ADRIANO TILGHER HOMO FABER STORIA DEL CONCETTO DI LAVORO nella civiltà OCCIDENTALE ANALISI FILOSOFICA DI CONCETTI AFFINI ROMA libreria di scienze e lettere piazza madama, 19-20 1929 I PROPRIETÀ LETTERARIA Tipografi!; del Dott. Giovanni nardi AI MIEI NIPOTINI CLAUDINA VINCIGUERRA MAR TAPINA e CLAUDIO CATARINELLA PERCHÉ SI RICORDINO DELLO ZIO QUANDO, PIÙ in LÀ CON GLI ANNI, SCOPRIRANNO NEL LAVORO CHE PIACE LA LEGGE IL SENSO LA LUCE DELLA VITA r \ I. Il concetto di lavoro nelle civiltà CRECA e romana. I Greci sentirono il lavoro essenzialmente come chekna r : K ba8terebbe " dÌmostrarJo H fatto parola che m greco significa lavoro, ponos ha k StCSSa ^lla parola latina polZ £ T P ° nOS l qUCll ° StCSSO 9en8 ° di compilo pesante grave che nelle parole italiane fatica, travaso £”°ch T qUe8 ‘° Sen8 ° n ° Ì ' noa lo attacchiamo f-»o ^^"“S Ùba88Ì C degradaDtÌ /«- ia>, e per i Greci, invece, esso andava inseparabilmente congiunto ad ogni specie di la¬ voro materiale. Di questo concetto greco del lavoro buone e co- Piose testimonianze ci offrono poeti e filosofi. Se¬ condo Omero, gli Dei odiano gli uomini, e per questo appunto li obbligano a lavorare. Per Seno- fonte J lavoro è il prezzo di dolore al quale sol¬ tanto gli Dei ci vendono tutti i beni. Esiodo bia- «mia. ai, 1 ozio e la mendicità, predica e inculca. SÌ, il lavoro, e « Lavora! », è il precetto in cui si raccolgono i comandamenti della sua etica di pic¬ colo propriclario agricolo, ma non perché ricono¬ sca al lavoro pregio o dignità in sé e per sé, bensì solo perché il lavoro è Punico mezzo per liberarsi dalla nera lame e dalla soggezione ai ricchi e po¬ tenti e per giungere al benessere, che conferisce possibilità di essere buono e giusto. Anche per lui somma felicità sarebbe vivere senza lavorare, e questa felicità fu di tempi passati e sarà, forse, di tempi futuri, ma gli uomini sono caduti in odio agli Dei. e questi lian sepolto sotto terra il cibo, e se gli uomini vogliono procurarsene debbono lavorare. È dottrina generale dei pensatori greci che le arti meccaniche abbrutiscono l’anima e la rendono inetta a pensare alla verità ed a prati¬ care la virtù. Solo l’agricoltura non è indegna del cittadino, perché, garantendogli la sussistenza, ne fonda 1 autonomia, supremo ideale delPariima el¬ lenica. Questo atteggiamento dello spirito greco verso il lavoro è causa ed elTetto insieme dell’istituto della schiavitù, base fondamentale della società greca, nella quale il lavoro manuale era affidato per la più gran parte agli schiavi. Il disprezzo in cui questi erano tenuti aumentò ancora quel di¬ spregio e quell'orrore del lavoro materiale da cui, come da sua radice, la schiavitù era sorta. E, di riflesso, cade sui liberi artigiani e lavoratori ma¬ nuali, tenuti anch essi poco più da conto che gli schiavi. Il lavoro, è, ingomma, pel Greco un ma¬ lanno inevitabile almeno « fino a quando_scrive ironicamente Aristotile — le spole andranno da sé e i plettri faranno risonare da soli le cetre ». E Platone e Aristotile giustificano la schiavitù con la necessità che una parte, la maggiore, delTuma- mta sia addetta al duro ufficio di trasformare la materia per la soddisfazione dei nostri bisogni, Perché un’altra parte, la minore, gli eletti, possa esercitare le pure attività dello spirito: l’arte, la filosofia, la politica. Che lo spirito greco sentisse il lavoro come disgustevole fatica cui si deve, se si può, sottrarsi rovesciandola su altri, è necessaria conseguenza della generale esperienza e visione ellenica del mondo. Per il Greco (l’ho dimostrato ne La vi¬ sione greca della vita) il mondo esterno delle cose e degli oggetti è divenire senza fine di fenomeni che sorgono e trapassano, nascono e muoiono, si generano e si corrompono, girando continuamente in circolo sopra sé medesimi, senza principio né fine, in una vicenda incessante, eterna e vana. Salvarsi dall’oceano in perenne tempesta del mondo esteriore e ritirarsi nelle profondità della propria anima, sottratta al cangiamento, assorta in una inalterabile identità: tale l’ideale che il Greco as¬ segna alla vita. Perciò qualunque attività che metta in stretto contatto Io spirito con il mondo dei feno¬ meni appare ai Greci necessità dolorosa ed umi¬ liante, da ridurre al minimo possibile, e, al limite. da eliminare del tutto. Per il Greco oggetto degno dello spirito è la verità, e la verità egli la concepi¬ sce come un mondo ideale esistente in sé. prima, fuori e indipendentemente dallo spirito, sottratto al tempo e al mutamento, che lo spirito può cono¬ scere ma non mutare, oggetto di visione pura, gra¬ zie alla quale lo spirito s’immerge nell’oggetto e fa tutt uno con esso. In una simile visione del mondo non c’è posto pel lavoro materiale, che mescolando l’anima alla materia e contaminandola col contatto di essa, l’allontana dalla visione del¬ l'idea: esso è un male inevitabile da ridursi al mi¬ nimo, e, al limite, da sopprimere completamente. Ponendo l'uomo necessariamente a contatto del¬ la materia, il lavoro, sia dello schiavo sia del libero artigiano, è nemico della virtù di cui di- strugge le radici nell’animo: « La costituzione per¬ fetta non farà mai cittadino un operaio mecca¬ nico » (Aristotile, Politica , III, in, 5). E le costi¬ tuzioni in cui questi han la prevalenza erano giudicate da Aristotile le peggiori ( ibid. IV, x, 12). È anche per questo che i Greci, i quali ebbero in altissimo grado il rispetto della Scienza, e della Scienza esatta furono anzi i primi e veri creatori, si curarono assai poco delle sue applicazioni pra¬ tiche, e le ebbero a vile, come quelle che mescola¬ vano la purezza dèlie idee alle cose corporali. Uno dei più grandi fra i loro scienziati, Archimede, le ritenne « per la maggior parte scherzi ed accessori della Geometria » (Plutarco, Vita rii Marcello, 14). — 11 — Perfino il lavoro artistico fu tenuto a vile dai Greci, e Plutarco dice che nessun giovane bennato avrebbe voluto essere un Fidia o un Politteto. Identica, in fondo, a quella dei Greci è la dot¬ trina dei Romani sul lavoro, rappresentata spe¬ cialmente da Cicerone. Per Cicerone sono degni di uomo libero innanzi tutto l’agricoltura, poi il commercio in grande, soprattutto se mette capo a un onorevole ritiro nella pace dei campi. Tutte le altre arti sono vili e disonoranti. Le arti mec¬ caniche non meno che il piccolo commercio, la locazione delle proprie braccia noti meno che l’usura. Esse avviliscono lamino asservendolo alla ricerca del guadagno e ponendolo nella dipen¬ denza d’altri (De officiis, T. 42). In Virgilio si adombra — Giuseppe Bottai ha avuto ragione di insistervi — una concezione del lavoro come con¬ dizione non solo di grandezza nazionale e poli¬ tica, ma anche di vita piena e degna, senza la quale I uomo inon sarebbe uomo ma bruto. Sotto il regno di Saturno — canta Virgilio — la terra produceva da sé il necessario, sì che gli uomini itnbestiavano nel torpore, ma Giove seminò di difficoltà la vita e punse il cuore degli uomini con gli affanni per obbligarli ad uscire dall'ozio e ad inventare sotto lo stimolo del bisogno le varie arti. ( Georgiche, I). Il Rinascimento riprenderà e svilupperà in organismo compiuto e coerente que¬ sta felice intuizione virgiliana del lavoro come fattore massimo dell'umanità dell’uomo. 4 — 12 — Alla stessa valutazione che il lavoro va soggetta la ricchezza. Orientata nel senso di porre a su¬ premo ideale della vita l’autarchia dell’individuo, la sufficienza e contentezza di sé, la più grande possibile assenza di bisogni e indipendenza da ogni cosa esterna, l’etica antica guarda alla ric¬ chezza con diffidenza massima. E se pochi seguono Antistene nella intransigente affermazione dell’as¬ soluta incompatibilità di ricchezza e virtù, la co¬ mune opinione si orienta nel senso di dichiarare povertà e ricchezza cose indifferenti alla virtù e alla felicità, buono o cattivo essendo l’uso che se ne fa: è la teoria dello Stoa medio, che il Neopla¬ tonismo fa sua. jUn po più in là si spingono i mo¬ ralisti romani (Seneca e Cicerone), i quali consen¬ tono al Savio di possedere, anzi di ricercare, la ricchezza, ma solo in quanto mezzo all’esercizio delle virtù sociali di generosità, splendore e così via. Media fra la recisa negazione di Antistene e la larga tolleranza degli Stoici romani è la teoria di Aristotile, che concede, sì, l’acquisto di ric¬ chezza, ma solo nei limiti dei bisogni naturali, e biasima come versante nell’illimitato ogni ulteriore acquisto di ricchezza, specie se in denaro. Intorno a questa di Aristotile, come intorno ad un centro ideale, oscillano, deviandone ora per più ora per meno di rigore, le teorie degli antichi moralisti sulla ricchezza. II. Il concetto di lavoro nella civiltà ebraica. Come all’anima greca, così all’anima ebraica il lavoro appare essenzialmente pena, fatica, tra¬ vaglio. Ma mentre Tanima greca non sa darsi ra¬ gione del duro destino che obbliga l'uomo a lavo¬ rare, così come e perché non sa rispondere alla domanda: — perché dalle beate sedi della sua pa¬ tria ultramondana l’anima decadde quaggiù in terra? perché accanto e fuori dell’Idea la Mate¬ ria? — l’anima ebraica a quella domanda sa dare una risposta : — l'uomo è condannato a lavorare perché deve espiare il peccato originale commesso dai suoi progenitori nel Paradiso Terrestre (Ge¬ nesi, ni, i7-i9). Se l’uomo — dice il Talmud — non trova il cibo come le fiere e gli uccelli, ma se lo deve gua¬ dagnare, ciò è dovuto al peccato (Kidduscin, 82). Il lavoro resta così, come per i Greci, un duro travaglio, ma, cessando di essere necessità cieca e fatale, diventa una pena, una espiazione, grazie alla / — 14 — quale 1 uomo riscatta il peccato degli avi e ricon¬ quista la perduta dignità spirituale. Nell’intuizione ebraica della vita il lavoro così acquista pregio, dignità, significato. Gli Ebrei non vedevano lavora¬ tori intenti all’opera dei campi senza salutarli e benedirli (Salmo 129). Ma il lavoro resta pur sem¬ pre un duro giogo, pesante a portare, e YEccle - siuste sospira : « la fatica dell’uomo non sazia l’anima ». Legge dell uomo, il lavoro non è legge di Dio. li attività divina che ha creato il mondo nulla ha a che fare con l’umano lavoro. Questo è travaglio; quella è quasi gioco, libera esplicazione di una energia infinita che non ha ostacoli da superare. « Dio non si affatica, non si stanca punto », e a chi ne manca dà forza e vigore (Isaia, XL. 28). E giocosa e gioiosa effusione di energia era il/la¬ voro dell’uomo nel Paradiso terrestre prima della caduta. Perciò al di sopra del lavoro della creazione è il riposo di Jahvé in cui l’attività divina giace ri¬ piegata e contratta in sè stessa, e non si effonde in opere esterne, ma di sé stessa si appaga e gode, e santo fra tutti è il giorno in cui Jahvé si riposò, il sabato (Genesi, li, 3). Col riposo del sabato 1 uomo partecipa all’altissima quiete che seguì i giorni della creazione, e affranca per un po’ sè stesso e le creature, intelligenti e brute, che sono al suo servizio dalla dura legge del lavoro (Deute¬ ronomio, V, 14-15). — 15 — Né Jalivé vuole che il lavoro, tla espiazione qual’ é, diventi condanna che stronchi ogni gioia che l’nonio può trarre dalla vita, né che l’uomo dimentichi lui, il suo Dio, per ammazzarsi di la¬ voro nello sforzo vano di accumulare ricchezze che Jahvé, sol che gli piaccia, può far piovere su chi dorme senza far nulla. La radice di questo atteggiamento dell’anima ebraica verso il lavoro è nella visione che essa ha della vita e del mondo. Per l’anima ebraica com¬ pito dell’ uomo è restaurare 1’ unità e 1’ armonia cosmica infrante dal peccato originale, ricondurre il mondo sconvolto e turbato dal cattivo uso che l’uomo ha fatto della sua libertà all’armonia pro¬ fonda che in esso regnava quando fu posto pri¬ mamente nell’essere dalla divina attività. 11 mondo così non è semplicemente essere, è dover essere; non è realtà già data e compiuta che si tratta solo di contemplare, è un ideale che deve essere rea¬ lizzato dallo sforzo dell’uomo; la vita non è eterno ritorno sempre delle medesime cose e dei medesimi eventi, è graduale e continuo processo di restaurazione dell’ armonia primigenia di¬ strutta. Il termine di questo processo si proietta alla fantasia ebraica come il Regno di Dio in terra, inteso come restaurazione dell’antica armo¬ nia tra giustizia e felicità da attuarsi tutta in una volta e una volta per tutte per divino soprannatu¬ rale subitaneo intervento. Sull’ atteggiamento dell’anima ebraica verso il s — 16 — lavoro l'attesa escatologica esercitò un doppio e contraddittorio influsso. Da un lato, la febbre messianica — quale si manifesta sopratutto nella letteratura apocalit¬ tica — polarizzando gli animi verso il futuro, verso l’imminente avvento del Regno di Dio in terra, con¬ cepito come un evento grandioso che, al momento già in precedenza fissato da Dio, rompe brusca¬ mente con la storia anteriore e presente e chiude per sempre la storia dell’umanità, distoglie gli animi dal lavoro materiale: a che scopo cercare di realizzare progressivamente a furia di lavoro un poco più di felicità e di giustizia in terra, se da un momento all'altro il divino intervento attuerà sulla terra redenta la conciliazione perfetta di giu¬ stizia e di felicità? E la scuola di Rabbi Sirneon sostiene che il lavoro materiale, togliendo tempo a quello dello spirito, è da condannare- quando <;li Ebrei fanno la volontà del loro Padre celeste, i loro lavori si compiono per mano altrui; quando, invece, si ribellano a questa volontà, non solo deb¬ bono lavorare per sé, ma anche per altri |Be- rachoth, f. 35). E VApocalissi siriaca di Baruch insegna che nessuna delle cose attualmente esi¬ stenti deve occupare l'uomo, il quale deve atten¬ dere tranquillamente che venga quello che gli è promesso ( 83,4). E nella terra rigenerata più non vi sarà bisogno di penoso lavoro per ottenere ciò di cui 1 uomo ha necessità, che « la terra generante ogni cosa darà ai mortali il migliore, smisurato prodotto di frumento, il prodotto delle frutta e pecore pingui e bovi e dalle pecore agnelli e dalle capre capretti. E la terra farà sgorgare dolci fonti di bianco latte » (3 Sib, 744-9). Un’ulteriore svalutazione del lavoro economico e dei suoi risultati, il risparmio e la ricchezza, operò l’identificazione che il Profetismo andò at¬ tuando tra il concetto di ricco e potente e quello di malvagio, alla quale il Giudaismo aggiunge quella del concetto di povero e debole con quello di santo. Nella letteratura escatologica Fawento del nuovo ordine di cose instaurato dalla giustizia divina ha per elemento essenziale l’umiliazione e la spolia¬ zione dei ricchi dei potenti dei re, identificati con gl'ingiusti e i violenti, e il trionfo dei poveri degli umili degli oppressi, identificati con i giusti e i santi. D’altro canto, la letteratura rabbinica, senza ri¬ fiutare l’attesa messianica, tende a concepire il Regno di Dio come qualcosa che emergerà lenta¬ mente dalla realtà presente, grazie alla volontà buona e al lavoro dell’ uomo affratellato con l'uomo. L’Apocalissi mette l’accento sulla mèta, il Rabbinismo sulla strada che ad essa conduce. Nella visuale rabbinica il lavoro, nel significato non solo di lavoro intellettuale ma anche di lavoro manuale, riacquista pregio e dignità insigni. « Ama il la¬ voro » è la massima di Samea (Abot. 1, 10). L’uomo che lavora appare ora come il continuatore e il cooperatore di Dio nella grande opera di conser- Tilgher 2 \ — 18 — vazione del mondo e di restaurazione dell’armonia cosmica turbata dal peccato originale. Tende a col¬ marsi l’abisso tra i principii che reggono i lavori divini e quelli cbe reggono il lavoro umano: in questo si continua e si prolunga, secondo le dot¬ trine cabalisticbe, l’energia divina che si effuse nel¬ l’opera della creazione. Anche nell’Eden Adamo si deve guadagnare il vitto con il lavoro, e scacciato dall Eden 6Ì rallegra dell’obbligo che gli è fatto di un più penoso lavoro. Sul lavoro Dio fa il suo patto con I uomo. È Dio che insegna ad Abramo i varii modi di lavoro. La manna del deserto fu concessa agl Israeliti solo a patto che facessero qualcosa. Nessun lavoro per quanto basso offende come l’ozio che crea laschia e mette in pericolo la vita. Perciò la scuola di Rabbi Ismael prescrive che al lavoro della Legge, alla contemplazione, si associ il lavoro della civiltà, l’industria. I Farisei asseriscono che l'insegnamento della Legge non dispensa dal lavoro manuale, celebrano l’industria umana, esortano al lavoro, considerano questo come un culto preferibile all oziosa contemplazione e necessario alla salute, biasimano il padre che tra¬ scuri d’insegnare al figlio un’onesta occupazione. « Beato l'uomo che si china come bue al giogo e come asino al carico » (Avoclà Zarà, 5). « Colui che vive della sua fatica è superiore al temente Dio » (Bcrachoth, 8). Ma, per quanto si allontani indefinitamente, non perciò dall'orizzonte del Fariseo scompare del — 19 — tutto la meta, il Regno di Dio, e qui non v’è più posto alcuno pel lavoro: che anche pel Fariseo il Regno instaurato è l’èra dell’ozio beato, e pane e vestiti escono belli e fatti dalla terra, e un grap¬ polo d’uva basta a dissetare per lungo tempo tutta una famiglia. I i III. Il concetto di lavoro NELLA RELIGIONE DI ZARATUSTRA. Sulla corrente del pensiero ebraico la quale tendeva ta rivalutare il lavoro non fu, forse, senza esercitare un qualche influsso la religione di cui in Persia in età imprecisata Zaratustra fu, non si sa bene se lo storico o il mitico, banditore. La religione di Zaratustra, è noto, culmina nel¬ l’affermazione di due principii cosmici di opposta natura: uno, Ahura Mazda, principio del bene, l’altro, Angra Mainyu, principio del male. Dalla creazione del mondo in poi questi due principii si danno battaglia. Nella presente fase della storia cosmica la loro potenza quasi si equilibra, ma alla fine dei tempi il principio buono è immancabil¬ mente destinato a prevalere e a distruggere total¬ mente il principio malvagio. Nella religione di Zaratustra il fedele di Ahura Mazda appare come collaboratore e alleato di lui nella lotta contro Angra Mainyu, creatore con lui e come lui del bene. Il quale, alla fantasia filosoficamente non educata del popolo persiano, appare indiscrimina¬ tamente come bene economico e come bene morale. Bene sono tanto le cose utili alla vita, il fuoco e l’acqua, il grano e il cane e la vacca, quanto i buoni sentimenti e le buone azioni. Male è tanto il volere malvagio quanto le piante e gli animali nocivi e le collere degli elementi. Il perfetto adoratore di Altura Mazda è il con¬ tadino che coltiva la terra e la rende feconda. La terra è felice in primo luogo là dove il fedele prega, in secondo luogo là dove « il fedele eleva una casa... e che in seguito in questa casa cresce il bestiame, cresce la virtù, cresce il foraggio, cresce il cane, cresce la donna, cresce il bambino, cresce il fuoco, crescono tutte le buone cose della vita », e in terzo luogo « là dove l’aomo semina il più di grano, d’erba e di alberi fruttiferi... dove con¬ duce acqua in una terra senz’acqua e ne ritira dove ce n’è troppa ». Dove sono il cane e la vacca, dove cresce il fo¬ raggio e il grano, fuggono i devas , i demoni di Angra Mainyu. La terra è lieta di essere lavorata e ricompensa il lavoratore dandogli frutti in gran copia. E, infine, la grande solenne parola: «Chi semina il grano semina il bene » (Zendavesta, Vendidad, fargard III). Donde una valutazione positiva dell’ attività economica. Il proprietario di terra vai più di chi non ne ha, « chi ha casa è superiore a chi non nc ha, chi ha un figlio è superiore a chi non ne ha, — 23 — chi ha fortuna è superiore a chi non ne ha ». Chi mangia è superiore a chi digiuna: «è mangiando che tutto l’universo vive, non mangiando perisce ». Spirito virilmente attivistico e rudemente an- tiascetico, sboccante in una escatologia che, a diffe¬ renza di quella ebraica, è nettamente ottimistica, tutta dominata com’è dalla visione gioiosa del finale trionfo di Ahura Mazda e della totale di¬ struzione di Angra Mainyu. IV. Il concetto di lavoro secondo Gesù. Definire il concetto che Gesù si era fatto del lavoro è compito quanto mai difficile e delicato. A un primo sguardo, la predicazione di Gesù sembra inculcare il più fiducioso e spensierato ab¬ bandono all’assistenza del Padre celeste, il più ra¬ dicale disprezzo del lavoro e della ricchezza. Con¬ tro il lavoro economico : « Perciò vi dico : non vi angustiate per la vostra vita, di quel che mange- rete, né per il vostro corpo, di quello di cui vi ve¬ stirete. Non è la vita dappiù del vitto e il corpo dappiù del vestito? Guardate agli uccelli del cielo, come essi non seminano, non mietono, né ammas¬ sano nei granai, e il Padre vostro che è nei cieli li nutre: non valete voi molto più di essi? E chi con le vostre cure può allungare la vita di un solo cubito? E per il vestito, di che vi preoccupate? Guardate i gigli dei campi come crescono; non la¬ vorano, né filano... Ma se Dio riveste cosi la pianta dei campi che oggi c’è e domani è gettata nel forno, — 26 — quanto più voi, di poca fede? Non vi angustiate, dunque, dicendo: Che maugerenio o che beveremo o di che ci rivestiremo? Poiché tutte queste cose le cercano le genti, ma il vostro Padre che è nel cielo sa che abbisognate di tutte queste cose. Cer¬ cate prima il Regno e la sua giustizia, e tutto que¬ sto vi sarà dato di sovrappiù. Non vi preoccupate per il domani, poiché il domani si preoccuperà di sè stesso. A ogni giorno basta il suo malanno ». (Matteo, VI, 25-34 — Luca, XII, 22-31). E contro la ricchezza : « Non vi accumulate tesori su questa terra, dove tignola e ruggine fanno sparire, e dove ladri dissotterrano e rubano: accumulatevi tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine fanno spa¬ rire, e dove ladri non dissotterrano né rubano. Poiché dove è il tuo tesoro, ivi è anche il cuore tuo» (Matteo, VI, 19-21; Luca, XII, 33-4). «Nes¬ suno può servire a due padroni... Non potete ser¬ vire a Dio e a Mammona ». (Matteo, VI, 24). « Le cure del mondo e l’inganno della ricchezza e i de¬ sideri intorno alle altre cose, introducendosi, sof¬ focano la parola e questa è fatta sterile ». (Marco, IV, 19). « È più facile ad un camello passare per la cruna d’un ago che a un ricco entrare nel Regno di Dio (Marco, X, 25). « Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri, e avrai te¬ soro nel cielo, e poi segui me ». (Matteo, XIX, 21). Tra lavoro e ricchezza da una parte e vita reli¬ giosa e acquisto del Regno dall’altra, un'antitesi radicale sembra dichiararsi nella predicazione di 27 — Gesù: preoccuparsi del sostentamento materiale è da pagani e non da figli di Dio; chi serve Dio, non può in pari tempo attendere ad arricchirsi; e non solo attendere ad arricchirsi, ma semplice¬ mente possedere ricchezze rende difficilissimo en¬ trare nel Regno dei Cieli; chi voglia la perfezione deve di tutto spogliarsi, di tutto, cioè non solo del superfluo, ma anche del necessario, e darlo ai po¬ veri. Prescrizioni tutte che bisogna prendere alla lettera, vano risultando ad un esame un po’ ac¬ curato ogni sforzo di attenuarne la portata per conciliarla con un atteggiamento meno radicale ed intransigente. Insomma, ad un primo sguardo, il messaggio di Gesù sembra colpire di totale con¬ danna l’attività economica. E, nondimeno, chi ben guardi, l’atteggiamento di Gesù non si esaurisce tutto in una pura e sem¬ plice negazione ascetica del lavoro e della ric¬ chezza come tali. Se la ricchezza è avversata, non è già perché in sè, materialmente considerata, essa sia cattiva, ma solo perché le preoccupazioni che sono inerenti all’acquisto e al possesso di essa inevitabilmente distolgono l’animo dalla sola cosa che veramente importi, il Regno e il servire a Dio: chi si preoccupa della ricchezza serve a Mam¬ mona, e chi serve a Mammona non può, in pari tempo, servire a Dio. Per la stessa ragione, preoc¬ cuparsi del vestito e del cibo quotidiano è dannoso poiché distoglie da Dio, ed è anche inutile perché non dipende dall'uomo procurarseli, nulla essen- — 28 — dovi che non dipenda da Dio. Ingomma, a Gesù niente importa fuori delia sola cosa che veramente importa, cioè il rapporto fra uomo e Dio, e questo rapporto dev’essere per lui di assoluta fiducia in Dio, di confidente abbandono nelle mani della Di¬ vina Provvidenza per tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per la vita quotidiana, di totale supera¬ mento di tutte le cure materiali che lo legano a questa terra ed ai suoi beni fugaci. Ed appunto perchè tale è per Gesù il rapporto religioso fra uomo e Dio, preoccuparsi di tutto ciò che sia ma¬ teriale e terreno è da pagani e non da figli di Dio. Nulla, quindi, di ascetico nella visuale di Gesù. Mentre nella comune visuale escatologica i beni della terra sono pur sempre considerati come beni, che, però, in questa terra sono riservati ai mal¬ vagi, onde chi voglia godere nel Regno deve ad essi rinunciare in questo secolo, per Gesù i beni materiali, in sè e per sè considerati, non hanno alcun valore, non possederli non è per il giusto un male di cui egli abbia diritto ad essere risarcito e indennizzato. Che ci siano dei malvagi ricchi e potenti non è un torto che Dio abbia il dovere di raddrizzare, è un fatto che prova solo la sconfi¬ nata bontà di Dio, il quale fa cadere la pioggia e levare il sole indifferentemente su tutti, buoni e malvagi. Lavoro e ricchezza sono da Gesù condan¬ nati solo in quanto generano preoccupazione delle cose materiali ed effimere, e ne sono generati, e perciò distolgono da Dio e dal Regno, la sola cosa — 29 — u L7 P 8è 6 PCr * egli «* “ condanna né approva: ,n «e e per aè, essi sono per Gesù qual- cosa d, eticamente indifferente, che diventa etica- mente negativo sol quando per esso l’uomo si at- acca al mondo e dimentica Dio. L’antitesi esca- o ogica tra felicità materiale e valore religioso è -si superata. I, terreno resta sgombro per La fu- tura conciliazione di questi due termini. Ma questa conci,azione non fu opera di Gesù. Non eglTpoté operarla avendo trascurato del tutto uno dei due ~ra i quali doveva essere operata: i beni dÌVÌDam j ente P"*»o verso l’Assoluto, dell’av , meme F ndla gÌ ° COnda ce ^czza dell avvento imminente del Regno di Dio in terra Gesù non si pose nemmeno i problemi della fami- gita dello Stato, della ricchezza, del lavoro, come problemi per sè stanti, li ignorò puramente e seni- P icemente come inessenziali. Ciò solo importava per lui che lo spinto si protendesse tutto verso o nella gioconda speranza dell’imminente venuta dd Reg,, ° glorioso ’ « con la penitenza si prepa- 2Z 8 Parted P arVÌ e Parteciparvi si rendesse V. Il concetto di lavoro nel Cristianesimo antico,. Il Cristianesimo primitivo si pone il problema del lavoro, e lo risolve nel senso tradizionalmente giudaico che esso è imposto da Dio all uomo come conseguenza del peccato originale e come pena di esso. Ma, oltre alla funzione strettamente negativa di espiazione, il Cristianesimo primitivo riconosce al lavoro anche una funzione positiva: lavorare è necessario non solo per guadagnarsi la vita e per essere in condizione di non aver bisogno di nessu¬ no, ma anche e sopratutto perché chi non ha beni ili fortuna possa disporre dei mezzi di fare la ca¬ rità ai (rateili che ne lian bisogno (Ejesi, IV, 28; Epistola di Barnaba, XIX. 10). Il lavoro diventa così strumento dell’opera di amore e di carità, e su di esso cade un raggio della divina luce che da quella si effonde. Su di esso e sulla ricchezza, che non è fatta più sinonimo di malvagità, non è preseriito più di disfarsene per la salute dell’anima, ma è anzi permessa purché serva — 32 — ad alleviare la miseria dei poveri e ad acquistarsi merito presso Dio (I Timoteo, VI, 17-19; Dida- ché, IV; I Giovarmi, III, 17). Al lavoro, in questo modo, si riconosce una funzione positiva. Il lavoro, infine, è necessario come igiene del corpo e dello spirito che nell'ozio impaluderebbero e diverreb¬ bero preda dei mali pensieri e dei cattivi istinti. Di qui il dovere delle comunità cristiane di dar lavoro airoperaio disoccupato, perché non sia in ozio, e, ove si rifiuti di lavorare, di allontanarlo da sé ( Didachè, 12], Tra lavoro intellettuale e lavoro materiale, nessuna separazione ancora. Come il dottore della Torà alterna lo studio della legge al lavoro manuale, così Paolo, missionario della Buo¬ na Novella, si guadagna il pane nel lavoro e nella pena per non essere a carico di nessuno (II Tes- salonicesi, III, 8 sgg.). Nondimeno, nessun valore intrinseco, nessuna *) J autonoma dignità è ancora riconosciuta al lavoro. Se questo ha una qualche nobiltà spirituale, essa gli viene esclusivamente dal fine cui serve come mezzo. Per sé, non ha importanza né valore alcuno. Cer¬ care col lavoro di migliorare la propria posizione sociale non ne vale la pena, pel poco tempo che separa il mondo dalla sua fine: il meglio per cia¬ scuno è di rimanere nella condizione in cui l'ap- pello della Buona Novella lo ha trovato (I Corinti, VII, 20). Delle cose di questo mondo il cristiano non deve né preoccuparsi né desiderarle: deside¬ randole, occupandosene, si distoglierebbe dalla — 33 — vita cristiana (1 Giovanni; Il Timoteo II, 4; Il Clementina I. Chi si occupa di molte cose, chi tratta molti affari, necessariamente pecca molto, e perciò non si salva: può salvarsi se tratta un affare solo tutt’al più: così dice il Castore (l'Erma che, così, per evitare il peccato inculca l’inerzia c l'ozio contemplativo. Lo stesso Castore <TErma in¬ segna che le ricchezze distolgono da Dio e indu¬ cono il cristianesimo a invischiarsi nel mondo dei pagani. La I Timoteo fVI, 7-10) condanna il desi¬ derio della ricchezza come radice di tutti i mali, e inculca di contentarsi di guadagnare quel «tanto che è strettamente necessario per mangiare e ve¬ stirsi e non più. a Finalmente le Lettere di Giovanni e VApo¬ calisse tornano alla identificazione giudaica di ricchezza e malvagità, resa più facile dal fatto che in quegli albori della società cristiana i ricchi sono anche per lo più pagani: contro di essi si sfolgorano le più tremende maledizioni. Atteggiamenti naturali di una società che vive¬ va. sì, nel mondo, ma tenendosene fuori e aspettan¬ done e anelandone la fine; che viveva, sì, nel inondo del Relativo, ma lenendo fisso l’occhio al¬ l’Assoluto che non passa; che non si sentiva nes¬ sun legame al inondo reale e presente e nessuno stimolo a migliorarne col lavoro le condizioni; che viveva nel mondo solo per rinunziare al mondo e rendere testimonianza a Dio: che nello sforzo ver¬ so il guadagno e una ricchezza sempre maggiori Tilgher 3 — 34 — vedeva la fonte di ogni possibile iniquità inorale e politica. Con lo spostarsi del centro di graviti della nuova società cristiana dal Regno V enturo e che si ostinava a non venire al Cristo Venuto, dal Regno alla Chiesa, col rigettare nell’ombra l’at¬ tesa escatologica, con l’acconciarsi a considerare il inondo come un inondo che dura e che non finirà tanto presto e alle condizioni del quale è pur necessario adattarsi, i problemi sociali si spinsero in primo piano, e fra gli altri quello del lavoro. Anche «pii, come altrove, è Agostino che sistema le idee. 11 lavoro è obbligatorio solo per i monaci. Serve ai bisogni del chiostro, all'amore, alla puri¬ ficazione dai mali piaceri. 