e V altro da 
sinistra, e non abbiamo na- 
ve alcuna per la quale sal- 
varci possiamo fuggendo so- 
pra di quella. Dattorno sta 
il Po, fumé senza dubbio mag- 
giore e più violento del Ro- 
dano: dirietro ci sono l’Alpe, 
le quali con pena ed affanno 
gravissimo passate avete. Qui 
dovete voi, o cavalieri , vin- 
cere o morire, ove prima col- 
l’inimico vi siate scontrati. 

3 . ° E quella medesima for- 
tuna , che necessariamente vi 
stringe a combattere , simil- 
mente propone a voi vincitori 
li meriti premii, li quali non 


177 

io aeslimanda fortuna vestra 
habueritis, vicimus, milites : 
ncque enim spectaculum modo 
illud, scd quacdam veluti ima- 
go vestrae conditionis erat. 
Ac nescio an malora vincuia, 
maiorcsque necessitates vobis 
quam captivis vestris fortuna 
circumdederit. 


2.® Dextrà laevàque duo 
maria claudunt : nullam, ne 
ad cflugium quidem , navem 
hahentibus. Circa Padus amnis 
maior ac violentior Rhodano, 
ab tergo Alpes urgent , vix 
integris vobis ac vigentibus 
transitae. Hic vincendum aut 
moriendum, milites, est, ubi 
primum hosti occurristis. 


3.® Et eadem fortuna 
quae nccessitatem pugnandi 
imposuit, praemia vobis ca vi- 
ctoribus proponit, quibus am- 
pliora homines ne ab diis qui- 
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178 

sogliono gli uomini etiam da- 
gli dii immortali desiderar 
maggiori. Se noi dovessimo so- 
lamente in questo tempo recu- 
perare con la nostra virtù 
Sicilia e Sardigna, isole tolte 
a nostri padri, assai grande 
premio avremmo delle nostre 
fatiche ciò facendo. Tutto quel- 
lo che i Romani in tanti trionfi 
acquistato hanno e messo in- 
sieme , con essi , che ora lo 
possedono , sarà nostro. Per 
questa mercede ottima - e così 
grande , o cavalieri e compagni 
fortissimi, adoperatevi ora con 
l’aiuto de’ favorevoli dii. Pi- 
gliate l’arme. Assai certamente 
per insino a qui siete stati 
ne’dcserti di Lusitania e ne’ 
colli Celtiberi seguitando con 
preda il bestiame , del quale 
non avete veduto frutto alcu- 
no. Tempo è ormai , che voi 
facciate opulenti e ricchi sti- 
pendii, e con premi grandis- 
simi siate meritati delle fa- 
tiche vostre e de’ viaggi non 
piccoli. Tanto di cammino 
avete fatto per tanti aspri 
monti e fiumi e per tanta ar- 
mata gente , che ora la for- 
tuna vostra certamente ha po- 
sto fine qui alle fatiche innu- 
merabili per voi durale insi- 


dem immortalibus optare so- 
lent. Si Siciliani tantum ac 
Sardiniam, parenlibus nostri» 
crcptas, nostra yirtute recu- 
pcraturi essemus, satis tamen 
ampia praemia essent. Quid- 
quid Romani tot triumphis 
partum congcstumque possi- 
dent, id omne vestrum cum 
ipsis dominis futurum est. In 
hanc tam opimam mercedem, 
agite , cum diis bene iuvan- 
tibus arma capite. Satis adhuc 
in vastis Lusitaniae Celtibe- 
riaeque montibus, pecora con- 
«ectando, nullum emolumen- 
tum tot laborum periculorum- 
que vestrorum vidistis. Tem- 
pus est iam, opulenta vos ac 
ditia stipendia facere, et ma- 
gna operae pretia mereri , 
tantum itineris per tot mon- 
tes fluminaque et tot armatas 
gentes cmcnsos.Hic vobis ter- 
minum laborum fortuna de- 
dit : hic dignam mercedem 
emeritis stipcndiis dabit. 


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179 


no a questo die. E qui vi 
darà degna mercede per li 
bene meritati stipendii. 

4." Nè dovete pensare che 
la vittoria sia tanto difficile , 
quanto è di gran nome la bat- 
taglia. Spesso è accaduto che 
il disprezzato nemico ha fatto 
sanguinente battaglia ripor- 
tandone seco la vittoria. Ed 
ancora è venuto per caso, che 
incliti, e popoli e re sono stati 
vinti leggiermente. Per la qual 
cosa, tolto via quello splendore 
del nome romano, che cosa è 
in loro che egli siano da com- 
parare o uguagliare a voi ? 
Lasciamo stare la militar di- 
sciplina con quella virtù e 
fortuna che tutti esercitata 
avete. Voi siete qui venuti dal- 
le colonne d’Èrcole, dall’ocea- 
no ed ultimi termini del mon- 
do per mezzo di tanti ferocis- 
simi popoli Spagnoli e Galli 
vincendo continuamente. Ed 
ora dovete combattere con un 
esercito non uso in battaglia, 
e del quale molti in questa 
medesima estate furono tagliati 
e morti, ed assai crudelmente 
assediati e vinti dai Galli. Egli 
non conoscono il suo capita- 
no, e similmente non son co- 
nosciuti da esso. 


4.°Nec, quaro magni no- 
minis bellum est, tam diffici- 
lem existiinaritis victoriam 
fore. Saepe et contemptus ho- 
stis cruentimi certamen edi- 
dit; et incliti populi regesque 
perlevi momento vieti sunt. 
Nam dempto hoc uno fulgore 
nominis romani, quid est, cur 
iili vobis comparandi sint ? 
Ut viginti annorum militiam 
vestram cum illa virtute cum 
illa fortuna taceam; ab Her- 
culis columnis , ab Oceano , 
terminisque ultimis terrarum, 
per tot ferocissimos Hispaniae 
et Galliae populos, vincentes 
huc pervenistis. Pugnabitis 
cum exercitu tirane, hac ipsa 
aestate caeso, vieto, circum- 
sesso a Gallis , ignoto adhuc 
duci suo , ignorantique du- 
cem. 


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180 


Ditemi voi : non sapete 
se io son benissimo conosciu- 
to, anzi certamente nutrito e 
allevato nel pretorio del mio 
nobilissimo padre, imperadore 
de’ Cartaginesi: e che io sono 
il domatore della Spagna , e 
quello che vinsi i Galli? Fa- 
rò io adunque comparazione 
di me non solamente vincito- 
re degli alpigiani , ma delle 
orrende alpi medesime supe- 
ratore , che è molto maggior 
cosa ed assai certamente più 
difficile, a questo duce ovvero 
capitano de’ Romani , abban- 
donato re dell’esercito suo ? A 
cui, son certo, che se alcuno, 
tolte via le bandiere, oggi mo- 
strerà i Romani e’ Cartaginesi, 
che non saprà nè conoscerà 
di quale esercito egli sia con- 
sole. Io non stimo poco esser 
questo, o cavalieri, che nullo 
di voi sia qui dinanzi agli 
occhi del quale io non abbia 
fatto qualehe cosa degna di 
laude ; ed a cui non possa 
io come riguar datore di quel- 
la virtù medesima, e vero te- 
stimone d’ogni suo grande fat- 
to notalo il loco e ’l tempo , 
similmente raccontare le sue 
degne opere. Per la qual cosa 
io sarò primo nella squadra 


An me, in practorio pa- 
tris , clarissimi imperatori , 
prope natum, certe eductum, 
domitorem Hispaniac, Galliac- 
que, victorem eumdem, non 
alpinarum modo gentium, sed 
ipsarum , quod multo maius 
est, Alpium, cum semestri hoc 
conferam duce desertore exer- 
citus sui ? Cui si quis, dem- 
ptis signis, Poenos Romanos- 
que hodie ostendat , ignora- 
turum, certum habeo, utrius 
cxcrcitus sit consul. Non ego 
illud parvi aestimo , miiites, 
quod ncrno vestrum est, cuius 
non ante oculos ipsc saepc mi- 
litare aliquod ediderim faci- 
nus; cuius non idem ego vir- 
tù tis spectalor ac testis, no- 
tata temporibus locisque re- 
ferre sua possim decora. Cum 
laudatis a me millies donatis- 
que, alumnus prius omnium 
vestrum , qua in imperator , 
procedam acie adversus igno- 
tos inter se ignorantesque. 



181 


contro li non conosciuti da 
sè medesimi inimici. 

In qualunque parte del 
campo nostro io volto gli oc- 
chi vedo esser pieno d'uomini 
forti ed animosi : li pedoni 
usati alla guerra più tempo 
fa, ed i cavalieri discesi di 
nobilissime genti: e voi essere 
vedo compagni fedelissimi , e 
fortissimi , e che voi Cartagi- 
nesi uomini prestantissimi sì 
per amor della patria , sì e- 
ziandio per la ira giustissima 
combatterete . Noi portiamo la 
battaglia , e con le mimiche 
insegne discendiamo in Italia 
tanto più audace e fortemente, 
quanto è maggiore la speranza 
e l’animo di coloro che forza 
usano che non è quella di 
coloro che contrastano. Ed 
oltra di questo sono gli ani- 
mi accesi e stimulati dal do- 
lore , ingiuria e sdegno del- 
V avermi domandato per pri- 
gione insieme con voi, perchè 
avevate oppugnato Sagunto. 
Etti sono gente crudelissima, 
et superbissima, e fanno tut- 
te le cose a loro arbitrio , e 
pensano essere cosa giusta di 
far pace e guerra a loro po- 
sta e voglia : e rinchiuderne 
ne’ termini e confini de’ monti 


Quocumque circumtuli 
oculos, piena omnia video ani- 
morum ac roboris: veteranuin 
peditcm , generosissimarum 
gentium equites frcnatos et in- 
frenatos, vos socios fidelissi- 
mos fortissimosque, vos Car- 
thaginienses quum ob patriam, 
tum ob iram iustissimam pu- 
gnaturos. Inferimus bellum , 
infeslisque signis descendimus 
in Italiani , tanto audacius 
fortiusque pugnaturi, quanto 
maior spes, maior est animu9 
inferentis vini quam arcentis. 
Accendit practerea animos et 
stimulat dolor, iniuria , indi- 
gni tas. Ad suppjicium depo- 
poscerunt me ducem primum, 
deinde vos omnes qui Sagun- 
tum oppugnassetis , deditos 
ultimis cruciatibus affeeturi 
fuerunt. Crudelissima ac su- 
perbissima gens sua omnia sui- 
que arbilrii facit. Cum quibus 
bellum , cum quibus pacern 
habeamus , se modum impo- . 
nere aequum censet. Circum- 
scribit , includitque nos ter- 
minis montium fluminumque, 
quos ne excedamus ; neque 
eos, quos statuit, terminos ob- 
servat. Ne transieris Ibernili: 


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e fiumi, altra i quali non dob- 
biamo passare: ed egli non ser- 
vano que’ termini che hanno 
statuito. Non passare Ibero , 
dicono elli, e non far guerra 
a Sagunti : al fiume Ibero é 
Sagunto : non andare in loco 
alcuno voglion dire e punto 
non ti muovere. È poco que- 
sto eh’ elli ci tolgono l’ antiche 
provincie nostre Sicilia e Sar- 
digna ed ancora la Spagna. 
E se io mi partirò d’indi se 
ne onderanno in Africa. El- 
li hanno già mandati due con- 
soli di quest’anno in lspagna 
uno, e l’altro in Africa. Sap- 
piate che a noi non è rimaso 
altro che quello ci guadagne- 
remo con la spada in mano. 

5.° A coloro è lecito es- 
ser timidi e pigri che avendo 
i campi e le terre pacifiche , 
nelle quali al bisogno sperano 
di poter fuggire , non si cu- 
rano come la cosa vada. A 
voi è necessario esser forti uo- 
mini: e rotte e posposte le cose 
^ tutte ch’intra la vittoria e la 
morte stanno, o vincere , ov- 
vero , se la fortuna dubbiosa 
fosse, morir più tosto in bat- 
taglia, che fuggendo. Se que- 
sto è ben fisso e destinato nelli 
animi vostri, compagni dilet- 


ne quid rei libi sii cum Sa- 
guntinis. Ad Iberum est Sa- 
guntum. Nusquam te vestigio 
movcris. Parum est quod ve- 
terrimas provincias meas Si- 
ciliani et Sardiniam adimis : 
etiam Hispanias ? Et inde ces- 
sero, in Africani transcendes. 
Transcendes autem dico ? 
duos consules huius anni , 
unum in Africani, alterum in 
Hispaniam miserunt. Nihil 
usquam nobis relictum est , 
nisi quod armis vindicarimus. 


5.° Illis timidis et ignavis 
licet esse, qui respectum ha- 
bent , quos suus ager , sua 
terra, per tuta et pacata ilinera 
fugientes accipient: vobis ne- 
ccsse est fortibus viris esse, 
et , omnibus inter victoriam 
mortemve certa desperatione 
abruptis, aut vincere, aut si 
fortuna dubitabit, in praelio 
potius, quam in fuga, mortem 
oppetere. Si hoc bene fixum 
omnibus destinatumque in ani- 
mo est, itcrum dicara: vicistis. 
Nuilum momenlum ad vin- 


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183 

fissimi, un’altra fiata lo dirò: cernì um homi ri i ab diis im- 

voi vincerete. Nulla cosa è mortalibus acrius datine est. 
data agli uomini dagli dii im- (T. Livio I. XXI. 43, e 44. 
mortali che più si difenda che 
lo essere disprezzato (1). 

Annotazioni rettoriche. 

Nel breve esordio (§. I), sotto 1’ immagine de’ prigio- 
nieri alpigiani, si determina il tema del discorso, cioè che 
si dee virilmente combattere contro i Romani, e si dà eziandio, 
come iu seme, l’ idea di tutto il ragionamento. 

La contenzione poi comprende tre distinte ragioni, che 
dimostrano il tema proposto , e formano tre punti o parti 
del discorso medesimo , e sono , la necessità di combattere 
con tutto il valore; {'utilità che ne ridondava vincendo; e 
la certezza della vittoria. 

Or siccome tanto la necessità di dover combattere , 
quanto l’utilità della vittoria, ciascuno poteva per sè stesso 
in generale conoscere; perciò questi due punti sono breve- 
mente ma con forza e in particolare trattati. Il terzo poi, 
come quello che presentava delle difficoltà, è più ampiamente 
svolto. 

In fatti nel §. II, ove parlasi della necessità di com- 
battere ec. si fa una ipoliposi topica, donde se ne deduce 
spontaneamente la conseguenza: aut vincendum aut morien- 
dum. 

Notisi poi il passaggio naturalissimo dal primo al se- 
condo argomento (§. Ili), dicendo, che la fortuna, che pone 
i Cartaginesi in tale necessità di combattere con ogni sforzo, 
essa stessa pone qui il termine alle grandi e lunghe loro 
fatiche , e prepara la condegna mercede. Quindi viene in 
particolare a dire , come non solo ricupereranno la Sicilia 
e la Sardegna; ma inoltre acquisteranno le immense posses- 

(1) Volgarizzamento del buon secolo della lingua tratto dall’edizione raris- 
sima di Roma del 1476 Voi II. tib. I. della seconda guerra punica. 


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184 

sioni dei Romani oc. Dunque il guiderdone preparato dalla 
fortuna ai Cartaginesi si è l.° la cessazione di tanti trava- 
gli; 2.° una pace stabile, gloriosissima, e ricca di beni tali 
da non potersi pur immaginare. 

Ma coll’augurio di sì splendido apparato di beni dovea 
naturalmente rappresentarsi all’animo dei Cartaginesi la dif- 
ficoltà di vincere i Romani già vittoriosi di tanti popoli. E 
questo appunto serve di passaggio dal secondo al terzo ar- 
gomento, dicendo. Nec quam magni nominis bellum est , tam 
difficilem existimaritis victoriam. Ora qui (§. IV) Annibaie 
dispiega tutta la forza della eloquenza a fine di persuadere 
ai suoi, come la vittoria era facile, anzi certa. E ciò per 
tre ragioni : 1.® perchè 1’ esercito Cartaginese era di gran 
lunga superiore per valore all’esercito Romano: 2.° perchè 
i Cartaginesi erano assalitori, e i Romani semplici difensori: 
3.° per la giustizia della causa protetta dagli dei. 

Amplifica Annibaie specialmente il primo argomento 
come più atto ad accendere le forti e nobili passioni; con- 
frontando cioè i Cartaginesi veterani, che per 20 anni dalle 
colonne d’ Ercole fino all’ Italia aveano sempre combattuto 
e vinto ferocissimi popoli; e l’esercito romano di nova leva, 
e già vinto da Galli ec. Confrontando poi i duci ; il ro- 
mano, novello di sei mesi , che non conosce i suoi ec. : e 
Annibaie ec. E qui ricorda le sue gesta, e il zelo verso il 
suo esercito ec., tutte cose che eccitano nei soldati la gra- 
titudine, l’amore, la piena fiducia in lui. 

Oltre il rendere dispreggevole per le dette cose l’eser- 
cito dei Romani, dipinge poi il loro carattere con tali tristi 
colori da farli detestare e abbominare come superbi, insa- 
ziabili, crudeli, e nemici giurati del nome Cartaginese. 

Nel §. V conclude dicendo : che dunque dovrebbono 
piuttosto morire combattendo , che vilmente cedere. Ma 
nuovamente conferma , che combattendo ora per I’ ultima 
volta, come solevano, la vittoria era certa: nè dice vincetisi 


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ma vicistis ; e gli dei vindici della giustizia e della virtù, 
ne sono mallevadori. 

CAPITOLO VI. 

dell’orazione PROPRIAMENTE DETTA 0 SIA DELLA 
ORAZIONE PERFETTA. 

Avendo noi già parlato primieramente delle qualità es- 
senziali a qualsivoglia componimento rettorico (P.II.c. I.); ed 
avendo in secondo luogo data l’idea in generale di un ora- 
zione , c fattane l’ applicazione alle parlate estemporanee 
(cap. V.); ora diremo delle orazioni preparate e perfette , 
che costituiscono il sommo pregio dell’arte oratoria ; e ne 
considereremo ciascuna parte distintamente : e in prim% 

ARTICOLO I. 

Dell’ esordio. 

L’esordio dell’orazione si è l’introduzione al teina che 
vuol trattarsi. Il che può farsi in tre modi , che formano 
tre diverse specie di esordi. 

1. ° Il primo modo si è la semplice proposta dell’ argo- 
mento da trattarsi, e la precisa determinazione dello stato 
della questione. Ciò ha luogo negli argomenti di non grave 
difficoltà e con persone già per sè disposte ad udire: e co- 
me dice Cicerone (de or. II. 79). « In parvis atque frequen- 
ti tioribus causis ab ipsa re est exordiri saepe commodius ». 

2. ° L’ altro modo d’ incominciar T orazione dicesi ex 
abrupto, cioè un inaspettato ed energico principio, per forte 
commozione d’animo nata nell’oratore da subito estraneo 
accidente. Come quando Veturia dallo stato di sommo ab- 
battimento d’animo e supplichevole, vedendo Coriolano che 
le andava incontro per abbracciarla , di subito levossi in 


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atto disdegnoso, dicendo : Sine , priusquam compltxum ac- 
ci/) io, sciam , ad hostem an ad filiurn venerim ec. Similmente 
Cicerone, recatosi in senato per consultare co’senatori sul- 
l’ imminente eccidio che sovrastava loro e alla repubblica 
per la congiura di Catilina , vedendo all’ improvviso pre- 
sentarsi in senato con volto intrepido l’audacissimo Catilina, 
acceso egli di sdegno prorruppe in quelle fulminanti voci: 
Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? ec. ec. 

Ma siffatto esordio ex abrupto è da usarsi rarissima- 
mente, e allora soltanto, quando l’impeto dell’ affetto spon- 
taneamente lo detta. 

3.” Finalmente si è l’esordio preparatorio all’argomento 
del discorso. £ di questo dobbiamo ora accuratamente fa- 
vellare. 

Essendo l’ esordio (come si è detto) l’ introduzione al 
tema che vuol trattarsi , ne sieguc che tre debbon’ essere 
le sue doti primarie: l.° dev’essere proporzionato alle altre 
parti del discorso : 2.° dev’essere tutto proprio dell’argo- 
mento che imprendesi a trattare: 3.° dev’ esser conciliativo 
dell’attenzione .degli uditori. 

E quanto al 1.® siccome la proporzione in generale con- 
siste nella giusta grandezza e conligurazion delle parti , 
affinchè concordino e si colleghino armonicamente fra loro e 
con tutto il composto; così l’esordio, ch’è come il capo o 
la porta di lutto il discorso, deve avere quella giusta misura 
e conformazione che bene risponda alla grandezza e al ca- 
rattere della orazione. 

Al che si oppongono due vizi contrari : l’ uno pecca 
per difetto , l’ altro per eccesso. Per difetto mancherebbe 
l’esordio troppo conciso e dimesso, che non darebbe il chiaro 
e vero concetto del nostro tema : come chi a un nobile edi- 
ficio ponesse la porta si angusta ed informe, che sembrasse 
piuttosto l’ adito di un abituro de’ contadini , o di tana di 
belve. Per eccesso pecca l’ esordio se sia troppo vasto e 
magnifico. Per la qual cosa raeriterebbesi 1’ oratore la de- 


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risione di Diogene ai cittadini di Mindo. « Viri myndii, 
portai claudite, ne urta exeat-, ovvero meriterebbe»! la cen- 
sura d’Orazio contro queli’ampolloso poeta, che incominciò, 
dicendo. Fortunam Priami cantabo et nobile bellum. 

Quid dignum tanto feret hic promissor hiatu P 
Parturient montes, nascetur ridiculus mus. 

La seconda qualità dell’ esordio si è , che debb’ esser 
proprio del nostro tema. E però non solamente debbon evi- 
tarsi le cose, che quantunque in sè belle, pur siano aliene 
e fuor di proposito; ma altresì i concetti troppo generali e 
comuni da adattarsi a qualunque argomento , a guisa di 
sella preparata a tutti i cavalli ; ed anche i concetti troppo 
dalla lunga dedotti come fè colui 

Qui geminò bellum troianum or ditur ab ovo. 

Ma è necessario che le idee poste nell’esordio tutte colli- 
mino al nostro intento : servano cioò a determinare e di- 
chiarare precisamente lo stato della nostra questione, o sia 
l’argomento che intendiamo trattare, offrendo come il seme 
e l’embrione di tutta l’orazione. 

Laonde, secondo l’avvertimento di Cicerone, non dob- 
biamo por mano all’ esordio , se non dopo avere ben bene 
studiata la materia , e considerate le circostanze più rile- 
vanti di tempo di luogo e delle persone, cui il nostro di- 
scorso diriger vogliamo, llaec autem (principia ) in dicendo 
non extrinsecus alicunde quaerenda, sed ex ipsis visceribus 
causae sumenda sunt. Idcirco, tota causa pertentata, atque 
perspecta , loda omnibus inventis atque instructis , conside- 
randum est , quo principio sit utendum. Sic et facile repe- 
rietur ... et apparebxt , ea non modo non esse communio , 
nec in alias causas posse transferri, sed penilus ex ea causa, 
quae tum agatur, efjloruisse. IL 78. 

E qui si noti bene , che dicendo Cicerone , doversi 
l’esordio trarre, per così dire, dalle stesse viscere della causa, 
non intende con ciò che abbiansi in vista le sole ragioni 
intrinseche del nostro tema, ma eziandio quegli aggiunti e 


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quelle circostanze speciali , che concorrono a dar forza , 
dignità e ornamento alla orazione. Però lo stesso Cicerone 
così dichiara il suo concetto. Omne autetn principium aut 
rei totius , quae agetur, significalionem habere debebit , aut 
aditum ad causam et munitionem, aut quoddam ornamentum 
et dignitatem. 

Che se altrimenti faremo , ci avverrà quello , che di 
sé confessa Antonio presso Cicerone dicendo : Uisce omnibus 
rebus considcratis (come sopra è detto), tum denique id, quod 
primum est dicendum postremo soleo cogitare, quo utar exor- 
dio.Nam si quando id primum invenire colui, nullum mihi 
occurrit, nisi aut extle, aut nugatorium, aut vulgare, aut 
commune. 

IH. Finalmente affinchè l’esordio sia conciliativo dell’at- 
tenzione degli uditori, richiedesi, che fin dal principio ap- 
parisca la bontà dell’ argomento , che vuol trattarsi , e la 
bontà dell’oratore che imprende a trattarlo. 

E quanto alla bontà dell’ argomento ; siccome un og- 
getto allora attira a sé la mente e la volontà dell’ uomo , 
quando appariscagli vero, di grande utilità, c tale da po- 
tersi agevolmente ottenere ; però l’ oratore nel suo esordio 
proponendo il tema di che vuol favellare, dee studiarsi di 
farne chiaramente presentire siffatte buone qualità. 

Quanto poi alla bontà dell’oratore, dico, che come 
uno storico per meritarsi fede in ciò che narra, cosi l’ora- 
tore per conciliarsi attenzione e docilità degli uditori debbe 
far nota la sua scienza e probità. 

Ora affinchè apparisca la scienza oratoria nel dicitore, 
fa d’uopo, che fin dal principio ravvisino in lui gli uditori 
certa cognizione e pieno convincimento delle cose che vuol 
trattare, acutezza di mente, e perizia di ben ragionare e 
di ben favellare. E però la elocuzione nell’esordio, come 
ne ammonisce Cicerone , conviene con arte finissima e di- 
ligenza trattarla. Principia autem dicendi semper , quum 


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accurata et acuta et instructa sententiis, afta verbis , tum 
vero causar um propria esse debent. Prima est enim quasi 
cognitio et commendano oratoris in principio, quod continuo 
eum , qui audit, permulcere atque allicere debet. (loc. cit.) 

La probità poi dell’oratore si farà nota, se rimosso ogni 
sospetto di privato interesse, di frode, di orgoglio, di spirito 
di parte, faccia egli mostra di verecondia, di rispetto e di 
benevola volontà verso gli uditori. 

Ma talvolta incontra , che gli uditori sien mal preve- 
nuti tanto rispetto all’argoniento, quanto rispetto all’oratore 
stesso. In tal caso deve egli prima d’ogn’altra cosa con tutta 
acutezza e forza rimuovere tali ostacoli , che vana rende- 
rebbono tutta 1’ opera sua. A ciò sono molto opportune le 
figure di preoccupazione , di concessione , di communica- 
zione e le altre esposte nella parte I. c. IV. art. II. §. III. 
num. l.° (1). 

ARTICOLO II. 

Della contenzione. 

La contenzione è la parte principale del discorso , la 
quale comprende e contiene in sé l’ intero sviluppo e trat- 
tazione del tema. Contentio est in qua firmamento causae 
efferentur, dum quae contro nos sunt refellimus, nostra con- 
firmamus. Cic. Orat. 2. 

Nella contenzione devono distinguersi tre cose, la pro- 
posizione, la divisione e 1’ argomentazione. La proposizione 
determina il tema : la divisione distingue e ordina le di- 
verse parti o argomenti del discorso: l’argomentazione svolge 
gli argomenti medesimi a fine di dimostrare la verità del 
tema proposto, e distruggere ogni ragione in contrario. 


Il) Potrà qui il maestro proporre opportunamente agli scolari gli esordi 
delle orazioni prò Ligarxo , prò Roseto Annerino, prò Mtione, prò provinciis 
consularibus, ed altre. 


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§. I. Della proposizione dell’ orazione. 

La proposizione dell’orazione, come insegna Cicerone, 
deve chiaramente e brevemente determinare il punto pre- 
ciso, sn cui unicamente aggirasi tutto il discorso. Fa d’uopo 
dic’egii , ut aperte ■ et breviter summam causae exponamus , 
hoc est, in quo consistat controversia. 

Quanto poi alla varia natura delle proposizioni, basta 
a noi di notare due cose l.° che può essere la proposizione 
del discorso affermativa o negativa. Affermativa si 6 per 
modo d’esempio quella dell’orazione prò Archia, nella quale 
si asserisce che Archia è cittadino romano. Similmente nella 
II. catelinaria, ove affermasi, esser cosa utile, che Catilina 
co’ suoi congiurati siasi allontanato da Roma. 

Nelle controversie criminali poi il difensore sostiene 
sempre una proposizione negativa. Imperocché in esse l’at- 
tore o sia l’accusatore pone una proposizione affermativa ; 
il difensore sostiene la parte contraria. Così per es. l’accu- 
satore di Roscio Amerino affermava , che desso era reo di 
parricidio : Cicerone difendeva non esser lui affatto reo di 
tal delitto. 

In secondo luogo la proposizione e perciò lo stato e in- 
dole della controversia può essere o di diritto o di fatto. 
Di fatto , quando si cerca se un fatto sia o no accaduto , 
per es. sè un supposto reo abbia o no ucciso una tal per- 
sona. Di diritto poi è la controversia, quando, supposta la 
verità del fatto, cercasi se un tal fatto sia o no giusto, one- 
sto, olile: come nella miloniana, concede Cicerone agli ac- 
cusatori l’uccisione di Clodio fatta per opera di Milone, ma 
lo difende, dicendo, che in ciò non fu egli reo di omicidio, 
ma diritto difensore della propria vita. 

Noterò finalmente , come non sempre 1’ oratore pone 
espressamente la proposizione a principio della contenzione: 
talvolta la riserva come ultima conseguenza del suo ragio- 
namento. Ciò suole intervenire nelle orazioni di genere de- 
liberativo, quando cioè ricercasi, se debba farsi o no una 


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tale azione; massime quando il partito, che vuoisi proporre, 
fosse per trovare opposizione negli uditori mal prevenuti. 
In tal caso é espediente, che l’oratore quasi incerto del con- 
siglio da prendersi, vada esaminando cogli stessi uditori le 
ragioni prò e contro ; affinché tolte a poco a poco le diffi- 
coltà in contrario, vengano gli uditori medesimi a conclu- 
dere con esso lui, quale sia la sentenza da approvarsi o da 
rifiutarsi; quale il partito da prendersi o da rigettarsi. Ne 
abbiamo di ciò recato un bell’esempio nell’aringa di L. Fu- 
rio Camillo. (P. II. c. V. Esempio IV.) 

§. II. Della divistone dell’orazione. 

Ora diciamo della divisione dell’orazione. Determinata 
bene la proposizione o lo stato della questione, sieguc na- 
turalmente la divisione , la quale consiste in una giusta e 
ordinata enumerazione de’ vari argomenti atti a dimostrare 
il proposto tema. 

Quattro sono le doti di una ben intesa divisione: dev’es- 
ser cioè distinta, precisa, completa, e ordinata : 1 .° dev’esser 
distinta, non confondendo, ma separando un genere di prove 
dall’altro: 2.° precisa, risegando ogni ridondanza di parole, 
ed evitando il soverchio numero delle parti o dei punti del 
discorso: 3.° completa , facendo si , che non vi manchi ve- 
runo dei membri o argomenti principali che servono alla 
piena dimostrazione del tema: 4.° ordinata, sì che una parte 
della divisione serva come di gradino ad ascendere all’altra; 
ed una rafforzi l’altra per modo, che non solo ciascuna da 
sé , ma molto più la loro forza riunita porti il pieno con- 
vincimento ncU’animo degli uditori. Eccone alcuni esempi. 

Cicerone nella Filippica VII. pone questa proposizione, 
dicendo: Pacem cum Antonio esse nolo ; che equivale a que- 
sta: non dee farsi la pace con Antonio. Aggiunge quindi la 
divisione , dicendo : Cur igitur pacem nolo ? Quia turpis 
est: quia pericolosa: quia esse non potest. 

E nell’orazione prò Muracna per ribatter le accuse fatte 
dagli avversari a fine d’ impedire 1’ elezione di lui al con- 


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solato, cosi nc distingue Cicerone le parti, fntelligo, iudices, 
tres totius accusationis partes fuisse; et earum unam in re- 
prehensione vitae ; alteram in contentione dignitatis ; tertiam 
in criminibus ambitus esse versatam. 

Quantunque poi talvolta l'oratore non dichiari espres- 
samente a principio la divisione , pure la fa notare distin- 
tamente nel progresso del suo discorso. Un esempio di ciò 
può essere la bellissima parlata d’Ànnibale ai soldati, dianzi 
da noi addotta. Ove il tema si è, che conveniva virilmente 
combattere contro a’ Romani. E tre sono le parli o i punti 
distinti del discorso che va gradatamente indicando ed espo- 
nendo: cioè l.° la necessità di fare ogni sforzo ; perchè le 
circostanze dei Cartaginesi portavano che bisognava loro o 
vincere o morire: 2.° l'utilità della vittoria, che poneva fine 
ai loro lunghi travagli, ed arrccavane beni superiori ad ogni 
loro espettazionc: 3.° la certezza della vittoria, tanto per la 
superiorità eccedente del loro valore, quanto per la prote- 
zione degli dei mallevadori della giustizia della lor causa. 

§. III. Della parte argomentativa dell’orazione. 

Della parte argomentativa non dirò qui se non ciò che 
spetta a questo secondo trattalo, del modo cioè di disporre 
e ben coordinare il ragionamento , riserbando al seguente 
trattato ciò che riguarda la logica oratoria. 

Adunqne determinato per mezzo della proposizione il 
tema del discorso , e proposta (se faccia di bisogno) la di- 
visione della materia, o sia delle parti del discorso mede- 
simo, conviene, come dice Cicerone, premettere quelle cose 
che sono come il fondamento e il fonte di tutto il ragiona- 
mento: fundamenta causae efferuntur. 

Ora un tal fondamento o è di fatto solamente, ovvero 
di fatto insieme e di diritto: di solo fatto si è la semplice 
narrazione, come per es. quella nell'orazione prò Q. Liga- 
rio. Di fatto e di diritto si è quando premettonsi alcune mas- 
sime generali, da applicarsi poi al fatto in questione: come 
nell’orazione prò Archia Cicerone stabilisce per fondamento 


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dui suo discorso, che in forza delle leggi romane richiedc- 
vausi tre condizioni per essere ammesso alla cittadinanza di 
Roma. Quindi mostra, come di fatto in Archia eranvi ap- 
punto tali condizioni. Similmente nella miloniana, prima di 
narrare il fatto, pone questo principio di diritto, che cioè 
non ogni uccisione di uomo costituisce il delitto d’omicidio, 
essendovi dei casi, come quello della giusta difesa della vita, 
ne’ quali è lecita. 

Ora nel porre un siffatto fondamento richiedesi singo- 
lare attenzione. E in quanto alla narrazione dice Cicerone 
(de Orai. II. 80.) « Apertam narrationem tam esse oportet, 
» quam cetera ; sed hoc magis in hac elaborandum est , 
» quod et diffìcilius est, non esse obscurum in re narranda, 
» quam aut in principio , aut in argumento , aut in pur- 
» gando , aut in perorando ; et maiore periculo haec pars 
» orationis obscura est , quam ceterae ; vel quia si quo 
» alio in loco est dictum quid obscurius, tantum id perit, 
» quod ita dictum est: narratio obscura totam occaecat ora- 
ti tionem: vel quod alia possis, semel si obscurum dixeris, 
» dicere alio loco planius ; narrationis unus est in causa 
» locus . . . Nec illa quae suspicionem et crimen ctlìeiunt, 
» contraque nos erunt , acriter persequamur , et quidquid 
» poterit detrahamus, ne ... causae noceamus. Nam ad sum- 
» mam totius causae pertinet, caute an contra demonstrata 
» res sit; quod omnis orationis reliquae fons est narratio .» 

