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Sunday, August 17, 2025

GRICE E TIMPANARO

 PONE Library of the University of Toronto | CHI FVR LI MAGGIOR TVI STILLMAN DRAKE CHI FYR LI MAGGIOR TVI UNI SAM Mati mo VEROVOZRNTE VI n Va Hi Ù RA ; no d PRCRITA, LEAD ») i i LANLPTET TIM ALITO p9 n Tra dt tc ML 0, I CLASSICI RIZZOLI DIRETTI DA UGO OJETTI I sr É retti I Digitized by the Internet Archive in 2024 with funding from University of Toronto https://archive.org/details/galileogalileiop02gali RITRATTO SECENTESCO DI GALILEO A TORRE DEL GALLO Ceno SGA LTL EI Wet OL L A CURA DI SEB. TIMPANARO IL. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE. IL SAGGIATORE. CON 12 ILLUSTRAZIONI RIZZOLI EDIELRO:RI MILANO - ROMA PROPRIETÀ LETTERARIA COPYRIGHT BY RIZZOLI & C., MILANO 1938-XVI *% RIZZOLI & C., ANONIMA PER L’ARTE DELLA STAMPA MILANO * PRINTED IN ITALY VITA DI GALILEO Galileo si diceva fiorentino, benché fosse nato a Pisa, perché suo padre e i suoi antenati erano fiorentini. La famiglia Galilei era stata anzi una delle più cospicue della Repubblica fiorentina ed aveva avuto tra i suoi membri uno dei dodici buonomini che nel 1343 successero al Duca di Atene e quel maestro Galileo, sepolto in Santa Croce, che fu medico famoso, priore e gonfa- loniere. La tomba di maestro Galileo, che nell’epigrafe è chia- mato magister Galileus de Galilais olim Bonajutis, divenne la tomba della famiglia Galilei: Benedictus filius hunc tu- mulum Patri, sibi, suisque Posteris edidit; e lasciò detto Galileo, nel suo testamento del 21 agosto 1638, che lî dentro voleva essere sepolto. Vincenzo Galilei, nato nel 1520, era sonatore di liuto, mu- sicista, teorico della musica e scopritore di musica antica. Aveva ingegno e carattere indipendente e conosceva il latino, il greco e la matematica. Pubblicò varie opere, tra cui citeremo il Fronimo, il Dialogo della musica antica e della moderna, il Discorso intorno all'’Opere di messer Gioseffo Zarlino da Chioggia, e parecchie altre son rimaste manoscritte e si trovano adesso alla Biblioteca Nazionale di Firenze. Fu allievo dello Zarlino e suo irriducibile avversario. Nella dedica del Discorso dice allo Zarlino: « Avendo il mio Dialogo dell’antica, e della moderna musica fatto conoscere, come avete voi, e il mondo veduto, molti importanti errori delle vostre Istituzioni, e delle vostre Dimostrazioni armoniche, credevo, dopo averli in oltre emendati, aver sodisfatto alla cortesia, che un amorevole scolare è tenuto al suo maestro: ma essendomi pur ora dato tra mano i vostri Supplementi Musicali, mi accorgo degl’importuni modi, 2. - G. Galilei, Opere - II. 10 VITA DI GALILEO che meco usate, cercando di nuovo provocarmi a porgervi il medesimo aiuto, che non rimanete di quanto nel mio Dialogo ho detto, appagato. Laonde io ho ripreso la penna per vedere di supplire a quanto di più da me desiderate nelle due prime opere vostre, e appresso ne i medesimi supplementi ». C'è qui qualcosa di galileiano: l’idea che un amorevole scolare non deve ripetere ma emendare gli errori del maestro, e l’ironia; manca la vivacità e la fantasia di Galileo. Vincenzo Galilei ebbe gran parte nell’Accademia o Came- rata de’ Bardi, dove egli sosteneva che occorresse « ritrovare l’antica Musica », levando la musica moderna « dal misero stato, nel quale l'avevano messa principalmente i Goti». Fu detto perciò restauratore della moderna armonia. In realtà poiché difese la monodia contro la polifonia dello Zarlino si E, con- siderare come un precursore del recitativo. Non potendo vivere con la sola musica, Vincenzo Galilei si diede, a quanto sembra, al commercio; e a Pisa dove si era trasferito per ragioni commerciali conobbe l’egregia et formosa puella Giulia degli Ammannati e la sposò il 5 luglio 1562. Da lei, oltre Galileo, ebbe altri due figli: Michelangelo e Benedetto, e quattro