() B L E M I D’OGGI Adriano Tilgher Antologia dei Filosofi Italiani del dopoguerra (Il EDIZIONE) GUANDA EDITORE 1937 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Diritti di riproduzione e traduzione riservati per tutti i paesi compresi Svezia, Norvegia, Danimarca, Russia Copyright Ugo (filanda Editore STAMPATO IN ITALIA • MCMXXXV1I Modena * Stabil. Tip. G. Fbkraguti & C. - 31 - 1 - 1937 - X V - (1 PREFAZIONE che si prega di leggere Che significa: Filosofi del dopoguerra? M’incombe l’obbligo di render conto al let- tore dei criteri che m’hanno guidato nella scelta degli autori inclusi ne//’ Antologia (1). (1) Inutile dire che tra questi criteri non c’è cer- to stato quello della posizione accademica degli au- tori. Tra gli otto accolti 7ìe//’Antologia quattro so- ' no, o sono stati, professori ordinari di Università . uno c libero docente, uno è professore di liceo, due f non hanno mai esercitato insegnamento di nessun 1 grado. 11 I criteri sono contenuti nel titolo stesso de bro: Antologia dei filosofi italiani del d< guerra. Filosofi: cioè spiriti che del mondo e la vita hanno, più o meno articolata, pi meno ragionata, più o meno dialettizzata visione complessiva totale globale e, aln in qualche parte, personale. Alla stregue questo criterio non poteva essere incluso n e /'Antologia nessuno di coloro che alla filo fia portano un interesse prevalentemente esclusivamente storico ed erudito, per qiu to pregevole possa essere in sede di cult uria loro lavoro — nessuno di coloro, per quan meritevoli, che si sono specializzati in una sciplina filosofica ( pedagogia, psicologia, j losofia del diritto, ecc.) trattandola più me scienza che come filosofia propriamem detta, senza, cioè, riallacciarla a una Weltan schauung veramente personale — nessi coloro i quali, fonografi viventi, ripetono o meno servilmente le parole di questo o qut maestro, le formule di questa o quella scu — nessuno di coloro che tentano di costi tuirsi una personalità filosofica mescolando in modo più o meno incoerente le formule . scuole diverse e opposte, e, per esempio, fra l’Io dell’Idealismo e il Dio del CattoUcesin tentano la conciliazione e il concordato. Br ve persone, queste ultime, che facendo gemi K / torchi , (7 più delle volte a loro spese, con- [ Ufibui scono a ( ^ ar l auoro «//« benemerita clas- ' e dei tipografi. Ma questo eh’ è non piccolo [ icril° verso l’economia nazionale non è agli tocchi nostri titolo bastevole per essere am- \ n essi nell’ Antologia. filosofi. Ma del dopoguerra. E per filoso- I fi del dopoguerra intendo quelli nella cui ope- • a gì è riflesso il tormento intellettuale e mo- rale del dopoguerra europeo, quelli sui quali il dopoguerra europeo non è passato invano, I quelli che ne hanno risentito in pieno l’urto | e il contraccolpo e han tentato, più o meno I felicemente, più o meno genialmente, più o meno personalmente, di trovare soluzione in sede di filosofia ai problemi da esso posti. Con questo criterio alla mano non poteva tro- 1 va r posto nell’Antologia nessuno di coloro pei quali l’ultimo quarto di secolo è come se non tosse mai stato, nessuno di coloro che filoso- fano oggi come si filosofava un quarto di se- colo fa, nessuno di coloro che si potrebbero (talare 1006 o 1036, indifferentemente. In for- : a del primo criterio non poteva essere am- messo /^//'Antologia nessuno dei ripetitori più o meno pedissequi dell’Idealismo; in for- za del secondo non potevano esserci ammes- si i corifei stessi dell'Idealismo. E su questo punto parlerò con tutta la chiarezza possi- bile. 13 A parer mio, l'Idealismo storicistico liano è in modo tipico filosofia dell antegujLjl ra. Non nel senso meramente cronologico, /u„| nel senso spirituale: nel senso che netl'IdUl lismo storicistico italiano si riflette un’età co n. chiusa con la guerra mondiale. Guardiamo dall’alto, prescindendo di H differenze — a parer mio, del tutto seconda - r ì e che corrono fra le selle dell Idealismi storicistico italiano e riconosceremo ii tratta essenziale di guest o nel suo concepire il delle cose come S/iirito, e lo Spirito come if/iij tà vivente che si svolge nel tempo e s incarna nel mondo della nostra vita e della nostra esperienza, attraverso un processo indefiniti di autoarricchimento e di autosuperamento, A che il male non è mai realtà ma sempre nega- zione, la realtà è sempre e solo bene, la sto- ria è sempre e solo giustificatrice, sempre ti solo sacra, e non v’è antitesi che non trovi la sua sintesi nella quale tutto quel che di buono era nella sintesi precedente è sempre conser- vato e non va mai perduto. E’ l’ideologia dd Progresso scritta in linguaggio hegeliano ÌM vece che in linguaggio positivistico. E la fi- losofia tipica dell’Ottocento. Al contrario tutti, senza eccezione, i pen- satori inclusi nell’ Antologia, per quanto gm di siano le differenze delle loro posizioni, con- cordano nel rifiutarsi di vedere nel mondo 14 JL ^esperienza e della storia, in tutto il mon- ili dell’esperienza e della storia, l'incarnazio- r ( n pio, rivestita di dignità sacrale. La vi- ÌLone ehe essi hanno del mondo della nostra f er i e nza è assai meno rosea e idilliaca, as- V . più drammatica e tragica. Esso appare to- mi come un suolo rotto da voragini, come un Eynpo di forze in perenne battaglia compo- | g n tisi di volta in volta in equilibri sempre WLgiJi e provvisori, come un mondo che nes- Wuina legge di progresso indefinito spinge ne- mBLriamente verso forme sempre migliori e | tempre piò armoniose; come un mondo ove nessun valore è automaticamente sicuro di continuare e di perpetuarsi in sintesi superiori, E 1 mondo che, preso come tutto, non può ispi- ra re adorazione religiosa. Perchè tutti i pensa- tori. nessuno escluso, compresi nell ’ Antologia ■ pensano cosi, perchè in essi questo pensiero frutto delle tragiche esperienze del dopo- Èguerra, o per lo meno rafforzato da queste, \perchè questa è l’atmosfera spirituale del no- stro tempo, ormai ben lontano dal roseo ot- \ divismo e armonismo dell’Ottocento,, perciò questi filosofi sono del dopoguerra. || E anche per un altro tratto che tutti han- no in comune. L’Idealismo storicistico italiano dell’anteguerra si autodefinisce filosofia del- l'eterno divenire. In realtà, il divenire che es- so afferma è più apparente che. reale. Mutano 15 indefinitamente per esso i prodotti e le et, zioni detto Spirito in cui esso vede la * ( realtà — ma le forze, le attività, le categ 0 dello Spirito che attuano quei prodotti g, le concepisce come eterne. Eternamente 1 esso lo Spirito agirà come agisce oggi, etcr» . merde lo Spirito si attuerà come si attuai, gi. Per esso, la realtà resterà sempre qu e [ che è. Chi ben guardi, sotto questa filoso f dell'eterno divenire si nasconde una filosof dell'eterno permanere. Di contro ad essa, parecchi dei pensatori compresi ne//’ Antologia concordano nel perita re che appunto perchè il mondo dell' esperie n, za come lutto non è nulla di sacro e di divm appunto perchè la realtà dell’empiria e caotici, e contraddittoria, incoerente e scissa, fluida t plastica, ribollente e vulcanica, nulla eschidt che la vita — per forza propria o per sopr naturale intervento: qui essi differiscono - possa un giorno attuarsi in forme del luti 0 nuove e infinitamente superiori a quelle in cui si è già attuata, in forme che non siam il semplice miglioramento e arricchimento di queste, ma rompano con esse tolo coelo. Un nuovo cielo, una nuova terra, una vita nuovo possono apparire. La cosa non è logicameli/: impossibile, h se non lo è, può essere oggetto di fede e di speranza. E fede e speranza poi sono divenire le. molle di un ’ azione adequati ]f* 4 Cosi mentre a ima superficiale considera- pone i pensatori dell’ Antologia possono sem - k r are in confronto all’Idealismo storicistico di V Cjitegnerra pessimisti, è l’Idealismo storicisti- [,0 che , sotto un ottimismo di superficie, na- sconde un pessimismo di sostanza. Che pes- simista è a fatti ( anche se non a jmrole) chiun- |àH<’ divinizza questo mondo del nascere e del morire, del sorgere e dello scomparire, del passare e del penare, e solo chi si rifiuta di riconoscere in questo mondo grondante di saligne e di lacrime la forma ultima e defini- tiva dell’essere e della vita può aprire uno spiraglio a un ottimismo che non sia panglos- sisrno, a un ottimismo fatto di Speranza, di fede, di Azione. Solo egli può gridare agli uo- mini, come uno dei collaboratori di quest’ An- tologia: «0 uomini, sperate!... Voi cammi- nate nelle tenebre, camminerete un dì nella luce ». ADRIANO TILGHER ì 17 ANTONIO ALIOTTA NATO A PALERMO IL 18 GENNAIO 1881. — PRO- FESSORE ORDINARIO NELLA R. UNIVERSITÀ DI NAPOLI. I La filosofia di Aliotta — che egli chiama spe- rimentalismo assoluto — concepisce il mondo come plnriverso di energie innumerevoli in continuo mo- vittienlo, non obbedienti a piano a priori, tra le quali s’intrecciano relazioni infinite, e che si equi- librano di volta in volta in sintesi provvisorie e im- prevedibili. Il conoscere e il volere dell’uomo ope- rimi i come forza tra le forze del mondo, componen- dosi con esse in sintesi teoretiche e pratiche, la cui verità e bontà è fatta dalla loro efficacia e fecondità vitali. Opere principali — La reazione idealistica con . irò la scienza, Palermo, Optima, 1912; Linee concezione spiritualistica del mondo, in « La Cui- tura Filosofica», Firenze, 1913; Il nuovo realismo in Inghilterra e in America, ibidem, 1915; L'Esteli - ca del Croce e la crisi dell’idealismo moderno, N ;i . poli, Perrella, 1917; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza, Napoli, Perrella, 1917; La teoria ,/, Einstein e le mutevoli prospettive del mondo, Paler- mo, Sandron, 1922; Relativismo e idealismo, Napo- li, Perrella, 1922; Il problema di Dio e il nuovo pia. rotismo, Città di Castello, «Il Solco», 1924; Science and Religion in nineteenth Century, nel volume Science, Religion and Realily, edited by Joseph Nee- dam, London, The Shedon Press, 1925; Recent De- velopments in Logic, nel volume Science Today, edi- ted by J. G. Growther, London, Eyre and Spottis- woode, 1934; L’esperimento nella scienza, nella //.I losofia, nella religione, Napoli, Perrella, 1936, — j Dal 1919 dirige la rivista Logos (Napoli, Perrella). Inesistenza di forme eterne dello spirito. Dopo aver tanto criticato Hegel, perchè poneva un sistema di categorie, che disegna- vano a priori la via attraverso cui doveva pas- sare lo sviluppo spirituale, i neo-hegeliani d’Italia non hanno saputo far altro che sosti- tuire una serie più ristretta di categorie, da cui non potremmo uscire. Bella storia davve- ro che s’illude di camminare e in realtà sta sempre ferma nel circoletto di quelle poche forme, segnando in monotono ritmo il siiq passo! Ma la vita è poco rispettosa di cjuesti apriorismi; essa ci insegna che le categoria spirituali, non meno di quelle fisico-matema- tiche di spazio, tempo, causa, quantità, sono schemi che costruiamo per coordinare le no- stre esperienze, e che non hanno nulla di fi s . so, nulla di necessario e di eterno, che sia de- ducibile a priori. Le distinzioni tra le varie forme dello spi- rito non hanno un carattere di assolutezza, che si possa dialetticamente giustificare, ma sono distinzioni empiriche che noi facciamo schematizzando la vita cosciente e che, come tutti i concetti, variano secondo il punto di vista da cui essa si guarda. Anche gli stessi neo-hegeliani non sono d’accordo fra loro; quella che per uno è una medesima forma, per un altro si sdoppia in due forme distinte..! Con ciò non intendiamo toglier valore « queste costruzioni concettuali, ma vogliamo solo affermare che sono al medesimo livello di tutte le altre idee e categorie scientifiche che il pensiero attivamente costruisce, e che la loro verità non è attinta da un intrinseco carattere razionale che in esse si riconosca nel processo dialettico, ma deve venire dal controllo dell’esperimento . . . Arte, religione, scienza, diritto, economia, morale, storia, filosofia: ecco le classi in cui 22 I . niun eniente si sogliono inquadrare i modi icreli di agire del nostro spirito, fissando er ti caratteri persistenti, e segnando confini nC tti clic in realtà non esistono. 11 neo-hegelia- no giustamente riconosce che alcune di que- "te distinzioni hanno solo un valore pratico c he sfumano se vogliamo farne precise ca- tegorie; ma ha torto quando vuole usare un trattamento diverso a poche di esse, mentre tutte sono egualmente empiriche; ed ha torto sopratutto, quando, dopo aver messo in rilie- vo la storicità dello spirito, pretende d’immo- Blizzare in una statica formulelta alcune di quelle funzioni. Noi diciamo invece che gli schemi descrittivi dell’arte, della religione, del diritto e così via possono solo aspirare a u n valore di verità relativo e provvisorio quando su di essi riesca a raggiungersi un ac- cordo, ma che è assurda la pretesa di caratte- rizzare quelle forme in eterno, perchè non è da escludersi che la vita dello spirito si mani- festi in altri imprevedibili modi. Schemi di classificazione, dunque, da sottoporsi all’espe- rimento sociale; schemi soggetti a continua revisione, e che non imprigionano lo spirito, libero sempre di crearne dei nuovi. Le cate- gorie, così della natura, come del mondo co- sciente, non sono quadri o ritmi fissi attra- verso cui debba passare in eterno l’esperien- za, ma variabili costruzioni in cui le attività empiriche, senza nulla perdere della loro cretezza, si coordinano integrando ed ar~* chendo la loro vita. Forme mutevoli, nel lo storico sviluppo concreto, per cui assumono sempre imprevedibili aspetti individuali, es- se perennemente rompono i vecchi ecjuilib e dan luogo a nuove sintesi, in cui appari- no trasfigurate in sè e nei loro dinamici r™_ porli. Onde è un problema mal posto voler stabilire una volta e per sempre che cosa l’arte e il suo rapporto con la religione o eoa la filosofia, o infallibilmente fissare il caì tere del diritto nelle sue relazioni con la morale. La storia non conosce binari di corsi e di ricorsi su cui debba muoversi etemam te; ma costruisce sempre davanti a sè la 0 «- strada, provando e riprovando, per compor- re le sue vive energie in forme sempre più alte. E le nuove sintesi imprevedute non si ottengono con la facile dialettica a priori, ma con l’opera faticosa ed assidua dell’ espe mento (1). (1) Da Relativismo c Idealismo, Napoli, Pcrrella 1922, pp. 88-90. 24 II. L’esperimento storico delle filosofie. La verità non è qualcosa di bell’e fatto fuori di noi, che dovremmo limitarci a ripro- durre, come credeva il vecchio empirismo; E, a è un prodotto sempre nuovo della nostra attività conoscitiva che eleva il mondo del- l’esperienza a una forma superiore di vita. Si dice comunemente che nella ricerca del vero dobbiamo sforzarci di riflettere la realtà og- gettiva; ma questa è un’assurda pretesa, per- chè nessuno mai potrà uscir fuori dell’espe- rienza per confrontare le sue idee con le co- siddette cose in sè stesse. L’accordo del pen- siero con la realtà, in cui si suol far consi- stere il vero, non si può intendere dunque co- me una specie di rassomiglianza dell’uno con l’altra. Non è ciò che lo scienziato cerca ed ottiene con le sue teorie. Egli costruisce un’ipo- tesi, agisce lasciandosi guidare da essa; se rie- sce a raggiungere il risultato previsto, dice che la sua teoria è vera. In questo caso è chia- ro che le sue azioni e le azioni della cosiddet- ta natura esterna hanno, dirò quasi, insieme 25 collaborato al raggiungimento di quel fin» si son bene coordinate in modo da converge, re insieme a quel risultalo. Ma vi sono i casi in cui resperimento fallisce, e ciò accade quando le azioni dell’uomo e quelle del moQj do vengono in conflitto, quando non riescono a coordinarsi al conseguimento del fine desi- derato. La ricerca della verità è dunque ricer- ca di una superiore armonia delle forze atti- ve, umane e non umane, operanti nell’univer- so della nostra esperienza. Attraverso il no. stro conoscere la realtà si sviluppa, s’integra, si ordina in più vasti accordi concreti, conquj. stando una maggiore pienezza di vita. La no- stra attività scientifica e filosofica non è Jo sforzo di rispecchiare nel nostro pensiero l’armonia prestabilita del mondo; ma il pe- renne tentativo di creare qualcosa di veramen- te nuovo ed originale, di dare all’essere una armonia più completa di quella che possie- de in ogni momento della sua storia, sempre in via di farsi, plastica sempre in attesa del- l’opera umana che la trasfiguri. Se la verità non è fatta ab aeterno, ma è qualcosa che dobbiamo noi stessi produrre, non vi è che un solo metodo per la sua con- quista: l’azione. II razionalismo tradizionale, di tipo cartesiano, ponendo il sistema della verità come già completo fuori di noi, era co- stretto a immaginare nello spirito una corri oiidente miracolosa predisposizione a ri- produrlo, leggendo quasi i segni di quel si- lenia, che Dio aveva stampato nell’anima no- j ra nell’atto della creazione. Bastava sfoglia- re le pagine di quel libro che era già in noi, accettare come vero quel che vi era scritto c on infallibile evidenza. Ma distrutto l’idolo della pretesa verità fuori di noi, cade con es- co il criterio della passiva evidenza. Non c’è nessun principio in sè medesimo evidente; non ve n’è alcuno che porti impresso dalla nascita l’aristocratico suggello del vero; non v’c giù predisposto in noi il cammino che conduce in cospetto del preteso assoluto. Non vi sono idee privilegiate, ma tutte debbono nieltersi a prova per vedere se con esse si rie- sce a realizzare un grado di superiore armo- nia dei nostri spiriti e del mondo, cioè un grado più alto di verità. Non sapendo la via fin da principio, dobbiamo procedere per ten- tativi: provando e riprovando, col metodo dell’esperimento, che non è altro se non un complesso di azioni, suggerite da ipotesi, che si ripetono ora in un modo, ora nell’altro, fin- ché non si riesce a trovare quel sistema nuo- vo in cui esse si coordinano con le forze natu- rali convergendo ad un medesimo fine. Pro- vando e riprovando gli esseri si sono elevati dai più semplici organismi biologici e sociali alle forme più complesse di coordinazione 27 delle loro attività; resperimento è il cai no doloroso e insieme glorioso traverso il qu^J le si realizzano gli ordini nuovi delTesistenfeJ impreveduti e imprevedibili; l’esperimenlo • l’eterno procedere della storia, che non volg e ad una meta prefissa, ma costruisce faticosa- mente per secolari tentativi, man mano che avanza, la sua via. E’ il metodo non solo della scienza, come si crede comunemente, ma anche della filo, sofia, che è perenne aspirazione della realtà vivente in noi a creare, traverso il nostro at- tivo pensiero, rarmonico sistema delle sue in- numerevoli energie. Anche a questa superiori, coordinazione delle forze del mondo, a que- sto accordo delle anime, si giunge per gradi, provando e riprovando. Forse qualcuno chie- derà ingenuamente: ma dove è dunque Tazio- ne e l’esperimento del filosofo? Dov’è il suo laboratorio? Questa domanda suppone un modo assai grossolano di considerare l’espe- rienza che si limita astrattamente ai soli fe- nomeni fisici, su cui han presa i precisi appa- recchi di registrazione e di misura. Ma l’espe- I rienza è qualcosa di più concreto e di più va- sto, che include non 1 soli dati sensibili, ina tutta la vita, anche in quegli aspetti che vol- garmente si dicono soggettivi; qualcosa che non si può chiudere, dunque, negli angusti li- miti d’un macchinario, ma è parola rivelatri- 28 » t li pensieri ad altri uomini, è libro che va B il mondo, è azione efficace su altre ani- F clic tenta non le sole vie della natura, ma 'nclie quelle dello spirito. Il nostro laborato- a . è la storia, di cui i processi fisici sono so- lici un piccolo frammento, che non esiste se- calo dal resto. E in questo immenso labo- pjatorio, che non ha confini nel tempo e nel- ho spazio, facciamo la prova dei nostri siste- j. e i nostri esperimenti sono nelle pagine che esprimono il nostro spirituale travaglio e „u comunicano il brivido doloroso; sono nel- la vita che a quel pensiero s’ispira; nell’eco ( li fervida ammirazione e di antipatica repul- sione che esso suscita intorno a sè; nel con- ! sens o dei discepoli e nel dissenso dei critici; nelle discussioni e nelle polemiche, in cui le idee esperimentano la loro potenza diffusiva; nell’impronta più o meno efficace che lascia- no nel seguito dello sviluppo; nella loro fe- condità suggestiva di nuove, più ricche e più oniche forme d’esistenza (1). (Il Da Relativismo e Idealismo, pp. 61-G3. 29 III. La filosofia non è contemplazione, ma azione Ogni concezione filosofica è uno sforzo per comporre in una più ricca armonia le atti\ tà dell’universo, instaurando una razionalità sempre più piena. Non c’è un assoluto ordi razionale, che la nostra coscienza debba solo rispecchiare, ma il realizzarsi di ordini sem- pre più completi, a cui il pensiero umano col- labora energicamente. La filosofia non è l’u c . cello di Minerva che, a dire dello Hegel, inco* mincia il suo volo soltanto nel crepuscolo! non riflette sopra uno sviluppo di categorie logiche già determinate nella necessità del loro processo, ma crea anche categorie nuove costruisce un grado più alto di razionalità che prima non c’era, concentra nell’esperimento della sua sintesi suprema tutte le forze ope- ranti nella storia, per farne una sola energia rinnovatrice. Non è il tramonto, in cui lo spi- rito si raccoglie a riflettere sui fatti compiuti, ma l’aurora nascente delle opere nuove: l’idea ispiratrice della storia che comincia. E la sto- ria appunto è il laboratorio dei suoi continui 30 esP c delle rimeriti, dove si inette a prova l’efficacia sue costruzioni. La verità d’un sistema J-fico non può decidersi ragionando a i * iori, ma è nella sua concreta funzione sto- I 'ca. nel suo agi re come potenza creatrice Id’una nuova armonia razionale delle forze I «erose del mondo. La sua verità si decide I ui campi di battaglia, dove si agitano le ban- I I diere delle antiche e delle nuove idee, e si I C 0inpong ono in impreveduti accordi i loro se- ■ colari conflitti; nelle rivoluzioni che iniziano [le nuove civiltà; nelle lotte d’ogni giorno, do- ve ogni uomo porta tutto il suo pensiero, sia- no esse incruente polemiche o urti sanguino- si • nel libro che opera sulle anime e le trasfi- gura, come nella nave che attraverso gli ocea- ni unisce i continenti; nelle assemblee, come nei campi e nelle officine; nelle vicende poli- tiche, come nei rapporti economici; nel pub- blico governo dello Stato, come nell’intimo santuario della famiglia; dovunque un’anima agisce con l’impulso d’un’idea. E non c’è al- cun uomo, anche quando irrida alla filosofia, che non manifesti in ogni sua parola, in ogni suo moto, in ogni contrazione dei suoi mu- scoli l’energia d’un certo modo, per quanto grossolano e non del tutto consapevole, d’in- tendere la vita nel suo insieme. Ogni attimo della storia, dunque, nella sua discorde ar- monia realizza il perenne esperimento delle nostre concezioni filosofiche, che sono rela. tivamente vere solo nella misura in cui fanno sentire la loro efficacia in questo mobile ac- cordo di forze in conflitto, che si ricompone in forme sempre nuove (1). IV. L’ esperimento storico delle religioni. Il rapporto tra religione e filosofia non è quello di due nazioni contigue, divise da na- turali confini. Non è una divisione statica, ma il rapporto dinamico di due momenti d’un medesimo processo spirituale. La filosofia è perenne aspirazione a comporre in sintesi le concrete attività della nostra anima e del mondo; sintesi dinamica che non è mai com- piuta, ma si costruisce in forme sempre piu ricche e integrali. Essa non rispecchia un or- dine oggettivo sussistente fin dalPeternità nella sua assolutezza immobile, ma agisce per realizzare un ordine nuovo. Le forze infinite del mondo cercano attraverso il pensiero una (1) Da L'Esperimento nella scienza, nella filoso- fia, nella religione, Napoli, Perrella, 1936, pp. 37-38. 