Non è però sempre necessaria la narrazione del fatto 
in questione. « Sed quando utendum sit , aut non sit nar- 
» ratione, id est consilii. Ncque enim si nota res est, nec 
» si non dubium, quid gestum sit, narrari oportet; nec si 
» adversarius narra vit, nisi si refellcmus». Esempi di ciò 
gli abbiamo nelle parlate addotte nel capo precedente. 

Posto un tal fondamento dell’orazione, si offriranno alla 
mente dell’oratore molti argomenti favorevoli e contrari al 
suo tema; allora conviene con accortezza attendere alla loro 
scelta, al collocamento, ed alla ragion di trattarli. 

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Pertanto , tralasciati gli argomenti deboli , o che non 
potrebbero ben trattarsi, fa d’uopo, secondo l’avviso di Ci- 
cerone e di Quintiliano , collocarne a principio alcuno di 
molta forza per far tosto colpo nell’ animo degli uditori, i 
mediocri porli nel mezzo, riserbando per ultimo i più ro- 
busti. « Fortia argumenta initio collocanda sunt: quippe ani- 
» mis expectatione quadam suspensis , nisi initio satisfiat , 
» aegre postea poterit. Deinde mediocria in mediam turbam 
» coniicienda sunt, sive ad speciem, sive ut simul conserta, 
» vim aliquam obtineant. Postremo loco statuenda sunt 
» fortissima , quibus maxime insistendum , ut perorationi 
» victoriaeque certiorem viam sternant ». (Quiut. VI. 5. 
Item Cic. De Orat. II. 77.) 

Gli argomenti per sé validi e luminosi non conviene 
ammassarli con altri , chè perderebbon di forza c di chia- 
rezza. Ma quelli che per sè sarebbono deboli, unendoli ac- 
cortamente con altri possono sovente acquistar valore di 
prova. Quintiliano reca l’esempio di uno, a cui imputavasi 
di aver ucciso un suo parente. Dicevagli l’accusatore. Tu 
aspettavi dal tuo parente una grande eredità: eri all’estremo 
d’ogni cosa ; eri pressato dai creditori ; avevi offeso quello , 
che ti avea costituito erede: sapevi eh’ egli pensava allora a 
cangiare il testamento ; non vera tempo da perdere. Ognuna 
di queste cose per sé è di lieve congettura, ma riunite in- 
sieme acquislan molto di forza: e però conviene riunirle; ut 
quae sunt naturò, imbecilla mutuo auxilio sustineanlur . 

§. IV. Delle digressioni. 

Oltre gli argomenti diretti si danno tal volta nell’ora- 
zione le digressioni , o episodi, quasi dilungamelo dalla sua 
via. Digressio est alienae rei, sed ad utilitatem causae per- 
tinente extra ordinem excurrens tractatio. Qnint. 1. IV. c. III. 

Siffatte digressioni debbono spontaneamente nascere dalle 
particolari circostanze di tempo, luogo, persone, e cose che 
trattansi. Ma allora soltanto possono bene adoperarsi, quan- 
do indirettamente giovino al tema propostoci; come per es. 


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a toglier daH’allrui mente dei pregiudizi, a sollevar l’animo 
degli uditori disgustato da qualche cosa inamena ed odiosa; 
a dar maggior forza alle ragioni recate in altrui lode o bia- 
simo ec. Non debbonsi però le digressioni condurre cosi a 
lungo, che faccian quasi dimenticare il tema proposto; ma 
detto quanto basta , ritornar in via , dicendo per es. e di- 
vertirlo in viam redeamus. 

Esempio I. Nell’orazione prò Àrchia Cicerone dimostra 
nella I.* parte, come Archia era legittimo cittadino romano. 
Nella IL* poi imprende a provare, che s’egli non fosse cittadino 
di Roma, converrebbe in ogni modo annoverarvelo. Le ra- 
gioni di ciò sono primieramente perchè Archia era insigne 
poeta: inoltre perché era di animo e di consuetudine al tutto 
romano, essendo in intima famigliarità ed amicizia non pur 
solamente di Cicerone, che si gloriava d’averlo avuto a mae- 
stro nelle belle lettere, ma eziandio dei più illustri perso- 
naggi di Roma, quali erano i Luculli, Druso, Ottavio, Ca- 
tone , gli Ortensi ec. Finalmente perchè era già molto be- 
nemerito della repubblica, dicendo nel §. IX. « Praesertim 
» quum omne olim studium, atque omne ingenium contu- 
» lerit Archias ad populi romani gloriam, laudemque cele- 
» brandam ». 

Or mentre esalta i meriti d’Archia, Cicerone, con una 
ben lunga digressione, cioè dal §. 6.® all’ 11.® fa in gene- 
rale gli elogi della poesia , e delle belle lettere. Ma ciò 
molto opportunamente e avvisatamente, dicendo ai giudici. 
Quaeso a vobis , ut in hoc causa mihi detis hanc veniam , 
accommodatam huic reo , vobis , quemadmodum spero , non 
molestam, ut me prò summo poeta , atque eruditissimo homine 
dicentem, hoc consessu hominum literatissimorum , hac vestra 
humanitatc , hoc denique praetore exercente iudicium , patia- 
mini de studiis humanitatis ac literarum loqui liberius ; et 
in eiusmodi persona, quae propter otium ac studium, minime 
in iudiciis periculisque iactata est, uti prope novo quodam 
et inusitato genere dicendi. 


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Esempio II. Una digressione che sembra alienissima dalla 
causa che tratta Cicerone, si è quella nell’orazione prò Murae- 
na , il quale essendo stato designato console, vien difeso dalle 
accuse fatte contro di lui massime da M. P. Catone. Cicerone 
dopo aver risposto con somma forza alle severissime censure 
di Catone quasi interrompendo la difesa nei §§. 29, 30 e 31 
espone il sistema filosofico austerissimo di morale degli stoici 
contraponendogli quello più benigno e ragionevole dei Pe- 
ripatetici. 

Ma come mai una digressione così rimota dalla causa 
poteva esserle di qualche utilità? 

Rispondo , che non tanto il valore delle accuse pone- 
vano in forse la causa di. Murena, quanto la somma auto- 
rità dell’accusatore Catone. E però Cicerone volendo toglie- 
re un si grave pregiudizio mentre esalta a cielo le virtù 
esimie di Catone, volge poi in ridicolo la dottrina severis- 
sima degli stoici, cui egli aveva avidamente studiato e ri- 
dottala alla pratica. Quindi l’esorta a toglier da sò questo 
difetto non suo, temperando cotesta assurda e ridicola seve- 
rità colle massime moderate dei Peripatetici. 

Questa piccantissima ironia , sebbene addolcita colle 
lodi esimie di Catone, la tratta Cicerone con tanta grazia, 
forza e amenità di stile, da fare un maraviglioso effetto sul- 
l’ animo dei giudici. Onde Cicerone con gran confidenza 
chiude la digressione, dicendo. Quare ut ad id quod insti- 
tui revertar, tolte mihi e causa nomen Catonis : remove ac 
praetermitte auctoritatem, quae in iudiciis aut nihil valere , 
aut ad saluterà debet valere. Congredere mecum criminibus 
ipsis. Così Murena, libero da ogni pericolo, ottenne nell’anno 
seguente la dignità di console alla quale era stato già designato. 

§. V. Del modo e ragione di confutare l’obbiezioni tanto 
nelle orazioni di tema affermativo, quanto nelle 
orazioni di tema negativo. 

Fin qui si è da noi discorso della scelta dei singoli 
argomenti , che formano le parti del ragionamento , come 


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anche del loro collocamento , e del valore dei medesimi sì 
assoluto come relativo. Rimane ora a parlare del modo e 
della ragione di confutare le obiezioni. 

Questo dipende dalla duplice indole del tema , o sia 
della proposizione della nostra orazione; nella quale o ci 
proponiamo di dimostrare qualche utile verità non contra- 
stataci dagli uditori ma loro ignota e talvolta dubbia; ov- 
vero ci proponiamo di confutare gli errori sostenuti contro 
noi da’ nostri avversari , e allora la proposizione nostra 
è negativa e contenziosa, quali sono per es. tutte le difese 
di genere giudiziale criminali. 

Parlando in prima del genere pacifico di orazione ove 
ci proponiamo di dimostrare alcuna verità; l’indole del te- 
ma vuole, che noi ne adduciamo le prove, scegliendo i più 
validi argomenti e disponendoli come sopra è detto. 

Ma nel far ciò sogliono nascere delle difficoltà e del- 
le obbiezioni, o dirette contro le stesse nostre prove , ov- 
vero aliene, ma che indirettamente potrebbono indebolirle. 

Le difficoltà e obbiezioni aliene, o sono anteriori pregiu- 
dizi preconcetti dagli uditori che li renderebbero di animo 
mal disposto ad udirci, e questi conviene togliere prima di 
arrecar le nostre prove; e di ciò si è discorso già a principio: 
le altre obbiezioni aliene sta bene riservarle dopo esposte 
da noi le prove del tema. Quanto poi alle 'obbiezioni di- 
rette le dobbiamo sciogliere insiem colf addurre le nostre 
prove medesime, affinchè, tolta ogni difficoltà in contrario, 
rimanga in tutta sua forza ed evidenza la dimostrazione data. 
Cosi insegna Cicerone (de Orat. II. 81.) dicendo, che dopo 
aver proposto e determinato il tema del nostro ragionamento, 
Tum suggerendo sunt firmamento (scilicet probationes) causae 
coniuncte, et infirmando contrariis, et tuis con firmando. Nam- 
que una in causO ratio quaedam est eius orationis , quae 
ad probandam argumentationem valet. Ea autem et confir- 
mationem et reprehensionem quaerit : sed quia neque repre- 
hendi, quae contro dicuntur , possunt , nisi tua confirmes , 


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neque haec confirmari, nisi illa reprehendas; idcirco haec et 
natura et utilitate et tractatione coniuncta sunt. 

Passando ora a parlare in particolare della orazione 
di genere contenzioso, nella quale gli avversari sostengono 
la parte affermativa, il difensore la negativa: sta in questo caso 
agli accusatori recare gli argomenti al nostro tema contrari; 
l' ufficio del difensore si è rispondere alle opposte accuse , 
dimostrando , che sono di nessun valore. Ciò solo bastagli 
ad aver piena vittoria della sua causa. 

E qui è da notare l’arte sopraffina che usa sempre Ci- 
cerone nel difendere i suoi clienti. Non si contenta egli di 
dimostrare la falsità delle accuse fatte dagli avversari: ma 
ciò fatto rivolge le accuse stesse contro 1’ attore e in lode 
dell’accusato. Così nella 1.* parte dell’orazione prò Milone, 
dimostra Cicerone che Milone non fu reo d’omicidio nell’uc- 
cisione di Clodio , ma giusto difensore della sua vita: ag- 
giunge poi nella 2.“ parte, come una tale azione di Milone 
non solo fu lecita , ma fu di salute a tutta la repubblica, 
e però meritevole di somma lode. Questo è il modo trion- 
fante, che suole adoperar Cicerone nelle sue difese. 

ARTICOLO ffl. 

} Della Perorazione. 

\ 

La perorazione è l’estrema parte dell’orazione che op- 
portunamente pone fine al discorso : e però contiene due 
cose. l.° la conclusione del ragionamento fatto a fine di 
persuadere l’intelletto altrui: 2.° l’esortazione diretta a muo- 
vere la volontà ad approvar quella sentenza , o a seguir 
quel partito che si è dimostrato veramente utile, e onesto. 

E in prima, affinchè la detta conclusione riesca di mag- 
gior forza ed evidenza , è generalmente molto opportuno 
far l’ epilogo , il quale consiste in una breve, chiara, ed or- 
dinata ricapitolazione degli argomenti, che sono stati sepa- 


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199 

ratamente e largamente esposti nel corso dell’orazione: im- 
perocché richiamati cosi alla mente , ravvicinati e riuniti 
tutti insieme, daranno 1’ ultimo colpo all’ animo degli udi- 
tori, e rimarranno appieno persuasi della verità da noi di- 
mostrata. 

L’esortazione poi c la preghiera (da cui ha preso no- 
me quest’ultima parte dell’orazione che però dicesi perora- 
zione), serve a conciliare e muovere potentemente la volontà 
degli uditori al nostro intendimento. 

Le predette due cose poi, cioè l’epilogo, e la preghiera, 
vanno adoperate variamente secondo il consiglio dell’oratore. 
Citerò qui alcuni esempi di Cicerone per meglio conoscere 
il modo d’usare di siffatte cose. 

I. Esempio. Nell’orazione prò provinciis consularibus (ove 
Cicerone espone in senato il suo opinamento, che cioè conve- 
niva piuttosto richiamare Pisone dalla Macedonia, Gabinio 
dalla Siria, di quello che Cesare dalle Gallie) non vi è punto 
di preghiera, ma solo la ricapitolazione delle cose dette in 
favore di Cesare, tralasciato 1’ epilogo delle ignominie degli 
altri due proconsoli: e solo apparisce l’ardente amore ch’egli 
ha per l’onore e bene della repubblica. 

Ed era cosa convenientissima, che Cicerone esponesse 
con tutta forza la sua sentenza lasciando agli altri senatori 
libero il giudicarne: l’ardente amore poi che mostrò per la 
repubblica, ad onta di qualunque suo privato sentimento, 
e la stima che fa del giudizio del senato , tacitamente ma 
mollo validamente, doveva conciliargli l’affetto de’Senatori e 
muoverli in suo favore (Vedi tutto il §§. XX). 

II. Esempio. Cicerone nell’orazione prò Archia fa la pe- 
rorazione nel §. XII, ove raccomandato pacatamente Archia 
ai Giudici, fa vista di unicamente ricapitolare tutte le cose 
dimostrate, ma nella stesso tempo tocca i più forti motivi da 
commuovere altamente l’animo de’giudici in favore del suo 
cliente. Così egli dice. 


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200 


» Quare conservate , iudices , hominem pudore eo , 
» quem amicorum videtis comprobari tum dignitate , tum 
» vetustate: ingenio autem tanto, quanto id convenit exi- 
» stimari , quod summorum hominum ingeniis expctitum 
» esse videatis: causa vero huiusmodi, quac beneficio legis, 
» auctoritate municipii, testimonio Luculii, tabulis Metelii 
» comprobetur. Quae quum ita sint petimus a vobis, iudices, 
» si qua non modo humana, verum etiam divina in tantis 
» negotiis commendatio debet esse; ut cum, qui vos, qui 
» vestros itoperatores , qui populi romani res gestas sem- 
» per ornavit , qui etiam bis recentibus nostris , vestris- 
» que domesticis periculis aeternum se testimonium fau- 
» dum daturum esse profitetur, quiquc est eo numero, qui 
» semper apud omnes sancti sunt habiti atque dicti, sic in 
» vestram accipiatis fidem , ut humanitale vostra levatus 
» potius, quam accrbitate vioialus esse vidcatur. 

» Quae de causa prò mea consuetudine breviter sim- 
» pliciterque dixi, iudices, ea confido probata esse omni- 
» bus: quae non fori, neque iudiciaìi consuetudine, et de 
» hominis ingenio, et communiter de ipsius studio loquu- 
» tus sum, ea, iudices, a vobis, spero, esse in bonam par- 
» tem accepta; ab eo, qui iudicium exercet, certo scio ». 

IH. Esempio, prò Ligario. Nel §. X, ove comincia la 
perorazione , dice Cicerone di non voler insistere negli ar- 
gomenti, che dimostravano l’ innocenza di Ligario , ma di 
confidare unicamente nella clemenza di Cesare : intanto per 
praeteritionem ne fa egregiamente l’epilogo, dicendo. « Ita- 
» que num tibi videor, Caesar, in causa Ligarii occupatus 
» esse ? Num de eius facto dicere? Quidquid dixi ad unam 
» summam referri volo vel humanitatis, vel clementiae , vel 
» misericordiae tuae .... Die te, Caesar, de facto Ligarii 
» iudicem esse: quibus in praesidiis fuerit, quacre. Taceo. 
» Ne haec quidem colligo, quae fortasse valerent etiam apud 
» iudicem: legatus ante bellum profectus , relictus in pace, 
» bello oppressus , in eo non acerbus , tum etiam totus animo 


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201 

» et studio tuus. Ad iudicem sic agi solet, sed ego ad paren- 
» tem Joquor. Erravi; temere feci; poenitet; ad clementiam 
» tuam confugio ; delieti veniam peto : ut ignoscas oro ec. 
» ec. ». E quindi diffondesi per ben tre paragrafi nella più 
affettuosa perorazione , ch’é uno dei più perfetti esemplari 
dell’arte squisitissima di muover gli affetti. 

Bellissima è ancora la perorazione prò Milone , com- 
presa nei quattro ultimi paragrafi. 

ARTICOLO IV. 

Come abbia luogo nell’ orazione la parte patetica. 

Tutte le cose dette riguardo alle tre parti costituenti 
l’orazioue, cioè l’esordio, la contenzione, e la perorazione, 
sono in certo modo comuni a qualsivoglia ragionamento anche 
meramente scientifico. Ma vi è un altra cosa tutta propria 
dell’oratore, che forma, per cosi dire, la sua qualità e nota 
specifica, che Io differenzia da ogn’altro dicitore, il quale in- 
tenda di solo parlare direttamente aU’intelietto altrui. Questa 
si è la parte patetica , l’arte cioè di dominare sugli affetti del 
cuore umano e di rivolger a suo talento la volontà degli 
uditori , ritraendoli efficacemente dal male e incitandoli al 
bene. Flexanima (come dice Ennio) atque omnium regina 
rerum (oratio) Cic. de Or. II. 44. Questa fa il pregio prin- 
cipale dell’oratore, che gli dà la vittoria nelle sue aringhe. 
E quelle orazioni riescono eccellenti, che offrono all’oratore 
maggiore occasione e materia d’eccitare più vivamente gli 
affetti. 

Il fondamento in vero dell’orazione debb’esserc un so- 
lido e ben condotto ragionamento , affinchè la commozione 
degli affetti produca un frutto durevole. Che anzi allorquando 
l’oratore intende di fare qualche grande impressione sugli 
uditori eccitando in loro le più vive passioni , debbo ciò 
fare come per indiretto , mostrando di non aver altro in 


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202 

mira se non di persuadere altrui la verità. Cosi insegna Ci- 
cerone, De orat. I. II. 77. dicendo: « Et quoniam . . . tribus 
» rebus homines ad nostram scntentiam perducimus , aut 
» docendo, aut conciliando, aut pcrmovendo, una ex omnibus 
» his rebus res prae nobis est fercnda, ut nihil aliud, nisi 
» docere velie videamur. Quae duae (che ambedue riduconsi 
in generale alla mozione de’ varii affetti) sicut sanguis in 
» corporibus , sic illae in perpetuis orationibus fusac esse 
» debent. » 

E però la patetica non ha determinato luogo , ma là 
dove la natura e ’l sentimento lo detta, ivi dee dispiegarsi. 
E quantunque in generale 1’ esordio e la perorazione sem- 
brino più atti alla mozion degli afTetti, pure talvolta veg- 
giamo nelle orazioni stesse di Cicerone, (che fu sommo in 
ciò) che vi ha degli esordi e delle perorazioni tranquillis- 
sime. Udiamo come egli nc parli. Proseguendo il detto di 
sopra , dice : « Nam et principia , et ceterae partes ora- 
» tionis, . . . habere hanc vim magnopere debent , ut ad 
» eorum mentes , apud quos agetur , movendas permanare 
» possint. Sed in his partibus orationis, quae etsi nihil do- 
» cent argumentando , persuadendo tamen et commovendo 
» proficiunt plurimum, quamquam maxime proprius est locus 
» et in exordiendo et in perorando; degredi tamen ab eo, 
» quod proposueris atque agas, permovendorum animorum 
» causa , saepe utile est. Itaque vel narratione exposita , 
» saepe datur ad commovendos animos degredicndi locus; vel 
» argumentis nostris contirmatis, vel contrariis refutatis, vel 
)> utroque loco, vel omnibus, si habet eam causa dignitatem 
» atque copiam, ut recte id fieri possit: eaeque causae sunt 
» ad agendum, et ad ornandum gravissimae, atque plenis- 
» simae,quae plurimos exitus dant ad eiusmodi degressionem, 
» ut his locis uti liceat, quibus animorum impetus eorum, 
» qui audiunt, aut impellantur aut reflectantnr ». 

Ma quale sia la natura dei diversi affetti dell’animo , 
quali le cause più atte ad eccitarli, o a reprimerli , qnale 


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203 

l’arte di ben governarli, tutto ciò sarà la materia della se- 
conda parte del trattato della invenzione. 

CAPITOLO VII. 

AVVERTIMENTI PRATICI A BEN COMPORRE 
UN DETERMINATO TEMA. 

I. Avanti di por mano all’opera conviene attenerci al 
precetto d’Orazio 

Tu nihil invita dice t faciesque Minerva 
(come spiega Cicerone negli Off. 1.31. invita ut aiunt Mi- 
nerva, idest adversante , et repugnante natura). E però ag- 
giunge Orazio 

Sumite materiata vestris qui scribitis aequam 
Viribus, et versate diu quid ferre recusent, 

Quid valeant humeri. Cui leda potenter erit res , 
Nec facundia deseret hunc, nec lucidus ardo (1). 

Ma può pur avvenire , che nostro malgrado convenga 
talvolta scrivere alcuna cosa superiore alle forze nostre: nel 
qual caso pongasi mente al precetto di Cicerone, ove dice : 
» Sin aliquando necessitas nos ad ea detruserit, quae no- 
» stri ingcnii non erunt , omnis adbibenda erit cura , me- 
li ditatio, diligentia, ut ea, si non decore , at quam mini- 
li munì indecore Tacere possimus. Nec tam est enitendum, 
» ut bona quae nobis data non sint scquamur, quam ut vitia 
» fugiamus ». La qnal cosa detta da Cicerone rispetto alla 
buona condotta della vita, eziandio al proposito nostro con- 
viene. 

II. Nell’atto poi di scrivere non si pensi punto ad imitare 
questo e quello autore, nè al bel modo di cominciare , nè 
ai più splendidi ornamenti rettorici; ma pongasi in opera 
l’eccellente canone che prescrive cosi: « Concepire e sen- 


ti) Ep. ad Pìsob. 38. ec. 


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» tire vivamente le cose nel loro vero , nativo e più bel 
» punto di vista, e queste tali quali si sentono, senza ve- 
» runo studio, ma come per istinto esprimerle di getto colle 
» parole ». Allora conosceremo di fatto, come sotto la penna 
ci si svolgeranno e ordineranno spontaneamente le idee; ci 
nasceranno nella mente le belle immagini, i modi più atti, 
gli ornamenti più gaii ed acconci; e il nostro componimento 
verrà di getto originale , tutta verità , tutta vita , tutta 
natura. 

III. Concepito finalmente il lavoro, è necessario limae 
labor et mora , porlo cioè (potendo) per alcun tempo da parte, 
c riprenderlo poi con animo tranquillo per farne un rigo- 
roso esame , rendendoci ragione d’ogni cosa ; e chiamando 
a una tal disamina anche un dotto e sincero amico, togliere, 
mutare, aggiungere ciò che giudicherassi opportuno. 

Sono questi savissimi precetti d’Orazio, che gioverà ri- 
portare colle sue stesse parole. Ep. ad Pisones 385. ec. 

Tu nihil, invita dices faciesque Minerva. 

Id Ubi iudicium est, ea mens. Si quid tamen olim 
Scripseris, in Metii descendat iudicis auree 
Et patris, et nostras: nonumque prematur in annum. 
Membranis intus positis, delere licebit 
Quod non edideris. Nescit vox missa reverti. 

Aggiunge poi Orazio, che con questa benevola e pru- 
dente persona, che ci saremo scelta per consigliere dell’opera 
nostra , non dobbiamo ostinatamente difendere le cose da 
lui censurate, ma docili c pronti obedire ai consigli. (438.ee.) 
Quintilio si quid recitares, corrige, sodes. 

Hoc aiebat, et hoc: melius te posse negares 
Bis terque expertum frustra ? delere iubebat, 

Et male tornatos incudi reddere versus. 

Si defendere delictum, quam vertere , malles , 

Nullum ultra verbum , aut operam insumebat inanem, 
Quin sine rivali teque et tua solus amares. 


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205 


Vir bonus et prudens versus reprehendet inertes , 

Culpabit duros, incomptis allinet atrum 
Transverso calamo signum : ambitiosa recidet 
Ornamenta ; parum Claris lucem dare coget, 

Arguet ambigue dictum, mutanda notabitj 
Fiet Aristarchus ; nec dicet. Cur ego amicum 
Offendam in nugis ? Hae nugae seria ducent 
In mala derisum semel exceptumque sinistre. 

Sia dunque diligente e severo l’ esame su I’ opere no- 
stre o di poesia , o di prosa ; ma sia insieme discreto. 
Ne quid nimis. Ove il tutto insieme sia buono non preten- 
diamo di toglierne ogni imperfezione. E come dice Ora- 
zio ccc. (347). 

Sunt delieta tamen quibus ignovisse velimus 

Nam neque chorda sonum reddit, quem vult manus et mens, 

Poscentique gravem persaepe remittit acutum. 

Nec semper feriet , quodeumque minabitur arcus : 

Verum ubi plura nitent in carmine , non ego paucis 
O/fendar maculis, quas aut incuria fudit 
Aut Humana parum cavit natura. 

L’ottimo (come dice il proverbio) è nemico del bene. 
Un’opera di mediocre bontà serve di strada a farne un’altra 
migliore; e così via via finché giungasi a quel sommo grado 
di perfezione, cui sia dato a noi di pervenire- 


i 


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APPENDICE 


Trattato dello Stile. 


PARTE PRIMA 


DELLO STILE IN GENERALE. 


I ? 

Li uomo di sua natura è animale ragionevole e sociale , 
però per disposizione eziandio di natura ei favella; cioè col 
mezzo del discorso manifesta altrui i propri pensieri, le af- 
fezioni e i consigli dell’ animo suo. Ma essendo egli , in- 
sieme all’ intelletto , dotato altresi della nobile facoltà del 
libero arbitrio , usa della lingua in modi e forme sva- 
riatissime. E non pur solamente ciò vedesi nella diversità 
del linguaggio, che ciascuna nazione si è formato, proprio 
e distinto da quello delle altre, e nei differenti ,'dialetti, che 
da ogn’ idioma rampollauo; ma iu quegli stessi che parlano 
la medesima lingua scorgonsi infinite varietà. 

Opera naturale è ch’uom favella. 

Ma cosi e così, natura lascia 
Poi fare a voi secondo che v’abbella. 

Dante Parad. XXVI. 

Ora da ciò se ne deduce l’ idea generale dello stile , 
che si definisce, dicendo; lo stile è quella certa forma e ca- 
rattere di elocuzione, che ha il discorso secondo la diversità 
dell’argomento, e il genio vario di chi favella. 

Lo stile poi potendo essere rozzo e incolto, ovvero con 
buona coltura raffinato e perfetto: quindi lo stile perfetto si 
è quella scelta forma di dire, che rappresenta le cose nel più 
vero e più bel modo [di loro esistenza , espressione e atteg- 
giamento. 


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CAPITOLO UNICO 

DELLE QUALITÀ’ CI1E A QUALSIVOGLIA STILE PERFETTO 
ESSENZIALMENTE APPARTENGONO. 

Affine di persuadere l’ intelletto altrui di qualche utile 
verità , e di dilettare e muoverne la volontà (ciò ch’è uf- 
ficio deirollimo dicitore), fa d’uopo, dice Cicerone, ut piane, 
ut ornate, ut ad id, quodeumque agetur, apte congruenter- 
que dicamus: che è quanto dire, che tre sono le principali 
qualità di qualsivoglia stile perfetto, cioè l.° la perspicuità, 
2.° l'eleganza e ornamento, 3.° la naturalezza e convenienza. 

ARTICOLO I. 

Della perspicuità dello stile. 

Essendo la perspicuità dello stile quella forma e modo 
di favellare che rappresenta altrui la verità evidentemente, 
ne segue , che presupposta , come condizione necessaria , 
somma chiarezza dei concetti in chi favella, richiedesi inol- 
tre l.° la proprietà de’ vocaboli : 2.° che sieno di comune 
uso: 3.° collocati secondo l’ordine naturale delle idee. Delle 
quali cose si è discorso (p. I. cc. I. II). E quanto al col- 
locamento delle parole secondo l’ordine delle idee, oltre ciò 
che ivi si è detto della unione logica delle parole, conviene 
notare, come l’ordine delle idee non ci si presenta sempre 
allo stesso modo ; ma varia secondo il vario nostro modo 
d’apprender gli oggetti. L’animo tranquillo vede le cose e 
le descrive nell’ordine che gli si offrono e succendonsi ob- 
biettivamente. L’ animo da forte passione colpito vede ed 
esprime gli oggetti secondo la vivezza dell’apprensione, cioè 
mira solo quelle cose che più lo colpiscono, saltando, e la- 
sciando ogn’altra. 


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209 

In somma dobbiamo porre ogni nostro studio e diligenza, 
affinché il discorso giunga a tal luminoso grado d’evidenza, 
che non possa da chi ode non intendersi, come appunto dice 
Quintiliano Inst. 1. Vili. c. 2. Tarn clara fuerint quae di- 
cemus , ut in animum eius (scilicet audientis) oratio, ut sol in 
oculos, etiamsi in eam non intendatur, occurrat. Quare non 
ut intelligere possit , sed ne omnino possit non intelligere , 
curandum. Al che gioverà mirabilmente il seguente canone, 
cioè: Esprimere esattamente le linee primarie , e le forme più 
distinte e caratteristiche del soggetto principale, accennando 
e sfumando le cose secondarie che possono dar risalto all’ idea 
principale ; e togliendo affatto le inutili e distruttive. Ciò 
scorgesi praticato in tutte le opere dei sommi autori di belle 
arti e di belle lettere. Rccheronne solo un esempio preso 
dal canto XXI dell’ inferno di Dante. Stando Dante sul ponte 
della quinta bolgia a rimirare la bollente pece, ove si pu- 
nivano i barattieri , narra questo improvviso avvenimento, 
dicendo 

Mentr’ io laggiù fisamente mirava, 

Lo duca mio dicendo : guarda guarda. 

Mi trasse a sè del luogo, dov’ io stava. 

Attor mi volsi come l’uom cui tarda 
Di veder quel che gli convien fuggire, 

E cui paura subita sgagliarda, 

Che per veder non indugia il partire : 

E vidi dietro a noi un diavol nero 
Correndo su per lo scoglio venire. 

Ahi quanto egli era nell’ aspetto fiero ! 

E quanto mi parea nell’atto acerbo , 

Con Tali aperte e sovra i piè leggiero ! 

L'omero suo, ch’era aguto e superbo, 

Corcava un peccator con ambo Tanche , 

Ed ei tenea de’ piè ghermito il nerbo. 

u 


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210 


Chi legge questi versi non ode solo un racconto , ma 
vede egli il fatto cogli occhi della mente, e ne sente rac- 
capriccio, ed orrore. 

Or volendo Dante esprimere lo spavento eh’ egli ebbe 
a si improvvisa e paurosa vista, non si ferma a descrivere 
per minuto le fattezze conte dei demonio , del dannato 
come fa in altri incontri e casi diversi (1); ma tocca solo 
maestrevolmente le precipue cagioni e gli effetti più natu- 
rali di un forte subitaneo timore. 

Mentre Dante a tutt’altro pensava, aH’improvviso dalla 
sua guida fedele, che solea in sì tremendo viaggio rassicu- 
rarlo, sentesi gridare coll’espressione la più energica, guarda, 
guarda. All’udir ciò Dante fu colpito dal più vivo spavento; 
c l’esprime notando l’ effetto naturalissimo di fuggire tosto, 
volgendosi insieme per vedere qual fosse il pericolo che so- 
vrastavagli. 

Allor mi volsi, come l’uom cui tarda 
Di veder quel che gli convien fuggire, 

... Che per veder non indugia il partire. 

Dice quindi l’oggetto spaventoso che vide : ma come accade 
a chi spaventato vede terribile oggetto, rimane egli colpito 
solamente da quelle qualità , che sono più orribili e pau- 
rose : e però Dante nota solo il colore della persona , un 
diavol nero; la fierezza dell’aspetto, ahi quanto egli era nel- 
l’aspetto fiero; la crudeltà dell’atto, e quanto mi parca nel- 
l’atto acerbo, mentre al dannato che avea stretto sulle sue 
spalle , tenea de’ piè ghermito il nerbo; finalmente la furia 
e rabbia maligna di tosto giltarlo nel luogo del suo suppli- 
zio F esprime colla rapidità del demonio , che Dante vide 
Correndo su per lo scoglio venire ... coll’ ali aperte e sovra 
i piè leggiero, (corrono e volano gli stessi versi). Ecco l’arte 
di porre in tutta evidenza le cose. 

(1) Per es. al C. XXI dell' inferno ove Dante preso da maraviglia attenta- 
mente considera e descrive a parte a [tarlo i giganti. 


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ARTICOLO II. 


211 


Della eleganza e ornamento dello stile. 

Eleganza , (voce derivata dal verbo latino eligere, sce- 
gliere) appropriata allo stile, si è quella scelta elocuzione , 
che con bel modo e con grazia rappresenta altrui le cose in 
tutta loro naturale bellezza. 

E però si presuppone, che belli sieno i concetti della 
mente in chi favella, e richiedesi poi che bellamente li rap- 
presenti colle parole. 

Ora quattro cose costituiscono 1’ eleganza dello stile : 
I. il buon metallo della lingua , cioè che le parole e le 
frasi non sieno nè straniere, nè vili, né troppo antiquate, 
ma di comune uso degli ottimi scrittori : II. V unione ar- 
monica delle parole ; e queste due prime qualità debbon es- 
sere come la veste di tutto il discorso, delle quali si è ab- 
bastanza parlato. (Parte I. cc. I. e III.) 

Ciò solo, senz’altri ornamenti, può bastare alla squisi- 
tezza dello stile. In fatti , quando siansi ben concepite le 
cose nel loro vero e miglior modo di essere, non sarà dif- 
ficile a chi siasi ben formato il gusto nello studio dei clas- 
sici, di rappresentarle altrui bellamente. Imperocché osser- 
vando le regole poste per la perspicuità dello stile, avverrà 
che le cose appariscano in tutta verità ed evidenza, e però 
nella loro schietta ed ingenua bellezza. Al dire di Quintiliano 
De oratoria institutione 9.° « Il trovamento deH’ottime cose, 
» avvegnaché sia abbandonato d’adornezza (cioè privo d’or- 
» namento) di parole , assai è ornalo di sua natura ». Fr. 
Bartol. D. XI. c. III. AI che allude Orazio. Ep. ad Piso- 
ncs v. 319 ec. 

Interdum speciosa locis, morataque recle 
Fabula, nullius veneris, sine pendere et arte 
Valdius oblectat populum , meliusque moratur , 

Quam versus inopes rerum , nugaeque canorae. 


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212 


N.B. Speciosa iocis, idest oonspicua et locuples sententiis 
et rebus , quas tractat - Morataque recte , in qua recte et 
vere expressi sunt mores hominum , recte ad mores homi- 
num composita. 

III. Che se poi alle due predette regole aggiungasi a tempo 
e luogo opportunamente la vivezza delle figure , che sono 
come i colori più splendidi della pittura, allora l’eleganza 
e la bellezza dello stile giunge al sommo grado di perfe- 
zione. 