figlie: Anna, Elena, Virginia e Livia. Il primogenito fu Galileo, nato il 15 febbraio 1564 e battezzato nel Duomo di Pisa il 19. Come si vede (sia detto per incidenza) Galileo nacque tre giorni prima e non lo stesso giorno (18 febbraio) della morte di Michelangelo. Madonna Giulia aveva un carattere difficile, tanto che fu detta aspra, stravagante, litigiosa, terribile. Doveva essere in- telligente e vivace; e forse in Galileo rivivono originalmente le qualità spirituali di tutt'e due i genitori. Sui primi anni della vita di Galileo non si sa quasi nulla. Di certo si può dire che nel 1574 passò con la madre e i fra- telli a Firenze, dove il padre si era trasferito l’anno prima. Il suo professore di umanità ed eloquenza fu, a quanto sembra, Jacopo Borghini da Dicomano, che teneva scuola in via dei Bardi a Firenze; il professore di dialettica un monaco val- lombrosano. Secondo fra Diego Franchi da Genova Galileo fu anzi novizio vallombrosano. Nel 1579 il padre lo ritirò dalla VITA DI GALILEO | 11 Scuola per curarlo di una grave oftalmia e così «il traviò dalla religione in lontane parti ». In quegli anni Galileo studiò il disegno e la prospettiva; e suo padre, che ebbe certo gran parte nella sua prima educazione, gl’insegnò la musica. Nonostante le disagiate condizioni della famiglia, incorag- giato dalle eccezionali attitudini allo studio che dimostrava il ragazzo, Vincenzo Galilei pensò di mandare il figlio a stu- diare medicina all’Università di Pisa. Non risulta che Galileo abbia manifestato una particolare predilezione per la medi- cina ma la professione era delle pit lucrose e poteva quindi sollevare la famiglia, senza dire che a Vincenzo Galilei doveva piacere l’idea di riprendere la tradizione di maestro Galileo. A Pisa dimorava un gentiluomo fiorentino suo parente, Muzio Tedaldi, a cui Vincenzo affidava la famiglia durante le sue assenze nel periodo pisano; e poiché il Tedaldi aderi all'invito di allontanare dalla casa una Bartolomea che non garbava all’austero Vincenzo, Galileo fu mandato in casa Tedaldi e il 5 novembre 1581 fu immatricolato fra gli « scolari artisti » per studiare filosofia e medicina. Un tentativo fatto da Vincenzo in principio e ripetuto alla fine del terzo anno per ottenere un posto gratuito per Galileo nel Collegio della Sapienza di Pisa, non riusci ma Galileo rimase agli studi anche nel 1585. Finito il quadriennio, ritornò a Firenze, senza però conseguire la laurea. A Pisa Galileo combatté la sua prima battaglia antiperi- patetica, attirandosi l’odio dei professori per il suo spirito di contraddizione. Egli era e si sentiva già lo scienziato che fu poi sempre. Convinto che la natura è un libro matematico che ci sta aperto davanti agli occhi, non poteva accettare un in- segnamento che pretendeva di risolvere ogni problema scien- tifico stiracchiando Aristotile e rinunziando all’osservazione e all'esperienza. La prima scoperta di Galileo, quella dell’isocronismo delle piccole oscillazioni del pendolo, risale a quegli anni. Si dice _ che vedendo oscillare una lampada nel Duomo di Pisa e va- lendosi dei battiti del polso per la misura del tempo, si accorse che le oscillazioni, pur diminuendo continuamente d’ampiezza, 12 VITA DI GALILEO avevano tutte la stessa durata. Secondo il Viviani egli pensò subito (bene o male studiava medicina) di applicare l’isocro- nismo alla misura della frequenza del polso. Sino a tutto il prim’anno dei suoi studi di medicina, Galileo non aveva ancora studiato la geometria, benché da suo padre avesse più volte sentito dire che la musica e la prospettiva dipendevano dalla geometria. I suoi studi geometrici comin- ciano nel 1583, evidentemente in un periodo di vacanza, sotto la guida di Ostilio Ricci da Fermo, matematico allievo di Tartaglia e autore di un trattato sul modo di misurare con la vista. Il Ricci avverti Vincenzo