11 ricco deve apprez¬ zare e amministrare il suo bene come un bene affi¬ datogli da Dio. 11 dippiù, tolti i bisogni personali, l’eredità, i doveri «Iella condizione, spetta ai po¬ veri, per via di elemosina. Lavori leciti: J’artigia- nalo, l’agricoltura, il piccolo commercio: proibito l’interesse; il commercio deve contenersi nei limiti del giusto prezzo. Meglio di tutto, la rinuncia alla proprietà e la vita del chiostro. Gruppi classi ceti sociali rimangano quali sono: sono necessari e utili, anche se nati da violenze. Agostino riconosce anche la schiavitù; esige però che gli schiavi siano umanamente trattati. Tanto migliore è il lavoro quanto meno distoglie l’uomo da Dio, e cioè quanto meno lo riempie di cure e di preoccupa¬ zioni per perdite e guadagni. Donde, condanna — 35 — radicale del grande commercio, ossia proprio di quell’attività economica che, sola con l’agricoltura. Greci e Romani avevano stimata degna di un libero uomo. Ogni lavoro che abbia per stimolo la con¬ quista di un guadagno superiore a quello della semplice sussistenza è condannato severamente da Agostino e da tutti i Padri della Chiesa. 11 Cattolicismo nobilita, quindi, il lavoro, ag¬ giunge nuovo pregio e dignità spirituali a ipielli che gli aveva conferito il pensiero d’Israele II dispregio ellenico delle classi aristocratiche verso le classi lavoratrici vien meno. Dai monasteri, so- pratutto da quelli dei Benedettini, ove i monaci alternano il lavoro alla preghiera, ove colui che un tempo fu nobile o principe piega il corpo delicato allumile lavoro, si spande nella società civile il culto di esso. Lavora, non disperarti! Le grandi parole di San Benedetto hanno traversato i se¬ coli. Ma il lavoro così esaltato non è anco¬ ra pregiato in sé e per sé: bensì sempre come semplice strumento o di purificazione o di carità o di espiazione. In sè e per sè. al lavoro non si riconosce ancora alcun pregio. E il lavoro che viene inculcato è quello religioso e intellettuale (leggere, copiar manoscritti, ecc.). TI lavoro ma¬ nnaie, oltreché limitato solo a quanto è necessario <•- intenimento del chiostro, è scaricato suUe spalle dei fratelli laici cui è interdetto il lavoro spirituale. Tra lavoro spirituale e materiale si scava così un abisso profondo.) Di più. il lavoro — 36 — che è onoralo è soltanto quello che si fa nel chio¬ stro Al lavoro che si fa nel mondo, al lavoro dei laici, si guarda con indulgente carità, ma non gl. si tributa alcun onore. Al disopra del lavoro anche intellettuale è posta la nuda contempla¬ zione, l’inerte meditazione delle cose divine, an¬ sata in secondo piano la speranza del Regno, la Chiesa si è ormai acconciata al mondo e alla so¬ cietà. nel seno della quale si è costituita come società perfetta e divina, con l’occhio fisso alla sola cosa che veramente importi, l’aldilà. Perciò ogni profondo impulso a legarsi alla terra e a mutarne l’aspetto col lavoro è stroncato alla radice. L inte¬ resse dell’aldilà sopraffà sempre quello dell aldi- qua, e quello si soddisfa con la inerte contempla¬ zione e meditazione delle cose divine. Il vero cat¬ tolico non si darà mai per missione di mutare col suo lavoro la faccia della terra e della società, poi¬ ché egli già fin da questa vita fa parte di una so- cietà che non può mutare perché perfetta e divina. e die è nel mondo, sì, ma con lo sguardo rivolto all’oltramondo. I \ VI. Il concetto di lavoro nel Cattolicesimo medioevale e moderno. Sbaglierebbe Hi molto ehi credesse che dalla predicazione delle innumerevoli sette ereticali, pul¬ lulanti per tutta Europa dalPxi al xiv secolo e che per poco non compromisero l’esistenza stessa della Chiesa cattolica, il lavoro ne uscisse cresciuto in pregio e dignità. È vero che quasi tutte queste sette (Catari, Valdesi, Poveri Lombardi, Arnaldi- sti. Fraticelli e cosi via) imponevano a tutti, chie¬ rici compresi, di vivere del lavoro delle proprie mani. Ma al fondo di questa prescrizione chi ben guardi troverà non già un cresciuto senso della dignità del lavoro, ma uno spirito di rinuncia al mondo e ai ^"‘ > " > S«^M‘ni. di sprezzo della ricchezza e di esaltazione della povertà: uno spirito essenzial¬ mente poveristico e ascetico che, credendo erronea¬ mente di confermarsi al messaggio di Cristo, vede nella povertà un valore religioso assoluto e da esso soltanto deduce come necessario corollario il pre¬ cetto di vivere del lavoro delle proprie mani. Né — 38 — dissimile è ii punto di vista di Francesco d'Assisi, che anch egli f a obbligo ai Frati minori di vivere del lavoro delle loro mani. Che nella incute di Francesco il precetto del lavoro derivi da spirito essenzialmente ascetico lo prova il fatto che esso è limitato ai soli lavori rozzi e manuali, senz’altro scopo che del mantenimento quotidiano, e che va di pari passo col precetto dell’elemosina. Maggiore giustizia e riconoscimento trovò il la¬ voro nella dottrina della Chiesa cattolica, che, col passare dei secoli, sempre più si andava avvici¬ nando alla terra e sempre più conciliando con i suoi valori. Tra questi, in prima linea, il lavoro. Per Tomaso d Aquino lavorare è necessità di natura. Il lavoro è per lui (con l’eredità) la sola fonte legittima della proprietà e del guadagno. Nella gerarchia delle professioni, secondo la scala decrescente del lavoro e della necessità sociale, vier. prima 1 agricoltura, poi l’artigianato, ultimo di tutti il commercio. Perciò è interdetto il pre¬ stilo a interesse, che è guadagno illecito perché non pagato da lavoro. Sul lavoro si fonda la di¬ visione della società in stati e corporazioni, se¬ condo il piano naturale e divino. E il lavoro deve essere rimunerato dal giusto prezzo, intendendo per giusto prezzo quello che assicura il minimo di esistenza al lavoratore e alla sua famiglia. È, in fondo, la teorizzazione della pratica sociale dei co¬ muni borghesi di quel tempo, ed è teoria netta¬ mente cittadina e borghese. Un gran passo avanti C08Ì fatlo: «ella sintesi scolastica il lavoro ap- pare ormai diritto e dovere di natura, sola l.ase legittima della società, solo legittimo fondamento della proprietà e del guadagno. Ma. benché bor- gliese, la teoria è ancora medioevale: il singolo «leve rimanere nel suo stato e nel suo ordine, con¬ tinuando ereditariamente la professione dei suoi genitori, né gli è concesso di passare da un ordine all altro per mezzo del suo lavoro, sotto pena di veder rovinare l’ordine sociale voluto da Dio, di eui la suprema autorità politica dev’essere gelosa custode. Ed a questa suprema autorità è deman- data la fissazione del giusto prezzo, strappata alle vicende della libera concorrenza e tale da assicu¬ rare al lavoratore una sussistenza conforme al suo rango. Ma anche Tomaso al di sopra dei mondani pone i lavori ecclesiastici, al di sopra del lavoro la nuda contemplazione. Il vero religioso, anche per lui, è il monaco. 11 lavoro in tanto è obbligatorio, m quanto è necessario a mantenere il singolo e la collettività di cui fa parte. Mancando lo scopo, l’uomo non ha bisogno di lavorare. Chi può vi¬ vere dei suo senza lavorare è dispensato dal la¬ voro: vai meglio che preghi e contempli Dio. In qn m. Tomaso è d’accordo col mistico autore della Imitazione di Cristo. Gli è che per Tomaso, come per tutti gli sco¬ lastici anteriori e posteriori a buh il lavora umano si dispiega in un mondo natu?*?t&% sociale salda¬ mente e stabilmente ordinato. Quest’ordine non è — 40 — già creazione dell'attività umana, ma deriva diret¬ tamente da Dio. Il lavoro deve rispettarlo. Esso costituisce per lui un limite assoluto. Classe so¬ ciale, professione sono forme divine immutabili della società: esse preesistono come tali al lavoro, elio non le crea, ma si dispiega nei quadri che esse gli offrono già preformati. Superiore al lavoro pra¬ tico clic limita lo spirito a un piccolo settore del mondo è la contemplazione con cui lo spirito si affissa nell’ordine delle cose divine e Io percorre nella sua totalità. Questa concezione del lavoro di cui Tomaso dà la più alta formulazione dottrinale si riflette mi¬ rabilmente in quelle figurale enciclopedie che so¬ no le grandi cattedrali di cui la lede cattolica trionfante, allora al massimo della sua certezza e pienezza interiore, andava riempiendo 1 Europa. La cattedrale accoglie tra le sue sculture quelle che ritraggono gli umili gesti del lavoro quotidiano: vi si vede il contadino in atto di seminare di mie¬ tere di falciare di danzare nel lino. Sono figura¬ zioni semplici e gravi, vicine all’umanità che pena e che soffre, impregnate di un senso del lavoro virilmente religioso, austero e solenne. Ma al di¬ sopra delle figurazioni consacrate al lavoro trion¬ fano quelle consacrate alla Scienza e alla Contem¬ plazione. Poi, a mano a mano che i secoli passano e che la Chiesa cattolica viene a contatto della vita economica realizzata dalle repubbliche industriali — 41 — e commerciali italiane, essa addolcisce quanto vi è ancora di troppo duro e medioevale nei precetti di Tomaso. Antonino da Firenze e Bernardino da Siena condannalo l’inattività e lo sperpero, esal¬ tano 1’ attività e 1’ industriosità, riprovano 1’ ava¬ rizia perché lolite «l’inattività, fulminano l’usu¬ raio perché s’appropria di un denaro che non {ili è costato lavoro, ma concedono si possa perce¬ pire un profitto del denaro investito in imprese alla direzione delle quali il mutuante in «jualehe modo partecipa. Così il profitto capitalistico è in¬ coraggiato «pianto è represso il prestilo usurario. Questi moralisti insegnano pure che ricchezza e povertà in sé non sono né bene né male. Bene o male è l'uso che se ne fa. Nondimeno, tra le due è preferibile la ricchezza, purché bene impiegata. Ca jet ano. esegeta di Tomaso, concede ci si possa arricchire ed elevare di rango. \la ad una condi¬ zione: che se ne abbia l’attitudine e la naturale vocazione. Cajetano e Antonino condannano net¬ tamente la ricerca del guadagno pel guadagno, «Iella ricchezza per la ricchezza, la quale, con¬ ducendo all’attività illimitata e indefinita, è assur¬ da e insensata. Lo spirito cattolico respinge come assurdo e insensato precisamente ciò che rende per lo spirito moderno sommamente desiderabile la ricerca del guadagno pel guadagno. L'arricchi¬ mento per la morale cattolica dev’essere sempre perseguito nei limiti della morale ed a scopi di carila. 42 'l'ale, su per giù, cou variazioni e oscillazioni, almeno pel nostro scopo, inessenziali, rimane la teoria cattolica del lavoro anche pei secoli se¬ guenti. Né dall’orbita di questi concetti escono, in fon¬ do. le dottrine e i movimenti clic verso la fine del secolo XIX e i principi del XX vanno sorgendo in tutto il mondo col nome di Democrazia cristiana o Socialismo Cristiano, in cui il Cattolicesimo ope¬ ra il massimo sforzo di conciliazione dei suoi prin¬ cipi etico-religiosi con la civiltà moderna. La De¬ mocrazia Cristiana o Socialismo Cristiano ricono¬ sce nel lavoro la fonte di ogni umano progresso e benessere e cultura. Lavorare è dovere imposto dalla legge divina e dalla legge naturale insieme, dovere dal cjuale, per necessaria conseguenza, na* sce il diritto al lavoro in chiunque al lavoro sia valido e il diritto al soccorso in chiunque non pos¬ sa lavorare. Dal diritto alla vita nasce il dovere di lavorare, e da questo il diritto al lavoro ed even¬ tualmente al soccorso, doveri e diritti che una so¬ cietà ben ordinata ha il compito di assicurare ai suoi componenti. Nei limiti dell interesse sociale, l'uomo è libero di attendere al lavoro che vuole: il Cristianesimo sociale infrange del tutto i limili ancor rispettati da Tomaso. Della mercede del suo lavoro, contenuta entro limiti massimi e minimi fissati dalla società, l’uomo è assoluto padrone. La vera fonte della proprietà è il lavoro. Perciò il ca¬ pitalismo, che è il sistema economico nel quale il — 43 — mente condannato I aV o>„ l " ’ 6 Severa * limiti della wY ^ ^ d ’ ma 8ol ° »«i d »,j Jz : L n T : " he è •**>e .11. digniu dTl 6e ! VOr ° n °" *"»>*■’ ».i •o reu ‘ 8e mplice me,, nato allo scopo che è la vii, »“ —«* mai alla digni J ma »... .empii» me,» “ " ” P» <*e è l’aldilà. Il l, voro , al V "° voto pel lavoro £ „ " * ete88 °, il la- dia P«- la stessa log^r^rio ^^ ^ ChÌ<?Sa r ' PU ' il concetto della vita fine a sé at ^ ^ r<?8pÌn * e -Marno lontanissimi, come si vede dall’ • . " C ° di.p»gi„ ,, e , elle„ ico J éh?” irrr^ ^ Ri».«ime„,r» a ia rJ” P ”’“ re “"""p d / VII. Il concetto di lavoro secondo Lutero. Fu il Protestantesimo ad operare nel concetto di lavoro quella profonda rivoluzione spirituale in forza della quale esso è giunto ad essere il con¬ cetto base e chiave della visione moderna del mondo e della vita. Un primo gigantesco balzo in avanti sulle posi¬ zioni cattoliche è fatto da Lutero (Fon Kaufhan- dlung und Wucher). Per Lutero, come pel Cattoli- cesimo medioevale, il lavoro è cosa naturale, è remedium peccati dell’uomo caduto, ha natura pe¬ nale e pedagogica insieme. E fin qui nulla di nuo¬ vo. Ma da quelle vecchie premesse Lutero deduce che, dunque, tutti quelli che possono devono la¬ vorare, che l’ozio, la mendicità, il prestito ad usu¬ ra sono contro natura, che la carità va fatta solo agli incapaci di lavorare. La vita monastica c con¬ templativa procede dall’egoismo e dalla mancanza d amore dei monaci, che sfuggono ai doveri che il mondo impone loro verso il prossimo. TI con- — 46 — cetto di lavoro acquista così nel pensiero di Lu¬ tero estensione universale. Su di esso poggia la società; esso è fondamento della proprietà; per esso principalmente si attua la divisione degli uo¬ mini in classi sociali. 11 commercio è visto da Lu¬ tero con poca simpatia perchè esso, per lui, non è veramente lavoro. Scopo del lavoro dev essere sol¬ tanto il sostentamento, non il guadagno. Bisogna proporsi di guadagnare quanto basta per vivere e nulla più. Sotto questo punto di vista, Lutero ri¬ mane nettamente nell’orbita delle idee medioevali. 1 dottori cattolici del tempo suo erano andati assai più in là. E ancora nell’orbita delle idee medioevali ri¬ mane Lutero quando insegna che lavorare si deve, ma nei confini e secondo i modi della professione nella quale si è nati: cercar col lavoro di passare da una professione all’ altra, di ascendere nella gerarchia sociale, di farsi strada è contrario alla legge di Dio. Dio assegna a ciascuno il suo stato, e bisogna obbedire restandovi. Serve Dio chi resta dove egli lo ha messo. tyja _ e d è qui l’immensa originalità di Lute¬ ro — nei limiti della propria professione, qual che essa sia, purché legittima, il lavoro è ser¬ vizio divino. Non v’è che un’unica e ottima ma¬ niera di servire Dio: è di compiere nel miglior modo possibile il lavoro della propria professio¬ ne. Ogni distinzione tra pietà religiosa e attività mondana, tra professioni spirituali e professioni ° ,,dane ’ °g»i superiorità di „ " e « a,a da "o radici. Purch qUdJe 8U queste è * ° bb ^ien Z a a Dio e di ÌD pirite Livori hanno tutti eguale di'* 1 •” ^ Pr ° S8Ìm °> 1 ' Utt ; talmente servigio di n™" Sp,ritUale , sono professioni sono neeesfarie a " “ T ”« P * P ,f c l Ua »‘° nessuna i„ ^ deIla ^eietà, d,a P ief à od alla feliciti. ^ 8Ìa nec ^aria La rivoluzione operata ri i rf - 1 W é , ogica :“' Cro "«11» vinte- d '“" "■« rivoluzione ,e„lÓ„i '""«"a Utero v /,i e f, N " ,l;l vi, a « nell» »«I lempo. Dio ™ n è 'proiet. Por essenza operante tutto i ! ^ ^«Wt* oos» ininterrotta teofania- il r"'' La VÌ,a Sventa ridere immediatamente cò n P ^ a coin ' Pl ? fano - «e l’attività, ogni at cd e fI 'v,„ a , cade ogni ragion J *" <pianto tale, vizio divino e lavoro mmtid ' I,fferenza ,ra ser- fessione. Il princi ^ ^ CU]f ° e P'<>- so,a ^de negando il va w H 2Ì ° ne per la * ab Permette de ]e ^ b — » '""e -1 mondo della materia autorità religioso-niorale g \ H ri «uto di ogni ,aJe emancipa I a v i ta gm gll,da «acerdo- lascia interamente , , è ° a ° mica c °me t a I e e J a fc «* ^ con Lutero che f came Professione, Beruf tpdesca indi- religiosa che non dazione ' P™.. in „„te P e " ' , Uhe Parole „„„, og he del p, esi — 48 — protestanti. Professione e vocazione divengono sinonimo (Beruf). Sulla dura fronte .lei lavoro Lutero depone una corona. Es^I esce dalle sue mani circonfuso di dignità religiosa. La porta clic darà sulla modernità è ormai definitivamente aperta. vm. Il concetto di lavoro secondo Calvino. *• chiave della visione calvinistica del mondo e .1 concetto della predestinazione: Calvino speri menta Dio come potenza assoluta, come energia illimitata, come abisso nnminoso infinitamente «I ' «sopra , tutte le determinazioni della nostra rag,one e della nostra giustizia. Tra l’uomo e Dio <ra finito e infinito, tra creatura e Creatore, un ab,sso m spalanca ; Dio è tutto e l’uomo è nulla nomo non vtve che per servire alla gloria di Dio e se ciò non la. la morte eterna è il suo destino. < ra. Dio ha giudicato opportuno per la sua gloria v ehe degl, uomini piccola parte soltanto sia da ogn, eternila, md,pendente,nenie da ogni conside¬ ratone d, opere e di meriti, destinata alla vita eterna e tutti gli altri alla eterna dannazione. Ne*. *n„a determinazione razionale giustifica ai nostri oreh, a terribilità di questo decreto, e nella sua terribilità per l’appunto rifulge la divina maestà. E poiché D,o non cambia, nulla può acquistare Tilgher 4 all’uomo la grazia divina ove egli ab aeterno già non la possegga, nulla, ove egli la possegga, può fargliela perdere. Concetto che non fu senza susci¬ tare resistenze accanite nelle altre chiese rifor¬ mate: e lo stesso Calvino non lo enunciò in tutta la sua forza che nella terza edizione della lnsti- t litio christiana apparsa dopo la sua morte. Cosi come lo formula Calvino, il dogma della predestinazione sembrerebbe condannare 1 uomo alla inazione eterna. Ma se dietro le astratte ed ossute formule della teologia guardiamo alla vivente realtà psicologica che vi si nasconde, com¬ prenderemo come questo dogma, che a prima vista sembra condannare l’uomo alla quiete della morte, sia stato proprio quello che ha finito per accen¬ dere in lui la più smisurata febbre di attività che l, a mai arso i' mondo. È evidente, innanzi tutto, che nella visuale calvinistica veramente c certa¬ mente dannato è solo colui che non si da pensiero nè punto nè poco di sapere se egli sia eletto o dannato. Per costui, la predestinazione, se anche ne sa qualcosa, è concetto astratto e morto, e non vivente e tremenda realtà psicologica. Di coloro per cui essa è tale realtà, di coloro, cioè, che il problema se essi siano eletti o no angoscia e tor¬ menta, di costoro è per lo meno dubbia la dan¬ nazione. In fondo, il dogma funziona solo per coloro di cui è almeno dubbio che essi siano dan¬ nati. Ciò basta da solo ad addolcire ciò che esso ha di tremendo e di disumano. — si¬ li dogma calvinista della predestinazione non è altro che la proiezione in sede teologica, e nelle formule della teologia del tempo, di ciò che noi oggi chiameremmo l’individualità : del mistero profondo, della irrazionalità radicale della quale ■Calvino ebbe un senso violento e acuto. .Che, infatti, l’uomo sia eletto, non gli viene da altra fonte che dalla sua propria esperienza indivi¬ duale. intima, incomunicabile: nell’assenza di segni visibili e di garanzie esteriori, ove questa fede manchi, nessuna Chiesa, nessuna magia sacra¬ mentale. nè Cristo stesso, morto solo per gli eletti, può sostituirla mai. L’individuo è fronte a fronte cor l’imperscrutabile maestà della onnipotenza divina, in una solitudine sacra e infinita: nel ter¬ ribile silenzio che gli si è fatto intorno egli non’ ode pili che la voce della sua coscienza che gli parla della sua elezione, della sua responsabilità illimitata, deH'obhligo che gl’incoinbe di servir Dio e di manifestarne in terra la gloria. E se que¬ sta coscienza della elezione non fosse che un’illu¬ sione? Che essa sia realtà, lo dimostrerà innanzi tutto il fatto stesso che l’eletto ha fede nella sua elezione. E in secondo luogo, che il credente sia realmente eletto lo dimostreranno il suo contegno e le sue opere. Le opere non salvano : sono però pel credente stesso la ratio cognoscendi dell’avvc- nnta elezione. Ed è chiaro il perche. Colui che si sente eletto non vive più nè per sè nè per chiunque altra — 52 — creatura, ina solo per Dio, concepito come potenza infinita, come volontà onnipotente e imperscruta¬ bile. L’eletto diventa, a così dire, un puro stru¬ mento, meglio ancora un semplice luogo di pas¬ saggio della divina attività, e la sua attività non ha più per fine che d’instaurare in terra il Regno di Dio, in cui rifulgerà la gloria del Signore. In fondo, non le l'eletto che agisce, è Dio stesso che agisce in lui. I suoi atti prendono origine nella fede che la grazia divina ha messo in lui, e la loro natura e qualità visibile mostrano bene che sono voluti da Dio. La certezza della salvezza non si fonda, dunque, su un sentimento soggettivo, ma sull’osservazione oggettiva del risultato degli atti. Chi si sente eletto lo dimostra a sé e altrui non già stando ozioso e contemplando, ma vivendo e ope¬ rando da eletto: di qui riflessione, autocontrollo, autoconcent rainento. volontà sempre duramente tesa a domare la sensibilità ribelle, a estirpare 1 at¬ taccamento al mondo e alle creature. Bisogna uccidere in sè ogni attaccamento al mondo e alla creatura, che in quanto tale è sempre peccami¬ nosa e nulla: bisogna, nondimeno, agire sul mon¬ do e sulle creature e piegarle a diventare visibile specchio della gloria di Dio. Dando al fedele la certezza della sua elezione indipendentemente da ogni sua opera e da ogni suo merito, la dottrina della predestinazione lo affranca da ogni sforzo di santificazione e purifi¬ cazione interiore, abolisce la storia interiore del- — 53 — l'uomo, permette a questo di volgere al mondo della materia tutte quante le sue energie. Ma ne¬ gando che rinterno sentimento dell’awenuta sal¬ vazione possa raggiungere mai il grado della paci¬ fica certezza ed evidenza, essa insinua nell’animo del fedele un bruciore di dubbio e tormento, una sottile angoscia e disperazione da cui egli ■pon tro¬ va scampo che in un’attività frenetica, dalla quale brillerà per lui e per gli altri la crescente proba¬ bilità dell’awenuta elezione. L autocontrollo non ha più per scopo — come nel Cattolicesimo — di purificare e santificare gli istinti deposti dalla natura nell'uomo, ma solo di conservare questo in uno stato di grazia già pre¬ sente in lui come dato originario. Verso gl’istinti naturali come tali il Calvinismo non ha che abor¬ rimento e diffidenza: per lui, l’uomo naturale è per intero corrotto e preda della morte. L’uomo redento dalla grazia è un altro uomo che con l’uomo naturale non ha nulla a che fare. Nel Cat¬ tolicesimo il credente si applica agl’istinti della sua natura per organizzarli e comporli in un cosmo armonioso in cui si rifletta la vita divina. Ciò suppone che per il Cattolicesimo ls natura dell’uomo non è radicalmente cattiva, ina solo disordinata e pervertita dal suo fine, al quale si tratta di ricondurla. Pel Calvinismo, invece, gli istinti naturali sono radicalmente corrotti, e l’uni¬ co atteggiamento che il fedele possa prendere al riguardo è d’implacabile diffidenza e spietata — 54 — repr«.„,„„e. Nell, virale e«,v ini , la r elett0 LwT d 1 Va0 '“° ” at “ r “ le “““ »'< «-»- J‘Z e rèi J Di rro "' e ”a ura e 1 eletto sta come una forza in cui ogni dar:: i; t ; at r ntaneità è aboiita: ^ «*■ teso SÌ cl PrÌgÌOUa C °Ì Dn lUÌVÌ9,n0 dur °’ ^lontano, ’ lgHOra effusioni sentimentali, slanci del : —.. «—M passionali. Lindi Vtduo assoggetta sè e il mondo, cose e persone a ^implacabile disciplina volitiva e razionale par¬ che dal mondo negato e sprezzate nella s„ a iln . mediatezza e plasmato secondo la volontà e i piani < eUa comunità degli eletti splenda la gloria della tZ~- " cM ° in ‘ aei *» -■ -»*■> S creature, ma senza nessun amore per la creatura “ qUan ‘° t3le - Q«“- è per lui mezzo e non fine strnmento e non mèta, e vale solo pel fine sacro cm e assoggettata. Il calvinista è nel mondo e ad- sce sul mondo, m vista non già del mondo, ma del sopramondo : egli è Un asceta mondano n Caly . nismo, ,1 Pumauismo sono perciò un appello alla volontà e all’azione, uno squillo di tromba che chiama a battaglia il credente contro il Principe / qUeSt ° mon(, °’ contr ° Satana. Il Calvinismo e il Puntamsmo non patteggiano col male, non Io ol erano. non ci si rassegnano, lo provocano, Io sfidano, lo combattono. È una religione aspra dura violenta intollerante, ma che non transige con la ingiustizia e la malvagità. Essa arma il suo ere- — 55 — dente e ne fa un soldato di Dio, che con la spada in una mano e nell altra la cazzuola edifica le mura delia città divina. Il concetto di lavoro subisce qui una rivaluta¬ zione radicale. 