32 superiore armonia. Ma la filosofia ci dà solo pidea di questa più alta unità; e l’idea, fin- ché è solo oggetto di riflessione, è fredda, sco- loriti! priva del fervido impulso all’azione, perchè agisca, il verbo deve farsi carne e pren- der calore di vita vissuta. Occorre la fede del- l’apostolo, l’entusiasmo del martire. Per con- cepire astrattamente l’unità poteva bastare Aristotele; per farla sangue del proprio san- gue fu necessario il sublime sacrificio del Gol- gota. La religione è la tendenza alla concreta sintesi delle energie del mondo che si attua in un’esperienza vissuta. Questa non cancella il lavorìo precedente della riflessione, ma la incorpora in sé, come nel lampo intuitivo del- lo stratega, pur nel più fervido calore dell’a- zione, si raccoglie il lungo meditare della scuola di guerra. La fede non è cieco senti- mento, ma idea divenuta passione, pensiero che è norma di vita. Filosofia e religione non sono, dunque, due sezioni ben divise dell’ani- ma, l’una che racchiuda l’intelletto, l’altra il sentimento; bensì momenti d’un medesimo processo, in cui l’unità delle forze operose del mondo passa dalla riflessione alla vita, e dal- la vita ritorna al pensiero arricchito di nuove esperienze, di nuovi lampi di divinazione ge- niale. La coscienza religiosa, infatti, non è il semplice organizzarsi del pensiero in abitudi- 3 33 ni attive, ma intuizione che penetra più a fon- do con energia diversa dalla chiara visione dcH’intelletto. Non si ferma a ciò che la filo- sofia ha conquistato, ma procede innanzi e dà l’oscuro presentimento d’una ricchezza di vita nuova in una sintesi più concreta. In ciò sta il valore delle mistiche esperienze dei gè-’ nii della fede. Ma quelle rivelazioni intuitive chiedono d’essere illuminate dalla luce del pensiero che riflette. Ogni religione è punto di partenza d’una nuova filosofia, che arric- chisce alla sua volta il contenuto della verità intuita. Non è un circolo chiuso, ma un proce- dere da una cima ad una cima più alta alla conquista d’un’unità di vita sempre più pie- na, a cui filosofia e religione collaborano in- sieme integrandosi a vicenda nel ritmo eter- no dello spirito . . . Deve, quindi, considerarsi inadeguata la triade hegeliana, dove la religione figura co- me un momento superato nel pensiero filoso- fico. Ma deve nello stesso tempo rigettarsi ogni misticismo che ponga in un’immediata esperienza la più alta rivelazione dell’Asso- luto. Non c’è un ultimo termine in cui si at- tinga la verità perfetta, ma un processo peren- ne in cui si realizzano forme sempre più inte- grali di unità nella nostra umana esperienza. Ogni cima è punto di partenza per la conqui- sta d’una vetta più alta: ogni filosofia spinge 34 (| una religione superiore, e questa cerca la ua luce in un nuovo pensiero; e la coscien- ea procede così senza fine arricchendo sè me- jesiina in sintesi sempre più piene, in cui le prelazioni e le meditazioni del passato non j cancellano, ma sono comprese come punti ai vista inferiori in visioni più ampie. Rima- ne nello spirito un segno indelebile d’ogni esperienza filosofica e religiosa. La verità della religione, come quella del- la filosofia, si realizza, dunque, storicamente in gradi infiniti: non vi è alcuna religione, come non vi è nessuna filosofia, che possa considerarsi definitiva. Ed è sempre l’esperi- mento che decide del grado di verità. Non ha valore un’apologetica che si fondi su ragioni a priori o su motivi di rivelazione subiettiva, jjon Pintelletto per sè, nè l’esperienza mistica possono dar credito ad una fede. E neppure quel metodo, così detto pragmatistico o del- l’azione, che pone, in ultima analisi, come criterio il soddisfacimento soggettivo che lo spirito sente nella pratica religiosa. Tutti que- sti procedimenti sono arbitrarii. Solo l’espe- rimento storico ci può dare un controllo og- gettivo. La religione, perchè provi la sua verità, deve uscire dall’intimità del soggetto indivi- duale per divenire una forma concreta di vi- ta associata; deve mostrarsi capace di dare 35 la sua impronta a una nuova civiltà, di « vare le energie del mondo ad un accordo periore. Non basta proclamarsi riformato' e profeta d’una fede nuova, se l’esperie dell’individuo non riesce a conquistare le al- tre anime, operando nel campo oggettivo del- la storia (1). V. Le costruzioni logiche come tentativi di risolvere problemi di vita. Le prospettive umane nella loro limitatez- za sono sempre frammentarie: donde l’indo terminato e l’astratto, che cerchiamo di cor- reggere, integrando la nostra veduta con quel- le degli altri individui, coordinando la stra azione con un numero sempre più gran- de di energie cosmiche. Noi siamo esseri rea- li, e quel che ci è presente in ogni momen" storico è la vita stessa della realtà; ma in scuno di noi non è la pienezza dell’essere. Il solitario egoista, che volesse chiudersi in sè, impoverirebbe la sua vita. Siamo incessante- mente spinti al di fuori per cercarvi il coni- ti) Da L’Esperimento ecc., pp. 40-42. 36 amento del nostro essere, il nostro io più ero, più coerente, più reale. Bisogna prodi- gare noi stessi per ritrovarci arricchiti dal no- stro sacrificio. La molla dello sviluppo non è una con- dizione puramente logica, ma il dissidio reale che avvertiamo nella nostra viva espe- rienza fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. E’ questo dissidio che ci spinge all’a- zione. I problemi che miriamo a risolvere so- no problemi di vita. E’ tempo di mettere da parte la pretesa di far rientrare la storia del mondo in un processo puramente logico, con un giuoco di concetti, o di farla scaturire dal- lo svolgersi dell’atto conoscitivo. L’alto del co- noscere è solo una delle funzioni del nostro essere che esiste non perchè si afferma e si pensa reale, ma perchè tale si sente nella sua immediatezza viva. E’ il pensiero che deve essere interpretato in termini di esistenza, e non viceversa. Esso è una delle forme attra- verso le quali il nostro essere va progressiva- mente realizzando una maggiore pienezza, una più alta armonia delle forze del mondo. Le categorie logiche hanno appunto que- sta funzione: esse servono ad integrare la no- stra attività con le altre azioni infinite onde risulta la vita dell’universo, a farla converge- re ad un medesimo fine, eliminando i con- flitti, senza che ciascuno perda la sua indivi- 37 duale fisonomia. Nulla di ciò che vi ha di pj^ vivo nella nostra umana esperienza, nessun^ sfumatura, nessun palpito, nessuna per (pian- to fuggevole vibrazione si perde in quella sin- tesi, in cui tutti gli esseri si trovano elevali ad una superiore potenza. Infinito è lo sviluppo di queste categorie che risolvono problemi di vita, partendo da situazioni storiche concrete. Non vi è una ra- gione stereotipa, ma sono possibili ordini j n . finiti di concreta razionalità, che lasciano li- bero il campo alla creatrice attività dello spi- rito. Così l’opera nostra acquista un alto va- lore, e il nostro pensiero non è condannato a rifare in sè un ciclo chiuso di categorie, pas- sando e ripassando sempre per le medesime posizioni, in un moto circolare che somiglia stranamente allo star fermi, ma ci si mostra come feconda energia trasformatrice del mondo (1). (1) Da L’ Esperimento ecc., pp. 13-14. VI. II senso della storia e la vita come rischio assoluto. Non c’è storia se lo spirito è destinato a girare e rigirare sempre per le medesime po- sizioni. Un processo i cui momenti si equival- gono, come il battere monotono d’un pendolo, i,i qualunque modo si concepisca, o ottimisti- camente alla maniera hegeliana, dove tutto è bene, o pessimisticamente alla maniera dello Spengler, cioè come inutile farsi e disfarsi di civiltà, senz’alcun ordine di progresso; uno svolgersi di fenomeni dove tutto procede per la sua strada necessariamente, non è storia, ma è vera e propria natura, perchè sotto l’ap- parenza del divenire cela l’immobilità d’un ritmo eterno e indifferente al nostro umano travaglio. Perchè la storia abbia un significato, oc- corre che vi sia la possibilità di un reale pro- gresso, come anche d’un reale decadimento; che i fini che ci sforziamo di raggiungere non siano illusorie prospettive umane, ma abbia- no anche un valore oggettivo; che la realtà non sia estranea all’affaticarsi della nostra vo- 39 lontà nel tempo. Non un’indifferente natura, dunque; ma neppure un allinearsi di momen- ti, di cui ciascuno con ritmo infallibile supe- ri il precedente. E neppure la certezza che, qualunque cosa noi facciamo, le nostre azioni rientrino in un perfetto ordine divino; che anche le nostre colpe e i nostri delitti siano necessari allo svolgersi del piano della Prov- videnza. La vita ha un senso solo se l’alternativa del bene e del male comporta un rischio assolu- to; se la nostra azione può produrre un effet- tivo accrescimento della realtà o un’effettiva diminuzione; se la salvazione del mondo non è certa, ma sospesa almeno in parte allo sfor- zo della nostra volontà. La sicurezza del trion- fo definitivo del bene toglie ogni valore al- l’opera umana, non meno della convinzione deU’inutilità d’ogni nostra azione in un cieco divenire naturale. Le sorti del mondo debbo- no essere incerte in ogni istante, perchè la storia abbia un significato. E noi dobbiamo sentire tutto il peso della nostra responsabi- lità come attori di questo dramma infinito. Non limitarci solo a registrarne gli atti, a catalogarne le vicende (1), come fanno i co- (1) «Lo storicismo — ha scritto argutamente il Tilgher — è il notaio della storia ». - Critica dello storicismo, Modena, Guanda, 1935, p. 114. 40 ideiti filosofi della storia, simili agli uccelli Wi Mi* ierva > c ^ ie ’ secondo l’immagine poco fe- lice di Hegel, cominciano i loro voli solo nel gpuscolo, dopo che è cessato il travaglio del- i j a vita cotidiana. Di queste teorie che rifletto- no sui fatti compiuti e mettono tutto a posto n cllc loro caselle ideali non sappiamo che farcene. Non c’è un ordine fisso nella storia *jj e dobbiamo limitarci solo a rispecchiare; pl a vi è sempre la possibilità di ordini nuovi [costruiti dalle nostre idee che si sperimenta- no nell’azione. La razionalità non è un siste- ma assoluto che troviamo bell’e fatto o che si svolga eternamente nei suoi circoli chiusi, ma è suscettibile di forme infinite imprevedibili a priori. Ufficio del pensiero filosofico non è quello di fare semplicemente l’inventario delle categorie già messe in funzione dalla scienza, dalle forme sociali già realizzate, ma sopratutto quello di costruirne altre nuove nelle sue sintesi ardite. Non immobile pro- spettiva, o repertorio di un certo numero di possibili prospettive, destinate a riprodursi sempre e in cui si esprimano solo alcuni aspet- ti della nostra soggettiva personalità spiri- tuale, ma energia operante nella storia, crea- trice di ordini sempre nuovi di esistenza, ispi- ratrice di nuove civiltà, tale è la filosofia, co- me noi la intendiamo, non oziosa meditazio- ne, ma fecondo programma di azione. Arre- 41 starsi davanti alla pluralità delle prospetti^ storiche è indizio di niente fiacca, come è vertà di spirito rassegnarsi al destino che tra scina nell’ingranaggio della sua ruota le f 0r . me della civiltà. Se la concreta unità nella sua perfezione non esiste di fatto, abbiamo il ^ vere e il diritto di cercare di realizzarla. Non è vero che le strutture logiche, come le forma sociali, si dispongano tutte nello stesso pj a . no. Le nuove categorie gerarchicamente pongono ad un livello più alto. Non è un fare e disfare: le più recenti teorie matematiche e fisiche non esprimono solo tipi diversi d’in. tuizione spirituale, che valgano perciò, come espressioni di sentimenti generici, lo stesso delle vecchie teorie fiorite in altre forme di civiltà; esse rappresentano la conquista di superiori organi di coordinazione delle forze umane e di quelle del mondo, attuazioni di accordi più alti e più complessivi, in cui si unificano le strutture logiche anche di razze e di civiltà diverse. Lo stesso si dica degli al- tri prodotti dello spirito umano. I cicli chiusi di cultura sono una finzione astratta, non me- no della generica umanità, che esclude le dif- ferenze. La vera concreta umanità è quella che si realizza non cancellando le diverse im- pronte dei popoli, ma coordinandole in mo- do che convergano verso fini comuni, e si eli- minino sempre più gli attriti e le dispersioni 42 I ]j forze. La pluralità delle umane prospetti- ■ , c non è disperatamente tale da escludere la I loro unificazione in una veduta più larga, in ■ cui nulla sia perduto delle mobili fisonomie degl’individui e delle razze. I La razionalità non è un sistema fisso di cS senze e di principii immutabili, non un per- sistere di astratte identità, ma un accordo con- cre to che si costruisce nei suoi diversi gradi attraverso il medesimo processo onde si ge- I nera la vita della storia. Essa può assumere ! modi e forme infinite che non si possono e no» si debbono predeterminare. Intesa così la razionalità, è soddisfatta l’esigenza da cui muove l’irrazionalismo, cioè quella di salva- I re la libertà dello spirito e la concretezza del- I l’esperienza. Rimane, infatti, tutta la fertile ricchezza delle nostre intuizioni e la possibi- I lità di sempre nuove creazioni. E solo cosi si ' può risolvere la secolare antinomia fra la li- i bertà e la predestinazione, che era il prodotto [ del modo statico e intellettualistico di conce- pire la razionalità; solo così la razionalità ! nel suo dinamismo si adegua a quel Potere infinito di creazione, che fu la parola nuova | del Cristianesimo. Non vi è un sistema d’in- [ telligibili, immobilmente presente al Pensiero di Dio. Se così fosse. Egli sarebbe imprigio- nato nel suo eterno Pensiero. Non avrebbe senso parlare di creazione, perchè tutto sareb- 43 he già dato in esso. La Ragione Divina non è chiusa in nessun ordine fisso, ma si attua j|, ordini infiniti nel processo della storia, che è opera insieme dell’uomo e di Dio in int' unione spirituale. E la Provvidenza non è di- segno preformato; ma, in ogni attimo di vita creazione d’un nuovo disegno, che coordina — Dio sempre presente ed operante — i i l0 . stri umani disegni (1). (1) Da L’Esperimento ecc., pp. 97-99. 4 44 ERNESTO BUON AIUTI V 4 TO .4 ROMA IL 25 GIUGNO 1881. — PROFES- SO HE ORDINARIO NELL’UNIVERSITÀ DI ROMA piSO AL 1931. — SACERDOTE SCOMUNICATO pAL 1920. 1 Buonaiuli si è fallo l’apostolo di un ritorno al Cristianesimo di Gesù e di Paolo, inteso come spe- : ran™ e fe<le nell’avvento del Regno di Dio, cioè di una società ove i rapporti degli uomini saranno fon- dati interamente e solo sull ’ amore reciproco. Ciò presuppone la pluralità, la comunicabilità, la per- meabilità degli spiriti finiti, tutti figli di un solo Padre. E poiché, a suo giudizio, l’Idealismo, rias- sorbendo il mondo nell’Io, conduce fatalmente al solipsismo e all’egoismo assoluti, Buonaiuti è avver- so ad ogni forma d'idealismo. Fra le sue numerose opere tralasciamo quei.. LE DI ARGOMENTO PREVALENTEMENTE STORICO. V<)c( cristiane, Roma. Libreria di Scienze e Lettere, 1923; Verso la luce, Foligno. Campitclli, 1924; Una fede e una disciplina, ibid.; La Religione nella vita dello spirito, Bologna, Zanichelli, 1926; Apologia del Cai- tolicismo, Roma, Formiggini, 1923; Apologia dello Spiritualismo, ibid., 1926; Le Modernisme catholi. que, Paris, Rieder, 1927; La Chiesa romana, 3" ediz., Milano, Gilardi e Noto, 1933; Il Messaggio di Paolo, Roma, Calzone, 1933. — Dirige la rivista Ricerche Religiose, ora Religio (Roma). I L’etica del Vangelo. , L’elica del Vangelo si rivela ad una anali- si critica, che riesca a mantenersi immune da tutte le deformazioni della casistica fari- saica e da tutte le annebbianti preoccupazio- ni della speculazione razionalistica, come la stupenda sintesi dei termini contrastanti, fra cui si polarizzano invece, unilaterali e sterili di ripercussioni generali, i principi di tutte quelle dottrine etiche che sono affidate unica- mente o alle risorse dello spirito cogitante o alle manifestazioni empiriche della vita as- sodala. L’etica cristiana infatti è superlativa mente eteronoma e proprio per questo mg. simamente autonoma; nasce e si svolge tuti tuffala nell’atmosfera della grazia, e, for S( . appunto in virtù di questa sua eccelsa ed jL palpabile connotazione carismatica, coiftlu c alla valorizzazione più ricca dell’umana |j. berta; presuppone una sanzione e postula u„ premio, pur esaltando la gratuita gioia i 1( .| bene; travalica e annulla potenzialmente ogtjj legge, per sollevare chi la pratichi alla sicura vita dello spirito, sebbene racchiuda in me la giustificazione di ogni legge, suggerii a dalle esigenze mutevoli della edificazione fra. terna; reintegra la natura, ma elevandola al miraggio soprannaturale del Regno; molli- plica fino alle estreme possibilità la virtù del. l’individuo, trasfondendola, però, moltiplica, ta, nella intima simbiosi della collettività. p a . radosso dei paradossi, l’etica cristiana scio- glie così, unica, adeguandolo, il mistero for- midabile che la realtà spirituale, così singola come associata, cela nel proprio grembo. 1 Se lo sviluppo storico della moralità e del- la religiosità umana sta a dimostrare, in ma- niera inoppugnabile, che queste due attitudi- ni primigenie e fondamentali dello spirito tendono automaticamente a compenetrarsi e a saldarsi per sostenersi a vicenda, il « lieto annuncio s> costituisce in pari tempo la forma 48 assoluta così della religione come della ino- fa le, in quanto ha innestato la più alta for- immaginabile di moralità sulla più per- fetta raffigurazione dei rapporti fra l’uomo e pio. Come ogni etica genuinamente religiosa, quella del Vangelo è, in maniera nettissima, eleronoma: parte cioè dal presupposto che la legge assoluta del bene nasca da Dio e solo ( la Dio venga trasmessa agli uomini. Anzi l’eleronomia della legge morale, che è alla radice di ogni giustificazione religiosa del precetto della bontà e del sacrificio, è accol- la dal Vangelo in tutte le sue più ampie ap- plicazioni e in tutte le sue imperiose postula- zioni. Gesù dice che colui il quale pone la sua anima allo sbaraglio e la disperde nella pie- na dedizione di sè ai fratelli, quegli solo la ritrova integra e la conquista per l’eternità. L’uomo è dunque incapace di trovare in sè la norma del suo retto operare. E’ Dio che gli rivela la via della sua perfetta realizzazione: e questa via è segnala nel rinnegamento delle sue velleità egoistiche, nella disseminazione gioiosa di tutti i suoi tesori per il vantaggio dei fratelli. L’atteggiamento pertanto da cui, coinè da fonte, scaturisce la vera moralità del- le nostre azioni non è già quello di una su- bordinazione e di una uniformità esteriore a precetti formulati da poteri, che siano come il concretarsi sensibile della eticità di cui può i 49 essere ricca la vita associata, bensì quel] 0 della spontanea e consapevole uniformità un volere trascendente, che, impartendoci j| monito, ci dà anche il potere di eseguirlo. L a morale del Vangelo poggia tutta su un voleri, teroso riconoscimento di una provvidenza p a J terna di Dio, affidandoci alla quale noi ci t ra . sfiguriamo nel Bene e diventiamo cooperato, ri di questo Bene nell’elevazione degli uomj. ni verso l’Assoluto. Appare pertanto teoricamente e pratica, mente impossibile scindere nella predicazio- ne neotestamentaria l’elemento etico da quel, lo religioso. La norma del bene è unicamente l’ideale che ci viene additato dal comporta mento del Padre, nello sviluppo della vita co- smica. « Siate perfetti, come perfetto è il Pa- dre vostro che è nei cieli ». Ora il Padre spar- ge con signorile generosità i doni della sua pioggia e del suo sole su tutti indistintamente gli uomini, senza guardare in viso i connotati di nessuno. La vita morale pertanto, alla lu- ce del \ angelo, è quella che si impregna e si nutre dei suggerimenti che scaturiscono da una visione fortemente religiosa dell’univer- so. Perchè tutto nel mondo risente dell’assi- stenza longanime e lungimirante del Padre, così tutto nell’uomo deve essere subordinalo alla ricerca del Suo Regno e della Sua giusti- zia. Il rimanente verrà da sè. 50 - Eminentemente, squisitamente religiosa, •ale a ( ^ re ni * s t* ca e trascendentalistica, la 1 ^ or ale evangelica è perfettamente umana. Infatti allo spirito ragionevole che si proten- de. sotto il pungolo di una spontaneità natu- r ale, verso un irraggiungibile accaparramen- t0 dell’universo alla sua inquieta e insaziata avidità di possesso, e che nella delusione del- le sue volontà logoranti minaccia di smarri- rc il senso più profondo della sua reale de- stinazione nello spiegamento universale del l, c ne, essa sola offre lo sbocco adeguato. E fa c jó colmando le esigenze deposte in esso dal- la stessa immanente economia della vita as- sociata, piegandolo cioè al servizio fraterno, IlC | quale è la sua vera pace e la sua comple- ta gioia- Chiedendo così il pregiudiziale rinnega- mento di ogni egoistico istinto, la morale cri- stiana appare come una morale funzional- mente eroica. Ma, a scanso di equivoci, occor- re aggiungere subito che l’atmosfera di eroi- smo in cui essa vuole sollevare l’azione uma- na nulla ha da vedere con l’aspirazione in- gombrante al successo terreno e al predomi- nio materiale. L’eroismo che il Vangelo esige dal credente è tutto nell’interiore abbandono di sé, nella completa rinuncia ad ogni inva- dente affermazione della propria personale volontà di conquista, nell’assoluta abnegazio- ni ne per la gioia spirituale dei fratelli e nell;, ricercata trasfigurazione e sublimazione (| e | proprio io. E poiché il mondo è invece l’espajj. sione irrefrenata di tutti i più bassi istinti egojj stici degli uomini, strettisi in solidarietà p 0f il soddisfacimento dei loro interessi materia, li, il cristiano saprà in anticipo che alla sua professione non potrà tener fede, senza af- frontare, dovunque, intorno a sé, l’ostilità, j| rancore, la persecuzione. « Fuoco sono venu- to a portare sulla terra ... I nemici l’uomo lj troverà, d’ora in poi, in casa sua ». C’è da domandarsi se una morale così ec- celsa e così ardita, così solenne e così peri- gliosa, avrebbe potuto essere bandita in un momento e in un ambiente diverso da quello che, per primo, ne colse l’annuncio sconcer- tante. La società giudaica nell’epoca neolesta- mentaria, dopo una serie di deprimenti e an- gosciose delusioni politiche, si era andata lar- gamente persuadendo che la salvezza orinai non poteva venire ad Israele che da Dio. il quale, subitamente rivelandosi, avrebbe an- nientato i nemici della casa di David e avreb- be risuscitato di questa i destini gloriosi. Un senso quindi di ansiosa aspettativa e di oscu- ra inquietudine travagliava gli spiriti in Giu- dea e in Galilea, quando Gesù cominciò a predicarvi il suo messaggio di liberazione. Egli riprende assiduamente il motivo del Re- 52 fili" timi imminente. Ma la sua dottrina degli ul- evenli non ha nulla in comune con le vi- , a ij politiche, circoscritte e materialistiche, R i sll oi contemporanei. Il Regno di Dio «li [cui rivela l’attuazione è, unicamente, il trion- fici del bene nelle anime riscattate dall’insidia [attossicante del Maligno. Nella eccezionale u u rezza del suo messaggio è la prova apodit- tica della sua soprannaturalità. Nel sacrificio caligli compie generosamente di sè per ga- rantire agli uomini, fragili e tentennanti, la capacità di partecipare e di cooperare ad cs- L è il prezzo offerto per la redenzione di tatti- i Coloro i (piali, sfavorevolmente impressio- , a li dalla costanza uniforme con cui, dal ban- do delle beatitudini all’ultima promessa del (iolgota, l’etica cristiana fiancheggia con la jiuranzia del premio la consegna del sacrifi- cio, non riescono ad affrancarla dalla taccia di eudemonismo e a liberarla quindi dai con- notati di una relativa inferiorità, di fronte a forme di morale che han cercato di collocare la scaturigine della eticità nel fuoco incande- scente e disinteressato della pura coscien- za (1), cadono in un abbaglio analogo e pa- | tl) Probabilmente non è apparsa mai morale praticamente meno cristiana della morale kantiana. Non solamente perchè l’imperativo categorico, co- 53 rallelo a quello di coloro che parlano, a cuor leggero, di eteronomia dell’etica evangelica perchè attribuisce a Dio l’imposizione del| a legge del bene. Il Padre che nella predicazio- ne di Gesù viene additalo alla imitazione del- la morale credente è un é'Tep&s di natura fatto aùxós nella solidarietà dell’amore, della bon- tà, della grazia. Lungi dal recidere alle ba s j la trionfale autonomia dello spirito nella po- sizione dell’atto etico, questa presenza del p a . dre, col suo volere e la sua pedagogia, nella elaborazione del mondo della soggettività op e . rante, la esalta e la corrobora. Con una mi- rabile profondità di significato e precisa ri- spondenza alla realtà, il quarto evangelista ha potuto attribuire al Cristo la parola: <. ] a verità (naturalmente la « mia » verità) vi fa- rà liberi » (Vili, 32), sostituendo il vocabolo àXr^Eta là dove la tradizione rabbinica par- lava della Torah, e additando con essa la no- stituendo la voce della coscienza unica arbitra della moralità delle proprie azioni ha distrutto l’umile docilità dello spirito individuale alla coscienza dei tratelli, che non sono possibili imitatori bensì el- fettivi maestri, ma anche perchè ha tentato di scar- nificare e ridurre alle più esigue proporzioni i coef- ficienti che debbono entrare in azione per determi- nare, nella sua interezza concreta, l’eticità religiosa dell’umano operare. V. il capitolò terzo della pri- ma parte della Kritik der praklischen Vernunft, de- dicato appunto all’esame delle Triebfedern della ragione pura pratica. 54 .[là risCaltatrice del nuovo messaggio. Paral- lelamente la visione sempre presente del Re- gno, sullo sfondo verso cui va l’ansia insoddi- sfatta del credente, nulla sottrae al valore in- linio ed immacolato della sua pratica buona, poiché la sovranità assoluta del Padre, di cui s i attende la manifestazione gloriosa, sebbe- ne attuala in virtù di prodigi, costituirà lo spiegamento completo di una possibilità, che à già in qualche modo in movimento. L’azio- ne morale effettuala nella inquietudine pu- rificatrice dell’ attesa è già un’ anticipazione della meta, e i frutti dello Spirito che affio- rano e maturano nelle opere della carità sono già di per sè un’arra del futuro trionfo. Se non si vuol supporre, per assurdo, che san Paolo abbia voluto contrapporre una diretta smentita alla parola più solenne del Maestro, si deve riconoscere che l’interpretazione giu- sta della beatitudine, che promette agli affa- mali il satollamento, è racchiusa nell’assioma paolino: «il Regno di Dio non consiste nel satollarsi e nel dissetarsi: ma unicamente nella giustizia, nella pace e in quella gioia che gorgoglia dallo spirito santo» ( Rom . XIV, 17). Le virtù che conducono al Regno sono, mi- steriosamente, il Regno stesso. Può darsi anzi che in questa interiore identificazione della speranza e della bontà operosa sia contenuta la spiegazione migliore di uno dei più enigma- 55 tici incisi neotestamentari: «il Regno di Di 0 è in mezzo a voi ». L’anima di colui che crede nella realizza/ zione di questo sublime miraggio sembra ac-, quistare nuovi poteri di edificazione c di mi- glioramento fraterno. Da secondo la di. cotomia ohe l’esperienza cristiana suggerisce a Paolo, diviene TtvEùpoc: da principio vitale spirito, e come spirito, capace del perfetto di- scernimento del bene e del male, quali sono progressivamente diversificati dall’economia della vita associata. Questa nuova individua- lità spirituale che, perfusa dall* iy duri, assorbe e trasfigura la fragile creatura ragionevole per costituirla strumento di disseminazione del bene nel mondo, copia pertanto del pa- terno esemplare, è, in contrapposizione allo spirito del mondo, una partecipazione di quel- lo spirito di Dio, che, scoprendo tutti gli abis- si della divinità, educa e addestra a « scopri- re quanto Dio ha elargito di doni ai fratelli» (/ Cor. II, 12). La visione pertanto del bene che il Padre diffonde nel mondo, la discoperta cioè della sua generosa perfezione, è il principio inte- riore della capacità carismatica di imitarne la virtù e di passare fra gli uomini neH’attitudi- ne della ilare fiducia, del pronto perdono, del- la inesausta beneficenza. 