IV. Ma inoltre l’eleganza e bellezza dello stile richiede 
la varietà. La profusione degli ornamenti induce sazietà e 
stanchezza in chi ode: e come dice Cicerone (nel 1.® della 
vecchia rettorica) « Delle molto acconce e splendenti parole 
» nasce (un sospetto) sospeccione d’ esservi molto artificio- 
» samentc pensato; la qual cosa e al dire toglie la fede, e 
» al dicitore l’autorità». F. Bartolommeo Amm. degli Ant. 
Disi. XI. c. III. 

£ qui parmi opportuna una molto giudiziosa annota- 
zione del P. A. Cesari al canto IV del Purgatorio di Dante: 
ove fa dire al Pompei. « Io pensai meco medesimo sopra 
» certi poeti veramente sublimi, ne’ quali tutto brilla, tutto 
» è perle di concetti alti, lavorati e gai al possibile : ma 
» che ? stancano : e però tu ti levi da leggere con noia : 
» e forse li riponi per non più ripigliarli. Non così Dante: 
» la prima lettura t’ invoglia della seconda , e la seconda 
» della terza, e cosi via via. Lascio stare che ciò può av- 
» venire dallo scoprir che facciamo per ogni lettura bellezze 
» nuove, e non prima notate; che è gran diletico del pia- 
» cere : ma io credo , che la prima cagione di questo di- 
» letto cosi costante sia la ragionevole parsimonia di que- 
» ste bellezze, le quali fioriscono il lavoro, non rafibgano. 

» La ragione principalissima poi credo esser questa: che la 
» natura, cioè l’ ingenito desiderio dell’uomo, vuole questa 
» parsimonia (cosi l’uomo è fatto), e si annoia eziandio del 
» bello, s’cgli è troppo e continuo». 


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213 

E però come nelle pitture d’eccellenti artisti, ai colori 
più vivi, con gran parsimonia da loro usati, aggiungonsi le 
mezze tinte, i colori smorzati e sfumati, e l’alternativa del 
chiaroscuro; cosi all’ottimo stile della lingua gli ornamenti 
più splendidi conviene con simile gradazione c temperanza 
di tinte alternare e variare. 

ARTICOLO III. 

Della naturalezza o convenienza dello stile. 

Ciò che pone come il sigillo alla perfezione dello stile, 
si è la naturalezza , quel che Cicerone dice apte congruen- 
terque dicamus. Adunque stile naturale diremo esser il mo- 
do di favellare profferito senza punto di studio , ma come il 
senso interno spontaneamente ne detta. 

La naturalezza dello stile è la caratteristica delle opere 
classiche. Dante (Purg. XXIV 51 , ec.) al Buonaggiunta , 
che interrogollo s’egli fosse l’autore delle nuove e dolci rime 
ec., rispose: 

. ... Io mi son un che, quando 
Amore spira , noto; ed a quel modo 
Che detta dentro vo significando 
Ciò udito, tosto esclamò il Buonaggiunta, 

O frate issa (1) vegg’io, diss’egli, il nodo 
Che ’l Notaio e Guitton e me ritenne 
Di qua dal dolce stil nuovo ch’io odo. 
lo veggio ben, come le vostre penne 

Diretro al dittator sen vanno strette, 

Che delle nostre certo non avvenne. 

E qual più a gradir oltre si mette, 

Non vede più dall’uno all’altro stilo; 

E quasi contentato si tacette. 

(1) issa vale ora. 


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214 

Che la naturalezza dello stile consista in questa spontaneità 
di favellare , onde le parole non si cerchino per maestria 
di studio, ma seguitino il sentimento fervente dell’animo, 
chiaro apparisce considerando, come le parole sono l’istru- 
mento e i segni delle nostre idee. Ora le parole altre sono 
segni e voci meramente naturali, come le interiezioni ; al- 
tre, quantunque sieno di libera istituzione degli uomini , 
pure coll’ uso rendonsi così connaturali , che meritamente 
può dirsi, che noi pensiamo in quella lingua che perfetta- 
mente conosciamo. Perciò chi parla come sente, parla na- 
turalmente, c convenientemente; quando cioè le parole, le 
frasi, la stessa loro collocazione, ('armonia, e ogn’altro or- 
namento di figure nascono spontanee come vengono sugge- 
rite dalle cose , non quali sono in sè stesse , ma quali si 
apprendono. 

Nè credasi che dicendo , che lo stile naturale debb 'es- 
sere senza studio, voglia con ciò escludersi ogni arte. Che 
anzi al vero hello naturale oppongonsi tre vizi: l.° la roz- 
zezza per mancanza di coltura, o sia di arte: 2.° la depra- 
vazione del gusto per mala coltura: 3.° l’artificioso studio 
ed uso dei precetti dell’arte. Il genio non colto è come 
l’oro nella miniera ; quello viziato per mala arte, 6 come 
l’oro per lega di vile metallo falsificato; lo studiato uso 
dell’arte è come l’oro schietto male speso e mal lavorato. 

Pertanto il primario c compendiario canone dell’ottimo 
modo di scrivere si è questo già altrove posto (1. II. c. 7). 
Concepire e sentir vivamente le cose nel loro vero , nativo e 
più bel punto di vista , e queste tali quali si sentono, senza 
veruno studio, ma come per istinto, esprimerle di getto col- 
le parole. 


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215 

PARTE SECONDA 

DELLO STILE I N PARTICOLARE. 

CAPITOLO I. 

DEI TRE DIVERSI (IENE RI DI STILE, 

SUBLIME, MEZZANO, E SEMPLICE. 

ARTICOLO I. 

Dello stile sublime. 

Lo stile sublime è una tal forma e modo di esprimere i 
concetti e i sentimenti dell’animo da produrre in chi ode la 
più viva e profonda impressione 

E però la materia dello stile sublime non può essere 
altro che grandi concetti, forti passioni, virtù eroiche. Ma 
è necessario altresì che una tal materia da chi favella sia 
concepita ed espressa nel modo più vivo ed energico (1). 

Quindi l’ elocuzione deve avere un carattere severo , 
vibrato, tronco e spesso anche animato dalle più forti ligure 
di concetto, d’immaginazione e di sentimento. La più concisa 
brevità è tutta sua propria. Perciocché l’animo in altissimi 
pensieri assorto, e da forte passione compreso, o si tace, o 
parla più coll’ espressione del volto e degli atti, colle voci 
naturali delle passioni, che con parole articolate. 

Però il sublime si ha in l.° luogo dal solo silenzio 
energicamente atteggiato : come la fiera taciturnità di Di- 
done neH’inferno all’incontro d’Enea (Virg. VI 469 ec.) 

(1) Taluni , sebbene di grande ingegno (come Mendclssohn Del Sublime 
par. II.) han distinto due generi di stile sublime, l’uno riguardo alia materia di alto 
concetto e sentimento; l'altro riguardo all’arte sopraffina di rappresentare le cose 
eziandio mediocri e piccolissime. Cid nasce dall’avcr confuso il sublime collo sti- 
le perfetto. Or la perfezion dello stile è comune a qualunque genere di stile ve- 
ramente classico, sia esso sublime, sia mezzano, sia semplice. 


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216 


Ilio, solo fixos oculos aversa tenebat: 

Nec magis incepto vultum sermone mo vetur, 

Quam si dura silex, aut stet marpesia cautes 
Tandem proripuit sese, atque inimica refugit 
In nemus umbri ferum. 

Similmente i fatti tragici c maravigliosi scolpiti e dipinti 
da eccellenti artisti. 

In 2.° luogo si usa il sublime in semplici sentenze. 
Come quella di Mosè ad esprimere l’ onnipotenza di Dio 
creatore} che disse fiat lux, et facta est lux: e qucll’altra di 
Dio allo stesso Mosè: Ego sum qui sum. E il detto di Cesare 
al nocchiero spaventato dalla tempesta Quid titnes? Caesarem 
vehis : e l’epistola di esso al senato. Veni, vidi, vici. 

Finalmente può essere di stile sublime anche un intero 
discorso, ma per la predetta ragione sempre di somma bre- 
vità. Come l’esortazione di un generale ai soldati ncU’atto 
di forte impresa militare, l’intrepida risposta di un marti- 
re al tiranno sul punto di contestar la fede col sangue; un 
inno, un salmo ec. 

Ma dunque, dirà taluno, il poema d’Omero, e quello 
di Dante non sono sublimi? Rispondo: sublime è l’argomento, 
e le parti principali, che lo compongono: ma la elocuzione 
nell’uno e nell’altro procede in modo equabile e temperato 
e di quando in quando sorgono dei tratti di stile sublime, 
i quali appunto spiccano maggiormente , perchè vengono 
preparati , c posti in piena luce per le tinte , dirò così , 
più smorzate , più basse e sfumate dello stile mezzano e 
anche del semplice. 

E qui cade opportuno ciò che nota il P. Cesari al canto 
VI del paradiso su quelle parole. Diverse voci fanno dolci 
note: cosi diversi scanni (cioè gradi di gloria) in nostra vita, 
rendon dolce armonia tra queste ruote: aggiunge il Cesari. 
k E altrettanto fa, pare a me , in esso poema di Dante il 
» vario degli stili, che egli dà a sua materia, permutando 
» soggetto , secondo che la natura di ciascuno dimanda : 


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217 

» che ora è fiorito, ora grave, ora profondo e filosofico: quando 
» molle, quando risentitò c forte: talora schietta natura e scm- 
» plice; talora ardiri e tratte di voli sopra le nuvole; e talora 
» rasente terra. Or questa è la vera fonte del diletto, che Dio 
» e \a natura colle opere sue insegnò a chi ha occhi da ben 
» vedere questo ordine, e comprenderne la bellezza. In cielo 
» non tutto è stelle : ma sereno altresì, e scuro di nuvoli, 
» e questi variati di colore, e di forma : in terra non tutto 
» è fiori*, ma dove erba eziandio, dove spinaio, e qua bo- 
» sco fitto, e là grillaie e nuda sabbia ec. ». 

Lo stesso scorgesi in tutto il poema d’ Omero. Reche- 
ronne qui un solo esempio (Iliad. VI. 466 ec.) Nell’atto di 
uscire al ferale combattimento contro i Greci, Ettore vede 
venirsi incontro Andromaca col piccolo Aslianatte in brac- 
cio. Alla nuova vista di questo guerriero a lui ignoto il 
fanciullo tosto paventa. Ciò Omero descrive nel modo più 
semplice c naturale, dicendo: 

A'(i S’ó nx‘ig npòg xoArgv èv&voto rtSyjvyg 
E’xXtvSrj ialini nurpóg fytv àrv%3etg 
Tapfiqvxg /jzkxój re idi Xópo'j inmoyxtrriv 
Àetvòv èri àxporuryg xcpvBog vevovru. voyoag 
Retro autem puer ad unum eleganter cinctae nutrici» 
Inclinatus est clamans, patri» chari aspectum exhorrcscens, 
Timens aesque et cristam setis equini s horridam , 
Horrendum a summa galea nutantem intuens. 

L’eroe sorrise a tanto, e toltosi l’elmo dal capo, e postolo 
in terra, prende il suo caro figliuolo, e baciatolo e scossolo, 
dai teneri affetti inverso Astianatte e l’aillittissima Andro- 
maca levandosi ai più nobili sentimenti fa questa sublime 
preghiera a Giove. 

Zev àlXot re Beai, dorè Ss; xai' róvSe yeveoSxt 
nótiS’spLov, àg yxì nep, àptnpenéot T pdkaatv 
Qde fiiriv r'ccjuSòv, xo et IX tu àvxooetv 
K «t rote rtg ein-gat, flarpòg d’óye rgXXgv àpeirnv 


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218 


E’x noli un avtcvza: fspst d'iwzpx fipsróevrcc 

Kt eivzg drftov cèvdpz, yapiirì di tppivz [lynjp. 
lupiter aliique dii, date iam et hunc fieri 
Filium meum, ut et ego, perdecorum Troianis, 

Sic viribusque fortem : et Ilio potenter imperiture: 

Et olim quii dicat, Patre vero hic multo fortior, 

Ex pugna redeuntem (conspicatus) referatque spolia cruenta, 
Interfecto hoste, gaudeatque animo mater. 

Questo è tutta natura , dal più semplice passa Omero 
allo stile temperato, e quindi spiccasi al sublime coi senti- 
menti più eroici, senza veruna ampollosità di parole, o di 
studiate ligure: ma pur vi ha un arte finissima; chè allora 
compita è l’arte (dice Longino. Lez. XXII. 1 quando sembra 
esser V istessa natura ; e allora è felice la natura , quando 
contiene l’arte celatamente. 

ARTICOLO II. 

Dello stile mezzano e temperato. 

Lo stile mezzano e temperato i una forma e modo di 
dire equabile, grave, armonioso. 

La materia di questo stile sono gli argomenti di seria 
meditazione e di grave interesse. E però dovendo essere il 
tessuto un ben ordinato ragionamento, ne segue che la elo- 
cuzione sia studiosamente accordata al filo e alla forza del 
raziocinio: la qual cosa produce naturalmente l’equabilità, 
e la decorosa gravità dello stile. 

E qui è da notare , come nello stile temperato il far 
mostra di diligenza e di studio nell’ ordinamento delle ma- 
terie e nell’usar le parole appropriatamente ai concetti, af- 
fine di esprimer in tutta evidenza e forza la verità de’ no- 
stri ragionamenti, non è cosa artificiale è viziosa, ma natu- 
ralissima. 


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219 

Che se il discorso sia diretto piu all’istruzione della men- 
te, che alla mozione degli alletti, come è nelle dissertazioni 
filosofiche e dottrinali, lo stile procede più severo, e poco o 
nulla vi han luogo gli ornamenti più splendidi della reltorica. 

Ma se colla persuasione della mente intendasi di muo- 
vere eziandio l’altrui volontà , come avviene nelle perfette 
orazioni , allora spontaneamente si apre il campo ad ogni 
maniera di ornamenti, i quali sono appunto l’effello della 
vivezza del sentimento c della immaginazione; che sono come 
gl’ istrumcnti più efficaci ad eccitar in chi ode gli affetti e 
muoverne a suo talento la volontà. 

ARTICOLO III. 

Dello stile semplice. 

Lo stile semplice è una forma di favellare improntata 
di si schietta e ingenua sincerità, come l’amico parla all’ami- 
co, la madre al suo figliuolo. 

E però quanto alla elocuzione, esclude l’armonia di gran- 
diosi periodi, c gli ornamenti più splendidi dell’arte retto- 
rica. Suo carattere proprio si è la nitidezza e proprietà della 
lingua , la vivacità dei sentimenti e degli affetti , espressi 
colle più pure, ingenue e spontanee grazie. 

Quanto poi alla disposizione e ordinamento della ma- 
teria, non dcbh’esservi nello stile semplice veruna apparenza 
di studiala orditura, ma vuoisi un ordine tutto spontaneo, 
come offronsi per sé stesse le cose , e in esso quasi a caso 
un’idea n’eccita un’altra, e questa un’altra; e così via via 
successivamente da sé svolgonsi c collegansi insieme. 

Ma qui appunto sta l’arte finissima e celata dello scrit- 
tore , c del dicitore , di porre innanzi, cioè, a bella posta 
tali oggetti e in tali circostanze, che naturalmente richia- 
mino c intreccino una successione d’ idee e di sentimenti , 
che guidino per sé stessi l’autore al preconcetto suo scopo. 


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220 


Finalmente rispetto alla qualità della materia, lo stile 
semplice non si limita già alle soie cose familiari c comuni, 
ma estendesi anche agli argomenti più gravi e sublimi; co- 
me per esempio si è la storia (Comentari di Cesare (1)), le 
dispute di alta filosofìa (il sistema stoico esposto da Ora- 
zio Satir. III. 1. I., e il sistema stoico e il peripatetico da 
Cicerone prò Muraena); le massime morali (favole d’Esopo); 
i misteri di Religione e le virtù eroiche (Fioretti di S. Fran- 
cesco; vite de’padri dal Cavalca; Evangelio (2)). 

Dalle quali cose può concludersi con Cicerone, che lo 
stile semplice pare ad ognuno facile ad imitarsi , ma vana 
ne riesce la prova. Ilio modo confidunt se posse dicere. Nam 
orationis subtilitus imitabilis illa quidem videtur esse exi- 
stimanti; sed nihil est experienti minus. (Cic. Orat. 23). 
Similmente Oraz. Poetic. 240. 

Ex noto jìctum carmen sequar, ut sibi quivis 

Speret idem, sudet multum frustraque laboret 

Ausus idem (3). . . 

(1) Di questi dice Cicerone [De Claris orat. 75.) « Etiam commentario? 
» quosdam scripsit (Caesar) rerum suarutn: valile quidem, inquam, probatos. Nudi 
» enim sunt, recti et venusti, omni ornata orationis, tamquam veste detracta. 
» Sed dum voluit, alios habere parala, unde sumerent, qui vellent scribcre hi- 
» storiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volenl illa calamistri inurere, sanos 
» quidem homines a scribendo deterruit . . . Nihil enim est in hisloria pura et 
» illustri brevitate dulcius ». 

(2) La divina sempiictà dell’Evangelio è di tal bellezza e virtù, che ha tratto 
dalla bocca degli stessi antesignani dell'empietà gli elogi i più segnalati- a io vi 
« confesso (dice Rousseau Emil. 1. 4. tit. 3.) che la maestà delle Scritture mi 
» sorprende. La santità dell'Evangelio parla al mio cuore. Vedete i libri de’filo- 
» sofi con tutta la loro pompa come son piccoli rispetto a quello 1 E egli pos- 
» sibile, che un libro st sublime e insieme si semplice sia l'opera degli uomini? » 

(3) Vedi Quinti). 1. 2. c. 1 1. 5. c. 2. 


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CAPITOLO II. 


221 


DELLE VARIE MODIFICAZIONI DEI TRE PREDETTI 
GENERI DI STILE. 

ARTICOLO I. 

Della varietà di stili subalterni. 

t 

Come ciascuno ha una fìsonomia diversa da tutti gli 
altri uomini, così nella forma e nel modo di favellare, quan- 
tunque nel suo genere perfetto, ha pur un carattere, e una 
quasi fisonomia di stile tutta sua propria. Ciò scorgesi non 
solo nelle belle lettere , ma in ogn’altra eziandio delle arti 
di genio. Recherò a proposito un bel passo di Cicerone de 
Orai. III. 7. cc. « Una fingendicst ars, in qua praestantes 
» fuerunt Myro , Polycletus , Lysippus; qui omnes inter se 
» dissimiles fuerunt; sed ita tamcn , ut ncminem sui velis 
» esse dissimilem. Una est ars ratioque picturae; dissimil- 
» limi tamen inter se Zeuxis , Aglaophon , Apelles; neque 
» eorum quisquam est , cui quidquam in arte sua deesse 
» vidcalur. Et si hoc in his quasi mutis artibus est miran- 
» dum , et tamcn verum ; quanto admirabilius in oratione 
»> atque in lingua ? Quae quum in iisdem sententiis verbis- 
» que versetur, summas habet dissimilitudines : non sic ut 
» alii laudandi, alii vituperandi sint ; sed ut ii, quos eon- 
» stet esse laudandos , in dispari tamen genere laudentur. 
»> Atque id primum in poelis cerni licet , quibus est pro- 
», xima cognatio cum oratoribus, quam sint inter sese En- 
»> nius, Pacuvius, Acciusque dissimiles; quam apud Graecos 
» Aeschylus, Sophocles, Euripides, quamquam omnibus par 
»> paene laus in dissimili scribendi genere tribuatur. 

» Adspicite nunc eos homines atque intuemini, quorum 
» de facultate quaerimus, quid intersit inter oratorum stu- 
» dia atque naturas. Suavitatcm Isocrates, sublilitatem Ly- 


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222 

» sias, acuinen Hyperides , sonilum Aeschincs, vim Demo- 
» sthcnes habuit. Quis eorum non egregius ? tamen quis cu- 
li iusquam nisi sui similis? Gravitatelo Africanus, lenitatem 
» Laelius , asperitalem Galba , proflucns quiddam habuit 
n Carbo et canorum. Quis horum non princeps temporibus 
» iliis fuit ? et suo tamen quisque in genere princeps. 

» Scd quid ego velerà conquiram , quum mihi liceat 
» uti praescntibus exemplis atque vivis ? (e dopo aver no- 
tato il vario carattere dei più insigni oratori allor viventi 
conclude) . . . Quod si in nobis, qui adsumus, tantae dissi- 
» militudines , tam certac rcs cuiusque propriae , et in ea 
» varietate fere meiius a deteriore, facultate magis quam ge- 
ni nere distinguitur, atque orane laudatur, quod in suo ge- 
li nere perfectum est; quid censelis, si omnes, qui ubique 
» sunt , aut fucrunt oratores amplecli voluerimus , nonne 
» fore, ut, quot oratores, totidem paene reperiantur genera 
» dicendi ? » 

Ora siffatta varietà di stili subalterni nasce in prima 
dalla diversa costituzione fisica individuale, quindi dall’edu- 
cazione e informazione morale, che corregge e modifica nei 
singoli uomini le ingenite disposizioni della natura. 

ARTICOLO II. 

Del modo di governare quanto allo stile i diversi ingegni 
secondo la natura individuale di ciascuno. 

Le differenze degl’ ingegni, le quali possono compren- 
dersi sotto classi distinte, nascono o dalla varia forza e pre- 
valenza delle doti intrinseche dell’animo (prevalendo in al- 
cuni le forze intellettuali, in altri quelle della fantasia e del 
sentimento) ; ovvero dalla varia attitudine di estrinsecare 
(dirò così) le proprie idee , e i propri sentimenti (essendo 
taluni per natura disposti a parlar poco e concettoso, altri 
a parlar diffuso e grandioso). 


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223 

Ora primieramente rispetto a quegl’ ingegni ne’ quali 
la prevalenza siavi in alcuna delle doti intrinseche, i pre- 
cetti a ben governarli han per fine di porre in perfetto ac- 
cordo la mente col cuore umano , e di subordinare la vi- 
vezza della fantasia e del sentimento alla retta ragione. 

E però in l.° luogo quelli, in cui prevale la severità 
del ragionare, conviene assuefarli allo studio delle opere di 
squisito sentimento e di bella immaginazione, quali sono i 
poeti classici, e quei grandi prosatori, che alla robustezza 
del ragionamento seppero unire i vivi colori della fantasia, 
e le grazie di uno squisito sentimento , come per es. Pla- 
tone, Demostene, Cicerone. 

Riguardo poi a coloro, ne’ quali prevale la forza della 
fantasia, e la vivezza degli affetti, conviene usare più se- 
vera disciplina, avvezzandoli al rigore del raziocinio, e allo 
stile equabile e temperato, proponendo loro a studiare, per 
modo d’ esempio, le opere filosofiche di Cicerone, la storia 
narrata pianamente ec. Nello studio poi dei poeti, o degli 
oratori di stile animato e adorno, esigere un’ esatta analisi, 
ove apparisca come le vive immagini, le figure e ogn’allro 
ornamento serva opportunamente allo scopo primario di lu- 
meggiare e dar forza al concetto e al ragionamento. 

Simili sono le regole per correggere c temperare le di- 
verse disposizioni naturali di estrinsecare i propri concetti. 
Imperciocché se il riservato parlare, che scorgesi in taluni, 
non nasca da sterilità di vena , ma da troppa timidezza o 
da tardità di sviluppo delle doti naturali , fa d’uopo ecci- 
tarli e animarli, sia coll’avvezzarli alle amplificazioni, sia 
collo studio degli autori di stile grandioso e robusto. 

Al contrario quei di precoce ingegno c troppo espansivi 
e feraci convien contenerli con opposti esercizi , seguendo 
e per gli uni e per gli altri 1’ esempio d’ Isocrate ramme- 
morato da Cicerone (De Orat. III. 9.) « Dicebat Isocràtes , 
» doctor singularis , se calcaribus in Ephoro, contra aulcm 
» in Theopompo frenis uti solere. Alterum enim, cxsultantem 


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224 

» verborum audacia , rcprimebat ; allcrum cunclantem et 
» quasi vcrccundantem , incitabat. Ncque eos simile» ef- 
)> fecit inter se, sed tantum alteri affinxit, de altero limavit, 
» ut id conformaret in utroque, quod utriusque natura pa- 
li tcretur ». 

Può altresì avvenire che il parlar rimesso di taluni non 
provenga nè da timidezza nè da tardità di sviluppo , ma 
dalla natura del suo ingegno profondo e concettoso: come 
in altri il parlar diiTuso può derivare , non da franchezza 
di spirito e facilità di favellare, ma dal modo largo e gran- 
dioso di vedere le cose. 

Ora cotestc diverse disposizioni di natura, ben dirette 
e coltivate , producono due forme subalterne di stile, cia- 
scuna nel suo genere pregevolissima : l’una è lo stile con- 
cettoso, detto comunemente laconico (1); l’altro lo stile largo 
c magnifico, che se eccede vicn detto aiiatico. 

Lo stile conciso o laconico si è quello , che in poche 
parole racchiude grandi concetti , che dice molto in poco. 
A questa sorte di stile è necessaria una somma evidenza 
di espressione. E però conviene esprimere con parole le più 
proprie , e con le più vive metafore , tutte e sole le cose 
sostanziali , primarie e caratteristiche del concetto : altri- 
menti cadrebbesi nel vizio di oscurità : brevis, esse laboro, 
obscurus fio, come dice Orazio. 

Lo stile laconico può usarsi l.° in semplici sentenze, 
e queste o spartite in modo aforistico , come gli aforismi 
medici d’ Ippocrate, le filosofiche sentenze di Taletc, i pro- 


ti) Laconico o sia sparlano; essendosi gli Spartani resi celebri per li delti 
concettosi, e per la la loro avversione al dir prolisso. Per es. Avendo loro mi- 
nacciato un nemico con lunghe dicerie ruina ed esterminio , risposero con una 
sola sillaba si, se cioè, se tanto potrai, se noi non sapremo resistere e abbat- 
terti . . . Cosi alle dimande di Filippo re de’Macedoni risposero con un ou non. 
Cleomene duce degli Spartani a quei di Sainiu rispose Eorum quae dixistis prima 
non memini ; media non intelligo; ultima non probo. Delle stesso genere è la 
lettera di Cesare sopra citala veni, vidi, vici. 


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225 

verbi di Salomone ec. ovvero unite ad un discorso continuato, 
come la moralità nelle favole d’Esopo, le massime politiche, 
economiche , religiose , che nel decorso di una narrazione 
istorica o di altri dicorsi dal complesso dei fatti e dalla 
forza del ragionamento nascono spontaneamente quali lu- 
minosi epifonemi. 

Può altresì usarsi il laconismo in discorsi continuati , 
come è nella storia di Tacito; nelle vite degli uomini illustri 
di Cornelio, e in quell’altra del medesimo ora smarrita: al 
quale dice Catullo, nel dedicargli i suoi versi. 

.... Ausus es unus Italorum 
Omne aevum tribus explicare chartis, 

Doctts, Iupiter, et laboriosis. 

L’effetto dello stile laconico bene adoperato si è d’im- 
primere le cose nell’ animo di chi ode prontamente, e for- 
temente e fecondamente. 

Lo stile poi largo e magnifico è quello che non pur 
esprime le doti e le caratteristiche essenziali del soggetto; 
ma che inoltre lo svolge e lo rappresenta in tutte le parti 
che lo compongono, e nelle circostanze e aggiunti che danno 
lume a vederlo nel intero suo essere. 

E però questo stile adattasi più facilmente alla intel- 
ligenza di qualunque sorta d’ uditori , essendo essi guidati 
quasi per mano a considerare ogni cosa , e a tutto age- 
volmente comprendere 1’ argomento ; siccome è lo stile di 
Omero, di Erodoto, e di Cicerone nelle orazioni al popolo. 

Le regole poi a ben fondere il discorso in istile largo 
e grandioso sono le stesse da noi date per l’ amplificazione 
dei concetti, e quelle da praticarsi nell’analisi degli autori ; 
il cui fine si ò di conoscere e di rappresentare il tutto 
nella sua perfetta integrità. 

Due poi sono i vizi , nei quali si può di leggieri ca- 
dere usando di questo stile: l.° la gonGezza, di chi (pro- 
fert) ampullas et sesquipedalia verba, et sonos: onde il suo 
declamare è meritamente deriso e dispregiato : 2.® la mi- 

15 


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226 

nutezza di chi va appresso alle cose minime e di niuno in- 
teresse; l’effetto della quale si è il languore : sectantem laevia 
nervi de/iciunt , animique {Hor. Poe.). 

CAPITOLO III. 

REGOLE PRATICHE PER ACQUISTARE L’OTTIMO STILE. 

ARTICOLO I. 

Scelta degli esemplari da studiarsi. 

Per formarsi l’ottimo stile primo divisamente sia di 
scegliersi per esemplari da studiare gli autori del secolo 
d’oro delle lettere. Fra questi prescelgasi taluno a norma 
e pascolo continuo , quello cioè che più adattasi al genio 
proprio di ciascuno: al quale di quando in quando aggiun- 
gaci altri autori di diverso stile, si in prosa come in versi, 
ma tutti di buon metallo. Per dare poi l’ultima perfezione 
al gusto , ottimo consiglio si è di applicarsi studiosamente 
alle opere di più schietta e nativa semplicità, come in latino 
le favole di Fedro, le commedie di Plauto e di Terenzio, 
o alcune parti di esse , (ma cautamente scelte) ; l’ epistole 
di Cicerone. E in italiano i fioretti di S. Francesco, le vite 
de’ SS. Padri del Cavalca , il Passavanti. Se pur non fia 
meglio incomimeiare da questi autori, dai quali imparasi la 
proprietà delle voci, e il nativo lume della eleganza, e pas- 
sare quindi alle opere di più studiata elocuzione, ma senza 
però tralasciar mai lo studio di quegli aurei esemplari (1). 


(1) Cicerone (De Claris orai, seu Brulus c. 74) parlando dell'aurea proprietà 
ed eleganza degli antichi, che chiama loquutionem emendatavi et latinam, sog- 
giunge « cuius penes quos laus adhuc fuil, non fuit rationis aut scienliae, sed 
» quasi honae consuetudinis . . . zElalis illius fuit laus lanquam innocenliae, 
» sic latine loquendi . . . Omnes lum fere , qui nec extra urbem hanc vi ve- 
li rant, ner os aliqua barbarie domestica infuscaverant , reele loquebanlur. Sed 


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ARTICOLO II. 


227 


Modo di studiare siffatti esemplari e di esercitarsi 
gradatamente dietro le loro orme. 

Cicerone (de Orat. I. 33. 34) ed altri sommi maestri 
danno le seguenti regole. 

1. ° Attenta e assidua lettura di tali autori, ricercan- 
done tutto il hello con ben ordinata analisi. 

2. ° Trascriverne dei belli tratti e impararli a memoria. 

3. ° Recitarli ad alta voce, ma bene a senso, e secondo 
le regole di retta pronuncia ed azione. E ciò fare alla pre- 
senza eziandio di giudici discreti. 

4. ° Imitarli, e ciò in vari modi: cioè, Ietta, per eserft- 
pio, una narrazione, o un tratto qualunque di classico au- 
tore, provarsi di ripeterlo a voce e in iscritto nello stesso 
idioma; ovvero tradurlo quanto meglio si può da una lin- 
gua aH’altra: ed anche scelto un simile argomento (come a 
modo d’esempio il duello di Mallio col soldato Gallo, o 
quello di David con Golia nella valle di Terebinto, in mezzo 
a’due eserciti, giudeo e filisteo, paragonato al combattimento 
degli Orazi e Curiazi di Tito Livio) foggiarlo su le norme 
del proposto esemplare. 

5. ° Per ultimo vengono gli esercizi da farsi tutti del 
suo, e come suol dirsi proprio Marte. E in prima possono 
farsi utilmente quegli esercizi, che suggerisce Cicerone in- 
torno agli autori stessi che studiansi; dicendo egli exercita- 
tionis causa laudandi , interpretandi , corrigendi, vituperandi , 

» hanc certe rem deteriorem vetustas fecit, et Romae et in Graecia. Confluxe- 
» runt enim et Athenas et in hanc urbem multi inquinale loquentes ex diversis 
» locis. Quo magis expurgandus est sermo . . Caesar autem rationem adhihens, 
# consuctudincm vitiosam et corruptam pura et incorrupla Iocutione emendavi!. 
» (E ciò fece con somma diligenza : perciocché) ut essel perfecta illa bene di- 
» cendi laus, multò lilcris, et iis quidem reconditi? et exquisitis summoque stu- 
» dio et diligentia est conscquutus. Qui in maximis oecupalionibus . . . de ra- 
» lione latine loquendi accurati.-:. ime scripsit ». 


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228 

refellendi s uni. Ma in quanto al correggerli, al biasimarli 
e confutarli , ciò dee farsi solo nei gravi e manifesti loro 
errori, e con molta urbanità. 

Per un altro esercizio possono confrontarsi due autori, 
che in vario modo trattino lo stesso argomento, considerando 
le ragioni del vario modo d’esporlo, benché ciascuno nel suo 
genere perfetto. 

Un terzo esercizio si è di prendere un argomento qua- 
lunque e dirne prò e contro, come lo stesso Cicerone con- 
siglia , dicendo. Disputandumque de omni re in contrarias 
partes, et quidquid erit in quoque re, quod probabile vidcri 
possit , eliciendum. Intorno a ciò trovasi un'ampia selva 
d’esempi, tracciali da Bacone da Verulamio nell’ opera de 
Augmentis scientiarum 1 . VI cap. III. 

Sebbene poi sia cosa utile fare a voce i predetti eser- 
cizi; pure, come insegna Cicerone, il modo migliore si è, 
quamplurimutn scribere : Stylus optimus dicendi effcctor et 
magister. 

Finalmente dopo la pratica dei detti esercizi fatta in 
privato passare alla pubblica palestra, c dalle cose finte alle 
vere. Educenda deinde dictio est ex hoc domestica exercita- 
tione et umbratili medium in agmen , in pulverem , in cla- 
morem, in castra, atque in aciem forensem. Subeundus usus 
omnium , et periclitandae vires ingenii et illa commentano 
inclusa in veritatis lucèm proferendo est . 


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LIBRO TERZO 


Orila Invenzione rettorie». 


PROLOGO 

CHE INTENDASI PER INVENZIONE RETTORICA, 
E PARTIZIONE DELLE MATERIE. 


La parola invenzione, che derivasi dal latino inventio, ri • 
travamento, applicata all’arte rettorica può significare due 
cose, l’una si è il ritrovamento di un tema bello e accon- 
cio al nostro intento; l’altra si è il ritrovamento di ciò 
che fa di bisogno a ben trattarlo. Non occorre qui favel- 
lar della prima , essendo ufficio del maestro rinvenire e 
proporre agli scolari temi opportuni ad esser da loro ese- 
guiti. Ed anche rispetto alle persone già formate nell’arte 
del bello scrivere, il tema del ragionamento è loro comu- 
nemente suggerito dall’occasione stessa che offresi di trat- 
tare privati o pubblici negozi. 