1 utti devono lavorare, anche i ric¬ chi, perché il lavoro è servizio divino. Ma lavorare non per godere della ricchezza, risultato del lavo¬ ro, non per sboccare al piacere, non per adagiarsi nel riposo, bensì per instaurare il regno di Dio in terra. Da questa doppia e contraddittoria esigenza, lavorare e, insieme, rinunciare a godere la ric¬ chezza. frutto del lavoro; dalla conseguenza che ne deriva che, dunque, il solo mezzo di usare dei frutti del lavoro è quello d’investirli in nuovo lavoro, e così via all’infinito; dalla pratica che ne segue del risparmio non come sterile tesaurizza¬ zione, non come usura, ma come fonte di nuova produzione, si genera (favorita da molte altre cir¬ costanze storiche) la civiltà capitalistica. Alla radice del capitalismo è, dunque, come hanno assai bene messo in luce Max Weber ( Die prote- st amiseli e hthik und der Geist des Kapitfdismus) ed Ernst Troeltsch ( Die Soziallehren der Chri- stlichen Kirchen und Gruppen), preceduti, a dir- vero, di parecchi anni da Bernstein ( Sozialismus und Demoltratie in der Englischen Revolution), l’ascesi mondana del calvinista e del puritano, è il lavoro professionale esercitato senza tregua nel mondo perchè questo divenga lo specchio della divina maestà. Ne nasce un nuovo tipo d’uomo: s — 56 — volontario, attivo, austero, duro al lavoro, per do¬ vere religioso. L’ozio, il lusso, la prodigalità, tutto ciò che ammollisce e distende l’animo, è spietata¬ mente bandito come jl peccato più grave. L'odio al lavoro è additato come segno della non avve¬ nuta elezione divina. La contéfiiplazione inattiva è rigettata, Dio essendo troppo superiore alla crea¬ tura per rivelarsi interiormente a lei ed assicu¬ rarla così della sua salute. Nè basta. Il lavoro che solo è grato a Dio non è un lavoro purchessia, ora questo, ora quello, oggi protratto per tutta la giornata, domani inter¬ messo dopo un’ora soltanto, non è il lavoro sal¬ tuario e occasionale: è il lavoro metodico, disci¬ plinato, razionale, uniforme, perciò specializzato. Scegliersi una professione ed esercitarla con tutta coscienza è dovere religioso. 11 Calvinismo getta così le basi della tremenda disciplina della fab¬ brica moderna (ben diversa dalla molle disciplina dell artigianato), tutta fondala sulla divisione del ✓ lavoro. Il Puritanismo, sviluppo del Calvinismo, va ancora più in là ed insegna esser dovere di trarre il maggior guadagno possibile dal lavoro, non per amore di lucro, non per smania di godi¬ mento, ma perchè più di benedizione ricada sulla testa del prossimo bisognoso. Inoltre, il guadagno è il sintoiùo certo che la professione scelta è grata a Dio: più il guadagno è grande, più si è certi di servir Dio col proprio lavoro. Il Puritanismo apre così ad ogni professione, qual’essa sia. la prospet- — 57 — tiva del guadagno illimitato. Esso non solo per¬ mette, ma consacra come dovere religioso la ricer¬ ca dell’arricchimento. Per la prima volta nel mondo, esso concilia ricchezza e buona coscienza. Voler esser povero è sommamente sconveniente alla gloria di Dio. Non però, come Lutero, il Calvinismo fa oblili- go all’individuo di rimaner contento della classe o professione in cui è nato: è obbligo dell’indi¬ viduo lavorare nella professione che a lui e alla società dà più utile e fecondo rendimento, e se per questo l’individuo deve lasciare la professione per adottarne un’altra, gli è non solo lecito, ma doveroso farlo. 11 lavoro viene così affrancato dalla soggezione alla professione come dato di natura, gli viene lasciata ogni libertà d’iniziativa, viene mobilizzato, fluidificato, snaturalizzato, ra¬ zionalizzato. Negate il mondo, ma stando nel mondo e operando sul mondo, lavorate, guada¬ gnate, arricchitevi, e ciò perchè il mondo rifletta la maestà di Dio e dei suoi santi: e il mondo mo¬ derno col suo culto del lavoro per il lavoro, del risparmio, della ricchezza e col suo aborrimento del riposo e del piacere è virtualmente fondato. ✓ \ Ir: I • M V ♦ IX. Il concetto di lavoro sotto l’influsso DELLA TECNICA E DELL’ECONOMIA MODERNE. A misura che si avanza nell’età moderna e che l’attività economica si spinge al primo piano e diventa dominante nella costituzione della società, il concetto di lavoro acquista importanza sempre maggiore nel sistema dei concetti etico-sociali, fin¬ ché nell'età contemporanea diventa a dirittura il concetto centro e chiave del mondo. Farne una storia perfetta e compiuta sarebbe quanto fare la storia dell’economia, dell’etica, della sociologia, della pedagogia, della tecnica e, in genere, della cultura moderna. La storia del concetto di lavoro ha interferenze continue e incessanti con la storia dei concetti di uomo, di attività, di libertà, di progresso, e malagevole sarebbe il separarne net¬ tamente i confini. Noi qui non possiamo che a mala pena sfiorare il vastissimo tema. La curva di sviluppo che le riflessioni sul con¬ cetto di lavoro percorrono nell’età moderna è net¬ tamente individuabile: l’età moderna tende, sì, a * — 60 — conservare Ja dignità di servizio religioso confe¬ rmai, dai Calvinismo, «, a si sforza pure di affran¬ care tale dignità dalle premesse teologiche e dalle esperienze religiose da cui il Calvinismo la deriva La religione del lavoro per il lavoro, che nel Cal¬ vinismo non è che un corollario subordinato de] Cristianesimo riformato, tende nell’età moderna irresistibilmente ad affermarsi ed a valere per sè edesima. L ascesi mondana del Calvinismo ten- a trasformarsi in misticismo attivistico raziona¬ listico laico. Rivoluzione d’incalcolabile portata di cu. non possiamo indicare qui che le tappe prin¬ cipali di sviluppo. A laicizzare il concetto di lavoro e, insieme a spingerlo al primo posto nel sistema dei con¬ cetti etico-sociali contribuì in prima linea il „i- gantesco sviluppo che dal Rinascimento in poi * Per 1 appunto sotto l’influsso dello spirito de] Rinascimento, ebbe la tecnica industriale. Feno- meno, questo, del tutto moderno. La tecnica antica, in generale, non si spinge dila del piano della natura, della quale è solo un prolungamento e un’ amplificazione quantita¬ tiva. L ariete prolunga il braccio, è un braccio più grosso e piu lungo; la catapulta prolunga il pugno, e un pugno più grosso e più lungo. 1 suoi «forzi, la tecnica antica li riserva, in fondo, per gli eventi straordinari della vita sociale (per le guerre sopratutto), i suoi progressi sono saltuari e occasionali, frutto in buona parte del caso ri- — 61 — mane sempre puramente empirica, e per questo appunto si trasmette da maestro a discepolo per via d’insegnamento personale. L’applicazione con¬ tinua e sistematica della tecnica a tutte le occor¬ renze della vita, quelle straordinarie come epici le quotidiane, lo svincolo di essa dal piano della nuda natura e il suo librarsi su un piano di pura astrazione inventiva, sono cose ignote all' anima antica, rifuggente dal mondo della materia, ma essenziali all’età moderna, che sul mondo della materia esplica sì gran parte della febbrile atti¬ vità di cui brucia. Dal secolo xvu in poi la tec¬ nica va rompendo ogni rapporto con la magìa, e si va dando sistematicamente per base le scienze della natura e la matematica. La parte dell’espe¬ rienza personale si restringe sempre di più. A sua volta, da nuda contemplazione, da passiva osser¬ vazione, la scienza va sempre più diventando espe¬ rienza, dialogo tra lo spirito clic interroga e la materia che è obbligata a rispondere, tortura elle lo spirito spietatamente infligge alla natura perché si pieghi alle sue esigenze. Lo sviluppo della scienza sperimentale procede di pari passo con lo sviluppo della tecnica e del macchinismo: ne è la condi¬ zione e l’effetto, Insieme. Il macchinismo è nell’ordine tecnico il riflesso di quello che è il risparmio nell’ordine economico. Come «pii la ricchezza è investita a produrre nuova ricchezza, a sua volta investita anch’essa a pro¬ durre altra ricchezza, e via all’infìnito, così la inac- f — 62 china è impiegata a produrre oggetti, a loro volta impiegati l a costruire macchine più perfette e po¬ tenti, che dominino sempre meglio e più pron¬ tamente la materia. < La macchina genera così sé medesima. Nella macchina di oggi rivivono capitalizzate e fuse come momenti ideali, negate nella, loro indipen¬ denza. ma assorbite come elementi, le macchine del passato. Si potrebbe raffigurare lo sviluppo della tecnica negli ultimi quattro secoli come un immenso ininterrotto processo di autogencrazione di una macchina mostruosa, che più avanza neg i anni e più prontamente e tirannicamente comanda al tempo e allo spazio. A questo processo di svi¬ luppo, a differenza di quello degli organismi na¬ turali, non si possono prescrivere confini. A «tua - mente, al limite, il raggio d’azione della macchina si estende all’universo. Triturare la materia del mondo, ridurla fluida e plastica, violentarle in tutte guise secondo gli scopi umani, tale il hne- limite della macchina. L’uomo appare a se stesso artefice di capacità demiurgica illimitata, eie va man mano sostituendo alla natura naturata una natura opera e fattura sua. una natura di labora¬ torio. Egli ottiene gli stessi prodotti della natura, ma con processi diversi, e ai prodotti della natura „c aggiunge infiniti altri che in natura non sono, alla natura naturale sovrapponendo cosi a poco a poco un’altra natura di origine e destinazione umane. — 63 — Da queste esperienze sgorga e su di esse reiu- fluisee intensificandole e accelerandole l’ideologia del Progresso illimitato per mezzo della scienza e della tecnica, concetto, questo, allatto ignoto al mondo antico e medioevale. E nel primo fiam¬ meggiare delle speranze l’uomo non concepisce limiti alla sua capacità demiurgica, al Progresso: non v’é cosa che egli non creda di poter conqui¬ stare, non v’é nemico che egli non speri di poter atterrare, il tempo lo spazio la povertà la malat¬ tia la vecchiaia e la morte stessa. Le invenzioni tecniche susseguendosi incessantemente, e l’una rendendo inutile quella precedente nello stesso tempo che la contiene in sé come momento supe¬ rato. lo spirito d’immobilità riceve un colpo mor¬ tale. L’uomo cessa di pensare il mondo sotto la categoria statica dell’ Essere, dell’ Essenza, della Cosa, si abitua a pensarlo dinamicamente, come travolto nel turbine di un divenire incessante. Sotto l'influsso della scienza e della tecnica ap¬ plicate al mondo dell’ economia nasce un nuovo tipo di uomo economico: sdegnoso della routine e delle tradizioni, sempre pronto alle pili audaci in¬ novazioni, agile a profittare degli ultimi suggeri¬ menti e ritrovati della scienza, nulla lascia al caso e all'abitudine, ogni più piccolo particolare del processo economico sottomette al controllo della ragione riflessa e cosciente, tesa al raggiungimento del massimo risultato col minimo sforzo e con la minima spesa. Razionalismo tecnico-economico ed attivismo calvinistico si fondono in unità, e ne nasce il tipo moderno dell’imprenditore, del pro¬ duttore, nel quale si attua la sintesi ilei vecchio spirito borghese e mercantile di calcolo, di pru¬ denza, di riflessione utilitaria e del vecchio spirito avventuroso conquistatore del primo piratesco ca¬ pitalismo. iLo spirito d’intrapresa è la sintesi di queste due forze in apparenza opposte: spirito di audacia e di calcolo, di avventura e di prudenza, di iniziativa e di riflessione insieme. Romanticismo e utilitarismo sono le forze opposte del cui insta¬ bile e perpetuamente rinnovellantesi equilibrio si nutre 1' anima dell’ imprenditore moderno. La struttura del presente sistema economico, detto capitalistico, è tale che esso obbliga a lavorare in vista del guadagno e del guadagno soltanto. Nella lotta incessante delle imprese è condizione di vita per ciascuna di esse guadagnare sempre di più. Ne deriva che ogni impresa in tanto è veramente viva e vitale, in quanto non accetta di adagiarsi sulle posizioni conquistate e consolidate, ma si lancia sempre più oltre, alla conquista di un gua¬ dagno sempre maggiore. Nel sistema economico presente una impresa in tanto è viva e vitale, in quanto ha in sé uno slancio che la porta ad esten¬ dersi a dilatarsi ad amplificarsi al dilà dei bisogni attuali, senza limiti, all’infinito. La volontà (che è necessità) di un guadagno sempre più grande e la necessità che ne deriva di vincere la concorrenza delle imprese rivali obbligano l’impresa a mante- — 65 — «ersi al corrente delle invenzioni tecniche che di continuo si succedono e s’incalzano. Ma tenersi al corrente 1 impresa non può che a condizione di estendere sempre di più il volume dei suoi im¬ pianti e dei suoi affari e di utilizzare sempre più intensamente ciascun minuto del tempo e ciascuna particella della materia che impiega. L’impresa di¬ venta così tpiasi un essere vivente, che in tanto può vivere e sopravvivere, in quanto sempre più si dilata nello spazio e riempie d’un'attività sem¬ pre più intensa e frenetica il suo tempo, trasci¬ nando nel vortice della sua vita furibonda l’im¬ prenditore, anche se riluttante. Così, sotto la doppia pressione della necessità economica e tecnica, si accende nell’imprenditore moderno una divorante furia di attività, una feb¬ bre di lavoro, la quale non ha più altro scopo che sé stessa, (e che considera sé stessa non già come mezzo per la conquista della ricchezza, per il rag- giungimento del lusso e del piacere, ma come fine a sé medesima. Da questa visuale psichica im¬ prenditore ed impresa fanno tutt’ uno, e la vera ricompensa che l'imprenditore chiede al suo la¬ voro è nel ritmo di vita sempre più intenso e vo¬ race di cui palpila e vibra l’impresa, è nello slancio vitale sempre più gagliardo e potente che porta l'impresa a crescere nello spazio e nel tempo, è nella volontà di potenza sempre più aspra e più dura, grazie alla quale l'impresa vive e dura e com¬ batte e vince. (Cfr. Werner Sombart, Drr Bour - Tilfjher r> — 66 — geois, cap. ultimo). Qui veramente, per la prima volta nella storia ilei mondo, si attua, non già come fenomeno individuale, ma come fondamen¬ talissimo fenomeno di tutta una civiltà, il lavoro pel lavoro, il lavoro fine e scopo a sé stesso. È questa la realtà viva e concreta su cui, come ri¬ flessione e teorizzazione «li essa, cresce la nuova visione e intuizione della vita, di cui il concetto chiave e centro è quello del lavoro. X. Il concetto di lavoro nf.l Rinascimento. A laicizzare il concetto di lavoro e a dargli un posto eminente nel sistema dei concetti etici con¬ tribuì lo spirito del Rinascimerito con lo sposta¬ mento che esso venne a poco a poco operando del¬ l'interesse umano da Dio all’uomo, dall’aldilà all’al- diquà, dal ciclo alla terra, considerata come più vero e più degno teatro dell’attività dell’ uomo, abitante di un mondo cbe egli non trova già bello e fatto, ma che si viene a poco a poco costruendo con la (fatica delle sue mani. Di contro all’animale, confitto da natura alla catena di una legge immutabile. Marsilio Ricino esalta l’uomo, non asservito ad alcuna legge, perciò libero, mutevole, progressivo, che non solo nelle opere sue imita, ma « compie, corregge ed emenda le opere della inferior natura », si costruisce da sé alimenti, vesti, strumenti, abitazioni, suppel¬ lettili ed armi con abbondanza maggiore di quella di cui le bestie godono per natura. L’attività niul- — 68 — tiforme dell’uomo, grazie alla quale egli sotto¬ mette ai suoi usi gli elementi, le pietre, le piante, gli animali, i metalli trasformandoli in molte guise e figure, né si contenta, come gli animali, di un elemento solo, ma di tutti usa, e a tutti accresce ornamento, all’ acqua con le irrigazioni, all’ aria con gli eccelsi edifici delle città, alla terra con l’agricoltura, e a tutti gli abitatori degli elementi comanda ed impera, è per Ficino il segno vero della sua divinità. È in grazia della sua pratica at¬ tività che 1' uomo appare a Ficino un vicedio (vi¬ cem gerit Dei), un quasi Dio (quidam Deus), Dio degli animali, « di cui tutti usa, a cui tutti im¬ pera, di cui moltissimi istruisce », Dio degli ele¬ menti « che tutti abita e coltiva », Dio di tutte le materie « che tutte tratta, converte e trasforma » f Theologia platonica, XVI, 3). Concetto che la modernità isolerà dalla spessa ganga teologica e mitologica che ancor l’avvolge nella enunciazione di Ficino, e proietterà al primo pianio della rifles¬ sione filosofica, ma al quale, in fondo, non ag¬ giungerà nulla di veramente essenziale. Il concetto demiurgico dell’uomo così magnifi¬ camente enunciato da Ficino percorre come un filo d oro tutto il Rinascimento. Esso affiora nella te¬ nacia con la quale Leon Battista Alberti mette in guardia contro i pericoli dell’ozio e della sciope¬ rataggine e nella esaltazione che egli fa della la¬ boriosità che ben riempie il lento scorrere delle ore (Del governo della famiglia). Esso affiora nel sentimento con cni Leonardo ripete il vecchio motto greco che gli Dei tutti i beni ci vendono a prezzo di fatica e di pena, motto che nel greco tradisce un’amarezza profonda e invincibile, e in Leonardo invece vibra dell’alacre e virile conten¬ tezza di chi sente la vita come ricerca che non poserà mai — ed è bene e hello non posi mai — nell’oggetto suo finalmente conquistato, ma sempre ascenderà di gradino in gradino su per la scala che non ha mai fine di una inattingibile perfe¬ zione. Esso affiora nella esaltazione che Giordano Bruno fa dell’umano lavoro, distinto in spirituale, avente in sé stesso la sua voluttà e il suo premio, e materiale, che quella voluttà e quel premio trova nel profitto che è il suo fine. E sempre, in tutte le forme, strumento di tutte le conquiste umane e arma contro l’avversa fortuna. Di contro all'età dell’oro, età di ozio e di stupidità peggio che be¬ stiale, Bruno esalta l’età umana della fatica, che di giorno in giorno spinta dal bisogno va creando sempre, più meravigliose arti e invenzioni e sempre più va allontanando gli uomini dall’età bestiale e approssimandoli alla divinità. È per essa che l’uomo va creando una seconda e più alla natura di cui egli è il vero Dio. E mentre l’età dell’oro è al di qua della vita morale, ignora il vizio ma appunto perciò ignora la virtù, la bipolarità di bene e di male, di vizio e virtù, sorge nella età umana della industria e del lavoro. Ed è il lavoro — 70 — che facendo dell’ozio riposo, gli conferisce virtù benefica e dignità morale. (Lo Spaccio tirila Bestia Trionfante, dialogo III). Concetti che troveranno forma poetica nella inebbriata esaltazione che Tomaso Campanella fa dell’uomo, il quale che del busso mondo par dio secondo il vento e 7 mar ha domo — e 7 terrea globo con legno gobbo — accerchia, vince e vede, merco e fa prede. Merco e fa prede — a Ini poca è una terra. e doma gli animali, e « gran città compone », e « leggi pone come un dio », e maneggia il fuoco, e fa delle notti giorno, e rompe le leggi di natura. E con piena coerenza nella Città del Sole egli assegna alla classe degli operai dignità in tutto eguale a quella delle altre classi della società. Tutti lavorano nella Città del Sole, ma a tutti il lavoro è gioia, perché ad ognuno è assegnato se¬ condo il carattere e il destino prescrittigli dalla natura, e dopo aver lavorato per quattro ore al giorno soltanto è libero di attendere ai diverti¬ menti e allo studio. Un simile ideale era già stato vagheggiato da Tomaso Moro nella Utopia. Nell’isola di Utopia non ci sono né oziosi né caste, tutti lavorano e tutti a turno bau parte a tutti i lavori, spirituali — 71 — e materiali. A questi ultimi si attende per sei ore al giorno al massimo, e il resto è dato al riposo e ad utili e interessanti occupazioni. Sembrerebbe che, conforme allo spirito della sua filosofia, che esalta l’importanza pratica della scienza, stru¬ mento indispensabile della potenza dell uomo sulla naluVa, e che tende a concepirla essenzialmente come tecnica, Bacone dovesse celebrare il lavoro e assegnare un posto d’onore alle arti meccaniche e alle industrie. Invece, con inconseguenza curiosa, egli assegnò loro un posto secondario e subordinato nello Stato, e le guardò con dispregio perché di¬ stolgono gli uomini dalla milizia. Tra lavoro e spi¬ rito militare Bacone, come più tardi Spencer, pose un'antinomia, e poiché questo considerava essen¬ ziale alla esistenza e alla floridezza degli Stati, ad esso diede la preferenza. Lo spirito del Rinascimento soffia anche nella pedagogia: è comune negli scrittori e pensatori di quel tempo l’affermazione, che dall'edueazioue del¬ l'animo e della mente non può andare disgiunta quella del corpo e della mano. Oltre che nello studio di tutte le arti e scienze liberali e negli eser¬ cizi ginnastici e militari Ponocrate non dimentica dì addestrare il suo alunno Gargantua anche nei lavori manuali più umili e ordinari. ( Gargantua, XXIII e XXIV). Nella Città del Sole di Tomaso Campanella tutti sono educati nelle arti mecca¬ niche e sono condotti nelle relative officine perché venga chiarita la tendenza speciale di ciascuno — 72 — ingegno: e sono eletti magistrati quelli che più si segnalano in una scienza o arte meccanica. È il principio di quella scuola del lavoro che si pro¬ segue e sviluppa sino ai nostri giorni, e di cui non spetta qui fare per minuto la storia, che rientra < ome capitolo particolare nella storia della peda¬ gogia. I XI. Il concetto di lavoro nel Settecento. II processo di laicizzazione del concetto di la¬ voro prosegue e s’intensifica nel secolo xvm, che è quello nel quale si vanno elaborando i tratti ca¬ ratteristici della moderna visione della vita, della storia della quale la storia del concetto di lavoro non è più ormai thè un capitolo, se pure dei più importanti e fondamentali. Essa s’intreccia indis¬ solubilmente con la storia del gran problema del secolo xvm, che fu il problema della Cultura, della Civiltà, e dei suoi rapporti con la Natura: e le due soluzioni capitali che ne furono date, quella che concepisce la Storia come decadenza e perciò svaluta e condanna la Civiltà e la Cultura, e quella che concepisce la Storia come Progresso ed esalta la Cultura e la Civiltà, irraggiano la loro in¬ fluenza nel campo più particolare del problema del lavoro. Si può anzi asserire che attraverso le vicende delle soluzioni che furono date a questo, come ad altri problemi speciali, quello del Lusso, ad esempio, è possibile seguire come attraverso uno specchio esemplare le alterne vicende di (pici gran duello culturale che riempie di sé tutto il secolo xvm. Oscillante tra progresso e decadenza, il pen¬ siero di Montesquieu non è meno indeciso in quello che riguarda il nostro particolare pro¬ blema. Da qualunque punto di vista egli si ponga, tosto gli si svelano le contraddizioni di questo e i vantaggi del punto di vista opposto. L’ideale di una vita semplice e primitiva, vicina alla Natura, e quello di una vita ricca di tutte le più raffinate conquiste della civiltà a volta a volta lo attrag¬ gono e lo respingono. Tuttavia le più segrete sim¬ patie del suo spirito finiscono per orientarsi nel senso della soluzione progressista. Perciò egli loda l’ardore al lavoro, la passione d’arricchirsi, la smania del lusso, che sono inseparabili dalla Ci¬ viltà: uno stato che si contentasse solamente del puro e nudo necessario sarebbe uno dei più mise¬ rabili e dei più deboli che vi siano al mondo ( Lettres Persanes , CVI). Per la Natura contro la Civiltà e la Cultura è Rousseau: naturalmente, egli è per la soluzione decadentista anche per ciò che riguarda il nostro problema. Lo stato d’innocenza e di felicità è quello più vicino allo stato di natura, ormai senza rimedio superato: è lo stato rustico di vita, in cui ognuno vive per sé. senza dipendere da altri pur conservando un certo rapporto con altri, e non vi è né superfluo, né lusso, né ricchezza, né denaro, ina solo il necessario alla vita, qé si conoscono altri scambi che di oggetti naturali. Superfluo, lusso, ricchezza, denaro, comodi, e le arti che loro danno origine, sono da Rousseau guardate con estremo disfavore e nettamente condannate. L’iu- dusti ia è sorta per soddisfare bisogni e passioni ignote ai popoli vicini allo stato naturale La divi¬ sione del lavoro stabilendo rapporti di scambio e di proprietà genera dipendenza c schiavitù, e alla smodata ricchezza e al lusso insolente degli uni oppone la miseria degli altri. Ogni nuovo passo nella complicazione del lavoro porta seco aumento di dipendenza e d’ineguaglianza, quindi d’infeli¬ cità. |Discours sur Vinégalité). 11 lavoro che Rousseau apprezza è quello che mentre è utile alla società, più avvicina l’uomo allo stato di natura, cioè il lavoro manuale, c di tutte le condizioni la più indipendente dalla for¬ tuna e dagli uomini gli sembra l’artigianato. L’arti¬ giano non dipende che dal suo lavoro; lo si oppri¬ me? più libero dell’agricoltore, egli porta via le sue braccia e se ne va. Certo, l’artigianato non conduce alla fortuna, ma con esso si può fare a meno di questa (Émile, 1. III). Punto di vista logicamente conforme all’ascetismo civico che è il tratto fondamentale della visione della vita di Gian Giacomo. Tn netta antitesi col pensiero di Rousseau è il pensiero di Voltaire. Voltaire è risolutamente con- — 76 — vinto che la storia è Progresso. Ma il progresso per lui non è nulla né «li fatale né «li necessario, bensì frutto dello sforzo paziente e tenace, dolo¬ roso e crudele, spesso frustrato, sempre rico.mn- ciante, dell’uomo. Nella lotta fra Natura e Civiltà, Voltaire è per la Civiltà, in cui profondamente egl. addita la vera e sola natura dell’uomo. Mentre Rousseau, credente nella Decadenza, vagheggia in una repubblica di piccoli agricoltori e artigiani, sul tipo delle repubblichette montanare svizzere, l’ideale della società, Voltaire, che è per la Civiltà, è con piena coscienza e coerenza anche per tutto ciò che «Iella Civiltà è frutto e molla insieme: l’ardore al lavoro, la smania di arricchire, il super¬ fluo « cosa necessarissima », il lusso, le arti, i commercio, l’industria. Lo stato di natura è stato d’ignoranza e di soddisfazione puramente animale di animaleschi bisogni. Il paradiso terrestre non e dietro a noi, è dinanzi a noi, è fra noi, è ment al¬ leo eh e la società e la civiltà stesse (Le Mondami Lavorare è la parola finale del Candide, gli ero. del quale si stabiliscono in un giardino sulle rive del Bosforo e nel lavoro, ciascuno conforme ai suoi gusti e alle sue attitudini, ciascuno in cor¬ diale collaborazione con tutti, trovano la pace di cui fino allora era stata priva la loro tempestosis¬ sima vita. , . Tutti si accordano a porre nel lavoro la ni - dior soluzione pratica dell’enigma «Iella vita. ,< L’uomo non è nato pel riposo », dice Pangloss. — 77 — « Lavorare senza ragionare è il solo mezzo di ren- dorè la vita sopportabile », dice Martino. « Riso- gna coltivare il nostro giardino», dice Candido, sulla qual parola il libro si chiude. Sono in fondo, le idee degli Enciclopedisti. Lidea che guida costoro come stella polare è quella del Progresso fatale e necessario ad opera . ella crescente diffusione dei lumi della Ragione e della Scienza. 