11 senso più vivo della divina e provvidente presenza nel mon- 1 ' e la fonte del più operoso ben fare. In tut- R ; eccoli della sua storia i trionfi della mora- li » 9 ' cT istiana sono stati sempre contrassegnati lolle reviviscenze della esperienza mistica. Riguardata pertanto nei suoi specifici ele- vali costitutivi, la morale del Nuovo Testa- mento appare come un’etica originale, che u lla ha a che vedere con i sistemi morali ba- t i sulle indagini della pura dialettica. La , a scaturigine è tutta nella rivelazione della divina bontà, offerta come modello tenden- Lj a le alle energie dello spirito umano. Poiché ( |iiesto ideale costituisce, nella graduatoria ( | e i valori che mira automaticamente a in- staurare fra gli uomini, la negazione più ru- de e più perentoria delle loro naturali consue- tudini e delle loro innate tendenze, non c’è da sperare che il seguirlo possa rientrare nel novero delle possibilità psichiche e sociali. E’ solo la consapevolezza del riscatto operato da Cristo dagli istinti della colpa e dell’egoismo, quali pullulano dal nostro essere, clic riesce a creare nell’uomo una nuova personalità spirituale, le cui azioni sono le opere della bontà e dell’abnegazione. Quest’ « uomo inte- riore » vive partecipando nella comunità dei credenti ai doni carismatici che Gesù, il so- pravvivente, conferisce attraverso i sacramen- ti e la disciplina associata. Questa la morale del Vangelo. Immagi- 57 narsi di poterne ridurre l’essenza ad astrate postulali di metafisica naturalistica signifj Ca deformarne le caratteristiche e alterarne k 3 rimediabilmente i connotati. La sua originai, tà è invece nell’innesto mirabile ch’essa hu operato delle leggi che possono guidare l’eco, nomia della vita associata su quelle che p<, s . sono illuminare i rapporti dello spirito indj. viduale con Dio. Vera spada che fruga nelle più intime pie. ghe dell’anima, la morale eroica del Vange- lo è, per definizione, un ideale altissimo che solo la santità riesce ad adeguare in qualche modo nel mondo. La grande massa degli uo- mini aspira ad essa come ad una linea mar- ginale, dal cui controllo l’azione trae signifj. calo e valore. Nel corso dei secoli, mano mano che il messaggio cristiano diveniva retaggio di ,,a numero sempre più vasto di credenti, la pu- rezza cristallina della morale evangelica do- veva subire necessariamente attenuazioni c deformazioni. Ma i suoi ideali non hanno mai cessalo di operare come un salutare fermento in mezzo al genere umano, che ha avuto le sue ore più nobili quando, nell’atto o nella speranza, il Regno di Dio e le sue leggi han- no più profondamente scosso e foggiato l’a- nima dei gruppi associali (1). ' (1) Ricerche Religiose, Homa, marzo 1925. 58 II. Il paradosso del Cristianesimo. Ecco il mirabile paradosso che contrasse- gna l’azione del Cristianesimo nello sviluppo storico della società. Nato con l’intento di sol- levare gli uomini ad una esperienza spiritua- le, spogliata di ogni addentellato e di ogni di- retto rapporto con il mondo di tutte le realtà periture; poggiante sull’aspettativa di un Re- gno impalpabile, di cui Dio solo potrà essere il Sovrano e il disciplinatore onnipotente ed onnipresente; recante nel proprio grembo una visione fattiva della universa solidarietà umana, nel dolore e nella speranza, al di fuo- ri e al di sopra di tutte le barriere create dal- le. competizioni fatali dell’egoismo, il Cristia- nesimo, agli occhi della politica realistica, do- veva apparire come la negazione funesta di ogni salda configurazione sociale. E di fatto esso corrose con la sua indifferenza ai valori di questo mondo la struttura dell’Impero. In- variabilmente, nella storia, ogni organizzazio- ne della forza bruta, ogni imposizione della violenza armata, ha trovato nella esperien- òi) za cristiana la sua condanna c la propria n P . mesi. Ma poiché le multiformi possibilità del| a disciplina associala fra gli uomini non sono tutte e solo nella subordinazione militare ad un regime di costrizione o nell’uniformità esteriore ad una lettera scritta, il Cristianesi- mo, indifferente alla prassi degli sviluppi e delle vicende della politica reale, ha intro- dotto nel tessuto dell’umana associazione il vincolo coesivo di una superiore cittadinan- za, l’azione armonizzatrice di una superpoli- tica spirituale. Di qui il miracolo permanente della effi- cacia. cristiana nella storia. Bandito col pro- posito dichiarato di educare gli uomini a ri- cercare oltre il cosmo sensibile la realizzazio- ne delle loro speranze e l’acquietamento del- le loro avidità spirituali, di strappare le loro ansie al fascino ingannevole dei successi pe- rituri, il Cristianesimo, nell’atto stesso in cui si è costituito avversario implacabile di tutto cò che, essendo esteriore ed effimero, avvele- na e divide, ha trovalo il modo di garantire, anche all’esteriore e all’effimero, una capa- cità di azione interiore e di elevazione perma- nente. Il Cristianesimo ha rivelato pertanto, nel processo di sviluppo della civiltà associa- ta degli uomini, una virtù pedagogica supe- riore, anche per mole ed entità di risultati, a 00 ue lla esercitala da qualsiasi altra forma di ^soluzione religiosa del problema della vita. i a superiorità della sua efficacia è in ragio- e diretta della singolarità del suo procedi- r enlo . 11 quale segue una sua peculiare dia- lettica che potrebbe definirsi quella delle rea- L ^-azioni per antitesi. per millenni e millenni l’umanità associa- ta ha cercalo nel rito e nel mito la consacra- zione mistica della sua partecipazione e del- la sua subordinazione agli interessi e alle esi- genze del gruppo in cui il singolo era incor- poralo. Ma la consacrazione e la sanzione in- travista in essa sono riuscite di debole o par- ziale efficienza, finché le forme organizzate della credenza e della liturgia hanno soggia- ciuto al predominio o alla limitazione dei va- lori strettamente politici del gruppo stesso in cui esse erano praticate. La rivelazione cri- stiana ha reciso spietatamente ogni legame di corresponsabilità fra le espressioni della vita spirituale, che riportano l’uomo al principio sussistente del suo essere e del suo divenire, e le manifestazioni concrete dell’associazione sensibile dei gruppi, legati alle medesime tra- dizioni etniche, culturali, sociali. Essa ha toc- cato, nel cuore stesso dell’individuo umano, indipendentemente da ogni suo connotato di razza e di rango sociale, le corde che cantano l’anelito all’Infinito e il sogno della Reden- zione. (il Investendo pertanto le qualità centrati della spiritualità; destandone le attitudini Di semplici e più riposte, e quindi più universi li; dirigendone le aspirazioni verso una mèt* travalicante tutte le circoscritte e modeste f nalità dell’organizzazione terrena, essa hi gettato le basi di una solidarietà umana unta versale, oltre cui non pare siano mai Dph spingersi gl’ideali della civiltà. Ed ha in «Lh tempo creato l’atmosfera più acconcia al f 0 J marsi e al perdurare delle virtù che costituì-' scono l’uomo più pronto e valido strumento (lei benessere collettivo. La buona novella an- nunciata dal Divino messaggero agli uomini e un guiderdone mirabile preparato al di 1- della tomba, nel seno del Padre, a chi abbia vissuto ed operalo nel disinteresse, ncU’abno «azione, nell’umiltà, nella dolcezza. Essa n re- scinde da ogni titolo privilegiato di razza di tradizione, di classe. Essa distacca lo sguai- no e le preoccupazioni degli uomini da tutti gli interessi terreni, da tutti gli ideali circo- scritti, da tutte le visuali realisticamente no- diche, per lanciarle verso un luminoso so- gno di palingenesi e di reintegrazione nel be- ne. Ed e appunto in virtù di questa eroica ti apposizione di aspettative, di ideali e di va- lori, che il Cristianesimo ha finito col creare (le. I.p. eccellenti di individui, servi del Pene collettivo e propulsori delle fraterne ttscen- f>2 ioni- A differenza di tutte le umane arti e di (11 ttc le costruzioni sistematiche, escogitate f e r il miglioramento sociale, il Cristianesimo jj 0 n si è proposto di offrire la panacea ai ma- li 0 nde è fatalmente corrosa la vita associala, t c pure di fatto ha arrecato ad essi l’allevia- I mento più sensibile e più tenace, inculcando li a insensibilità alle iatture di ogni giorno, acuendo e polarizzando l’umana sensibilità Iverso gli ideali della pace immortale, fede- rando le creature doloranti nel conforto della soprannaturale speranza. Le conquiste socia- li più insigni, i progressi politici più imponen- li sono stati da esso realizzati proclamando, per antitesi, che i genuini valori son quelli che travalicano la società e la politica. E’ so- lo dalla visione luminosa del Regno di Dio che gli uomini possono attingere la capacità ( |j divenire strumenti più efficaci della flori- dezza dei regni terreni (1). 1 (1) Verso la luce, Foligno, Campiteli!, 1924, pp. 83-89. III. La Chiesa fermento del mondo. Sprofondando le sue radici nelle più tenti' tradizioni del messianismo ebraico, a Vangelo ha inserito nel cuore degli uomini m, dualismo insuperabile e tragico. Da una p ar . te il mondo delle esperienze sensibili; il mon do delle concezioni terrene; il mondo dei v a . lori transeunti. Dall’altra parte, il mondo «lei valori assoluti; il mondo delle concezioni e delle speranze ideali; il mondo della beatitu- dine eterna. L’uno, nella terminologia della letteratura profetico-apocalittica, è il « secolo presente » l’altro è il « secolo veniente ». Essi non sono ricongiungibili attraverso il processo ideolo- gico di un superamento razionale. Coesistono e si mescolano fin d’ora nella esperienza im- palpabile di un avvenuto riscatto e di una divorante speranza. Dal giorno in cui, attraverso l’annuncio di Cristo, questo irriducibile dualismo fu inse- rito nello spirito deirindividuo umano come nelle viscere della collettività, la vita storica 64 f (1 presa nel vortice di una lotta della civiltà c „n sè stessa. Coloro che tentano di superare questo dua- lismo, di annullare uno dei due poli fra cui s j dibatte da due millenni la storia spirituale i jegli uomini, che credono di poter ricongiun- gere questa duplice polarizzazione dello spi- ato umano in un unico atteggiamento moni- stico, costoro veramente mi pare che trascini- no indietro di secoli, se non di millenni, l’u- manità, che cerchino veramente di strappare a lla nostra storia spirituale la sua più gran- de e luminosa gloria. Poiché veramente è in questo dualismo non superabile che sta da due millenni tutta la grandezza e anche tutta la tragedia della nostra vita storica. Il cristianesimo è un an- nuncio escatologico, l’annuncio del Regno, l’annuncio gioioso, beatifico di una manife- stazione suprema di Dio, che Dio attuerà nel massimo splendore della sua gloria, della sua potenza, della sua bontà. Se la società cristia- na avesse attuato alla lettera il messaggio cri- stiano e straniandosi dal mondo si fosse iso- lata nell’inerzia dell’aspettativa, evidentemen- te in rapido volger di decenni la civiltà uma- na si sarebbe esaurita. Ma con questo stesso il cristianesimo avrebbe smarrito la sua ra- gion d’essere, perchè il cristianesimo, secon- do la stessa definizione del Cristo, è un fer- mento deposto in una pasta che altrimenti sarebbe soggetta alla putrefazione; è un sa- le che dev’essere messo in una vivanda insi. pida. Se non c’è il mondo circostante dei Va . lori transeunti, non ci può essere neppure l a speranza dell’avvento del Regno. Ed ecco tragica situazione del cristianesimo. Si può dire che il cristianesimo per vive- re ha dovuto rinnegare la sua natura, ha do- vuto lavorare in questo mondo per aspirar* al regno di Dio, ma immediatamente ha do- vuto rinnegare il proprio rinnegamento, per- chè il giorno in cui avesse permesso al « se- colo veniente » di disperdersi nel « secolo presente», immediatamente il cristianesimo avrebbe di nuovo abdicato nelle mani di quel paganesimo che aspirava a soppiantare, c che invece lo segue immancabilmente, tenace- mente, pertinacemente nella storia, come un’ombra e un’insidia. Così dunque il cristianesimo è entrato nel- la storia come un messaggio apparentemente contraddittorio, come poggiato su una perma- nente antitesi. Noi non possiamo sacrificare nè l’uno nè l’altro termine delle due posizio- ni fondamentali. La vitalità del messaggio cristiano è in questa contraddizione. Noi dob- biamo riconoscerlo, perchè altrimenti non comprenderemmo il dramma del cristianesi- mo nella storia. Il cristianesimo vive nella joria attenuando la propria altissima idea- lità. ma immediatamente rinnegando la pro- zia attenuazione. Il giorno in cui il cristiane- jiino mostrasse di avere smarrito questa ca- flC ità di reagire agli accomodamenti col se- colo presente, si rivelerebbe un cadavere in putrefazione. Siamo a questo punto? E’ inutile illudersi. Se il messaggio cristia- no è sceveramento e rovesciamento di valori, noi ne dobbiamo concludere che mai come oggi l’umanità è stata tanto lontana dal mcs- saggio cristiano. Noi abbiamo ricollocato sul piedestallo pagano tutti i valori che il cristia- nesimo aveva rinnegati. Noi abbiamo fatto ( ]i più. Abbiamo distrutto qualsiasi zona di se- parazione costitutiva fra il « secolo presente » c il « secolo veniente » facendo della vita em- pirica il dominio immanente dell’assoluto. Il Regno di Dio è svanito dalle nostre povere pupille di ubriachi deH’empirico. La crisi che travaglia tutte le confessioni cristiane e, più genericamente ancora, tutta la nostra spiri- lualità, non è una crisi intellettuale o cultu- rale, è una crisi etica. Noi — ecco il nostro spaventoso peccato — abbiamo ricollocato sulle are fumiganti di pagano incenso tutti i valori che il cristiane- simo aveva deposti e rovesciati. Abbiamo riportalo in auge i valori della pura cultura. e ne è risultata la più grande esplosione M odio fra uomo e uomo; abbiamo riportato m auge i valori economici, che il messaggio cri- stiano aveva detronizzati, e oggi assistiamo a uno scatenamento di lotte fratricide, quale mai forse nella storia si è avuto. Noi abbiamo riportato in auge i valori etici correnti, i va- lori effimeri, i valori sociali, di fronte ai valo- ri religiosi, ai valori che attingono la loro va- lidità dall’ispirazione di Dio nostro Padre e dall’aspettativa del Regno: e abbiamo finito coll’acuire gl’istinti più materiali e rozzi del- l’umanità. Di pari passo abbiamo obliteralo la genui- na nozione della chiesa di Dio nel Cristo. Fa- cendo della religione cristiana un’arida ed esteriore adesione ad alcune formule catechi- stiche; identificando la «chiesa» — viven- te realtà carismatica — con un organismo bu- rocratico, tutto saturo di casistica farisaica e tutto poggiato su procedimenti inquisiloriali, noi ci siamo preclusi la via ad una vivifican- te assimilazione di quella che è la genuina rivelazione della sociologia evangelica: la ri- velazione del « Corpo di Cristo » nella storia. San Paolo ne è stato l’enunciatore ispirato. Il cristianesimo segna nel mondo, proprio per opera di Paolo, l’apparizione di una tra- scrizione dell’aspirazione alla universale so- lidarietà nell’amore in termini di un mistici- gjno tli originalissimo tipo, che è tutto nella anellazione dell’individualità e nella sua sublimazione sacramentale nel Cristo. La tra- dizione patristica primitiva attribuisce al Cri- g lo un detto che, per quanto non registrato Iie j Vangeli canonici, rispecchia alla perfezio- ne l’atteggiamento fondamentale della espe- rienza cristiana al cospetto della vita associa- la; « Vedesti il tuo fratello? Vedesti l’Iddio tuo. Prostrati e adora ». Dopo secoli innumerevoli di sforzi fatico- si, tentati dalla vita associata degli uomini per stabilire un’equazione perfetta e una sal- datura inconsumabile fra il senso di venera- zione tremebonda al cospetto del mistero del inondo e il senso di seduzione sgomenta al cospetto del mistero che è in ogni nostro fra- tello, tra la religione cioè e la morale, Paolo per primo toccò la fatidica scoperta facendo della religione una permanente liturgia asso- ciata, e della magia, una creazione di carismi virtuosi. Non v’è sacramento che per Paolo possa essere avulso dal suo pragmatico va- lore normativo nell’economia morale della comunità. Egli enuncia in tutte lettere il po- stulato mirabile che il pasto eucaristico è la consumazione ineffabile di quel corpo misti- co del Signore che è la stessa fraternità degli eletti se realizzata nella pace, nell’uguaglian- za, nell’amore, nella comprensione e nel ser- vizio reciproci. Agostino commenterà un gio r . no: « voi mangiate quello che voi stessi sie- te: il corpo del Signore!». L’amore! L’anonima e secolare aspirazio- ne della civiltà umana ad un vincolo di soli, darietà universale, che tacitasse l’innumere- vole grido della terra intrisa di sangue frater- no dal di del primo contatto fra gli uomini toccava il suo acquetamento. Paolo prende, dal linguaggio popolare degli strati più bas- si della società sua contemporanea, il voca- bolo che doveva servire ad esprimere l’istin- tiva solidarietà degli umili, dei diseredati, de- gli oppressi, inclini a stendersi la mano nella comune bassezza e nella comune sventura, e ne fa la tessera di riconoscimento degli in- corporati nel Cristo: agape, amore! Non è la passione del senso, non è l’amicizia malfer- ma, non è il rapporto menzognero della con- sanguineità o della propinquità spaziale, non è la coatta disciplina esteriore delle organiz- zazioni materiali, sinonimo sempre di sopraf- fazione e di violenza: è il sangue che circola per entro le vene del corpo di Cristo, è il nuovo sangue che deve, pulsando all’unisono, riparare e riscattare tutte le effusioni di san- gue fraterno di cui è macchiata la vita aggre- gata degli uomini, dalla fondazione della pri- ma città per opera di Caino. Caino ed Abele. Il dramma cruento dipinto con tocchi abissai- piente potenti dallo scrittore jahvista del Ge- n gS i è il dramma immenso della modernità. Non lo placherà la filosofia: non sanno più placarlo le chiese. Non c’è che una conse- gna: quella della Lettera agli Ebrei : « Andiamo dunque verso di Lui fuori del- fdccampamento, portando l’obbrobrio di Lui. Clìè non è qui il nostro diritto di cittadi- txanza, di noi, che attendiamo la ventura Città!» (1). (1) Inedito; scritto per quest’/l/i<o/o</ia. 71 GIULIO EVOLA S \T0 A ROMA IL 19 MAGGIO 1889. | Evola parie dall’idealismo: il mondo è per lui ■fa rappresentazione dell’Io. Ma poiché l’Io subisce Kfa rappresentazione del mondo come nn limite e wLffrc in essa la sua passività, s’impone all’Io l’ob- blitpi pratico di sciogliere la sua passività in atti- vità riducendo il mondo sotto il comando suo, [a- j rendo di esso l ' atto dell’Io. La tecnica di questo pro- gresso di risoluzione del mondo nell’Io è data dal- l’Occultismo magico. Dall’innesto dell’Idealismo clas- sico con la Magia nasce /'Idealismo Magico di Evola. irò I; r„ Opere principali — Saggi sull’Idealismo magia - L’uomo come potenza - imperialismo pagano, To- di, Atanor; Teoria dell’Individuo assoluto - Feria- menologia dell’Individuo assoluto - Maschera e voi. to dello spiritualismo contemporaneo, Torino, Boc- ca; L’indivìduo e il divenire del mondo, Roma, Li- breria di Scienze e Lettere; La Tradizione ermetica Bari, Laterza; Rivolta contro il mondo moderno Milano, Hoepli. — Ha diretto le riviste Ur e La Torre. Dall 'idealismo assoluto all’idealismo magico. 1) La Grande Solitudine. Una volta che l’Io si sia costituito a prin- cipio a sè, a centro distinto di autoriferimen- to. il fatto stesso che egli possa comunicare con qualcosa di altro da lui, il fatto stesso che egli possa in generale conoscere, appare come un singolare mistero. E poiché è evidente che posto il soggetto da una parte, l’oggetto dal- l’altra non vi è più alcun modo di intendere come quella lor congiunzione, in cui consiste il conoscere, sia possibile; e poiché d’altra parte l’Io ha preso ormai coscienza di sè e 75 non può più tornare a quello stato di ingem )4 adesione, di compenetrazione con le cose cli f era appunto condizionato dal suo non esser.! si ancora posto; resta aperta una sola via al problema della conoscenza, e cioè: negar,, che l’idea di una realtà esistente in sè stessa abbia un qualunque senso, affermare che ] a sostanza delle cose consiste semplicemente nel loro venire rappresentate o pensate dal. l’Io, intendere dunque che l’intero sistema mondiale, nella ricchezza sterminata delle sue forme, con i suoi oceani, i suoi soli e ] t . sue vie lattee, non è che un fenomeno, una ap- parizione che è di questo Io e per questo Io, fuori dal quale non gli si saprebbe coeren- temente garentire alcuna consistenza. Lungo una tale via l’uomo vede dunque venir me- no progressivamente tutti quegli appoggi e tutte quelle naturali evidenze su cui prima riposava — tutto gli si fa ora dubbioso, pro- blematico, contingente. Tutto ciò che sa, è che egli ora si trova così e così determinato, che questa è la sua attuale esperienza, queste le leggi e le categorie secondo cui egli si trova costretto a pensarla. Ma circa il fondamento di tale determinatezza, di tali leggi e di tali categorie, egli non sa nulla, e così nulla sa- prebbe garentirgli che le cose, se così sono ed anche sono state nei casi osservati, non possano ad un tratto cambiare, che ogni uni- L rI )iilà cd ogni costanza non sia astratta e precaria, c h e , fondato su una radicale contin- g c,lZ za , questo sistema di fenomeni e di cate- ti» 1 ' j e non sia che un episodio fugace, disper- mia incoercibile, imprevedibile vicenda. in Se, dopo di ciò, l’individuo cerca ancora „ n punto fermo, egli soltanto nel suo « Io » può Irovarlo. — Il mondo è una rappresenta- r joiie, sta bene: ma si può forse parlare di Ljpprescnlazione, senza nello stesso punto resupporre resistenza di un « rappresen tall- ite». di un soggolo cioè che la rappresenti? [n mondo è un sogno: ma ogni sogno non im- Iplica forse un sognatore? Si può chiamare f a | S o, illusorio, non esistente l’insieme dell’e- sperienza — ma colui che sperimenta e affer- ma cotesta falsità, illusione, non esistenza non può essere, lui, falso, illusorio, non esi- stente. Di là dall’obliquità e dalla fluttuazio- ne delle « cose che sono e non sono » vi è dun- que una sola certezza: 17o. Soltanto qui l’in- dividuo, con un possesso, ha una realtà asso- luta ed in sè stessa evidente. Di tutto il resto _ dell’oceano sterminato dei nomi, delle for- me e degli esseri — non vi è reale certezza: parvenza, contingenza, violenza di un bruto, irrazionale « esser là », tali ne sono i princi- pi. * lo solo sono — il resto è mia rappresen- tazione » : in ciò si può dunque intendere la conclusione del secondo stadio della storia della coscienza. Prima di passar oltre, occorre rilevare v necessità che questo momento critico deli storia ideale dell’individuo sia portalo e vk suto sino a fondo. Non prima che egli abbj a di tutto dubitato e tutto negato, non prima eh,, egli abbia fatto intorno a sè il deserto, noft prima che di ogni realtà abbia sofferta I’j N realtà, di ogni evidenza la precarietà, di ogi,, luce l’oscurità: non prima che egli abbia di- strutto ogni appoggio e ogni rifugio ed abbj a realizzato il punto della «grande solitudine» — non prima di ciò l’individuo può chiamar- si veramente tale, non prima di ciò egli è un essere autonomo ed autocosciente. E’ quest,, atto negativo, questo assoluto strapparsi da quanto prima gli dava consistenza — che ora lo fa essere. Così come secondo l’energico del- to dello Stirner, l’Io non è tutto, ma ciò che distrugge tutto; per questa assoluta negatività albeggia nell’uomo quel principio tragico che — come fu distintamente visto dal buddhismo — lo fa superiore all’insieme della natura ed allo stesso regno degli « dei ». Si può precisare il luogo di un tale Io co- me segue. Ogni esperienza è inseparabilmen- te accompagnata dalla nota, implicita o espli- cita, di essere una mia esperienza. Uautorife. rimento, l’ahamkàra della metafisica indiana, è la condizione elementare, senza di cui non è concepibile alcuna realtà, giacché la sola 78 Il 11 di cui posso concretamente parlare è iella che, in un modo o nell’altro, si risolve r eal |:l in ull a mia esperienza. Ora è possibile stacca- fe cpiesto principio di autoriferimento dai particolari contenuti delle esperienze per ri- legarlo in un certo modo su sè stesso. Allo- ra s i ha: IO — IO, cioè una nuda esperienza, un possesso, qualcosa di semplice e di ineffa- bile. Questa nuda esperienza si presuppone, ,|i fatto e di diritto, a qualsiasi altra esperien- za si può dire che essa è come la tela sul- i a quale poi tutte le particolari esperienze si ritagliano: qui si ha quel «veggente che non -, mai veduto », quel « conoscente che non è ina i conosciuto », quel punto di centralità pu- ra di cui parlano le Upanishad, e rispetto a cui ogni particolare esperienza, fenomeno o pensiero è un « posterius », qualcosa che vie- ne dopo e che sta alla periferia. Si badi: qui non si tratta nè di un Io « superiore », nè di un Io « inferiore », nè di un Io « empirico », nè di un Io « trascendentale », — semplici no- mi e astrazioni concettuali — bensì del mio I>>, di quella assoluta presenza che sono nella profondità del mio essere individuale. Ora che un tale Io sia qualcosa di immoltiplicabi- lr, qualcosa che è « solo e senza un secondo », è troppo evidente. Parlare di altri Io da que- sto livello è infatti contradizione in termini. Gli altri Io, in quanto sono « altri », non so- no « Io », bensì dei particolari contenuti p P senti nella mia esperienza — dunque degl; oggetti, dei « conosciuti », al più il concett di un conoscente e di un soggetto, non il So getto, non il conoscente quale è in sè stesso (cioè: come autoesperienza), che, come t a |^ esso è unico e incomunicabile. Fenomeni pJj tieolari in questo grande fenomeno, che è il mondo a cui, come individuo, mi sveglio, « altri Io » ne partecipano la contingenza, so- no qualcosa il cui principio mi sfugge, di cui non ho alcuna reale certezza (forse che ara che i sogni non mi presentano la parvenza di altri esseri simili a me? E non potrebbe essere la cosidetta esperienza reale un sogno più po. tenie e costante impresso in me, come lo sup- pose la scepsi cartesiana, da un qualche spi- rito?), che cadono fuori da quel centro che, solo, può costituirmi una terra ferma nel gran mare dell’essere. E’ questo un punto su cui occorre richiamare particolarmente l’attenzio- ne: colui che, o per preoccupazioni morali e sentimentali — a dir vero riconnettentisi al- la precedente fase dell’evidenza naturale — o per insufficienza di riflessione critica, non sia giunto ad estendere il dubbio sulla realtà stessa degli altri soggetti, epperò a concepirli come null’allro che mie rappresentazioni, quegli non ha veramente condotto a fondo quel distacco, di cui poco fa si è parlato, ep .SO però non ha ancora perfettamente realizzala la pura essenza dell’individuale. Costui non è ancora maturo per il passaggio alla terza epoca giacché di nulla può avere assoluta I certezza quei che prima non ha saputo di tul- io dubitare. 