Galilei, che era suo amico, e Vincenzo aderi ma pregò il matematico di non dire nulla a Galileo e di andare avanti con lentezza in modo da non di- strarlo troppo dalla medicina. Galileo però dopo le prime spie- gazioni andò avanti da sé e allora il padre si arrese. Galileo studiò non solo Euclide ma anche Apollonio, Tolomeo, Pappo e specialmente Archimede. Nel 1586 con la Bilancetta dimostra di aver capito Archimede e di saperlo continuare; subito dopo trova nuove conclusioni e dimostrazioni sul centro di gravità dei solidi e il 29 dicembre 1587 il siciliano Giuseppe Moleti, professore di matematica all’Università di Padova, lo dice buono ed esercitato in geometria. Anche Ostilio Ricci rilascia « fedi in commendazione del valor di questo giovane » e. il marchese Guidobaldo del Monte, valente discepolo del Com- madino e uomo influente, comincia a proteggerlo. Per rendersi in qualche modo utile alla famiglia, Galileo dà lezioni di matematica a gentiluomini di Firenze e di Siena; tiene all'Accademia fiorentina le lezioni intorno alla figura, al sito e alla grandezza dell’Inferno dantesco, in cui difende il Manetti contro il Vellutello; e cerca da per tutto una cattedra. Forse appunto per ottenere la cattedra fece nel 1587 il primo viaggio a Roma: ma nonostante i suoi sforzi e quelli del marchese del Monte, sino all’estate del 1589 non ci riusci. La cattedra di Bologna fu data invece all’astronomo Giovanni Antonio Magini che doveva essere uno dei suoi più obliqui avversari. VITA DI GALILEO 15 Nel luglio del 1589, in seguito a raccomandazione del car- dinale Francesco del Monte, che era stato pregato dal fratello, marchese Guidobaldo, il granduca Ferdinando I nominò Galileo alla cattedra di matematica di Pisa. Pare che abbia contribuito alla nomina anche il principe don Giovanni de’ Medici, figlio naturale del granduca Cosimo I e di Eleonora degli Albizzi. Lo stipendio era cosi meschino che non poteva bastare nemmeno al mantenimento di Galileo, che invece voleva aiutare la fa- miglia: sessanta scudi all’anno (Girolamo Mercuriale, professore di medicina, ne aveva duemila) e non tenendo conto delle ap- puntature, perché se per qualunque motivo si perdevano delle lezioni, alla fine dell’anno se ne doveva restituire il compenso. Per arrotondare lo stipendio, Galileo dovette molto proba- bilmente dare lezioni private di matematica, come fece poi a Padova, e come del resto aveva già fatto a Firenze. Si può escludere che abbia dato lezioni di medicina, come supposero alcuni biografi, perché dalla medicina, a cui non aveva mai creduto, s'era staccato da parecchio; e le opere di Galeno, che si era fatte mandare dal padre nel novembre del 1590, pote- vano servirgli per discutere su questioni peripatetiche col Mer- curiale o con Jacopo Mazzoni da Cesena, che gli era amico e maestro di filosofia. I programmi della lettura di matematica comprendevano la geometria euclidea e il sistema tolemaico e con molta pro- babilità li rispettò. E certo che dalla cattedra non difese Co- pernico, benché fosse già divenuto copernicano. Non è molto verosimile dunque che abbia suscitato aperte ostilità nell’am- biente accademico e sia stato perciò costretto a lasciare la cattedra. Non credo nemmeno che egli si sia potuto attirare l'odio dei colleghi per le esperienze sulla caduta dei gravi, fatte dall’alto della Torre, perché queste esperienze, che non Cè ragione di negare, non possono essere state una pubblica sfida ai colleghi. Se qualche aristotelico vi assistette, le avrà considerate come curiosità più o meno discutibili. È vero che Ferdinando I non aveva grandi simpatie per la matematica e che l’Università, per il suo aristotelismo, non 14 VITA DI GALILEO poteva piacere a Galileo. Ma il giovane scienziato aveva amici anche nell'Università (il Mercuriale e specialmente il Mazzoni); fuori aveva Luca Valerio