Ora siccome il fine di qualsivoglia nostro discorso deve 
esser quello di persuadere altrui qualche utile verità , e 
di farla efficacemente amare; perciò doppio ha da essere altresì 
lo scopo della invenzione, l’uno di trovare quegli argomenti 
che più valgono ad istruire e persuadere l’intelletto, l’altro 
di trovare e scegliere i motivi più atti a muovere l’altrui 
volontà ad abbracciar di buon grado quel partito che siasi 
conosciuto vero utile ed onesto. Imperocché quantunque il 
conoscere coH’inlclletto un 1 utile verità con evidente ragion 
dimostrata, molto per sé stesso valga a farla bramare; Quid 
enim fortius desiderai anima quam veritatem? (S. Aug.); pur 



230 

tuttavia spesso interviene, che se non si adoperino insieme 
forti motivi per eccitare ed infiammare gli affetti del cuore 
umano, il solo freddo magistero della ragione rimanga al 
tutto sterile, dicendosi : Video meliora proboque , deteriora 
sequor. 

All’ incontro chi molto si adoperasse a muover gli af- 
fetti, senza gran fatto brigarsi di solidamente dimostrare la 
verità del suo argomento , potrebbe in vero produrre tal- 
volta dei buoni desideri ed anche alcun frutto del suo di- 
scorso, ma di corta durata. 

Adunque il primario avviso dello scrittore e dell’ora- 
tore debb’ essere di stabilire e corroborare il suo discorso 
con solidi argomenti, da indurre neH’intellelto altrui pieno 
convincimento della verità proposta. Deve poi insieme toccare 
opportunamente quelle corde del cuore umano, che meglio 
valgono a piegare l’altrui volontà allo scopo da esso inteso: 
affinché» scolpita profondamente nell’animo la verità e uti- 
lità del partito proposto, pongasi incontanente mano all’opera 
c virilmente si compia. 

Or siccome le predette cose possono considerarsi in due 
modi, o in generale , qualunque sia la natura e l’ indole 
dei componimenti; ovvero in particolare, tanto rispetto alla 
prosa, quanto alla poesia , e alla diverse specie sì di ora- 
zioni, come di poemi : quindi è che il libro III della in- 
venzione convien dividerlo in due trattati , uno generale , 
l’altro particolare. 

TRATTATO I. 


DELLA INVENZIONE RETTORICA IN GENERALE. 

Dalle cose predette chiaramente apparisce come il trat- 
tato generale della invenzione rettorica, detto dagli antichi 
topica o luoghi rettorie*, ha due parti, la prima che diciamo 
logica rettorica o sia topica rispetto all’argomentare, addita 


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231 

le fonti degli argomenti e dà le regole riguardo aliai per- 
suasione dell’ intelletto; la seconda, che appellasi patetica ed 
etica pratica , insegna l’arte di muovere e governare gli af- 
fetti del cuor umano a fine di piegare la volontà di chi ode 
a ciò che intendiamo. 

Ma all’udir i nomi di logica, di patetica ed etica pen- 
serà forse taluno, ch’io voglia menare nel campo della fi- 
losofia i giovanetti retlorici prima del tempo debito. E però 
a tórre ogni falsa apprensione, conviene che qui dichiari il 
mio intendimento. 

Nel trattare della logica rettorica , della patetica ed 
etica (quanto spetta a noi) ci sarà al certo di scorta la fi- 
losofia ; non sarà però il nostro discorso punto scientifico, 
ma al tutto pratico e piano. Imperocché siccome a ben ap- 
prendere le arti meccaniche egli è cosa molto giovevole stu- 
diare la geometria e l’aritmetica, non già al modo scienti- 
fico d’ Euclide, ma in modo tutto semplice e pratico appli- 
cabile alle arti medesime; cosi a più forte ragione nell’arte 
nobilissima rettorica, che non ha per oggetto un utile ma- 
teriale; ma sì d’insegnare e persuadere altrui la verità, la 
virtù, la vera utilità, e di eccitarne la volontà a bramarla 
ed ottenerla, egli è al tutto necessario prendere in prestito 
dalla filosofia quei principi, e quelle regole, che a cosiffatto 
scopo unicamente conducono. E ciò, come è detto, non si 
farà da noi in modo scientifico , che pur sarebbe l’ottimo, 
ma in modo positivo e dommatico. La filosofia poi a suo 
tempo perfezionerà la coltura. 


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232 


PARTE I. 


TOPICA RETTORICA RISPETTO ALL’aRGOMENTARE. 

CAPITOLO I. 

DELLE PRECIPUE FACOLTA' DELL’ANIMA UMANA. 

L’uomo $i definisce un animale ragionevole, il che vuol 
dire , eh’ egli è composto di anima intelligente e di corpo 
maravigliosamente conformato; e l’una e l’altra sostanza, la 
spirituale e la materiale, cosi sono tra loro congiunte, che 
l’anima informando il corpo gli dà il movimento e la vita; 
il corpo all’ opposito co’ suoi cinque organi scnsorii, vista, 
udito, gusto, odorato e tatto serve come d’ istrumento al- 
l’anima, ond’ella esercita le sue nobili facoltà. 

Ora due sono le primarie facoltà dell’ anima umana , 
l’ intelletto e la volontà. L’oggetto dell’ intelletto è il vero, 
quello della volontà è il bene ; o sia l’ intelletto è quella no- 
bilissima facoltà dell’anima, per la quale percepisce e con- 
templa le cose materiali e immateriali con le loro necessarie 
relazioni, e le discerne dalle false. La volontà poi è quella 
facoltà, onde l’anima appetisce il bene, o sia appetisce quelle 
cose che per mezzo dell’ intelletto apprende come a sò utili 
e dilettevoli. 

Adunque prima è l’ intendere , poi il volere ; nè può 
l’uomo volere niuna cosa, se prima non la conosca in qual- 
che modo a sè utile e dilettevole. E però pongasi questa 
massima assiomatica, che nulla può volersi se pria non siasi 
conosciuto sotto qualche apparenza di bene : Nil volitum 
quin praecognitum (scilicet tanquam bonum); e voluntas non 
fertur in ignotum. 

All’ intelletto poi sono strettamente congiunte due altre 
facoltà secondarie, che a lui servono e valgono a mirabil- 
mente nobilitarlo, la memoria, dico, e la fantasia. La memo- 


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233 

ria è la facoltà di ritenere e di richiamare le cognizioni 
acquistate. Memoria est per quam animus repetit illa quae 
fuerunt. Gic. 2. inv. 53. La fantasia poi è quella facoltà, 
per la quale le cose assenti , o trapassate , ovvero future , 
l’animo così se le rappresenta con tutte loro fattezze , at- 
teggiamenti e vicissitudini, come fossero veramente presenti 
e sottoposte ai sensi. E ciò tanto se sieno oggetti reali e 
tali quali in natura esistono , quanto se composti e abbel- 
liti, o anche creati di nuovo e al tutto simili al vero. 

La forza e acutezza d’ intendere, la prontezza e tena- 
cità del ricordarsi , la vivezza e fertilità d’ immaginare , è 
ciò che forma gli uomini che diconsi di nobile intelletto , 
di gran mente, di grande ingegno, di genio (1). 

L’altra facoltà primaria dell’anima umana, come dianzi 
è detto, si è la volontà , cioè quella facoltà che ha per suo 
oggetto proprio il bene. Ma a fine di conoscerne la sua vera 
natura , fa d’ uopo considerare come ogni animale per na- 
tura abborre il dolore e tutti quegli oggetti che conosce ca- 

(1) Giova qui nolare come il vocabolo intelletto differisca dal vocabolo rr.ente 
si in Ialino come in italiano. La voce intelletto è unicamente adoperata a signi- 
ficare la facoltà principe dell'anima di conoscere e discernere il vero dal falso; la 
voce mente ha un significalo più largo e comprende tanto la facoltà primaria d’in- 
tendere, quanto le altre facoltà dell'anima: e talvolta usasi per indicarne una , 
talvolta un altra, e talvolta il complesso di tutte. Prendesi mente per la sola in- 
telligenza, come quando disse Cic. 3 Tusc. S. « Mens, cui regnimi totius animi 
» a natura Iributum est »: e quando diciamo mente chiara, perspicace, acuta 
intelligente. Prendesi anche mente per significare la memoria: e però diresi, te- 
nere e avere a mente, richiamare e ridursi alla mente. Come Dante Pur. 33. 
Tu nota: e si come da me son porle - Queste parole si le insegna a vivi - Del 
viver ch’è un correre alla morte. Ed aggi {abbi) a mente quando tu le scrivi. 
E altrove. O mente che scrivesti ciò ch’io vidi - Qui si parrà la tua nobilitate; 
(che può ciò anche intendersi per la fantasia poetica). E Virg. mane t alta mente 
repostum. E Cic. Brut. 61. « Huic, minime mirum, ex tempore dicenti solitam 
efQuere menlem o. Talvolta mens prendesi per l’anima stessa con tutte le sue 
facoltà , come Cic. Mil. 31. Quasi nostram ipsam menlem , qua sapimus , qua 
» providemus, qua haec ipsa agimus, et dicimus, videre, aut piane qualis, aut 
« ubi sit, sentire possimus. Talvolta prendesi per consiglio, disegno, proposito, vo- 
lontà. Coro. Annib. vita. Id iusiurandum usque ad hanc diem servavi, ut nemini 
dubium esse delieal, quia reliquo tempore eadem mente sim futurus. 


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234 

paci di molestarlo j e appetisce quelli oggetti che conosce 
alti a lenire il dolore e a recargli piacere. £ questa appe- 
tizione del bene (che dicesi amore) è naturale e spontanea 
in ogni animale c muovesi tosto che offresi a lui un oggetto 
sotto apparenza di bene. Ora siffatto impulso spontaneo, e 
che ha per oggetto i beni materiali atti a procacciare il 
piacere dei sensi e il ben essere della vita , questo mede- 
simo è comune anehe all’ uomo , e da esso unicamente è 
guidato prima dell’uso di ragione. Così Dante Purg. XVIII. 19. 

L’animo , ch’è creato ad amar presto 
Ad ogni cosa è mobile che piace 
Tosto che dal piacere in atto è desto. 

Ma l’uomo (come fatto capace di un ordine superiore 
di molto alle bestie, dell’ordine cioè intellettuale e morale 
c della nobilissima destinazione ad una perfetta felicità nella 
vita avvenire) quando in lui sviluppasi la ragione, a poco 
a poco colla riflessione e molto anche coll’esperienza cono- 
sce come tra gli oggetti materiali vi ha dei veri beni , e 
degli apparenti e lusinghieri , che oppongonsi al vero suo 
bene, alla sua vera felicità. E però, sicgue Dante loc. cit. 
v. 62. ec. 

Innata v’è la virtù che consiglia , 

E dell’assenso dee tener la soglia. 

Quest’ è ’l principio là onde si piglia 
Cagion di meritar in voi , secondo 
C he buoni o rei amori accoglie e viglia (1). 

Questa nobile virtù o potenza dell’anima umana, onde 
1’ uomo sotto lo stimolo degli oggetti dilettevoli , o disgu- 
stosi, può a suo senno tenere in freno l’appetito naturale, 
ed esaminando deliberare sulla forza de’ motivi e delle ra- 
gioni, che lo invitano a seguire uno o un altro partito, e 
in ultimo a suo talento determinarsi e acconsentire o dissen- 
tire , questa nobilissima potenza dico è quella che appellasi 

(i) Viglia, cioè sceglie, siccome tassi del buon grano col vaglio. 


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libero arbitrio , o libertà , che costituisce 1’ uomo signore e 
responsabile delle sue azioni, degno di lode o di biasimo, di 
premio o di pena. 

Ora l’appetito naturale che sotto la guida della ragione, 
e l’ impero del libero arbitrio, si piega inverso qualche bene 
è ciò che dicesi volontà, la quale è propria del solo uomo 
ragionevole. ( Come dice s. Tommaso I. P. q. a. 3. 8. ) 
Voluntas est rationalis appetitus qui est propria s hominis e 
però gli atti che diconsi volontarii nel vero loro significato 
appartengono solo all’uomo. Nota poi s. Tommaso, che quan- 
tunque in qualche senso possa dirsi anche delle bestie che 
volontariamente operino; pure il volontario nel suo proprio 
significato è un operazione ragionevole , cioè che parte da 
un principio intrinseco e con perfetta cognizione del fine. 
» Perfecta quidem finis cognitio est, quando non solum ap- 
» prehenditur res, quae est finis, sed etiam cognoscitur ratio 
» finis , et proportio eius quod ordinatur ad finem ipsum. 
» Et talis cognitio finis competit soli rationali naturae. Im- 
» perfecta aulem cognitio finis est , quae in sola finis ap- 
»> prehensione consistit , sine hoc quod cognoscatur ratio 
» finis , et proportio actus ad Gncm. Et talis cognitio finis 
» reperitur in brulis animalibus per sensum et acstimatio- 
» nem naturatemi». (P. I. q. 6. a. 2.) 

CAPITOLO II. 

DELLE PRINCIPALI OPERAZIONI DELL’ INTELLETTO UMANO, 

E DEI VOCABOLI CO* QUALI VENGON SIGNIFICATE. 

Tre principalmente sono i generi distinti di operazioni 
dell’ intelletto umano, l’idea, il giudizio e il raziocinio, che 
per mezzo di vocaboli ad altri manifestiamo. Or di ciascuno 
separatamente dirò quanto basta al nostro proposito. 

Idea , voce formata dal verbo greco stdnv vedere , si- 
gnifica vistone, o immagine di qualche cosa, formata e im- 


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236 

pressa nel nostro intelletto , come a modo d’esempio l’ im- 
magine di un albero, di un cavallo, di un tempio, che ve- 
duto da noi coi sensi esterni, rimane impressa nella memo- 
ria , e l’ intelletto la ravvisa , anche quando è rimosso dai 
sensi l’oggetto medesimo. 

Molte classi distinte d’ idee sogliono annoverarsi dai fi- 
losofi, ma quello, che a noi giova notare, si è che vi sono 
idee che diconsi altre concrete , altre astratte, ed anche idee 
individuali e idee universali. Le idee concrete o reali sono 
quelle immagini che rappresentano cose veramente esistenti, 
tanto se siano materiali, come sasso, fiume, albero; quanto 
immateriali, come anima, angelo, Dio ec. Le idee astratte 
poi sono quelle, che ci rappresentano alcune qualità c ope- 
razioni delle cose che realmente esistono, come la loro gran- 
dezza, la forma, ec. per es. l’idea di un triangolo, di un 
cerchio; così l’ idea di giustizia, o ingiustizia, l’ idea della 
bellezza, della verità, della virtù ec. sono tutte idee astratte. 

Distinguonsi anche le idee in individuali, e in univer- 
sali. Le individuali son quelle che rappresentano un solo og- 
getto come sole, luna, Cicerone, Virgilio, Roma, Napoli ec. 
che esprimonsi coi nomi detti dai grammatici nomi propri : 
le universali quelle che indicano tutta intera una classe di 
cose; ed esprimonsi coi nomi detti da’ grammatici nomi ap- 
pellativi, come città, uomo, ec. 

Le idee universali poi si distinguono in due classi, in 
idee specifiche, che rappresentano tutta intera una specie di 
cose , e in idee generiche , che esprimono tutto un genere 
intero. Col nome poi di specie intcndesi una similitudine 
d' individui , o sia tutta una classe d’ individui simili tra 
loro in alcuna qualità, che li distingue da tutti gli indivi- 
dui di altre classi , come 1’ idea di uomo comprende tutti 
gl’ individui della razza umana o sia degli animali ragio- 
nevoli , ed è distinta da ogni altra specie d’animali , dalle 
pecore, dai cani, dai cavalli ec. e da qualunque altra specie 
di cose. E l’idea uomo non indica singolarmente nè Cice- 


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237 

rone, nè Virgilio, nè Demostene, né Omero, né altro indi- 
viduo, ma vale a significare qualunque individuo composto 
di corpo organico, informato da un’anima intelligente. Adun- 
que l’ idea e il vocabolo appellativo uomo è idea e vocabolo 
specifico, cosi quello di capra, di pecora, di cavallo ec. 

Inoltre un nome appellativo può aver anche un senso 
più esteso, può indicare cioè molte specie simili; per esem- 
pio il nome animale comprende tanto la specie degli uomini, 
quanto quella delle pecore, de’ cavalli, e di qualunque al- 
tra razza di bestie, or quel nome appellativo che indica il 
complesso di varie specie tra loro simili, dicesi generico. 

Adunque la specie è un’idea universale che comprende 
tutta un moltitudine d’ individui tra loro simili : il genere 
è un’ idea universale che comprende un complesso di specie 
fra loro simili. 

Conviene anche notare , come vi ha una gradazione 
nelle idee generiche , e nei nomi appellativi che le signi- 
ficano. Per es. animale , come si è detto, è un vocabolo ge- 
nerico, perché comprende tutte le specie degli esseri com- 
posti di anima e di corpo, sieno o no ragionevoli: così ve- 
getale comprende qualunque specie di piante ec. , e però 
anch’esso è un nome generico. Ma il nome vivente comprende 
varii generi simili, cioè tanto il genere degli animali quanto 
quello delle piante, e di qualunque altro genere di cose che 
abbia vita. L’ idea poi c il vocabolo esistente è anche più 
esteso, ed esprime qualunque genere di cose, che esistano, 
cioè comprende il genere degli animali, dei vegetali, de’ mi- 
nerali, degli astri, e qualunque altro genere di esseri esi- 
stenti nel mondo visibile, o anche invisibile, come sono gli 
angeli, e Dio (1). E ciò basti quanto alla prima operazione 
deli’ intelletto. 

(i) Il vocabolo spicie [forma ) distinto dal vocabolo genere è usato da’fi- 
losofi per determinare e distinguere precisamente le idee universali e il senso 
dei vari nomi appellativi. Ma è da notare come nel parlar comune la voce 
specie* , specie, dagli autori latini e italiani prendesi nel suo nativo significalo 


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Quanto poi alle altre due, cioè al giudizio, e al razio- 
cinio, se n’è già data la nozione (P. I. della elocuzione c. II. 
a. 1.2.3). Ove si è detto come U giudizio è quell’ operazione 
dell’intelletto con la quale affermiamo o neghiamo qualche cosa, 
o in altre parole, il giudizio è quell’ atto dell’ intelletto col 
quale avvertiamo chiaramente la convenienza o disconvenienza 
di due idee fra loro. Il giudizio poi della mente, se sia espresso 
colle parole dicesi proposizione. 

Si sono ivi eziandio notate le tre parti essenziali di 
qualsivoglia proposizione, cioè soggetto , predicato e copula: 
le quali se sieno tutte e tre espresse , dicesi proposizione 
esplicita; siccome poi i verbi di modo finito contengono in 
sè sempre il predicato e la copula, e talvolta anche il sog- 
getto, perciò sono essi tante proposizioni implicite. 

Si sono anche distinte le proposizioni semplici, aventi 
un solo soggetto e un solo predicato , dalle composte , le 
quali o hanno più soggetti, o più predicati uniti insieme 
o colle particelle copulative o colle disgiuntive; e però le 
proposizioni son anch’esse dette o copulative o disgiuntive: 
ovvero una proposizione principale , contiene in sé una o 
più proposizioni subalterne , le quali servono a dichiarar 
meglio e il soggetto , o il predicato , o il modo e ragione 
della loro convenienza o disconvenienza. 

Quindi all’art. II. §. II. si è dichiarato, come il razio- 
cinio è quell’operazione delfintelletto con cui da una verità 
certa e ben nota se ne deduce un altra prima ignota o non 
ancora certa: la quale operazione espressa colle parole, suole 
appellarsi generalmente argomentazione. E quella verità certa 
ed evidente , che no fa conoscere un’ altra prima ignota o 
incerta; dicesi argomento; questo forma il principio del ra- 
gionamento, quella ne è la conseguenza. 

di forma, apparenza, bellezza, cosi. Oh quanta species ! cerebrum non habet. 
Similmente dicesi sotto specie di bene, sotto specie di virtù, sotto specie di 
pane ecc. E la voce genere usasi anche a indicare una specie propriamente 
delta. Come dicendo il genere umano, id geni ss bornio um ecc. 


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Poste queste semplicissime nozioni logiche, potremo fa- 
cilmente intendere l’ indole e 1’ uso dei luoghi rettorici ; i 
quali servono appunto a ritrovare e determinare con ogni 
evidenza le varie specie di tali principii , che formano come 
il fondamento dei nostri ragionamenti. 

CAPITOLO III. 

DEI LUOGHI ONDE TRAR SI POSSONO GLI ARGOMENTI. 

I luoghi rettorici, quanto al ritrovamento degli argo- 
menti , hanno per autore Aristotele , di cui dice Cicerone 
(de Orai. II. 36.) « Arisloteles is, quem maxime ego admiror, 
« proposuit quosdam locos, ex quibus omnis argumenti via, 
» non modo ad philosophorum disputationem, sed etiam ad 
» hanc, qua in causis utimur , invenirctur ». E poco ap- 
presso, dandogli il sommo elogio d 'ingegno divino (illius di- 
vini ingenii) soggiunge dicendo « Ille eadem acie mentis , 
» qua rerum omnium vim naturamque viderat, haec quoque 
» aspcxit , quae ad dicendi artem . . . pertinebant ». (38) 

Che se trattisi (dic’egli) di giovani rozzi e poco o nulla 
esperti nell’arte di favellare e comporre, voglion esser gui- 
dati come per mano da’ maestri comunali ; ma se sieno già 
dirozzati , ed esercitati nello scrivere , e di buona mente, 
conviene guidarli a queste fonti aristoteliche « Ego autem 
» si quem nunc piane rudem institui ad dicendum velim, 
» his (magistris) potius tradam assiduis uno opere candem 
» incudem diem noctcmque tundentibus, qui omnes tenuis- 
» si mas particulas, atque omnia minima mansa, ut nutriccs 
» infanlibus pueris , in os inserant. Sin sit is, qui et do- 
» ctrina mihi liberaliter institutus, et aliquo iam imbutus 
» usu , et satis acri ingenio esse videatur : illue eum ra- 
» piani, ubi non seclusa aliqua aquula teneatur, sed unde 
» universum flumen erumpat ; qui illi sedes , et tanquam 


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» domicilia omnium argumcnlorum commonslret, et ca bre- 
» viler illustret, verbisque definiat ». (39) 

Quindi in questo stesso capitolo dà in compendio l’idea 
di cotesti luoghi, e cosi altrove (orator). Ma nell’opera in- 
titolata topica ad Trebatium svolge e dichiara tutta la dot- 
trina d’ Aristotele su questa materia. 

Dice dunque Cicerone (Topica II.). «Quum pervestigare 
» argumentum aliquod volumus , locos nosse debemus: sic 
» enim appellatae ab Aristotele sunt hac quasi argumcnto- 
» rum sedes, e quibus argumcnta promunlur. Itaque licei 
» definire, locum esse argumenti sedera , argumentum autem , 
» rationem quae rei dubiae faciat /idem » . Ovvero possiam 
definire V argomento (come sopra è detto) una ragione o ve- 
rità certa ed evidente che ne dà a conoscere alcun altra che 
prima era ignota o incerta. 

I luoghi poi dividonsi in due distinti generi, altri sono 
intrinseci , altri estrinseci : gl’intrinseci son quelli che ad- 
ditano gli argomenti inerenti alle stesse cose, e che disco- 
pronsi colla sola ragione ; gli estrinseci , quelli derivati 
dall’autorità altrui. 

ARTICOLO I. 

Dei luoghi rettorici intrinseci. 

Tutta la dottrina dei luoghi intrinseci la svolge Cicerone 
nei primi 18 capitoli riducendoli tutti a 16 luoghi; e in ultimo 
epilogando conclude : « Perfecta est omnis argumentorum 
» inveniendorum praeceplio, ut, quum profecta sit a defi- 
» nitione, a partitone, a notatione, a coniugatis, a genere , 
» a forma, (idest specie) a similitudine, a differenza, a con- 
» trariis, ab adiunctis, a consequentibus, ab antecedentibus, 
» a repugnantibus, a causis ab effectis, a comparatione ma- 
ri iorum, minorum, parium, nulla praeterea sedes argumenti 
» quaerenda sit ». 


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241 

Ora a fine di rendere più facile all’intelligenza dei gio- 
vanetti rettorici tutta questa dottrina dei luoghi , ci stu- 
dieremo di ridurli ad un concetto, e ad una divisione più 
semplice . 

§. I.° Prima specie di luoghi rettorici che servono a dare 
un’idea chiara e adeguata della cosa, onde vuol trarsi ar- 
gomento. 

E in l.° luogo, quando vengaci dato un tema da trat- 
tare, per esempio di favellare o prò o contro di un re, di un 
console, di una persona di qualsivoglia stato e condizione, 
ovvero di altre cose , materiali o immateriali , concrete o 
astratte; la prima e più naturale regola si è, di por mente 
e considerar bene il personaggio medesimo, o la cosa pro- 
postaci, per formarcene un idea giusta e completa; dal che 
nasceranno spontaneamente le conseguenze prò e cantra , 
conforme al nostro intendimento. 

Ora a ciò valgono appunto sette dei predetti luoghi 
annoverati da Cicerone : quelli cioè che diconsi a nota- 
tone nominis, a coniugatis , a definitione, a partii ione, ab 
adiunclis, ab antecedentibus ed a consequentibus. 

In fatti siccome i nomi sono i segni delle idee, perciò 
considerando 1’ etimologia c la propria forza delle parole , 
di leggieri ne conosceremo le sue proprietà : laonde si ha il 
luogo rettorico detto notatio nominis, che Cicerone definisce. 
Ea est notatio , quum ex vi nominis argumentum elicitur. 
Per es. Consul est qui consulit patriae. E però parlando di 
un console inetto o malvagio , può argomentarsi così. Sei 
tu console; dunque non dovevi vivere spensieratamente, 
nè far lega coi nemici della patria ecc. ma tutte le tue 
cure, i detti, i consigli, i fatti dirigere al bene della patria. 
Similmente di un medico che volesse dar giudizio sulle arti 
e scienze aliene dalla sua professione , e molto più di un 
fabbro, che ciò pretendesse di fare, si convincerebbe di er- 
rore coll’argomento a notatione nominis, dicendo con Orazio 
Epistolar. II. cp. 1. 

16 


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242 

Navem agere ignarus navis timct. abrotonum aegro 
Non audct, nisi qui didicit, dare. Quod medicorum est 
Promittunt medici: tractant fabrilia fabri. 

E Terenzio 

Homo sum, humani a me nihil alienum puto (1). 

Ciò basti quanto agli argomenti che traggonsi dalla 
forza dei vocaboli, sia per notationem nomtnis, sia per con- 
iugata; che possono dirsi luoghi derivati da definizione no- 
minale : ora passiamo alla definizione reale , che così vien 
definita da Cicerone. « Definitio est oratio , quae id quod 
» definitur explicat, quid sit ». 

Questo luogo ò di sommo interesse conoscerlo e bene 
adoperarlo; l.° perché come dice Cicerone « Omnis enim , 
» quae a ratione suscipitur de aliqua re institutio, debet 
» a definitione proficisci ut intelligatur , quid sit id , de 
» quo disputatur ». 2.° Perchè conosciuta bene la natura 
e la proprietà della cosa di cui trattiamo, se ne traggano 
le conseguenze atte a dimostrare il tema proposto. 

Dovendo pertanto la definizione spiegaro e dichiarare 
la cosa quale ella è; conviene che la descriva per modo nelle 
sue proprietà essenziali e caratteristiche , da non confon- 
derla con verun’altra. Ora ad ottener ciò, come insegna 1» 
logica, è necessario indicare il genere prossimo cui appar- 
tiene la cosa che vuol definirsi, e la sua specifica differenza. 
Dichiaro ciò con alcun esempio: volendo definir I’moibo, con- 
vien dire: l’uomo è un animale ragionevole. Imperocché la 
parola animale indica il genere più prossimo all’ uomo, e 
la parola ragionevole indica la qualità primaria, che compete 
a tutti gl’individui della specie umana ; e lo distingue da 
qualunque altra specie di animali , che sou tutti privi di 
ragione. 

(1) Il luogo detto a coniugali s non differisce nella sostanza da quello a 
noi aliene nominis , ma solo nel modo di esprimer la forza dei nomi , come 
sapiens, sapienter, sapicnlia. 


243 

Che se in vece del genere prossimo, animale , se ne po- 
nesse uno più rimoto, come dicendo: l’uomo è un essere ra- 
gionevole , questa proposizione , sebbene in sè vera , pur 
non sarebbe retta definizione , perchè competerebbe anche 
agli esseri meramente spirituali dotati anch’essi d’intelligenza 
come son gli angeli. Similmente se in vece della proprietà 
primaria di ragionevole, se ne ponga un altra, dicendo per 
esempio, l’uomo è essere sensitivo ovvero vivente, non sarebbe 
dichiarata e determinata la natura dell’uomo , ma conver- 
rebbe tale definizione anche o agli altri animali , o alle 
piante ec. 

Così la storia definircbbesi, una narrazione successiva 
degli avvenimenti della umana società.' Narrazione è il ge- 
i nere prossimo, che compete tanto alle vere quanto alle mi- 
tologiche ; il rimanente indica la differenza specifica , che 
distingue la storia, la quale comprende tutti i fatti ordina- 
tamente esposti secondo l’ epoche ec. di tutta la società , 
dalie particolari narrazioni, leggende, vite d’uomini illustri. 

La grammatica si definisce, l’arte di favellare corret- 
tamente , cioè senza errori. La rettorica vien definita da 
Quintiliano. Ars bene dicendi. Dalla quale definizione si 
concluderebbe con Cicerone; dunque l’oratore a fine di bene 
e acconciamente favellare, deve apte, distincte, ornate loqui, 
perchè così solamente potrà insegnare, muovere e dilettare, 
ch’è appunto l’uilìcio suo proprio. 

Colla definizione nominale e reale dianzi detta si con- 
sidera una cosa quanto alla sua natura e alle sue proprietà 
principali : può inoltre considerarsi una cosa quanto alle 
parti, che la compongono; o che le appartengono. E a ciò 
serve il luogo detto a par fittone. 

La partizione, secondo la forza della parola, è una db- 
visione di parti , ma la partizione logica (di cui qui trat- 
tiamo) è una proposizione composta o di più soggetti o di più 
predicati. Ora siffatta partizione può farsi in due modi, o 
con una proposizione copulativa , o con una proposizione 


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244 

disgiuntiva. La copulativa è quella che enumera sommando 
insieme le parti componenti un tutto , per es. la vita del- 
l’uomo comprende la puerizia , V adolescenza, la virilità, la 
vecchiezza. Le virtù morali sono prudenza , giustizia, tem- 
peranza e fortezza. 

Fatta la partizione copulativa completa , si argomenta 
così; o affermando la verità delle parti , si afferma la ve- 
rità del tutto , o negando la verità delle singole parti , 
si nega la verità del tutto. Per esempio « Eius pueritia in- 
» nocens fuit, casta adolescentia, virilis aetas constans, se- 
» ncctus liberalis et placida : igitur tota eius vita prae- 
» dare traducta est » (Du Cygne) similmente, dicendo « La 
» scaltrezza non è nè prudenza, nè giustizia, nè temperanza, 
» nè fortezza: dunque non è virtù morale ». 

La partizione poi può farsi iu modo disgiuntivo, cioè 
con una proposizione disgiuntiva , la quale enumerando le 
parti di qualche cosa non le unisce , ma indica che una 
esclude l’altra; come: un nome è o mascolino, o femminile, 
o neutro. Nel caso che si abbia una proposizione disgiun- 
tiva perfetta, cioè che contenga tutte le parti della cosa dì 
cui parlasi, allora da essa può farsi in due modi l’argomen- 
zione: l.° o negando la verità di tutte le parti meno una, 
c però si conclude la verità di questa. 2.° affermando la 
verità di una , se ne conclude la falsità di tutte le altre. 
Per es. Una linea retta può esser o eguale o maggiore , o 
minore di un altra retta. Ma non è nè uguale nè minore: 
dunque è maggiore. Ovvero se dicasi: Ma è maggiore: dunque 
non è nè eguale, nè minore ■ Così Le stagioni dell’anno sono 
o primavera, o estate, o autunno o inverno: ma ora non è 
nè estate, nè autunno , nè inverno: dunque è primavera, ov- 
vero: ma è primavera: dunque non è nè estate, nè autunno, 
nè inverno. 

Quanto poi alla proposizione disgiuntiva è da notare , 
che se oltre avere la completa enumerazione delle parti , 
abbia anche questo di proprio , che ciascuna di esse parti 


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245 

valga per sè a dimostrare una tal verità : allora ha luogo 
un altra specie di argomentazione, che secondo il numero 
delle dette parti si nomina, dilemma, trilemma, quadrilemmai 
sia d’esempio questo dilemma fatto da un demente. Un dotto 
religioso, alienatosi di mente, erasi persuaso d’ esser dive- 
nuto cardinale. Un dì il suo superiore ingegna vasi con molti 
argomenti di trarlo d’ inganno. Al quale il matto cosi ri- 
spose. « Padre, mi credete voi demente o no? Se non mi 
» tenete per demente , il vostro favellare è imprudente e 
» irragionevole , impugnando (con disprezzo della mia di- 
» gnità cardinalizia) quello che conoscete esser vero: se poi 
» mi credete demente, il vostro discorso è similmente im- 
» prudente e stolto, pensandovi di potere col ragionamento 
» convincere un matto ». 

Adunque dalla partizione si possono derivare i tre pre- 
detti modi d’argomentare. 

Oltre poi il considerare una cosa in sè e nelle sue parti, 
può altresì considerarsi nelle sue circostanze o aggiunti. A 
ciò serve il luogo denominato ab adiunctis. Cicerone nella 
Topica così li definisce. « Adiuncta rerum et personarum 
» sunt ea, quae rem circumstanl et comitantur : aut sunt 
» in hominis sive animo, sive corpore » e però questi ag- 
giunti diconsi eziandio circostanze. 

Quintiliano 1. V. c. 10, enumera 21 specie di ag- 
giunti cioè: genus , natio, patria , sexus , aetas , educatio , 
habitus corporis, fortuna , conditio, natura animi, victus, stu- 
dia, affectus, locus, tempus, occasio, casus, facultas, instru- 
mentum, modus, signum. 

Ma tutte queste specie di aggiunti o circostanze, con 
un concetto più semplice, e in modo più facile da ritenersi 
a memoria riduconsi a sette comprese in questo verso: 
Quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quando ? 

Quattro di questi aggiunti indicano quattro distinte 
cause , cioè la causa efficiente (quis) ; la causa finale (cur); 
la causa materiale (quid); la causa istrumentale (quibus au- 


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246 

xiliis) ; gli altri tre indicano le circostanze di tempo , di 
luogo, di modo: quando, ubi, quomodo, che possono dirsi cause 
occasionali. 

Questi aggiunti poi o circostanze possono essere non solo 
presenti che accompagnano il fatto, o la cosa qualunque ; 
ma anche antecedenti, e conseguenti: e si può prender argo- 
mento non solo dal complesso della medesime, ma anche da 
una sola parte. Così Cicerone de Orat. II. 39, « Ex conse- 
>* quentibus (sic argumenta ducuntur). Si et ferro inter- 
» fectus iile, et tu inimicus eius cum gladio cruento com- 
» prehensus es in ilio ipso loco, et nomo praeter te ibi vi- 
» sus est, et causa nomini, et tu sempcr audax, quid est 
» quod de facinore dubitare possimus » ? 

Un insigne esempio d’argomentare dalle circostanze, ab 
antecedentibus, concomi tantibus, et consequentibus, si ha nel- 
l’orazione di Cicerone prò Milone, che recherò qui in com- 
pendio. 