2) La uia della Potenza. Passando dunque alla terza fase, diciamo subito che in essa si ha un superamento del lato negativo connesso all’adergersi dell’indi- vidualità. Come chi una avversa vicenda aves- se gittato sur una isola deserta incalzato, di là dal primo sgomento, dalla volontà di vive- re, va a cercare ed a creare mezzi per una nuova esistenza, così 1 individuo, che si sen- te ormai solo con se stesso nell’intero ambito del mondo, può essere portato a trarre dal proprio interno un principio che sappia fis- sare una nuova realtà di là dall’ordine della parvenza e della mera rappresentazione, in cui ogni cosa ormai è andata sommersa. Que- sto principio è: LA POTENZA DI DOMINIO. L’Io, infatti, non è una cosa, un « dato », un «fatto», ma, essenzialmente, un centro pro- fondo di volontà e di potenza. Come lo dice il Fichte, egli non è, che in quanto si pone — e soltanto un puro porsi è, a dir vero, il suo « essere ». Come tale si rivela, per un ul- c 8L teriore autoapprofondimento, la natura di quel punto fermo, che si è realizzato nel se- condo stadio. Ora questo punto fermo può comunicare la propria consistenza a quel che non ne ha, e ciò evidentemente quando si va- dano a riprendere secondo il rapporto pro- prio ad una affermazione incondizionata dcl- l’individuale i vari ordini di quella realtà, che prima appariva irrazionalmente, in bruta con- tingenza, senza partecipazione della volontà dell’Io — quasi come in un sogno. Resta da procedere ad una determinazione di questo stadio, tale che si definisca l’oggetto della presente trattazione, e cioè il rapporto del- l’individuo al divenire del mondo. Nel frat- tempo si può dire quale sia il criteiio di cer- tezza che si impone a questo punto. Esso è espresso dal principio: « Vi è assoluta certez- za — ed è postulatile realtà — soltanto di quelle cose, dell’essere o del non essere, del- l’essere cosi o dell’essere altrimenti delle qua- li l’Io ha in sé, in funzione di dominio, il principio o la causa', delle altre, solamente nella misura di ciò che in esse soddisfa ad un tale criterio». Queste cose dipendendo infatti interamente dalla potenza dell Io, partecipa- no dell’intrinseca evidenza che è inerente al nudo principio di questo. Volendo dunque sviluppare la posizione assunta dalla coscienza nel terzo stadio, si 82 ■ ns idererà l’unica vera obbiezione incontra- W dall 'idealismo assoluto. Nell’idealismo as- P 0lulO si ha la dottrina che cerca di trasfor- I re in qualcosa di positivo quel lavoro ne- 1 ,ivo di critica e di scepsi che definisce il Secondo stadio; e ciò cessando di intendere I il inondo come un fenomeno, come una sem- jj cC apparizione (unica legittima conclusio- I „ e dell’indagine critica) per intenderlo invece [ come qualcosa di posto, di creato dall’Io. Per- Bianto quando si parla non più di rappresenta- la bensì di porre e di creare, entra in giuo- Ico il concetto di una libera volontà, ed allo- I rii sorge questo problema: lo posso ben ri- B durre il mondo alla mia ruppi esentazione, nui fino a che punto posso ridurlo anche alla mia volontà ed alla mia libertà? Qui bisogna porre un punto fondamentale, e cioè intendere l’essenziale differenza che in- I lercorre fra spontaneità e volontà. Si ha spon- taneità là dove il possibile essendo identico al reale ossia dove quel che è essendo ciò che soltanto poteva essere, l’atto ha la forma di I una inconvertibile compulsione, di un bruto accadere e scatenarsi, ed è passivo, impoten- te rispetto a sè stesso. Invece nella volontà vi f è una eccedenza del possibile sul reale, non si passa cioè dal possibile al reale immediata- mente, ma un punto di autarchia, di « pote- stas», domina l’atto come l’estrema, incondi- zionata ragione del suo essere o del suo i 1(Jll essere, del suo essere così o del suo essere altrimenti come alto che è solamente uno c| e j possibili, anzi dei compossibili. E’ importante notare che tanto la spontaneità che la volontà possono dirsi libere: però mentre nella spoj,. taneità si tratta di una libertà affatto ncgatj. va, di una libertà cioè che vuole semplicenieji. te dire: «non essere determinato dall’ester- no», nella volontà si ha una libertà positiva, una libertà cioè che significa assoluta assen- za di condizioni, siano esse interne che ester- ne, e quindi contingenza, o, se si preferisce, arbitrarietà dell’atto. Una volta compresa questa distinzione, che non poggia tanto su concetti e sottiglicz- ze intellettuali, quanto piuttosto sur un dato immediato di coscienza, sur una evidenza in- terna che o si ha o non si ha, quando l’idea- lista assoluto di contro al sistema della realtà afferma essere stato l’Io a porlo, è evidente che egli si riferisce non ad una volontà, ma ad una spontaneità. Egli si riferisce infatti a quell’attività onde le cose vengono percepite e rese intime al nostro Io, a quell’elementare « assenso » onde ci si accorge di esse — as- senso che se è condizione necessaria per ogni realtà, in quanto realtà sperimentata dall'Io (e di altra realtà noi non possiamo coerente- mente parlare), è ben lungi dall’essere anche 84 r ^dizione sufficiente. Infatti nel rappresen- c , il reale non è dominato dal possibile, l’Io passivo rispetto al proprio atto — non tanto Lff ernia le cose, quanto piuttosto è come se i L » cose si affermassero in lui. Come la passio- ne e l’emozione, la rappresentazione è sì qual- , sa di mio, qualcosa che io traggo dal mio proprio interno (e fin qui arriva la legittimi- tà dell’istanza dell’idealismo, del resto soddi- sfatta sin dal Leibniz), ma non è me, giacché jo non posso darla liberamente a me stesso, giacché io non sto in rapporto di signoria alle determinazioni di essa, onde mi si dispiega lo spettacolo della realtà che è questa realtà, |l0) i la realtà che io voglio. Conseguentemeu- i c; in tanto l'idealista può dire di essere stato [lo a « porre » la natura, in quanto egli ridu- ce l’Io a natura, cioè in quanto di quelVlo, che. c libertà, non sa nulla, o, per meglio dire, fa come se non sapesse nulla, e, con evidente paralogismo, mutua il concetto di Io con quel- lo del principio di spontaneità. — Posso dire di essere stato io a porre la natura, ma io in quanto sono spontaneità, non in quanto sono propriamente un Io, e cioè libertà e domina- zione. — E questo è il primo punto. I! realista, riferendosi propriamente al punto della reale individualità, avanza dun- que una istanza che è interamente legittima. Egli ci pone dinnanzi ad una qualunque con- 85 tingenza dell’esperienza, per es. dinnanzi a ,| una tempesta, e ci domanda se possiamo ( |j. re di essere stati noi a « porla ». Mentre q U j l’idealista risponderebbe con l’affermativa e ciò perchè, come si è detto, per lui « porre > significa semplicemente rappresentare C o a « libera necessità » — noi invece, riferendoti ad un porre che il principio del dominio <• dell’incondizionata libertà comandi, rispon- deremmo: « Ciò, in verità, non è posto dal- l’Io ». Altro non chiede il realista per dire su- bito: « Poiché ciò non è posto dall’Io, vi deve essere un “ altro ” a porlo » — ed inferisce ad una causa reale o esistente in se stessa del- le rappresentazioni, quale Dio, la materia, il noumeno, ecc. Qui sta invece l’errore e il pun- to su cui ci si permette di richiamare tutta l’attenzione del lettore. — Dire che io, come lo, cioè come principio sufficiente e libero, non posso riconoscermi come causa incondi- zionata delle rappresentazioni, non vuole af- fatto dire che queste rappresentazioni siano causate da « altro » e abbiano per substrato delle cose reali o esistenti in sè stesse, ma vuole semplicemente dire che io sono insuf- ficiente ad una parte della mia attività, la quale è ancora spontaneità, che una tale par- te non è ancora MORALIZZATA, che l lo co- me libertà in essa soffre una PRIVAZIONE. Tutto ciò su cui non posso, tutto ciò che re- 86 5 j e a iia mia volontà, non è che una priva- tone di questa volontà stessa, qualcosa di ne- (ivo, non un essere, ma un non-essere. Per- il realista va respinto par ime fin de non ecevoir : egli nel suo riferirsi ad un « altro » ____ Dio, noumeno, sostanza, ecc. — fa del non- ^sere un essere, chiama reale ciò che essen- j 0 solamente una privazione della mia poten- za , essendo nuH’altro che una negazione ed ’ vuoto nel corpo immoltiplicabile della mia attività, si dovrebbe invece, secondo giustizia, dire irreale. Così conferma questa privazione slcssa __ così {ugge-, all’atto che, dominando- le, possedendole, annulla le cose (1) e redime la privazione, egli invece sostituisce l’atto che le riconosce e che dà loro superstiziosamente un essere e una realtà autonoma. Proprio al primo atto si appunta invece il criterio di cer- tezza della terza delle fasi indicate: esso chie- de cioè che l’Io libero e nudo dell’individuo possa veracemente affermare il principio del- l’idealismo assoluto, epperò dire: « In verità, io sfesso son la causa ed il Signore di questo mondo, in cui mi vivo ». Ma quando sarà pos- sibile affermare ciò? Evidentemente quando Tindividuo abbia redento in un corpo di li- ti) Naturalmente: le annulla in quanto sono al- tre, per affermarle invece come gesti di una vulon- U) potente. 87 berla l’oscura passione del mondo, quando abbia fatto passare la forma secondo cui egli vive l’attività rappresentativa (quell’attività cioè per cui si forma in lui lo spettacolo del- l’universo), da spontaneità — da coincidenza di possibile e reale — a nuda, incondizipnata causalità, cioè a: volontà potente (1). Ora che soltanto in una tale veduta l’atto dell’individuo abbia un valore cosmico, e che invece in quella del realismo all’attività ven- ga tolto ogni vero senso e scopo, può risulta- re ad ognuno chiaro. Infatti l’attività ha ve- ramente un senso ed un valore soltanto là do- ve vi è da far reale qualcosa, che già non e tale. Questo caso si verifica appunto là dove P « altro » — ossia ciò che rispecchia il limite (1) Come questa trasformazione, che affermiamo essere non un mito, ma possibilità reale, possa poi praticamente compiersi, è un problema da noi trat- talo almeno nei limiti in cui sia possibile pub- blicamente e genericamente trattarlo — altrove, c che qui non trova posto. Si può dire soltanto che è un compito a cui nè cultura, nè devozione, nè fi- losofia, nè arte, nè morale, nè nient’altro di ciò che gli uomini chiamano «spiritualità», può porta- re il menomo contributo. Quanto alla filosofia, il suo limite è l’idealismo magico, in cui perviene a rico- noscere la propria insufficienza e a postillare la rea lizzazione della potenza come ciò in cui i suoi mas- simi problemi possono trovare l’unica assoluta lo- ro soluzione. 88 Ella mia ,i,)erla — venga inteso non come ■"f 1 realtà» bensì come una negazione ed un K » 0 - allora il mondo appare come qualco- ' l \]i incompleto, come qualcosa che chiede E u a integrazione a quell’atto dell’individuo, ILe 1« necessità si faccia libertà, a quello f ii u pp° deirautoaffermazione onde l’attua- le potente dell’Unico si estenda e riaffermi r q U anto ne è la privazione. Se invece si po- f c i K . 1’ « altro » in quanto tale — cioè pro- |Ljo come quel principio che limita la mia |j!j )ert à — sia non una privazione e un non-es- bensì una positività e una realtà — allo- ro tutto è già perfetto, tutto è già « essere », e „on occorre far altro. Ogni scopo ed ogni va- lore dell’attività e del divenire, ogni respon- I «abilità vengono meno — giacché i vuoti del ìmio essere non sono anche vuoti dell’essere in generale: l\ altro», con la realtà attribui- tagli- li riempie. Invece nell’altro caso tutto il inondo appare come una oscura, dolorosa ri- chiesta all’Io affinchè questi si dia a sè me- desimo secondo potenza e, in ciò, lo attui nel- l'essere, in ciò lo redima dalla privazione, in ciò lo faccia reale. E il divenire — ciò che io faccio — ha allora un valore, un valore co- smico. Esaminando più da vicino la posizione realistica, si vede che essa si fonda su que- sto presupposto: che una attività imperfetta, una attività limitata da per sè stessa non poJ sa venire concepita, che non appena sia p r .ì sente una attività limitata si debba snjjju pensare a qualcosa che sia causa di questa li. nutazione. Infatti così sta la quistione nel p r() _ hlema della conoscenza: nelle cose vi è Utl aspetto per cui esse indiscutibilmente dip,.,,. dono dall’attività dell’Io, aspetto che si rif c . risce al loro venire in generale rappresentale o sperimentate; ma vi è anche un secondo aspetto, che rappresenta un lato negativo nel- l’attività dell’Io, riferentesi appunto aU’in 1J)(> . tenza di percepire, non percepire o trasmutare la percezione come si vuole. Ora su che cosa si basa il realismo? Appunto su ciò, che à sente il bisogno di dare una spiegazione a questa limitazione, che esso non vuole ammet- tere che una attività limitata, cioè una attivi- tà incompleta, sia ciò che sta prima, e quindi sente il bisogno di spiegare la limitazione con qualcosa di «altro»; si riferisce dunque ad una realtà distinta dall’Io come causa delle rappresentazioni. Ma un tale presupposto ilei realista è ciò che vi può essere di più conte- stabile. La concezione a cui si rimette è questa: che ciò che sta prima debba essere l’assoluto e che tutto ciò che è particolarità e finitezza non sia concepibile altrimenti che come una negazione operata da parte di un « altro » L Ila pienezza di questo assoluto preesisten- tratta cioè della posizione platonica e te -noziana, espressa dal principio: « Ciò che ' veramente, è l’universale; il particolare da 1 ' s è stesso non esiste, cioè: in ciò che esso 1,0 . l’universale, e in ciò che è propriamente Articolare non è, è fredda e piatta negazio- r s Ora ad una tale concezione si può con- Lmporre l’altra, secondo cui non si va a pre- ' apporre 1,asso,uto al finito e al P articolare ’ f. aim nette invece che ciò che sta prima sia {«recisamente il finito e il particolare, intesi *\ r ò non come qualcosa di in sè contraditto- Ijjjo bensì come qualcosa di incompleto, non conni qualcosa che non esiste da sè stesso, bensì come qualcosa che già in una certa mi- sura possiede l’essere e rispetto a cui l’asso- luto non ne sarebbe la negazione, ma lo svi- luppo- P unto in cui esso va a rentlere P er ' folto il proprio principio secondo un proces- so continuo dal meno al più, dalla potenza all’atto, da un grado più povero ad un grado pii, intenso di attualità e di essere. Ora in una tale concezione — che si impone dovunque sviluppo, sintesi e divenire non siano un vuo- to nome — a ciò che viene prima, in quanto viene prima, inerisce un certo grado di « pri- vazione », il quale gli è naturale e in nessun modo chiede di venire spiegato. La sua spie- gazione, se mai, non sta indietro — in un as- soluto limitato dalla potenza di un « altro » — bensì avanti — nel processo dell’incornpi^ to che si integra, della potenza che arde nel l’atto, onde non vi è propriamente da spiega re, ma da agire, da procedere in una più j, tensa affermazione (1). (1) E’ importante notare la relatività del conte!, to di privazione. Un dato elemento non è mai p ri . vazione in sè, ma sempre in relazione al valore del- Pautarchia. Il passaggio ad un tale valore fa di q ll( ,| che era positivo come spontaneità qualcosa di ne- gativo e di «in potenza» rispetto al punto ulterio- re. Cosi pure per chi non vuole passare dal punto di vista logico a quello della volontà il concetto di privazione non è intelligibile — ma allora l’ideali- smo astratto resta l’ultima istanza. — Quando si crede di superare la presente dottrina spiegando la privazione con una realtà distinta, non si fa un passo avanti ma un passo indietro, giacché si [ a uso della categoria logica della causalità, con il chi- questa stessa realtà diviene condizionata, logica- mente posta dall’Io. E il cerchio si richiude e il li- vello critico resta il limite. Si passa invece oltre per un assoluto positivismo. Quale è la differenza fra una cosa reale ed una imaginata? Rappresentate, lo sono tutte e due egual- mente; ma di là da ciò l’attività rappresentativa a cui corrisponde la cosa reale è una attività rispet- to a cui sono impotente. Vi sono elementi su cui non posso. Questo è tutto. 11 problema di interpretare questo non-potcre non lo risolviamo, perchè non lo poniamo e anzi tacciamo di intellettualistica, di astratta, di irrile- 92 Si può dunque contestare il presupposto lei realismo, si può non concedere il concel- |. gpinoziano del finito come negazione su : peso si basa. Poiché le cose sono, in quan- cu* ^ f anzitutto sono rappresentate, cosi che un ole rispetto a ciò che davvero importa a questo * unto ogni ricerca di tale genere. Questo è un punto fondamentale: noi affermiamo che la spiegazione EL] fatto che si è impotenti in certe situazioni con •| ricorso ad un « altro » — cosa in sè, Dio, « Sto- ricità dello spirito» et similia — è una psendospie- Laziorie, anzi un circolo vizioso per questo: che in noi il concetto di « altro » trae il suo senso e il suo fondamento dal concetto di « non potere », il quale l ciò che sta prima e di cui oggettività, cosa in sè, ilio. ccc. non sono che tanti simboli e traduzioni intellettuali. Le cosidette cose reali sono simboli ,1,1 mio non-potere, della mia privazione. E’ per- ché sperimento una privazione che chiamo reale una cosa c non viceversa. La privazione spiega il concetto di una realtà oggettiva e non la realtà og- gettiva il concettò di privazione. Segue da ciò una dichiarata professione di agnosticismo, un arre- co dinnanzi al nudo fatto del non-potere con ri- nuncia a spiegarlo come che sia*? Niente affatto. Ciò che neghiamo (non perchè non ne possiamo dare una, ma perchè tali spiegazioni non ci servono e non ci bastano ) è la pseudospiegazione intellettuale, che lascia i fatti come sono, che non trasforma il rapporto reale della mia potenza con le cose. (Si crede sul serio che la miseria e la contingenza che dannano l’essere finito siano in qualche cosa ri- mosse quando le si spieghino con la materia anzi- »3 grado di attività e però di positività è già j n , plicito; poiché l’Io si può sperimentare imme- diatamente come una energia, come un p r j n . cipio di azione, come qualcosa che non chi e . de ad altro il suo essere; poiché di diritto non esiste un limite inconvertibile per lo svilupp,, del potere; non vi è alcuna necessità di t ra . scendere, in ordine al problema del conosce- re, il concetto di una attività imperfetta (qu a . le è la spontaneità rispetto alla volontà) che solo, ci viene imposto da un esame positivo e spiegare la rappresentazione con il riferi- mento realistico ad un « altro » che la causi e la sottenda. In ciò si avrebbe non tanto una che con Dio. con l’ Io trascendentale anziché con la materia, e cosi via, in simili cattive e a buon mer- cato astrazioni?). La spiegazione che l’ idealismo mu- gico esige è ben altra: è una spiegazione mediuntt l’azione, una spiegazione risolutiva: è ex-plicare, os- sia attuare, rendere perfetto: far passare in atto ciò che è in potenza, in perfezione ciò che è imperfe- zione, in sufficienza ciò che è insufficienza, secon- do un processo sintetico, originale, creatore. Que- sta è la sola, vera spiegazione. Il resto è passatempo. Noi aspramente combattiamo tutta la rettorica intellettuale e filosofica onde l’uomo si indugia a discorrere intorno alla sua impotenza (ciò noi in- tendiamo quando ci si parla di « verità », « raziona- lità », ecc.) anziché balzare finalmente in piedi, im- pugnarsi e, ardendola, farsi ciò che in sé è: un Dio, un costruttore del mondo. 94 Baione intellettuale, quanto piuttosto il Rfjsnia infingardo di colui, che, insufficiente, dall’atto. ■perciò la concezione che si presenta al ter- s tadio dello sviluppo dell’individuale è, tj complesso» la seguente: un continuum di Eit’vità che ha per limiti da una parte la spon- f c ità, dall’altra la volontà libera. La spon- r c jtà è l’universale, la volontà libera l’indi- . i ua le. Questi limiti stanno fra loro come po- I a a d atto: tutto ciò che nell’esperienza è Eretti vità, immediatezza, necessità, è, rispet- to al punto dell’individuale, il non-essere ine- [fcnte a ciò che è in potenza — e qui si com- anderà forse a che cosa alludessero certi fistici quando parlavano dell’ « oscura pas- sione del mondo », dell’ « indicibile sofferen- za dell’esistenza » in cui il corpo dell’ « Uomo I celestiale » è crocifisso. Di una tale tenebra, di una tale privazione, la libertà è l’a//o e la Lm ma luminosa; e il mondo diviene, si fa reale secondo realtà assoluta soltanto in e per questa fiamma, cioè soltanto nella misura in cui l’individuo, affermandosi nel punto della potenza e della dominazione, consuma, arde ! la sua originaria natura, fatta di spontaneità. Da qui un punto fondamentale: Solamente nell’ « Individuo assoluto », solamente nel- l'«Autarca» il mondo diviene reale: la suf- ficienza che egli si dà a sè stesso dà alla na- tura un essere, una consistenza, una certe?*., e una ragione che essa, prima di lui, non p 0 . siede già, ma chiede. Onde cercare la verità e la certezza nella natura è un assurdo: <jj ac> che la natura in quanto tale è privazione axépTjotc e la certezza e la verità non l’ha i n sè, ma nell’individuo, epperò in tanto Pi la in quanto l’ individuo se la dia a sè stesso. // mondo è, soltanto se egli è. Ma questo essere egli non potrà mutuarlo da nulla, chè, avuto «la altro, esso non sarebbe più essere, essere essendo soltanto ciò che è da sè stesso < xxil’ aùtó); se dunque egli non si fa il salvatore di sè stesso, nulla mai potrà salvarlo. E’ così che la spiegazione e la verità non stanno dietro, ma avanti — e non in un dedurre, ma in un passare aH’atto. Tutta la natura, insieme di esseri condizionati, insieme di esseri che si rimettono ognuno ad altro da sè, gravita sul- l’individuo: quei che non ha bisogno di nulla, quei che non si appoggia su nulla — è ciò di cui tutti gli esseri hanno bisogno, su cui tutti gli esseri si appoggiano e con cui, nella misu- ra in cui essi sono, sono uno. Egli solo, come colui che ha in sè stesso il proprio principio, come colui che è « ente di possesso », clic è « persuaso », sostiene il peso del mondo: a lui, che consiste, il processo universale si appen- de e in lui trova la sua condizione, ciò per cui dall’eternità è, ed in cui ha la sua desti 96 1 nazione finale. Perciò solamente nel punto in cui l’individuo si attua nella folgorazione jello potenza sorge una finalità, una ragione f ii uno scopo nella natura: non prima ; è lui che gliela dà. Essa la chiede al suo atto. Ep- però un solo imperativo ha ormai l’indivi- ( | U o: «SII, fatti DIO, e in ciò fa essere, SAL- VA H mondo ». 