e doveva averne molti tra gli allievi. Dei tumulti contro Galileo di cui qualcuno parla, manca ogni prova e ogni motivo plausibile. Di vero non c’è che l’inci- dente col principe de’ Medici. Don Giovanni aveva inventato un apparecchio per vuotare dal fango la darsena di Livorno. Ferdinando, prima di mettere in esecuzione il modello che gli era stato presentato, pensò bene di sentire il parere del suo matematico; ma Galileo, — dice il Nelli, — dimostrò « con in- genua filosofica libertà » che la macchina sarebbe riuscita inutile e insufficiente, come infatti avvenne. Non c'è dubbio che l’idea di andare a Padova doveva sor- ridere a Galileo, oltre che per ragioni economiche, perché, come gli disse il Mercuriale, lo «Studio di Padcva era il proprio domicilio del suo ingegno ». Egli aveva gia tentato di andarci in seguito alla morte del’ Moleti, avvenuta nel gen- naio del 1588. Tuttavia le ragioni principali che lo indussero a lasciare la cattedra di Pisa dovettero essere quelle economiche. Nel 1591 la sorella Virginia s'era sposata con Benedetto Landucci è Galileo, ch'era affezionato alla famiglia e d’indole generosa, non solo le fece vari doni ma s'impegnò per contratto a darle una dote che con le entrate di Pisa non avrebbe mai potuto pagare. Nello stesso anno gli mort il padre, e cosf Galileo dovette pensare alla madre, al fratello Michelangelo e alle sorelle Elena (o Lena) e Livia. La sua posizione a Pisa era dunque divenuta insostenibile. Prima di parlare del passaggio di Galileo all’Università di Padova, vogliamo fermarci sulle sue deposizioni, in qualità di testimone, nei due processi per la successione del patrizio fio- rentino Giambattista Ricasoli Baroni, in compagnia del quale aveva studiato filosofia, matematica e poesia. Le deposizioni portano in margine varie postille offensive, scritte da legali scontenti: « Bugia; Tutte bugie; Queste cose non le conta -al- cuno, se non questo per l’anima del far sua sorella monaca; Questo è uno indovinare falsità; Belle favole e canzone!; Tri- VITA DI GALILEO 15 staccio, discortese, sfratato! e poi perché t'hanno promesso fiorini 150 per la sorella, far questo etc. falsamente!; Perché stette seco a insegnare a una sua figliuola in Siena; Non si ricorda ed era presente! >». Galileo fu interrogato per la prima volta a Firenze il 6 feb- braio 1590. Tornato da Pisa durante la Pasqua dell’anno prece- dente, il Ricasoli lo invitò più volte a desinare e a cena e una sera, per l'ottava di Pasqua, lo pregò di restare a dormire con lui. La notte, essendo insieme nel letto, il Ricasoli gli gettò le braccia al collo e gli domandò tra i sospiri che cosa sentiva dire del fatto suo e quando credeva che si avesse a dar fine al suo fatto. Galileo rispose e insistette che non aveva sentito dir cosa alcuna né sapeva di fatti o altro e allora il Ricasoli fini col dirgli che aspettava di ora in ora di essere giustiziato, per avere errato in materia d’inquisizione di Stato e di peccato di carne; e che si aspettava la morte pit ignominiosa (fuoco, forca o molto di più) per avere inoltre uccellato, per modo di dire, il granduca Francesco e la granduchessa Bianca. Galileo non riusci a rimuovere il Ricasoli dalla sua idea fissa. Il pazzo gli disse in seguito che aveva avuto molte volte il pensiero di gettarsi da qualche luogo alto o di uccidersi con ferro, ma ne era stato ritenuto dalla religione cristiana. Un giorno Galileo incontrò il Ricasoli con la berretta co- perta di velo. Gli domandò per chi portasse il lutto e il pazzo gli rispose che lo portava per se stesso, perché, dovendo mo- rire per mano della giustizia, i parenti non potevano portarlo, aggiungendo che, per ordine di Sua Altezza, i medici gli ave- vano guastato lo stomaco. Cosi non digeriva più e nemmeno «sanguinava >»: aveva cioè le vene senza sangue ed era debo- lissimo. Giambattista Ricasoli disse a Galileo che, per prolungare in qualche modo la vita, aveva pensato di fuggire e pregò Galileo di accompagnarlo. Galileo finisce col cedere e nella deposizione dà i più mi- nuti particolari sulle strane peregrinazioni di Giambattista, che va a cavallo e non scende nei punti più pericolosi, né alza i piedi quando passa a guazzo i fiumi e si ferma o parte nelle ore più inverosimili. 