Imprende Cicerone a dimostrare in questa orazione , 
come non fu Milone insidiatore della vita di Clodio; ma sì 
bene Clodio insidiò alla vita di Milone , e questi iniqua- 
mente e violentemente da lui assalito per sua giusta difesa 
l’uccise. Ciò lo deduce dalla considerazione di tutte le cir- 
costanze, che precedono, accompagnano c seguono il fatto. 

I. Circostanze antecedenti al fatto. 

Avendo veduto Clodio , andar fallito ogni suo sforzo 
per impedire il consolato di Milone (il quale era il più 
grande ostacolo a compiere i suoi perversi disegni) disse 
apertamente, che se non poteva togliersi a Milone il conso- 
lato, potea ben togliersi a lui la vita. Frattanto raccolse Clo- 
dio intorno a sè gente a mal fare intesa , fieri e barbari 
schiavi , già suoi ministri nelPinfestare con assassinamenti 
le selve e le vie pubbliche, e nel molestare l’Etraria. 

Inoltre tre giorni prima che accadesse nella via Appia 
la mischia , disse in palese che fra tre di Milone sarebbe 
morto. Quindi il giorno innanzi che Milone partisse da Roma 


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247 

per andare qual dittatore di Lanuvio a celebrarvi il solenne 
sacrificio a Giunone Sospite, Glodio, abbandonati gli affari 
di suo sommo interesse, andò sollecitamente ad Àricia, ove 
avvertito da un suo servo della partenza di Milone da Roma, 
e del prossimo di lui arrivo, tosto lanciossi da Aricia alle 
sue possessioni presso Bovilie. 

II. Circostanze che accompagnano il fatto. 

Giunse Milone presso Bovilie circa all’ora IX, cioè al 
far della notte, in cocchio, avviluppato nel suo tabarro, 
avendo allato la moglie, e seguito da fantesche, da fanciulli, 
da gladiatori, da musici; in somma con quel corredo pom- 
poso, qual si conveniva e alla sua dignità di dittatore , e 
alla solennità della festa a cui era diretto. 

AH’appressarsi di Milone, Glodio esce repentinamente da 
casa; non cocchio, non bagaglio, senza moglie, niuna com- 
pagnia di Greci o d’altra gente da solazzo, come sempre so- 
leva, ma a cavallo, armato, e scortato scelti scherani. 

Quivi, presso quelle smisurate fabbriche di Glodio, ove 
mille bravi uomini agiatamente si allogavano , avvenne la 
mischia; parecchi feriti, alcuni uccisi, e fra questi Glodio. 

III. Avvenimenti posteriori al fatto. 

I satelliti di Glodio furibondi pel tristo avvenimento , 
ne trasportano il cadavere a Roma , e denudate le ferite , 
lo espongono per tre dì al pubblico : incendiano la Curia , 
scorrono a mano armata minacciosi per la città, e assediano 
la casa dell’ Interré M. Lepido gridando contro Milone ven- 
detta. 

Intanto taluni di loro trafugano occultamente dalla casa 
di Clodio il codice delle inique leggi da lui preparate per 
opprimere il comune di Roma. D’ altra parte vanno spar- 
gendo le più nere calunnie contro Milone, come quegli che 
non potendo occultare il suo delitto si fosse fuggito in esilio 
volontario, e che tramasse congiura contro la patria, e a tale 
effetto avesse da prima fatto qua e là in Roma depositi 
di arme. Tornato poi Milone improvvisamente in Roma (di- 


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248 

cevano) essersi recato in senato con arme sotto i panni per 
uccidere a tradimento Pompeo. 

Frattanto Milone, quantunque tutto ciò conoscesse, ri- 
torna in Roma, e con singolare fermezza d’animo si costi- 
tuisce spontaneamente al magistrato , e con fatti manifesti' 
smentisce tutte le oppostegli calunnie. 

Ora le predette circostanze di questo fatto, che se si 
considerino separatamente non formerebbero che mera con- 
gettura, riunite accuratamente, tutte insieme producono un 
pien convincimento morale su l’innocenza di Milone. 

§. II. Dei luoghi rettoria, che danno argomento pel con- 
fronto di due o più cose fra loro. 

Dal confronto di due o più cose fra loro se ne possono 
trarre varie specie d’ argomenti , che diconsi a pari vel a 
simili ; a maiori ad minus ; a minori ad maius ; a con - 
trariis. 

Il criterio por l’ argomento a pari , od a simili , Ci- 
cerone lo stabilisce così (Top. 18) Quod in re pari valet , 
valeat et in hac quae par est ; e ne dà questo esempio, di- 
cendo « Multa autem sunt quae aequalitate ipsa comparen- 
» tur, quae ita fere concluduntur. Si consilio iuvare cives 
» et auxilio aequa in laude ponendum est , pari gloria de- 
» beni esse ii, qui consulunt, et ii, qui defendunt. At quod 
» primum est: quod sequitur igitur ». Può vedersi questo 
argomento applicato nell’ orazione Pro Muraena. Un altro 
bell’ esempio a pari o a simili è nella 8.“ Filippica , cioè^ 
» In corpore, si eiusmodi est, quod reliquo corpori noccat, 
» uri ac secari patimur membrum aliquod potius, quam to- 
» tum corpus intereat: sic in reipublicac corpore, ut totum 
» salvum sit, quidquid est pestiferum amputatur». 

Osserva poi Cicerone (Top. 11.) « Sunt similitudines , 
» quae ex pluribus collatis proveniunt quo volunt ... Haec 
» appellatur inductio ». Per es. Tutti gli uomini, de’ quali 
si ha notizia, da Adamo fino a noi , e similmente tutti gli 
altri esseri di natura , che hanno vita , come le bestie c le 


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249 

piante, sono tutti parimenti morti; dunque tutti gli uomini, 
gli animali, le piante che tuttora vivono e che nasceranno, 
tutti similmente morranno. 

Le favole d’ Esopo non sono altro che un argomentare 
a pari , ovvero ab inductione , la cui morale è appunto la 
conseguenza dedotta dalla somiglianza del modo costante 
di procedere delle varie bestie applicato ai costumi degli 
uomini. \ 

Oltre i predetti modi d’argomentare a pari , ve ne ha 
due altri detti a maiori ad minus, et a minori ad maius. 

Il criterio d’ argomentare a maiori ad minus, lo pone 
Cicerone cosi. (Top. IV.) « Quod in re maiori valet, valeat 
in minori : dicendo per es. Chi ha superato valentemente le 
maggiori difficoltà, di leggieri supererà le minori: come quel 
di Virgilio 

0 passi graviora, dabil Deus his quoque finem. 

Al contrario il criterio d’argomentare a minori ad maius 
si é : Quod in minori valet, valeat et in maiori. Sia d’esem- 
pio quel di Cicerone prò Archia. « Saxa et solitudincs voci 
» respondent, bestiac saepe immancs cantu flectuntur at- 
» que consistunt: nos insliluti rebus optimis non poetarum 
» carminibus moveamur ? » Similmente quel di Terenzio 

Hic parvae consuetudinis 

Causa huius mortem tam fert familiariter ; 

Quid si ipse amasset ? Quid mihi hic faciet patri ? 

Un altro esempio egregio si è quello dell’ Evangelio. Si vos, 
» cura sitis mali, nostis bona data dare iìliis vestris; quanto 
» magis Pater vester coelestis dabil spiritum bonum petcn- 
» tibus se ? » 

Quanto poi all'argomentar a contrario riferirò qui so- 
lamente ciò che ne dice Cicerone Topic. XII. « Contrario- 
» rum aulem genera sunt plura: unum eorum, quae in eo- 
» dem genere plurimum differunt uti sapientia et stultitia. 
» Eodcm autem genere dicuntur, quibus propositis, occur- 
». runt tanquam e regione quaedam contraria, ut celeritati 


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250 

» tarditas, non debilitas. Ex quibus argumenta talìa existunt. 
» Si stultitiam fugimus , sapientiam sequemurj bonitaten si 
» malitiam. Haec quae ex eodem genere contraria sud!, ap- 
» pellanlur adversa. Sunt enim alia contraria, quae priva- 
» tiva licet appellemus latine , graeci appellant aupnirtnoi . 
» Praepositio enim in privat verbum ea vi, quam haberet, 
» si in praeposilum non fuisset: ut dignità», indignila» ; hu- 
» manitas, inhumanitas, et caetera generis eiusdetn. Quorum 
» tractatio est eadem, quae superiorum , quae adversa di- 
» xi . . . Sunt ctiam illa valdc contraria quae appcllantur 
» negantia. Ea anotp xtcxu Graeci contrarie aientibus : ut , 
» si hoc est ; illud non est. Quid enim opus excmplo est ? 
» tantum intelligatur argumento quaerendo, contrariis orani- 
» bus contraria non convenire». 

§. III. Dei luoghi rettorici che offrono argomento consi- 
derando il legame e la dipendenza di due o più cose fra loro, 
cioè : ab effcientibus causi s; ab effectibus, a genere et a forma 
seu specie. 

Un altro fonte copiosissimo d’argomenti si ha dal con- 
siderare il legame o la dipendenza di due o più cose fra 
loro. Ed in prima quanto alla dipendenza di cause ed effetti è 
da notare con Cicerone che si parla qui delle cause effi- 
cienti. Or la causa propriamente detta o sia la causa efficiente 
è ciò ehe per sua propria forza produce qualche cosa: come 
il sole riscalda; il sole è la causa, il calore da esso prodotto 
è l’effetto: l’albero produce frutti; questi sono l’effetto, quella 
la causa. 

Oltre poi V efficiente, sono vi altre cause che concorrono 
alla produzione degli effetti, senza delle quali la causa prin- 
cipale non opererebbe : e queste diconsi causa materiale , 
istrumentale e occasionale. Onde Cicerone Top. XV, dice : 
« Causarum duo genera sunt, unum quod vi sua id , quod 
» sub ea subiectum est, certe efficit; ut ignis aecendit; al- 
» tcrum quod naturam elDciendi non habet , sed sine quo 
» offici non possit ; ut si quis aes causam statuae velit di- 


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251 

» cere , quod sine eo non possit offici. Huius generis cau- 
» sarum , sine quo non cfficitur , alia sunt quieta , nihil 
» agentia, stolida quodammodo, ut locus, tempus, materiao, 
» ferramenta, et cctcra generis ciusdem: alia aulcm prae- 
» cursionem quamdam adhibent ad efficicndum , et quae- 
» dam afforunt per se adiumenla , etsi non necessaria, ut 
» amori congressio causato attulit, amor flagitio ». 

Adunque cognita ben la natura c la forza della causa 
principale o sia della causa efficiente, e le circostanze ma- 
teriali, istrumentali, occasionali, potrà concludersi che pro- 
durrà i tali e tali efTctti. « Cum in Aiacis navim crispi- 
» sulcans igncum fulmen iniectum est , inflammatur navis 
» necessario » (Cic. loc. cit.). Viceversa, conoscendo alcun 
effetto, possiamo argomentare qual ne sia stata la causa. Che 
se un tal effetto non può av^re se non una causa, ne verrà 
immediatamente questa conclusione : cosi per cs. vedendo 
da un tal luogo sorgere del fumo, concludiamo tosto, che 
colà sotto vi è il fuoco. Ma quando alcun effetto può esser 
prodotto da differenti cause; in questo caso se ci verrà fatto 
di conoscere tutte e sole le cause possibili, avremo con ciò 
una proposizione disgiuntiva perfetta, e polrassi argomentare 
come è detto sopra §. I. per esempio : Volendo indagare 
d’ onde sia avvenuta la morte d’ un uomo trovato in terra 
svenato, si dirà: la morte può avvenire o per causa naturale 
o per causa fortuita , o per suicidio , o per uccisione fatta 
da altri. Ma costui non può esser morto nè per causa natu- 
rale, nè per causa fortuita, nè per suicidio (poiché è legato 
le mani c i piedi , è profondamente ferito nella gola e nel 
tergo): dunque è stato morto da altri. 

Volendo poi conoscere chi sia stato precisamente l’uc- 
cisore; converrà inoltre indagare quali sieno le persone che 
potevano esser state del misfatto cagione. Per es. Con costui 
non vi era, che la moglie e i figliuoli, e due servi Tizio e 
Caio: ma non furono al certo autori dell’omicidio nè la mo- 
glie, nè i figliuoli, nè Tizio. Imperocché la moglie ed i fi- 


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252 

gliuoli fanciullini, nè ebbero forza da legare è trafiggere il 
loro robustissimo genitore, e il consorte; nè ebbero l’aninio 
di farlo, essendo stati sempre affezionatissimi a lui che avea 
di loro tutta la cura , ed era 1’ unico loro sostegno : e lui 
morto, essi da uno stato di agiatezza cadevano in estrema 
miseria. Il servo Tizio poi , oltre che eragli stato sempre 
fedelissimo, ed era di ottima condotta morale e religiosa, in 
quel tempo, che accadde il misfatto, dimorava lontano di là. 
Al contrario Caio trovavasi allora nella casa dell’ ucciso , 
quantunque fosse stato già licenziato dal servizio perchè 
crasi conosciuta la scellerata sua vita cc. Dunque egli ne 
fu l’uccisore (1). 

Rimangono i due luoghi detti a genere ed a forma seu 
specie. Si è da noi già dichiarato che intendasi col nome di 
genere e di specie : cioè la specie essere una similitudine 
d’ individui, ovvero un’ idea universale che comprende molti 
individui fra loro simili, come uomo, pecora. Il genere poi 
una similitudine di specie , o sia un’ idea universale , che 
contiene in sè più specie simili ; come animale , che com- 
prende tutte le generazioni d’animali irragionevoli, ed ezian- 
dio l’uomo ragionevole. 

Ora argomentare a genere, ed a specie vuol dire l.° pren- 
dere dal concetto e dalle proprietà del genere e della spe- 
cie la ragione, o l’argomento, che dimostra il nostro tema. 
Per cs.volendosi lodare o biasimare un uomo, conviene por 
mente al genere o alle specie di virtù di cui sia adorno, o 
di vizi di cui sia infetto. Eccone un esempio di Cicerone de 
Orai. I. II. c. 39 « Si omnes qui reipublicae consulunt cari 
» nobis esse debent , certe in primis imperatores , quorum 
» consiliis, virtute, pericnlis retinemus et nostram salulcm 
» et imperii dignitatem. » Donde concludesi che quel per- 
ii) Cicerone Top. XVII, dice « Hic locus suppeditare solcl oratori))»* et 
» poelis, sacpe cliam philosophis, sed iis qui ornate et copiose loqui possunt, mi- 
» rabilem copiam dicendi, quum demmliant quid ex quaque re sit futurum- cau- 
» sarum enim cognitio cognilionera evenlorum tacit. » 


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253 

sonaggio, di cui favellasi, essendo ottimo impcradore debba 
essere a tutti carissimo. Così dal pregio sommo, che in ge- 
nerale hanno tutte le scienze e le belle arti , ed in specie 
la poetica , Cicerone trae un valido argomento in favore 
della causa d’ Ardua poeta. 

Si può in 2.° luogo argomentare all’opposito, cioè dal- 
gl’individui alla specie, dalla specie al genere. II primo modo 
sarebbe l’argomentare per induzione, come sopra è detto. Si 
può inoltre dimostrare come ad un genere convenga un certo 
attributo argomentando dalle specie. Se per modo d’esempio, 
volessi dimostrare, come la virtù non solamente è onesta, 
ma utile anche alla vita presente: si potrebbe ciò dimostrare 
dal solo concetto della virtù in generale; ma torna meglio 
d’esaminare le singole virtù, il loro ufficio, e l’utilità spe- 
ciale che ciascuna apporta, come la prudenza nello scegliere 
e ordinare i mezzi al fine ottimo dell’uomo, la giustizia col 
rendere ad ognuno il suo diritto , la temperanza col mo- 
derare e reggere gli appetiti disordinati, la fortezza col sof- 
frire virilmente le cose avverse e incontrare animoso i giusti 
pericoli: le quali tutte cose giovano sommamente al ben es- 
sere degl’ individui e della intera società umana: dunque la 
virtù in generale è utile. 

Di questo modo d’argomentare dice Cicerone (Top. 10.) 
» Commode etiam tractatur haec argumentatio, quae ex ge- 
» nere sumitur, quum ex toto persequare partes, hoc modo. 
» Si dolus malus est, quum aliud simulatur aliud agitar : 
» enumerare lieet quibus id modis fiat: deinde in eorum ali- 
ti quem id quod arguas dolo malo factum includere quod 
» genus argumenti in primis firmum videri solet. » 

A questo proposito Cicerone (de Orai. II. 31.) riprende 
l’ imperizia, e la stolidezza della comune dei precettori di 
rettorica , che dividono le orazioni in due generi , l’ uno 
determinato a certe persone, e a certi tempi, l’altro indeter- 
minato e generale , come sarebbe il discorso sulla sapienza, 
sulle belle arti, sull’arte della guerra ec. Costoro non con- 


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254 

siderano, che quando si parla prò o conira una certa per- 
sona, tutta la questione riduccsi al genere, o alla specie di 
virtù o vizio; il che avverandosi nella proposta persona, ne 
verrà per conseguenza, la lode, o il biasimo ec. della mede- 
sima. Ecco le parole di Cicerone. « Atquc hic illud viden- 
» dum est, in quo summus est error istorum magistrorum, 
» ad quos liberos nostros mitlimus... ut videatis, quam sit 
» gcnus hoc eorum, qui sibi eruditi videntur, hebes atque 
« impoiitum. Constituunt enim in partiendis orationum mo- 
li dis , duo genera causarum : Unum appellant in quo sine 
» personis, atque temporibus, do universo genere quaera- 
» tur: alterum quod personis certis et temporibus definia- 
» tur: ignari, omnes controversias ad universi generis vim 
» et naturam referri. Nam in ea ipsa causa, de qua ante 
» dixi, nihil perlinet ad oratoris locos Opimii persona, ni- 
» hil Decii. De ipso enim universo genere infinita quaestio 
» est, num poena videatur esse affìciendus , qui civem ex 
» senatusconsulto patriae conservandae causa interemerit , 
» quum id per leges non liceret. Nulla denique est causa, 
» in qua id, quod in iudicium venit, ex reorum personis, 
» non generum ipsorum universa dubitatione quaeratur. 
» Quin cliam in iis ipsis, ubi de facto ambigitur, ceperit- 
» ne contra leges pecunias P. Decius , argumenta et cri- 
» minum et defensionis revocentur oportet ad genus, et ad 
» naturam universam: quod sumptuosus, de luxurie; quod 
» alieni appetens, de avaritia ; quod seditiosus, de turbu- 
» lentis et malis civibus; quod a multis arguatur, de genere 
» testium; contraque, quae prò reo dicentur, omnia neces- 
» sario a tempore atque homine ad communes rerum et 
» generum summas revolventur. » 


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ARTICOLO II. 


255 


Dei luoghi rettorici estrinseci. 

Rimane ora a dir qualche cosa de’ luoghi estrinseci , 
onde traggonsi gli argomenti : di questi dice Cicerone 
(Top. 19). « Haec argumenlatio, quae dicitur artis expers, 
» (are/yo?) , in testimonio posita est. Testimonium autem 
» nunc dicimus ornile , quod ab aliqua re externa sumitur 
» ad faciendam fidem. Persona autem non qualiscunque te- 
li stimonii pondus habet: ad faciendam enim (idem auctoritas 
« quaeritur ». 

L’ autorità poi si distingue in umana e divina. Gli 
stessi gentili aveano in gran pregio l’autorità divina e però 
Cicerone come luoghi da conoscere la testimonianza divina 
pone gli oracoli, gli auspici, i vaticini , le risposte de’ sa- 
cerdoti , degli aruspici ec. Ma per noi cristiani cattolici 
l’autorità divina ha fonti infallibilmente certi, quali sono la 
divina rivelazione contenuta nella S. Scrittura, e nella divina 
tradizione, tramandataci per mezzo de’SS. Padri e dottori, 
e nell’interpretazione e insegnamento infallibile della Chiesa. 

Questi preziosi monumenti sono i luoghi tutti propri 
dei sacri oratori, e scrittori in divinità: e formano il fon- 
damento primario de’ loro ragionamenti; gli altri luoghi o 
d’autorità umana, o di ragione sono di sussidio, e sempre 
subordinati agli oracoli della divina rivelazione. 

Quanto poi all’ autorità umana , se trattasi di cose di 
fatto, questa si ha dai testimoni o da’ monumenti scritti ec. 
Affinchè poi i testimoni sieno autorevoli da meritar fede, ri- 
chiedcsi in essi (come altrove si è detto parlando delle nar- 
razioni) la scienza, o cognizione certa dei fatti che narrano, 
e la probità , o sia veracità nel narrarli , cioè che non vo- 
gliano nè possano ingannarci. Al ehe, oltre il buon discer- 
nimento naturale, i filosofi stabiliscono le regole di critica 
che ce ne assicurano. E similmente avviene nella interpre- 




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256 

tazionc, c ponderazione de’inonumenti, scritti, come, leggi 
civili ec.o altri monumenti dell’ antichità, come mausolei, 
archi, pitture ec. 

Nelle cose poi dottrinali, l’argomento d’autorità si ha 
dall’asserzione dei sapienti, dai sommi dottori in qualsivo- 
glia scienza ed arte. 

Finalmente un altro fonte d’ autorità umana di mollo 
peso si è il consenso universale e costante di tutto il ge- 
nere umano. Alcune massime primarie di morale , di reli- 
gione ec. le vediamo conosciute e ritenute costantemente da 
tutti, tanto dalle nazioni colte, quanto dalle incolte c bar- 
bare. A conoscere c ritener fermissime queste verità di 
sommo interesse , sono guidati gli uomini da un tal lume 
e senso naturale comune a tutti, detto da Cicerone naturae 
tudicium. E però diceva rettamente Seneca « Apud nos ve- 
« ritatis argumentum est aliquid omnibus videri ». 

Di questa autorità del genere umano, o a dir meglio, 
di questa voce, e istinto di natura, servesi spesso Cicerone 
nelle sue opere filosofiche, e nelle orazioni in conferma del 
suo argomento, come a modo d’esempio, ove dice : « Quae 
» enim natio non comitatem, non benignitalcm , non gra- 
» tum anirnum et bcneficii memorem diligi! ? Quae super- 
» bos, quae ingratos non aspernatur, non odit? » (De legibus) 
Similmente Plutarco reca l’argomento del comun senso sulla 
cognizione e adorazione di Dio , dicendo <c Si terras obeas 
» invenire possis urbes muris , literis , regibus , domibus , 
» opibus, numismate carentes . . . Urbem vero templis di- 
» isque destitutam , quae precibus , iureiurando , oraculo 
» non utatur, non bonorum causa sacrificet, non mala sacris 
» avertere nitatur , nemo unquam vidit ». 

E Cicerone nella Miloniana, oltre le prove di ragione e 
delle leggi positive, a dimostrar lecita la difesa della propria 
vita, se sia necessario, eziandio coll’uccisione dell’ingiusto c 
violento assalitore, aggiunge anche in conferma il comun senso 
degli uomini, anzi l’istinto stesso di conservazione, ch’è nelle 


_Di2^ ova I”, G l >0^1 c 


257 

bestie, dicendo « Est enim hacc non scripta sed nata lex . . . 
» Hoc et ratio doctis, et necessitas barbaris , et mos gen- 
« tibus, et fcris natura ipsa praescripsit , ut omnem sem- 
» per vim , quacunque opc possent, a corporc a capite, a 
» vita sua propulsarent ». 

PARTE SECONDA 


TOPICA RETTORICA RISPETTO ALLE PASSIONI 
E Al COSTUMI DEGLI UOMINI. 

Cicerone dopo aver discorso delle cose atte ad istruire 
e convincere l’altrui intelletto, cosi prosegue « Duo restant, 
» quac bene tractata ab oratore admirabilem cloquentiam 
» faciunt: quorum alterum est, quod Graeci ySixov vocant 
» ad naturam et ad mores et ad omnem vitae consuetudinem 
» accommodatum; alterum quod iidem rcaSnjTfxcv nominant, 
» quo perturbantur animi et concitantur, in quo uno regnai 
» oratio ». Orator XXXVIII. 

Noi qui principalmente parleremo delle passioni come 
quelle che influiscono nei vari costumi degli uomini. Ora 
questa breve trattazione delle passioni del cuore umano la 
dividiamo in quattro capitoli, cioè: l.° Della natura e delle 
varie specie delle passioni: 2.° Dei diversi effetti, che pro- 
duconsi nel corpo umano dalle varie passioni: 3.° Dell’in- 
dole e del carattere vario delle passioni secondo il diverso 
temperamento degli uomini , l’età , lo stato ed educazione 
loro: 4.° Del modo pratico di trattare le passioni. 

CAPITOLO I. 

DELLA NATURA E DELLE PRINCIPALI SPECIE DELLE PASSIONI. 

L’uomo naturalmente tende alla felicità , cioè ad uno 
stato privo, per quanto si può, di dolori ed affezioni spiacc- 

17 


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258 

voli, c insieme tranquillo o gioioso; ad uno stato in somma di 
acquiescenza e di piacere. E però la volontà umana segue 
costantemente il bene, c fugge il male. Bene poi si dice qua- 
lunque cosa a noi conveniente, capace di arrecarci piacere; 
ogni cosa a noi ripugnante, atta perciò a produrci sensazioni 
ingrate, diccsi male. « Omne conveniens, in quantum huius- 
» modi, habet rationem boni: omne repugnans, inquantum 
» huiusmodi, habet rationem mali ». (S. Tommaso). 

Ora le varie modificazioni o affezioni dell’ animo nato 
in noi dall’apprensione dei vari beni o mali diconsi in ita- 
liano passioni, in latino animi motus, in greco 7iC(Sr}. 

Innumcrabili sono le specie diverse delle passioni del 
cuore umano: ma le primarie, secondo l’ insegnamento del 
dottore angelico, sono undici, qui appresso notate. 

Amore e il suo contrario Odio 

Desiderio Fuga 

Speranza Disperazione 

Timore Audacia 

Gaudio Tristezza 

Ira 

Amore è 1’ appetizione del bene ; odio è I’ avversione 
del male: o come più distintamente lo definisce s. Tommaso. 
» Amor est consonantia quaedam appetitus ad id quod ap- 
» prehenditur ut conveniens ; odium vero est dissonanza 
» quaedam appetitus ad id quod apprebenditur ut repugnans 
» et nocivum ». 

La mancanza o privazione d’un oggetto amato produce 
il desiderio, il quale si definisce così: Il desiderio è l’appe- 
tito d’ un bene assente , che apprendesi come atto a togliere 
il disgusto della sua privazione e ad appagarci. E più breve- 
mente: l’appetito d’un bene appreso come atto ad appagarci. 
Così un famelico appetisce, o sia desidera il cibo, che può 
togliergli il tormento della fame e ristorarlo. 

La fuga al contrario si é l’ appetito di allontanare da 
noi un male imminente, o tuttora affliggente. 


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259 

La speranza presuppone il desiderio di un bene assente, 
possibile ad ottenersi, ma insieme arduo. Imperocché, come 
nota bene il Segneri (Manna Ott. XIX), è indubitato, che 
la speranza sempre di sua natura tende a cose ardue, ec- 
celse, eminenti: giacché le cose agevoli non si sperano: quod 
videt quis , quid sperat ? (Rom. Vili.) Si tengono quasi in 
conto di possedute. E però si definisce la speranza , quel- 
l’affetto dell’animo , che nasce dall’ opinamento di poter proba- 
bilmente superare i gravi ostacoli che oppongonsi al conse- 
guimento del bene da noi desiderato. O con san Tommaso. 
» Spes est motus appetitivae virtutis consequens apprchcn- 
» sionem boni futuri, ardui, possibilis adipisci ». 

Che se stimasi impossibile la rimozione degli ostacoli 
che oppongonsi al conseguimento dciroggelto desiderato, si 
ha la disperazione, che è quella desolante passione prodotta 
dallo stimare impossibile il conseguimento del bene desiderato, 
o la rimozione del male abborrito. Che se la disperazione 
fosse totale si definirebbe con gli stoici. Desperatio est aegri- 
tudo sine ulla rerum expectatione meliorum. Come è di colui 

Che’n tutt’i suoi pensier piange e s’attrista. 

(Dante Inf. I. 5.) 

Il timore poi è quella penosa agitazione dell’animo, nata 
dall’ apprensione d’un grave male imminente, difficile ad evi- 
tarsi. Onde l’uomo non sa a qual partito appigliarsi. Dicesi 
grave e imminente, perché il male leggero si disprezza; o 
se grave ma remoto, non si cura. « Quae valde longe sunt, 
» non timentur. Sciunt enim omnes quod moricntur, sed quia 
» non prope est, nihil curant ». (Arist. Rhet. II. 5) Diccsi poi 
difficile, non impossibile ad evitarsi; altrimenti, non si avrebbe 
il timore, ma o la tristezza o la disperazione. Ma ciò av- 
viene ai pusillanimi, e a chi non pone la mente e il cuore 
nei veri e solidi beni : all’ uomo savio non già , che colla 
pazienza sa mitigare i mali inevitabili , e confortarsi con 
quei beni, i quali a lui, suo malgrado, niuno può togliere 
od impedire. Onde potè dir Orazio (Ode XXIV 1. I.) 


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Durimi seti levitts fit palientia , 

Quidquid corrigere est nefas. 

E dell’uomo giusto e fermo nel suo retto proponimento, disse 
il medesimo: Si fractus illabatur or bis, impavidum ferient rui- 
nae. Perchè tutto il vero tesoro delle virtù egli ha seco. Può 
anche più brevemente definirsi il timore, dicendo: Timor est 
mentis trepidatio causd instantis periculi. 

All’opposto l’audacia o sia il coraggio è la fermezza e 
imperturbabilità d’ animo nei gravi e presenti pericoli per 
la fiducia di superarli. 

Gaudio poi è il piacere dell’animo pel conseguimento 
e possesso del bene. Tristezza al contrario è il dolore del- 
l’animo pel male incontrato e presente. 

Finalmente l’i'ra cosi vien definita da s. Tommaso «Ira 
» est appetitus vindictae poenaeque iniligcndac ob nocumen- 
» tum sibi illatuin ». E però l’ ira presuppone la volontà 
maligna nell’offensore di recare ingiuria, per cui tosto ec- 
citasi nell’animo della persona offesa un vivo dispiacere, si per 
il danno ricevuto, come pel disprezzo, che mostra di lei l’of- 
fensore; ed insieme muovesi l’appetito di riparazione del dan- 
no c di punizione del reo. Convenevolmente così osserva il 
Segneri (Manna Nov. Vili. 4.) « Chi son coloro contro di cui 
» tu sei solito di adirarti più fortemente? Sono forse tutti quei 
» che li offendono gravemente ? No: perchè se tu conosci 
» che chi ti offende ha ragion d’offenderti, come fa il prin- 
» cipe , il padrone, il ministro , allora che ti punisce per 
» alcun fallo da te commesso, tu ti raccomandi sì bene, ti 
» affliggi , ti attristi ; ma non ti adiri. Allora ti adiri , 
» quando tu apprendi di essere disprczzato. E cosi se uno 
» ti offende per ignoranza o per inconsiderazione , tu non 
» ti adiri, o almen ti adiri pochissimo, cioè quanto credi 
» che altri mancasse al suo debito di por mente a ciò che 
» faceva. Più ti adiri con chi ti offende trasportato da un 
» impeto di furore; ma neppure in tal caso ti adiri in sommo. 
» Allora in sommo ti adiri, quando chi ti offende, ti offende 


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I 


261 

x industriosamente, e lo professa e lo pubblica e se ne glo- 
» ria; perchè questi mostra anche in sommo di deprezzarti.» 

Queste sono le primarie passioni dell’uomo, dalle quali 
nascono altre innumerabili: e queste stesse undici primarie 
variano d’ indole e di nome secondo la diversità dell’oggetto 
cui tendono, secondo il vario grado di forza, e secondo i 
diversi effetti che produconsi nel corpo. Per esempio la spe- 
ranza per la certezza d’ottenere l’intento diviene fiducia ; 
il timore può esser semplice trepidazione , o turbamento., o 
paura , o terrore , o spavento. Similmente il gaudio può esser 
letizia , allegrezza , giubilo, esultazione : al contrario la tri- 
stezza può esser lutto, merore, affanno, dolore, mestizia, mo- 
lestia, afflizione (1). 

Ohi vuol parlare in modo da rappresentare i veri co- 
stumi degli uomini , c muoverne vivamente gli affetti , si 
studi di adoperar i vocaboli esprimenti le passioni nel loro 
proprio e unico significato secondo che meglio convenga al- 
l’argomento proposto. 

Tutte poi quante mai esse sono le passioni umane, na- 
scono da un solo principio , cioè dall’amore ; anzi sono lo 
stesso amore variamente modificato. Così a modo d’esempio 
dice s. Agostino (XIV. De civ. Dei). « Amor inhians ha- 
» bere quod amatur, cupiditas (scu vehemens desiderium) 
» est; id autem habens, eoque fruens, laetitia ; et fugiens 
» quod ei adversatur , timor est: idque si acciderit , sen- 
» tiens , tristitia est » ; e cosi delle altre : onde conclude ; 
» Omnes aliae affectiones animae ex amore causantur ». 
Quindi argomenta Dante (nel Purg. XVII. 91. ecc.) come 
l’amore è cagione d’ogni virtù e d’ogni vizio, dicendo. 

Nè Creator nè creatura mai, 

Cominciò ei, figliuol, fu senza amore 
0 naturale o d’animo ; (2) e tu ’l sai : 


(1) Vitlesis s. Thom. I 2. q. 22. cl Tullium 1. 4. Disp Tusc. ce. 6. 7. 8. 9. 
{2) Cioè o istintivo o deliberalo. 


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262 


Lo naturai fu sempre senza errore, 

Ma l'altro puote errar per malo obbietta, 

O per troppo o per poco (li vigore. 

Mentre ch’egli è ne’ primi ben diretto 
E ne’ secondi (1) sè stesso misura , 

Esser non può cagion di mal diletto. 

Ma quando al mal si torce , o con più cura , 

0 con men che non dee, corre nel bene, 

Cantra ’l fattore adovra sua fattura. 

Quinci comprender puoi ch’esser conviene 
Amor sementa in voi d’ ogni virtute , 

E d’ogni operazion che merla pene. 

CAPITOLO II. 

DEI DIVERSI EFFETTI CHE PRODUCON3I NEL CORPO UMANO 
DALLE DIVERSE PASSIONI. 

G un fallo a lutti mauifesto, come le diverse passioni 
dell’animo producono nella fisonomia , nel colore del volto, 
nella voce e nei moti spontanei di tutto il corpo tali e sì 
distinti ed espressivi mutamenti, che danno a conoscere chia- 
ramente lo stato interno di chi le soffre. « Licci ora ipsa 
» cernere iratorum, aut eorum qui aut libidine aliqua, aut 
» metu commoti sunt ; aut voluplatc nimia gestiunt: quo- 
» rum omnium vultus, voccs, motus, stalusquc mutantur. » 
(Cic. I. Off. 29.) 

Quindi ciascuna passione dell' animo ha dalla natura 
stessa il suo proprio carattere che la distingue dalle altre. 
Così ognuno ravvisa subito l’uomo adirato per li segni evi- 
dentissimi, propri di questa passione, che sono quali li de- 
scrive s. Gregorio (Moral. III. 30. scn. 31.) « Irac suae 
» stimulis acccnsum cor palpitai, corpus tremit, lingua se 


(I) Dio e la virili sono i primi beni, i tieni interiori sono i secondi. 