3 ) Il mondo, atto dell’Io. A lumeggiare questo punto, connettiamo due ultime considerazioni, riguardanti l’una il problema dell’essenza e dell’esistenza, l’al- tra quello dell’uno e dei molti. Le cose sono essenza ed esistenza. L’idea di cento talleri e cento talleri reali non sono evidentemente la stessa cosa. Pertanto nei cento talleri reali, così come lo ha mostrato Kant, non vi è logicamente compreso nulla più che non sia nell’idea dei cento talleri. Ne segue che in tanto si fa differenza fra gli uni c gli altri, in quanto ci si riferisce a qualcosa ili irreduttibile all’elemento logico. Questo qualcosa è 1’ « esistenza », opposta all’ « essen- za » (o, più rigorosamente, 1’ « esse existen- tiae » opposto all’ « esse essentiae »). — Ed ora un secondo punto. All’essenza, al « che cosa è » di una determinata realtà principio t)7 esplicativo è il concetto: quando una realtà venga mediante il concetto geneticamente co- struita in tutte le note che la individuano, l’istanza esplicativa nell’ordine dell essenza è esaurita. Pertanto che un oggetto di cui si sia interamente penetrato ciò che è, sia, il nudo fatto del suo « esser là » come oggetto reale, ciò costituisce un punto che sfugge interamen- te alla spiegazione razionale, è un àXcyov — e principio esplicativo ad esso adegualo è non il concetto, bensì la volontà o, per meglio di- re, la potenza. Infatti il puro essere delle cose costituisce per me un mistero fin quando esso ha carattere di bruto dato, di qualcosa che è là senza partecipazione del mio volere, im- ponendosi anzi secondo violenza a questo; breve: come una privazione della mia atti- vità. Mentre l’essenza posso pensarla e quin- di « costruirla », l’esistenza semplicemente la patisco — e per questo mi costituisce una oscu- rità. Si imagini invece una situazione in cui possa connettere Tesserci delle cose al loro volerle incondizionatamente, cioè in cui la mia volontà avesse valore di potenza creatri- ce: allora la loro esistenza di fatto di là dal loro concetto cesserebbe di essermi un miste- ro, essa al contrario mi sarebbe perfettamen- te intelligibile — essa sarebbe spiegata. Es- senza ed esistenza hanno dunque per rispetti- vi principi esplicativi la costruzione ideale 98 . opera del pensiero e la causazione reale l"[ 0 pera della volontà. E questo è il secon- di punto. ‘ Il terzo punto è il seguente, che fra costru- F" nza od esistenza — non vi è differenza di « nnlinnlo /lì errarlo I .MHpa ò fTÌà 1111 ideale e volontà creatrice — quindi fra atura. ma soltanto di grado. L’idea è già un dell’affermazione reale; e la eosiddet- f* realtà oggettiva non è che l’affermazione pii 1 intensa e completa di quella potenza che. • forma elementare, determina la cosa sem- liceinente pensata o rappresentala. La real- tà non è che l 'atto dell’idea, ciò in cui questa individua ed esprime interamente sè, cosi co- pidea non è che una realtà in potenza, os- sia U na realtà semplicemente abbozzata o al- lo stato nascente. Fra l’una e l’altra non vi è dunque salto, vi è invece progressività. Il pen- derò di cento talleri e cento talleri reali non sono evidentemente la stessa cosa — ma ciò n0 n qualitativamente (cosi come potrebbe pensare chi crede che il pensiero, anziché un'Impotenza, sia l’imagine impersonale di una realtà oggettiva) ma intensivamente, nel sen- so che i cento talleri reali sono la più profon- da, intensa potenza, relativa propriamente al- l’atto magico, dell’affermazione corrisponden- te ai cento talleri pensati. Ed ora uniamo que- sto risultato a ciò che si è detto poco la. Vi è una esistenza che è morte, privazione, 99 irrealtà — e tale è quella corrispondente spontaneità rappresentativa, residuo .yl prima epoca, in cui l’atto è passivo rispep ^ sé stesso, die l’Io non domina come il SUo * gnore. Di questa esistenza non vi è certeàjj vera: non dipendendo da me come la n»« ne o 1 emozione, essendo un puro accade un principio di radicale contingenza la ripr e i de. Vi è invece una seconda esistenza, che i quella che una volontà elevatasi a pot eri2 può incondizionatamente produrre: sola mi^ ! te questa è propriamente esistenza, realtà ajJ solida, e solamente di essa — ove si trova L nn giunto soltanto con se stesso in un possesso ed in un dominio — l’Io può avere una reale) certezza. Fra l’una e l’altra di tali esistenze vi è l’attività mentale propriamente detta. J In altre parole: di là dal limite ideale del re- gno della pura necessità — della natura e della spontaneità — come di là dalla sua « privazione », l’individuo fruisce nell’ordine razionale o ideale di un primo grado dell’at- tualità sufficiente e della libertà. Questo gra- do procede verso la sua perfezione nello svi- luppo secondo cui la potenza si riafferma in livelli sempre più complessi e profondi della spontaneità — dell’antica natura o dell’uni- versale — fino a dominare lo stesso grado intensivo dell’esistenza reale. Allora da oscu- ra passione e da feroce deserto fatto di pii- 100 Rione, il mondo si farà l'atto stesso dell’in- Jjduo, ed in ciò sara redento e persuaso . . . Ji l'Individuo Assoluto. Si può raccogliere insieme nel modo se- dente quanto si è detto. Il punto di partenza è l’universale, il qua- L nell’ordine della realtà non costituisce il grado più ricco — come lo vuole il platoni- co — ■ ma invece il grado più povero, non il punto di arrivo, il terniinus ad quem, ma il punto di partenza, il terniinus a quo. In esso s j ha infatti il semplice stato dell’essere che trova sè stesso, che è pura spontaneità, che nini si possiede ma, semplicemente, è. Stato di pienezza e di luce per l’Io non ancor nato, t presso al punto dell’individuale esso appare invece come oscurità e morte: cosi in un pri- mo momento esso si dissolve nel mondo della parvenza e della mera rappresentazione; in Jan secondo momento viene sentito come pas- | suine infinita, come il dolore cupo e muto del- la privazione, come l’indicibile crocifissione nel mondo della necessità. Ma, nata da lui, questa morte l’individuo la assume ora con (gioia: egli è sufficiente ad essa; egli sa che soltanto il suo proprio, sovrannaturale valore I 1 essere fatto di possesso» ne è la causa; 101 egli la riconosce come la materia, dalla q„ a . lo soltanto egli potrà trarre lo splendore <ij una vita e di una realtà assolute. Ed allora l’oscurità gradatamente si illumina, allora dall’abisso della necessità sorge il fiore ferri . bile dell’Individuo assoluto. Egli si erge lei,, tissimamente nel cielo senza stelle, liacndosj dalla vampa di ciò che egli divora nella sua potenza. Le cose e gli esseri muoiono nell’i,,. tensità vertiginosa di lui che, gradatamente, irresistibilmente, diviene — che, spaventevoh nella sua purità, è « Signore del Sì e del K<> > <? Dominatore dei « tre mondi ». E in lui, ente di possesso, ente che «arde e fiammeggi! », il processo dell’universo avrà con il suo allo, la sua consumazione o perfezione tinaie. I Questo è, ad un dipresso, il senso del siste- ma che io sostengo; nel quale da una parte ho cercato di fondere il problema gnoseologi co e il problema ontologico con quello etico c della autorealizzazione o magico; dall’altra, di rivendicare il valore dell’individuo e di far- gli nascere la coscienza del suo compito e del- la sua dignità cosmica. j E’ ciò che io riconosco come verità, o, per meglio dire, è ciò che io voglio come verità (1). (1) L’individuo e il divenire del mondo, Roma, Li- breria di Scienze e Lettere, 1 5)2(5, cap. I. 102 PIERO MARTINETTI r SATÒ A PONTE CANAVESE IL 21 AGOSTO 1872. __ PROFESSORE ORDINARIO ALL’UNIVERSITÀ D 1 MILANO FINO AL 1931. Martinetti è kantiano, con forte accentuazione dualistica e religiosa. Tra la Ragione, unità intelli- gibilità libertà santità assoluta, e il mondo dell’espe- rienza sensibile egli scava l’abisso. In questo mon- do la Ragione non può attuarsi che in modo imper- fetto, approssimativo, simbolico. Scienza Morale Re- ligione consistono nello sforzo di penetrare sempre più il mondo sensibile di Ragione, pur nella consa- pevolezza che si tratta di un compito inesauribile e infinito. Opere principali — Introduzione alla Metafisica , 2* ediz., 1928; Breviario spirituale, 1923; Saggi e Discorsi, 1926; La libertà, 1928; Ragione e Fede, 1934; Gesù Cristo e il Cristianesimo, 1934 (Milano, Libreria Lombarda); il Vangelo, 1936 (Modena, Guanda). I. (lealismo immanente e Idealismo trascendente. L’idealismo immanente è un adattamento della concezione idealistica alle tendenze natu- ralistiche, empiriche: esso riconosce che il mondo è una grande realtà spirituale, ma li- mita questa realtà alle forme empiricamente date: questa realtà si svolge in un corso pe- renne sempre rinnovato e in fondo sempre eguale, e la perfezione più alta dello spirito sta neirimmedesimarsi con l’unità universa- 105 le, nell’elevare la propria coscienza al p Un| di vista della vita universale. L’idealismo t,- a scendente invece ha un carattere più prol' ( ,„. damente metafisico e religioso: per esso l a realtà spirituale che noi viviamo non è q Ua i che cosa di assoluto, ma tende a risolversi in una vita ed in una unità più profonda, t -| lt sono rispetto a noi trascendenti, che supera- no ogni nostra apprensione: e la vita non e un processo sempre eguale, ma un’ascensione verso un’unità che è presentemente a noi in ac . cessibile: la perfezione dei gradi e delle f l)r . me della vita dipende dal grado dell’unità che essi realizzano ed ogni forma più alta di realtà non è mai che un’immagine, un siili- bolo . . . Le teorie naturalistiche tendevano in ge- nerale alla glorificazione dell’individuo: an- che oggi coloro che pongono come valori su- premi i valori biologici debbono logicamente porre come centro e fondamento della vita l’individuo: perchè biologicamente parlando, la vita non si realizza in concreto che nell’in- dividuo e lo stesso sacrificio dell’individuo alla razza od alla specie non è che il sacrifi- cio dell’individuo presente ai futuri, o di un individuo ad un maggior numero di indivi- dui. La sola dottrina morale coerente rispon- dente a questa concezione è l’utilitarismo: che in fondo dissolve la vita morale riducen ]a ad uno strumento della vita e della con- grvazione individuale, la sola vera unità che S< bbia consistenza e valore. L’idealismo im- buente pone invece in generale come cen- b c cardine della vita l’unità morale collet- jjva. Ciò che è metafisicamente reale ed ha , a lore non è più l’unità biologica dell’indivi- duo, ma quella corrente spirituale che si svol- ge nella storia ed a cui l’individuo deve ser- vire. Ora questa corrente spirituale è lo stesso spirito umano nella sua unità e totalità: le attività sue esauriscono in ogni momento la realtà. Noi non siamo qui lontani dalla divi- nizzazione dell’umanità che ha luogo nel po- sitivismo di A. Comle e^che è anche una con- seguenza del così dettcT idealismo hegeliano. L’idealismo trascendente invece considera questa manifestazione dello spirito, che rag- giunge il suo più alto grado nella unità della vita morale, come qualche cosa che non è fi- ne a sè stessa, e che non potrà mai, per quan- to alto sia il grado di perfezione in cui la pen- siamo, costituire qualche cosa di avente in sè la propria ragione di essere: anche la mora- le, anche la scienza sono unità per loro es- senziale natura destinate a rimanere allo sta- lo di sforzi imperfetti e logicamente concepi- bili solo se si pensano come approssimazioni e preparazioni a qualche cosa di più alto che le trascende. E’ naturale perciò che esso non 107 consideri lo spirito umano come l’ultima ed essenziale realtà: ma veda nello spirito con creto e nelle sue manifestazioni altrettante rivelazioni imperfette dell’essere vero, altret- tante forme fenomeniche di un essere asso- luto. Ed è del pari naturale che per esso alla sfera della vita morale si aggiunga un’altra sfera più vasta in cui trova la sua espressio- ne la tendenza dello spirito a ricollegarsi col- la sua assoluta unità: questa è la sfera della vita religiosa. E’ specialmente nel problema religioso che le due concezioni si dividono. Mentre per l’idealismo immanente la religi 0 . ne o non è nemmeno un problema (quanta leggerezza!) o è pensata come qualche cosa che maschera e serve la vita morale, per l’idealismo trascendente la religione è il car- dine stesso della vita, e la vita morale non ha termine e consistenza vera che nella co- scienza religiosa (1). (1) Saggi e Discorsi, Milano, Libreria Editrice Lombarda, 19Ì29, pp. 70-78. 108 II. Ragione e Religione. La religione è un grado della vita, e il processo che conduce lo spirito a quest’altez- z0 è un processo complesso ed antico. Essa sorge sul fondamento di elementi innumere- voli della vita, razionali ed irrazionali, che la ragione utilizza e dirige; e le stesse visioni razionali primitive passano, con l’elevarsi del- la vita religiosa, in sentimenti, abitudini e meccanismi, il cui senso diventa, col tempo, impenetrabile alla ragione stessa. Nè l’ulte- riore attività riformatrice della ragione ri- spetto alla religione deve essere pensata co- me un ridurre tutto in forma di perfetta ra- zionalità per mezzo di una deduzione da principi, sull’esempio di S. Maimon, il quale rifiutava di salutare levandosi il cappello per- chè non vedeva a quale principio razionale ciò si dovesse ricondurre. Ma la visione su- prema che in ogni momento dirige tutto que- sto processo è una creazione della ragione, la cui funzione essenziale sta appunto nell’ele- vare l’uomo a quel presentimento dell’unità 105 ) che è l’intuizione religiosa fondamentale, e di penetrare da questo punto di vista il j )ro _ cesso complessivo della vita religiosa per ,|p rigerne lo svolgimento con l’eliminare o j| modificare gradualmente ciò che è in opp 0s j. zione con il suo principio più elevato. Subor- dinare la vita morale alla ragione non vuol dire eliminare la ricca attività emotiva e vo- litiva che l’accompagna: così subordinare la religione alla ragione non vuol dire ridurla ad uno schema dottrinale e trasformare gli elementi complessi e profondi della vita re- ligiosa in una sequela di deduzioni logiche. Se il compito della ragione è di elevarci alla visione dell’unità, conducendoci a ricono- scere che essa trascende la ragione e non è più rappresentabile che per mezzo di simbo- li, anche il concetto dell’ « assolutamente al- tro », cioè del trascendente, cessa di essere qualche cosa di straniero alla ragione. « Se il pensiero razionale va fino in fondo, arriva ad un irrazionale che è razionalmente neces- sario » (Albei'to Schweitzer): un irrazionale che è veramente un sopra-razionale e non de- ve essere confuso con tutto ciò che è pura- mente immaginativo o sentimentale e perciò irrazionale nel senso di « non ancora raziona- le ». Vi è quindi una mistica della ragione, che è la sola e vera mistica degli spiriti il- luminati . . . 110 Saturale conclusione della ragione è la co- oS ccnza simbolica. Un’intuizione razionale jfll’assoluto non è possibile; perciò noi lo rendiamo per mezzo d’un’espressione simbo- gj^. i più alti concetti filosofici non differi- rlo essenzialmente in questo dalle imma- Lini del mito. Ma vi è in questa espressione Simbolica una progressione creata dalla per- cezione crescente della visione e del simbolo: ! otto questo riguardo il simbolo razionale è I disopra del simbolo immaginativo; e seb- bene per la natura dello spirito umano l’ele- mento immaginativo non sia del tutto assente, L ragione conserva il suo privilegio in ciò die essa decide del valore dei simboli, e pro- gressivamente elimina ciò che è in contrasto con le sue esigenze. L’espressione simbolica è un’espressione per mezzo di termini inferio- ri potenziati e negati nel tempo stesso: le tre idee fondamentali di Fries (le idee dello spi- rilo, della libertà, di Dio) sono in fondo tre vie simboliche per cui la ragione traduce l’as- soluta unità: la negazione piena di realtà, che accompagna il loro contenuto positivo, è il «presentimento». Solo in questa forma, col- legate ad un contenuto concreto, queste idee provocano lo svolgimento d’una ricca vita sen- timentale: solo allora l’uomo non solo intui- sce il mistero, ma lo sente e si prosterna di- nanzi ad esso. La visione religiosa accoglie 111 quindi in se anche elementi simbolici iinxu a . giuntivi, non razionali; ma la ragione è i» essa l’elemento superiore creativo e direttivo Anche quando la religione è il risultato d’n n .j visione estetica (nel sublime), essa è ancora la visione d’un’infinita realtà; la via estetica sebbene irriduttibile all’elemento logico, £ una specie di via inferiore della ragione, nell’insieme della vita spirituale antecede ] a visióne razionale logica e, in seguito, ad essa si associa e si subordina. Quanto all’elemento sentimentale ed atti- vo che accompagna la visione religiosa, esso non è che un aspetto secondario e derivato dell’attività conoscitiva. Ogni conoscenza è già essa stessa un’attività in quanto è imme- desimazione con una realtà e perciò appren- sione di una perfezione, d’un valore: Dio è il valore più alto, dice Eckart, perchè è la real- tà immutabile. La conoscenza è quest’attività nel momento iniziale, creativo: di mano in mano che l’at,to spirituale viene respinto dal- la corrente intériore negli strati più antichi, il suo aspetto teoretico svanisce e viene preva- lentemente alla luce il suo aspetto pratico co- me sentimento e come tendenza (1). (1) Ragione e Fede, Milano, Ed. della Hivisla ili Filosofia, 1934, pp. 43-45. III. L’ uomo è libero in Dio. Le contraddizioni insolubili relative ai roblemi della predestinazione e della pre- scienza hanno la lonfl’torigine nel concetto an- tropomorfico (ed mi fondo naturalistico) di un Dio personale e nella posizione contrad- dittoria della creazione di esseri liberi. Esse- re liberi vuol dire essere partecipi della Ra- gione divina: dire che la volontà dell’uomo s j muove da sè (dice Ochino) è fare di lui un pio sulla terra. Ora come può la Ragione eterna creare in me un’altra Ragione, come può creare, cioè determinare, ciò che per na- tura sua non può essere determinato da al- tro? « L’affermazione che Dio crea e conser- va creature libere implica un’intima contrad- dizione, perchè equivale ad affermare che la potenza di Dio è infinita e finita ad un tempo: infinita in quanto crea, finita, in quanto l’essere creato è da essa indipenden- te» (Sigwart). Noi dobbiamo qui ripetere ed applicare rigorosamente quello che dice Sua- rez: « sicut non spedai ad divinam polentiam producere ens a se indipendens in esse, ita nec producere agens a se indipendens in agen- do, imo utrumque aeque repugnat divinae s 113 - r-r — perfeclioni et imperfectioni crcalurae». ^ è contraddizione anche solo il pensare eh Dio abbia potuto produrre un essere altro da sè: non vi è altro essere che Dio ed Ull essere da lui sostanzialmente distinto è ì, n , pensabile. Giustamente perciò dice Baader che Dio non può creare un altro essere, nia solo un desiderium sui come del vero ed uni-3 co essere, una indigentia Dei : e questa è l’ es . senza delle creature. Per questo alcuni teoio. gi, considerando la creazione di esseri libe- ri come inconciliabile con l’assolutezza divi- na, hanno insegnato che Dio, creando l’uomo libero, ha volontariamente limitato se stesso per esigenze morali, in quanto soltanto la bontà di esseri liberamente operanti può ave- re valore dinanzi a Dio. Ora, anche lasciando da parte il bizzarro concetto d’un Assoluto che si limita, questa giustificazione della li- mitazione divina è in contrasto col sentimen- to di tutti gli spiriti più profondamente reli- giosi, che hanno riconosciuto ogni eccellenza | morale essere non opera propria, ma dono gratuito di Dio: ciò che in fondo è assai più degno di Dio che non l’abbandonare la santi- tà e la salute eterna delle anime creale al lo- ro arbitrio, cioè al caso. Ogni concezione, del resto, che pone l’ordine divino delle cose uma- ne come un oggetto quasi di contrasto fra la volontà divina e l’umana e fa consistere il 114 u di un concetto ben inadeguato e indegna- mente umano di Dio. E se è contraddittorio in relazione a Dio jl fatto della creazione di esseri liberi, è del i contraddittorio in relazione al concetto p a n coniraiiuiii jli essere libero creato. Come può Dio rendere libero nell’atto della creazione ciò che per questo atto stesso è to- talmente determinato e che cesserebbe sul- l’istante di esistere se questa determinazione cessasse? Chiunque è stato fatto, dice J. Le- (fuier, è stato fatto privo della nobile facoltà di fare: la creazione annulla senza rimedio la libertà. Questa non può appartenere al- l’uomo se non in quanto in lui è veramente un momento, un modo increato della realtà divina. E se si volesse riferire a Dio tutto ciò die vi è di reale nell’essere creato, lasciando a questo soltanto la potenza della combina- zione formale, onde nasce il difetto, questo sarebbe un convertire il dono divino della li- bertà nella potenza del male: d’altronde an- che la combinazione formale è qualche cosa di positivo e di reale irriducibile ad una sem- plice negazione. Finché si pensa Dio come un’unità con- trapposta alla nostra individualità spirituale, il fatalismo è inevitabile. La sua realtà infi- 115 nita non lascia più posto ad alcun altro n ìnt ,j re: la libertà d’uno spirilo finito è accanto ad essa impensabile. Dire che Dio possa creare i»li spiriti finiti come liberi è un dire che Di 0 possa mettersi in contraddizione con sè stes so e ritirare l’essere suo da un momento del- la realtà: perchè uno spirito libero è per ( | e . finizione un momento incondizionato ed as- soluto della realtà. Non vi è dunque altra vj ; , che salvare, come dice Schelling, l’uomo stes- so con la sua libertà in Dio: assumere die ciò che nell’uomo costituisce l’essenza della libertà appartenga, come un momento asso- luto di Dio, a Dio stesso. Ora la prima condizione perchè ciò possa avvenire è che Dio sia pensato come Ragione perchè soltanto una Ragione infinita può es- sere concepita come l’unità vivente d’una molteplicità infinita di rapporti e di elemen- ti ad essa coessenziali. Questo è ancora sen- za dubbio un concetto simbolico derivato dal- la nostra ragione: ma è il simbolo più alto e più adeguato a noi accessibile. Il fatto che la ragione non può elevarsi intuitivamente fino all’Unità assoluta non giustifica nè il caos ar- bitrario dell’irrazionale, nè la capricciosità vaga del sentimento, a cui s’abbandona vo- lentieri la religiosità morbosa delle piccole menti. La religione è la creazione della ra- gione, che compiè in essa il suo ultimo sforzo 11(5 c divinata ed agognata, sebbene non più detcr- ,j n abile dalla nostra ragione se non per mez- i0 di simboli. La seconda condizione perchè questa Ra- tjone divina non sia per noi qflalche cosa di straniero, a cui la nostra volt Jità soggiaccia coinè ad una forza naturale qualunque, è che jn essa il nostro io, ciò che costituisce il no- stro io più profondo, non si perda come in una generalità tenebrosa ed astratta. L’indi- vidualità isolata e la generalità astratta sono i due scogli, contro i quali la nostra libertà ugualmente urta, i due termini che esigono ^na conciliazione. La quale può aver luogo soltanto nel genuino concetto dell’Unità uni- versale e divina pensata non come un’univer- salità pura, ma come una vera omnitudo rea- lilatis, nella quale ogni momento della ragio- ne è conservato e sublimato come un suo mo- mento essenziale: conservato nella sua real- tà indistruttibile, che noi qui sentiamo ed esperimentiamo nel nostro limitalo io in quau- !o ragione, sublimato nella sua unità con tut- ti gli altri momenti, in un divino accordo, che trascende ogni nostra potenza di concepire. L’essenza e il principio della libertà del- l’uoino è dunque nella sua personalità divina, nell’essere suo assoluto così come è coessen- zialmente nella Ragione assoluta — tale è la 117 conclusione estrema, alla quale dobbiamo ar- restarci. Questo concetto ci spiega il valore universale ed umano della libertà ed il ca _ rattere e la funzione quasi religiosa che essa ha nella vita umana. L’uomo si getta con ar- dore su tutti i beni, perchè in ciascuno di es- si cerca il bene che sazii definitivamente le sue aspirazioni insaziabili: in nessuno di es- si egli può tuttavia arrestarsi: perciò al diso- pra di ogni bene egli ama la possibilità di scio- gliersi dal presente e di volgere il cuore ver- so i desideri e le speranze dell’avvenire. Ma in fondo a questo amore vago della libertà arde, ignorato, l’amore per cui ogni uomo de- sidera il vero ed unico bene ed aspira a ricon- giungersi con la sua natura divina. Per que- sto l’amore della libertà è l’amore piu alto ed universale dell’uomo: egli la cerca sotto tutti i cieli, in tutti i gradi della civiltà, in tutte le forme dell’attività sua: e l’uomo che lolla per la libertà ci riempie l’anima di simpatia e di rispetto anche se, per ignoranza o per pas- sione, egli la cerca tumultuosamente la dove essa non è... La moralità, la scienza, l’arte, la religione sono il fiore piu delicato della libertà: qui veramente la libertà si identifica con la stessa essenza divina dello spirito e la negazione della libertà è negazione di Dio (1). (Il La Libertà, Libreria Editrice Lombarda, PP- 488 - 492 . 118 COSTANZO M1GN0NE A T0 IL 15 FEBBRAIO 1891 IN ALESSANDRIA. ___ PROFESSORE NEL R. LICEO « COLOMBO » DI QENOVA. Sei suoi diari tra lirici e filosofici Mignone in- 'iste con forza sul concetto che il mondo dell’espe- rienza sensibile, caotico contraddittorio imperfet- to com’è, non può essere il mondo ultimo e defini- tivo’ esso non può essere che l’opera imperfetta di un Principio di vita che non ha ancora pienamente attualo tutta la sua potenza e che, forse, l’attuerà giorno in uno slancio supremo di creazione. Opere principali — Alla ricerca di Dio, 1924; Colloqui con Dio e con gli uomini, 1927; Sui sen- tieri dell’infinito, 1930 (Soc. ed. Dante Alighieri». Dio sogna e soffre. I. La condanna suprema del mondo è in noi. La nostra mente si trova dinanzi a una condizione di cose che essa, guidata dalle pro- prie leggi, non potrebbe mai ammettere co- me possibile e invece non solo è possibile ob- ettivamentc, ma è anzi l’unica realtà esi- ente. Per questo l’uomo potrà vedere ed os- rvare, ma non comprendere. Le leggi del suo spirito, la logica delle sue aspirazioni più 121 potenti e profonde, fanno a pugni con le leg. gi c con la logica che governano tutte le cose del mondo. II. Dove non vi è alcun ordine e tutto è orri- do in fondo vi è anche una tal quale armo- nia, sia pure negativa; vi è un tal quale ordi- ne nel senso che tutto, nessuna cosa eccettua- ta, contribuisce a creare disordine; vi è, i R . somma, una tal quale unità e pace, tutto fa- cendo guerra a tutto. Invece in questo mondo che noi viviamo v’è il brutto ovunque mesco- lato col bello, il vero col falso, il buono co! cattivo; ciò che armonizza e ciò che contra- sta 1 ciò che piace e quello che dispiace; quel- lo che attrae e quello che ripugna e via via. Onesto non succede nell’inferno; là lutto è brutto tutto contrasta, tutto dispiace, tutto ri- pugna’. Da noi è dunque il vero disordine completo, la vera disarmonia completa, as- surdo realizzato, il male assoluto e concreto. Il vero inferno è di qui e non di la. III. Molti si confortano guardando all’aweni re storico, sperando nel progresso, nel perfe 122 ioiia mento ecc., ma tutto ciò è ridicola ìllu- *. one , finché non viene un mutamento nelle j'ti stesse delle cose, ossia nelle leggi che governano l’animo nostro. Deve cambiar l’uo- ^ )0( se s i vuole che mutino le sue manifesta- ^oni- Fino a clie perdureranno le condizioni attuali di esistenza, rimarranno, per quanto •à forma diversa, le medesime contradiziom - i medesimi dissidi. ! Da molti fatti parrebbe dedursi che l’uo- mo sia un essere non riuscito. Non è impos- sibile che dalle sue rovine sorga chi realizzi iù ampiamente lo sforzo dell’universo. Ma sono rovine; rovine che possono accennare «uà e là al grande disegno, come i pezzi di UI1 capolavoro incompiuto; ma sempre, nel loro rapporto esteriore, qualcosa di inorga- nico, di confuso, di contradittorio. IV. Tutto è follia oggi, tutto è caos; ma non è assurdo un altro pensiero e quindi un’al- tra realtà. Tanto meno è dunque assurdo il mio sforzo verso questo nuovo pensiero e questo nuovo reale, per quanto senza un me- todo e come a tentoni. Non è questo il pro- cedimento che fu solo finora possibile alla vita intera? Essa, a principio, non aveva intelletti, noi, possedeva alcuna scienza nè di Bacone nè di Stuart Mill, eppure ha saputo lare cose e stru- menti che nessun ingegnere del mondo sa- prebbe nemmeno imitare. Perché dovrei dun- que rinunziare all’unica speranza che mi i a . sciano le leggi della mia ragione applicata alle cose e a se stessa? Sarà 1 ultimo ingan- no? Non possono costituire prova assoluta gli esempi del passato, i miracoli dei secoli tr a - scorsi? Sia, ma nemmeno si può tiare la prò- va assoluta del contrario: che il prodigioso processo di creazione fin oggi svoltosi si sia eternamente meccanizzato in leggi che deter- minano d’un colpo tutto l’essere. Fin là è il mio diritto alla speranza e alla fede; fin là posso anch’io invocare il mio Dio. V’è una religione anche per me, aspra e du- ra, ma è pur una religione; misteriosa e ter- ribile, ma come tutte le cose che. ora mi cir- condano. V. E andate, e predicate, dicendo: Il re- gno dei cieli è vicino — fu questo secondo al- cuni modernisti l’insegnamento fondamenta- le e più genuino del Cristo. Esso è pure, secondo la critica più comune, l’insegnamento che ripugna maggiormente al pensiero moderno. 