16 VITA DI GALILEO A Genova Galileo ha un'idea. Va da un teatino, chiamato il padre Gabriello o Raffaello, e lo prega di andare dal Ri- casoli e dirgli che una santa monaca aveva saputo per rivela- zione che doveva arrivare a Genova un gentiluomo fiorentino, travagliato da stravagante infermità di mente, che gli era stata mandata da Dio per punirlo di alcuni suoi errori. Ora la divina Bontà, avendo preso castigo sufficiente, si contentava che i timori e i dolori finissero; e poiché Sua Maestà opera il più delle volte per mezzi naturali, voleva che il gentiluomo cercasse di alienare con medicamenti le cause che, per consenso di Dio, avevano prodotto gli umori malinconici, rimettendosi in tutto e per tutto nelle mani dei medici. Giambattista ha cosî una tregua ma non guarisce, anzi poco manca che non succede una disgrazia. Una notte, alla Torricella, tornando a casa col Ricasoli, Galileo rimase in- dietro. Giambattista, arrivando a casa tutto alterato, cominciò a gridare: « Fattore, denari. I banditi hanno preso il Galileo e lo lasceranno se gli mando denari ». Pier Battista Ricasoli, il fattore e il servitore con archibugi, spade e aste corrono per affrontare i banditi e Pier Battista scambiando per uno dei banditi Galileo che se ne tornava tranquillamente, diede fuoco all’archibugio che per fortuna non prese. Galileo li per lî non capi niente; ma dopo, considerando il pericolo che aveva corso, ne senti gran travaglio. Con le sue deposizioni Galileo riesce a delineare la figura di Giambattista Ricasoli Baroni con « precisa efficacia e scol- pitezza evidente ». Ignaro degl’interessi e delle meschinerie che gli si agitano intorno, si muove in un’atmosfera serena, come se si trattasse di triangoli e di stelle. Ai quesiti dei giudici risponde mostrando l’acutezza del suo ingegno e il suo spirito d’osservazione, o risponde che non sa, oppure rimanda ai medici o ai teologi. Alla domanda come si possa conoscere che uno sia uscito dal sentimento buono, ri- sponde che si può da molti effetti e particolarmente dal per- suadersi di cose interamente false e impossibili. Il discorso è operazione della mente fatta con ragione. Sono savissimi co- loro che in tutte le loro azioni usano perfettamente la me- moria, il discorso e l'immaginazione. Qualcuno di quelli che VITA DI GALILEO 12 sono tratti dal sentimento buono crede di essere una fiera, 0 d'avere qualche membro sproporzionato; altri credono di esser morti ed i più, secondo i medici, temono di dover morire di morte violenta. Dal fare orazione continuamente non si può ar- guire la pazzia, per non essere l’orazione specie di pazzia. Alla domanda se uno può rendere testimonianza nel deporre: Il tale fece la tal cosa di gennaio; l'avrà fatta ancora di giugno o di settembre, rispose di non potere dar risposta a un quesito tanto universale, atteso che molte cose si possono far di giugno e non di gennaio, e molte di giugno e di gennaio. Secondo i tempi è più lodevole ora il parlare, ora il tacere. I giudici gli doman- darono se il lasciare la borsa in un luogo più che in un altro, massime in casa di parenti, può intervenire a ciascuno, ed egli rispose che può intervenire che uno lasci la borsa in qualche luogo; dal qual luogo si può arguire se vi potette essere la- sciata apposta o inavvedutamente. Gli domandarono se il fare pazzo Giovambattista è togliere l'onore alla casa Ricasoli e fare un tristo Giovanni a cui fu donato e, secondo Galileo, le