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263 

» praepedit, facies igncscit, exasperantur oculi, et nequa- 
» quain recognoscunlur noli: ore quidera clantorem format, 
» sed scnsus quid loqualur ignorai ». 

L’uomo lieto colla sua fronte serena, cogli occhi bril- 
lanti , col colore vivace, col volto ridente, colla esultanza 
di tutta la persona manifesta il gaudio e la letizia del suo 
animo e trasfondela in altrui. 

Siccome poi, come nota san Tommaso « Tristitia cum 
» ex malo praesenti contingat, maxime animum aggravat, 
» et quandoque animi et corporis motum impedii » ; per- 
ciò al volto squallido c smorto , agli occhi Ossi al suolo , 
ai profondi sospiri, alia taciturnità e immobilita della per- 
sona scorgesi e fa ribrezzo 1’ uomo dominato da cosi fu- 
nesta passione. 

Il timore stringe e quasi agghiaccia il cuore, e però, 
come osserva Cicerone (Tusc. IV) : timorem sequitur tremor, 
pallor , denti um strepitus , trema la voce, infievolisce il vigor 
delle braccia, delle gambe ecc. Il contrario è della speranza 
e dell’audacia. 

La verecondia si dà a conoscere al rossor delle gote, 
al modesto avvallar degli occhi ecc. 

Questi e simigliami effetti e segni delle diverse pas- 
sioni sono così naturali e caratteristici, che spesso, in vece 
di nominare col suo vocabolo proprio questa o quella pas- 
sione , siamo soliti significarla con alcuno dei suoi più 
espressivi effetti, dicendo per esempio rossore per vergogna, 
livore per invidia, trepidazione, paura, terrore ec. per espri- 
mere i vari gradi di timore: similmente ad esprimere altri 
affetti diciamo metaforicamente: precipitanza, lentezza, tar- 
dità, freddezza, fervore, escandescenza, furore ec. 

Tra tutti poi i segni naturali delle passioni, quello, 
che sopra gli altri domina , c vale ad esprimere nel modo 
più vivo e distinto le diverse affezioni dell’animo, si è lo 
sguardo degli occhi. Cicerone (nel lib. III. de Orat. 59.) dopo 
aver minutamente considerato i varii mutamenti cagionati 


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264 

dalle diverse passioni nella voce e nei moti del corpo, sog- 
giunge. « Sed in ore sunt omnia. In co autem ipso domi- 
» natus est omnis oculorum . . . Ànimi est enim omnis 
» actio, et imago animi vultus est, indices oculi. Nani hacc 
» est una pars corporis, quac, quot animi motus sunt, tot 
» significaliones et mutationes possit cfiìcere . . . Quare ocu- 
» lorum est magna moderatio . . . Oculi sunt, quorum tum 
» intentionc, tum remissione, tum coniectu, tum hilaritatc 
» motus animorum signifìccmus apte cum genere ipso ora- 
» tionis. Est enim actio quasi sermo corporis , quo magis 
» menti congruens esse debet. Oculos autem natura nobis, 
» ut equo et leoni setas, caudam, aures, ad motus animo- 
» rum declarandos dedit. Quare in hac nostra actione se- 
» cundum vocem vultus valet. Is autem oculis gubernatur. 
» Alque in iis omnibus quae sunt actionis, inest quaedam 
» vis a natura data. Quare hac etiam imperiti, hac vulgus, 
» hac denique barbari maxime commoventur. Vcrba enim 
» neminem movent, nisi eum qui eiusdem linguae socictate 
» coniunctus est, sententiaeque saepe acutac non aculorum 
» hominum scnsus praetervolant : actio, quae prae se ma- 
li tum animi fert, omnes movet: iisdem enim omnium animi 
» motibus concitantur, ut eos eisdem notis et in aliis agno- 
li senni et in scipsis indicant ». 


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CAPITOLO III 


265 


DELLA VARIA INDOLE E DEL VARIO CARATTERE DELLE PASSIONI 
SECONDO LA DIVERSA NATURA E LE DIVERSE ABITUDINI 
DEGLI UOMINI. 

ARTICOLO I. 

i 

Indole e carattere delle passioni secondo il diverso 
temperamento degli uomini. 

La varia combinazione e unione dei solidi c dei liquidi 
costituenti il corpo umano, diccsi temperamento. Ora sebbene 
la medesima specie di elementi concorrano a comporre il 
corpo di ciascun uomo , il sangue cioè , la bile , 1’ umore 
acquoso, il sistema dei nervi in un colle ossa ec.; pure nella 
massima parte degli uomini scorgesi una assai notabile pre- 
valenza di alcuno dei predetti elementi. Quindi avviene che 
in diverse classi distinguonsi i temperamenti degli uomini. 

Le primarie specie di temperamenti dai moderni fisio- 
logi si riducono a quattro; cioè l.° temperamento sangui- 
gno ; 2.” bilioso; 3.° nervoso ; 4.° pituitoso o flemmatico ; 
secondo che prevale la quantità e attività o del sangue, o 
della bile, o dell’umore acquoso, o la sensibilità maggiore 
dei nervi. 

Aggiungonsi poi due altri temperamenti, 1’ atrabiliare, 
e l ’ ipocondriaco : quello nasce dal bilioso per un’alterazione 
morbosa nella bile; l’ ipocondriaco nasce dal nervoso, simil- 
mente per un’alterazione morbosa nel sistema dei nervi. 

Ora è certo che questi diversi temperamenti producono 
negl’ individui un diverso modo di sentire, e quindi gli og- 
getti stessi prendono una tinta , e quasi direi una forma 
propria; e conseguentemente risvcgliansi diversi appetiti, che 
danno allo spirito una certa pendenza, una determinata in- 
clinazione, per cui si trova ciascuno inchinato ad agire in 


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266 

un modo piuttosto che in un altro. Da ciò avviene che i di- 
versi affetti di amore, odio, speranza, timore ec. prendono 
diverse modalità nei temperamenti diversi. Alcuni si svilup- 
pano e germogliano a preferenza in quel soggetto o in qucl- 
I’ altro per le disposizioni dell’organismo, come in terreno 
proprio; e sebbene ritengano la loro natura, tuttavia cam- 
biano di forma c si presentano sotto aspetto diverso. Cosi 
in fine il temperamento colla sua perenne influenza impri- 
me nello spirito il carattere morale. 

Darò qui un saggio delle variazioni che i medesimi af- 
fetti ricevono nei diversi temperamenti , recando in lutto 
questo articolo le profonde considerazioni su di ciò dell’in- 
signe dottore di medicina, e filosofo prestantissimo Onofrio 
Concioli , ricavate dai suoi preziosi manoscritti. Nei tem- 
peramenti sanguigni (dic’egli), c nei nervosi alligna l’amore 
filantropico ; sentono essi il bisogno di avvicinarsi ai loro 
simili: ma questo bisogno nei primi è delicato, nobile, ten- 
dente al romanzesco; nei secondi vagabondo, instabile, ubbi- 
disce all’allettamento momentaneo: è vivo, penetrante, ma 
altrettanto passeggierò. Nei collerici questa dolce emozione 
ò troppo violenta: indelebile e afflittiva nei malinconici; nei 
flemmatici si regge per forza di riflessione, e fa nel cuore 
quella impressione che fa il solco nell'acqua. L’amore è sel- 
vaggio e brutale negli atrahiliari. 

L’ odio getta delle vampe nel cuor del collerico e vi 
desta un grande incendio, che tosto si estingue. Non trova 
stabile alloggio nel sanguigno; perchè l’odio vuol quella 
perseveranza, che riesce insopportabile alle persone di sif- 
fatta natura. La stessa passione trova cattiva accoglienza 
nel flemmatico, che tutto sente debolmente; e per qualunque 
motivo del mondo non riceverebbe in sè un’ ospite capace 
di turbare il tranquillo riposo delle sue notti. L’odio passa 
rapidamente sopra un animo modellato alla sensibilità e alla 
mestizia ; perchè trova il primo troppo occupato daU’amorc: 
e il secondo dalla minuta osservanza dc’suoi doveri. Trova 


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267 

finalmente questa passione l'infausto suo nido nel seno del- 
l’atrabiliare, si mescola quivi al suo umore omogeneo, pe- 
netra come un tarlo nel cuore degli uomini di siffatta tem- 
pra ; e come il fuoco greco si appicca alle sue membra e vi 
trova tutta l’esca capace ad alimentarlo. 

Il timore è straniero ai collerici; connaturale ed esa- 
gerato nei malinconici. Le persone sensibili temono più l’al- 
trui che il proprio danno. Nei pituitosi degenera in viltà; 
nei sanguigni 6 una cautela prudente e come 1' egida del- 
l’egoismo : tiene in ceppi l’atrabiliare, perchè non trascenda 
ai delitti; è come la catena al piè d’un reo: ma esso non 
diviene migliore pe’lacci che lo avvincono, inferocisce, ri- 
corre all’ inganno , e morde con rabbia la catena , che lo 
trattiene dal mordere altrui. 

Sarebbe troppo lungo affare quello di tener dietro a 
tutte le complicazioni degli affetti umani . . . Ripeteremo 
ciò che non sarà detto e ripetuto mai quanto basta, che l’or- 
ganizzazione interna, il temperamento modifica l’animo, ma 
non lo costringe ad agire; invita, ma non forza l’anima a 
certe operazioni. 

Descrive poi distintamente il medesimo dottore gli uomini 
di vario temperamento, facendo di ciascuno come un vivo 
ritratto, dicendo: 

Sanguigno. Dallo stesso fonte di energia vitale, da cui 
procede l’agilità de’ movimenti nell’ uomo sanguigno, ed il 
senso della sua perfetta salute , nasce in lui l’ incostanza. 
Alle impressioni vivaci e rapide succedono vivaci o rapidi i 
sentimenti, e da questa successione passeggera e sempre varia 
di sentimenti e d’ idee ne risulta un essere, che tutto ab- 
braccia, tutto sente con forza, ma con forza poco durevole. 

Bilioso. Il bilioso investilo nelle viscere da un umore 
acre c piccante si trova in uno stato di continua irritazione. 
Egli è forse il più robusto degli uomini ; e il sentimento 
che lo molesta non essendo d’altronde afflittivo e deprimente, 
lo rende proclive allo sdegno. Ogni leggiero insulto lo scuote 


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e lo fa riagire con violenza. Questo trasporto si unisce a 
tutti gli altri suoi affetti , clic risentono dell’ impetuoso e 
del violento. 

Il sentimento della propria forza genera il coraggio in 
un’ anima sdegnosa , e l’ ira e il coraggio allontanano dal 
cuore la viltà, ed ispirano quel nobile orgoglio, che rende 
1’ uomo bilioso amico incomodo , ma vero e leale amico ; 
amante fervido, ma insofferente del servaggio galante. Non 
vi lusingate d’imporre ad un uomo siffatto; egli sarà sempre 
preso dal lato della compassione, nè giammai da quello del 
timore, e dell’imponenza. 

La dissimulazione e il tradimento sono incomportabili 
colla natura dell’uomo bilioso. Un indole così pronta a ria- 
gire non si compone colla prudenza, non è mai comportabile 
colla dissimulazione. Il bilioso si trova male colla moltitu- 
dine degli altri uomini, che vogliono essere blanditi e in- 
gannati, e si appagano della corteccia delle persone. 

Egli fa guerra aperta , nè attacca per vie oblique il 
nemico. Per la sua stessa inclinazione trascende al fanati- 
smo , si ostina nell’ opinione , c si rinforza nel contrasto. 
Chiamato a parteggiare si fa capo di schiera, e presenta il 
petto a tutte le avversità. 

Se la moltitudine degli uomini potesse mai conoscere 
il proprio utile, se amasse meno le blandizie, e più la vi- 
cinanza dell’uomo sincero e cordiale, terrebbe in gran prezzo 
questi caratteri , e ne soffrirebbe gl’incomodi per lucrarne 
le buone qualità. 

Atrabiliare. Dal bilioso all’atrabiliare v’ è un sol grado 
di differenza fisica (corrono pochi gradi di differenza chi- 
mica) , ma vi corre una totale opposizione nell’indole mo- 
rale. L’atrabiliare è un infermo che unisce il rancore alla 
debolezza. Il tetro umore che circola nelle sue vene gli di- 
pinge a nero tutti gli oggetti e glie li rende odiosi. 

Perciò esso abborrisce il consorzio de’suoi simili, è mi- 
santropo di genio. Sente tutta l’amarezza delle offese , le 


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ingrandisce con sua gigantesca immaginazione. La codardia 
lo trattiene da un’aperta vendetta; medita vendette crudeli, 
e le confida al tradimento. 

Questo tristo carattere ha bisogno di sensazioni piace- 
voli, e siccome non le trova nella società e nelle dolcezze 
dell’amicizia, si abbandona sfrenatamente e quasi direi con 
rabbia ai piaceri voluttuosi del senso. 

Nervoso. Quale infausto retaggio è mai quello d’ una 
squisita sensibilità ! Colui che ha dalla natura sortita una 
siffatta disposizione, è il bersaglio degli oggetti che lo cir- 
condano: ogni sensazione è per lui esagerata c capace di 
porre a tumulto le sue gracili fibre. Egli non è fatto che 
per gli affetti teneri, e per le delicate emozioni dell’animo. 
Egli nasce filantropo ; ama passionatamele , ed in modo 
che la sua esistenza sembra dipendere dagli oggetti del suo 
amore; eccessivo nei suoi affetti si crede di non esser cor- 
risposto, perchè non vede negli altri i suoi eccessi. Trova 
da per tutto degli ingrati o li sogna. Ha bisogno di span- 
dere il suo cuore , e profonde la sua confidenza. E buon 
amico , ma debole e inclina alta volubilità. La delicatezza 
de’ suoi sensi lo rende capace di un gusto raffinato , e gli 
fa provare dei piaceri incogniti agli altri uomini. 

Ipocondriaco. Questa medesima eccedente sensibilità li- 
mitata ai nervi addominali, che fanno capo al cerebro ad- 
dominale di Reid , rende l’uomo ipocondriaco. Questi è il 
figlio del pianto e della tristezza: tutto è per lui motivo di 
afflizione, perchè tutto vede (come dice le Clerk) attraverso 
al prisma lugubre della malinconia. Una immaginazione viva 
e tenace forma la caratteristica di questo temperamento. 

Quindi l’ ipocondriaco si aggira islancabilmente sopra 
gli oggetti da cui fu impressionato; è tenace nelle abitudini 
contratte; profondo negli studi; instancabile nelle sue occu- 
pazioni; il suo attaccamento per gli amici è perpetuo; sente 
la forza dei suoi doveri ; e perciò è ordinariamente mollo 
onesto e religioso : e siccome si trova sempre infelice in 


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questa vita, cerca più facilmente sollievo nella speranza di 
un beato avvenire. 

Pituitoso. Nel pituitoso tutte le impressioni sono lan- 
guide : e nelle persone di tale natura I’ anima non soffre 
giammai scosse violenti. L’immaginazione sempre fredda non 
prende grande interesse a cosa alcuna. Ecco il naturai tem- 
peramento degli apatisti, che tali sieno veramente nel fondo 
del cuore. La continenza, non è unn virtù penosa per gli 
uomini di questa tempra. Sono molto indifTcrcnti alle vi- 
cende del mondo; e Io stato di apatia forma la loro felicità. 
Noa sentono il peso della schiavitù , sono peraltro dolci , 
compassionevoli e incapaci di nuocere altrui. Questo ca- 
rattere è un dono prezioso della natura. I flemmatici sono 
i beati cittadini del mondo ». 

ARTICOLO II. 

Indole e carattere delle passioni secondo 
le diverse età dell’uomo. 

Non saprei meglio rappresentare l’indole c il carattere 
delle passioni nelle diverse età dell’uomo di quello che fece 
Orazio nell’epistola ai Pisoni, ove ne diù il giusto concetto 
dipinto coi più vivi colori della poesia. 

Dice egli al poeta (c lo stesso vale per qualunque scrit- 
tore di prosa) , che se brama che le sue opere sieno gra- 
dite al pubblico c acquistino sommo pregio , deve avere 
non solo una generale cognizione dei costumi c passioni 
degli uomini, ma eziandio por mente e notare accurata- 
mente le propensioni, e costumi particolari nelle diverse età 
dell’uomo: dicendo dal v. 156 ec. cosi: 

Aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores , 

Mobilibusque decor naturis dandus et annis. 

Reddere qui voces iam scit puer et pede certo 
Signat humum, gestii paribus colludere, et iram 


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Colligit ac ponti temere et mutatur in horas. 

Imberbis inventi, tandem custode remoto, 

Gaudet equis canibusque et aprici gramine campi; 
Cereus in vitium flecti: monitoribus asper , 

Utili um tardus provisor, prodigus aeris, 

Sublimti cupidusque et amata relinquere pernix. 
Conversis studiis, aetas animusque virilis 
Quaerit opes et amicitias, inservit honori ; 

Commisisse cavet quod mox mutare laboret. 

Multa senem circumveniunt incommoda, vel quod 
Quaerit et inventti miser abstinet ac timet uti : 

Vel quod res omnes timide gelideque ministrai, 

Dilatar, spe longus, iners avidusque futuri; 

Diffiditi, querulus, laudator temporis acti 
Se puero, censor castigatorque minorum. 

Multa ferunt anni venientes commoda secum, 

Multa recedcntes adimunt. Ne forte seniles 
Mandentur iuveni partes, pueroque viriles, 

Scmper in adiunctti aevoque morabimur aptis. 

Annotazioni. 

Le qualtro epoche della vita umana poste da Orazio 
possono secondo Aristotele ridursi a tre a simiglianza delle 
piante: cioè l.° età di sviluppo (puerizia e gioventù) : 2.° 
età matura, o stato perfetto (virilità), che quanto al corpo 
la circoscrive Aristotele fra i 30 c 35 anni; quanto alle fa- 
coltà dell’anima 1’estendo ai 49 anni: 3.° età di decadenza 
(vecchiezza). 

Ora fra la prima e la terza delle predette epoche si 
scorge una completa antitesi. 

Gioventù Vecchiezza 

1. ° Vigore e feracità di l.° Debolezza nelle forze 

natura. del corpo e sfruttamento. 

2. ° Più che della memo- 2.° Vive quasi tutto nella 
ria del passato vive di spe- memoria del passato, che ri- 
ranze future, immaginandosi cordasi fausta e gioconda, o 


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poco o nulla apprezza il fu- 
turo che per la esperienza 
augura sempre peggiore. 

3. ° Quindi rimesso nei 
desideri, diffidente, economo, 
cauto, querulo, censore di tut- 
te le novità, severo osserva- 
tore del 'detto di Chilonc: ne 
quid nimis. 

4. ° Tenacissimo delle a- 
bitudini sue, censore continuo 
della gioventù nemica del 
giogo; ma insieme studiosis- 
simo di giovarle, parendogli 
di ringiovanire e rivivere ne’ 
suoi allievi, e nelle opere utili 
alla loro istruzione. 

L’età virile, come nota il medesimo Aristotele, contiene 
in sé il buono della gioventù e della vecchiezza, evitandone 
i difetti. Così egli: (Rhet. II. 14) « Ut universaliter dicam, 
» quaecumque iuventus atquc senectus seorsum ex utilibus 
» habent , haec et viri habent; in quibuscunque vero illi 
» cxccdunt, aut deficiunt, haec in viris commode ac me- 
» diocriter sunt >». 

Non però questo elogio conviene a qualsivoglia uomo 
giunto alla virilità ; ma bensì a quei la cui gioventù per 
prudenza c buon reggimento de’vecchi sia stata ben colti- 
tivata e abituata. Imperocché è proprio dell’età virile la 
fermezza nelle abitudini contratte. Che se queste pel mal 
governo della sfrenata gioventù siansi formate ree, di legge 
ordinaria, come le piante induratesi e divenute alberi, più 
non si mutano nè si raddrizzano. Quindi da una viziosa virilità 
(se pur gli venga fatto di giungervi) passa l’uomo ad una 
più viziosa e infelice vecchiezza. All’opposto una ben gui- 
data gioventù conduce alla perfetta e ottima virilità, la quale 


una prospettiva tutta lieta di 
lunghi c felici anni. 

3. ° Quindi ardente nei 
desideri, intemperante , pro- 
digo, audace, iracondo con- 
tro chi si oppone alle sue 
brame. 

4. ° Intollerante di severa 
disciplina : e però superbo , 
indocile, aspro coi suoi mae- 
stri, e custodi : fugge il con- 
sorzio dei vecchi, ama quello 
de’ suoi eguali. 


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insensibilmente passa a tal vecchiezza, che può dirsi corona 
della virilità; che se a poco a poco viene diminuendo nelle 
forze corporee , cresce in quelle della prudenza, della sa- 
viezza, del consiglio; capace perciò a governare non pur le 
persone e le famiglie, ma ancor le repubbliche. Che però i 
nostri maggiori la forza dello stato poserla ne’ giovani, e in 
quei di virile età ; la mente poi regolatrice , e il supremo 
arbitrio delle cose riservaronlo alla vecchiezza, formando di 
scelti vecchi il consiglio pubblico, che nominaron senato. 

ARTICOLO III. 

Indole e carattere delle passioni secondo lo stato 
e l’educazione degli uomini. 

Le varie istituzioni e costumanze dei diversi paesi ; 
l’educazione, la professione e lo stato diverso degli uomini 
inducono abitudini diverse , che formano caratteri morali 
notabilmente distinti. 

Cosi quelli per esempio, che esercitano la professione 
di giudice e di magistrato, intesi continuamente ad esami- 
nare e decider le controversie a rigore di diritto, ed a re- 
primere e rimuovere le frodi e i delitti , acquistano tale 
abitudine che li rende di carattere grave, severo, inflessibile. 

L’ avvocato e il procuratore , o difenda il suo cliente 
contro l’attore, o faccia egli da attore contro il reo, avvez- 
zasi alle controversie, c a sostener per vero il punto da lui 
preso a difendere e ad oscurar ogni ragione in contrario : 
e però diviene in ogn’altra cosa di carattere risentito, ris- 
soso, censore e tenace della sua opinione. 

Il medico, che per la sua professione suole continua- 
mente trattare cogl’ infermi ed infelici, affinchè conosciuta 
la causa dei loro malori, possa apporvi opportuni rimedi ; 
conseguentemente egli è di carattere serio sì , ma insieme 
dolce, mansueto, compassionevole. 

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I nobili se non degenerano dalla virtù de’ loro mag- 
giori , conservano sempre un tratto dignitoso , generoso r 
incapace di viltà , d’ inciviltà e rozzezza. Che se poi sieno 
di mente e d’animo debole e ignoranti, divengono di leggeri 
fastosi, gonfi d’ orgoglio e disprezzatori degli altri , consi- 
derandoli tutti quasi d’altra razza e mcn che uomini. 

I doviziosi (se per rara virtù sollevino l’animo dal sor- 
dido affetto alle ricchezze, e sappiano farne uso moderato 
per sè, ma largamente spanderle a beneficio altrui, soccor- 
rendo prontamente i bisognosi, promovendo le arti e altre 
opere utili al pubblico bene) sono essi il ritratto della stessa 
beneficenza, amati, rispettati ed encomiati da tutti. Ma al 
contrario i ricchi più comunemente sono sordidi , avari , 
contumeliosi, sospettosi, tristi per il continuo timore di per- 
dere, e per l’insaziabile sete dell’oro. 

I potenti, se virtuosi, sono il sostegno dei deboli ; se 
viziosi o privi di buona coltura , sono essi quale Orazio 
descrive Achille, dicendo, 

lmpiger , iracundus, inexorabilis, acer ; 
tura negat sibi nata ; nihil non arrogai armis. 

La condizione del supremo principe della repubblica è 
la più sublime. In esso risiede la suprema mente, la suprema 
volontà, la suprema forza dell’impero. È egli per ufficio il tu- 
tore dei diritti di tutti i suoi sudditi. La sua cura assidua 
intende non pur solamente ad impedire e reprimere i delitti, 
ma a promuovere eziandio ogni maniera di beni nella repub- 
blica. £ allora il principe è giusto, saggio, ricco, potente, 
glorioso quando promuova e faccia di fatto fiorire nei sudditi 
la giustizia, la saviezza, le richezza, la forza, 1’ onestà. E 
però il carattere del supremo principe è dignitoso più di 
qualsivoglia altro nobile e potente cittadino : alla sovrana 
dignità poi congiunge una somma dolcezza, magnanimità e 
clemenza, come quegli che più d’ogni altro può, e che per 
suo dovere, per suo genio, per suo interesse vuole quanto 
può beneficare i suoi sudditi. Questo è il carattere del buon 


275 

principe, del vero padre della patria. Che se dipartasi da 
queste norme, rovina sestcsso e lo stato: diviene il più dete- 
stabile tiranno. 

Finalmente l’ufficio sacerdotale non è cosa umana, ma 
al tutto divina. Il sacerdote è il ministro di Dio, il media- 
tore fra Dio e gli uomini, la luce del mondo, il sale della 
terra, il maestro c la guida degli uomini neH’affare il più 
grande e di ordine soprannaturale , unicamente inteso a 
far sì, che vivendo essi secondo la legge di Dio sieno ottimi 
cittadini e insieme battano la retta via della felicità eterna. 
Un sacerdote animato dallo spirito di cotal ministero è la viva 
immagine del divin Redentore. Ma chi da esso traligna è 
il mostro più detestabile della terra. 

Adunque 1’ accorto scrittore nel descrivere i costumi 
degli uomini , e nel trattare gli affetti del cuore umano 
deve por mente a studiar bene l’uomo, non pur quanto al 
suo temperamento, alla sua età, ma eziandio allo stato e alla 
sua particolare educazione, e abitudini. 

Recherò anche a questo proposito gli eccellenti versi 
d’Orazio, nell’epistola citata v. 114. ec. 

Intererit multum Davusne loquatur an heros ; 
Maturusne senex, an adhuc fiorente inventa 
Fervidus: an matrona potens, an sedala nutrix: 
Mercatorne vagus, cultorne virentis ugelli ; 

Colchus an Assyrius, Thebis nutritus an Argis. 

Aut famam segnerei aut sibi convenientia finge , 

Scriptor. Honoratum si forte reponis Achillem ; 
Impiger, iracundus, inexorabilis, acer, 
lura neget sibi nata, nihil non arroget armis. 

Sit Medea ferox, invictaque: flebilis Ino: 

Perfidus Ixion, Io vaga, tristis Orestes. 

Si quid inexpertum scenae committis, et audes 
Personam formare novam, servetur ad imum 
Qualis ab incepto processerit et sibi constet. 


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CAPITOLO IV. 


DEL MODO DI TRATTARE GLI AFFETTI E LE PASSIONI 
DEL CUORE UMANO. 

ARTICOLO I. 

Teoremi, su cui fondami le regole pratiche. 

1. ° La volontà di sua natura tende al bene; cioè tende 
al conseguimento di quelle cose che appagano e quietano 
l’animo, e però fugge il dolore, appetisce il piacere. 

2. ° Stimoli della voloutà sono gli affetti o le passioni 
umane. 

3. ° Gl’ istrumenti, che eccitano le affezioni sono gli or- 
gani dei sensi esterni , e la fantasia : quelli presentandoci 
realmente gli oggetti quali sono con le loro qualità piace- 
voli o disgustose: questa dipingendo all’animo nostro gli og- 
getti assenti, o immaginari, come fosscr presenti e reali. 

4. ° Gli oggetti buoni o cattivi eccitano le affezioni e 
muovono la volontà secondo la loro grandezza , prossimità 
e probabilità d’ incontrarli. 

5. ° Non però secondo la loro grandezza, prossimità e 
probabilità considerata in sé qual’è veramente; ma secondo 
che l’uomo gli apprende per grandi, prossimi, e probabili. 

6. ° Come formasi nell’ animo l’ immagine di cosiffatti 
beni o mali appresi , si eccitano subito le affezioni corri- 
spondenti, ed i moti indeliberati c spontanei della volontà. 

L’animo ch’è creato ad amar presto, 

Ad ogni cosa è mobile che piace 
Tosto che dal piacere in atto è desto. 

Dante Purg. XVIII. 

7. ° Le affezioni e passioni umane (accendendosi non se- 
condo la verità, ma secondo l’apparenza dei beni e dei mali) 


. __ 


277 

traggono per sè stesse in inganno, c seducono la volontà spin- 
gendola furiosamente in rovina , se non sicno raffrenate e 
ben dirette. 

8. ° Quindi è data all’uomo la ragione per discerner i 
veri dai falsi beni; c però quali affezioni dirigansi ad og- 
getto buono, quali ad oggetto malo; e quando pecchino o per 
eccesso ovvero per difetto. 

9. ° Colla ragione poi è data eziandio la nobile facoltà 
del libero arbitrio. 

Innata v’è la virtù che consiglia 
E dell’assenso dee tener la soglia. 

Questo è ’l principio là onde si piglia 
Cagion di meritare in voi, secondo 
Che buoni o rei amori accoglie e viglia 

Dante P. cit. 

10. ° La libertà è quel piloto, che ne guida o al nau- 
fragio, se cede alle vane lusinghe e all’ impeto delle pas- 
sioni, ovvero al porto di salvamento se sa ben governarle. 
» Voluntatem gubernat recta ratio: seducit bonum apparens; 
» voluntatis stimuli affectus ; ministri organa et motus vo- 
» luntarii. De hac Salomon ; ante omnia (inquit) custodi , 
» fili, cor tuum: nam inde procedunt actiones vitae ». Ba- 
cone da Verulamio De augm. 1. VII. c. I. 

11. ® È un fatto poi a tutti noto , che le passioni del 
cuore umano hanno un’espressione, una Gsonomia e favella 
tutta propria e naturale « Omnes animi motus suum quem- 
» dam habent a natura vultum, sonum, gestum, totumque 
» corpus hominis, et eius omnis vultus, omnesque voccs, ut 
» nervi in fidibus, ita sonant, ut a quoque animi motu sunt 
» pulsae». Cic. de Or. III. 57. 

12. ° £ un altro fatto parimente a tutti manifesto, che 
siffatto linguaggio naturale delle passioni trasfonde mirabil- 
mente in altrui le stesse affezioni nostre. 

Ut ridentibus arrident, ita flentibus adflent 
Humani vultus. 


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Ora poste queste verità, ne nascono spontaneamente le 
regole pratiche a norma dell’oratore e del poeta sul modo 
di trattar gli allctti. 


ARTICOLO II. 

Regole pratiche di trattar gli affetti. 

Dai predetti teoremi chiaramente apparisce , come in 
fatto di mozione d’ affetti non v’ ha luogo ad artifizio ve- 
runo, ma è questa opera al tutto naturale. 

E però chi non ha sortito dalla natura animo sensibile, 
ovvero chi in atto non è interessalo e mosso dall’argomento 
che ha a mano, questi non tenti punto d’eccitare in altrui 
quegli affetti che in sè non prova; chè sforzerebbesi indarno, 
se non pur movesse a riso, o a noia e disprezzo. 

Adunque è necessario sentire ed esser vivamente in sè 
mosso, chi vuol commuovere gli affetti altrui. Allora la na- 
tura stessa, senza studio veruno, darà gli atti, {'espressioni, 
le voci più proprie ed efficaci. Prius affìciatnur ipsi, ut alias 
afficiamus , dice Quintiliano. Ardeat qui vult incendere, Ci- 
cerone ; ed Orazio coi seguenti versi egregiamente espone 
questo fatto e legge di natura nell’epistola cit. V. 101.ee. 
Ut ridentibus arrident, ita flentibus adflent 
Humani vultus. Si vis me fiere, dolendum est 
Primum ipsi tibi: tunc tua me infortunio laedent, 
Telephe vel Peleu. Male si mandata loqueris , 

Aut dormitabo aut ridebo. Tristia moestum 
Vultum verbo decent ; iratum piena minarum; 
Ludentem lasciva; severum seria dictu. 

Format enim natura prius nos intus ad omnem 
Fortunarum habitum; iuvat, aut impellit ad iram, 

Aut ad humum moerore gravi deducit, et angit. 

Post effert animi motus interprete lingua. 


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Questa è la base e la norma (li tutte l’altrc regole. Im- 
perocché le regole su la mozion degli affetti non tendono ad 
altro , che l.° a guidar l’oratore e il poeta a concepire e 
accendere in sé quegli affetti, che brama altrui comunicare, 
2.° a preparare insieme, per cosi dir, la materia infiamma- 
bile in altri, c opportunamente aizzarla. 

Ora siccome il bene o il male appreso è quello che muove 
gli affetti, e tanto maggiormente li muove e gl’ infiamma, 
quanto maggiore è la sua grandezza , la prossimità e pro- 
babilità d’ incontrarlo; quindi è che l’oratore deve in prima 
attentamente considerare e rappresentare a sé e agli altri 
la grandezza del bene , la prossimità e probabilità d’ otte- 
nerlo; come al contrario la grandezza, imminenza e proba- 
bilità del male che ne minaccia. 

Ma tutto ciò, come riguardo a sé, cosi riguardo agli 
altri , convien fare accortamente, e vivamente. l.° Accor- 
tamente, cioè nel contemplare e descrivere un bene vero e 
reale, toglier dalla vista, o almeno coprire quelle parti di- 
sgustose , che qualsivoglia bene di questo mondo accompa- 
gnano: come nel considerare il mal da fuggirsi, non guar- 
dare nè mostrare altrui l’aspetto lusinghiero dei beni fallaci. 
Altrimenti saremo simili a quel imperito oratore , che per 
indurre i giovani a batter la via della virtù piuttosto che 
quella dei vizio, descrisse quella sì orrida, aspra c difficile; 
questa così piana, ampia e dilettevole, che produsse l’effetto 
contrario al suo intendimento. 

Dico in 2.° luogo che la descrizione della grandezza, 
prossimità e probabilità del bene o del male convien farla 
vivamente. Ma quando è che le cose ci fanno viva impres- 
sione ? Quando le vediamo cogli occhi , le tocchiamo con 
mano, le abbiam sotto i sensi. 

Segnius irritant animos demissa per aurem , 

Quarti quae sunt oculis subiecta fidelibusj et quae 
Ipse sibi tradii spectator. 


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Or questo può farsi in due modi, o coll’oggetto stesso 
buono o cattivo, se siavi o possa aversi di fatto soli’ occhi; 
ovvero coi colori più espressivi della fantasia descriverlo in 
modo che paia aversi presente. Ecco un bell’ esempio del 
primo modo. 

Severissima era la legge romana su l’omicidio, lex hor- 
rendi carmini s erat, onde venne condannato a morte Orazio 
vincitor de’Guriazi, per aver ucciso in un subito impeto di 
sdegno l’importuna sorella , mentre ei trionfava qual libe- 
ratore della patria. 

Già il littore gli si appressava per legarlo , quando il 
padre di lui P. Orazio gridò, ch’ci giudicava giustamente 
uccisa la figlia, c se così non fosse stato fatto, ch’egli per 
diritto patrio l’avria uccisa. E pregava quindi piangendo il 
popolo, che non volesse fare al tutto orbo di figliuoli lui, 
che poco prima era circondato da sì eccellente figliolanza. 