124 Mentre nella mente di Cristo il regno ul- jinio della Giustizia e della Verità e della Vi- è inteso nel senso trascendente, recato da pio nel mondo, nella mente dei pensatori mo- derni il regno dei cieli è inteso come un idea- le dello svolgimento storico della coscienza emana. In Cristo l’avvento del regno dei Cieli era poi, naturalmente, collegato colla fine di que- s ( a vita e tli tutte le sue miserie ed imperfe- zioni, mentre per il pensiero moderno tale fine è inconcepibile ed assurda. Di più, il regno dei Cieli di Cristo signifi- ca una soprannaturalizzazione di tutta la no- stra realtà sia spirituale come fisica, di mo- do die la stessa attività morale è superata e annullata nella nuova vita. Invece per il pen- siero moderno vige la legge della continuità, e l'elica, anzi che da superarsi, costituisce il nocciolo stesso del valore umano e quindi di significato immortale. Io credo tuttavia che il Cristo, spogliato del suo dogmatismo mitologico in stretta re- lazione colle idee dei suoi tempi, abbia assai più ragione dei suoi oppositori, scienziati o filosofi, moderni. Io sono precisamente d’opi- nione che il problema di Cristo sia ancora, nei suoi termini precisi, il medesimo proble- ma che deve urgere qualsiasi mente logica nelle attuali condizioni di vita. O si pensa a 125 u una vera e propria trasformazione delle leu. denze e delle forze che governano l’esistenza, o si deve dichiarare il fallimento dello spiri, to nel mondo. I concetti di evoluzione o di storia sulla base dei valori attuali sono in. soddisfacenti, perchè gli stessi valori sono cri- ticabili. Quando si dice, per esempio, che i] valore etico è un valore insuperabile, un va- lore necessario alla vita umana, io sono con Cristo, il quale crede al carattere transitorio di tale valore. VI. 0 Dio, o padre del mio dolore, forse an- che tu soffri, forse anche tu conosci l’affanno dell’esistenza. Forse il tormento è anche più grave per l’anima tua che vede distendersi innanzi come in un quadro immenso la tra- gica storia della vita nel mondo. Forse tu piangi più di noi; perchè la tua mente più sagace vede più chiaro la tristezza di non po- ter dominare la prepotente forza che si spri- giona dal tuo profondo essere, e aggiunge de- solazione e martirio al tuo povero cuore. For- se tu, o Dio, sei la figura infinita di questo cuore umano, preso tra le maglie di una ter- ribile contradizione tra la violenza dei suoi desideri e l’incapacità dell’intelletto a conte 126 L r u o sodisfarli. Forse anche tu, o Dio, hai n cuore magnanimo, ma la tua potenza sfol- gorante soggioga ogni legge di bene e nella Necessità della sua espansione, del suo erom- er e in liberi sfoghi di esistenza, è forse la r adK'e della tragedia che copre l’universo, la a( |jce che non disseccherà. VII. Noi siamo il sogno di un Dio che dorme. Sogno e Dio parlarono come due simboli di ( | U e realtà profondamente oscure. L’unica co- sa chiara, l’inganno enorme dei semplici che elìdono alle ombre che si aggirano e si tur- bano nel mondo come cose e sostanze di di- ritti e di leggi ingenite. Noi siamo il sogno di un Dio dormiente. Iddio dorme e sogna, noi siamo le ombre va- ganti dei suoi sogni. Iddio è potente, infini- to; ma sparpaglia la sua potenza nella con- vulsione di un pensiero che ignora sè stesso. Iddio non si è ancora raccolto nella vita del suo spirito e si lascia vivere pigramente nei pensieri delle sue forze e delle sue tendenze senza fine. Quando sorgerà l’alba del suo risveglio? Quando, alzando il capo dalla fosca notte, po- trà dare uno sguardo agli orizzonti sangui- gni dei mondi creati nell’orrido sonno, e, S(Jr . ridendo, fissare il nuovo sole che s’avanza d a lontano ad avvivare per la nuova vita l a t er . ra e il cielo? Il nuovo sole che fugherà riU u . sion triste delle tenebre e della morte? O uomini, sperate! L’Idea del mondo dor- me, ma vive; sogna, ma pensa; volgetevi «i secoli che la risveglieranno dal suo sonno e dal suo sogno, e vivrà e penserà in voi, tutta pura e serena. Una grande profonda incubazione è il tor- mento dei nostri giorni; o uomini, rinsaldale la vostra fede; se le vostre opere si sciolgono e disperdon nel mondo come piccole gocce versate in un arido e immenso deserto; sg voi siete e non siete nell’oscuro annunziarsi delle cose, pensate che Tesser vero non è an- cor nato; non è ancor nato il giorno della no- stra vita. Voi camminate nelle tenebre, camminere- te un dì nella luce (1). (1) Da Alla ricerca di Dio, Soc. ed. Dante Ali ghieri, 1924, pp. 189, 150, 119, 123, 179, 280, 10G. EMILIA NOBILE S\TA A NAPOLI. — LIBERA DOCENTE NEL- l' UNIVERSITÀ' DI NAPOLI. — BIBLIOTECARI A SELLA BIBLIOTECA NAZIONALE DI NAPOLI. Seguendo Jakob Boehme e contro ogni forma di monismo, Emilio Nobile afferma che al fondo delle cose è un dualismo di forze che si danno battaglia e che non possono mai comporsi in definitivo e per- ielio accordo. Il Male è forza altrettanto reale ed efficiente del Bene, il quale non riesce — quando ci riesce — che solo provvisoriamente e parzialmente a domarlo. Di qui, una visione dinamica e tragica del mondo, della vita, dell’uomo. Opere principali — Dualismo e Religione, 1927; Jakob Boehme ed il suo dualismo essenziale, 1928 (Soc. ed. Dante Alighieri); Il Dualismo filosofico, 2* ediz., Napoli, Tip. Riano, 1935. Ogni nascita è una morte infinita. Se la vita, sotto un certo punto di vista, appare sintesi, questa sintesi non è, nè può essere, assoluta nè totalitaria, ma è continua- mente condizionata a discriminazioni indivi- duatrici e selezionatrici di elementi tratti dal- la universa realtà; realtà dalla quale il viven- te cessa di discriminarsi solo nel momento in cui si disfà, si decompone, e la corrente che era fiume si riconfonde nel mare . . . 131 Anche se vogliamo, ponendoci da un pun- to ( |i vista materialistico, considerar la vita come reazione chimica, ogni combinazione non scompone neH’atto stesso del comporre? ()gni combustione, a cui più specificanti* lc jc teorie moderne tendono a ridurre la vi- la , 1(>n è assorbimento separatore dall* am- biente» scompaginamento utilizzatore di altre unità? ... Ogni organismo non nasce torse con un a tt 0 di separazione dall’infinito? Ogni pianta che nasce non implica il disfacimento del se- me'' Non implica selezione di un materiale uti j c da un altro materiale inutile? Ogni pul- sU1 te centro di vita non implica ritmo di di- scriminazione, di individuazione del soggetto vivente da! resto della realtà? Ogni vita non si niantiene scegliendo o distinguendo ciò che J e è utile da una realtà che le fa da deposito c ^agazzino di materiale?... E quanto al passaggio dal mondo inorga- nico a quello organico, a questa soglia sulla de incontriamo la vita, tanto se la conce- piamo meccanicamente, come « effetto » e non causa, come « prodotto della cospirazione di foi-ze inorganiche », come lo intese il Blii- ^ln-r (contro la sostantivazione autonoma che delle forze vitali fanno i vitalisti contrappo- nendole a forze inorganiche come il peso, l’elettricità, il magnetismo) quanto se la con- gjcleriamo come espressione di un autofinali- Ljjo come fece il Darwin o di una elementare forma di coscienza come fece il Dastre, non possiamo negarlo come fenomeno di duali- stica separazione. Anche a prescindere dal termine da cui la sorgente vita si discrimina e separa (il com- plesso inorganico da cui sorge ed a cui si contrappone come distinta), perchè la vita fosse prodotto di cooperazione di forze inor- ganiche resterebbe a spiegare perchè in vista ili (luci fine (ossia di quel termine a cui ten- dono o schema che vogliono realizzare) le for- ge inorganiche cooperino, e, compiuta la loro opera, il vivente organismo, non lo disfaccia- no continuando ad operare a caso. E siffatta spiegazione non si può tentare che da un pun- to di vista teleologico, di una mèta sia pure inconsapevolmente perseguita, e idea di fine è idea di termine ad quem, sempre dualisti- camente distinto dalle forze che tendono a raggiungerlo. E quando poi si considera la vita come fe- nomeno essenzialmente psicoide, come attivi- tà tendente ad un fine (entelechia), come fece il Driesch, e se ne fa, come il Keyserling, « la testura del mondo » (Dos Gefiige dcr Welt), la « realizzazione dell’ anima del mondo », è evidente che si intende sempre mantenere la distinzione tra l’entelechia e la materia più o 138 meno sorda ad essa, tra la testura e il mate- riale che ordina e regge, tra Yanima e il cor. po del mondo. E sorto che sia il mondo organico ogni or- ganismo, in quanto avente vita di relazione, è unità relativa ad altre unità, singolarità, non unità assoluta, che è infinità indetermi- nata e quindi neanche unità. Un organismo totalitario in senso assoluto, che non avesse nulla fuori di sè, non potrebbe avere specifi- cazione di organi: poiché ad ogni specifica- zione di organi, e non solo a quelli della vi- ta di relazione, corrisponde un determinato ordine di rapporti con la realtà exti aorgani- ca, una determinata relazione con, minerali, piante, animali esterni all’organismo che so- no, per lui, come magazzino di materiale; co- sì la digestione suppone i cibi, la respirazione l’atmosfera, la locomozione il suolo sul qua- le i piedi possano muoversi, la sensazione gli stimoli eccitanti e via di seguito. Ogni pianta fa sua cosa, strumento, materiale, dei mine- rali e delle sostanze organiche che trova nel- la terra; ogni animale erbivoro fa suo stru- mento, negando loro un fine proprio, delle piante di cui si pasce; ogni carnivoro fa sua preda di altri animali; e di tutti gli esseri in- feriori, per vivere, l’uomo fa sua preda, ne- gando loro un proprio fine, interrompendo bruscamente il corso a cui la natura li aveva indirizzati. 134 E d’altra parte non è insita alla natura stessa della vita la continua repulsione di re- litti, di residui, di elementi che, guardati ab intra del soggetto vivente, non hanno signifi- cazione nè valore immediato ma sono per l’organismo, o tali divengono, un inutile altro da se? Non è forse la vita, sotto un certo aspetto, ciò che la definì lo Schopenhauer, ossia « un niorire incessantemente impedito » ( ein stels gehemmlks Sterben )? Ond’è che l’antagonismo che esiste tra le forze generali della natura non esplode tanto nella morte, come sostiene il Lelut, quanto nella vita stessa, che già nel secolo XVII lo Stalli e nel XVIII il Bichat non vedevano altrimenti, nel suo dinamismo, che come forza di resistenza e che il Bolline nei suoi Problemi teosofici (p. 600) definì « un eterno morire della tranquillità e della sere- na unità »... In realtà il tutto, concepito come monade infinita, non può essere inteso come organi- smo che si mantenga sempre organico e vi- vente in tutte le parti: organismo suppone molteplicità quantitativa e qualitativa di spe- cificati organi all’interno, varietà e quindi non unità qualitativa, molteplicità e quindi non unità quantitativa, all’esterno. Le stesse « veci eterne » o vicissitudini del- l’unica materia che per costruire una entità deve disfarne delle altre, provano che è un grave errore considerare il tulio come tutto vivente in ogni sua parte e sempre. E’ un er- 1 rore il desumere dalla generalità stessa del concetto di vita il suo contemporaneo inerire a tutte le parti del reale. Se non è vero che la vita è « di sua propria natura uno stato vio- lento », come fa dire Leopardi a Tasso nel dialogo tra T. Tasso e il suo genio familiare, non è, per questo, stato idilliaco ed esteso od estensibile contemporaneamente a tutta la natura. E mai il Guyau è parso tanto utopista co- me quando ha sostenuto, tanto nel VEsquiue d’une morale sans obligalion che nella Irré - ligion de l'avenir, che tutto l’universo vive. L a vita è come il sole, che per illuminare una parte della terra deve lasciarne un’altra nelle tenebre ... E nella stessa vita sociale, del resto, ogni trionfo umano suppone una di- sfatta, è come un convesso che iniplica un rovescio concavo. Sicché dal suo punto di vij sta non si può dire sia nel falso (quantunque sia giusto colpire siffatti giudizi di condanna di illiceità morale) l’impotente invidioso che nel trionfo altrui vede una sua sconfitta. E questa è la ragion per la quale non ha torto chi, come Darwin, riscontra normale la lotta, chi, come il Rignano, nega un finalismo universale, ma lo ammette paiziale. «Mora 13 (> vita mea », dice il comune proverbio e tU .esto motto è, in ogni momento, illustrato ] n a eloquenza della realtà. Non avrebbe sen- j a definizione aristotelica della vita come £ llo di tutto ciò che si « nutre, cresce e muo- 1 » (1) se tutto contemporaneamente dovesse 1 putrirsi e crescere ». E contro il panvitali- l0> condizione essenziale del panteismo, n ’è poco efficace, proprio nel senso aristo- telico, l’obiezione che Abelardo, il « Peripa- teticus palalinus », fa nella Introductio ad fheologiam (2). Morte e vita infatti sareb- bero impossibili nei singoli ove tutti i ossiino animali, perpetuamente, dall’anima del mon- do. Posta la quale non c’era bisogno di crea- zioni d’anime personali ... Quello che preme, qui, avere assodato è c he vita, organicità in genere, non si possa concepire senza separatrice discriminazione di ciò che nasce e si forma da ciò che preesi- steva. Idea che forse in nessun filosofo ha as- sunto tanto vigore, è divenuta così insisten- te e chiara come nel Bolime, che chiama abi- tualmente «Separatore Dio in quanto crea- tore, e che nel capitolo X (p. 474) del 1 on Meliseli werdung J. Christi apertamente di- ti) De Anima, lib. II, par. I. (2) V. voi. CLXXVIII del MigNe: Introd. ad Teol., | lib. 1, p. 1023. 137 T ce: « Ogni cosa, erba, fieno, albero, animai^ uccello, pesce, verme o qualsivoglia creatura è utile ed è stata prodotta dal separatore tii tatti gli esseri ossia dal Verbo e dal divisibile volere di Dio ... ». 11 che peraltro è quotidianamente confer- malo, nel campo del sentimento, dalla legg e psicologica del dolore che prepara ogni na- scila, che accompagna ogni gestazione, che è sempre, sia nel campo fisico sia in quello spi- rituale, separazione organizzatrice del nuovo dall’antico. Del resto che cos’altro esprime la metafora platonica della gestazione spiritna- le sulla quale tanto il filosofo insiste nel Con- ' aito (1) se non il dolore di quella separazione dall'infinito che è implicito in ogni nascita? Metafora assai drammaticamente usala dallo stesso Bolline nel capitolo XVI dello stesso Voti Menschwerdung Christi. Menschwer- dung che è piuttosto che un farsi uomo di Cristo, un indiarsi dell’uomo, un passare dal- le tenebre dell’incoscienza alla chiarezza del- l’autocoscienza. Del resto chi non sperimenta, anche nella più modesta delle ricerche conclusive (e non solamente all’inizio ma anche durante il cor- so della indagine), il dolore della necessaria circoscrizione del campo, la sepia azione dal- li) V. Convito , cap. XVII, XVIII, XIX. 138 \'in finito? Come anche il lavoro stesso, lo forzo produttivo, perchè riesce tanto grave * penoso se non per l'astrazione che impone j a l flusso spontaneo dei pensieri e dei moti istintivi, dal contemplativo abbandono alle immagini presenti? Chiunque sceglie un atto da compiere si accorge che la realtà di quella attuazione an- nulla, sopprime, esclude una innumerevole quantità di altre potenze che volevano dive- nire atto, che ogni fiore che si coglie è neces- sario, inevitabile, inesorabile sacrifizio di niolte altre gemme e di molti altri bocciuoli c l,e anelavano allo svolgimento ed alla vita, o per lo meno sottrazione, al bulbo, di succhi che nel disseccamento gli sarebbero ritornati: che non si salpa senza tagliare le trinche. Separazione dall’ infinito che s’ impone ogni qualvolta un’idea apre un processo o un recesso all’infinito e bisogna violentemente sbarrare, contro un simile dilagamento, le porle dell’anima, coprire quello specchio per non essere turbati dalla serie infinita delle immagini che rifletteva. Chi non conosce quel regno in rivolta che è l’anima nostra prima di cominciare a cir- coscrivere ed organizzare nel limite? E viceversa chi non conosce la gioia del- lo spirito che si asside sovrano quando ha fissato, in una ben delimitata alterità, l’og- I getto della sua indagine, l’appagamento dello spirito che sa che potrà imperare perchè h a diviso? (1). (1) Da II dualismo filosofico, parte 1, cap. V, 2- ediz., Napoli, Riano, 1935. 140 GIUSEPPE PENSI flATO a VILLAFRANCA VERONESE NEL 1871. — PROFESSORE NELL’ISTITUTO SUPERIORE DI MAGISTERO DI FIRENZE E NELLE UNIVERSITÀ DI MESSINA E DI GENOVA FINO AL 19U. Il punto di vista di Rensi è una sintesi di feno- menismo, materialismo e irrazionalismo. Il mondo è quel che pare, cioè materia. Ma non materia in sé. oltre la sua apparizione, bensì materia che ap- pare. A chi? A nessuno. La materia è in sè stessa fenomeno, apparizione. Il mondo è un conglomera- to di oggetti che sono apparizioni, non ad uno, ma u sè ed in sè stesse. Esso non ha in sè unità, non è retto da legge, è un pluriverso di cose-fenomeni, ab- bandonato al caso, regno dell’irrazionale, del dolo- re, del male. La realtà, appunto e solo perchè tale, è agli antipodi del razionale e del bene, e perciò fugge dinanzi a sè stessa, scorre e diviene. V Opere principali — La Trascendenza, Bocca, Torino; Il Genio Etico , Laterza, Bar.; Lineamenti di Filosofia Scettica, Zanichelli, Bologna; La Scepsi Estetica, id; La filosofia dell’autorità, Sandro», Pa- lermo; Introduzione alla Scepsi Etica, Perrella, Fi- renze; L’irrazionale, il lavoro, l’amore, Unita*, Mi- lano; Interiora Iterimi, id.; Realismo, id., Apologia dell’Ateismo, Formiggini, Roma; Apologia dello Scetticismo, id.; Spinoza, id.; Lo Scetticismo, Athe- na, Milano; Il libro IX della Repubblica di Platone Albrighi-Segati, Roma; Autorità e LlberUl ' Llt i ' 1 ol Moderna, Roma; La Democrazia diretta al., Selbsl- darslellnng, Meiner, Lipsia; Passalo Presen e, Fa- turo, Cogl iati, Milano; Le Aporie delta Religione, Etna, Catania: Le ragioni dell’Irrazionalismo, Gui- da Napoli; Vite parallele di filosofi, Platone e (a- cerone id.; Il Materialismo Critico, Roma, Casa del Libro; Critica della Morale, Etna, Catania; Calice dell’amore e del lavoro, id.; Pagine di diario ! Scheqge, Bib. Ed. Rieti; IL Impronte, Lib. Ed. Ita lia Genova; HI. Cicute, Atanor, Todi; IV. Sguardi La Laziale. Roma; V. Scolli, Montes, Tonno. I. Tempo c Spazio categorie dell’assurdo. Che è il tempo, questa cosa misteriosa, e che pur sembra fatta da noi, tanto che, se- condo lo stato (noia, attesa, piacere) della no- stra coscienza, s’allunga e s’accorcia, in dor- miveglia passa con fantastica rapidità, nel sonno lo saltiamo addirittura? Se nello spa- zio si vedono le cose stare una accanto all’al- tra, nel tempo non si vedono stare, ma si sen- tono venire cose o avvenimenti una dopo del- 14.3 l’altra. Si sente, si vive questo loro venire su c . cessivo, la « direzione ». Il tempo, proprio de- qli enti che mutano, che vivono, il quale è ciò che fa sentire ad essi, fa essere per essi, la serie successiva di avvenimenti in cui con- siste la loro vita, è una cosa sola con la vita stessa. Il tempo è laNnostra stessa \ita, il prò- cesso di questa, ossia (per l’individuo e pei l'umanità) la nostra storia. Se, intatti, è an- cora possibile rappresentarsi uno spazio vuo- to, è assolutamente irrappresentabile un tem- po vuoto, senza che nulla vi accada: se ogni movimento, cangiamento, accadimento ces- sasse, scomparirebbe totalmente anche il tem- po. Tempo e vita, tempo e storia sono perciò la stessa cosa. C’è, dunque, il tempo per la medesima ragione per cui c’è la stona. C’ì un tempo — se si vuole, lo spirito fa il tempi — dopo ogni ora viene sempre un’altr’ora dopo il presente sempre qualche altra cos; (che ciò è esservi tempo, idest storia), unica mente perchè essendo ogni presente sempr assurdo e male, cioè essendo la realtà, che assoluto presente, sempre irrazionale, si fa A continuo un poi per uscire sempre dall’orr per liberarsi, passando ad un altro momenti dal male che in ogni adesso c’è. Tempo e mi le sono gemelli, sono due faccie della medi sima medaglia, uno suppone e richiama n cessariamente l’altro. Il tempo non è che 1 144 terna (e quindi inutile) fuga dal male eterna- mente presente. Il tempo (per usare, rima- neggiandolo alquanto, d’un pensiero di Scho- penhauer) scorre, fugge, c’è, proprio unica- mente per questa ragione, che non v’è nulla (•he sia bene, cioè che meriti di pennanere. Ossia, c’è un futuro, il presente va sempre via, ci precipitiamo di continuo verso l’avve- nire, perchè ogni presente ci malcontenta, per- c hò a nessun presente potremmo, davvero ed j„ tutto, dire « t’arresta! », perchè in ogni pre- sente siamo nel male, tutta la realtà è nel nialc. Il tempo è dunque la categoria dell’irra- zionale e «lei male, la condizione e la conco- mitanza necessaria dell’esistenza di questi. Se si fosse nel bene, non ci sarebbe più tem- po, si starebbe. E che cos’è d’altro lo spazio? Lo spazio è il mezzo mediante cui soltan- to possono esistere le cose e le parti diverse in luogo dell’assoluto identico; il modo con cui l’Uno può diventar Più, dar fuori in par- ti, in cose diverse l’ima dall’altra; diverse, di- sformi, che si contraddicono. Cioè, anch’es- so, il modo per cui può esistere la contraddi- zione. C’è spazio, perchè invece di esistere l’Uno eleatico, ci sono i Più. Ma quello soltan- to è razionale; con questi passiamo nel cam- po dell’incomprensibile e dell’assurdo. Lo at- testano i vani sforzi della filosofia per spie- io 145 garli, c per spiegare le situazioni che ne con- seguono, cangiamento, causa, relazioni, mo - to, l’impossibilità razionale del quale dimo- strano e volevano appunto dimostrare gli argomenti di Zenone comprovanti che esso non può razionalmente esistere, che quan- do siamo nel regno dei Più, siamo insieme nel regno dell’ irrazionale. Quello, 1’ Uno elea- tico soltanto, è razionale, dico. Ma provate- vi un po’ a vedere che è. Provatevi a raffi- gurarvi i Più, cioè il mondo, raggrinzai si in quell’Uno assolutamente identico, senza cose diverse e senza parti, e voi vedrete i Più, 1 nn*, sparire, diventar nulla. Esso, l’Uno eleatico, è la razionalità, ma è anche il nulla. I Più, cioè il mondo, sono l’assurdo, ma sono anche la realtà. Una nuova volta si fa palese che la razionalità è uguale a zero, a morte, a nulla, e realtà è uguale ad assurdo. O, come si potrebbe anche esprimere questo pensiero: il preteso non fenomenico (razionale) in sè delle cose, il noumeno in cui le cose per cosi dire si raccolgano e riposino, fuori della irra-j zionalità fenomenica, nell’unità e nella pace dell’assoluto razionale, non è che il nulla (1). (1) Interiora Rerum, Milano, Unitas, pp. 171-174. U<> II. Il Caso, signore del n»ndo. Colui cui si erga dinanzi, visbile quasi co- me agli occhi corporei, il quadra michelangio- [ lescamente pauroso, che una dottrina del ca- se, quale quella che con tratti ptenti disegna per esempio l’Ardigò, ci apre dinanzi: il qua- dro cioè del turbinoso incrociarsi dei raggi causali, infiniti in numero e in lunghezza ad tempo e nello spazio, che da igni punto del- l’universo senza confini si riflettono su ogni altro punto, e che vengono a iiterferire sulle nostre vite con una cecità e eoa una mancan- za di conoscimento di ciò che le nostre vite sono e significano, risalente all’abisso del tempo più remoto e dello spazo più lontano ■ — costui acquista della vita ma prospettiva che si può forse, meglio che altrimenti, ren- dere come segue . . . Dovunque ci troviamo, siano sempre in una battaglia in cui ci piovono attorno le pal- le, senza che ce ne accorgiano. Dovunque conduciamo la vita, questa è sempre come l’uscita dalle trincee e l’andar incontro al ne- 147 mico invisibile che spara- E ciò, del resto, non solo a cagione degli accidenti che stanno di continuo in agguato per colpire, ina semplice- mente a cagione della presenza della morte naturale (1). III. Perchè c’ è Storia ? Perchè c’è storia? Perchè c’è cambiamen- to. La risposta è ovvia. Per la ragione dia- metralmente opposta al tatto che la filosofia idealistica pretende costituisca l’essenza del- la storia. Non è già, cioè, che il corso o il pro- cesso sia tale che in ogni momento di esso lo spirilo si trovi nel vero e nel bene, in ogni presente adunque in un eterno più veto o meglio; giacché, se lo spirito si sentisse nel vero e nel bene, vi dimorerebbe, e il proces- so, ossia la storia, si arresterebbe. C’è storia, viceversa, la storia si spiega soltanto, perché così l’umanità come 1 individuo in ogni pre- sente avverte di essere nell’assurdo, nel falso e nel male, e vuole uscirne. C’è storia, dunque, (1) Le Aporie della Religione, Catania, Etna, pp. 66 - 68 . 