11 Progresso è per essi la legge suprema della Storia e della Umanità. Essendo pel '(Progresso contro la Decadenza, sono naturalmente per la Civiltà contro la Natura, e per tutto ciò che fa la Civiltà: agricoltura, industria, commer- ciò, navigazione, metallurgia; sono partigiani del¬ la ricchezza, del lusso, del lavoro, artefice massi¬ mo, con la Scienza, del progresso umano. Uno di essi, D’Holbach, vuole che il lavoro sia reso obbli¬ gatorio per tutti e che vi sia tra gli ordini dei cittadini dipendenza reciproca di lavori ( Éthocra - ue, cap. Vili . De l’homme, VI, vi). « La necessità del lavoro non è una condanna: e la sentenza di un padre che rende tutta la crea¬ zione tributaria dei nostri bisogni» (citato da B. Groethuysen, Origines de Vesprit bourgeois en r rance. I, p. 216, Paris, 1927, N. R. F.) ; questa frase scritta nel 1788, alla vigilia della grande Rivo¬ luzione, condensa nel giro di poche preziose parole lutto l’immenso rivolgimento spirituale operatosi nei riguardi del concetto di lavoro e denuncia I abisso apertosi ormai fra le visuali moderne — 78 — V •Iella vita e le antiche visuali della Chiesa cat¬ tolica. Lo stesso corso d’idee che in Francia si svoW m Inghilterra. Locke celebra il lavoro come fonte •Iella proprietà individuale e scaturigine di ogni valore economico (Governo civile, cap. IV). Con Vaudeville il processo di laicizzazione del concetto di lavoro si spinge a un punto avanzatissimo: il lavoro è inculcato non come mezzo al fine di far risplendere sempre più sul mondo la gloria della divina maestà, ma solo come mezzo al fine del sempre maggiore rigoglio del corpo sociale. Inten¬ dendo per virtù l’onestà nel senso ascetico e asten- sionistico della parola e per vizio le attività econo¬ miche, le energie passionali, i bisogni infiniti, gli ] À istinti innumerevoli dell’uomo naturale (vanità, invidia, cupidigia, ambizione, amore dei piaceri, del guadagno, della ricchezza, del lusso), JMande- ville, con un paradosso che quando fu enunciato ebbe la più grande eco, sostenne che non le virtù, ma i vizi fanno vivere e prosperare il corpo so¬ ciale, che dalla prevalenza delle virtù sarebbe reso languido e inerte. Se vi sono società vaste, potenti, civili, è a causa ilei vizi di cui gli uomini sono naturalmente imbrattati. Senza vizi, niente atti¬ vità, niente ricchezze, niente pubblico splendore, niente civiltà. Senza lusso, senza prodigalità non vi sarebbe né •commercio, né industria, né lavoro pei poveri. Donde il famoso apoftegma : « i vizi privati son pubblici benefici » (La Fnvoìn delle V — 79 — api). Così ciò die per 1 etica ascetica è il lato nega- tivo della natura umana, appare ora la forza pri¬ mordiale donde si germina ogni bene pubblico e individuale. Secondo Ilume ciò die distingue l’uomo dall’ani- male è il lavoro e la pena con la quale egli iel¬ lato povero e nudo sul mondo, compra tutti i beni della natura. È la necessità il gran pungiglione del- 1 attività e dell’invenzione. Come tutti gli scrittori di questa direzione, anche Hume celebra il lusso e la ricchezza. Seguendo Voltaire contro Rousseau, Ferguson .nostra nella civiltà, frutto dell’attività e del lavoro umani, la vera natura dell’uomo: lo stato di na¬ tura è dovunque sono situazioni cui l’uomo è stato condotto dalle sue inclinazioni naturali, dal Ubero spiegamento della sua attività. Come Voltaire Mandeville, Hume, anche Ferguson celebra il lusso e la ricchezza. Finalmente, il fatto della naturale divisione del lavoro nelle società umane, fatto già messo in rilie¬ vo da Locke, da Hutcheson, da Ferguson, da Hume, che in esso aveva visto la causa prima del passag¬ gio dalla condizione selvaggia alla civiltà, trova in Adamo Smith colui ohe lo pone nella più intensa luce e lo colloca al centro della sua visione del mondo economico. Come Locke, Smith afferma che la vera ricchezza della nazione è nella quantità di lavoro che essa esegue e di cui è capace. È il la¬ voro, è 1 attività dell uomo che crea ogni anno la 0 — 80 — massi, di beni che consuma, e non le forze natu¬ rali, che, abbandonate a sé stesse, rimarrebbero infeconde e sterili. Questo movimento di idee investe il campo della Economia politica: il concetto di lavoro diventa il concetto cardine di questa scienza allora nata. Esso acquista una generalità sempre crescente. Secondo i Fisiocrati, lavoro veramente produt¬ tivo è quello agricolo (intendendo con questa pa¬ rola anche la caccia, la pesca, l’industria delle miniere) perché solo esso fornisce il materiale del¬ ia ricchezza, che l’industria e il commercio si limi- taiio a mettere in opera. Smith, invece, estende il concetto di lavoro prò- a Ottavo a tutti i lavori che trasformando la materia m modo da farla servire ai nostri bisogni ne fanno una cosa utile. Il lavoro gli appare principio di ogni ricchezza. Sospeso o soppresso il lavoro del- agricoltura, dell'industria, del commercio, i cam¬ pi, le merci non hanno pili valore. Classe produt- tiva è quella dei lavoranti, di qualunque specie Ma questo lavoro. Classe sterile è solo quella che vive oziando. Da queste dottrine discendono quelle di Ricar- ' o e di Marx cho faimo del lavoro la fonte del valore: ma una pili particolare indagine di queste dottrine esula dall’oggetto del nostro studio e rien¬ tra come capitolo speciale nella storia dell’Econo- nua politica. A noi basta aver messo in rilievo come lo stesso movimento ideale che laicizza sem- — 81 — pre più il concetto di lavoro e gli conferisce sem¬ pre più grande importanza nel sistema dei con¬ cetti etici, si ripercuota nell’Economia politica. Ma nell’economia della scuola liberale il lavoro viene considerato al di fuori di ogni preoccupa¬ zione etica, al pari di una qùalujtque macchina che costa un capitale e deve rendere un interesse. 7’ilgher 6 ✓ « XII. Il concetto di lavoro NELLA FILOSOFIA DEL SECOLO NIX. 11 secolo 'XIX è. pel concetto di lavoro, il gran secolo, il secolo d’oro. Esso vede il trionfo del lavoro umano e, correlativo a questo, il trionfo del concetto im cui il lavoro umano si teorizza ed assume coscienza di sé. Da umile concetto subor¬ dinato nel sistema dei concetti morali il concetto di lavoro si spinge sempre più su nella gerarchia dei concetti filosofici, sempre più grandeggia d mi- portanza e di significato, sempre più subordina a eé gli altri concetti e divora quelli rivali, per fina ¬ mente assurgere alla dignità di concetto-chiave di tutta una visione del mondo e della vita. Questo movimento ascensionale del concetto di lavoro s’inizia con la rivoluzione filosofica operala da Emanuele Kant. È Kant il primo a concepire la conoscenza non come nuda astrazione dai dati del senso passivamente ricevuti (empirismo) o co¬ me immediato rispecchiamento ideale dei principi — 84 — dell’essere (razionalismo), ma come potenza sin¬ tetica e unificatrice, che dal caos dei dati sensibili trae, operando secondo leggi immanenti allo spi¬ rito, il cosmo, il mondo ordinato della natura. Lo spirito appare così come attività che dal suo stesso fondo genera ordine e armonia. Conoscere è fare, è agire, è produrre: produrre unità e armonia. 11 concetto dell'azione produttrice s’impianta nel cuo¬ re della speculazione filosofica e non se ne parte piti. Tutta la storia della filosofia moderna nelle sue correnti vive e significative dal criticismo di Kant alle forme ultime del Pragmatismo è la sto¬ ria dell’approfondimento sempre maggiore di que¬ sto concetto dello spirito come attività sintetica, come produttività, come demiurgicità. Tutto lo sforzo del pensiero moderno tende a vedere sem¬ pre più chiaro nella natura di quella sintesi pro¬ duttrice che è lo spirito umano. Da Kant in poi la filosofia moderna obbedisce a un duplice e in ap¬ parenza contrario movimento: da una parte, a risolvere sempre più il particolare concetto di lavoro nel generale concetto di spirito come atti¬ vità produttrice; dall’altra, a concepire sempre piu l’attività sintetica e produttrice dello spirito sul modello dell’umile lavoro fabbrile. Da Kant al Pragmatismo e a Bergson la curva di sviluppo della filosofia dello spirito tende sèm¬ pre più alla concezione dello spirito come produt¬ tività, come fattività, come demiurgicità, e alla concezione di questa come fabbrilità, come lavoro — 85 — industriale. La sinteticità dello spirito che in Kant non ha altra causa che sé stessa, che la da¬ tura stessa dello spirito, viene a poco a poco nel processo della speculazione posteriore riallacciata come effetto a causa a una potenza superiore che trascende la Ragione in quanto tale: la potenza della Volontà, cioè della Vita. 11 Mondo, la Natura, rimanda alla Conoscenza: afferma l'idealismo kantiano e postkantiano. La Conoscenza rimanda alla Volontà e alla Vita: affermano con sempre maggiore coscienza le correnti irrazionalistiche e vitalistiehe dell’ultimo mezzo secolo di specula¬ zione. 11 mondo 'è in quanto lo spirito lo conosce. Lo spirito conosce in quanto conoscere è funzione iueliminabile e necessaria del volere, del vivere. E vivere è sempre, in vario modo, realizzarsi come unità attraverso il caos della molteplicità, è sem¬ pre imporre ordine al disordine, senso all’insen¬ sato, è sempre sforzo tensione fattività deiniurgi- cità, in una parola: lavoro. Già in Fichte questa concezione demiurgica dello spirito appare formulata con tutta chia¬ rezza. L’uomo deve trovare nell’attività, e in essa solo, tutta la felicità. La fonte di ogni vizio è la pigrizia, l'inerzia, inerente alla materialità. L’uo¬ mo che è nato dalla materia è naturalmente pigro. Di qui la lotta tra la pigrizia naturale e i bisogni che si accendono in lui all’uscita dallo stato di natura. Per soddisfarli egli non ha altra risorsa che lavorare la natura, e da rozza e selvaggia co- r — Bò¬ ni é e come dev'essere perché l’uomo sia costretto a uscire dallo stato di natura, ridurla in sogge¬ zione sua. Il lavoro ha in sé stesso il compenso con la gioia che dà all'uomo sentirsi forte e attivo^ (Bestimmung des Gelehrten, V). Ognuno deve po¬ ter vivere del suo lavoro. Quindi lo Stato ha il di¬ ritto di vigilare che ognuno lavori «pianto può. Solo chi ha fatto «pianto poteva nella sua sfera per mantenersi e non lo ha potuto ha diritto al soc¬ corso. Lo Stato deve assicurare ai cittadini il di¬ ritto al lavoro, perchè ognuno guadagni col lavoro quanto è necessario alla sua vita ( Grundlage des Naturrechts, § 16). Uccidersi, anzi il solo deside¬ rare di uccidersi, è peccato, perché è desiderio di non lavorare piu ( Sittenlehre, § 20). 11 destino fieli uomo in terra è di lavorare, di sottomettere continuamente e progressivamente la natura allo spirito, il Non-Io all'Io. l’Irrazionale alla Ragione. I inali del mondo non sono che compiti da risol¬ vere. E solo il lavoro a poco a poco progressiva¬ mente li risolve. I Bestimmung; des Menschen, HI. Cfr. anche Grundziige d. gegenwiirtigen Zeital¬ ter s, III). In un simile giro di concetti si muove anche Hegel. Secondo lui, solo il lavoro procaccia al¬ l'uomo i mezzi per soddisfare i bisogni. La ma¬ teria immediata che non ha bisogno di essere elaborata è limitatissima. Perfino l’aria tlev’esserc elaborala, perchè si deve riscaldarla. Solo l'acfjua si può berla come si trova (Philosnphie des Rechis. — 87 — § 196). L’eredità spirituale di questi granai non è andata perduta. \ Tutto lo sforzo della moderna filosofia della conoscenza nelle correnti più vive tende a ricon¬ durre la conoscenza al lavoro produttivo. Cono¬ scere è fare. Si conosce davvero solo ciò che si fa. Ma che cosa l’uomo fa veramente? Non certo i dati ùltimi delle sensazioni: questi gli sembrano imposti dal di fuori, sono iti lui ma fion da lui. Ma egli può grazie al suo lavoro variamente com¬ binare questi dati ultimi in modo da renderli ubbidienti al suo bisogno, al suo volere, al suo capriccio; alla natura reale, alla natura naturata, sostituendo così a poco a poco una natura di la¬ boratorio e di officina, che egli conosce perché l’ha fatta, chiara per lui perché opera sua. Il problema della conoscenza riceve una soluzione pratica. La tecnica risolve praticamente il pro¬ blema della conoscenza. Chi ha visto più chiaro di tutti nei rap¬ porti dell’intelligenza con il lavoro umano, con la tecnica, è Bergson (Évolution créatrice, cha- pitre III I. L’intelligenza umana, secondo Bergson, è carat¬ terizzala essenzialmente dall’invenzione meccanica. Che l'uomo sia animale intelligente vuol dire sem¬ plicemente questo in origine: che egli sa fabbri¬ carsi degli oggetti artificiali, in particolar modo utensili per fare utensili. L’uomo è intelligente iu quanto è fabbro. È per la fabbrilità clic l’uomo volge le spalle alTanimalità, e inaugura un nuovo ciclo nella storia della vita. L’istinto è la facoltà dell’animale di utilizzare e costruire strumenti organici : lo strumento organico fa tutto d’un tratto, al momento voluto, senza difficoltà, con per¬ fezione mirabile, ciò che è chiamato a fare. In cambio, conserva una struttura invariabile. Perciò 1 istinto è specializzato, perchè non può utilizzare che per uno scopo determinato uno strumento de¬ terminato. Al contrario, lo strumento artificiale, fab¬ bricato intelligentemente, è imperfetto, ottenuto a prezzo di sforzi, penoso a maneggiare, ma. essendo fatto di materia inorganica, può prendere una forma qualunque e servire ad ogni uso, e conferisce a chi lo adopera una somma illimitata di poteri. Esso reagisce sull’essere che lo ha fabbricato, gli con¬ ferisce un organismo più ricco, per ogni bisogno che soddisfa ne crea uno nuovo superiore, e invece di chiudere come l’istinto il campo d'azione ove 1 animale si muoverà automaticamente, apre all’at¬ tività un campo indefinito ove la spinge sempre più lontano e la fa sempre più libera. L intelligenza appare sulla terra con l’utensile. L’animale che primo aguzzò una selce per rompere la testa all animale rivale inaugurò pei secoli senza fine il regno dell’umanità. L’intelligenza è essen¬ zialmente artigiana e meccanica. Essa volge le spalle alla vita e va nella direzione della materia inerte, del solido inanimato. Lavorando sulla mate¬ ria bruta, essa contrae l’abitudine di non capire più — 89 — se non la materia bruta: essa si abitua a pensare il mondo come solidità, come discontinuità, come immobilità. Il flusso della vita, la fluidità del di¬ venire organico, l’interpenetrarsi degli stati psichici rimangono per lei un mistero impenetrabile. In cambio, con l’intelligenza appaiono sulla terra la coscienza e la libertà. La coscienza: perchè la co¬ scienza nasce dallo scarto tra il piano dell’azione e l’azione stessa, e l’intelligenza è essenzialmente ge¬ neratrice di piani, di programmi, di schemi, di forme d'azione, appunto perchè è costruttrice di strumenti artificiali. La libertà: perchè l’intelli¬ genza svincola l’uomo dalla servitù ad un'azione determinata sempre identica, e lo mette in grado di cavarsela in ogni situazione. È grazie all'intel- ligenza fabbricatrice di utensili che l’uomo si af¬ franca dalla servitù dell’istinto, dell’azione infles¬ sibilmente determinata, e conquista la libertà di agire come gli pare, di superare indefinitamente sè stesso. Certo, secondo Bergson, questa libertà si ac¬ quista voltando le spalle alla vita e rinunciando a comprenderla nel suo flusso profondo. Certo, ab¬ bandonarsi alla china dell’intelligenza è rassegnarsi a non vedere nella natura altro che un serbatoio di materie ove si eserciterà indefinitamente la no¬ stra facoltà fabbrile. Ma la coscienza e la libertà sono a questo prezzo. È rinunciando all’istinto, allo strumento organico, è buttandosi a fabbricare stru¬ menti artificiali che la Vita attraverso l'uomo assi- cura la perennità dello slancio vitale che era andato ad impantanarsi nelle sabbie dell’istinto e preserva e perpetua la libertà. Nel pensiero di Bergson, dunque, la tecnica industriale dell’uoino è la con¬ tinuazione, nel senso più rigoroso della parola, dello slancio vitale che ha creato i inondi. In essa si prolunga la creazione divina. Bergson raggiunge qui le profonde intuizioni dei grandi maestri della Rinascenza italiana: Marsilio Ficino e Giordano Bruno e dei mistici ebraici. Il fenomeno squisitamente umano della tecnica aveva già trovato, come vedremo, in Marx, un teo¬ rico d alto volo, il quale nelle metamorfosi dello strumento di produzione aveva visto la causa ultima delle trasformazioni e rivoluzioni deirumana so¬ cietà. La tecnica era stata assunta da Marx alla dignità di motore ultimo della storia. Bergson non solo è d accordo con Marx su questo punto, ma va anche più in là. La sua filosofia della tecnica su¬ pera i confini della filosofìa della storia, diventa un capitolo della storia della Vita e dell’Universo. L’umile strumento produttivo, la macchina, da cui i filosofi greci torcevano lo sguardo con superbo disdegno, diventa qualcosa attraverso cui l’Evolu¬ zione creatrice perpetua il suo sforzo incessante di creazione. I Nessun filosofo ha mai posto più in alto, ha pivi degnamente celebrato il lavoro produttivo deU’uoino. Nessuno prima di lui aveva detto con tanta chiarezza che è in quanto fabbro che — 91 — l'uomo celebra la sua divinità. È grazie a Bergson che l 'Homo faber diventa sinonimo di Homo sa¬ piens. A rpiesta conversione dell'Homo sapiens nel- 1 Homo faber un importante contributo avevano apportato prima di Bergson i sistemi socialisti fioriti durante il corso del secolo xix. XIII. Il CONCETTO DI LAVORO NEI SISTEMI SOCIALISTI. Il problema più grave che i sistemi socialisti si trovano a dover risolvere è quello di conciliare l’obbligo del lavoro cui nella società nuova da essi annunciata nessuno potrà sottrarsi con la costitu¬ zione di quella società nella quale non essendoci più nè riechi nè poveri, nè proprietari nè nullate¬ nenti. il bisogno la miseria il desiderio di lucro non funzioneranno più da stimolo al lavoro. La solu¬ zione che i sistemi socialisti danno del problema è in perfetta armonia con la loro generale visione della vita. Poggiati sopra una filosofia nettamente imma¬ nentista, orientata verso la terra e l'aldiquà, che dell’aldilà o non si cura o lo nega, filosofia di cui il Progresso è il concetto cardinale, essi rifiutano la concezione giudaico-cristiaea del lavoro come espia¬ zione, la quale suppone la dottrina del peccato originale, in netta antitesi col dogma del Progresso, e rimanda come a necessario correlativo a un aldilà — 94 — ove gli squilibri e le ingiustizie della terra saranno equamente compensate. Chi si ponga da un punto di vista essenzialmente immanentistico e insieme concepisca il lavoro come qualcosa di repugnante alla natura umana, come qualcosa cui questa di per sè non si porti, non inclini, ma rilutti e ripugni, deve necessariamente giungere ad una concezione autoritaria e despotiea della società. Se l’uomo per natura ripugna a lavorare, è evidente che in una società incredula o indifferente alle prospettive dell’aldilà e nella quale il lavoro fosse la sorte co¬ mune di tutti, tutti sarebbero obbligati a lavorare per forza. Ove si voglia evitare questa conseguenza, non resta che ammettere non esser vero che l’uomo per natura ripugni al lavoro, e che è vero anzi il contrario. È la via che battono i sistemi socialisti, in questo figli della filosofia moderna che definisce ed esalta l’uomo come attività. Morelly pone, come piincipio che l’interesse particolare, il « desiderio d'avere », l’avarizia è la fonte di tutti i mali sociali. A chi obbietta che l’interesse personale è lo stimolante necessario del¬ l’energia umana, Morelly risponde che l’uomo è un essere naturalmente attivo, che non ripugna affatto al lavoro in quanto tale, ma solo al lavoro mono¬ tono e prolungato. Sono le istituzioni arbitrarie le quali pretendono di fissare per alcuni uomini soltanto uno stato permanente di riposo detto pro¬ sperità, fortuna, lasciando agli altri in permanente retaggio il lavoro, la fatica, che generano la pi- \ — 95 — grizia e l’odio al lavoro. È la cattiva costituzione sociale che ha prodotto negli uni l'ozio e la mol¬ lezza, negli altri l’aborrimento dal lavoro forzato. Ma di per sè il lavoro non ha nulla di repugnante, è, anzi, piacevole, attraente. Mably non nega clic la prospettiva della pro¬ prietà privata sia un grande incentivo al lavoro, ma che sia così è frutto della corruzione sociale. Fortunatamente, non mancano al cuore umano altre molle che possono indurre l’uomo al lavoro anche in regime di stretto comuniSmo, come di¬ mostra la storia delle antiche repubbliche e la presente esistenza delle comunità ecclesiastiche. « 11 lavoro che schiaccia i contadini non sarebbe che un divertimento delizioso se tutti gli uomini lo praticassero ». È in Fourier che il principio del lavoro pia¬ cevole trova la più netta espressione. Finora, af¬ ferma Fourier, tre sono i motivi sotto la spinta dei quali l’uomo ha lavorato: la miseria, l’avarizia, la coazione della società o della religione. In ciò ben poca è la differenza tra le antiche società schia¬ vaste e le moderne civili. Nella società nuova, in¬ vece, che ha sede nel Falansterio, il lavoro è un piacere, l’uomo vi corre come a festa, a gioco. Ciò è possibile se, assicurato a ognuno un minimo di sussistenza, il lavoro vi diviene facoltativo. Nel Falansterio ognuno può attendere al lavoro che più gli piace, che più è conforme alle sue attitu¬ dini. Le ore di lavoro non sono numerose. È per- messo « farfalleggiare » da un lavoro all'altro. L emulazione delle varie squadre dei lavoratori. 10 spirito di corpo operante nell’interno di ciascuna squadra, 1 igiene e il comfort degli ambienti dove 11 lavoro si svolge, la rotazione fra gli addetti agli uffici servili, il maggior compenso attribuito al lavoro necessario in confronto a quello di lusso, la soppressione dei lavori più duri e ingrati ad opera delle macchine, la loro sostituzione con la¬ vori più facili e dolci (proseguendo logicamente in questa direzione Fourier si dichiarava avversis¬ simo aH'industrialismo e alla fabbrica e partigiano dell’agricoltura, anzi dell’orticoltura e del giardi¬ naggio, lavori più facili e piacevoli della coltiva¬ zione dei campi) tutto ciò spoglierà il lavoro di ogni elemento di pena e di monotonia e lo renderà nel senso più proprio della parola un gioco, meglio ancora una passione. La soluzione che Fourier dà del iproblema del lavoro è integraljnente accettata dagli scrittori anarchici (basti per tutti citare Kxopotkine). E, in genere, ogni sistema che concepisce la società futura sul modello di un’officina di lavoratori libe¬ ramente associati dovrà per logica conseguenza accettare il concetto del lavoro attraente. Su per giù le stesse idee si trovano in Cabet, conciliate alla meglio col comuniSmo, da cui Fou¬ rier e gli anarchici si tengono lontani. Nello stato comunista d’Icaria il lavoro è obbligatorio. Non¬ dimeno, esso, assicura Cabet, non ha nulla di repuy — 97 — gnante. La libera scelta delle professioni, tutte ugualmente rimunerate, tutte ugualmente stimale, la libera scelta dei soprastanti ai lavori, l’impiego delle macchine che riduce a nulla i mestieri rcpu- gnauti ed insalubri e affranca l’uomo dallo sforzo penoso e prolungato, l’emulazione tra i lavoratori, l’amore al pubblico bene instillato da un’accurata educazione realizzano nella repubblica comunista d’Icaria il miracolo di fare del lavoro obbligatorio una piacevole occupazione. I socialisti di cui abbiamo parlato finora sono i rappresentanti del socialismo così detto utopistico. Ma, in sostanza, la soluzione che del problema del lavoro dà il socialismo così detto scientifico di Marx ed Engels non è molto differente dalla loro. Nè poteva esserlo. Di fronte alla necessità di lavori duri o repugnanti che qualcuno dovrà pur fare, se la società vuol vivere, il socialismo così detto scientifico non meno di quello utopistico si rimette con piena fiducia alla scienza che saprà abbre¬ viarne la durata, diminuirne il peso, sempre più sostituendo la macchina all’uomo. Distrutto il rap¬ porto di padrone a salariato e sostituito dal rap¬ porto di libera associazione di lavoratori tutti egual¬ mente interessati al buon andamento dell’impresa, lo zelo al lavoro non sarà minore che nelle società precomunistiche, e più la società comunista dura, più andrà crescendo con lo sviluppo crescente dei sentimenti di solidarietà e di altruismo. E se anche sarà minore, l’estensione crescente del macchinismo. Tilghtr f — 98 — hi miglior divisione del lavoro, la razionalizzazione del processo produttivo compenserà il minor rendi- mento. Il lavoro sarà meno consuetudinario e più razionale, più breve, meglio organizzato, con larghi tempi di evasione verso una vita più libera, più alta, più veramente umana. L’associazione coordi- ueià le energie e le moltiplicherà. L’organizzazione economizzerà e feconderà il lavoro. Socializzato, ra¬ zionalizzato, il lavoro sarà meno febbrile, disordi¬ nato e assorbente di oggi, sarà sempre più armonico, misurato, organizzato. La soppressione di ogni élite parassitarla, l’eliminazione di ogni sfruttamento dell uomo sull’uomo purificherà il lavoro di ogni elemento di coazione c di violenza, da cui è ancor oggi contaminato, gli toglierà la natura di corvée elle esso riveste finora. fu Saint-Siuion e più ancora i Sansimoniani che per 1 primi concepirono e nettamente espressero 1 ideale della nazione organizzata sul modello di una grande manifattura, nella quale non ci sono più oziosi, viventi di reddito senza lavoro, alle spalle di altri uomini da essi sfruttati, ma tutti la¬ vorano, tutti producono sotto la direzione degli industriali più capaci. Furono i Sansimoniani ad emettere per la prima volta l’idea che la politica, cessando di essere governo degli uomini, finisse as¬ sorbita dall'amministrazione, diventasse direzione della tecnica produttiva. Marx Engels Sorel non concepiscono diversamente la società futura. Sol¬ tanto che all autoritarismo di cui è improntata la concezione dei Sansimoniani essi sostituiscono la libertà anarchica deU'associazione dei lavoratori. Saint-Sinion vuole, sì, che nessuno stia in ozio- e che tutti lavorino. Ma lavoratori per ^l.ui sono ugualmente i padroni che gli operai, i banchieri che gli agricoltori, e quelli come tali preesistono e comandano a questi. Egli non sopprime la ge¬ rarchia Ira capi d’industria e operai. Marx Engels Sorci vanno più in là. Non più ricchi, non più capi d industria che preesistano e coesistano come tali con gli operai e li comandino, ma libere associazioni di lavoratori padroni degli stiumenti di produzione. Per ciò stesso il lavoro perde nei loro sistemi il carattere autoritario che esso conserva nel sistema di Saint-Simon. In ciò essi sono sulla linea di Fourier, benché, più realisti di lui, non cedano all'utopia del lavoro attraente, del lavoro giuoco, del lavoro sport. Per essi, nella so¬ cietà nuova, il lavoro, quantitativamente ridotto al minimo del tempo, smaterializzato e umanizzato al massimo dall introduzione delle macchine, è l'af¬ fermazione normale dell’uomo. L’intrapresa produt¬ trice, l'iniziativa privata, per Marx non è lavoro: è spoliazione. L’imprenditore spoglia il lavoratore di una parte del prodotto (profitto), pel fatto di dargli un salario misurato non dal valore del pro¬ dotto (conseguito nella circolazione dei beni tra¬ verso il prezzo), ma dal costo di produzione, ossia dalla sussistenza del lavoratore. Donde la dignità di lavoro ritirala all’iniziativa dell’imprenditore. — ino — donde il profitto bollato coinè spoliazione. Nella so¬ cietà socialista, abolita l’iniziativa privata, è abo¬ lito il profitto. Nulla turba più la coincidenza di lavoro e valore, e il lavoratore riscuote integral¬ mente il prodotto del suo lavoro (Lassalle; Marx correggerà: detratto il contributo alle spese sociali necessarie e inevitabili) di cui nella società borghese è parzialmente spogliato a beneficio del capitalista. La società socialista è perciò stesso più sana, più giusta, più morale della società borghese. In una prima fase — preciserà Marx — essa distribuirà i mezzi di consumo a ciascuno secondo il lavoro pre¬ stato; in'una seconda fase più elevata, la servile subordinazione degl’individui alla divisione del la¬ voro scompare, scompare il contrasto fra lavoro in¬ tellettuale e manuale, le fonti della ricchezza collet¬ tiva scorrono a pieno, e ciascuno ottiene secondo i suoi bisogni. 