azioni che non è in nostra potestà fare o impedire non appor- tano onore o biasimo a noi e alla nostra casa. Secondo lui è quasi impossibile che una pubblica voce e fama, continuata molto tempo, sia falsa. Nei primi di settembre del 1592, andò a Venezia, dove, per la cattedra di Padova, gli furono offerti duecento scudi di sti- pendio all’anno, facendogli intravedere degli aumenti. Il 26 set- tembre ebbe la nomina per quattr'anni di fermo e due di rispetto, cioè quattro fissi e due a beneplacito del Doge, con lo stipendio di centottanta fiorini all'anno. Il Doge, informan- done i Rettori di Padova, diceva: Galileo « legge in Pisa con sua grandissima laude, e si può dir che sia il principal di questa professione ». Alla nomina aveva contribuito, come sempre, il suo grande amico Guidobaldo del Monte, il quale gli scriveva da Monte Baroccio, il 10 gennaio 1593, che voleva conoscere l’entità dello stipendio, « perché, — aggiungeva, — io vorrei che ella fusse trattata secondo il desiderio mio ed i suoi meriti». Dopo di essersi congratulato dei molti scolari, diceva simpaticamente che 18 VITA DI GALILEO Galileo non gli doveva nessun obbligo per la nomina, con- cludendo: « Ma il tutto lo dia al suo valore ed al suo molto sapere ». Esprimendosi cosî, il marchese del Monte non faceva delle frasi perché a Pisa Galileo aveva già creato i primi elementi della meccanica classica. Egli aveva cominciato a distruggere la meccanica aristotelica, dimostrando col piano inclinato che, se si fa astrazione dalla resistenza dell’aria, i corpi cadono con moto uniformemente accelerato; ed era arrivato anzi a for- mulare la legge dei numeri dispari. A Padova Galileo fu per qualche tempo ospità di Gian- vincenzo Pinelli, gentiluomo d’origine genovese nato a Napoli, famoso per la sua generosità e per la sua ricca biblioteca. Il Gherardini dice che, arrivato a Padova, Galileo « si provvide d'una piccola casetta per abitazione, non molto distante dal famosissimo tempio di S. Giustina » e che dall’Abate che reg- geva il monastero ebbe « letti, seggiole, ed altre cose simili, delle quali era non poco bisognoso ». Parrebbe dunque che l'ospitalità del Pinelli si limitasse alla mensa e alla biblioteca, senza comprendere l'abitazione. Si sa con certezza che, al prin- cipio del 1593, Galileo aveva una casa propria, dove ospitava il fratello Michelangelo. Molto probabilmente questa casa era nelle vicinanze di Santa Giustina ed era molto modesta. Le condizioni economiche di Galileo rimasero anche a Pa- dova molto critiche, perché lo ‘stipendio era piccolo e gli ob- blighi verso la famiglia gravosi. Tra questi obblighi non va dimenticata la dote alla Virginia, moglie di Benedetto Nan- ducci, a proposito della quale gli scriveva da Firenze la madre, il 29 maggio del ’53: « Se a quel che io intendo volete venir qua quest'altro mese l’arò caro, e mi sarà contento gran- dissimo; ma venite provvisto, perché, a quel ch'io vedo, Be- nedetto vuole il suo, cioè quel che gli avete promesso, e mi- naccia fortemente di farvi pigliar subito che arriverete qua ». Nonostante queste preoccupazioni e i dolori artritici e reumatici che cominciarono fin da allora a tormentarlo, Ga- lileo faceva lezione, continuava a lavorare alla nuova scienza del moto e a meditare sulla teoria di Copernico, stringeva amicizia con tutti, si può dire, gli uomini colti di Padova e di VITA DI GALILEO 19 Venezia e, amante com’era dei divertimenti, organizzava burle e faceva gite. Nei primi anni di Padova inventò «con gran fatica e molta spesa » una specie di innaffiatoio agricolo, e nel 1594 ottenne dal Senato veneto la privativa per vent'anni. Alla metà dell’ottobre 1595, per incuria di un operaio, s’in- cendiò il Duomo di Pisa e il Martini dice nel suo Theatrum Basilica Pisana che vi perirono parecchie pitture e statue. Per un bel caso di