148 «erchè ogni presente, ossia la realtà, è sem- pre falsa, assurda e cattiva, e perciò si vuol venirne fuori, passare ad altro, quel passare j altro in cui, unicamente, la storia consiste. Xn perchè lo spirilo è sempre nel vero, ma perchè è sempre nel falso, perchè cioè avver- te che ogni presente sua spiegazione delle co- se è sbagliata ed è perciò inappagante, proce- de a cercarne un’altra, cioè c’è storia della filosofia e storia della scienza. Non perchè lo spirito è sempre nel bene, ma perchè è seni pie nel male, perchè cioè ogni presente suo principio, pratica, costume, istituzione, è defi- ciente, fallace, condannevole, procede a fog- giarne altre, ossia c’è storia della morale, del costume, della politica, storia in generale. La storia non è che un continuo voler uscire dal presente e uscirne di fatto; mosso da ciò che il presente (la realtà) è sempre male. C’è sto- ria perchè di fronte all’assurdo e al male pre- sente balena innanzi agli uomini nell’avveni- re un razionale ed un bene che vogliono ren- dere presente. Ma, appena reso presente, es- so diventa ancora assurdo e male di fronte a un nuovo razionale e bene che sta ancora davanti all’avvenire. La razionalità e il bene stanno sempre davanti, sempre nell’avvenire, come il mazzetto di fieno attaccato al timone davanti alla bocca del cavallo che questo tra- sporla sempre più in là con la sua stessa cor- 149 sa. Sono sempre un «dover essere» che non diventa mai un « essere ». Poiché, quando so . no, quando da semplice «dover essere» ac- quistano la qualità di « essere », istantanea- mente nell’ acquistare la qualità «essere» perdono quella «razionalità» e «bene». Fa- cendosi realtà e presente diventano assurdo e male, tanto è vero che si vuole ancora uscir- ne, si vuole ancora passare ad altro, cioè pro- segue la storia. La verità meridiana e tangi- bile, contrariamente alla celebre sentenza he- geliana, è che il reale è irrazionale (tanto è vero che malcontenta e si disapprova, cosic- ché sempre si vuol cambiarlo, ossia c’è sto- ria), e il razionale è irreale (perchè è sempre oltre il presente, cioè fuori della realtà, cioè nel futuro). Come si può non vedere una co- sa così palmare, che cioè la storia del l’urna» nità ha proprio soltanto la medesima ragione che scorgeva Dante come l’unica ragione del cambiare, ossia della storia, della sua Firen- ze, vale a dire lo sforzo di schermire, dando volta, il dolore, il male, l’assurdo, il continuo giacere nel quale d’ogni presente, ossia della realtà, è provato appunto dall’eternità del dar volta, cioè della storia? C’è storia, insomma, l’umanità corre nel- la storia, per la medesima ragione per cui corre un uomo che posa i piedi su di un sen- tiero cosparso di spine o di carboni ardenti. 160 perchè ha bisogno di levare i piedi dalla sof- ferenza che il posarli gli dà, e, speri vagamen- j C o no che portandosi più in là sfuggirà alla s0 fferenza, in ogni modo, poiché non può te- nerli fermi nella sofferenza che in ciascun posarli è attuale, così corre di continuo. La storia non è che questo. Lo sforzo, va- no perchè eterno, di fuggire dalFassurdo e dal male (1). IV. La morale come istinto immediato. Se la bassezza, la mancanza di dignità e di rispetto a sè stesso, il servilismo e l’adula- zione, il venir meno alle proprie convinzioni o il falsificare la propria coscienza a scopo di lucro, di successi, di carriere, di favori, non sono cose che in sè e ipso facto ripugnano; se non sentiamo che ci è insormontabilmente impossibile praticare simili cose, qualunque vantaggio ci diano, perchè di fronte a noi stessi, chiusi nella nostra stanza, proverem- mo rossore, disgusto, disprezzo di noi mede- (1) Interiora rerum, p. 145 sgg. 151 «imi se le praticassimo, cioè perche oer un ‘ in..', i, ..medialo e incoercibile sei., amo quelle cose come tax* », ricever*, a fon Serra e l'Indipendenza di cara, ere, lyn.ee- " là del pensiero e di linguaggio, la fedeltà u He proprie idee anche quando restano sor- con.be, ili, in una parola il comporlanmnlo che il Manzoni si faceva inculcare dall Indio- na ti, «conservar la mano pura e la mente, non ti far mai servo, non far tregua cox vii,, il santo Vero mai non tradir, ne preterir ma, verbo che planda al viri» », quando anche la vegga sempre, in allo i ribaldi e i buoni in fondo; W se tutto ciò non esercita un’attrattiva altret- tanto invincibile, se non avviene che tali cose si pratichino perchè non possiamo a meno duali si siano le dannose conseguenze che ìH praticarle ci possa apportare, cioè pere e sentiamo per insopprimibile , stinto xaXàJse Ce l’altra cosa non ha luogo, se non si presuppone che abbia luogo, nessuna dottrina potrà mai da un uomo e da un popolo in cui ciò non abbia luogo riuscir a sprigionare m a attività morale. Un ragionamento non >u creare dove non c’è questo senso del /aA ' v “*, àv«^veà-ay P 6v-x*r.óv,che è la sola molla pos- sibihT dell’attività morale. Un ragionamento 152 può già. solo eccitarlo e risvegliarlo dove esiste ma si è assopito (1). V. Relatività e assolutezza della morale. Spinoza dice: la vita spirituale e libera rice e felicifica, è la forma superiore di vita [a somma beatitudine: ma bisogna sentirne! ‘So e l’incanto; lo è per chi li sente. Giu- p ò au indi il ragionamento: la conoscenza ! ° sècòndò e terzo grado è adeguata, oss.a certamente vera; il giudizio che essa cono Jcnza sia il bene. <» dà «*“ mede8 “f; tr„ le questo giudizio è necessariamente vero mica, IV, i>rop. 35 Dem.) e chi segue le dtas- • r.n»*ive è privo di lume ( io .. t'rop. Sci'.). Giusto il ragionamento. La vita spiri- tuale è veramente ed assolutamente il bo supremo’ Ma il ragionamento non va mteso „d senso che essa possa o debba essere rico- nosciuta o valutata come bene supremo da tatti, che tutti possano o debbano confessare ,|, «aliai Spirituali Platonici. Milano, attardi e Noto, PP- 185-188. 153 1 che ossa sia il bene supremo, che casa lo sia per tutti. Le (lue cose sono diverse. So con certezza che la mia visuale del bene è la vera e la più alta; e so con altrettanta certezza che essa non può valere per tutti. Sono forse le due affermazioni incompatibili? Ora, queste sono appunto le due affermazioni che Spino- za congiunge. Solo così viene in luce la piena coerenza del pensiero di lui, da tutti gli in- terpreti o negata o raggiunta solo al prezzo di sopprimere il primo degli anzidetti princi- pi entrambi suoi. Anzi, la grandezza del ge- nio di Spinoza si rivela proprio anche da ciò: dall’aver saputo (forse unico tra i filosofi) te- ner aperti gli occhi ad entrambe le due verità apparentemente inconciliabili e congiungerle coerentemente insieme: da un lato, quella dello scetticismo etico, dell’inesistenza di una morale unica per tutti; dall altro, quella che la vita spirituale è il bene supremo e che la morale su di essa fondata è la morale su- periore. Prendiamo la vita d’un angelo e quella d’un rospo. L’angelo sarebbe sicuro, o un giu- dice che le penetrasse entrambe constatereb- be con certezza, che la prima è superiore, e più felice. Ma non per questo essa sarebbe tale per il rospo. Non per questo il rospo avrebbe la possibilità o il dovere di ricono- scerla tale. Il rospo anzi sarebbe infelice se 154 / s i mettesse a fare la vita dell’angelo, e que- sta sarebbe dunque male per lui. Perciò l’uo- „,(> che affronta la povertà e il sacrificio per vivere una vita di spirito e di rettitudine de- ve dire a colui che non pensa se non a scala- re con qualsiasi sistema gli alberi di cucca- gna, o colui che spinozianamente rinuncia a tutto per la sua libertà di coscienza ( Ep . 48) a colui che la vende per trenta danari: es- sendo come sei, tu fai bene a fare quel che fai; data la tua natura, questo che fai è la tua « virtù ». Colui, dice Spinoza, che senta chia- ramente d’esser felice compiendo male azioni invece che seguendo la virtù sarebbe pazzo se non le commettesse perchè esse per lui sa- rebbero virtù; quantunque, data la costru- zione d’una natura umana ideale avente per essenza l’amore per la vita spirituale, si pos- sa aggiungere che tale ipotesi è altrettanto assurda quanto quella che un uomo preferi- sca impiccarsi a star seduto a mensa (Ep. 33). Tutti, insomma, facciamo solamente quel che ci piace e ci appaga. Fa ciò che lo appaga tanto colui che persegue unicamente piaceri grossolani, o che subordina le sue convinzioni ai successi e alla ricchezza, quanto colui che per la fedeltà al suo ideale etico o per la li- bertà di pensiero o di cullo affronta persecu- zioni o muore nell’anfiteatro o sul rogo. In fondo, non c’è nè demerito da un lato, nè me- 155 rito dall’altro. Ognuno agisce secondo la prò- pria natura. Ma la questione è che cosa ci appaghi. E questo è ciò che rivela che cosa il nostro sè sia, quale sia la sua natura. Quel modo di agire qualifica questa natura, la na- tura che uno ha; determina se la sua natura si immedesima con cose che hanno solo una ombra di Essere, e vanno perciò annientate e disperse, o con principi eterni, identifican- dosi coi quali l’uomo, perituro com è, e anche vinto ed ucciso, diventa immortale, perchè vede in essi immortalato il suo stesso Se (1). VI. La vera immortalità. La passione per la vita spirituale ci assi- cura una sorta d’immortalità (Spinoza, Eth., V, prop. 23). Puoi tu pensare di essere immor- tale nel senso che ogni parte del tuo io lo sia? Che restino immortali le tue piccinerie, i tuoi sentimenti meschini, la tua passione p. e. per il vino, per le carte, per la sigaretta, per i buoni bocconi, le tue invidie, le tue coin- (1) Spinoza, ltoma, Formiggini, pp. 87-89. 156 petizioni, le lue ambizioni provinciali? Cer- io che no. E se questa è tutta la vita d’un uo- mo, tutto il suo io, di che cosa vi può essere immortalità? Ciò che di te, se mai, puoi pen- sare che perduri, è quello che ne sia vera- mente degno, che incarni cioè una duratura espressione dell’Essere. Sprofondati nella tua coscienza, guarda che cosa c’è in essa di ve- ramente degno di possedere l’Essere, non nel- l’apparenza, rispetto al mondo, e nemmeno rispetto alla tua stessa «sofistica naturale», che li fa spesso passare per grande e nobile ciò che è aspirazione grettamente egoistica; ina guarda se c’è in essa alcunché che di fron- te al più segreto e genuino suo tribunale pos- sa essere riconosciuto veramente degno d’un tale duraturo possesso dell’Essere. Quello, se mai, che tu abbia, così, riconosciuto tale, sa- rà ciò che ha veramente l’Essere, ciò che re- sterà immortale. Quanta parte del tuo io è ciò ? E’ molta? Resterai per gran parte immor- tale. E’ poca? Lo sarai in piccola parte. E’ niente? Ti estinguerai totalmente. Gli elemen- ti meschini del tuo io non meritano di restare. Saranno scorie e impurità — bruciati e con- sunti del tutto (per usare espressioni teologi- che) nella Geenna, nell’inferno. Se tu non sei fatto che di quegli elementi, tutto te vi sarà consumato e annientato. Se tu invece, sei fatto, almeno in farlo, di pensieri per le « res aeternae », di pensieri eterni, allora, siccome cpiesti sono eterni, per- durerai tu pure nella misura con cui ti sei identificalo con essi. Un matematico uno scienziato, un filosofo, un artista inebbnali del loro pensiero scientifico, speculativo, este- tico, che non vivono che per e nei oro cal- coli, indagini e scoperte, speculazioni, crea- zioni, la cui vita è tutta queste, ai cui occhi o<mi altro interesse scompare, sono quei cal- ali, scoperte, speculazioni, creazioni, il loro vero essere è questo, e quindi ,1 loro vero es- sere perdura eterno come i principi scienti- fici o filosofici o le immagini estetiche con cui si sono identificati. Eternità non del tuo io ma del pensiero eterno (ed eternamente cosciente nel suo trapassare in altre menti efl essere da queste ripensato) con cui ti sei iden- tificato. Eternità di ciò che forma 1 essenza della mente e che tu hai fatto diventare tua propria essenza. Se tu scorgi 1 anima di tutta una folla traversata da un brivido unico alle note di Verdi o Beethoven non avverti forse che ciò in cui costoro veramente vissero in cui essi sentirono consistere veramente il lo- ro io, le armonie da essi create, perdura im- mortale, e immortale coscientemente, cioè ri- vivendo sempre di nuovo nella coscienza chi ode? Non già, dunque, del pan, che u sitt^ 158 nn in quanto perduri eterna la parte di te cbe è una con quei pensieri e perduri essa 6 possesso di questi; ma questi solo perdu " 1 ” se tu sei stato essi, sei immortale solo l0 ’ hè ed in quanto essi lo sono. 1,C S e m vivi per te, muori in un attimo (lo " ;n della tua vita). Se vuoi vivere, devi vi- Sl ’^ in ciò che perdura anche dopo di te, ne- Taltri e per gli altri, e infine nella vita um- g lle nelle verità o pensieri eterni che la ' nn e la reggono, nel Tutto; sentir tua KTu vita die scorre ne. Tutto. . Dimi.te P nnia transitoria, quaere aeterna », come di- Tv imitazione di Cristo (HI, I. 2), che e pret- L spinozismo, soltanto deformato in devozio- ne rugiadosa. Devi spezzare la membrana d i.j ma individualità separata e fonderti con In vi ta degli altri, con la vita universa e Se spezzando quella membrana li sei identica 5 con un alto pensiero, con una grande idea, con una nobile causa ed anche con un atto th dedizione e d’amore, ti sei identificato con un fatto in temporalmente eterno come una 18 Tale* dunque l’immortalità di Spinoza. In linguaggio religioso: -orire a se ste^JP^ vivere in Cristo; non perche in Cristo viv t ma perchè vive eterno Cristo con cui b sci fuso e in cui ti sei sommerso (li- ti) Spinoza, PP- 80-93. 159 VII. Utilità del Male. Bisogna che vi sia il male, che ne faccia- mo l’amara esperienza, perchè il desiderio del bene sia fermamente e appassionatamen- te sentito, consapevole, costante, incrollabile, non più suscettibile di oscillazioni e devia- zioni. Probabilmente, è appunto per ciò che c’è il male. Per far nascere la generosa fioritura di questi sentimenti; per educare lo spirito umano a conoscere che cos’è veramente il ma- le e a respingerlo liberamente e definitiva- mente. E’ il dolore, e il cruccio, occulto, profondo e lungo, cagionato dal male che impera po- tente, sfacciato, solidamente assiso, quello che opera il più grande raffinamento dello spirito e gli dà una nuova profondità di com- prensione e una più squisita delicatezza di senso etico. Il pensiero del male, formidabil- mente e incrollabilmente imperante, ti cruc- cia vivamente, ti strazia senza requie. E tu senti che appunto questo tuo crucciarti, sen- 160 z a fini personali, per il trionfo del male, è l’elemento più nobile del tuo spirito; e che, posto che vi sia un giudizio futuro che scruti le reni degli individui, ciò che recherai in- nanzi al Giudice per controbilanciare le tue colpe e deficienze, i tuoi vizi e le tue passio- ni, sarà unicamente questo tuo dolore e cruc- cio senza scopo per lo spettacolo del male che celebra il suo splendido e onnipossente trionfo (1). Vili. La verità del Politeismo. E’ il grande Eraclito colui che assai me- glio di Platone coglie il profondo senso di verità che v’è nella religione omerica e qua- si lo riassume con perfetta espressione fi- losofica e proprio spinoziana, quando dice che gli uomini considerano alcune cose come buone altre come malvagie, ma invece per Dio tutto è buono e giusto (fr. 61, Bywater). Ossia: se, come miticamente ma con perfetta verità rappresentano Omero e i tragici, gli (1) Passalo, Presente, Futuro, Milano, Cogliati, pp. 68-69. li 161 < Dei (le forze somme del cosmo) compiono in- differentemente qualunque azione, anche quelle che noi consideriamo immorali e de- littuose, ciò vuol dire che la distinzione tra moralità e immoralità ai loro occhi non esiste. Le forze supreme del cosmo, molteplici; in parziale frequente conflitto tra di loro; del tutto ignare delle nostre concezioni etiche ed operanti costantemente azioni che se com- piute dall’uomo sarebbero da noi giudicate sommamente immorali; avvolgentici di con- tinuo in pericoli, insidie, tentazioni ed ingan- ni, che ci tirano in ogni genere di perdizione — questa è la verità fondamentale. E questa verità fondamentale è appunto quella del po- liteismo greco, e più precisamente della reli- gione omerica. La dipartita da tale verità fu che produsse il mare di vani cavilli che riem- pirono volumi su volumi per mettere d’accor- do l’esistenza di Dio e quella del male (1). (1) Critica della Morale, «Etna», Catania, pp. 154 - 159 . 162 IX. Dio. Dio. Non ti vedo e li nego. Ma tu sei forse qui presente in me, entro di me, in guisa più intima e vivificatrice che non in molti di quel- li che ti affermano. Poiché sei Eterna Veri- tà. sei proprio il mio impulso ad abbraccia- re energicamente e ad affermare a costo d o- gni detrimento mondano ciò che scorgo co- me verità. Sei la stessa mia negazione di te; giacché essa è per me l’affermazione della verità che con mio svantaggio e pericolo com- pio contro i pregiudizi, le ipocrisie, gli op- portunismi. Nella mia negazione di te sei Tu stesso che ti affermi. Puoi ammettere l’insensatezza che per essere « salvo » occorra la « fede », sia cioè necessario credere in Dio, riconoscere e coli- fessare la sua esistenza, come se Dio fosse un tiranno terrestre che imprigiona, opprime o tiene in disgrazia chi non ammette la legitti- mità del suo potere? Se Dio esiste, l’unica cosa che egli può ri- chiedere per la nostra «salvezza» è che si 163 i operi secondo la sua volontà, cioè (poiché que- sta non può essere che volontà di bene) che si operi il bene. E quando pure Dio esista ed io non vi creda, non v’è dubbio che basta che io operi così, ossia che operi come se egli esi- stesse, perchè io sia « salvo», anche se non lo riconoscimento e confessione della sua esi- stenza (1). (1) Schegge, Rieti, Bibliotheca, pp. 39-40. 164 ADRIANO TILGHER $ \T0 .1 RESINA (NAPOLI) L’ 8 GENNAIO 1887- In gnoseologia Tilgher tien fermo al criticismo kantfichtiano interpretato come dev'essere: il mondo, fantasmagoria organizzala sulla base di dati vitali, che essa trova e non crea, da un’attività architetto- nica puramente formale, la Ragione. Sulla Ragione co- si intesa Tilgher nega possa fondarsi un’etica, come pretesero Kant e Fichte. L’uomo è il vivente in cui la potenza vitale è fuoriuscita dalle forme in cui si adagiava nella natura: essere caotico fluitante in- stabile. L’etica è il tentativo dell’uomo di darsi for- nai organizzandosi intorno a una tendenza fatta as- se e centro della vita e che si subordina o sacrifica tutte le altre. Di qui la possibilità di stili di vita (eliche) eterogenei tra i quali non è possibile intro- durre gerarchie (pluralismo etico). • i- nvFRC HEGlSTlUAMO QUI Fra li: sue numero*^ df Elica e di Fi- SOLO QUELLE filoso^che i 92 8; Filosofi losofia del Diritto, Relativisti Contempo- Antichi, Atanor, J ^ 0 ^ greca della vita ranei, 4’ ediz., 1923, h Homo Faber, 1928; 2“ edizione raddoppiata, del Nove cento, Estetica, 1931; Fi o. [ Tempo, 1934; FU o- 1932; Stadi di PM rf . Scienze . Lei- sofia delle Morali, 193 ^ ^ 193 4; Crilica deUo tere, Roma ); Cristo e : No Modena); Lo .Spac- Sloricismo, 2 edu-, stroncatura di Giovan- do del Elione tnonfant poliUca Moderi Estetica, 1931; Elica d. ’coethe, 1932 (Roma, Maglione). I. L’ uomo, il vivente senza natura. Essere e vita. - Per l’intelligenza umana , vita è concepibile solo in y le non è vita, con l’essere puro e ssere puro e semplice è ciò che e tutto m na volta e una volta per tutte tutto quello Se può essere; è ciò tra l’essere e U dover :S sere del quale c’è adeguazione perfetta e oÌale- è l’immediato. In opposizione ad es l0 la vita è caratterizzata essenzialmente dal la'rsi il proprio essere,' dal dissolvere il prò- 107 prio essere immediato per costruirsene un al- tro, cioè è caratterizzata come mediazione. / gradi infiniti della vita. In quanto mediazione, la vita è suscettibile di gradi infi- niti, mentre non ci sono gradi nell immedia- to. Nessuna cosa è più o meno cosa, più o me- no essere di un’altra, ma una vita può benis- simo essere più o meno vita di un altra. L uo- mo è il solo vivente in cui la vita può attuar- si come mediazione illimitata, cioè non come costruzione di questo o quell’atto vitale, di questa o quella particolarità della vita, cosi e cosi definita, ma come costruzione ìndeti- nitamente vasta e profonda della vita nella sua totalità. L’animale e i suoi problemi vitali. L a- nimale ha problemi singoli e particolari di vita: fuggire questo nemico, impadronirsi di questa preda, procurarsi questa femmina. Ma la sua vita come totalità non forma mai per esso problema. L’animale vive uno penino i suoi problemi vitali, ma non pone mai a se stesso come problema la sua vita come tota- lità. Poiché esso aderisce alla forma della sua vita, non se ne spicca, non se ne stacca, non se ne allontana, non si pone mai di fronte ad essa come dinanzi a qualcosa d incerto, di dubbio, di problematico, per questo esso è natura. 3 «8 L’uomo: vita senza natura, — Il vivente in cui la vita stessa come totalità può dive- nire problema a sè medesima è l’uomo. Per- ciò l’uomo non è natura, non è forma defini- tivamente fissata una volta per tutte e tutta in una volta e alla quale egli sia forzato di aderire. La sua natura è di non essere natura fissa e determinata. La sua essenza è di non essere essenza. La sua legge è di non essere legato a legge. Nemmeno a quella di non es- sere legato a legge, di non essere essenza, di non essere natura. Egli può divenire proble- ma a sè stesso, ma non è detto che debba di- venirlo necessariamente; se lo dovesse, tutto sarebbe problematico in lui, meno la neces- sità di esserlo, e così per questo lato sarebbe natura, essenza, legge. Egli può essere legato a una forma c non slegarsene mai di fatto, ma necessariamente e immutabilmente legato non è mai. Egli è indeterminazione vivente, e appunto per ciò non è legato aH’indetermi- nazione come a un destino, a mia legge, se no, sarebbe determinato come indeterminazione, ma è sempre in ogni attimo della sua vita pos- sibilità di essere altro da quello che è, questa possibilità trapassi o no in attualità. Perciò è contradittorio parlare della natura dell’uo- mo, perchè l’uomo è uomo appunto in quanto non è natura, presa la parola natura nel sen- so di vita confitta immutabilmente a un’essen- 1H9 , a a una legge, a una forma. Polche uomo 6 tinaia boeme indeterminato, e assolutameli. "oàSbile conoscerlo a „non cioè de. duine 1 le manifestazioni da una definizione enunciala una volta per tutte: non si può co. noscerlo che attraverso le sue manifestazioni stesse. problematicità indefinita. - L’animale . ffv;,**» rii non risolvere questo o quel pilo so bevanda, la fem- ' ,rl,bl T.Umo solo puh "offrire di non riso,. vere il problema globale della ' “ r, ° “ ~ po'" no a metterlo non pensa nemmeno pe.^u ^ mancmdosli in questio . , i t a del suo essere ogni esperienza dell ine come iotahlà non^a nmnme^a ^ ^ e 101 'in conosce • perciò la sua vita si risolve in'ù. a semplice successione di atti vitali con- foni, Tuba sua natura. Lhiomo so U , può - ; re incerto della sua vita " TCUSTlSS. ha infiniti hp pon la vita. L’uomo solo può assu 170 L'uomo può assumerne infinite. L'ani- f “ c è l'essere in cui la vita si attua come qiiaLtà precisa c h"7 ,t:et l Sr„i,r.iaù"n, possi, iilitò .li SnitndTvita e come qualità e come qttan- tità. aMernaUm. - Di qui « * • filosofia che pretenda definire un ° g "\!.t,é e tutto ii una volta il sistema delle pt ,. ... cnìrituali di fissare cioè la legge che la vila dell'uomo, ciò che equivale » Sre quello per cui l'uomo è uomo : ad af- armare che l'uomo è sistema, eoe essere es srnra, forma, a definire come naturo vente non-natura. Dalla deficienza alla sufficienza vitale. - i ’ mino nasce deficiente, bisognoso, manch ^: m gettato in un mondo su cui egli agisce e chc agisce su lui, che può essergli ostile i differente o favorevole ^.^“"omo nulla, cui nulla manca, che è pieneaza d. se. 171 gioia. La gioia è il segno e la prova della pie- nezza e della sufficienza vitali. La vera vita è vita nella gioia, è gioia. Quando una vita è nella gioia, è gioia, essa ha pienamente giu- stificato se stessa, perche oltre la gioia non c’è più nulla cui il vivente possa aspirare. La gioia giustifica sé stessa e il vivente che la prova e la vita che egli vive. La vita dell uomo: problema a «n» sola- zioni. — Appunto perchè non e legalo neces- sariamente a una natura, l’uomo non ha di- nanzi a sè tracciata una volta per ulte la via da percorrere per trasformare 1 originane I deficienza in sufficienza, in gioia. Se ciò fos- se vorrebbe dire che in un sol modo la de- ficienza umana potrebbe trasformarsi in suf- ficienza, il che implicherebbe clic la vita uma- na è problema a soluzione unica. L ciò non è, appunto perchè l’uomo non e natura. Le vie che l’uomo può percorrere per trasforma- re in sufficienza la sua deficienza vitale sono indefinite. Nè queste vie si esauriscono con quelle che egli ha percorse nel passato. Ap- punto perchè egli è indeterminazione viven- ti, è possibile che egli scopra e inventi nuove vie che egli attualmente non sospetta nem- meno. Nuove soluzioni non inventate ancora sono possibili al problema della vita. Che sia no possibili, si vedrà il giorno in cui saran- Il0 diventate reali. Ma ogni filosofia che pre- nda fin da ora di escludere la possibilità .a soluzioni diverse da quelle finora inventa- f' afferma implicitamente che 1 uomo non Là mai se non ciò che è stato finora, e cioè ne ,ia l’indeterminazione fondamentale dell u - u) ossia proprio ciò che lo fa uomo. L’uomo è il vivente in cui la vita — come visto — non è legata necessariamen e a UIia intensità determinata. Anche per coloro che di fronte alla vita si pongono dallo stes- so angolo visuale vi possono essere differen- te quantitative, meglio: d’intensità infinite n piccolo ambizioso non chiede alla vita lo stesso che chiede colui cui l’impero del mon- do non basta, e nondimeno entrambi si pon- gono dinanzi alla vita dallo stesso punto di "t problema della vita comporta perciò so- luzioni non solo qualitativamente, ma anche intensivamente diverse. Ci si può porre dinan- zi alla vita in atteggiamenti differenti; e ne - l’interno di ogni atteggiamento le soluzioni possono essere intensivamente differenti. Le grandi soluzioni del problema della vi- ta, _ Nelle pagine che seguono (1) noi studie- remo gli atteggiamenti fondamentali che un- ii) Nella Filosofia delle Morali. mo lia assillilo di fronte al problema della vi- la, le grandi soluzioni che egli ne ha dato, l e grandi vie clic egli ha percorse per trasfor- mare in sufficienza la sua deficienza. Atteg- giamenti fondamentali, grandi soluzioni, gran- di vie chiamiamo quelle che l’uomo ha creato ponendosi dinanzi alla vita in un attitudine determinata, impegnante una determinata po- tenza psichica, fatta asse centro motore della intera vita umana e a cui tutte le altre sono sacrificate o subordinate, vivendo questa po- tenza psichica in tutta la sua pienezza, Iraen- done tutto quello che essa poteva dare, esau- rendone tutte le possibilità vitali, sì da crea- re sulla base di essa un tipo di uomo, uno stile di vita vissuti in tutta la loro logica, in tutta la loro coerenza, in tutte le loro possi- bilità. La storia ci mostra che l’uomo ha inven- tato alcuni di questi tipi umani, alcuni di que- sti stili di vita, vivendoli in tutta la loro lo- gica e la loro purezza interiori. Noi studiere- mo questi stili di vita (1) e le potenze psichi- che (2) che li alimentano. E dopo aver studiato in tutta la loro purezza e coerenza interiori i (1) L’Eroismo, l’Ascetismo, la Santità, la Sag- (2) Rispettivamente: il Desiderio e la Volontà, la Nolontà, l’Amore, la Conoscenza. 