11 lavoro tende così a liberarsi da ogni macchia di mercantilismo speculatore e frodatore, a diventare puramente tecnico e produttivo. La so¬ stituzione della produzione pel bisogno alla pro¬ duzione pel profitto libererà il lavoro da ogni im¬ purità di egoismo, di avarizia, di frode. Il lavoro cessa così di essere fato di natura o dura espiazione o astratto dovere morale: diventa il modo normale di agire dell'uomo. L’uomo tipo non è più il saggio o l’ascela o il cittadino, è il lavoratore inteso come produttore. Un’immensa società di liberi lavoratori ^ liberamente associati amministranti in comune gli strumenti del lavoro e trasformanti indefinitamente — 101 — la materia del mondo pel maggior bene della comu¬ nità: tale l’ideale socialista. L’uomo divenuto lavo¬ ratore rivolge il suo spirito non più all’oltremondo, ma al mondo, non per contemplarlo ma per trasfor¬ marlo, poiché questa è per esso l’unica via di co¬ noscerlo. Nella filosofia di Marx il lavoro assume signifi¬ cato e importanza metafisica. Esso diventa il con¬ cetto centrale della sua filosofia. Egli concepisce l"uomo come causa ed effetto, creatore e creatura insieme di «è medesimo. Egli è, sì, determinato dal¬ l’ambiente, ma poiché l’ambiente è opera dell’uomo che lo ha posto in essere, esso, in fondo, non è de¬ terminato che da sé stesso. E come l’uomo ha fatto l’ambiente, così può sempre mutarlo e rimutarlo per meglio adattarlo ai suoi fini. L’ambiente creato dall’uomo per soddisfare le sue esigenze fa germinare esigenze ulteriori che esso non riesce a soddisfare, e che perciò stimolano all’azione diretta a mutarlo più o meno profonda¬ mente. L’azione dell’uomo è, quindi, essenzialmente rivoluzionaria, ina non campata in aria, non dettata dal capriccio soggettivo, bensì strettamente deter¬ minata dalla natura delle esigenze e dei bisogni sprigionantisi in reazione alLambiente. L’ambiente genera il bisogno. Il bisogno genera l’azione rivolu¬ zionaria intesa a soddisfarlo, e che se culmina nelle grandi crisi della storia, quando i bisogni pressanti e insopprimibili non possono essere soddisfatti che dalla sovversione violenta del vecchio sistema eco- f — 102 — mimico c dalla violenta instaurazione del nuovo, si attua silenziosa e invisibile nella trama quotidiana della vita, nello scorrere lento delle ore e dei giorni. I processi con cui gli uomini producono i beni necessari alla vita sono la base su cui si erige la immensa soprastruttura giuridica politica ideolo¬ gica della società. Quando a un grado determi¬ nato del loro sviluppo le forze produttive della società entrano in urto con i rapporti di pro¬ prietà che li fissano e cristallizzano, allora la società entra in crisi. Da forme di sviluppo questi rapporti divengono ostacoli allo svolgimento delle forze produttive. Allora le forze insorgono contro le forme. Le forze si creano le forme ade¬ guate, nel seno di queste forme crescono fioriscono rigoglieggiano. così sviluppate si trovano allo stretto in quelle forme, e insorgono contro di esse per crearsene altre meglio adeguate: questo il ritmo della vita sociale. È l’umile lavoro generatore dei beni necessari alla vita cbe mette in moto rimmensa macchina della storia umana (Marx, Zitr Kritik clvr politischen Oekonomie, prefazione). Così, in questa concezione di Marx il lavoro as¬ surge ad importanza demiurgica. Filosofare è agire, è produrre, è lavorare. Conoscere il mondo è tra¬ sformare il mondo. Il vero filosofo è il lavoratore. In questo senso Marx disse che il proletariato rivo¬ luzionario era il legittimo erede della filosofia clas¬ sica tedesca. Il lavoro diventa così la più alta di¬ gnità e nobiltà dell’uomo: un rito religioso in cui — 103 — sacerdote e vittima e dio fatino tutt’uno. Massimo dei diritti e massimo dei doveri umani. E l’antitnar- xisla socialista di stato Spengler lo concepisce come un dovere liberamente consentilo, come un servizio reso in piena coscienza dall'individuo alla comu¬ nità. E il sindacalista marxista Sorci sogna una so¬ cietà futura in cui il libero produttore produrrà con l’entusiasmo dell’artista die attende all’opera d'arte, ansioso come un buon atleta di sorpassare quanto fu fatto prima di lui, e la produzione ali¬ mentata da queste liete forze di vita si slancerà per le vie senza fine di un progresso illimitato. I XIV. Il concetto di lavoro nel Bolscevismo. Sotto l’influsso del partito socialista e del prole¬ tariato da esso organizzato, nei vari paesi d’Europa, durante il secolo xtx, sorse e si sviluppò rigogliosa la legislazione sociale del lavoro. Esula dal tema di questo scritto il farne, sia pure per sommi capi, la storia, che è la traduzione in atto della «uova etica del lavoro (piale si era andata creando nel se¬ colo XIX. Ma non possiamo esimerci dal fare un cenno dei due grandi documenti in cui quella legi¬ slazione culmina, e cioè le carte in cui le due Rivo¬ luzioni, Bolscevica e Fascista, definiscono il loro atteggiamento di fronte al lavoro e ne precisano la posizione nel quadro generale del loro concetto di Stato. In quella che si può chiamare la carta costi¬ tuzionale del 10 luglio 1918, il governo bolsce¬ vico all’articolo 3 sancisce: «Per distruggere le i-lassi parassite della società è decretato il lavoro obbligatorio per tutti », e ribadisce il principio - 106 — all’articolo 18 che suona: « La Repubblica socia¬ lista federale dei Sovieti di Russia decreta il la¬ voro obbligatorio per tutti i cittadini della Re¬ pubblica, e proclama il principio: chi non lavora non mangia ». Il lavoro cessa così di essere un diritto, diventa un dovere clic la legge impone, e di cui lo Stalo esige l’osservanza. Esso assurge così a diritto pubblico soggettivo cui corrisponde da parte dell’individuo una obbligazione partico¬ lare. In realtà, quell’ affermazione rimane del lutto platonica, mancando ogni determinazione del limite fino al quale si estenda il diritto dello Stato di esigere dai cittadini l’osservanza del do¬ vere del lavoro e dei mezzi e organi per imporne l’osservanza. Altre leggi dello Stato bolscevico presuppongono l’esistenza di imprese private e re¬ golano le modalità del lavoro degli addetti ad esse. Dal che si evince che anche nella Russia bol¬ scevica il lavoro è libero, che lo Stato non esige dai singoli l’obbligo del lavoro, che esso non asse¬ gna a ciascuno il suo compito nell’azienda sociale, che il lavoro obbligatorio non è vero e proprio diritto soggettivo dello Stato. Però il cittadino clic non lavora è esente dal servizio militare, è spo¬ gliato del diritto elettorale, è bandito dall’eserci¬ zio del potere, in una parola: è escluso dal godi¬ mento dei diritti politici, mentre questi sono rico¬ nosciuti allo straniero lavoratore che si trova sul territorio della Repubblica dei Sovieti. Limitazione — 107 — ancora più grave: il popolo lavoratore, nel con¬ cetto del legislatore bolscevico, è « la popolazione proletaria urbana e rurale che vive del proprio lavoro, comprendendo nella larga espressione di popolazione proletaria il proletariato del bureau, gl’impiegati della Repubblica e delle imprese e aziende private, commerciali, agricole, industriali ecc. e i soldati clic non sono clic i membri milita¬ rizzali della stessa popolazione proletaria » CSer- toli. La costituzione russa , 1928. p. 87). Tnsomma, la Repubblica sovietica è repub¬ blica, come suona la noia formula, degli Operai, Contadini e Soldati, comprendendo in queste tre categorie anche gli impiegati privati e statali e le persone che svolgono lavori domestici. Tutti gli altri ne restano esclusi. 11 lavoro che dà il titolo necessario e sufficiente per partecipare al godimento del potere politico è inteso ini senso strettamente, angustamente materiale, ft il con¬ cetto di lavoro quale può figurarselo un prole¬ tariato rivoluzionario, che da una parte deve pur fare del lavoro la suprema dignità dell’uomo, se vuol giustificare idealmente la sua conquista del potere: dall’altra, deve pur restringere il con¬ cetto di lavoro al lavoro puramente materiale e muscolare, se vuol giustificare l’assoluta esclusione dal potere delle altre classi clic pure lavorano fgli intellettuali e i datori del lavoro: i borghesi). Da Siffatte angustie va esente invece il concetto del lavoro formulato dalla dottrina fascista. XV. Il concetto del lavoro nel fascismo. Già il 24 gennaio 1922 il Convegno sindacale fascista di Bologna affermava i seguenti principi: « 1° TI lavoro costituisce sovra rio titolo che legittima la piena ed utile cittadinanza dell’uomo nel consesso sociale: « 2° il lavoro è la risultante degli sforzi volti armonicamente a creare, a perfezionare, ad accre¬ scere, quanto forma benessere materiale, morale, spirituale dell’uomo; « 3° sono da considerarsi lavoratori tutti in¬ distintamente coloro che comunque impiegano o dedicano 1’attività ai fini su accennati e pertanto la organizzazione sindacale prima con le oppor¬ tune suddistinzioni, e varietà di aggruppamenti, deve proporsi di accoglierli senza demagogici ostracismi; « 4° la Nazione — intesa come sintesi supe¬ riore di tutti i valori materiali e spirituali della stirpe — è sopra gli individui, le categorie e le — 110 — classi. Gli individui, le categorie e le classi sono istruinenti di cui la Nazione si serve per il rag¬ giungimento della sua maggiore grandezza ». A questi principi s’ispira la iCarla del lavoro emanata dal Governo Fascista il 21 aprile 1927. « Il lavoro sotto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e manuali è un dovere sociale. A questo litoio, e solo a questo titolo, esso è tutelato dallo Stato ». Dovere sociale, non dovere giuridico: lo Stato riconosce implicitamente di (non avere il di¬ ritto in via normale di assegnare ai cittadini un determinato lavoro, c nemmeno di esigere da essi l’osservanza del dovere di lavorare. Il lavoro non conferisce diritti: esso è un dovere sociale, e solo còme tale richiama l’attenzione e la tutela dello Stato. Di fronte al lavoro lo Stato, concepito n,on come Stato di classe, come classe organizzata in Stato, ma come superiore alle classi e punto ideale nel quale queste trovano la loro unificazione, si arroga un diritto di alta sorveglianza sulla produ¬ zione nazionale considerata come organismo uni¬ tario che mira al benessere particolare e allo svi¬ luppo della potenza nazionale. La iniziativa pri¬ vata è ammessa, ma non come diritto naturale^dcl singolo, che preesista allo Stato e che questo si limiti a riconoscere e a munire di difesa, bensì come strumento efficace e utile dell’interesse na¬ zionale. Perciò l'organizzazione dell’impresa è responsabile dell'indirizzo della produzione di fronte allo Stato: ove l’iniziativa privata sia as- — Ili — «ente o deficiente o l'interesse dello Stato lo esiga, lo Stato si riserva il diritto d'intervenire sotto for¬ ine che vanno dal controllo alla gestione diretta. Antonio Bruers (ne La Stirpe, Roma, 1928-29) ha mostrato come il concetto del lavoro che è alla base della fascista Carta del Lavoro si ricol¬ lega a quello che fu comune ai pensatori del Risorgimento italiano di tutte le direzioni, a Ca¬ vour e a Minghetti monarchici non meno che a Mazzini e Cattaneo repubblicani, a Romagnosi non meno che a Gioberti. Di questo concetto le note fondamentali sono: il diritto alla vita e, come con¬ seguenza, il diritto al lavoro per ciascun uomo; il lavoro e il risparmio come fonti legittime della proprietà individuale; il diritto d’acquistare aper¬ to a tutti; l’intelligenza come « prima delle forze economiche », « prima sorgente delle ricchezze » (Gioberti), « forza sopra tutte le altre poderosa e impermutabile », che « presiede al lavoro, al con¬ sumo, al cumulo » (Cattaneo). Da questo concetto Mazzini deduce la necessità della ripartizione dei frutti del lavoro tra i lavoranti in proporzione del lavoro compiuto e del valore di quel lavoro: « un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque dire¬ zione s’eserciti. L’esistenza rappresenterà un la¬ voro compiuto ». fi XVI. II. CONCETTO DI LAVOKO IN RUSKIN E ToLSTOI. Sia per 1 originalità delle loro visioni, sia per l’ampia ripercussione che ebbero nel dominio del¬ la pratica e della vita sociale, un cenno a parte meritano le teorie sul lavoro formulate da due grandi scrittori del secolo XIX:Iobn Ruskin e Leo Tolstoi, artisti e riformatori sociali insieme, vati nel nobile senso antico della parola. Entrambi hanno del lavoro un concetto notevolmente diverso da quelli che abbiamo esaminato, e che assicura loro di pieno diritto Un posto nella storia di que¬ sta idea. L’economia moderna, afferma Ruskin, con la sua caccia al guadagno pel guadagno, al guadagno perseguilo non per goderne o comunque spen¬ derlo, ma come fine a sé stesso, inaridisce l’anima, la rende cieca e sorda ad ogni ideale, offusca la bellezza del mondo, rovina la salute dell’uomo, lo isola dai suoi simili. La riproduzione indefinita <jlel capitale come fine a sé stesso non ha nulla di Tiliiher 8 — Ili — buono: il vero ufficio del capitale è di produrre cose utili e necessarie. Perciò cosa utile e sana è spendere il danaro che si è guadagnato. Sole Ioliti legittime della ricchezza sono il lavoro e il risparmio personali. 11 profitto in ragione ilei Puro capitale è cosa illegittima e brigantesca; illegittimo e brigantesco c ogni sfruttamento del lavoro altrui. È assurdo che un uomo possa vivere ozioso pagando i servigi dei suoi simili con de¬ naro ereditalo. Bisogna pagare la propria vita. Bisogna pagare il lavoro presente con lavoro pre¬ sente e vivo, non con lavoro morto. Da ciò Ruskin deduce l’obbligo per tutti del lavoro manuale, compiuto senza macchine, meno quelle mosse dal vento e dall’acqua. 11 frutto del lavoro deve spet¬ tare integralmente a chi lavora, non finire nella tasca di un altro. Il lavoro merita la mercede, ma non bisogna lavorare per la mercede, per il gua¬ dagno. bensì pel servizio sociale. E non si deve considerare il lavoro come merce, né rimunerarlo secondo la legge della domanda e dell’offerta, bensì secondo la giustizia consacrata dall'uso, in modo clu la dignità del lavoratore sia salva e la funzione adempiuta con convenienza. La gerarchia sociale deve essere stabilita conformemente ai servizi resi, e liberamente accettata. Il lavoro dev’essere garan¬ tito a lutti. Tutti lavorando, il lavoro di tutti di¬ verrà più breve. La concezione che Tolstoi ha del lavoro è sotto 1 influenza di quella del mistico contadino Teo- — 115 — iloro Bendarev, Per Bendarev procurarsi il pane col sudore della fronte è legge di Dio. Per secoli l’uomo volle sottrarsi al lavoro del pane e inventò la schiavitù e il denaro come mezzi per vivere del lavoro altrui. La salvezza è nel ritorno a una for¬ ma di vita in cui ciascuno mangi il pane guada¬ gnato col lavoro delle sue braccia. « La mano cal¬ losa rende buoni e indipendenti ». Secondo Tolstoi, il lavoro non è virtù, non è merito, è bisogno allo stesso titolo della nutrizione. Chi di ciò si persuade, non cercherà di far lavo¬ rare gli altri per lui, né di usurpare il lavoro al¬ trui. Dalla falsa opinione che il lavoro £ un peso nasce lo sfruttamento sociale e la schiavitù. Il la¬ voro invece è condizione inevitabile della vita uma¬ na, così come il nutrimento è condizione inevitabile del lavoro. Chi lavora, e quanto più necessario agli altri è il suo lavoro, è sempre sicuro di non mo¬ rire rii fame, perché l'interesse stesso di colui o di coloro che bau bisogno del suo lavoro li spinge a non negargli il pane. Meno che mai mancherà di pane l’operaio che secondo la legge di Cristo vive per lavorare il più possibile e per ricevere il meno possibile. Secondo la dottrina del mondo, l’uomo ha diritto di esigere dagli altri che gli altri lo nutrano. Secondo la dottrina di Cristo, purché sia nutrito deve servire agli altri quanto più può. Ora, per quanto cattivi gli uomini siano, essi nutri¬ ranno sempre coloro che lavorano per loro e non l) chiedono che di vivere per lavorare. Ma il lavoro — 116 — degno di questo nome è solo il lavoro necessario alla vita, il lavoro con cui si soddisfano gli umili bisogni elementari dell’esistenza, il lavoro ma¬ nuale. Nessuno deve andarne esente, ciascuno deve produrre il suo pane. L’ideale di Ruskin è quello di una società pre¬ capitalistica di liberi artigiani, che paga la sua vita con un lavoro compiuto nella luce dell’arte, con spirito di disciplina e di amore, rotto da fre¬ quenti pause di riposo e di onesto gioco, sì che in esso l'anima trovi pace e letizia. L’ideale di Tol- stoi è quello di una società anarchica e indifferen¬ ziata di contadini e di artigiani, che si pagano l’un l’altro col lavoro delle mani callose i servigi neces¬ sari alla loro umile esistenza. Per entrambi il la¬ voro è coessenziale all’uomo sano come il respiro : ma da esso ogni elemento di titanismo e di dioni- sismo è assente. Non compito infinito, ma necessaria funzione fisiologica; non sforzo incessante, ma cal¬ ma ininterrotta attività necessaria alla vita come il respiro; non ebbro movimento verso una mèta che eternamente fugge quanto più verso di essa si pro¬ cede, ma tranquilla energia che pel fatto stesso di esplicarsi pacificamente genera pace e letizia e calma interiori: questi i tratti in cui la visione che Ruskin e Tolstoi hanno del lavoro si distingue dalla visione generalmente prevalsa presso i mo¬ derni. Quale essa sia. lo diremo in una esposizione il più possibile coerente e organica nel capitolo che — 117 — segue, risparmiandoci la fatica di seguirne volta per volta le tracce presso gl’innumerevoli scrit¬ tori nei quali, in chi con più in chi con meno chia¬ rezza e vigore, in chi con più in chi con meno organicità e profondità, quella visione trovò gli interpreti e i portavoce. \ Il concetto di lavoro E LA VISIONE MODERNA DELLA VITA. Sotto la spinta Hejjcli stali d’animo, di cui il moderno concetto di lavoro è la proiezione ideale, la terra ha cambiato faccia. Continenti interi sono stati annessi alla civiltà capitalistica e mirabil¬ mente sfruttati nelle ancora intatte risorse; città fondate a migliaia; rimutate dalle fondamenta le antiche; in modo prodigioso accresciuta la produ¬ zione agricola e industriale e intensificato il traf¬ fico commerciale; quintuplicata la popolazione del mondo e mirabilmente avvicinata nel tempo e nel¬ lo spazio grazie allo sviluppo inauditamente sor¬ prendente dei mezzi di comunicazione; diffusa la cultura e l'igiene; a dismisura accresciuta la dispo¬ nibilità individuale e collettiva delle cose utili e necessarie alla vita; rese di uso comune e poco meri che vili cose che fino a qualche secolo fa erano lusso di privilegiati; unificato a un grado altissimo il modo di vivere e di sentire; abbassate le barriere fra città e campagna; fatto veramente dell'uomo — 120 — il cittadino della Terra finalmente, come per mi¬ racolo, unificata. Se oggi Marx vivesse, non solo non avrebbe nulla da togliere, ma molto da ag¬ giungere al lirico elogio clic nelle prime pagine del Manifesto dei Comunisti tesse dell’opera della borghesia. Quest’opera immane e grandiosamente benefica deriva, sì. dall incrocio d infinite circostanze sto¬ riche che non si ripeteranno più mai, e dall’int- cessante incalzarsi di sempre nuove scoperte in¬ dustriali e tecniche, ma anche, e sopratutto, dal vigoreggiare e prevalere di un sentimento nuovo ilei mondo e della vita, da una valutazione nuova del lavoro, grazie a cui cpielle circostanze non caddero sterili, ma si fu pronti ad utilizzarle. Al centro della nuova visione del mondo e della vita è il concetto di lavoro, mirabile chiave che ne apre i segreti. Consciamente od inconsciamente, l’uomo esten¬ de all universo e proietta su un piano cosmico le esperienze fatte nelle officine ove l’attività indu¬ striale va trasformando la materia del mondo. L’in¬ dustria spinge più lontano il limite che la materia oppone allo sforzo dell’uomo, ma quel limite, re¬ spinto, risorge, e lo sforzo dell’uomo, reso più forte dalla precedente vittoria, si applica di nuovo a re¬ spingerlo ancora più lontano, e così all’infinito. Per l’attività industriale la materia è un limite mobile che, sì, incessantemente risorge, ma per essere indefinitamente respinto sempre più lungi: — 121 — è, insieme, il colpo d’arresto allo sforzo dell’uomo e il punto fermo appoggiandosi al quale esso può far presa sul mondo. La visione moderna della vita proietta su un piano metafisico questo schema dell’attività indu¬ striale. Per l’uomo moderno lo spirito è essenzial¬ mente attività (sforzo, volontà, azione, prassi), che ha per destinazione, non già di specchiare passi¬ vamente il mondo e di darne un duplicato ideale, ma di costituirlo come mondo (cioè come cosmo, come regolare ordinanza di cose e di oggetti) traen- dolo da un’amorfa molteplicità, da un plastico e fluido caos, che lo spirito trova, sì, in sé, ma non come posto da sé, dal quale non può mai del tutto affrancarsi, ma sul quale può indefinitamente agi¬ re, traducendovi sempre più adeguatamente l’or¬ dine ideale che interiormente gli splende. La conoscenza diventa così azione. Criterio della verità cessa di essere l’assenza di contrad¬ dizione logica, o la fedele somiglianza dell’idea all’oggetto esterno: diventa la riuscita dell’azione umana, il progressivo accumularsi dei suoi risul¬ tati. Nella sua vera essenza la vita appare un’atti¬ vità clic ha per legge di realizzarsi sempre più come attività, superando sempre più il peso del¬ l’inerte materia, non già eliminandone del tutto la resistenza, ma di questa servendosi di volta in volta come sgabello per nuovi slanci, che la por¬ tino sempre più alto e lontano. Il mondo viene concepito in funzione della vita; la vita, in firn- — 122 — zionc dell’azione. Il pensiero tende sempre più a spogliarsi dell'antica immobilità, a partecipare del¬ l'infinita inquietudine dell’azione e della vita, a confondersi ed a far tutt'uno con esse. E quando lo si distingue ancora da queste, non gli si assegna più come proprio dominio e provincia che il già fatto il già agito il già divenuto, le scorie delazio¬ ne, le ceneri della fiamma vitale, in una parola il morto. Nella febbre della vita e dell’azione l’uomo perde affatto di vista il sopramondo: se anche non ne nega l’esistenza, l’unico mondo che per lui ve¬ ramente conti è questo in cui vive e lavora. L'eter¬ nità del tempo, l’infinità dello spazio, che incom¬ bevano col loro peso smisurato sull'uomo del Me¬ dioevo e della Rinascenza, o dileguano del tutto o si ritirano in uno sfondo lontano: ciò che preme, ciò che conta, ciò che davvero ha valore per l'uo¬ mo contemporaneo è il punto ove s’incrociano le linee infinite del tempo e dello spazio, è il qui e l’ora dove scocca la scintilla della sua azione. Se anche non ne abbia coscienza teorica chiara e distinta, l’uomo moderno vive in un mondo senza infinito e senza eternità, in un mortdo che dura in quanto i risultati dell'attività umana si accumu¬ lano e fanno boute de neige. 11 senso del mistero fa luogo all'assillo del problema che urge e in¬ calza verso la sua pratica soluzione. In questa visione della vita il lavoro appare come la somma di tutti i doveri e di tutte le virtù. — 123 — È nel lavoro che l'uomo della civiltà capitalistica trova la sua nobiltà e dignità. Lavora! è il pre¬ cetto che esaurisce per lui tutta Letica. Lavorare non è più per l'uomo contemporaneo espiare il delitto dei progenitori, né prendere contatto con una materia esteriore che non può che contami¬ nare: è realizzarsi sempre più come attività, cjuin- di come libertà, clic sempre più si attua come tale man mano che va plasmando il mondo ai suoi fini, va affrancandosi dalla materia e ne va trasfor¬ mando la bruta pressione in utile appoggio. In questa visione del mondo il bene è Fattività: il male, la passività, la pigrizia, l'ozio. NelFascen- dere dalla passività alFattività sempre più libera, sempre più pura, è il progresso morale. L'attività non è nulla di fisso e d immobile: è una potenza continuamente crescente su sé stessa, che attra¬ verso tappe progressive si va man mano avvici¬ nando all infinito. L attività è tale solo in quanto incessantemente supera le posizioni raggiunte, con¬ tinuamente trascende i momenti realizzati, non dorme sul conquistato, ma va sempre più in là, sempre più avvicinandosi all’ideale (clic non sarà mai compiutamente realizzato) di un'assoluta e in¬ finita attività, cui nessun limite si oppone. Come una palla di neve precipitando fa valanga, cosi man mano che Fattività avanza, cresce su sé stessa, nutrendosi delle sue vittorie, alimentandosi dei suoi trionfi. Al limite ideale l’Uoino è padrone del mondo, è suprema potenza, è Dio. La via ehe — 124 — a quel limite conduce è il progresso: parola che se ha un senso psicologicamente pregnante lo ha solo nel dominio tecnico, in quanto approssima¬ zione crescente al compiuto dominio del moitdo da parte dell’uomo. Il bene non preesiste all’at¬ tività. quasi termine immobile che questa debba cercare «li appropriarsi: è nel movimento stesso col quale l'attività si trascende e si supera, è nella frenesia d’infinità per cui ogni posizione raggiunta viene sentita come angusta prigione all’impeto irrefrenabile dello spirilo assetato di onnipotenza. L’anima moderna tenta realizzare l’ideale di una attività infinita. Ideale irrealizzabile perché cou- tradittorio, perché un’attività infinita è un’atti¬ vità che non ha più ostacoli da vincere, e un’at¬ tività che non ha più ostacoli da vincere non sa¬ rebbe più attività: ma l’attività infinita si attua nello stesso correre all’infinito verso l’ideale del¬ l'attività infinita. L’ideale fugge, sì, all’infinito dinanzi allo spirito, ma solo perché lo spirito cor- ' re all’infinito verso di lui. La via attraverso la quale l’uomo moderno cerca la redenzione non è più il dominio sulle passioni, l’ascetico raccoglimento interiore: è il lavoro col quale viene sempre più trasformando il mondo esterno e assoggettandolo ai suoi fini; è il lavoro nel quale rivivono fusi e capitalizzati gli infiniti lavori che lo hanno preceduto e reso pos¬ sibile, e che rivivrà nel lavoro di domani come ele¬ mento senza di cui questo non avrebbe avuto es- — 125 — sere; è il lavoro che si stacca dal lavoratore, gli sopravvive, gli conferisce una specie d’immorta- lità terrestre. La santità del lavoro si riverbera sulla ricchezza, e la santifica: solo subordinata¬ mente essa serve al consumo, quindi al piacere (come nel mondo greco), ma essenzialmente serve a creare nuova ricchezza, cioè nuovo lavoro, nuova attività. Perseguire la ricchezza è per l’uomo mo¬ derno tutt’allro che perseguire il piacere: nella ricchezza esso non persegue che la condizione di sempre nuova attività. È perciò che l’economia è al centro del mondo moderno. Nelle civiltà precapitalistiche è il bisogno, in antecedenza conosciuto e misurato, che determina la produzione: si produce in vista del consumo e soltanto per consumare. Nella civiltà contempo¬ ranea è la produzione che, ansiosa di sbocchi, cor¬ re avanti al bisogno, lo genera, lo comanda, lo accende, lo rovescia nell’infinito e nell’illimitato. Consumare sempre di più è l'indice del progresso di un popolo, è il segno del suo bisogno, quindi della sua produzione, e cioè della sua attività pro¬ gressivamente crescente. I veri eroi del mondo mo¬ derno sono i grandi generatori di ricchezza, i grandi industriali e imprenditori, protesi dall'alba al tramonto in un lavoro incessante, che produ¬ cono ricchezza intorno a sé con ritmo progressi¬ vamente crescente, non per goderne essi soli egoi¬ sticamente, ma perché si diffonda sul mondo conte pioggia benefica, e vi generi sempre nuova rie- — 126 — chezza e lavoro e attività e vita; più e meglio che proprietari della ricchezza che producono, custodi e amministratori zelanti e intelligenti, che della ricchezza prodotta, e per cui sono tanto odiati e invidiati, godono assai meno di «pianto goda un umile loro subalterno che la divina febbre del lavoro abbia risparmiato. Come tutte le grandi civiltà anche la civiltà capitalistica o civiltà del lavoro ha il suo mitico eroe: Faust. Faust ha cercato la felicità dapper¬ tutto: l'ha trovata solo quando, vecchio, lavora al prosciugamento di una palude su cui nuove genti un dì vivranno in operosità feconda. Nella con¬ templazione di questo futuro risultato del suo la¬ voro egli si gode beato, c aH'aitimo che passa gri¬ da: Fermati , sei bello! Muore, e Mefìstofele va per prenderne l’anima, ma perde la scommessa, che in quel momento Faust gustava un piacere che era del futuro e non del presente. La civiltà del lavoro è veramente, di necessità, tutta protesa ver¬ so un futuro di cui l’uomo è l'artefice e il creatore. Ciò che fa la