Intanto il vegliardo te- Inter haec, Senex iuve- 

ner>a il suo figliuolo abbrac- nem amplexus, spolia Curia- 
ciato, e mostrava le insegne tiorum fìxa eo loco, qui nunc 
de’ Curiazii , che pendevano pila horalia appeliantur, osten- 
ta un luogo che chiamatasi tans; hunccine, aiebat, quem 
il piedestallo d’ Orazio ; e modo decoratum ovanlemque 
gridava al popolo e diceva, victoria incedentem vidistis, 
Quiriti , potrete voi sofferire , Quirites, eum sub furca vin- 
c he dinanzi da vostri occhi ctum inter verbera et crucia- 
ti mio figliuolo sia legato , tus videro potestis? Quod vix 
e battuto , e Uverato a ontosa Àlbanorum oculi tam defor- 
morte, il quale voi vedeste ora me spcctaculum ferre posscnt. 
innanzi venire lieto e glorioso I, lictor, colliga manus, quae 
della vittoria ch’egli avea avu- paulo ante armatae imperium 
ta ? Appena quelli d’ Alba il populo romano pepercrunt. I, 
potrebbono soffrire di guardai- caput obnubc liberatoris urbis 
lo. Sofferirete voi , che quelle huius. Arbori infelici suspcn- 
mani sieno legate; le quali ora de; verbera vel intra pomoe- 
innanzi acquistarono l’impe- riunì, modo inter illa pila et 


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rio di Roma, e che il capo sia spolia hostium, vcl extra po- 
avviluppato a colui che ha li- moerium , modo intra sepul- 
berato la città di servitudine? era Curiatiorum. Quo enim 
Sofferrete voi che dinanzi a ducere hunc iuvenem potestis, 
voi sia impeso e battuto il vo- ubi non sua decora eum a 
stro campione o intra le se- tanta foeditate supplicii vin- 
polture de’Curiazii, o appres- diccnt ? 
so del piedestallo, dove le in- 
segne della sua vittoria sono 
pendute ? Però che in nulla 
parte lo potrete menare, dove 
V uomo non trovasse alcuna 
insegna della sua vittoria (1). 

La tragica scena per sé, più che le parole del padre, 
commosse sì il popolo romano, che ne fu assoluto il figliuolo, 
admiratione magis virtutis, quam iure causae. 

Indicherò poi solamente un altro esempio, già addotto 
da me (1 . II. c. V.), cioè la parlata ai Romani di T. Qninzio 
Capitolino , nella quale le cose attissime a muover gli af- 
fetti sono dipinte coi colori più vivi della fantasia. ( Videsis ) 

Dipoi è da notarsi , come sebbene talvolta avvenga , 
che al presentarsi improvvisamente un gran bene o male im- 
minente, accendami all’istante impetuose affezioni, pur tut- 
tavia nelle orazioni comunemente la mozion degli affetti 
ha una successione graduata, e a tempo e a luogo s’ infiam- 
mano vivamente. 

Essendo poi opera naturale sì l’accensione delle passioni, 
come la loro estinzione; e la natura non operando mai per 
salto, ma gradatamente; ne siegue, che come a poco a poco si 
vanno col discorso riscaldando fino al sommo grado di calore; 
cosi debbano a poco a poco rimetter di forza. Quindi è che 
quando l’oratore ha dato sfogo al suo zelo, fa d’uopo ral- 
lentarne l’impeto e ritornare alla calma. Non però di botto, 

(1) Volgarizzamento del buon secolo j>er cura del prof. C. Dalmazzo. 


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passando in un momento dal pianto al riso , dalla tristezza 
al gaudio, dal torbido e truce all’ameno e tranquillo: come 
appunto il mare in tempesta , cessando il vento , a gradi 
a gradi va rallentando l’ impeto delle onde. 

Fra gl’ innumerabili esempi , che potrebbono addursi 
dalle orazioni di Cicerone (che nel maneggiar gli affetti fu 
sommo) , ne sceglierò un tratto maraviglioso dell’ orazione 
prò Ligario §. III., il quale fu di tal forza, che non- sola- 
mente abbattè l’audacia dell’avversario Tuberone, ma trionfò 
per modo sull’animo di Cesare, che, come narrasi, gittò egli 
a quel passo la tavoletta , dov’ era già segnata la condanna 
di Ligario. 

Ora Cicerone si fa strada a questo estremo colpo con 
somma naturalezza , e con arte sopraffina : perciocché ncl- 
1’ esordio {§. I.) parla con gran fiducia a Cesare lodandone 
la magnanimità nel perdonare ai pompeiani; e con piccante 
ironia rende ridicola e insieme odiosa l’accusa di Tuberone, 
ch’essendo stato anch’ esso co’ suoi parenti nel detto partito 
contrario a Cesare, ed essendo stati da Cesare perdonati, ac- 
cusavan poi della stessa colpa Ligario , ed opponevansi al 
perdono di lui. Siegue poi nel §. II la narrazione sempli- 
cissima, onde risulta o nessuna colpa in Ligario dell’essersi 
trovato in Africa fra i pompeiani, o colpa involontaria e lie- 
vissima. E però nel §. III dallo stile equabile e temperato 
passa ad un tono di dire più concitato: e in prima protesta 
la sua gratitudine a Cesare, che quantunque sapesse lui es- 
sere stato di piena volontà fra i suoi più fieri avversari , 
nondimeno gli aveva dato il perdono, e altresì onori e be- 
nefizi singolarissimi. 

Or mentre Cicerone mosso da sì vivo affetto di grati- 
tudine va encomiando la magnanimità di Cesare nel perdo- 
nare, e premiare i suoi nemici più ostinati, non può far a 
meno d’ accendersi di giusto sdegno rivolgendo il pensiero 
alla indegnità dell’accusa fatta contro Ligario ; e però pro- 
rompe dicendo « Sed hoc quaero , quis putet esse crimen 


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n fuisse in Africa Ligarium ? Nempc is, qui in eadcm Africa 
» esse voluit, et prohibitum se a Ligario queritur; et certe 
» contra ipsum Caesarem est congressus armatus. Quid enim 
» tuus illc , Tubero , districtus in acie pbarsalica gladius 
» agebat? Cuius latus illc mucro petebat ? Qui sensus erat 
» armorum tuorum ? Quae tua mens ? Oculi? Manus? Ar- 
» dor animi ? Quid cupicbas ? Quid optabas ? » 

Pervenuto a questo punto di massima concitazione, onde 
apparve colpito fortemente Cesare , e I' accusatore al tutto 
confuso e prostrato, non passa già Cicerone di slancio alla 
calma : ma come il cavaliere che dal veloce corso a poco 
a poco va raffrenando il suo corridore in fino a che lo ri- 
duce al trotto equabile; così Cicerone con, brevi e tronchi 
incisi, quasi tratti di briglia, va calmando T impeto del suo 
animo sdegnato, dicendo a sé stesso, e comprimendo il suo 
zelo: Nimis urgeo. — Commoveri videtur adolescens. — Ad 
me revertar. — Iisdem in armis fui. 

Temperato così alquanto il furore della sua giusta ira, 
mitiga altresì 1* acerbità del rimprovero ponendo sé stesso 
complice del medesimo fatto , dicendo. Quid autem aliud 
egimus , Tubero , ni si ut, quod hic potest, nos possemus ? E 
quasi a fissare immobilmente all’ argomento il chiodo, con 
enfasi conclude. « Quorum igilur impunitas , Caesar , tuae 
» clementiae laus est , eorum ipsorum ad crudelitatem te 
» acuet oratio ? » Quindi con tono e passo equabile e grave 
prosiegue il suo discorso. 


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TRATTATO II. 

dell’invenzione in particolare. 


, CAPITOLO I. 

DEI DIVERSI GENERI DI COMPONIMENTI. 

ARTICOLO I. 

Dei diversi generi d'orazioni. 

Gli antichi retori (Cic. Topica c. 20. De Oratore l. II. 
cc. 11, 12.) distinsero le orazioni in due supremi generi, 
l’uno appellarono infinito, o indeterminato, l’altro definito e 
certo, il primo (detto dai Greci Sèsto) si è quando si pro- 
pone a dimostrare un tema astratto e generale: per es. di- 
cendo : la religione è il primario fondamento della umana 
società. L’arte oratoria è la più eccellente delle arti liberali ec. 
Il secondo genere determinato e certo (detto dai Greci urro- 
Siotq) è quando si assume a provare un tema concreto con 
precisone di cose, persone, luoghi, tempi, azioni e negozi 
particolari: come a cagion d’esempio se propongasi per tema: 
Cicerone fu il principe degli oratori. La repubblica romana 
fu madre d’eroi. Così sono tutte le cause che traltansi nel 
foro o civile o criminale ec. 

Qualunque poi sia il genere della orazione e della que- 
stione , o indefinito o definito , può avere due distinti og- 
getti, o la semplice istruzione e cognizione deH’intelletto , 
o il persuadere altrui qualche utile e virtuosa azione da 
farsi : uno riguarda la cognizione , l’altro l’azione. E però 
ne derivano quindi due generi di orazioni subalterni , che 
diconsi l’uno dimostrativo, l’altro deliberativo. 

A questi due generi poi di orazioni, dimostrativo e de- 
liberativo , gli antichi maestri di rettorica aggiunsero un 


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terzo denominato giudiziale , quando trattansi in giudizio le 
cause civili o criminali. Ma queste, parmi, che non formino 
un genere distinto di orazioni, piuttosto partecipano dell’uno 
e dell’ altro : del dimostrativo in quanto che 1’ oratore in- 
tende di provare la verità c giustizia della causa che tratta; 
del deliberativo poi in quanto che intende di persuadere e 
indurre i giudici a dare la sentenza di assoluzione o di 
condanna. 

Sogliono i più minuti maestri di rettorica enumerare 
le varie specie di orazioni contenute o sotto il genere di- 
mostrativo, o sotto il deliberativo: sotto quello pongono le 
panegiriche, cioè le orazioni fatte solennemente in pubbli- 
che adunanze a lode di qualche eroe oc. ed altre che pur 
esse riferisconsi a lode ed elogio di qualche persona, come 
le genetliache o natalizie, V epitalamiche o nuziali, le fu- 
nebri, l’ eucaristiche o di ringraziamento ec. Sotto il genere 
poi deliberativo sogliono distinguere le persuasive o dissua- 
sive; l’esortativc, le conciliative, le consolatorie ec. Quindi 
si sforzano di dare delle regole per ciascuna di esse a fine 
4i condurre quasi per mano l’ oratore nel trattare siffatti 
argomenti. 

A me piace piuttosto l’ avviso di Cicerone che dice 
de Orat. II. §§. 11, 12. Non omnia quaecunque loquimur 
mihi videntur ad artem et praecepta esse revocando. Quindi 
per es. quanto alle orazioni fatte in altrui lode fa dire cosi 
ad Antonio. « Qui laudabit quempiam, intclliget, exponenda 
» sibi esse fortunae bona. Ea sunl, generis, pccuniae, pro- 
» pinquorum, amicorum, opum, valetudinis, forarne, virium 
» ingenii , cacterarumquc rerum quae sunt aut corporis , 
» aut extraneae: si habuerit, bene his usimi; si non habu- 
» erit, sapientcr caruissc; si amiscrit, moderate tulisse. 
» Deinde quid sapientcr is, quem laudet, quid liberaliter, 
» quid fortiter, quid iuste, quid magnifice, quid pie, quid 
» grate, quid humaniter, quid denique cum aliqua virtute 
» aut fecerit aut tulerit. Ilacc et quae sunt cius generis 


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» facile videbit, qui volct laudare quenipiam , et qui vi- 
» tupcrare, contraria... Nolo... omnia quae cadunt aliquando 
» in oratorem, quamvis exigua sint, ea sic traclare, quasi 
» nihil possi t dici sine praeccptissuis. Nani ctiam tcstimoniuni 
» saepe dicendum et nonnunquam ctiam accuratius... Num 
» igitur placet , quum de eloquenza praccipias , aliquid 
» ctiam de tcstimoniis dicendis , quasi in arte tradere? ... 
» Quid si (quod saepe summis viris accidit) mandata sint 
» exponenda, aut in senalu ab imperatore, aut adimpcra- 
» torem, aut ad regem, aut ad populum aliquem a senatu? 
» Num quia genere orationis in huiusmodi causis accura- 
» tiore est utendum, idcirco pars etiam haec causarum nu- 
li meranda videtur, aut propriis praeceptis instruenda? 

» Item illa quae saepe diserte agenda sunt . . . ncque ha- 
ll bent suum locum ullum in divisione partium, neque cer- 
» tum praeceptorum genus, et agenda sunt non minus di- 
ti serte, quam quae in lite dicunlur, obiurgatio, cohortatio, 
» consolatio ; quorum nihil est , quod non summa dicendi 
» ornamenta desidcrel; sed ex artifìcio res istae praecepta 
» non quaerunt. 

» Piane, inquit Catulus, assentior ». 

Da ciò si scorge come un giovane d’ ingegno , eserci- 
tato nelle opere degli scrittori classici, e bene istruito dei 
precetti generali dell’arte rettorica, guidato inoltre dal con- 
siglio, e dalle tracce di esperto maestro può riuscire abile 
a fare ragionevolmente e sensatamente le sue composizioni, 
ed avanzarsi di molto nell’arte del bello scrivere. Ma nello 
stesso tempo si conosce quanto gran cosa, e di quanto va- 
sto campo sia 1’ arte eccellente dell’ oratore : e quanto sia 
vera quella sentenza di Cicerone (de Orat. 1. I. 6) che dice 
« Mea quidem sententia, nemo poterit esse omni laude cu- 
» mulatus orator, nisi erit omnium rerum magnarum at- 
» que artium scientiam consccutus ». 


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ARTICOLO II. 


287 


Dei diversi generi di poemi. 

Il poema (sotto il qual nome intendesi qualunque sorte 
di componimento poetico) distingucsi in varii generi tanto 
rispetto alla diversa natura dcH’argomento, quanto rispetto 
al modo di rappresentarlo. 

§. l.° E in quanto alla diversa natura dcH’argomento, 
il poema può essere, come si è detto delle orazioni, in primo 
luogo o di genere infinito, come quando trattasi di qualche 
vizio , di qualche virtù in generale ec. : ovvero di genere 
definito con determinazione di persone, di luogo, di tempo ec., 
come l’elogio di un principe benefico, d’un insigne poeta ec. 
In secondo luogo si l’argomento infinito, come il definito, 
può essere o di genere dimostrativo, quando ha per oggetto 
la sola istruzione dell’ intelletto: ovvero può esser di genere 
deliberativo, quando tende a indurre gli uomini a qualche 
virtuosa ed utile azione. 

Da ciò chiaramente apparisce , che i luoghi rettorici , 
che servono per l’invenzione all’ oratore, sono egualmente 
comuni al poeta : e che come nel perfetto oratore si esige 
vasta e profonda cognizione di tutte quelle scienze e arti 
che all’ uomo colto appartengono , e di più una completa 
scienza dell’uomo in tutti i suoi stati e movimenti; similmente 
tutto ciò ricercasi nel vero poeta. Onde Orazio (ep.adPiso- 
nes 309. ec.) pone questo per supremo canone di poesia. 
Scribendi recte, sapere est et principium et fons. 

Rem tibi socraticae poter unt ostendere chartae. 

Verbaque provisam rem non invita sequentur. 

Qui didicit patriae quid debeat, et quid amicis, 

Quo sit amore parens, quo frater amandus et hospes, 
Quod sit conscripti, quod iudicis officium, quae 
Partes in bellum missi ducis, ille profecto 
Reddere personae scit convenientia cuique. 


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Respicerc exemplar vitae morumque iubebo 
Doctum imitatorem, et veras bine ducere voce s. 

£ Cicerone (in Bruto) questa cognizione filosofica com- 
pleta dell’uomo in tutti i suoi stati e movimenti e nel bene c nel 
male la vuole principalissima ed essenzialissima quanto al 
poeta; dicendo. « Habeat (orator) omnes philosophiae notos et 
» tractatos locos: nihil cnim de religione, nihil de pietate, 
» nihil de charilate patriae, nihil de morte, nihil de bonis 
» rebus aut malis, nihil de virtutibus aut vitiis, nihil de 
» officio, nihil de dolore et voluptate, nihil de perturbatio- 
» nibus animi et erroribus (quae saepe cadunt in causas ut 
» in poemata saepissime) nihil inquam sinc ea scientia ampie 
» et copiose dici et explicari potest. » 

Una luminosa dimostrazione di questa verità sono tutte 
le opere dei sommi poeti. Basti citare il poema di Dante, 
e l’ Iliade e Odissea di Omero , le quali Orazio nella bel- 
lissima epistola (II. 1. I.) a Lolli cementa riguardandole da 
questo solo aspetto di scientifica e profonda cognizione del- 
l’uomo, preferendo Omero ai due insigni filosofi Crisippo e 
Crantore. 

§. 2.° Qualunque poi sia la materia del poema di ge- 
nere infinito o definito, di genere dimostrativo o delibera- 
tivo ammette altra classificazione derivata dal vario modo 
onde trattasi dal poeta. 

Il poeta è pittore della natura e massime dei costumi 
c fatti degli uomini. Ora se il poeta stesso nel descrivere 
e rappresentare cotesti fatti di natura comparisce attore , 
allora il suo poema dicesi epico , nome desunto dalla voce 
greca meg verbum, dictum, ad ma, dico, quasi poema par- 
lato dallo stesso autore come sono gl’ idilli, le satire, le odi, 
l’elegic cc. Che se al contrario il poeta non comparisce af- 
fatto, ma sceglie per attori alcune persone e le pone a col- 
loquio e in azione fra loro; come nell’egloghe pastorali, nei 
dialoghi, nelle favole, c più sfoggiatamente e più vivamente in 
teatro nelle commedie e nelle tragedie; in tal caso il poema 


"Ulgitiiéd'by Cinogie 



289 

così posto in atto diccsi propriamente dramma dalla voce 
greca àpx(X 0 t actus, facinus, derivata dal verbo dpa<y facto. 

I grandi poemi poi, come l’ Iliade, 1’ Odissea, 1’ Eneide, 
che trattano di fatti e imprese luminosissime d’ insigni per- 
sonaggi, hanno di quando in quando dei tratti drammatici, 
ove il poeta pone in atto questi e quelli a parlare e ad ope- 
rare insieme fra loro. Ma siccome nel complesso dell’opera 
apparisce il poeta stesso che la rappresenta ; però ritiene 
sempre il suo nome di poema epico. Che anzi come in prosa 
al più perfetto componimento riservasi esclusivamente il no- 
me d’ orazione ; così cotal maniera di epici componimenti, 
che sono il capolavoro dell’arte poetica, dicesi per antonoma- 
sia epopea; e però V epopea si definisce cosi: un poema epico di 
eroico avvenimento. Simili parimenti sono nella costruzione 
di tutta la machina l’orazione e l’epopea. Perchè sì l’ora- 
zione perfetta, si l’epopea ha il suo esordio, la proposizione, 
la contenzione, e la catastrofe, o termine preordinato; ma 
con questa differenza che nell’ orazione , essendo 1’ oratore 
tutto intento a dimostrare e persuadere ragionatamente all’al- 
trui intelletto la verità della sua proposizione, scorgcsi chia- 
ramente il filo logico degli argomenti tutti coordinali e col- 
limanti a provare il tema proposto: nell’epopea, il poeta na- 
sconde la sua trama e orditura logica vestendo il suo la- 
voro d’ immagini e di fatti svariatissimi e che quasi da sè 
stessi vanno svolgendosi, rannodandosi e succedendosi, per 
dilettare così , c dilettando insegnare c muovere. Ma chi 
attentamente considera cotesti sommi poemi vi ritrova il fi- 
nissimo artificio , e come ogni cosa mirabilmente collegasi 
all’unico intento propostosi dal poeta, e vi si ritrova quella 
semplice unità di sistema essenziale ad ogni ben fatto com- 
ponimento. 

Gioverà qui considerare brevemente un sì meraviglioso 
artificio nell’epopea di Dante, di Virgilio, e nell’Iliade e 
nell’Odissea di Omero. Nella considerazione dei due primi, 
riporto colle sue stesse parole ciò che sapientissimamente nc » 

19 


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scrisse il P. A. Cesari: per li due secondi prendo per guida 
ciò che ne disse Orazio. 

ARTICOLO III. 

Considerazioni sulle quattro più insigni epopee ; di Dante, 
di Virgilio, e dell’ Iliade e Odissea d’ Omero. 

II P. Antonio Cesari (Bellezze della commedia di Dante 
Alighieri: Inferno; dialogo l.° sul principio) introduce i tre 
amici Torelli, Zeviani e Rosa Morando a parlare dell’unità 
del poema di Dante, e di Virgilio contro le accuse di un 
tal censore dalle lettere virgiliane. 

Zeviani sdegnato co.itra il detto censore cosi dice : 
» Egli non trova in tutto quel poema altro, che pochi buoni 
» versi ... il resto borra e pattume; ed ora mancavi l’unità 
» ora il buon gusto, e che so io? Laddove nessuno fece mai 
» sottosopra più numerosi e pieni versi di lui; e quell’opera 
» è tanto una, jchc non è più l’unità, ed in opera di buon 
» gusto non cede a Virgilio, e forse a più altri; se già non 
>» li supera tutti. 

» Torti. Voi dite bene, dottor mio; e chi volesse cer- 
» care minutamente quella sua commedia e divisarla , e 
» notarvi ogni cosa del bello che ci ha, noi potremmo, 
» pare a me, far altrui toccar con mano, quel poema cs- 
» sor al tutto maraviglioso. Ma quanto all’unità, come mai 
» potè quel Messere dargliene biasimo? Dante vuol condurre 
» gli uomini disviati alla vera perfezione della virtù , e 
» per essa alla felicità eterna. Questo era il fine univcr- 
» sale dell’opera. Per questo che era da fare? Far loro co- 
» noscere e odiare il peccato che ne lo trasvia , mostrando 
» come esso è punito da Dio (e ciò fa nell’inferno): cono- 
» scintolo, purgar i mali abiti , e apparecchiar la materia 
» alla forma della virtù (e ciò nel purgatorio) : da ultimo 
» purgato l’animo e reso abile a ricevere il sommo vero, 


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« c con esso la fruizione del massimo bene (recandolo a 
» quella perfezione, quando volge il destro e’I velie, - Sic - 
» come ruota eh’ egualmente è mossa, L’ amor che muove il 
» sole e V altre stelle) è ravvalorato a veder Dio ultimo fine 
» della ragionevole creatura. Che cosa può essere più una 
» di questa? 

» Rosa M, Ma il Virgilio delle lettere vorrà dire; che 
» Dante salta d’ Arno in Bacchilionc , e trova mille cose 
» svariate, e forse spropositate, che rompono questa unità. 

» Torel — Come se l’unità d’un poema dimorasse nel 
» dir pure una cosa senza più; e non anzi in ciò, che tutte le 
» cose anche le svariatissime che il Poeta introduce come ezian- 
» dio gli episodi medesimi (che hanno nome di cosa fuori di 
» strada), per quanto sembrino aliene dall’argomento, servano 
» però al principale soggetto, e come che sia il leggitor vi 
« conducano, Scordandogli a un bisogno la via, per isccmar- 
» gli stanchezza e ricrearlo con diverse posate , o tragetti 
» che gli fan fare. Altramenti, l’Eneida di Virgilio medesima 
» non sarebbe una ; anzi una sconciatura di cento spezie , 
« o vogliate un mostro composto di mille nature. Il propo- 
li sto di Virgilio era; da Troia arsa condurre Enea in Ita- 
li lia, e farloci prendere fermo stato : ma intanto tei mena 
» attorno; prima in Africa sbalzatovi dalla tempesta; e quivi 
» davanti a Didone il racconto lunghissimo dell’ incendio 
i> di Troia fatto da’ Greci; poi il lunghissimo episodio del- 
» l’ innamoramento di essa Didone; la fuga d’ Enea; il pe- 
li ricolo de’ Ciclopi , e la ferocia del bestion Polifemo , di- 
» pinta divinamente da queH’Achemcnidc ; la morte della 
ii medesima regina, il che fa luogo a svariatissimi accidenti, 
ii Approdano alla Sicilia: son ricevuti da Alcestc. Enea fe- 
» steggia l’anniversario della morte di suo padre: giuochi 
» fatti 'per questo: fuoco appiccato alle navi. Viene a Cuma 
» La Sibilla lo conduce all’ inferno : visita suo padre : di- 
» gressioni continue. Approda all’Italia: gli è promessa La- 
» vinia, che era giurata a Turno: guerre co’ Latini. Enea 


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» va ad Evandro per aiuto: feste da lui celebrate , per cs- 
» sere stati salvati da ladron Caco : istoria di costui. Ve- 
» nere fa a Vulcano fabbricar Tarmi ad Enea. Torna con 
» Pallante e con aiuti de’ Rutuli ed Arcadi. Guerre con 
» Turno: Morte di Pallante c funerali magnifici : episodio 
» di Niso ed Eurialo. In cielo concilio degli dei sopra le 
» cose di Enea e d’ Italia. Istoria di Camilla c sua morte. 
» Dopo infiniti accidenti, Turno ed Enea in duello: è ucciso 
» Turno; e finisce il poema. 

Voi udiste un cenno delle infinite cose, che interven- 
» gono in questo fatto. Dov’ è l’unità qui ? Appunto tutto 
» mira ad un segno, siccome dissi; e però una 6 l’azione. 
» Ora quel medesimo che dissi di Virgilio , e voi ditelo 
» dell’ Iliade e della Ulissea d’ Omero; ed eziandio, se vo- 
» lete, del nostro Tasso. 

» Uosa M. Io vorrei quasi aggiugncre : che il poema 
» di Dante non pure è uno per la ragione testò allegata , 
» ma eziandio , quasi per unità di luogo : perocché anche 
» questo fu, comeché spartito in tre, in una medesima quasi 
» comprensione di luogo continuato. Egli fora la terra per- 
» (ino al centro, girandola a chiocciola. Passato il centro e 
» riuscitone all’altro emisfero , trova quivi alla terra con- 
» giunto e nato da essa , il monte del purgatorio ; per lo 
» quale montando , altresì quasi per iscala a lumaca per- 
« viene al paradiso terrestre; dove finisce quasi la giuris- 
» dizione del mondo nostro, uscendo fuori dell’azione delle 
» vicissitudini della terra; ed il monte entra quasi mettendo 
» la testa nel territorio, ovvero antiporta del paradiso cc- 
# leste. Di là una forza soprannatura lo innalza , a grado 
» a grado montando, fino al cielo empireo, fino a veder Dio. 
» Sicché questi tre regni tanto diversi sono insieme rag- 
» giunti c continuati: c Dante passò per tutti, quasi d’uno 
» in altro appartamento, senza uscir di casa. » 

Ora volendo dire qualche cosa dei due poemi d’ Omero, 
considero come primieramente quanto all’ Iliade l’ intento di 


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lui si è mostrare col fatto della guerra c sconfitta di Troia 
quanto di male arrechino le passioni sfrenate e i vizi dei re 
e dei popoli. Così Orazio (ad Loliium 1. I. ep. 2.) 

Fabula, qua Paridi s propter narratur amoretti 
Graecia barbariae lento collisa duello 
Stultorum regum et populorum continet aestus. 

Antenor ccnset belli praecidere causam: 

Quid Paris ? ut salvus rcgnet vivatque beatus 
Cogi posse negai. Neslor componere lites 
Inter Peliden feslinat et inter Atriden. 

Hunc amor , ira quidem communiter urit utrumque- 
Quidquid delirant reges, plectuntur Ackivi. 

Seditione dolis sedere alque libidine et ira 
lliacos intra muros peccai ur et extra. 

Ma se Omero intende di trattare di questi luttuosi fatti 
della guerra troiana fino alla completa sconfitta di Troia fatta 
dai Greci, perchè, dirà taluno, non accenna altro nel pro- 
porre il suo tema , che di parlare dell’ ira d’Achille ? Ciò 
fa per due ragioni 1.® per non dare al suo lavoro un prin- 
cipio troppo fastoso, come quel cotale deriso da Orazio, che 
cominciò Fortunam Priami cantabo et nobile bcllum ; che 
anzi neppur dice Omero di voler da sè parlar dell’ira d’Achille, 
ma ne richiese la dea Calliope a suggerirglielo, dicendo 
M ìjviv àuì!ìt OcX ThqXytoldea ' A 
OùAc/x«injv. 

Iram cane, dea, Pelidae Achillis perniciosam. 

In 2.° luogo perchè quest’ira appunto forma il cardine su 
cui s’aggira il poema, e gli dà l’unità. Achille fieramente 
sdegnato contro Agamennone che gli aveva ingiustamente ra- 
pita la schiava Briscida, si sottrae colla sua schiera dal com- 
battere contro i Troiani; ed i Greci per ciò ne soffrono 
lunghi, e gravi disastri. Placato finalmente Achille con preci 
e donativi, ritorna all’oste, e per lui i Greci ottengono la 
si lungamente sospirata vittoria. Perchè rivolta tutta l’ira 
contro i Troiani Achille vendica la morte del suo compagno 


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294 

Patroclo: uccide Ettore, lo trascina legato al suo carro in- 
torno alle mura di Troia , fa i funerali a Patroclo e resti- 
tuisce a Priamo supplichevole il cadavere del figliuolo di 
lui, Ettore. 

Nell’Odissea canta Omero il pregio della virtù, nè dalle 
vane lusinghe vinta, nè affranta dalle avversità: e prende 
a prototipo Ulisse. 

Rursus quid virtus et quid sapientia possit 
Utile proposuit nobis esemplar Ulyssem, 

Qui domitor Troiae multorum providus urbe s 
Et tnores hominum inspexit: latumque per aequor 
Dum sibi, dum sociis reditum parai , aspera multa 
Pertulit, adversis rerum immersabilis undis. 

Sirenum voces et Circae pocula nosti, 

Quae si cum sociis stultus cupidusque bibisset. 

Sub domina meretrice fuisset turpis et excors 
Vixisset canis immundus et amica luto sus. 

Così Orazio nella predetta epistola. 

CAPITOLO II 

CONFRONTO DEL POETA COLL’ORATORE. 

ARTICOLO I. 

In che convenga il poeta coll ’ oratore. 

Il poeta coll’ oratore in due cose principalmente con- 
viene; l.“ nel fine ultimo che l’uno e l’altro proponesi; 2.° 
nei mezzi che a tal fine conducono. 

In fatti è cosa a tutti manifesta , che l’ oratore , sia 
che si eserciti nelle opere minori, sia nelle maggiori, non 
mira ad altro che a questo nobilissimo scopo di persuadere 
altrui qualche utile verità. A ciò conducono le semplici 
narrazioni , a ciò l’ epistole o vuoi di ragion pubblica , o 


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295 

vuoi di ragion privata , a ciò le aringhe estemporanee e 
le dissertazioni didascaliche, a ciò la storia, a ciò finalmente 
le perfette orazioni. Onde da Cicerone meritamente ponsi 
l’ oratore nel sommo grado fra gli uomini , quasi cosa più 
che umana, da cui e le ottime istituzioni, e ogni ben pub- 
blico derivarono. Così egli nel I. de Oratore c. Vili. « Ne- 
» que vero mihi quidquam , inquit, praestabilius videtur, 
» quam posse dicendo tenere hominum coelus , mentes al- 
» licere, voluntates impellere quo velit , unde autem velit 
» deducere. Haec una res in omni libero populo, maxime 
» in pacatis tranquillisque civitatibus, praecipue semper flo- 
» ruit semperque dominata est. Quid cnim est aut tam ad- 
» mirabile, quam ex infinita multitudine hominum existere 
» unum, qui id, quod omnibus natura sit datum , vcl so- 
» Ius vel cum paucis facerc possit? Aut tam iucundum co- 
» gnitu atque auditu, quam sapientibus scntentiis gravibus- 
» que verbis ornata oratio et perpolita , aut tam potens 
» tamque magnificum , quam populi motus , iudicum reli- 
» giones, senatus gravitatem, unius oratione converti? Quid 
» tam porro regium, tam liberale, tam munificum , quam 
>• opem ferre supplicibus, excitare afflictos, dare salutem, 
» liberare periculis, retinere homines in civitate? Quid au- 
» tem tam neccssarium, quam tenere semper arma, quibus 
» vel tectus ipse esse possis, vel provocare improbos , vel 
» te ulcisci lacessitus? Age vero, ne semper forum, subsellia, 
» rostra, curiamque meditere, quid esse potest in otio aut 
» iocundius aut magis proprium humanitatis, quam sermo 
» facctus ac nulla in re rudis? Hoc enim uno pracstamus 
» vel maxime feris, quod loquimur inter nos, et quod ex- 
» primcre dicendo sensa possumus. Quamobrem quis hoc 
» non iure miretur , summeque in eo elaborandum esse 
» arbitretur, ut, quo uno homines maxime bestiis praestent, 
» in hoc hominibus ipsis antecellat? Ut vero iam ad illa 
» summa venìamus: quae vis alia potuit aut dispersos homines 
» unum in locum congregare , aut a fera agrestique vita 


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296 

» ad liunc humanum cuilum civilemque deducere, aut iam 
» constitutis civitalibus, Ieges, iudicia, iura describere? Ac 
» ne plura, quae sunt pene innumera, consecter, compre- 
» hcndam brevi: sic enim statuo, perfecti oratoris modera- 
» tione et sapientia, non solum ipsius dignitalem, sed et pri- 
» vatorum plurimorum , et univcrsac reipublicae salulem 
» maxime conlineri ». 

Non diverso certamente è il Gne inteso dal vero poeta: 
essendo come dice Orazio nella epistola ai Pisoni anitnis 
natura inventumque poèma iuvandis : ed il predetto insigne 
elogio clic fa Cicerone dell’oratore lo intende comune an- 
che al poeta, ed altrove apertamente lo esprime, come nel- 
l’orazione in favore del suo maestro Archia poeta, ove pcr- 
Rno dice, che il poeta nel giovare siffattamente agli uomini 
quasi divino spirita affiatar. Veggasi poi nella citala lettera 
di Orazio dal v. 391 al 407 (che qui per brevità non tra- 
scrivo), ove toccando dell’origine c natura della poesia de- 
scrive le grandi e salutifere opere prodotte dai sommi poeti. 

Che se pertanto uno ed il medesimo si è il fine ultimo 
e nobilissimo come dell’oratore, così del poeta, di giovare 
cioè all’uomo nella sua parte più essenziale col dirozzarlo 
e rimuoverlo dall’ignoranza e dal vizio, e guidarlo nel sen- 
tiero della virtù, e della vera sapienza ; conseguentemente 
anche i mezzi proporzionati a un tal Gne debbono essere 
i medesimi e comuni sì all’oratore si al poeta : quali sono 
rinvenire e scegliere argomenti c motivi atti a produrre nel- 
1’ animo altrui cosi segnalati effetti, e quindi opportunamente 
adoperarli. E però tutti i precetti dianzi esposti su i luo- 
ghi rcttorici, o sia sull’invenzione, sull’arte di ben comporre 
c ordinare le cose ritrovate , e sulla perfetta elocuzione ; 
tutti dico, nella sostanza Convengono egualmente all’oratore 
ed al poeta. In fatti noi nell’ esporre i predetti trattati ci 
siam sovente giovati delle parole stesse di Orazio, che dando 
i precetti dell’arte poetica, in brevi e lucidissime sentenze 
n’esprime il concetto, e mirabilmente imprimeli nell’animo 



^igi^edbii 


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297 

altrui. E però Cicerone stesso nell’ op. de Oratore afferma 
che fra l’oratore e il poeta non vi è essenziale differenza, 
ma solo accidentale. 