174 ^pi cui quelle potenze han dato vita, studiere- mo anche alcune delle soluzioni minori che esse possono generare. Perchè nell’interno di ogni atteggiamento fondamentale di fronte alla vita c’è una soluzione ottima, che non a tutti è dato raggiungere, non tutti avendone la forza e la capacità, e di cui tutte le altre soluzioni neH’interno di quell’atteggiamento non sono che abbozzi, embrioni, presagi, pre- figurazioni. Ogni stile di vita porta con sè accanto al- la luce della gioia tenebre, che sono il neces- sario accompagnamento di quella gioia. Se nell’interno di ogni singolo atteggiamento fondamentale di fronte alla vita fosse possi- bile una gioia perfetta e compiuta, stabile e definitiva, l’uomo sarebbe natura, forma, es- senza. Se egli ciò non è, vuol dire che mai egli può definitivamente diventarlo, e cioè, se an- che nell’interno di ogni atteggiamento egli può realizzare per un attimo la massima gioia che da quell’atteggiamento può nascere, in quella gioia non può mai posare definitiva- mente tranquillo (1). (1) Filosofia delle Morali, Roma, Bardi, 1937, cap. I. 175 II. L’Amore. L’Amore. — ...L’amore non è fusione del- l’amante con l’amato, nè oblio dell amante nell’amato, come troppo comunemente si di- ce. L’amante sente Yaltro come altro da sé, lo proietta lontano come altro da sè, per ciò stesso distingue sè da U’altro, ma neìYaltro po- sto come altro colloca il centro della sua vita stessa. L'altro è abolito, ma solo come oppo- sto, come contrario, come ostacolo, come ne- mico. Nella sua nuda qualità di altro è non solo rispettato, ma confermato e affermato. L'altro così cessa di essere un limite per 1 io, e per ciò stesso nei suoi riguardi l'io cessa di essere affetto da un sentimento di deficienza e di passività. Perciò dall’atto di amare fio- risce sempre gioia; perciò all’atlo di amare è sempre connaturata letizia. L’Amore è gioia. — L’essere amato può morire soffrire mancare, e così una tonte di dolori si apre per l’amante. Ma il puro atto di amare in quanto tale è sempre e immuta- nti bilmente fonte di gioia. Nessun amante per non soffrire dei dolori o dell’assenza o della perdita della creatura amata accetterebbe di non amarla più: prova decisiva che l’atto di amare in quanto tale dà gioia. Amare è es- senzialmente sentirsi nell’essere amato, sen- tire lui come centro della nostra propria vi- ta, e poiché, una volta che Yaltro è oggetto di amore in quanto altro, il centro della no- stra vita è trovato una volta per sempre e tutto in una volta, amare è essenzialmente ri- poso, tranquillità, pace, tutto avere e più nul- la desiderare per sè, è vita (nei riguardi del- l 'altro) non più affetta da deficienza, quindi da dolore. Amore e Desiderio. — Perciò, preso allo stato puro, l’amore non ha nulla a che fare con il desiderio, con cui spesso lo si confon- de. Il desiderio pone Yaltro come altro dal- l’io, come limite dell’io, come fonte di passi- vità per l’io, e mira ad abolire questa passi- vità col ridurre Yaltro in soggezione dell’io — l’amore abolisce la possibilità stessa del contrasto tra io e altro ponendo nell’a/fro il centro dell’io. Amare è posare tranquilli nel- l’oggetto amato — desiderare è muoversi dal- la deficienza alla sufficienza attraverso l’as- soggettamento délValtro all’io. L’amore fa ca- dere con il contrasto dell’io e dell’«//ro la pos- 12 177 . lità slcssa «li sentirsi deficiente e manche- sibili ta stessa __ (les iderare, in- vole nei riguardi dell altro , f . vece è proprio sentirsi manchevoli e deli In brama è la radice del sentimento di nienti, la i> > l’amore è una =--T-^SSrì Va n ..., delle quali non % e passai,-, tt di "lira sorta. Su, piano P oM di esse nulla tu nè .^rTdurre l'àn, orerai l'altra tersa. Impossibl dedurre desiderio o viceversa. Inipossim l’uno dall’altro- E le g nerano sono di qualiU La C oesi- vpr „, benché entrambe positive. Iten'à nello stesso essere di queste potenze co- 1 =„: tall ctr^1’amore Comporta anche desiderio di sempre maggior gioia per e non solo desiderio, ma operosa a Inazione di onesto cioè volontà. Ma in quanto amore non è deuterio di nulla. Io desidero bene e gioia per l'amato e mi sforzo con °S M P°'“ di m ( curargliela, ma l’atto con cui o lo co stituisco amato dame o»**-*^^ sione. Io desidero la gioia dell amato, e | 178 sua gioia in quanto e perchè sua e a gioia, ma quel desiderio non è desiderio qualcosa che manchi a me, e desiderio qualcosa che manca all’amato e che io dea doro per lui perchè lo amo, e perciò mentre il desiderare per me non va senza sentimento di deficienza e cioè dolore, desiderare per V altro che io amo è un desiderare che, se an- che in sè stesso ha del dolore, è tutto avvol- to dalla gioia dell’amore e perciò disintossi- cato dal sentimento di dolore che il puro e nudo desiderio in quanto tale porta con se. Perciò se quel desiderio di bene e di gioia per l’amato fallisce la sua realizzazione, 1 aman- te certo, soffre del suo insuccesso, ma il suo dolore è avvolto dall’amore che egli ha per V altro e svelenito dalla gioia connaturata al- l’atto di amare. Ed è questo che sempre e m ogni caso lo salva dalla disperazione, alla quale così spesso va incontro il puro e nudo desiderio che fallisce la mèta. L’amore è riposo. - Chi ama desidera au- mentare la vita il valore la gioia dell amato, desidera che l’amato sia il piu possibile ricco di valore e di gioia, ma non desidera ne pu desiderare che divenga essenzialmente altro da quello che è. Gli è che l’amore come amo- re è posare nell’acro appunto perche è «/- tro Ora, se un altro è amato perche c che è, siccome il suo essere quell’attro che è non è una qualità che può crescere e diminui- re se lo si ama, lo si ama come l'altro che è, si’ posa in lui, e non c’è altro da chiedergli. Perciò l’amore porta con sè essenzialmente riposo, pace, quindi sufficienza e gioia. Si ama l'altro perchè è come è: che l altro sia quello che è, è qualcosa che si ama o non si ama, e se si ama, si ama tutto d’un tratto e tutto in una volta, e perciò se 1 amore si de- sta, esso è perfetto tutto d’un colpo, non ha nulla più da raggiungere, ha tutto quel che gli occorre, posa tranquillo, felice. Perciò 1 a- more è tutto e solo nel presente, non è ten- sione al futuro perchè nulla gli manca, e per questo è gioia e felicità. Anche per ciò l’amo- re è radicalmente distinto dal desiderio e dal- la volontà, ai quali è essenziale orientarsi più o meno consciamente verso il futuro, che, an- zi, sono essi stessi il futuro in atto. Amore e azione. — Appunto perchè desi- derio e volontà si orientano verso il futuro, è essenziale ad essi esplodere in atti di conqUH sta dell’aùro che li soddisfa, mentre all’amo- re in quanto nudo e puro amore bruciante lutto nel presente non è necessario scendere nell’azione. Il desiderio e la volontà spirano, in quanto tali, nella mèta raggiunta: l’aman- te può desiderare anch’esso di raggiungere 180 una mèta iti bene per l’oggetto amato, ma, raggiunta che sia, l’amore non muore, soprav- vive come amore. Per questo l’amore è indi- pendente dal successo e non ha da fare i con- ti col mondo esterno, come il desiderio e la volontà. Amore e sesso. — Quando si parla di amo- re si pensa di solilo all’amore fra persone di sesso diverso. Ma qui bisogna accuratamente distinguere. Per ciò che è il puro trasporto sessuale, la relazione che questo crea fra per- sone di sesso diverso è relazione di desiderio: chi ama sessualmente l’altro, ne ha bisogno per il suo proprio godimento sessuale, che non gli può essere dato che da quella perso- na così e così determinata. Qui siamo nel do- minio del desiderio. Ma l’altro di sesso diver- so può anche essere fatto oggetto di amore nel senso sopra definito, può anche essere amato per sè e non per me. L’amore nel sen- so stretto della parola può fino a un certo segno combinarsi col desiderio sessuale: l’al- tro può essere da me desiderato per il mio piacere e nello stesso tempo, in certi attimi almeno, posso sentire in lui il centro della mia vita. Le due potenze psichiche possono combinarsi fra loro in modi innumerevoli, con innumerevoli sfumature, e definirle a una a una è impossibile. Ma si tenga fermo 181 che il desiderio sessuale in quanto tale e desi- derio e non amore; che l’amore nella sua scaturigine prima non è desiderio ne sessua- le nè altro, è essenzialmente purezza e inno- cenza; che anche un essere di sesso diverso può essere oggetto di amore e non di deside- rio, in modo che questo, se non proprio as- sente, almeno sia ricacciato nello sfondo del- Panima e non ne occupi il centro. III. La Santità. L’umiltà. — L’amore può divenire, e a un J certo punto della storia è diventato di fatto, forza dominante dell’animo, centro e asse della vita spirituale, generatore di un a eg- eamente dello spirito verso il mondo e la vita in universale. Esso allora abolisce il con- trasto fra io e altro non nei confronti di que- sto o quell’essere particolare, ma nei confron- ti di tutti gli esseri in generale. Allora 1 amo- re è generatore di umiltà. L’umiltà e una de - le facce dell’amore. E’ l’amore stesso in quan- to abolisce ogni possibilità per l’io di porsi come centro. Poiché è generata dall amore. 182 l'umiltà non dà dolore, non genera senso > mancamento e di deficienza. Essa anzi e dot eezza, soavità e gioia perchè e il morire ciò da cui deriva ogni senso di deficienza. _ brama, il desiderio. L’umiltà non è sentirsi piccolo e meschino, è non sentirsi, non avver- tirsi, non porsi, ignorarsi come centro. L u* miltà, quando è vera umiltà, è senso di liber- tà da tutte le catene del desiderio, da tutte le limitazioni dell’io, è gioia e felicità, dolcez- za e pace. L’Amore perfetto e compiuto. — In que- sta forma estrema l’amore abbraccia tutte le creature senza eccezione alcuna. L’amore uni- versale e perfetto è amore di tutti 1 viventi non in ciò che li separa e li pone l’uno con- tro l’altro, ma in ciò per cui ogni vivente e compossibile di ogni altro ed esclusivo di nes- suno. L’amore perfetto e compiuto ama ogni creatura, ogni vivente, solo perchè creatura e vivente, solo perchè altro dall amante, ma in ciascun vivente non ama che ciò per cui quel vivente non si pone contro gli altri vi- venti. Perciò l’amore perfetto e compiuto e amore degli altri non in quanto certi altri, ma in quanto puramente e semplicemente al- ili, e perciò è amore di tutti gli altri. Lsso e essenzialmente rinuncia per sè e per tutti 1 viventi a tutto ciò che pone i viventi gli uni 183 contro gli altri. Ora un mondo in cui ogni vi- vente sia compossibile con tutti gli altri vi- venti ed esclusivo di nessuno è impossibile a pensarsi quaggiù in terra, nelle condizioni di vita che sole conosciamo, non foss’altro clic perchè ci Sono viventi che non possono asso- lutamente vivere se non a spese di altri vi- venti. Se noi chiamiamo terra il piano di vi- ta (solo a noi noto) in cui i viventi lottano fra loro, l’amore perfetto e compiuto è rinun- cia totale alla terra. Se noi chiamiamo Cielo, Padre, Dio, Regno di Dio, il punto metafisi- co in cui tutti i viventi comunicano, il princi- pio e il focolare generatore della vita univer- sale, Famore perfetto e compiuto è amore di tutti i viventi, non nei viventi stessi, in quan- to cioè creature così e così determinate, che come tali possono, o addirittura, per vivere, debbono, lottare contro gli altri, ma in Dio, cioè nel punto in cui tutti comunicano e nes- suno è esclusivo di nessun altro. L’amore perfetto e compiuto è amore di tutti i viventi in Dio: a sua volta, Dio appa- re all’amore perfetto come il punto in cui tutti i viventi comunicano e nessuno è esclusi- vo di nessun altro, e cioè come focolare d’a- more. L’amore perfetto ama tutti, anche il mal- vagio, anche colui che nega o ignora l’amore: esso non ama nel malvagio il suo male, la sua rivolta contro l’amore o la sua ignoranza 184 iell’amore, ma ama il vivente che anche egli \ t la vita che è anche in lui. L’amore perfetto ima tutti, ma tutti qui non è astrazione con- cettuale dai singoli, significa la totalità vi- vente dei singoli, i singoli affermati come di- versi e negati come opposti, i singoli pensati come organizzati in vivente unità in cui ognu- no di essi, pur rimanendo l’individuo singolo e particolare che è, non ha nulla che lo pon- ga contro gli altri. L’amore perfetto e compiuto è la vita che si tocca si gusta si possiede si abbraccia non come questa o quella vita, ma come vita in universale, onnicomprendente, di nessun vi- vente esclusiva. Nè la vita comprende e ab- braccia e possiede e gode sè stessa come vita universale altrimenti che come amore. L’Amore (tenera Chiesa. — L’amore per- fetto è perciò generatore di Chiesa, intenden- do per Chiesa una società in cui per ciascu- no dei componenti i singoli siano voluti co- me diversi e negali come opposti, in cui fra i componenti non ci sia altro vincolo che quello dell’amore perfetto e compiuto. Non senza un perchè quando l’amore perfetto ap- pare la prima volta nel mondo come forza storica esso genera Chiesa, cioè una società affatto nuova, in cui vincolo supremo fra quelli che ne fanno parte è l’amore perfetto 185 C compiuto. Con le società fondate sul pia- no del Desiderio c della Volontà la Chiesa non ha assolutamente nulla a che tare. Quel- le, anche le più fuse e compatte, sono sempre esclusive o a dirittura nemiche di altri viventi e di altre società. La Chiesa, invece, appunto perchè fondata sull’amore che in ogni viven- te abbraccia il diverso e abolisce 1 opposto, è di sua natura universale e di nessun vivente esclusiva. La Chiesa è la società che non si sente nemica virtuale o reale di nessun vi- vente e di nessuna società, e di cui fa parte d9 diritto ogni vivente che si senta nemico di nessuno. S’intende che qui parliamo della Chiesa nella purezza del suo principio ideale e non delle cosiddette chiese storiche, nelle quali quel principio si è assai piu spesso ne- gato che incarnato. [m Santità, culmine dell’Amore. — Il San- to è l’uomo in cui l’amore perfetto e compiu- to si realizza al massimo grado. La santità dj perciò legata essenzialmente con la gioia. Il Santo è nella gioia, ma la gioia che egli prova non gli viene — in quanto Santo — che dal| l’amore. Egli vuole la gioia di tutti; ma la gioia che egli desidera per tutti è la gioia del- l’amore, la gioia che non ammette nulla che deprima o uccida la gioia degli altri. Se il Santo ha in sè tristezza, è quella di non sen- 186 tirsi santo abbastanza, di sentire in sè qua - cosa che resiste all’amore, è la tristezza di sentire che in qualche punto ancora l’io op- pone resistenza all’amore che lo dissolve e brucia come centro. Perciò nel Santo perfet- to e compiuto non c’è senso di sacrificio e di rinuncia, ma gioia straripante. Se il Santo sentisse il suo atteggiamento come sacrificio, vorrebbe dire che ancora in qualche punto il suo io avrebbe il centro in sè e non nell’acro. Nè la santità è inerzia, immobilità. Essa e energia che attua il bene e la gioia sempre maggiori delle creature, ma sempre un bene e una gioia tali che non pongano le creature le une contro le altre, un bene e una gioia tali che non facciano di nessuna creatura un centro di resistenza all’amore universale. L’a- more per la natura sua stessa tende a gene- rare tutto intorno a sè spirito e volere di co- munità. Santità e rinuncia. — L’amore perfetto e compiuto, la santità, è rinuncia alla terra, ri- nuncia a tutto ciò che può mettere 1 viventi oli uni contro gli altri, rinuncia a tutto ciò per cui i viventi lottano, o possono lottare, fra loro. La rinunzia alla terra è la faccia ne- oativa della santità, è la santità stessa nel suo lato negativo, e perciò non ha nulla di do- loroso, non è sacrificio. Non si è santi perche 187 si rinuncia, si rinuncia perche si è santi. Chi vien prima (idealmente prima) qui è la san- tità. La rinuncia alla terra insita alla santità si distingue profondamente da quella fatta sul piano deH’asccsi. Su questo la rinunzia è distacco puro, creazione di un vuoto dove prima c’era un pieno. Sul piano della santità, invece, la rinuncia è sostituzione di un pieno ad un pieno, di una gioia a una gioia, della gioia dell’amore alla gioia del desiderio e del- la volontà trionfanti, la quale per chi è sali- to al piano dell’amore si è spenta senza biso- gno di sforzo per spegnerla, annullata e som- mersa dalla nuova gioia dell’amore, com’è annullata c sommersa la luce delle stelle dal- l’apparire del sole. Santità e Religione. — Sarebbe un errore credere la santità legata a miti teologici, co- me Dio, il Cielo, l’aldilà, intesi come realtà oltresensibili esistenti obbiettivamente. Dio, il Cielo, il Regno di Dio non sono che i sim- boli che l’amore universale e infinito proiet- ta dinanzi a sè, l’obbietlivazione di ciò che esso sogna per tutti. Dio, il Regno di Dio, il Cielo sono lo stesso amore perfetto e com- piuto pensato come realtà, come esistenza, co- me oggetto interamente realizzato. Non la santità è sorta dalla credenza in Dio, nel Cie- lo, nel Regno di Dio, ma Dio, Cielo e Regno 188 di Dio sono i miti in cui la santità ha ofabiet- tivalo sé stessa. I santi han creato quei miti perchè erano santi, non sono divenuti santi perchè credevano in quei miti. Peraltro la forte credenza in quei miti, una volta creati, può generare le condizioni intellettuali favo- revoli perchè la santità liberamente fiorisca e si espanda. Perciò la santità non è necessa- riamente legata a quei miti, e può attuarsi in tutta la sua purezza indipendentemente da essi: si ha allora la santità laica, la santità alea (1). IV. La Ragione, passione dell’identità. La Ragione è la passione dell’identità. Al- la molteplicità e varietà del mondo essa ten- ta sostituire unità e identità. Suppone dunque molteplicità e varietà, ma come il fuoco sup- pone il combustibile: senza combustibile il fuoco non è, ma il suo esserci è distruggerlo. La Ragione non entra in azione se non avver- tendo molteplice e vario come tali, ma avver- tirli come tali è da essa sofferto come dolo- re da lenire, come offesa da vendicare, come (1) Filosofia delle Morali, cap. V. 189 vuoto suo da colmare al più presto. L ìden 1 - 1 tà è la coltre di cenere grigia che la passione dell’identità lascia dietro di se al posto de la 1 bella e ricca varietà che ha bruciata. L’esistenza del molteplice è per la Ragio- ne scandalo intollerabile: solo se tutto fosse Uno, sarebbe contenta. Ma se tutto fosse Uno e il molteplice non ci fosse essa non entreie - be in azione: il suo esserci è condizionato dal I suo non-esserci, dal suo non-esserci intera- mente, dalTesserci ancora del vano e del mol- teplice da divorare. Il fuoco arde finche c e combustibile. Dove tutto è cenere, non arde I più. Perciò la Ragione non può mai raggiun- gere del tutto il suo fine, e cioè la totale di- struzione del vario e del molteplice: il suo fine raggiunto sarebbe la sua fine. Il risultalo cui di volta in volta la Ragione 1 si ferma è perciò sempre un compromesso tra uno e molto, tra identico e vano: il com- promesso in cui più si soddisfa e quello in cui il molto non è che l’uno stesso, indefinitamen- te ripetuto. Perciò l’ideale che la Ragione per- segue è ridurre la varietà e molteplicità del mondo alla monocromia e monotonia dello, spazio vuoto omogeneo isotropo infinito, che è uno e mollo insieme, ma in cui la moltepli- cità (ogni frammento dello spazio) non è che lo spazio stesso indefinitamente ripetuto (ogni frammento di spazio è infinitamente 100 divisibile). Lo spazio vuoto omogeneo isoto- po infinito è la Ragione oggetto di se medes ma: in esso essa si contempla e ammira La Ragione è la nemica del tempo. Nella sua forma elementare il tempo è la succes- sione del prima e del poi : legame sintetico primitivo originario, che c’è perchè c’e, ine- splicabilmente, vero scandalo per la Ragione. Essa perciò tende a negare il tempo, a persua- dere che quando qualcosa accade in realta nulla è veramente accaduto che non fosse già prima, che ciò che è si riduce a ciò che era, che tutto in sostanza resta sempre come pri- ma. Ma dovendo pur ammettere che il tem- po in qualche modo esiste, se no non ci sa- rebbe bisogno di negarlo, la Ragione tende irresistibilmente a ridurlo a fenomeno super- ficiale, a illusoria apparenza al di sotto di cui si stende l’immobile realtà. Quando deve pur piegarsi ad ammettere un cambiamento, e un cambiamento in cui ci sia il massimo possi- bile di permanenza e d’immobilità: per que- sto tende a ridurre ogni cambiamento allo scorrere del punto nello spazio omogeneo. La Ragione non è l’identità, è la passione dell’identità, è energia che crea l’identità a posto della varietà e della molteplicità: iden- tità è il suo prodotto, non la sua natura. La passione dell’identità è l’unico apriori di cui tutti i concetti sono prodotto e risultato. Non liti v’c concetto che non si riduca in fondo a un’unità e identità, a un’immobilità e pernia- • nenza sostituite in parte a un molteplice e vario, a un cangiante e fluido. Al posto della vita la Ragione pone la morte. Non perciò è essa stessa morte inerzia immobilità stasi, co- me ha malamente concluso l’antiintcllettua- lismo moderno: chi uccide, chi dà la morte non è morto esso stesso. La Ragione è atto, potenza, energia che a colpi di martello appiatta le differenze di li- vello del mondo e tenta ridurlo a una super- ficie liscia e monotona. Essa è la vita al mas- simo di concentrazione e d’intensità, la vita che si afferma come unità assoluta di sè con sè e tenta proiettare un’immagine di sè nelle cose. Come energia, la Ragione è inafferrabi- le poiché afferrarla sarebbe immobilizzarla in un concetto, cioè negarla. Il comprendere essendo avvertire identità dove prima si av- vertiva varietà, unità dove prima si avvertiva varietà, ridurre il movimento all essere, il nuovo all’antico, il cangiante al permanente, ne segue che l’atto stesso di porre l’identico al posto del vario, l’uno al posto del mollo ecc. è per essenza aldilà di ogni comprensio- ne e intellezione, poiché intelligere, compren- dere è solo il risultato e l’opera sua. La Ra- gione è agilità e inafferrabilità infinita, come il fuoco. Attuata per intero, in tutta la sua poten- za, la Ragione è la vita come pura solitaria nuda presenza di sè a sè, con eliminazione as- soluta di ogni cosa che sia altro da questa pura solitaria nuda presenza: è Io puro e as- soluto. Io = Io. Ma allora essa ha incenerito ogni vario e molteplice che le resista, ogni og- getto ( ob-iectum ). C’è un oggetto in quanto e perchè la Ragione trova in esso ancora un li- mite che le resiste, un residuo che essa non è riuscita ancora a bruciare del tutto. Un lo puro e assoluto che crei un oggetto è perciò un’assurdità, perchè dove c’è Io puro e asso- luto non c’è creazione di altro dall’Io; dove c’è Io puro e assoluto non c’è oggetto, e vice- versa (1). (1) Inedito. 13 193 INDICE Prefazione che si prega di leggere . . ] ANTONIO ALIOTTA I. - Inesistenza di forme eterne DELLO SPIRITO IL - L’esperimento storico delle FILOSOFIE III. - La filosofia non è contem- plazione. MA AZIONE . IV. - L’ esperimento storico delle RELIGIONI V. - Le costruzioni logiche come tentativi di risolvere proble- mi DI VITA VI. - Il senso della storia e la vi- ta come rischio assoluto ERNESTO BUONAIUTI I. - L’etica dei. Vangelo . IL - Il paradosso del Cristiane- simo III. - La chiesa fermento del mondo GIULIO EVOLA Dall’ idealismo assoluto al- l’ idealismo magico . • ■ • Pag. 75 1) La Grande Solitudine » 76 2) La via della Potenza » 81 3) 11 mondo, atto dell’ Io . » 97 4) L’ Individuo Assoluto » 101 PIERO MARTINETTI I. - Idealismo immanente e idea- lismo TRASCENDENTE . » 106 II. - Ragione e Religione . $ 109 III. - L’ uomo è libero in Dio . « 113 COSTANZO MIGNONE Dio sogna e soffre . » 121 EMILIA NOBILE Ogni nascita è una morte in- finita » 131 GIUSEPPE RENSI • I. - Tempo e Spazio categorie del- l’ assurdo » 143 II. - Il Caso, signore del mondo . » 147 III. - Perchè c’è Storia? . » 148 IV. - La morale come istinto im- mediato » 161 V. - Relatività e assolutezza del- la MORALE T » 153 VI. - La vera immortalità . » 156 VII. - Utilità del male . » 160 Vili. - La verità del Politeismo » 161 IX. - Dio » 163 196 ADRIANO I. II. III. - IV. - TILGHER L’ UOMO, II, VIVENTE SENZA NA- TURA pag. 167 L’Amore » 176 La Santità . . . . . » is-3 La Ragione, passione del- l’ identità » 189
Sunday, August 17, 2025
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