dignità ilei lavoro non sono i risul¬ tati. sempre vani e transeunti, è il fatto che per esso l’anima non si ferma mai, ascende sempre, e trova pace e quiete nel movimento stesso per cui si 'lancia sempre più ili alto e lontano. Se « Sop¬ porta e astienti » è la parola d'ordine della civiltà greca, « Lavora » è la parola d’ordine della civiltà capitalistica, della civiltà del Lavoro. XV11J. La crisi della Religione del lavoro. Ora, se io non m’inganno, e se non scambio per segni dei tempi fenomeni fuggitivi delTora che volge, questa grande e nuova religione manifesta sintomi di esaurimento o, almeno, di seriissima crisi. Ed è già eccezionalmente grave che, preci¬ samente nel paese che fu fino a ieri la Terra Santa di questa religione, in America, ad opera di coloro che ne erano gli apostoli e i confessori, gli uomini d’affari e gli industriali americani, la religione del lavoro generi a poco a poco da sé, per paradossale, ma inevitabile conseguenza, una religione del tutto opposta del riposo e del divertimento. Li combinazione con altre forze storiche, la religione del lavoro ha generato la grande indu¬ stria, che getta sul mercato valanghe continua¬ mente crescenti di merci desiderose di sbocco. Donde la necessità per la grande industria di gene¬ rare il bisogno che la merce è chiamata a soddi¬ sfare, di creare le condizioni più favorevoli al con- — 128 — suino dei beni sempre crescenti che essa va pro¬ ducendo. Di qui: pagamenti a rate, alti salari, bre- vi giornate lavorative, incitamenti di ogni sorta a consumare e magari a sperperare, tutte condizioni indispensabili perché l'industria lavori in pieno e a rendimento crescente. Così, nella patria stessa della religione del lavoro si va creando una nuovis¬ sima religione del consumo e del divertimento, una religione del comfort , del benessere, del co¬ modo, della pulizia, una religione del Corpo (e nel mio pensiero queste tre parole : religione del i.orpo, vanno prese alla lettera), che tende a disten¬ dere la dura tensione della volontà di lavoro gene- tata dalla religione del lavoro e a spezzare la molla psichica costruita e montata da questa. E il fenomeno è universale. Universale è il la¬ mento che le generazioni giovani, le generazioni del dopo-guerra, nou bruciano più della febbre del la¬ voro che arse i loro padri. Se così è, se questo feno¬ meno dura e si accentua, le basi stesse della civiltà contemporanea barcollano. Né si dica che da que¬ sto allentarsi della volontà di lavoro vanno esenti le élites dirigenti, che sono poi quelle che con¬ tano, perché solo ad esse, e non alle masse ope¬ raie, è concesso gustare la gioia del lavoro che è creazione: gli osservatori delPAmerica segnalano unanimi la preferenza dei capitalisti americani per gli investimenti lucrativi e di nessun rischio, come i prestiti ad interesse ad industrie e a Stati stranieri. Già dunque nelle stesse élites americane — 129 — lo spirilo d’intrapresa va cedendo ad uno spirito usuraio direttamente opposto allo spirito capita¬ listico, alla religione del lavoro. Ma sorvoliamo su questi, che sono fenomeni storici forse contingenti, malanni cui la Storia stessa potrà, forse, trovare il rimedio. In Italia, ad esempio, dov’essi anche accennano a prodursi, trovano il più energico antidoto nelle parole e negli atti delle supreme autorità, inculcanti senza tregua agli italiani la imperiosa necessità di lavo¬ rare senza respiro. E come in Italia dove l’or¬ ganismo economico più debole ne accresceva la gravità e chiedeva più pronto rimedio, così quei mali non tarderanno forse, anche in paesi eco¬ nomicamente più robusti del nostro, a [richiamare dal seno della natura le forze risanatrici. Guar¬ diamo piuttosto, se ci riesce, alla radice del fe¬ nomeno. La religione del lavoro, come ogni grande orga¬ nismo spirituale, poggia su un delicatissimo equi¬ librio di concetti e di sentimenti, di preferenze e di rifiuti, di oblìi e di amori, die, come ogni altro organismo, si consuma pel fatto stesso di vivere, si altera pel fatto stesso di mettersi e di mantenersi in movimento. Non è dubbio che nella religione del lavoro per il lavoro l’umanità ha tro¬ vato pace e calma e gioia: il lavoro professionale disciplinato e metodico stringe ih fascio le forze dell’anima, soffoca scrupoli, tormenti, preoccupa¬ zioni, crea nell'anima un ritmo possente, che tende Tilgher 9 — 130 — a perpetuarsi per la gioia stessa di cui esso è la sorgente. È facile deridere l’imprenditore o l’uomo d’af¬ fari, che da mane a sera si consuma in un lavoro senza tregua, accumulando ricchezze che non ha tempo né voglia di godere; è facile accusarlo di mancare di spiritualità. Ma intanto egli genera vita a loirenti intorno a sé; ma intanto egli gusta a volte la gioia divina del creatore e sempre, o quasi, la calma fresca e profonda delle energie discipli¬ nate. Dopo di che. padrone chi vuole di tro¬ varlo meno spirituale dell’asceta della Tebaide, assalito la notte dagli incubi dei sensi insoddi¬ sfatti, snervato il giorno dalla noia di un’esistenza inerte e monotona, che passa la vita a intrecciare stuoie, che poi, dopo averne fatto un bel mucchio, deve bruciare, mancandogli in quel deserto di pie¬ tre e di scorpioni clienti a cui venderle. Nondimeno non è da nascondere che questo stato d animo riposa sopra un equilibrio singolar¬ mente instabile e precario di forze. Da una parte, infatti, il lavoro esige qualcosa fuori di noi che in principio ci resiste, e poi, a poco a poco, viene meno sotto la spinta del nostro lavoro. La gioia del lavoro è la gioia di sentire la nostra attività vittoriosa della resistenza del mondo esterno. De- v esserci dunque luori di noi qualcosa che ci resi¬ ste e che a poco a poco noi veniamo piegando al nostro volere. La gioia del lavoro è la gioia del sentir divenire nostro ciò che prima si ergeva — 131 — caparbio e nemico contro il nostro volere. Ma per¬ ciò è necessario che a questo qualcosa da domare un interesse ci leghi, una passione ci avvinca. Sotto cpiesto punto di vista non si può disconoscere che il lavoro ci mette nella dipendenza del mondo esterno, ci condanna a dipendere da esso. Di qui l’angoscia profonda del lavoratore che vede an¬ dare dispersi i frutti del suo lavoro. Di qui l’an¬ goscia ancor più dolorosa del lavoratore impedito dalle cose o dagli uomini di attendere al lavoro che gli piace, al lavoro per cui è nato. Legando 1 uomo al mondo, l’io al non-io, il lavoro molti¬ plica i punti per cui il non-io può far breccia sull’io e colpirlo, moltiplica le possibilità dell'in¬ successo, quindi del dolore. D altra parte, creando in lui la sensazione del¬ la sua forza vittoriosa, generando in lui l’aspro piacere della personalità dominatrice, il lavoro tende a far sì che l’uomo abbia solo in sé la sor¬ gente di ogni sua compiacenza e di ogni sua gioia. A una personalità che sente siffattamente di sé, il risultato del suo lavoro, il frutto della sua vit¬ toria. tende a diventare indifferente, e sola cosa importante appare la gioia di aver saputo car¬ pire quel frutto, conseguire quel risultato. Più dal lavoro perseverante e vittorioso si genera una per¬ sonalità autosuffieiente e autarchica, più questa tende, al limite, a trovare in sé, solo in sé. solo nel senso della sua forza e della sua abilità, la fonte del suo orgoglio e della sua letizia. Ciòcche — 132 — importa allora non è più questo lavoro, cosi e così determinato, nell’impossibilità o nella mancanza o nella non riuscita del quale lo spirito soffre e si tortura: è il lavoro in genere, qualunque lavoro, è l’atto stesso del lavorare in generale, del com¬ battere e del vincere. Così il lavoro tende a cam¬ biarsi a poco a poco in sport, in gioco, in cui ciò che importa non è la posta, ma l’abilità stessa del giocatore. Ma un’attività che qualche linea appena separa dal gioco, dallo sport, non ha radi¬ ci profonde nel sottosuolo dell’anima, è un arbo¬ scello che un vento un po’ forte fa presto a strap¬ pare. A chi ha realizzato il senso della sua domina¬ trice natura lo stesso bisogno di lavorare appare fatalmente una servitù, una catena che è d’uopo spezzare. L’anima allora si apre ad altri bisogni, ascende ad altri ideali, s’impenna verso altri sogni. La divina follia del lavoro le appare una dura catena che l’asserve a ciò che è fuori di lei, la serra in un'angusta e soffocante prigione, dove le sue energie si depauperano e si disseccano. L’ani¬ ma vuol godere di sé, del suo libero gioco, del suo interno ritmo armonioso. Se ancora brucia d’agire, le attività attraverso le quali sogna di esplicarsi sono attività che non l’asservano al mondo, ma in cui traluca e folgori la sua libertà : l’Arte, il Gioco, il Lusso. ) M’inganno? A me sembra che verso questo punto graviti nel suo generale movimento la so- — 133 — cietà contemporanea. Se l’età modèrnissima me¬ rita un nome non è forse quello di età dello Sport? Nuove costellazioni salgono all’orizzonte dello spirito che mai non posa. Rivoluzione d’inealco- lahile importanza nella storia della civiltà con¬ temporanea. / XIX. La spiritualità dell’operaio nella Civiltà del Lavoro. Grande e luminosa visione del mondo e della vita, quella di cui nelle pagine che precedono ab¬ biamo raccolto i tratti in un quadro d'insieme. Ma terribili sono le sue ombre; mostruose le sue de¬ ficienze. I Una delle più nere di quelle ombre è resi¬ stenza, generata dalla civiltà capitalistica, dalla civiltà che nel Lavoro ha racchiuso la somma di tutti i doveri e il succo di tutte le gioie, di una sterminata moltitudine di uomini condannati a un lavoro nel quale non brilla luce alcuna di spiri¬ tualità. Per strana, e pure inevitabile conseguenza, la Civiltà del Lavoro, nella quale lo spirito va sempre più orgogliosamente celebrando la sua signoria sul mondo delle cose inerti e mute, ha condannato gran parte degli uomini alla mono¬ tona esistenza degli oggetti di natura, destinati alla meccanica ripetizione sempre dei medesimi gesti, sempre degli stessi movimenti. Il contadino che XIX. La spiritualità dell’operaio nella Civiltà del Lavoro. Grande e luminosa visione del mondo e della vita, quella di cui nelle pagine che precedono ab¬ biamo raccolto i tratti in un quadro d’insieme. Ma terribili sono le sue ombre; mostruose le sue de¬ ficienze. | Una delle più nere di quelle ombre è resi¬ stenza, generata dalla civiltà capitalistica, dalla civiltà che nel Lavoro ha racchiuso la somma di tutti i doveri e il succo di tutte le gioie, di una sterminata moltitudine di uomini condannati a un lavoro nel quale non brilla luce alcuna di spiri¬ tualità. Per strana, e pure inevitabile conseguenza, la Civiltà del Lavoro, nella (filale lo spirito va sempre più orgogliosamente celebrando la sua signoria sul mondo delle cose inerti e mute, ha condannato gran parte degli uomini alla mono¬ tona esistenza degli oggetti di natura, destinati alla meccanica ripetizione sempre dei medesimi gesti, sempre degli stessi movimenti. Il contadino che — 137 — a schiavo della ruota, a servo della puleggia. Persa ogni spiritualità creatrice, la sua attività ai riduce alla ciclica ripetizione sempre dei medesimi gesti, sempre degli stessi movimenti, da attività spiri¬ tuale si è oscurata in abitudine, si è degradata in meccanismo. L’operaio è stato espulso dal regno dello spirito e relegato nel muto regno della na¬ tura. Non c’è da stupirsi perciò se egli consideri l’officina con animo non diverso da quello col quale il galeotto considerava la nave alla quale era incatenato: più fortunato dell’antico galeotto in questo, che il galeotto non poteva allontanarsi inai dal banco cui era legato, e il galeotto mo¬ derno. invece, ogni giorno è rimesso in libertà per alcune ore, perché in quelle vacanze del lavoro si nutra, si riproduca e cerchi nei piaceri più bassi e volgari lo stupefacente alla insopportabile mo¬ notonia della sua vita quotidiana, salvo poi. al¬ l’alba del nuovo' giorno, a farsi tirare docilmente dalla invisibile e possente catena del bisogno che dalla casa lo riconduce all’officina. Grave problema questo, che la. Civiltà del La¬ voro ha imposto all’anima moderna, e di cui questa affiannosamente cerca la soluzione. Ad af¬ francare l’uomo dalla dura servitù del lavoro quotidiano, Aristotile aveva auspicato i tempi in cui i plettri avessero suonato da soli e da sole le spole avessero tessuto. Ma che venissero mai quei {tempi, Aristotile non credeva. Lo sviluppo della storia ha smentito il filosofo di Stagira. Quei tempi — 138 — sono venuti. Le spole hanno tessuto da sole, ma l'uomo è divenuto servo della spola, legato alla spola meccanica più strettamente di quanto lo fosse mai all'antico telaio lo schiavo obbligato a tessere dall'alba al tramonto pel padrone. E più la civiltà capitalistica avanza nella sua via tem¬ pestosa. più il problema che essa pone ed impone diviene urgente e pauroso. Gli è che — come pro¬ fondamente intuì Carlo Marx — l’essenza della civiltà capitalistica è nella trascendenza dell’in¬ telletto al braccio, del cervello alla mano, del lavoro di direzione al lavoro di esecuzione. E più la civiltà capitalistica avanzando realizza il suo principio prolondo ed essenziale, più l’abisso si scava fra i due elementi, più il lavoro direttivo diventa trascendente a quello di esecuzione, quasi svolgentesi su un altro piano di vita, in un supe¬ riore mondo retto da più alte leggi. Tra l’appren¬ dista e il maestro della corporazione medioevale, tra 1 operaio e il padrone delle prime manifatture, la distanza era piccola e facilmente valicabile dal- 1 ingegno, dall'attività, dal risparmio, dalla fortuna del singolo. Oggi tra il gran capitano d'industria, che dal suo ufficio dirige la immensa rete dei suoi affari come un re il suo stato, e l’operaio legato alla ruota a sorvegliarne i movimenti corre una distanza planetaria, che appena a rarissimi inter¬ valli di tempo qualche eletto e fortunato riesce a valicare. All’uno, tutta la gioia del lavoro che è slancio vitale continuamente superantesi, trascen- — 139 — idenza continua della vita ai momenti già realiz¬ zati: all'altro la monotona ripetizione sempre dei medesimi gesti e movimenti. All’uno, sempre più 1 ebrezza di quella creatività che è genialità; al¬ la ltro, sempre più l’atonia e l’indifferenza di una ivita puramente vegetale. L’inno del lavoro che è gioia può aver senso pel primo. Per l’altro sùonerà amara irrisione alla vita miserabilmente strumen¬ tale cui è condannato. E v’è chi prevede che, svi¬ luppandosi sino in fondo, la Civiltà del Lavoro porterà a una risurrezione dell’antico stato servile, in cui milioni di schiavi saranno condannati a un lavoro, del cui piano direttivo nulla sapranno mai, e una minoranza di eletti si scaricherà sulle spalle del maggior numero dei lavori necessari alla vita sociale. In fondo della strada che la Civiltà del Lavoro attualmente percorre si troverebbe così, per strana ironia della storia, il totale rinuega- jmento del lavoro come valore spirituale. I Senza negare la gravità e l’urgenza del pro¬ blema. è lecito pensare che le considerazioni sopra riferite peccano di unilateralità. Esse accumulano le ombre e non tengono conto delle luci di cui pure il quadro si allieta. Le antiche manifatture richiedevano, sì, dall’operaio uno sforzo assai più personale di quel che richieda la moderna offi- |CÌna, ma non lo esimevano dai lavori più bassi e umilianti, diminuivano, quindi, non abolivano la distanza fra lo schiavo e l’operaio. Nelle grandi officine moderne il lavoro dell’operaio si è al mas- — HO — eimo grado spersonalizzato, è vero, ina la mac¬ china lo ha quasi totalmente affrancato dalle fati¬ che più dure e awilienti. L’uomo di fatica è oggi l'eccezione, non la regola, come una volta. E più, con P applicazione dei metodi Taylor, il lavoro dell’operaio si va spersonalizzando, più si va di¬ staccando dall’individualità dell’operaio, e più breve- diventa il noviziato per ciascun genere di lavoro, più facile il passaggio dell’operaio da un genere all’altro, più agevole l’alternarsi dell’un genere di lavoro con l’altro. E se anche si voglia giudicare schiavitù il lavoro dell’operaio nell’of¬ ficina moderna, alternare un genere di schiavitù con 1 altro è già un primo principio di libera¬ zione. E nella grande industria moderna i generi di attività sono così varii, che 'gli operai di qual¬ siasi intelligenza e di qualsiasi mestiere possono trovarvi un posto. Del resto, la stessa meccaniz¬ zazione dei movimenti e dei gesti imposta all'ope¬ raio dalla condizione della grande officina mo¬ derna non è senza vantaggi. Essa fa, sì, dell’ope¬ raio il servo sommesso della ruota, ma gli rende impossibile di perseverare e di ricadere in quelle abitudini di anarchia che la molle disciplina del- l’artigianato lasciava sussistere in lui. La mac¬ china, non concedendogli un istante di distra¬ zione, lo forza alla disciplina, all’auto-controllo, alla temperanza; abituandolo a sentire il suo la¬ voro personale accordato al ritmo di una grande officina, sviluppa in lui il senso dell’organizza- — 141 — zione e della solidarietà, lo avvezza alla responsa¬ bilità e al comando: crea, così, nell'operaio, almeno le basi di una più alta spiritualità. E a chi ob- biettasse che di questa spiritualità così creata in lui l’operaio non ha che farsene né nell’officina né in casa, ridotto com’é schiavo del fuoco e dell’ac¬ qua. si risponde che accanto alle ombre non bi¬ sogna rifiutarsi di veder la luce. Nelle antiche ma¬ nifatture, è vero, la distanza dell’operaio dal pa¬ drone era ben piccola, e con facilità l’operaio riu¬ sciva ad emanciparsi e a diventare egli stesso pa¬ drone. Ciò è innegabile, ma è anche la prova che in quell’antico sistema economico il padrone non era poi tanto superiore al suo operaio quanto si vuole far credere. Per quanto riguarda il lavoro, egli era, in fondo, operaio fra operai, primus inter pares. Le condizioni dell’impresa moderna rendono presso che impossibile all’operaio emanciparsi e diventare padrone, è vero, ma moltiplicando i gradi gerarchici nell’officina, lasciano amplissimo spazio all’attività dell’operaio che si vuole elevare. Del resto, la grande impresa moderna non ha più un padrone nel senso antico della parola. Lo sviluppo dell’economia e del diritto moderni (è nel senso di trasformare il padrone in amministratore e diret¬ tore dell’azienda, investito di una funzione sociale di direzione, che, se lo rende trascendente all’u¬ mile operaio, lo avvicina ad esso in quanto è pur essa lavoro. Tnsomina, il corso delle cose è oggi tale che, se da un lato la distanza fra operaio e — 142 — padrone aumenta, dall'altro diminuisce e di molto Un Ford è infinitamente più lontano dai suoi ope- rat. in quanto cervello direttivo, di quel che fosse l'antico padrone della manifattura, ma è ad essi assai più vicino in quanto, agli occhi stessi del- 1 operato, la figura che domina in lui non è più «pie 11 a del padrone, è quella dell’amministratore e direttore, lavoratore anche lui, come l'operaio Ne si dimentichi una considerazione di capi- tale importanza: l’evoluzione della civiltà capi¬ talistica. se da una parte tende sempre più a fare dell operaio una mota, dall’altra, con l'aceorcia- mento della giornata di lavoro, con la frerpienza « ei giorni festivi, con gli alti salari, con l'abhon- « anza del credito al lavoratore, con l’incoraggia- men.o al consumo, tende a rendere sempre più «ielle all operaio tornato a casa di partecipare alla vita dello spirito e alla cultura in un grado ignoto alle antecedenti civiltà. Lo sviluppo della civiltà capitalistica tende da una parte ad elevare l'ope¬ raio al grado d’impiegato, dall’altra a dividere net¬ tamente la vita dell’officina dalla vita di casa: nel- 1 officina, l’operaio, ruota fra ruote; nella casa, 1 uomo e il padre di famiglia, che, placati i più elementari bisogni della esistenza con un’ampiezza idiota alle antiche civiltà, può. se vuole, iniziarsi alla vita della cultura e partecipare alle gioie dello spirito. La stessa meccanizzazione del lavoro del¬ offio,„a non è senza vantaggio per un più libero volo dello spirito restituito a sé stesso dopo le ore — 143 — <11 lavoro, e nelle stesse ore di lavoro lascia l'ope¬ raio libero di pensare, di riflettere e di fantasticare quanto gli piace. È per questa via che, nella stessa cornice della civiltà capitalistica la più sviluppata, conservandone intatte le preziose conquiste, può realizzarsi quella conciliazione di meccanismo e spiritualità, di necessità e libertà, che l’esistenza del proletariato industriale con urgenza innegabile esige dalla civiltà contemporanea. La soluzione che altri propone: affezionare l'operaio al lavoro qualificando quanto più è pos¬ sibile il lavoro, sì che questo sia compiuto con la stessa gioia creatrice con cui l’artista attende al¬ l'opera d’arte, questa soluzione marcia all’incontro del vivo corso della storia. Essa tende, sì, a impe¬ gnare l’operaio in quanto spirito nel suo lavoro, ma gli rende impossibile di spaziare oltre i ristretti confini di esso. Chi ciò propone tende a riportare l'operaio moderno alla condizione di artigiano, e si contenta che l’operaio realizzi in sé quel tanto di spiritualità che l’artigiano può realizzare atten¬ dendo al suo lavoro. Ma la causa dello spirito è servita assai meglio da un sistema economico che, dopo aver fatto per sei o sette ore dell’operaio una macchina, lo restituisce a casa uomo fra uomini, libero, se sa e vuole, di partecipare alla vita dello spirito in tutte le sue forme, che da un sistema come l'artigianato, il quale confina tutta la spiri¬ tualità dell’operaio nella confezione di un prodotto manuale, sempre lo stesso, e ve lo assorbe per — 144 — intero. È vero che l’operaio della grande officina finisce per considerare il lavoro come una fatica da risparmiare il più possibile, come il prezzo di dolore e di noia che deve pagare per ottenere l’accesso a quella più alta e degna vita che solo fuori dell’officina gli è concesso di vivere. Ma è difficile credere che un calzolaio, un vasaio, un sarto, un ebanista, o qualunque altro artigiano trovi nel suo lavoro, se anche più personale, ma anch'esso, in fondo, eternamente lo stesso, una gioia creatrice di gran lunga maggiore. E d’altra parte è solo la grande impresa moderna che può ridurre a un numero non troppo lungo di ore quella giornata lavorativa che nel sistema econo¬ mico dell’artigianato divora quasi interamente il tempo della vigilia. Ciò isi dice naturalmente in linea di generalità, né s’intende punto negare che nelle isole di artigianato, che pur continuano ad esistere nel gran fiume dell’economia contempo¬ ranea, il lavoro possa essere spiritualizzato ap¬ punto nel modo indicato da quei teorici: cioè qua¬ lificandolo sempre di più, facendo del lavoro cosi e così qualificato il centro della vita e della cultura dell’artigiano. XX. Lavoro e Culturv. In una conferenza dal titolo Lavoro e Cultura compresa nel volume di recente pubblicazione Fascismo e Cultura (Milano, Trevcs, 1928) il pro¬ fessore Giovanni Gentile si sforza di dimostrare che vi è antitesi radicale tra Cultura c Lavoro, intendendo per lavoro il lavoro manuale e, più generalmente, il lavoro che crea la ricchezza e il valore economico. In sostanza, due sono i caratteri differenziali in ragione dei quali Gentile scava un solco pro¬ fondo tra Lavoro e Cultura. 11 Lavoro, egli affer¬ ma. rivolgendosi alla natura e facendo di essa uno strumento per l’appagamento dei bisogni dell’uo¬ mo. crea la ricchezza, il valore delle cose. Senza bisogno, non c’è valore. Se l’uomo non avesse bi¬ sogno o volontà di mangiare e di vestirsi, il cibo e il vestito non avrebbero più valore economico. 11 valore economico è perciò sempre relativo, mez¬ zo a uno scopo che, in quanto tale, è esterno ad Tllgher 10 — 146 — esso e alla cosa fisica in cui il valore è incorpo¬ ralo. Il valore economico è perciò sempre riflesso e relativo. E tale è il lavoro che lo genera. Al con¬ trario, la Cultura è valore vero e assoluto, perché ”0“ h» fuori di sé, ma in sé stessa lo scopo suo. Arte, scienza, filosofia, religione sono veri, asso¬ luti valori, perché rispondono ai bisogni essen¬ ziali, immanenti, costitutivi della nostra vita, radi¬ cati profondamente nella coscienza. La Cultura è fine a sé stessa, non è mezzo a fine, perciò non è utile, non serve a niente, utile essendo solo ciò che serve come mezzo ad uno scopo posto fuori di esso. Il secondo carattere differenziale consiste in qui sto. ehe mentre il Lavoro si incorpora in un oggetto materiale, fisico, determinato — il pane, il carbone, le vesti; — trasforma, quindi, la natura, ma, a sua volta, s’immagazzina in essa, si assimila ad essa, la Cultura affranca l’uomo da ogni sog¬ gezione alla natura, da ogni vincolo spaziale e temporale. Perciò, mentre i beni economici, sog¬ getti all’esteriorità dello spazio e del tempo, sono quantità che si sommano, si moltiplicano, si divi¬ dono, ceduti abbandonano chi li aveva e passano a ehi non li aveva, i beni dello spirito hanno que¬ sto di particolare che chi li partecipa ad altri non li perde, anzi ne conferma e accresce il godimento per sé: dividendoli, li moltiplica. Concludendo: antitesi profonda tra Lavoro e Cultura. Certo, senza Lavoro, senza i beni mate- riali da esso messi a disposizione dell’uomo, la vita libera e disinteressata dello spirito, non più stretto da bisogni, non più assillato da preoccu¬ pazioni economiche, non sarebbe possibile, ma non nel Lavoro, bensì nella Cultura Io spirito attua e celebra la sua infinità. Tutta questa costruzione non sostiene un'ana¬ lisi un po' approfondita. E, innanzi tutto, non è affatto vero clic la differenza tra Lavoro e Cultura sia quella tra relativo e assoluto. L’arte, la scienza, la filosofia possono benissimo essere coltivate non per sé stesse, ma come mezzo ad un fine estraneo allatto spirituale in cui esse consistono: guadagno di denaro, conquista della gloria o di una cattedra o di una dignità accademica o, perché no? di una bella donna, senza perciò cessare di essere arte, scienza e filosofia. E, viceversa, il lavoro, non sol¬ tanto quello dell industriale, del commerciante, •lei banchiere, ma lo stesso umile lavoro manuale del contadino e dell’artigiano può benissimo essere esercitato non come mezzo a scopo, ma per sé stesso, in vista della pace e della calma che si sprigionano da un regolato e disciplinato lavoro, compiuto con animo religioso e contento. Non esistono mezzi e fini che siano mezzi e fini in sé e per sé: tutto può essere mezzo o fine, a seconda che lo spirilo lo costituisca come tale. Né vi sono bisogni essenziali, immanenti, costitutivi clic siano tali in sé e per sé: per tino spirito total¬ mente e definitivamente distaccato dalla vita non — 148 — solo il pane e il vino, il carbone e il vestito, ma l'arte, la scienza, la filosofìa si scolorano, perdono ogni importanza e ogni serietà, non valgono un minuto di studio né un palpito di preoccupazione. Anche meno resistente all’analisi è Taltro carat¬ tere differenziale tra Lavoro e Cultura, secondo il quale gli oggetti in cui il Lavoro s’incarna sono materiali e divisibili, e i valori culturali, invece, immateriali e indivisibili. — Il Lavoro s’incarna in un oggetto fisico? — Ma è lo stesso, sempre, della Cultura : libro, qua¬ dro, statua, vibrazioni dell’aria percossa dalla lin¬ gua dell’oratore, impressioni della corteccia cere¬ brale. — Le ricchezze economiche si consumano, deperiscono e muoiono? — Ma è lo stesso delle ricchezze spirituali : e quante di queste, libri quadri statue edifici, sono stati irremissibilmente distrutti dal dente vorace del tempo? — Le ric¬ chezze economiche sono divisibili, e se uno le ha non le ha l’altro? — Ma anche delle ricchezze spi¬ rituali si può dire esattamente lo stesso: e quanti tesori sono rapiti al pubblico dalla gelosia dei pro¬ prietari di private biblioteche e gallerie? — Il la¬ voro economico incatena l’uomo ad un punto parti¬ colare del tempo e dello spazio, nell’officina, alla gleba, sulla nave? — Ma lo scrittore non è legato al tavolo e il pittore al cavalletto e il musicista al piano? — Le ricchezze economiche cedute la¬ sciano chi le aveva e vanno a chi non le aveva? — .Innanzi tutto, anche quelle spiritali si comprano — 119 — e si vendono, e poi, quante volte elii le dà altrui le perde per sé? È raro il caso d’insegnanti, di attori, di oratori, di sacerdoti che entusiasmano o commuovono gli uditori e che, essi, non riescono più a provare alcuna viva e profonda vibrazione nel loro spirito, ottuso dall’abitudine? E, vice¬ versa. non è un fatto d'esperienza quotidiana il contagio benefico che un lavoro, anche manuale, esercitato con animo sereno e contento spande attorno a sé? La teoria di Gentile, la quale, in fondo, non è che la pura e semplice ripetizione di quella di Giordano limilo sopra esaminata, tende a stabilire una differenza di natura tra Lavoro e Cultura: que¬ sta, autonoma; quello, eteronomo; questa disinte¬ ressata; quello, interessalo; questa universale e spi¬ rituale; quello, particolare e materiale. Dal.che, a fil di logica, deriverebbe una divisione della So¬ cietà in caste: i (•udrà e vaisia e i brahmani, i coo- lies e i mandarini, gli uni che lavorano perché gli altri possano pensare e contemplare. È, in fondo, un ritorno alla giustificazione aristotelica della schiavitù, cosa tanto più sorprendente in un filo¬ sofo che da vent’anni in qua non fa che ripetere su tutti i toni che ogni atto dello spirito è autoco¬ scienza e filosofia, e poi non esita a mettere fuori dello spirito nove decimi dell'umanità e nove de¬ cimi dell’attività del decimo residuale. Gentile raccomanda, è vero, che gli eletti non trascurino, per quanto è possibile, di far par- — 150 — tecipare i reietti della luce di quella Cultura che, sola, la gli uomini liberi, ma ciò è nuova conferma che nel suo pensiero il Lavoro propriamente detto, il Lavoro che è l’ufficio proprio della casta infe¬ riore, non ha in sé né luce, né umanità, né dignità di sorta. È ciò che va negato in modo assoluto. Tra Lavoro e Cultura non v’è differenza di natura, ma solo di gradi. L’operaio che lavora al tornio spian¬ do 1 ora della libera uscita è, sì, schiavo, ma non meno schiavo è il professore universitario che inse¬ gna con i orecchio teso alla campana che suonerà la fine della lezione. 