telepatia, testimoniato da Giambattista Doni, Galileo sognò nella stessa notte di camminare sui car- boni accesi e sulle ceneri della Basilica. Nel 1597 perfezionò il compasso geometrico e militare, una specie di primitivo regolo calcolatore che perdette importanza dopo l'invenzione dei logaritmi; e poiché l'apparecchio pia- ceva molto ai suoi allievi e ammiratori tra cui c'erano molti principi e signori di diverse nazioni, il 5 luglio del ’99 Galileo chiamò in casa Marcantonio Mazzoleni « per lavorare con lui e a sue spese strumenti matematici », cioè impiantò una pic- cola officina industriale. In quest’officina si costruivano com- passi geometrici e militari e compassi diversi, bussole, squadre, righe e altro. Non si sa se nella casa di Galileo abitasse pure messer Silvestro, l’amanuense che copiava le istruzioni per i compassi geometrici e altri scritti che corrisponderebbero alle odierne dispense. Il Mazzoleni vi abitava con la moglie e la bambina; vi stavano pure a pensione un quindici venti allievi e genti- luomini. Dice bene perciò il Favaro che la casa di borgo dei Vignali abitata allora da Galileo doveva essere un gran casa- mento e non la modesta casetta di Santa Giustina. E poiché, come dice il Viviani e conferma il figlio Vincenzo, Galileo « si dilettò grandemente dell’agricoltura, che gli serviva insieme di passatempo ed occasione di filosofare » e si può ragionevolmente supporre che alla casa fosse annesso un buon pezzo di terreno con pergole e viti, il Favaro si abbandona a una curiosa fan- tasia, immaginando il grande scienziato che coltiva lui stesso l’orto, distraendosi per qualche tempo dai severi studi. « Che anzi a noi par di vederlo sotto le pergole legate colle stesse sue mani raccogliere intorno a sé amici e discepoli, e ragionar loro della natura, e svolgerne innanzi ad essi, che pendevano 20 VITA DI GALILEO dalle sue labbra, le più splendide pagine; e queste geniali ed istruttive conversazioni interrompere, facendo imbandire al- l’aperto le tavole, pigliando spassi in comune e dar talvolta di mano al liuto che, come abbiam detto, sonava con maestria impareggiabile ». Il 29 ottobre del ’99 Galileo, con l'appoggio dei suoi nu- merosi amici, tra cui figura Giovanfrancesco Sagredo, ebbe, a decorrere dal 27 settembre del °98 in cui era scaduta la prima condotta, la prima conferma nella lettura con un aumento di stipendio di centoquaranta fiorini all'anno e quindi con lo sti- pendio complessivo di trecentoventi fiorini. Galileo non ne fu molto contento perché i suoi bisogni erano cresciuti. Egli infatti aveva già conosciuto donna Ma- rina Gamba da Venezia, la quale era andata ad abitare a Padova ma non nella sua casa. La Marina è la cenerentola della biografia galileiana: si sa che era figlia di Andrea e poche altre cose. Il Nelli dice che i domestici disastri forse distolsero Galileo dall’addossarsi i pesi del matrimonio, per il quale non dimostrò mai vocazione, aggiungendo: « Avrà egli osservato, che il le- garsi perpetuamente ad un simile stato, giugne spesse volte a disturbar l'animo di un galantuomo, che professa le Scienze. Di fatti le continue molestie, derivanti per lo più dalla capric- ciosa altrui fantasia, vagliono benissimo ad impedire i pro- gressi, che un filosofo far potrebbe nello studio della natura. E siccome è credibile, che gli fosse nota la risposta data da Cicerone, allorquando repudiata Terenzia, e pregato di sposare la di lei sorella, protestò di non potere attendere contempora- neamente alla moglie, ed allo studio della filosofia; cosi dovrà reputarsi il Galileo degno di qualche scusa se mosso da simili reflessioni elesse per sé un’amica ». La Marina, non avendo capricciosa fantasia, non diede a Galileo nessuna molestia e lo lasciò libero di attendere alle sue lezioni, alle sue invenzioni, alle sue scoperte; e quando Galileo la lasciò non