ARTICOLO IT. 

In che differisca il poeta dall’oratore. 

Differisce il poeta dall’oratore similmente in due cose; 
l.° nel fine prossimo e immediato, che l’uno e l’altro diret- 
tamente ha in mira, che per l’oratore è il vero, pel poeta 
è il bello. In 2.° luogo differiscono nel modo di adoperare 
i predetti mezzi, e sussidi dell’arte. 

In fatti l’intento dell’oratore si è dimostrare diretta- 
mente all’intelletto altrui ciò che è onesto ed utile a farsi, 
e ciò che è da evitarsi come inonesto e dannoso. E però 
a dimostrare c persuader questo tutte dispiega le forze del 
ragionare. Servesi egli bensì delle grazie della lingua, delle 
figure, delle immagini c di tutti quegl’ istrumenti dell’arte 
che valgono a dilettare e muover le passioni per indurre 
l’altrui volontà ad approvare ed accettar di buon grado quel 
partito che ei propone. Ma lutto ciò usa l’oratore come per 
indiretto studiandosi quanto può di celare l’ arte finissima 
ch’egli adopera. E però Cicerone pone questo come canone 
dell’arte, che nell’usar gli ornamenti rettorici e tutti gli altri 
sussidi atti a dilettare, faccia vista l’oratore di non inten- 
dere ad altro che a mostrare schiettamente il vero. Così egli 
de Orat. II. 77. « Et quoniam .... tribus rebus homines 
» a,d nostram scntentiam perducimus, aut docendo aut con- 
» cibando aut permovendo, una ex omnibus his prae no- 
» bis est ferenda, ut nihil aliud, ni si docere velie videamur : 
» reliquae duae sicut sanguis in corporibus , sic illae in 
» perpetuis orationibus fusae esse debent ». 

Il poeta al contrario, quantunque, come si è detto nel 
capitolo precedente , intenda anch’egli di recar giovamento 


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‘298 

all’altrui animo con qualche utile verità, pure ciò lo fa 
come sottomano : apparentemente non fa mostra se non di 
dilettare colla dolcezza dei versi, colle grazie della lingua, 
collo sfiorare le bellezze di natura per formarne le più vive 
e vaghe immagini. Onde dei sommi poeti suol dirsi , che 
sono pittori della natura : e però è bene indicato il fine ul- 
timo, e il fine prossimo c immediato dell’uno e dell’altro, 
dicendo: che il poeta delectando monet , l’oratore monendo 
delectat. 

Intendesi ora chiaramente, come se amendue non dif- 
feriscono nei mezzi eistrumcnti dell’arte, debbono nondimeno 
differire nel modo d’usarne. 

Quantunque le regole generali dell’invenzione, del com- 
porre e ordinare le cose , e della elocuzione sieno comuni 
all’oratore e al poeta ; pur tuttavia all’ estro c alla imma- 
ginazione poetica è concessa molta maggior libertà, che non 
sarebbe conveniente all’oratore. Onde suol dirsi, pictoribus 
atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas, non 
già che possano inventarsi e fingersi immagini , e cose si- 
mili ai sogni di un infermo, velati aegri somnia vanae fin- 
gantur specie s, ut nec pes nec caput uni reddatur formac. 
Non ut placidis coeant immitia; non ut serpente» avibus ge- 
minentur , tigribus agni. In somma s’accorda al poeta una 
maggior libertà, ma non già sfrenata e irragionevole: dabi- 
turque lieentia sumpta pudenter. 

Ma la diversità fra il poeta c 1* oratore non iscorgesi 
tanto nell’invenzione c nella disposizione, quanto nella elo- 
cuzione. Cosi riguardo alla proprietà de’ vocaboli e delle 
frasi è lecito al poeta usare di quelle antiquate che nella 
prosa non sarebbero oggimai ricevute dal comun della gente: 
comporne c foggiarne delle nuove, come praticaron i poeti 
latini e come sovente vediamo usato dali’Alighieri. Riguardo 
poi alle grazie e alle frasi più risentite e speciose , allo 
sfoggio degli altri ornamenti e massime di certi generi di 
figure e di tropi nati o da vivezza d’immaginazione, o da 



299 

forti passioni, sono quasi riservati e propri del poeta; all’ora- 
tore o non convengono allatto, o raramente e assai tempera- 
tamente. 

Quello poi in che sempre e al tutto differisce dall’ora- 
tore il poeta si è nelle leggi determinate dell’armonia. La 
musica è come l’anima della poesia: il poeta canta in versi. 
I versi poi sono foggiati diversamente l. # secondo l’indole 
varia delle lingue: come in greco e in latino per la quantità 
delle sillabe brevi e lunghe e per la varietà dei piedi for- 
mati dalle medesime: in italiano e in altre lingue moderne 
sono misurati i versi dal numero delle sillabe e armonizzati 
per gli accenti e per la rima. E in 2." luogo varia l’armo- 
nia della poesia secondo le varie specie dei versi, che usansi 
non già ad arbitrio, ma come la diversa natura dei com- 
ponimenti richiede. A confermare, ed a chiarir questo, of- 
fronsi opportune le osservazioni del gran maestro dell’arte 
poetica, Orazio, riguardo ai diversi metri latini, le quali 
con molta facilità possono adattarsi eziandio alla versifica- 
zione italiana. 

In breve ecco ciò che insegna Orazio. Diverse materie 
esigono diversi generi di versificazione. Le cose eroiche si 
celebrano cogli esametri; coll’elegia esprimesi il dolore, ed 
anche il sentimento di consolazione e di gioia per i desideri 
appagati: il giambico nato fatto ad esprimere la vivezza dei 
dialoghi, e delle azioni, ha il suo luogo proprio nella com- 
media, e nella tragedia; il carme lirico è atto agl’ inni di 
lode della divinità e degli eroi, come altresì ad esprimere 
il giubilo per le feste, pei giuochi, per le vittorie ecc. 

Gioverà ora riportare gli stessi versi d’ Orazio (epist. 
ad Pisones v. 72 ad 98). 

Res gestae regumque ducumque et t ristia bella 

Quo scribi possent numero monstravit Homerus. 

Versibus impariter iun et is, querimonia primum, 

Post eliam inclusa est voti sententia compos. 

Quis tamen exiguos elegos emiserit auctor, 

Grammatici certant, et adhuc sub iudice lis est. 


300 


A rckilochum proprio rabies armavit iambo. 

Hunc socci cepere pedem grandesque cothurni r 
Alternis aptum sermonibus , et populares 
Vtncentem strepitus et natura rebus agendis. 

Musa dedit /ìdibus divos puerosque deorum , 

Et pugiìem victorem et equum certamine primum 
Et iuvenum curas et libera vina referre. 

Descriptas servare vices operumque colores, 

Cur ego , si nequco ignoroque, poeta salulor? 

Cur ncscire , pudens prave , quam discere malo ? 
Versibus exponi tragicis res comica non vult : 
Indignatur item privati s ac prope socco 
Dignis carminibus narraci coena Thyeslae : 

Singula quaeque locum teneant sortita decenter. 
Intcrdum tamcn et vocem comoedia tollit , 

Iratusque Cbremes tumido delitigat ore: 

Et tragicus plerumque dolet sermone pedestri: 

Telephus et Peleus , cum pauper et exul uterque 
Proiicit ampullas et sesquipedalia verba 
Si curai cor spectantis tetigisse querela. 

ARTICOLO III. 

Considerazioni sul bello naturale e sul bello artistico, 
oggetto immediato del poeta. 

Essendo lo scopo immediato del poeta dipingere all’altrui 
fantasia coi più spressivi colori le bellezze del mondo fisico 
e morale a fine di allcttare, dilettando, i più schivi alla virtù 
e alla vera utilità: però stimo cosa opportuna di fare alcune 
considerazioni sul bello naturale e sul bello artistico. 

E quanto al bello naturale , considerando la cosa non 
in astratto , ma nel fatto concreto , noi vediamo come la 
natura c un sistema ordinatissimo al fine della conscrva- 


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301 

zione e del ben essere di tutto l’universo, c delle parti che 
lo compongono ; e che però essa è tutta vita , tutto moto. 

Ma in questo suo unico scopo di conseguire la conser- 
vazione ed il ben essere d’ogni cosa, a cagione delle infinite 
circostanze e vicissitudini che accadono, la natura è sva- 
riatissima nei mezzi, e nell’azione di essi mezzi che al pre- 
detto fine conducono. 

Ora l’ordinamento di tutte le cose a così ottimo fine, 
la semplicità, e la somma varietà de’ mezzi , che al preor- 
dinato fine egregiamente collimano , costituisce appunto il 
maraviglioso e bello spettacolo della natura. 

Questi in genere sono gli elementi del vero bello na- 
turale. Ma in siffatta università di cose pur tuttavia ve n’ha 
d’imperfette, deformi e viziose. E però considerando i singoli 
oggetti di natura , converrà dire , che ove scorgesi in un 
essere qualunque integrità o perfezione di parti (cioè che nulla 
manchi, e nulla siavi di soverchio) proporzione o consonanza 
fra le medesime parti; e una tale espressione e atteggiamento, 
onde chiaramente apparisca nel più vero c miglior modo di 
sua esistenza, ivi avrassi individualmente il vero bello na- 
turale. Così insegna S. Tommaso (I. p. q. 39. a. 8). dicendo : 
« Ad pulchritudinein tria requiruntur : primo quidem in- 
» tegritas, sive perfectio (quae enim diminuta sunt, hoc ipso 
» turpia sunt), et debita proportio sive consonaulia, et ite- 
» rum clarilas. Unde quae habcnl colorem nitidum pulchra 
-» esse dicuntur ». 

Ora passando al bello artistico, dico, che volendo l’uomo 
ritrarre al vero, e nel più bello loro aspetto gli oggetti e 
i fatti sì fisici come morali di natura, deve formare e mo- 
dellare i suoi concetti secondo cotesto esemplare. 

E primieramente , poiché havvi in natura un’ infinita 
varietà e gradazione di esseri più o meno perfetti; ed havvi 
altresì tanto nell’ordine fisico, quanto nel morale, oggetti 
sconci ed azioni vituperevoli; perciò l’uomo di genio, pre- 
scelti quelli di maggiore interesse e decorosi , deve inoltre 


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302 

raccogliere e sfiorare le sparse bellezze di natura a fine di 
comporle insieme, e formarsi la più perfetta e leggiadra idea 
del soggetto propostosi. Come appunto un abile pittore di 
paesi , propostasi a ritrarre una amena veduta campestre , 
va poi studiando qua e là altre bellezze naturali di alberi, 
di fonti, di laghi, di boscaglie, di animali per compiere e 
adornarne il suo quadro. 

Quindi dee dare l’artista al suo concetto quella semplice 
unità, di cui si è ragionato nella parte ll.c.l., risultante dalla 
sceltezza e perfezione dei mezzi, o sia delle parti, che compon- 
gono il tutto da noi ideato, e dalla loro proporzionalità, collo- 
cazione e collegamento, atto a formare l’intero nostro soggetto. 

Inoltre conviene dare a questo la forma, il carattere, 
1’ atteggiamento, l’ espressione , non pur solamente specifica 
(come sarebbe quella, che egregiamente espresse Orazio nella 
poetica riguardo al costume vario degli uomini secondo l’età, 
il paese, la condizione e l’ ufficio); ma l’artista intelligente 
darà altresì al suo soggetto il carattere , l’atteggiamento e 
l’espressione tutta propria e singolare, che lo distingua da 
ogn’altro. Il che mentre toglie la spiacevole uniformità , e 
tutto ciò che sarebbcvi di comune e di convczionale, dà 
eziandio alle cose l’evidenza, il moto, la vita. Finalmente 
trattare 1’ argomento con tale perspicuità , eleganza, natu- 
ralezza , quale richiedesi allo stile nel suo genere perfetto 
(vedi il tratt. dello stile ecc. Cap. I.). 

Le stesse [cose viziose poi opportunamente , e al vero- 
da mano maestra rappresentate , servir possono anch’esse a 
formare il bello artistico: e ciò per tre principali cagioni: 

1. °per la verosimiglianza. Imperocché dall’artista eccellente 
gli oggetti rapprcscntansi così verameute, che può dirsi con 
Dante (Purg. XII.). 

Morti li morti, e i vivi paren vivi 

Non vide me’ di me chi vide ’l vero. 

2. ° pel contrapposto, che come il chiaroscuro dà risalto al vero 
bello. Fa a proposito qui il bel passo di Lucrezio 1. II. 1. ecc. 


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• -4 


303 


Suave, mari magno, turbantibus aequora ventis, 

E terra magnum alteriti» spedare laborem : 

Non quia vexari quemquam est iocunda voluptas, 

Sei quibus ipse malis careas, quia cernere suave ’st. 
Suave etiam belli certamina magna tueri, 

Per campo s instructa, tud sine parte periclit 
Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere 
Edita doctrind sapientum tempia serena ; 

Despicere unde queas alios, passimque ridere 
Errare, atque viam palanteis quaerere vitae: 

Certare ingenio, contendere nobilitate, 

Noctes atque dies niti praestante labore 
Ad summas emergere opes, rerumque potiri. 

O misera s hominum menteis, o pectora caeca! 

Qualibus in tenebri s vitae, quantisque periclis 
Degitur hoc aevi quodeumque ’st .. . 

3.° Finalmente perchè il turpe e vizioso può essere 
causa occasionale e i strumentale , che perfeziona c dà il mas- 
simo splendore al bello morale, alle virtù eroiche; come le 
marciose membra di Giobbe, e l' insultante rimprovero della 
sua moglie , raffina e magnifica 1’ imperturbata di lui pa- 
zienza. E da che altro scorgesi l’eroismo delle virtù, se non 
dal sostenere con invitta costanza , e con animo tranquillo 
ogni più dura pruova ? A siffatta virtù propriamente adat- 
tasi la similitudine d’ Orazio Carm. 1. IV. Ode IV. 

Duri s ut ilex tonsa bipennibus 
Nigrae feraci frondis in Algido 
Per damna, per caedes ab ipso 
Ducit opes animumque ferro. 

Così l’animo costante nella virtù quanto è più oppresso, tanto 
più luminoso risplende. 

Merses profundo, pulekrior eventi. 

Dalle quali cose dirittamente deducesi, che come il bello 
di natura, cosi il bello artistico, che da quello derivasi, c 
a quello perfettamente consuona , non è punto arbitrario , 


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nè variabile a seconda de’ tempi , de’ luoghi e dei costumi 
degli uomini, ma da norme e confini determinati e immu- 
tabili contenuto. 


CAPITOLO III. 

* 

A TUTTI I CULTORI DELLE BELLE LETTERE SI ADDICE 
LO STUDIO DELLA POESIA. 

In qualsivoglia ramo di scienze c di arti liberali , ri- 
cbicdonsi per bene apprenderle ed esercitarle singolari doti 
di Aatura, studio profondo, lunghe e laboriose esercitazioni; 
c però a pochi è dato di pervenire al sommo della per- 
fezione. Che se ciò avverasi in ogn’ altra disciplina, molto 
più nell’arte oratoria e nella poetica, per le quali è neces- 
saria squisitezza ed eccellenza d’ ingegno c di gusto; ed il 
corredo di cognizioni d’ogni maniera (1). L’arte poetica poi 
questo ha di proprio e singolare, che se nelle altre scienze 
ed arti , e nella stessa arte oratoria , si danno molli gradi 
inferiori al sommo, lutti pure lodevoli ed utili, nel poeta 
non si ammette mediocrità, ma o eccellenza, o nullità di- 
spregevole. Inculca ciò altamente Orazio al maggior dei 
Pisoni, dicendo (v. 367. ec.) 

Hoc libi dictum 

Tolte memor : certis medium et tolerabile rebus 
Recte concedi: consultus iuris et aclor 
Causarum mediocris abest virtute diserti 
Messalae, nec scit quantum Cascellius Àulus : 

Sed tamen in pretio est : mediocribus esse poetis 
Non homines non di , non concessere columnae. 

La ragione di ciò apparisce chiaramente dall’oggetto imme- 
diato che proponsi il poeta, di rappresentare cioè all’altrui 
fantasia nell’ aspetto più vivo e lusinghiero il bello ideale 

(1) Vedi Cic. de Orai. I. I. e io Brulé, ed Orazio epis. ad Pisones. 


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305 

raccolto dalle sparse bellezze di natura , c cosi dilettando 
rendere amabile la virtù , odioso il vizio , cd infiammare 
l’animo di chi sente, alle più ardue ed utili operazioni. Or 
se una tale rappresentazione e pittura sia smorta , senza 
espressione, senz’anima, o grottesca, non è al certo atta a 
produrre così sublimi effetti, ma piuttosto ecciterà il riso, 
il disprezzo, la noia, il sonno. 

Ut gratas inter mensas symphonia discors 
Et crassum unguentum et sardo cum melle papaver 
Offendunt : poterat duci quia coena sine istis, 

Sic animis natum inventumque poema iuvandis, 

Si paullum a summo decessi t, vergit ad imam. 

Ora qui nasce un gran problema, se sia cioè da con- 
sigliarsi o no ai giovani lo studio della poesia. Le ragioni 
in contrario sono in l.° luogo la predetta somma difficoltà 
di divenire eccellente nell’arte, conciossichè mediocrità non 
si ammette. 2.° Quantunque poi taluno per avventura giun- 
gesse ad una tale eccellenza, pure la poesia non darebbegli 
verun utile collocamento sociale. Che anzi 3.° lo studio dei 
poeti può facilmente esser dannoso, e ciò per due capi; l’uno 
si ò perchè col diletto che arreca, aliena di leggieri l’animo 
dagli studi gravi e severi, necessari per abilitarsi a qualche 
utile professione; l’altro si è il pericolo a cui si espone la 
gioventù per la lettura dei molti licenziosi poeti , maestri 
detestabili di dissolutezza e di empietà. 

A tutte queste in apparenza gravissime accuse rispondo 
col comune avviso dei sapienti di tutte l’età, che, usate le 
debite norme, lo studio della poesia classica è a tutti i cul- 
tori di belle lettere utilissima, e quasi direi necessaria. £ 
cominciando dall’ ultima difficoltà sul pericolo di guastarsi 
i giovani nel costume e nelle sane massime, dico, che una 
tale accusa contro i poeti (per lasciar da parte la pittura 
e la scultura) compete egualmente, ed anche a più forte ra- 
gione allo studio dei filosofi, dei teologi e dei varii prosa- 
tori, fra i quali molti ve n’ ha che co’ sofismi e col fascino 

20 


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306 

della eloquenza spargono il veleno della immoralità c del- 
l’irreligione. Perchè dunque molti si abusano delle scienze 
c delle arti, c danno al pubblico opere perniciose; per que- 
sto dovrà chiudersi l’adito a così fatti studi ? Niuno, se pur 
non delira, dedurrà una tal conseguenza. Ma rimedio con- 
tro cotesta peste, come nelle altre scienze ed arti, così nella 
poesia, si è quello usato sempre in ogni età dai savi cultori 
della gioventù , di scegliere gli autori e le opere in ogni 
senso ottime, e queste sole proporre ad esemplari. 

Quanto poi all’altro pericolo, che l’amenità e dolcezza 
della poesia possa alienare gli animi dagli studi gravi e se- 
veri , dico , che ciò potrebbe avvenire , se si lasciassero i 
giovani senza guida e senza freno scorrere pc’ campi della 
poesia, non però se congiungasi Io studio della poesia, come 
è solito, colle altre discipline più severe. 

Ora coltivandosi la poesia unitamente agli altri studi, 
e su scelti ed ottimi esemplari, essa è di grandissima c mol- 
tiplice utilità: l.° perchè la poesia serve di un onestissimo 
sollievo dell’animo in altri studi e occupazioni affaticato: 2.° 
perchè in modo dilettevole s’ insinuano quelle grandi mas- 
sime che valgono a ben coltivare la mente e il cuore dei 
giovanetti: 3.° perché lo studio de’ poeti serve a perfezio- 
nare l’arte oratoria. Cicerone confessa di avere fin dai primi 
anni con ardore atteso allo studio dei poeti greci c latini, 
e che lungi d’avcrlo distratto dalle occupazioni più gravi, 
eragli per contrario stato di somma utilità. Così egli par- 
lando della poesia prò Archia VI. « Ego vero fateor , me 
» his studiis esse deditum. . . Me autem quid pudeat, qui 
» tot annos ita vivo, iudices, ut ab nullius unquam me tem- 
» pore et commodo, aut otium meum abstraxerit, aut vo- 
» luptas avocarit , aut denique somnus retardarit ? Quare 
» quis tandem me reprchcndat, aut quis mihi iure succen- 
» seat, si quantum ceteris ad suas res obeundas, quantum 
» ad festos dies ludorum celebrandos, quantum ad alias vo- 
» luptates et ad ipsam requiem animi et corporis concedi- 



307 

» tur tcmporum , quanlum dcniquc alcae, quantum pilae, 
» tantum mihi egomet ad haec studia recolenda sumpsero ?» 

Ma quel che più monta si è P utile positivo e segna- 
latissimo che la lettura studiosa dei poeti classici arreca 
quanto alla morale, e quanto alla letteratura stessa. 

Cotesti sommi poeti colgono il punto : e però miscent 
utile dulci, et delectando monent, cioè insegnano le grandi 
verità, non già al modo speculativo dei filosofi, ma in modo 
tutto pratico e tale da innamorare della sapienza c della one- 
stà. Il gran padre della Chiesa S. Basilio, che emulò, e a 
giudizio di sommi uomini superò nella eloquenza eziandio 
Io stesso Demostene , commenda come utilissimo Io studio 
dei poeti classici. Nota poi in particolare, come gli eccel- 
lenti versi di Esiodo, ove si descrive la via del vizio a tutti 
aperta, piana e seminata di fiori, al contrario la via della 
virtù erta e difficile ; ma quella al termine ignominiosa e 
misera, questa gloriosa e felice, sono un ottima lezione ai 
giovani, a non lasciarsi ingannare dall’apparenza, ma ad intra- 
prendere e seguire animosi il sentiero della vera gloria. Ag- 
giunge poi di Omero che gli egregi di lui poemi debbono 
considerarsi come una lode continuata della virtù. Il che 
corrisponde a ciò che ne disse Orazio nella bellissima sua 
Epistola II. Lib. I. a Lofi io , ove non dubita di preferire 
Omero, quanto agl’insegnamenti morali, ai più insigni filo- 
sofi, dicendo di lui, 

Qui quid sit pulchrum , quid turpe , quid utile, quid non, 

Plenius ac melius Chrysippo et Crantore dicit. 

E Cicerone, nella lodata orazione prò Archia, parlando dello 
studio delle amene lettere e massime della poesia, dice che 
dai grandi poeti greci e latini avea imparato i più belli esempi 
di virtù, ed erasi acceso di amore ad imitarli. Così egli VI. 
« Nisi multorum praeceptis multisque literis mihi ab ado- 
» lescentia suasisscm , nihil esse in vita magnopcre expe- 
» tendum, nisi laudem atque honestatem: in ea autem per- 
» sequenda omnes cruciatus corporis, omnia pericola mor- 


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308 

» tis alque exilii parvi esse ducendo , nunquam me prò 
» salute vestra in tot ac tantas dimicationcs, atque in hos 
» proiligatorum hominum quotidianos impetus obiccissem. 
» Sed pieni sunt libri, plenae sapientum voces, piena excm- 
» plorum vetustas , quae iacerent in tcnebris omnia , nisi 
» lilerarum lumen accederei. Quammullas nobis imagines 
» non solum ad intucndum , verum etiam ad imitandum 
» fortissimorum virorum expressas scriptores et graeci et 
» latini reliquerunt? Quas ego mihi scmper in administranda 
» republica proponens, animum et mentem meam ipsa co- 
» gitatione hominum excellentium conformabam ». 

Giova finalmente lo studio della poesia a perfezionare 
lo stile della prosa. Nè si troverà nessun grande oratore che 
non sia avidissimo della lettura e dello studio dei sommi 
poeti. £ Cicerone nella predetta orazione confessa che la 
sua voce e facoltà di dire si era confermata e nutrita collo 
studio dei poeti. E a chi gli opponeva , altra cosa esser 
l’arte oratoria , altra cosa la poesia , risponde r non dover 
ciò recar maraviglia. < Etenim omnes artes , quae ad hu- 
» manitatem pertinent, habent quoddam commune vinculum, 
» et quasi Cpgnatione quadam inter se contincntur ». 

In fatti , dice lo stesso Cicerone dove che sia ; come 
chi lungamente soggiorna in un clima di aria pura , e va 
passeggiando- al .sole, a poco a poco si riscalda , si colora , 
e s’ invigoriscej4«c&si eziandio avviene a chi tiene a mano gli 
esemplari d£V-$®tnn»i poeti, e spesso conversa con esso loro 
di guisa che'ihsensibilmente il suo stile si rende puro, acqui- 
sta vigore, robustezza, eleganza, larghezza e perfezione. 

E però il P. A. Cesari nella sua egregia opera sulle 
bellezze, di Dante (Purg. XIX. p. 343. 344.) pone savissi- 
mamente questo canone, dicendo : che come per fare i bei 
versi italiani ottimo avviso è di leggere mollo e assai tri- 
tamente le prose del Passavanti, le vite de’SS. Padri, i fioretti 
di S. Francesco, imparandosi da questi autori la proprietà 
delle voci e ’l natio lume dell’eleganza; così a scrivere in 


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309 

prosa , il primo latte devesi prendere da cotesti prosatori. 
Fatto questo, se vuoisi dare il colore, il nerbo , l’efficacia 
del parlar vivo in prosa, c ragionevolmente figurato e spres- 
si vo, leggansi i poeti e Dante singolarmente. 

Adunque da tutte le cose fin qui discorse sembrami 
a tutta ragione poter concludere, che quantunque sia cosa 
difficilissima divenir vero poeta , nondimeno a tutti i cul- 
tori delle belle lettere conviene lo studio della poesia. 
Quindi vediamo che in tutti i licei delle colte e civili na- 
zioni è inseparabilmente ordinalo e congiunto in un colla 
prosa lo studio dei grandi poeti (1). 


(1) Chi bramasse vedere questo argomento svolto con molta ampiezza, può 
leggere l’opera del chiaris. P. Lodovico Tommasini, Dello studio de' poeti. 





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INDICE 


Prologo I. Delle arti estetiche , e del loro nobilissimo 

ufficio. pag. 5 

Prologo II. Dell’arte rettorica, delle sue parti e dell’or - 
dine di tr att arle , , , , , , » 13 

LIBRO I. 

DELLA ELOCUZIONE. 

Cap. I. Della proprietà delle parole e delle frasi. » 18 

Art. I. Che le parole e le frasi sieno proprie esclusi- 
vamente della lingua che parlasi. . » » 

Art. II. Che le parole e le frasi sieno di buon metallo, 

cioè proprie delle persone colte ed oneste.» 21 
Art. III. Che le parole e le frasi adoprinsi nel loro 

proprio e nativo significato. » 22 

Cap. II. Dell’ unione logica delle parole. ...» 26 

Art. I. Dell’ unione logica considerata in una sola 

proposizione » » 

§. I. Della natura e delle proprietà essenziali a qual- 
sivoglia proposizione semplice . . » » 

§. II. Delle proposizioni composte » 27 

Art. II. Dell’unione logica delle proposizioni in un di - 
scorso -Continuata. . . > . . » 29 

§. I. Unione logica delle proposizioni fatta per ap- 
posizione » » 

§■ II. Unione logica delle proposizioni fatta per de - 
duzione. . . . . . * i = » 30 


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312 

Cap. Ili, Unione armonica ditta.. da .’ Xafiai iunctura et 

numerus. , . . . . . . . » 

ArL I. Dell’armonia in generale di tutto il discorso ■» 

Art. II. Della forma armoniosa dei periodi. . . » 

§. I. Che cosa sia il periodo e quante specie ve 

n abbia. , , , , , , , , » 

§. II. Regole per la buona formaxion de’ periodi. » 

Art. III . Della elocuzione per inciti, o sia in modo tron - 
co e vi brato. . . , . . . , a 

Cap. IV . Delle figure rettoriche » 

ArL I. Dei tropi » 

§. I. Tropi per somiglianza , metafora e allego- 
ria , • s » • , , » , . » 

§. II. Tropi per dissomiglianza , ed opposizione , 

ironia, e sarcasmo » 

§ . III. Tropi per attenenza fra’termini relativi, me - 
tonimia e sinecdoche, , , s , » 

Art , lì. Delle figure propriamente dette. . . . » 

§. I. Delle figure che derivano da forte passione. » 

§. II. Delle figure che derivano da viva immagina- 
zione. , , , . , , , , , » 

§■ IH. Delle figure prodotte da sagacità d’ingegno.» 

Gap. V. Dell’ amplificazione rettoricu » 

Art. I. Del modo d’amplificare una cosa considerata 

per se sola » 29 

Art. II. Del modo d’ amplificare una cosa in relazione 

con altre. . , . , . . . . » 83 

Cap. VI. Delle sentenze e dei motti arguti. . . » 86 

LIBRO II. 

dell'arte di comporre e ordinare il discorso. 

Cap. I. Delle qualità essenziali a qualsivoglia compo- 
nimento. . . . . . . . . a 9Q 


BBS « £B K B BBft BB BBB 


313 

Cap. II. Della narrazione i storica » 93 

Art. I. Veracità della narrazione istorica. » 94 

Art. II. Regole per ben condurre e coordinare la nar - 
raz ion e • = » • = = » . » » 96 

Art. III. Varia forma di elocuzione che può darsi alla 

narrazione. . . . . , . s » 99 

Cap. III. Della narrazione mitologica o eia della favola .» 107 

Cap. IV. Delle lettere . ! , . » . . , , a._114 

Art. I. Lettere di ragion privata » 115 

Art. II. Lettere di ragion pubblica » 120 

Art. III. Esempi di lettere latine e italiane di ragion 

privata » 122 

Cap. V. Delle orazioni estemporanee , dette comunemente 

allocuzioni, parlate, aringhe . . » 148 

Recansi sei parlate di T. Livio colla tradu - 
zione a fronte del testo, in lingua ita - 
liana, e con annotazioni rettoriche. » 150 
Cap. VI. Dell’orazione propriamente detta ...» 185 

Art. I. Dell’esordio . , . s , , , , . . a a 

Art. II. Della contenzione » 189 

Art. IIL Della perorazione » 198 

Art. IV. Come abbia luogo nell’ orazione la parte pa - 
tetica . : n 201 

Cap. VII. Avvertimenti pratici a ben comporre . . » 203 

APPENDICE 

TRATTATO DELLO STILE. 

Parte 1. Dello stile in generale » 207 

Cap. un. Delle qualità che a qualsivoglia stile perfetto 

appartengono » 208 

Art. I. Della perspicuità dello stile » » 

Art. II. Della eleganza e ornamento dello stile . » 211 

Art. III. Della naturalezza e convenienza dello stile » 213 


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314 

Parte II. Dello stile in particolare » 215 

Cap. I. Dei diversi generi di stile » 215 

Art. I. Dello stile sublime , . = , , , . a a 

Art. II. Dello stile mezzano e temperato . . . » 21 S 

Ari. III. Dello stile semplice » 219 

Cap. II. Delle varie modificazioni dei tre predetti generi 

di si ile , . . . . , ...» 221 

Art. I. Della varietà di stili subalterni ...» a 


Art. II. Del modo di governare quanto allo stile i di- 
versi ingegni secondo la natura indi- 
viduale di ciascuno » 222 

Cap. III. Regole pratiche per acquistare l’ottimo stile » 22fi 

Art. I. Scelta degli esemplari da studiarsi . . » a 

Art. II. Modo di studiare siffatti esemplari e di esercitar- 
si gradatamente dietro le loro orme. » 227 

LIBRO III. 

DELLA I N V E i l Z I Q W E... .BE-T..T.01UCA-; 

Prologo. Che intendasi per invenzione rettorica, e par - 
tizione delle materie . .... a 229 

Trat. I. Della invenzione rettorica in generale ■ » 230 

Parte I. Topica rettorica rispetto all’ argomentare . » 232 

Cap. I. Delle precipue facoltà dell’ anima umana. » » 

Cap. II. Delle principali operazioni dell’intelletto , e dei 

vocaboli , co’quali vengon significate » 235 

Cap. III. Dei luoghi onde trar si possono gli argomenti » 239 

Art. I. Dei luoghi rettorici intrinseci . ... » 240 

Art. IL Dei luoghi rettorici estrinseci . . . . » 255 

Parte II. Topica rettorica rispetto alle passioni ed ai co - 
stumi degli uomini . . . a 257 

Cap. I. Della natura e delle principali specie delle 

passioni » » 


315 



no dalle diverse passioni . . . 

» 

262 

CaD. LLL Della varia indole e del carattere vario delle 



passioni . 

» 

265 

Art. L 

Secondo il diverso temperamento degli uomini 

)) 

h 

Art. IL 

Secondo le diverse età dell’uomo. . . , 

Jì 

270 

Art. LLL Secondo lo stato , e le abitudini diverse degli 


uomini . * , , , . . . . 

n 

273 

Cap. DL Del modo di trattar le passioni . . . 

)) 

276 

Art. L 

Teoremi su cui fondansi le regole pratiche 

» 

» 

Art. IL 

Regole pratiche di trattar le passioni . 

& 

278 

Trat. IL Dell’ invenzione rettorica in particolare . 

a 

284 

Cap . I. 

Dei diversi generi di componimenti 


)) 

Art. L 

Dei diversi generi di orazioni .... 

m 

)) 

Art. IL 

Dei diversi generi di poemi 

» 

287 

Art. III. 

Considerazioni sulle quattro più insigni epopee , 



di Dante , di Virgilio e dell’ Iliade 

e 



Odissea_d’ Omero . , . . . . 

n 

290 

Cap— IL 

Confronto del poeta coll’ oratore . . 

» 

294 

Art. L 

In che convenga il poeta coll’oratore . 

» 

)> 

Ari. IL 

In che differisca il poeta dall’ oratore 

)> 

297 

Art. III. 

Considerazioni sul bello naturale, e sul bello 


artistico , oggetto immediato del poeta 

» 

300 

Cap— UL A tutti i cultori delle belle lettere si addice lo 



studio della poesia 

» 

304 



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ERRATA 


CORRIGE 


Pag. 42 lin. 5 Regola 

» 48 » 19 pugnanterque 

» 55 » 19 cristiani 

» 64 » 21 Creme 

» 79 » 21 allaltaron. 

» 80 » 8 anelante!» 

» 81 » 25 Tessalia 

» 86 » 4 exaurientur 

» 105 col. 2*. 4 sepolturam 

» 118 » 29 addictiuncula. 

» 161 » 19 posizione 

» 185 » 14 esordio 

» 225 » 35 et sonos 

» 266 » 17 nei primi 

» » 18 nei secondi 

» 282 » 2 come 


Regole 

pugnaciterque 

cristian 

Chreme 

allattarono. 

anhelantem 

Thessalia 

exhaurientur 

scpulturam 

adiectiunculà 

proposizione 

esordio 

ed inanes sine mente sonos 
nei secondi 
nei primi 
ma come 


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MI1IL OBSTAT 

Joannes Simeoni Protonotarius Apostolici» Censor Deputati». 
IMPRLMATDR 

Fr. Ilieronymus Gigli Ord. Praed. S. P. Ap. Mag 
IMPRIMATUR 

Fr. Ant. Ligi Archiep. Icon. Vicesgerens 


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