11 contadino che semina e ara nella gioia serena di un utile lavoro compiuto con animo religioso e il poeta o lo scienziato che a prezzo di asper¬ rime lotte forzano le porte dietro cui si nascon¬ dono la bellezza e la verità gustano tutti e due, sia pure in grado disuguale, la gioia divinamente umana di sentire venir meno sotto la propria at¬ tività le resistenze della materia ostile e ribelle: entrambi celebrano, ognuno a suo modo, la sua umanità. Se v’è differenza fra loro, non è che di grado. Per elevarsi all Umanità il lavoratore non ha bisogno di cominciare dal lasciare il piano nor¬ male della sua vita: è su questo stesso piano che egli può cominciare a gustare la gioia concessa ad ogni attività libera e disinteressata dello spirito. ( Gioia die lo fa uomo e lo spinge a trovare nella — 151 — Cultura più propriamente delta un maggior respiro alla sua umanità. È desiderabile che dal Lavoro il lavoratore passi alla Cultura, ma, passandoci, egli non passa dalFanimalità all'umanità, bensì, soltanto, da una più angusta e povera ad una più ampia e ricca umanità. XXI. Lavoro e Bellezza. Mille volle, nei libri e nei comuni discorsi della gente, abbiamo sentito e sentiamo deplorare che oggi gli uomini, arsi da una febbre di lavoro clic non lascia un'ora di requie, non abbiano più né tempo né voglia di alzare gli occhi a bere la bel¬ lezza del mondo nel quale vivono la loro breve giornata. Curvi come galeotti sul remo del quotidiano lavoro, non hanno sguardi per la bellezza del mon¬ do creato, come non ne aveva il galeotto per lo splendore dei tramonti e delle albe sul mare che traversava la nave a un banco della quale egli passava legato la sua triste vita: meno scusabili ilei galeotto per questo, che al banco del quoti¬ diano lavoro essi ci si sono incatenati da sé, con catene ben più possenti, se pure invisibili, di quelle che tenevano avvinto alla nave il povero galeotto. E alle deplorazioni fanno seguito i consigli: interrompi una buona volta, o uomo, il tuo duro lavoro quotidiano per ammirare la bellezza del — 154 — mondo e riempirne le lue pupille prima elle queste siano avvolte per sempre dalle ombre eterne che chiuderanno la tua corta giornata! Deplorazioni e consigli, benché mille volte ripe¬ tuti. privi di ogni intima giustificazione. Essi sono possibili solo in quanto ci si ponga da un punto di vista esterno a quello della civiltà che nel lavoro vede la massima gioia e il più alto dovere della vita: non sgorgano da una critica interna che que¬ sta civiltà faccia di sé medesima. Ogni civiltà «i basa su un equilibrio, su una organizzazione di sentimenti di passioni di preferenze di giudizi che ha la sua logica interna, e nella quale elementi estranei non possono entrare sotto pena di rom¬ pere quell’equilibrio, di disorganizzare quell’or¬ ganizzazione, di provocare una crisi mortale in quel delicatissimo essere vivente che è una Civiltà, una Cultura. Rimproverare ad una civiltà che del lavoro fa il massimo dovere e la massima gioia della vita di non avere occhi per la bellezza del mondo è come rimproverare ad un mammifero di non es¬ sere pesce. Volerla correggere di quel difetto è come voler correggere il mammifero del difetto di non saper vivere sott’acqua. Gli è che quel difetto non è difetto che si possa correggere lasciando immutato l’organismo nella sua essenza profonda: è elemento essenziale dell’organismo stesso, fa corpo con questo, e correggerlo vuol dire uccidere l’organismo. — 135 — Per voi 1 uomo che, curvo come un galeotto sul remo, passa Ja giornata al lavoro e non se ne di¬ stoglie che il breve tempo necessario per ridare all organismo la forza necessaria per lavorare an¬ cora, senza levare un minuto gli occhi al cielo per ammirare la bellezza dei giorni e delle notti, è un pazzo furioso insensibile a ciò che di più bello ba il mondo. Ma gli è che voi vi ponete per giudi¬ carlo da un punto di vista esterno a quello dal quale si pone lui. Dal punto di vista internamente al quale egli vive, egli è tanto più scusato di non togliere un minuto al lavoro per darlo alla con¬ templazione delle bellezze naturali, in quanto per lui la bellezza della natura non esiste affatto. Il mondo non è bello che per chi si pone dinanzi ad esso in atteggiamento di estasi contemplativa, e perciò stesso di calma, di riposo, di pace. Con¬ templare è rinunciare ad agire, a lavorare. Perché il mondo appaia come spettacolo bello, è necessa¬ rio che lo spirito si ponga come spettatore, e cioè esca dalla sfera di attività pratica. Per chi bruci tutto della febbre del lavoro il mondo, la natura non è né bella né brutta: essa è al di qua di queste categorie estetiche, è materia che si tratta di organizzare secondo i' fini e gli interessi umani, non è oggetto che si tratta di gustare e contem¬ plare così com’è in sé, astrazion fatta da quei fini. Gli storici si sono domandati spesso perché la magnifica civiltà borghese creata dai Comuni Ita¬ liani nei secoli xtv e xv venne improvvisamente nel — 156 — secolo xvi a inaridirsi e cadere. E han risposto indi¬ cando mille cause: economiche, politiche, militari, e così via. La ragione vera e profonda a me pare un’altra. Chi uccise la civiltà borghese italiana dei secoli XIV e xv fu lo spirito del Rinascimento, che inse¬ gnando all’uomo ad ammirare, a gustare, a con¬ templare la bellezza del mondo creato annientò alla radice lo slancio che portava quella civiltà ad agire sul mondo, a trasformarlo, ad organizzarlo secondo i suoi fini. Fu sotto l’influsso dello spirito del Rinascimento che il borghese risparmiatore e lavoratore del Tre e Quattrocento divenne nel Cin¬ quecento il raffinato e gaudente contemplatore delle bellezze naturali. La controprova decisiva della ve¬ rità di quanto affermo è nell’origine della Civiltà del Lavoro dallo spirito del Protestantesimo. 11 Pro¬ testantesimo stacca con un taglio netto il mondo e Dio; il mondo che per l’Umanismo era percorso e vivificato dallo spirito divino appare al Prote¬ stantesimo un’oscura valle derelitta da Dio e po¬ polata di demoni. Dove l’umanista vede sorridere gli Dei del Paganesimo tornati sulla terra fe la stessa Madonna e gli stessi Santi e Sante si figura come divinità pagane), il protestante vede sogghi¬ gnare torme di streghe e stuoli di diavoli. Il mondo gli appare non più, come all’Umanista, specchio e copia di Dio, ma come materia tenebrosa, che resiste e rilutta alla divinità, che è ribelle e nemica a Dio, e che bisogna piegare a viva forza per farla — 157 — divelli are specchio e rillesso del Regno Divino. E l'energia di cui trabocca l’animo del fedele si rove- scerà tulla sulla materia del mondo per trasfor¬ marla. senza che mai il sorriso delle cose lo arresti nel suo duro lavoro quotidiano: appunto perché quel sorriso egli non lo vedrà neppure, o sotto di essa intravederà sempre il sogghigno del diavolo. Appunto perchè il Protestantesimo esiliò Dio dal mondo, questo potè perdere ogni seduzione estetica ed apparire agli uomini come nient’altro che serbatoio di materia da piegare ai fini e agli interessi umani. Ecco perché la Civiltà del Lavoro soffocala in Italia emigrò nei paesi anglo-sassoni. Ecco perché per essa lo spirito dell’Umanismo, la contemplazione del mondo è veleno mortale. E poiché lo spirito umanistico è stato sempre, molto o poco, Vivo in Italia, si spiega perché da noi la Civiltà del Lavoro sia qualcosa di artificiale e di importato, cui ci siamo dovuti piegare a forza, per le dure necessità della vita, ma che ripugna all’in¬ timità profonda della più pura genuina natura ita¬ liana. Ma che anche nei paesi d’origine, Inghilterra e America, questa civiltà cominci a seccare dallo radici, lo dimostra, secondo me, uno dei fenomeni più nuovi e più impressionanti del nostro tempo: (pollo che si può chiamare il rinnovato cullo del corpo umano. Nulla di più caratteristico e di più originale di (pesta meravigliosa resurrezione del corpo dalla — 158 — tomba dei vestiti in cui per quasi verni seeoli esso era stato rinchiuso, di questo suo trionfale esibirsi al bacio del vento e del sole, come ai tempi glo¬ riosi dell'EIlade antica. L'Anglo-sassone scopre con occhi stupiti la bellezza del corpo umano: dagli occhi del Puritano cadono le squame, ed egli vede dalle acque dell Atlantico e del Pacifico emergere Venere Anadiomène. È vero che nel corpo umano egli vede ed ammira sopratutto un complesso di valori muscolari, un fascio di muscoli che viene dall'azione e va all’azione. Punto di vista radical¬ mente opposto a quello del Greco, per cui il corpo era essenzialmente Forma in riposo. Ma non im¬ porta: 1 essenziale resta. Per la prima volta dopo tre secoli l'Anglo-sassone ha alzato gli occhi dal lavoro e guarda stupito la creatura bella che vive e palpita dinanzi a lui. Per qualche attimo alme¬ no, egli non lavora, ma contempla e ammira. E sulle dure città dell’acciaio e del cemento armato comincia lieve lieve a spirare lo spirito del tornante Umanesimo. XXII. Paralipomeni alla Storia del Concetto di Lavoro - Analisi filosofica di concetti affini e corre¬ lativi. 1. - Lo sport. Ciò che costituisce essenzialmente, se non esclusivamente, la differenza Ira le generazioni (ed io proporrei di fissare a non meno di venticinque anni la distanza nel tempo fra una generazione e 1 altra) è la differenza dei gusti e interessi spiri¬ tuali. Da questo punto di vista, mai, forse, fra due generazioni immediatamente susseguente corse differenza più grande che fra la generazione alla quale appartengo io v e con me coloro che stanno oggi fra la quarantina e la cinquantina, e la gene¬ razione che ha oggi tra i quindici e i venticinque anni. Per indicarla con una parola sola, la gene¬ razione che oggi vien su è una generazione essen¬ zialmente sportiva. Sugli uomini della mia gene¬ razione, al contrario, lo sport non esercitava nes¬ suna attrazione. Ai tempi miei la ginnastica era la cenerentola degl’insegnamenti ginnasiali: il — 160 — maestro si spolmonava a comandarne gli esercizi 'dinanzi a una palestra malinconicamente spopo¬ lata. Le società sportive non avevano che pochi soci, cattivi pagatori e radi frequentatori. E solo a grande stento qualche ebdomadario sportivo riu¬ sciva a mantenersi vivo nell’assenza presso che assoluta di lettori. Oggi, invece, i giornali sportivi dai vari colori sono quelli che vantano le più for¬ midabili tirature. Non v'è quotidiano politico che non abbia la sua pagina sportiva, alla quale, pri¬ ma che ad ogni altra, corre l’occhio del comune lettore. Le società sportive rigoglieggiano e fiori¬ scono, circondate dal pubblico favore e dalla pro¬ tezione delle pubbliche autorità. L'insegnamento ginnastico sta su un piede d’eguaglianza con tutti gli altri, e gli alunni lo seguono con ben più vivo zelo e interessamento che gli altri. Per riassumere in due parole l'antitesi fra le due generazioni, quella che ora vien su sembra innanzi tutto preoc¬ cupata del corpo, e quella alla quale appartengo io si preoccupava sopratutto dello spirito e di cul¬ tura. E ci tengo ad avvertire che è ben lontano dal mio pensiero assegnare la palma della superiorità all’una o all’altra. Io mi limito a constatare la dif¬ ferenza, che è così profonda da essere a dirittura antitesi radicale, e che implica un così completo spostamento d'asse nell’interesse e nel gusto collet¬ tivi elle è ridicolo farlo risalire a cause partico¬ lari. effimere e contingenti, lo sarei piuttosto incline a riportarlo a cause di ordine biologico e fisiolo- — 161 — gioo, ad una invisibile ma profonda oscillazione della corrente vitale circolante sul nostro pianeta. ^ enticinque o treut anni fa, questa si polarizzava verso le cose dello spirito. Oggi si polarizza verso quelle del corpo. Cerchiamo, se ci riesce, di capir¬ ne il perché. Intanto, è pacifico che la diffusione crescente, in Italia e in Europa, del gusto e della passione dello sport coincide con il progressivo dilagare del¬ la concezione e della pratica di vita americana o anglo-sassone in genere. Concezione e pratica di vita che orienta l’uomo verso le cose di questo mondo, e disinteressandolo sempre più dell’aldilà e dei suoi problemi, gl’indica la terra come la più vera e degna arena dei suoi sforzi, e il lavoro come il primo e massimo dei suoi doveri. Lavorare, lavo¬ rare e poi lavorare ancora; lavorare per lavorare, e non già per riposarsi un giorno e godere in molle ozio voluttuoso dei frutti del lavoro; fare del la¬ voro il dovere e la gioia, il compito e la ricompensa insieme della vita: tale l’ideale anglo-sassone, che, a poco a poco, e con intensificata violenza dopo la fine della guerra mondiale, è andato dilagando per tutta Europa. La febbre del lavoro pulsa nelle no¬ stre vene. Il ritmo della vita è divenuto tumultuoso e ciclonico. Le molli delizie dell’ozio e della fanta¬ sticheria contemplativa non han più che pochi che le gustino e le cerchino. È finito il vivere tempe¬ rato, ideale e gioia dei nostri nonni e anche dei nostri padri. La religione del lavoro pel lavoro Tilgher 11 — 162 — vede oggi i fedeli affollare i templi fumosi delle officine e dei porti. Nello sforzo tremendo e soste¬ nuto cui questo ideale di vita costringe le anime, i nervi si spezzerebbero se, antitetico e correlativo insieme, accanto al culto del Lavoro non fiorisse rigoglioso il culto dello Sport. Lo Sport è la risposta fisiologica e biologica al Lavoro. Questo non va senza di quello. È lo Sport che nella dura tensione volontaria del Lavoro in¬ troduce le pause di riposo e di distensione necessa¬ rie e salutari. Lavoro e Sport sono le due faccie, diurna e notturna, severa e sorridente, di una me¬ desima divinità: 1 Azione. Agire: ecco l’imperativo categorico dell’anima contemporanea. Azione: ecco la sola e vera divinità dei nostri tempi. L'Azione prende sul serio sé stessa e il suo risultato? Ecco il Lavoro. L Azione si ride di sé stessa e del suo risultato e si compiace solo del gioco puro di sé stessa, distaccato e svuotato del suo risultato? Ecco lo Sport. La nostra è la civiltà dello Sport appunto perché e in quanto è la Civiltà del Lavoro. E lo Sport di cui si compiace la presente gene¬ razione ha, una per una, tutte le caratteristiche del Lavoro, così come oggi è sentito e praticato: le stesse ma svuotate di ogni pratica applicazione e risultato; le stesse, ma applicate a vuoto. Ben lungi dall’essere un molle e riposato divertimento, lo Sport moderno esige regola e disciplina rigoro¬ sissime: proprio come il Lavoro. Lo Sport moder¬ no è sempre meno lasciato all’arbitrio e all’inizia- — 163 — liva del singolo e sempre più costretto a una rigo¬ rosa razionalizzazione: proprio come il Lavoro. Lo Sport moderno mira essenzialmente al superamento del record ultimamente raggiunto ed alla conquista di un nuovo record: proprio come il Lavoro. Lo Sport moderno tende sempre più a strappare l’in¬ dividuo dall'isolamento originario e ad inglobarlo in équipe come membro obbediente e disciplinato che col suo sforzo solidale assicura la vittoria del¬ l’insieme: proprio come il Lavoro. Lo Sport mo¬ derno tende ad eliminare dall’animo ogni vapore romanzesco, ogni nebulosità fantastica, ogni scru¬ polo tormentoso, ogni tentazione ascetica, e a sosti¬ tuirli con un senso duro virile volontario discipli¬ nato e ottimistico della vita: proprio come il La¬ voro. Nou solo, dunque, il lavoro, nostro padrone e nostro dio, chiama come suo correttivo lo Sport, ma i tratti dello Sport contemporaneo corrispon¬ dono, uno per uno, ai tratti del Lavoro contem¬ poraneo. E ficcando più a fondo lo sguardo noi scopria¬ mo le ragioni nascoste del prodigioso fiorire e pro¬ liferare dello Sport nella società contemporanea. Fino a quando, vivo essendo il sentimento reli¬ gioso, il lavoro è considerato come espiazione del peccato originale, come malanno inevitabile inflitto da Dio da soffrire con rassegnazione pel poco tem¬ po che si ha da vivere in questa valle di lacrime, del quale all’uomo è tenuto conto nel finale bi¬ lancio dell'aldilà, il Lavoro non cerca nello Sport — 164 — il suo correttivo e la sua distensione. Non la cerca perché l’ha nella speranza religiosa che all'uomo sorride di un aldilà in cui gli sono rimessi al cen¬ tuplo i dolori dell'aldiqua. A misura che queste visuali trascendenti vengono meno, e, a misura che, insieme, lo sviluppo dell’economia va stringendo in ceppi sempre più infrangibili moltitudini sem¬ pre più vaste di uomini, alla dolce regola dell'arti- gianato sostituendo la ferrea militaresca disciplina della fabbrica moderna, la necessità di un correla¬ tivo ie distensivo del lavoro fin da quaggiù, in terra, diventa sempre più imperiosa. Più l’esercito del lavoro si accresce di nuove reclute, più duro e arido e monotono diventa il lavoro cui esse sono costrette nelle fabbriche moderne, ove il lavoro specializzato e sminuzzato non dà gioia né luce, più si fa urgente la necessità che la dura tensione del lavoro si allenti e si stenda. Tanto più urgente in quanto, checché si faccia, sarà sempre im¬ possibile che le grandi masse dell’esercito del lavoro sentano il lavoro come premio (e gioia a sé stesso. Obbligate a un lavoro servile e monotono, le grandi masse difficilmente possono sentirlo altri¬ menti che come mezzo e non come fine a sé stesso, come noia intollerabile da liberarsene al più presto possibile. E la liberazione, le grandi masse la tro¬ vano nello Sport. Per questo, non solo in Europa, ma nella stessa Inghilterra e America la voga del¬ lo Sport comincia quando la febbre del lavoro non — 165 — ha più per alimentarsi le grandi speranze e fedi religiose donde essa era nata, ma. venute meno queste, brucia, per così dire, a vuoto, alimentan¬ dosi di sé stessa. Così tutto spinge a precipitare l'anima contem¬ poranea nel vorticoso fiume dello Sport. Le grandi masse, obbligate dal dilagare dell'industrialismo a un lavoro sempre più arido e monotono, incapaci di sentire il lavoro altrimenti che come doloroso giogo di cui urge liberarsi al più presto, cercano e trovano nello Sport la distensione e la conso¬ lazione. Gli eletti che han fatto del lavoro il loro dio. dovere e premio a sé stesso, tanto più facil¬ mente passano dal lavoro allo sport in quanto il lavoro, considerato come fine e non come mezzo, come premio a sé stesso, come dovere e gioia in¬ sieme, è straordinariamente affine allo sport, è, in fondo, uno sport esso stesso ma fatto sul serio, così come lo sport è un lavoro (un lavoro così consi¬ derato) ma fatto per divertimento, per gioco. Qua¬ lunque azione, qualunque lavoro, fatto per sé stes¬ so, e non in vista del suo risultato, diventa sport se lo si coinpip con animo disinteressato distac¬ cato disincantato. Così, per lieve trapasso, il Lavoro si converte nello Sport, e la Civiltà del Lavoro si avvia ad essere, ed è di fatto, Civiltà dello Sport. XXIII. 2. • Il cioco. Che cosa è il gioco? In un saggio che è fra i suoi più interessanti e geniali (il lavoro, nel volume L’irrazionale, il lavoro, Vamore) il prof. Giuseppe Rensi definisce il gioco Fattività che è esercitata « per sé stessa, iin grazia del piacere o deirinteresse che essa, in¬ trinsecamente, considerata in sé, come fine a sé medesima, senza mire ulteriori, ci ispira ». È quindi gioco, secondo Rensi, ogni attività che esercitiamo non già per conseguire un qualche ri¬ sultato'al difuori dell’attività stessa, ma per la pura e semplice gioia di agire, « per il piacere che, chiusa e circoscritta in sé e senza bisogno di effetti ulteriori, Fazione del gioco ci dà ». È la¬ voro, invece, ogni e qualunque azione esercitata non pel piacere stesso di agire, ma in vista di un risultato posto al di fuori dell'azione stessa, e senza 1 attrattiva del quale non ci innoveremmo — 168 — mai all'azione. Così poste queste definizioni, Retisi pe deduce con molta logica che il lavoro, di qua¬ lunque genere e forma esso sia, è sempre, per na¬ tura, cosa molto o poco penosa, alla quale non ci sottomettiamo che contro voglia, facendo forza al nostro impulso spontaneo, spinti dalla dura ne¬ cessità. Posto che l’uomo in tanto lavora in quanto agisce non già pel piacere che gli viene dalla azione, ma per conseguire un fine estraneo alla azione stessa (compenso economico, avanzamento di carriera, fama, onorificenza ecc.) ne segue che nel lavoro l’uomo è sempre in lotta con sé stesso, con la sua tendenza profonda, è sempre, molto o poco, in stato di soggezione e di schiavitù. L’uomo |è veramente uomo solamente quando agisce pel piacere intrinseco alla sua azione, in una parola : quando gioca. Non il lavoro, il gioco nobilita l’uomo. Rinunciando ad esporre altre non meno para¬ dossali ma non meno logiche conseguenze che Rensi, con quella inflessibile consequenziarietà che lo distingue, trae dalle definizioni del gioco e del lavoro da lui così poste, saggiamo la fonda¬ tezza di queste definizioni stesse. Se fosse vero che gioco è ogni attività eser¬ citata pel piacere che dà l’esercitarla, ne derive¬ rebbe che non solo il ragazzo che gioca a « foot¬ ball » o l'adulto che gioca a carte, ma anche l’ar¬ tista che dà espressione ai fantasmi della sua fan¬ tasia non pel compenso o la gloria che si ripro- — 169 — mette dalla sua opera ma pel piacere di attendere all’opera stessa; il filosofo che pel piacere di ve- jnire a capo della soluzione di un difficile problema si tormenta nella meditazione; lo scienziato che passa le notti curvo sul microscopio nella febbre della ricerca; il matematico che l’ansia della so¬ luzione d’un’equazione complicata travaglia, ne deriverebbe, dico, secondo Rensi, che tutti costoro non lavorerebbero, giocherebbero. Né Rensi lo nega, anzi esplicitamente afferma questa conse¬ guenza: secondo lui, artista filosofo matematico scienziato, in quanto agiscono pel piacere e per la passione che viene loro dalla loro stessa azione, non lavorano, giocano. Conseguenza inaccettabile, la cui assurdità denunzia l’assurdità della pre¬ messa. Perché gioco ci sia, non basta agire pel pia¬ cere di agire: è necessario che chi agisce non prenda sul serio, non s’interessi veramente, non s’appassioni profondamente alla sua azione. Perciò il filosofo che almanacca un sistema pel piacere di almanaccarlo, senza prender sul serio il prodotto delle sue cogitazioni, gioca; e non gioca, invece, chi si accalora e s’infervora al suo scopone fino al punto di venire a coltellate col suo avversario. Perché gioco ci sia non deve esserci passione: ed è perciò che dall’ambito del gioco sono escluse l’arte, la filosofia, la scienza, l’amore, la politica, tutte le attività spirituali, insomma, che in tanto ,sono quel che sono, in quanto sono coltivate con — 170 — passione, con inleresse, con amore. Che se poi chi le esercita Io fa senza pigliarle sul serio, senza appassionarcisi, allora esse diventano gioco, ma, perciò stesso, cambiano di natura, si riducono alla jtuda superficie e maschera di sé stesse: allora, per esempio, l’amore diventa civetteria. Quando, in- ^ece, quell attività che di solito viene esercitata senza iuteressarcisi, senza appassionarcisi, e per questo è gioco, viene presa sul serio, allora si ha la passione del gioco, la manìa del gioco, e cioè essa, per chi 1 esercita in quelle condizioni, non è più gioco, ma cosa terribilmente grave e seria. Né, d altra parte, è vero che lavoro si abbia sol¬ tanto quando si esercita un’attività non pel piacere che essa dà, ma in vista di uno scopo estraneo al ciicuito dell attività stessa. Se ciò fosse vero, ne deriverebbe che 1 artista, lo scienziato, il matema¬ tico, il filosolo che trascorrono le notti in fiera lotta con l’angelo ribelle, travagliandosi nello sfor¬ zo di dar forma ai fantasmi e soluzione ai proble¬ mi che ne affaticano le menti, giocano, non lavo¬ rano. Chi accetterà mai tale affermazione? Rensi ha troppo angustamente definito il lavoro. Non è lavoro soltanto quello di chi agisce per la conqui¬ sta di un oggetto posto al difuori della sua azione genza da questa trarre gioia alcuna: questo è il lavoro della specie più bassa. È lavoro ogni pro¬ cesso, ogni attività con la quale l’uomo viene a Jtoco a poco domando la materia ribelle e assog¬ gettandola al suo volere e alla sua personalità. E — 171 — poiché l'uomo è per essenza attività che domanda di esplicarsi e di affermarsi nella lotta, così si spiega perché l'inerzia sia tanto penosa e dura a sopportare, e il lavoro, invece, col quale a poco a poco 1 uomo viene trionfando delle resistenze del mondo esterno e interno che gli si oppongono, f sia fonte di gioia, tanto più quanto più l’uomo si appassiona e s interessa a quello che fa. Nessun gioco, nessuno «sport» riempie l’animo di tanta gioia di quanta ne riempie il lavoro che piace, il lavoro di cui ci si appassiona, il lavoro che ci prende. Ed è naturale che sia così. Perché il gioco rimane alla superficie dell’anima e l'impegna poco profondamente, mentre il lavoro impegna tutte jle potenze dell’anima, e le dà il senso e la misura di quello che è e di quello che vale. Chiunque la¬ vora sul serio sa che nessuna gioia è comparabile a quella di chi senta venir meno a uno a uno gli ostacoli sotto l’impeto del suo lavoro, e, l’ultimo pstacolo caduto, si volge indietro a contemplare il campo della sua vittoria e a rifare mentalmente la strada penosamente fatta a poco a poco. La gioia del lavoro non è una frase rettorica, è una realtà psicologica, che chiunque lavora ha provato: l’ha provata, certo, anche Rensi quando veniva scri¬ vendo il suo bel saggio in cui nega che esiste la gioia del lavoro. i Appunto perché esso non ha, non può avere prolomle radici di passione e d'interessamento, il gioco non prende l’anima quanto il lavoro. Che — 172 — ciò sia vero, lo conferma uno sguardo gettato sulla moderna gioventù praticante gli « gports » : tutti si accordano nel trovarla internamente arida e ■vuota, insoddisfatta e triste. E appunto perché il gioco è un’attività esercitata per sé stessa, ina senza prenderla sul serio, il gioco tipico, il gioco per eccellenza è quello che affranca l’anima da ogni specie di attività e ne rimette il destino nelle mani del Caso puro, del Fato bruto: il gioco d’azzardo. Se fosse vero quel che dice Rensi che l’uomo è veramente uomo quando gioca, ne verrebbe la con¬ seguenza che egli non sarebbe mai tanto uomo quanto nel gioco più tipico fra tutti i giochi: nel gioco d azzardo. Ma ciò non è perché nel gioco 1 uomo non impegna mai a fondo sé stesso (e se Jo fa, non è più gioco). Una vita tutta lavoro è troppo seria e grave, manca di luce e di sorriso. Una vita tutta gioco è troppo lrivola e vuota, manca di peso e di consi¬ stenza. La saggezza è nell’alternare gioco con la¬ voro, lavoro con gioco. L’attività umana gode di spiegarsi a vuoto nel gioco, ma dopo ha bisogno, per essere certa di sé, di mordere nel duro e nel pieno della materia ribelle per piegarla ai suoi fini. D altra parte, essa non può sempre travagliarsi nella dura tensione della lotta contro la materia ribelle: ha anche bisogno di espandersi libera¬ mente, godendo di sentirsi viva e fresca e piena, godendo di sé e di nient’altro che di sé. Ma perché esso dia all anima leggerezza e freschezza, il gioco — 173 — deve rimanere quello che è per definizione: una pausa in quella dura e grave cosa che è la vita. Quando pretende di occuparla tutta, o la lascia vuota e insoddisfatta o, se veramente riesce ad in¬ vaderla interamente, è solo trasformandosi in ma¬ nìa e passione, e cioè cessando di essere gioco. XXIV. 3. - Il Risparmio. I no dei tratti piu caratteristici e più originali delle civiltà borghese e capitalistica è l’importaiiza primaria in esse assunta dalla pratica del rispar¬ mio. Si potrebbe, senza esagerazione, definirle le Civiltà del Risparmio. Certo, a nessuna delle ci¬ viltà anteriori a quella borghese e capitalistica il risparmio rimase del tutto ignoto. Ma soltanto in esse assunse importanza di primo piano e ascese alla dignità di fenomeno economico elementare e basilare, fondamento e ragione ultima d'infiniti altri. I (.ome lucidamente ha messo in rilievo Werner Sombart, 1 economia feudale e signoriale del Me¬ dioevo è dominata dalla pratica dello spendere. 11 signore ha bisogno di tanto per sostenere la sua dignità e il suo prestigio, per sfoggiare il lusso e la magnificenza che il suo rango sociale gl’impone; dunque ha bisogno di tanto per la sua entrata. È la spesa che comanda, orienta, regola e, d’ordina- — 176 — rio, com’è naturale e logico in un sistema simile, supera l’entrata. Donde il fenomeno dell'univer¬ sale indebitamento, in cui sbocca di regola una economia feudale e signoriale. Se risparmio c’è, è sotto forma di accumulo di oggetti d'oro e d’ar¬ gento o, più tardi, dal secolo xii in poi, di oro e argento monetato, tenuti in serbo a formare il te¬ soro di famiglia. Non superare mai con le spese i limiti fissati dalle entrate, anzi spendere meno di quanto si gua¬ dagna, considerare il risparmio non come necessità dolorosa di povera gente, ma come virtù di gente agiata e altolocata : questo uno dei tratti fondamen¬ tali con cui si annuncia la nuova civiltà borghese, creazione splendidamente originale dei Comuni italiani. E a questa civiltà quel tratto è cosi essen¬ ziale e connaturale che lo si vede affiorare alla luce dovunque essa si afferma e s’impone. Defoe in In¬ ghilterra, Franklin in America non parlano diver¬ samente di come parlasse Leon Battista Alberti nell’Italia del Quattrocento. Siamo però ancora ben lungi dal risparmio così pome lo vediamo praticato nella civiltà capitalistica propriamente detta. Da una parte, esso ha un mo¬ vente e un fine essenzialmente individuali: il bor¬ ghese risparmia sopratutto in vista di procurarsi una calma e tranquilla vecchiezza >dopo lunghi anni di operosità e di preoccupazioni. Dall’altra, il da¬ naro così risparmiato cerca impiego sopratulto nel¬ l’usura; denaro non consumato, investito in pre- # — 177 — siiti, generatore, per via dell’interesse, di nuovo danaro, e così indefinitamente. Così praticato, il risparmio arricchisce l’individuo e non la società, proviene da uno stato d'animo chiuso e restìo alla vita e, a sua volta, lo genera e rafforza. Si spiega perciò che la Chiesa Cattolica, severa nel condan¬ nate la prodigalità c lo sfarzo, non sia meno severa nel condannare l’usura. In cambio, essa per bocca dei suoi grandi dottori Tommaso d’Aquino, San¬ t’Antonino di Firenze, San Bernardino da Siena dichiara lecito il profitto che si trae dall’investi¬ mento di capitali in un’impresa economica, purché il mutuante partecipi ai rischi e dubbi dell’im¬ presa. È il risparmio non usurario, ma capitalistico, che sorge in piena regola con la Chiesa Cattolica: profitto non consumato, ma investito nella produ¬ zione, esso stesso trasformato in strumento di pro¬ duzione. Quando alla pratica sistematica e volon¬ taria del risparmio si associa l’investimento di que¬ sto non nei prestili a interesse ma in un’impresa economica, il borghese si metamorfosa nel capi¬ talista, e la civiltà borghese nella civiltà capitali¬ stica, nella quale noi ancora viviamo. Fu grazie alla pratica sistematica universale con- tinuativa del risparmio investito nella produzione fenomeno assolutamente ignoto al mondo antico e medioevale — che la società capitalistica potè per tre secoli presentare lo spettacolo meraviglioso, mai prima d’allora visto nella storia, di una società che cresce continuamente su sé stessa, che fa boulr Titgher 12 de neige, che aumenta di anno in anno in ragione geometricamente crescente la somma dei suoi beni, e non vede termine all’accumulo della ricchezza. È la pratica del risparmio investito neH’inrpresa che ha generato una civiltà essenzialmente dina¬ mica. che in tre secoli appena ha trasformato da cima a fondo la faccia della terra e arricchito rumanità più di tutte le altre civiltà messe assieme. Una delle definizioni più aderenti che si possano dare della civiltà capitalistica è quella che la qua¬ lifica civiltà del risparmio produttivo. E infatti una civiltà che vive tutta protesa verso il domani, verso un domani che non diventa mai un oggi, verso un futuro che non diventa mai presente, deve per ne¬ cessità trasformare quanto più è possibile il pro¬ dotto da oggetto di consumo in mezzo di nuova pro¬ duzione: dev’essere di necessità una civiltà del risparmio. Civiltà del Futuro, Civiltà del Lavoro, Civiltà del Risparmio: punti di vista diversi ma correlativi, dai quali ci appare l’unico volto della civiltà capitalistica. Chi guardi bene alla base delle ideologie della civiltà capitalistica troverà la pratica sistematica del risparmio. L’Evoluzionismo, lo Storicismo, il Progressismo, tutte le forme varie in cui si mani¬ festa la concezione della realtà come capitalizza¬ zione incessante, come crescenza continua di sé stessa su sé stessa, costituiscono l’ideologia naturale di una società in cui il risparmio è oggetto di pra¬ tica sistematica e universale. — 179 — La pratica del risparmio era ed è una delle più lorti armi di difesa e di attacco contro la critica dei socialisti. Solo il privato capitalista — si ob- bietta contro i socialisti — ba tanto d’intelligenza, di preveggenza e di temperanza da astenersi dal consumare tutto ciò che guadagna per investirne parte in nuovo strumento di produzione. Una so¬ cietà in cui non agisca più la molla dell’interesse privalo, in cui padroni della ricchezza siano quelli che non ne hanno mai goduto, e che quindi sma¬ niano di rifarsi dei digiuni passati, non saprà mai Risparmiare. Non solo consumerà la ricchezza pas¬ sata, ma si mangerà in erba le messi future. 11 problema che il socialismo non potrà mai risol¬ vere è quello del risparmio: ciò basta a fondare la superiorità del capitalismo di fronte al socialismo in tutte le sue forme e sottoforme. Fondato non sulla « produzione », ma sulla « distribuzione », non sul « profitto », ma sul « bisogno », il sociali¬ smo distrugge le condizioni psicologiche che sole permettono la pratica sistematica e in grande stile del risparmio. Ove riuscisse a costituirsi, una so¬ cietà socialista, anche bene organizzata, non accre¬ scerebbe ma, tutto al più, conserverebbe la ric¬ chezza sociale. Ragionamento di forza quasi irresistibile, al quale io non vedo quale altra risposta si possa dare (e, forse, non fu mai data) dai socialisti se pon questa: che una società economicamente sta¬ tica, ma in cui non vi siano privilegi economici. — 180 — è preferibile in ogni caso a una società fondata sulla disuguaglianza economica, anche se da questa yenga un progressivo arricchimento sociale. Ma i socialisti vogliono insieme il progresso economico C l’uguaglianza sociale: il ferro-legno, il circolo¬ quadrato. E perciò le loro diatribe contro l’ini- quità del profitto capitalistico rimasero senza forza contro la semplice osservazione che quella « ini¬ quità » era sanata dal fatto che gran parte del sopraprofitto era consacrata alla produzione di nuova ricchezza. È difficile rispondere a chi dice: è bensì vero che del prodotto del lavoro sociale la parte prelevata dal capitalismo è la parte del leone (in Inghilterra un terzo del reddito sociale va a beneficio di un trentesimo della popolazione), ma della parte da lui prelevata il capitalista non consuma che una minima porzione, ed il resto con¬ sacra a produrre nuove ricchezze, da cui il prole¬ tariato preleverà la sua quota parte, e così via aH’infinito. In questo modo, ciò che il capitalista toglie con una mano ridà, almeno in parte, con l’altra, onde non solo nell’infinito del tempo, se non di fronte all’individuo, di fronte alla Storia, le partite sono saldate, ma il capitale sociale con¬ tinuamente cresce, e lo stesso proletario si trova, in definitiva, ad essere più ricco che in una società economicamente immobile. A furia di vederlo praticare sotto i nostri occhi, il risparmio sistematico era finito per sembrarci cosa affatto ovvia e naturale, come il mangiare e — 181 — iJ bere, che non era mai cominciato e non doveva mai finire. Ed invece, è fenomeno storico prodottosi in un certo punto del tempo, che, come è comin¬ ciato, così può benissimo finire. Ed oggi, infatti, vediamo seriamente minacciato quel fragile sistema di sentimenti, d’idee, di tendenze, che hanno per¬ messo per tre secoli l’accumulo geometricamente crescente della ricchezza, seriamente compromesse quelle virtù di preveggenza e di temperanza che generavano, con beneficio di tutta la società, il risparmio, e con esso il progresso economico so¬ ciale. La guerra prima, le grandi crisi monetarie suc¬ cedute alla pace dopo, volatilizzando gli stentati risparmi di generazioni intere, diffondendo su tutta la vita un’aria di precarietà e d’instabilità, hanno assai screditato la virtù del risparmio. La sensa¬ zione assai diffusa che la pace è precaria, che nuo¬ ve guerre e nuove crisi monetarie incombono all’orizzonte, svoglia dal risparmiare, induce a vivere alla giornata. E nello stesso senso influisce la generale crisi della famiglia e del matrimonio, l’indebolirsi o dissolversi di questa cellula primi¬ genia della società, il crescente atomizzarsi di que¬ sta. Ancora: la generazione che oggi da il Za, il tono alla vita è la generazione dei giovani, gene¬ razione sportiva, guerriera, nostalgica di eroismo, di avventure e di pericoli. Ora, risparmiare non fu mai virtù di giovani, tanto più se sportivi ed anelanti a pericolose ed eroiche imprese. E la sma- iiia crescente e dilagante del lusso fa apparire la virtù del risparmio virtù anacronistica di vecchi fuori della vita. Analisi obbiettiva di cui nessuno, ciedo, contesterà l'esattezza, e clic autorizza a pro- nostici assai cupi sull’avvenire di questa grandiosa, ma pur così fragile, civiltà capitalistica, nel cui crepuscolo, forse, viviamo e che si alimenta di .risparmio come una pianta dei succhi vitali della ^erra. A tutto ciò è ridicolo pensare di opporsi con predicazioni moralistiche che non han mai cavato un ragno dal buco. Opera infinitamente più effi¬ cace a ovviare a tanto male danno invece i governi che con ogni energia (come il Governo italiano! tendono a ricostruire nell’animo del cittadino il senso della santità del dovere familiare e dell’ap- partenenza di lui a un organismo che supera l’in¬ dividuo e in funzione del quale soltanto egli deve vivere; che, sopratutto, tendono con ogni energia a dare al suolo sociale ed economico quella durez¬ za. quella solidità, quella resistenza e durata donde si generi negli animi quella fiducia nel domani, quel senso di tenere i piedi sul sodo e sul perma¬ nente, che sono condizioni indispensabili perche la pianta un dì gigante e oggi non poco avvizzita e mortificata del Risparmio possa, con beneficio di tutti, rinnovellarsi di novelle fronde e conoscere una primavera novella. Provvedere ai rimedi è tanto più urgente in quanto si va diffondendo una dottrina, venutaci dal- — 183 — l’America, dalla terra di quel Beniamino Franklin che fu il più grande teorizzatore e lirico del rispar¬ mio, la quale tende a svalutare il risparmio e a vedere in esso un difetto e non più una virtù. È Ford il teorico dell’antirisparinio. Or non è molto, in un banchetto, richiesto di dire qualche parola. Ford lanciò al Nuovo c al Vecchio mondo questo stupefacente messaggio: « Non risparmiate! Il risparmio è la virtù dei deboli c dei condan¬ nali alla sconfitta della vita! La mia esperienza m’insegna che spendere tutto quel che si guada¬ gna è condizione necessaria per guadagnare sem¬ pre di più, o che chi risparmia si condanna alla miseria! ». E tutta una filosofia dell’Antirisparmio è in via di formarsi e dilagare. Il risparmio — si dice — restringe il consumo e quindi la produzione. In un paese severamente economo, la produzione in massa è impossibile, cioè i bassi prezzi sono ignoti. È una pazzia, infatti, credere che restringere le compere faccia calare i prezzi della vita. Se si è obbligati a liquidare in perdita gli stocks esi¬ stenti. si chiuderanno le officine e si cercherà di realizzare nell’avvenire gli stessi benefici che nel passato, con una produzione minore, cioè si ven¬ derà più caro. Ma si sarà in pari tempo diminuito i salari, il che farà sì che i prodotti, anche offerti nominalmente allo stesso prezzo di prima, saranno pili cari per una popolazione più povera. Inoltre, un popolo di risparmiatori è un popolo assetato di — 184 — sicurezza e mancante (l’iniziativa, contento del po¬ co e privo d’ambizione, rassegnato e senza confi¬ denza in sé «tesso. La virtù del risparmio suppone, in chi la pratica, sfiducia nella vita, assenza di cer¬ tezza di sapersela cavare in tutte le circostanze. In¬ vece, spendere, consumare tutto quel che si guada¬ gna, fa circolare il denaro, fa prosperare le indu¬ strie e il commercio, rialza il tono della vita, le conferisce luce e vibrazione, viene da confidenza nella vita e la genera a sua volta, è sintomo di vita che si effonde a fiotti, generosa e sicura di sé. L'America che è imbevuta di queste verità è prodiga e ricca; noni è prodiga perché è ricca, è ricca perché è prodiga. E laggiù, infatti, è verissimo, ognuno spende tutto quel che guadagna e al di là ancora. Ansiosa di sempre nuovi sbocchi al flusso sempre crescente della sua produzione, l’industria fa di tutto perché il bisogno si generi dove non c’è, si dilati all’infi¬ nito dove c’è. Le vendite a rate favoriscono gli acquisti. Nessuno è, in realtà, padrone di quello che ha, poiché non ha pagato l’importo totale del prezzo. Quando il prezzo è tutto versato, l’oggetto ha avuto tutto il tempo di consumarsi. Il valore del tempo è tale che riparare costa più che rin¬ novare. Ora, si ha un bel dire che l’America è ricca perché è prodiga. La verità è che l’industria ameri¬ cana, sorta a mostruosa grandezza a causa della inaudita ricchezza naturale del paese, ha bisogno — 185 — di generare a tutti i costi la prodigalità e lo sper¬ pero perché sia assorbita limmensa massa dei beni che rovescia sul mercato interno e su quelli esteri che essa cerca freneticamente di conquistare. E poiché lo sperpero più vero e maggiore è sempre la guerra, verrà un momento in cui questa appa¬ rirà come la via più spiccia di consumare i beni che il mercato interno e quelli esteri non sono più capaci di assorbire. Sarò, forse, pessimista. Ma il maggior pericolo alla pace del mondo a me pare proprio questa filosofia dell’Antirisparmio che si viene creando. I I 4. - li, LUSSO. Il concetto di lusso è di quelli che si stenta a definire con precisione, tanto ne sono mobili e neb¬ biosi i confini. Lo si definisce di solito il super¬ fluo voluto per sé stesso. E non a torto, ma non è tutto. 11 nudo concetto di superfluo non copre tutta 1 estensione del concetto di lusso. Il lusso esige un superfluo di natura speciale, che abbia in sé gli elementi del bello, dell’elegante, e. sopratutto, del raro e del costoso. L’oggetto ili lusso è un og¬ getto di gran costo, di cui, volendo, si può fare a meno, clic può benissimo sostituirsi agli effetti pratici con altro di minor pregio, ma clic è voluto perché grazie ad esso il possessore emerge dal comun gregge dei mortali e si colloca nella ristretta schiera di un ceto distinto e privilegiato. Il lusso è, perciò, oggetto essenzialmente di rela¬ zione. Determinare «piali oggetti siano di lusso e quali no, non si può se non tenendo conto dello — 188 — sv.hippo tecnico ed economico di un dato tempo * ,UOg °- NeSSUno «Mi chiamerebbe oggetto di lusso la canncia o il tovagliolo, che per tutto il Medioevo furono oggetti di lusso e di gran lusso. Così. a poco a poco, noi stiamo assistendo al trasformarsi in oggetti di prima necessità di quelli che fino a ier, erano oggetti di lusso: il bagno in casa, ad esempio, nell’Italia meridionale. Non v’è nessun oggetto, pertanto, che, in sé e per sé considerato, e i lusso; di lusso è solo quello giudicato, deside¬ rato e voluto come tale dall’individuo, il quale m questo suo giudizio e desiderio, non agisce come’ nudo e solitario individuo, ma segue la spinta di una comune opinione e di un desiderio sociale cri- stallizzatisi intorno all’oggetto definito e sentito come di lusso. L’esperienza del lusso è, dunque, esperienza essenzialmente sociale: l’individuo che la perse- gue si pensa e si pone in società nell’atto stesso che vuole emergerne per distinguersi. Perseguendo il lusso, l’individuo aspira a realizzarsi come essere ili bisogni più fini e più difficili a soddisfare di quelli del comun gregge dei mortali. Questi biso- gm possono anche essere spirituali, il possesso dei bei libri o l’audizione della buona musica, ad esempio : ma perché libri e musica siano speri¬ mentati come oggetti di lusso, occorre che siano perseguili non per sé, per amore del valore che racchiudono in sé, ma per l’individuo, per la finez- — 189 — Z ■ d 1rr Che 11 P° ssederl i e goderne eon- ensce all individuo. Ingomma, l’individuo lu 88U080 e queUo che, pur collocandosi in una 8 oeietà, aspira a emergerne ed a distinguersene come individuo come io empirico. I quadri di autore, la buona’ musica, , libri rari sono oggetti di lusso solo in quanto sono considerati mezzi all’individuo empi neo perchè esso si realizzi come individuo di na- tura supcriore, più delicata e fine, in mezzo agli altri individui posti e considerati anch’essi come individui empirici. Ragion per cui sul fenomeno del lusso il giu¬ dizio morale non può essere che di assoluta recisa totalitaria condanna. Di solito, si è indulgenti col lusso perché si crede che condannarlo equivar¬ rebbe a far tornare l’uomo allo stato di natura. Nemmeo per sogno. Chi condanna il lusso lo con¬ danna in quanto viva puntuale attuale esperienza ic annuo, solo ,n quanto per esso l’individuo, nell atto stesso che si pone nella società dei suoi simili vuole realizzarsi di contro ad essa come ani- male (animale, si badi bene) di razza superiore La camicia di lino fu nel Medioevo e per gran parte dell età moderna oggetto di lusso. Ma oggi non v lia nessuno che la mattina, infilando la ca- micia di lino, abbia esperienza di perseguire il lusso, d. realizzarsi come individuo lussuoso. Vive questa esperienza l’individuo che infili l a camicia d. finissima seta, e che, per pagarsi questo lusso. — 190 — trascuri i doveri sociali e non coltivi lo spirito c non paghi i debiti. La condanna del lusso colpisce solo costui, non il primo. Né si confonda il lusso con l’eleganza e la distinzione: concetti affini e pur diversi. Nel con¬ cetto di eleganza l’accento batte suU’individuo; nel concetto di lusso, sulla cosa: tanto vero che l’ag¬ gettivo lussuoso più che le persone investe le cose. Vi è nell’eleganza un elemento di vita personale e individuale che non urta il senso inorale, ne ha, anzi, la piena approvazione. L’austero Kant era, dicono i biografi, elegante nel vestire e nel tratto. Non ce lo immaginiamo certo lussuoso. Una mo¬ rale rigidamente trascendente condanna il lusso, ma condanna pure l’eleganza e la cultura in ge¬ nere, e sbocca nel più inflessibile ascetismo. Ma anche la morale più immanente non può giusti¬ ficare il lusso: ammesso pure che l’uomo non ab¬ bia altro campo di azione che questo mondo, non perciò ne deriva che esso debba asservirsi agli elementi del mondo, ai frammenti della materia. I/oggetto di lusso cessa di esser tale se, per un progresso della tecnica, diventa sì abbondante sul mercato da essere di uso comune. Perseguire il lusso è asservire l’io al non-io, il «oggetto all’og¬ getto, alla materia e alla carne, è darsi preda ai demoni della terra. L’eleganza, la distinzione, in¬ vece. sono comportamenti della persona. Si rea¬ lizzi bene qual’è lo stalo d’animo vivo attuale pulì- — 191 tuale dell’individuo che vuole creare in sé e per altri l’esperienza ilei lusso: è chiaro che quello stato d'animo è nettamente contraddittorio alla esperienza morale. Per altro si ohbietta — non si può negare che il lusso sia stalo uno dei pili potenti fattori deH’incivilimento umano, una delle molle più po¬ derose che hanno spinto l’uomo ad ascendere. Con¬ dannare il lusso non è recidere alla radice Pallierò della umana civiltà? Ma la vita morale, la viva ed effettuale esperienza morale, non può asser¬ virsi a considerazioni storicistiche di così basso conio. Innanzi tutto, anche su queste ci sarebbe molto da dire. Rivedendo bene, si scoprirebbe che il lusso, in quanto tale Ida non confondersi con l’amor del lucro ecc. cosa diversa), ha contribuito allo sviluppo della civiltà infinitamente meno di quanto si crede. Ma anche ciò ammesso, assolvere il lusso per amore della civiltà condurrebbe logi¬ camente ad assolvere la prostituzione per amore del lusso, di cui essa è, come è noto, una delle più cospicue alimentatrici. E qual’è, del resto, l’indi¬ viduo che, comprando un oggetto di lusso, pensa alla civiltà ed al suo progresso? In quel momento egli non pensa che a sé, a far bella (figura in so¬ cietà, e della civiltà se ne cura assai! Guai, del resto, ad asservire il giudizio morale all’esito diret¬ to o indiretto dell’azione! Questa propagandosi al¬ l’infinito, tanto vale rinunziare senz'altro a giudi- — 192 — care. Il giudizio morale non può investire che la viva attuale esperienza del soggetto agente, ciò che, impropriamente, si dice l’intenzione. Si badi a non confondere il lusso con lo sfarzo, la pompa, la magnificenza, e simili: cose affini e pure non identiche. Nello sfarzo, nella magnifi¬ cenza, nella pompa c’è l’idea di una funzione so¬ ciale da compiere, di una tradizione familiare da sostenere, del prestigio pubblico da confermare e simili. L’individuo sfarzoso, pomposo, magnifico non agisce tanto per sé solo, quanto in funzione di alcunché di sopraindividuale (famiglia, carica, ufficio, ecc.): l’individuo lussuoso, invece, non pen¬ sa che a sé, al signor io individuale. Ora, è proprio qui la differenza tra il lusso antico e quello contemporaneo. Il lusso antico era sopratutto sfarzo, pompa, magnificenza: confer¬ mava la gloria del casato, lo splendore della carica, la dignità del pubblico ufficio. Una gran famiglia nell’antica società, pel solo fatto di essere una gran famiglia, era investita di dignità e funzione sociali. La plebe stessa l’avrebbe biasimata di andare umi¬ le e dimessa. Essa ammirava, magari invidiava, lo sfarzo dei magnati: non pensava a imitarlo, quel fasto essendo inerente alla dignità stessa onde era¬ no rivestiti. Oggi, invece, il lusso è fenomeno pura¬ mente individuale, scisso da qualunque tradi¬ zione familiare o pubblica da sostenere. L’indi¬ viduo che persegue il lusso non pensa più né al — 193 — decoro della famiglia, né all’onore della carica: non pensa che a sé. E per queslo l’amore del lusso è divenuto uni¬ versale. Più che amore, morboso furore, strugj- gente manìa. Tutte le classi sociali ne sono af¬ fette. È questo, del lusso dilagante, necessario effetto dell’evoluzione capitalistica. La (Crescente produzione, ansiosa di assorbimento, va davanti al bisogno, lo sollecita, lo sferza, lo crea all’oc¬ casione. I progressi della tecnica ben presto ren¬ dono di uso comune ciò che un tempo fu oggetto di lusso. E il bisogno allora sale di un piano. '1 lat¬ te le classi sociali sono travolte nel vortice. 11 senso oscuro, ma diffuso, die l’economia europea è sulla sabbia, che un baratro le vaneggia sotto ai piedi, pronto ad ingoiarla da un momento al¬ l’altro. inducendo alla dissipazione fa il resto. Nessuno risparmia, tutti consumano. Si stenta a trovare il necessario, tutti vogliono il costoso e il superfluo. E per ottenere l’uno e 1 altro si ab¬ battono barriere, si rompono freni, si fanno con¬ cessioni e abdicazioni che scuotono dalle fonda- menta la vita morale. Cadono travolti il pudore delle fanciulle, la virtù delle spose, l’onestà dei cittadini, la dignità dell’uomo. L’amore al lavoro e al risparmio langue. Si spegne la fiamma del¬ l'individualità, perché chi persegue il lusso do¬ vendo conformarsi alle opinioni correnti su ciò che è di lusso e ciò che non lo è, su ciò che è di Tilt/hcr 13 — 194 — moda e ciò che Jion lo è, deve atteggiare la vita secondo uno schema che gli viene dal di fuori, e che non egli ha creato. Così l‘individuo rinuncia a sé stesso nell’atto e per l’atto stesso che vuole emergere sugli altri come individuo empirico. Così, corrosa nelle radici, la quercia immane del¬ la civiltà capitalistica inaridisce, barcolla, minac¬ cia rovina. INDICE I . |1 concetto (li lavoro nelle civiltà greca e romana. II . n concetto di lavoro nella civiltà ebraica IH. il concetto di lavoro nella religione di Zaratustra. IV . 11 concetto di lavoro secondo Gesù . . V . Il concetto di lavoro nel Cristianesimo antico. V|. Il concetto di lavoro nel Cattolicesimo raediotwale c moderno. VII... Il concetto di lavoro secondo Lutero . Vili. Il concetto di lavoro secondo Calvino . IX . II concetto di lavoro sotto l’influsso della tecnica e dell’ economia mo¬ derne . X . Il concetto di lavoro nel Rinascimento XI . 11 concetto di lavoro nel Settecento. . XH... 11 concetto di lavoro nella filosofìa del secolo xtx . XIII. Il concetto di lavoro nei sistemi socia¬ listi . Pag. » » » » i> » » » 7-12 13-19 21-23 25-29 31-36 3743 45-48 49-57 59-66 67-72 73-81 83-91 93-103 — 196 — . 11 concetto di lavoro nel Bolscevismo Pag. 105-107 XV. 11 concetto di lavoro nel Fascismo. » 109-111 XVI. 11 concetto di lavoro in Ruskin e Tolstoi .... » 113-117 X\ II... li concetto di lavoro e la visione ino- derna della vita . . . » 119-126 XVIII. La crisi della Religione del lavoro . » 127-133 XIX. La spiritualità dell’operaio nella Ci- viltà del lavoro . . . » 135-144 XX. Lavoro e Cultura » 145-151 XXI. Lavoro e Bellezza . . . » 153-158 XXII.... Paralipomeni alla Storia del Concetto di lavoro — Analisi filosòfica di concetli affini e correlativi. — 1° Lo sport. » 159-165 XXIII. 2“ Il gioco. » 167.173 XXIV. 3° II risparmio. „ 175-185 XXV. .. 4° Il lusso. 8 187-194
Sunday, August 17, 2025
Subscribe to:
Post Comments (Atom)


No comments:
Post a Comment