fece scenate. Essa ebbe la sua parte nei diciott'anni più felici della vita dello scienziato; e se non poté partecipare alla sua vita spirituale, diede a Galileo la sua vera VITA DI GALILEO 21 compagna: suor Maria Celeste. Si deve aggiungere che gli anni in cui Galileo fu in relazione con Marina Gamba furono i più felici del periodo padovano, anche scientificamente. Per la relazione con la Marina e gli obblighi verso i pa- renti, tra la fine del cinquecento e i primi del seicento le con- dizioni economiche di Galileo andarono diventando sempre più difficili, tanto che nel maggio del 1602 egli dovette chie- dere l’anticipo di due anni di stipendio. Gliene fu concesso uno solo ma, in seguito a nuova domanda, ottenne l’altro il venti febbraio 1603. La sorella Livia che da parecchi anni si trovava come educanda nel convento di San Giuliano di Firenze, a spese di Galileo naturalmente, non vedeva l’ora di sposarsi; e nei primi del 1600, essendosi presentato un partito, dovette dare in ismanie, tanto che la superiora, suor Contessa, scrisse a Ga- lileo che dovesse in ogni modo levarla dal convento. Il 25 agosto, scrivendo alla madre, Galileo diceva che non po- teva per il momento accettare il partito, perché il fidanzato, Pompeo Baldi, per quanto buona persona, non aveva mezzi per mantenere una casa. La Livia si poteva metterla in altro monastero finché non fosse venuta la sua ventura, persuaden- dola che l’aspettare non era senza suo grande utile « e che ci sono e sono state delle regine e gran signore, che non si sono maritate se non di età che sariano potute esser sua madre ». Nella lettera Galileo si diffonde su Michelangelo e sui grandi guadagni che avrebbe realizzato in Polonia, dicendo che con la buona partita di denari che il fratello avrebbe subito mandato e con quello che poteva far lui si sarebbe potuto « pigliare spediente della fanciulla, già che ancora lei vuole uscire a provare le miserie di questo mondo ». Michelangelo aveva avuto, dal. signore polacco presso il quale era stato, « partito onoratissimo, ciò è la sua tavola, vestito al pari de i primi gentil’omini di sua corte, dua servitori che lo servino ed una carrozza da 4 cavalli, e di più 200 ducati ungari di provvisione l’anno, che sono circa 300 scudi, oltre a i donativi, che saranno assai; tal che lui è risoluto di andar via quanto prima, né aspetta altro che l'occasione di buona compagnia e credo che tra 15 giorni partirà. Onde a me bisogna di acco- 22 VITA DI GALILEO modarlo di danari per il viaggio; ed in oltre bisogna che porti seco, ad instanza del suo Signore, alcune robe; che tra ’l via- tico e le dette robe, non posso far di manco di non l’accomo- dare al meno di 200 scudi: sapete poi se ne ho spesi da un anno in qua; tal che non posso far quel che vorrei ». Tra le spese a cui accenna nelle ultime parole, non vanno dimenti- cate quelle per la nascita della primogenita Virginia, avvenuta a Padova il 15 agosto 1600. Dopo aver pensato a Michelangelo, Galileo pensò alla Livia che sposò il gentiluomo fiorentino Taddeo Galletti. Il primo gennaio 1601 venne stipulato il contratto matrimoniale e Ga- lileo si obbligò a dare, a nome suo € del fratello, una forte dote al Galletti. i Il 18 agosto gli nacgue, sempre dalla Marina, la seconda figlia, Livia Antonia. Michelangelo, come si poteva immaginare, non corrispose alle speranze, anzi per parecchio tempo non diede nemmeno notizie. Si dice che era un eccellente professore di musica e che in Germania aveva osservato che le rondini si nasconde- vano negli stagni e qualche volta .i pescatori le prendevano con le reti. Doveva avere ingegno ma per molti anni non fu che uno sbandato. Arrivava, partiva e non concludeva nulla. Galileo, che col matrimonio della Livia si era messo in un impiccio, gli scrisse e riscrisse senza ottenere risposta. Il 20 no- vembre 1601 gli mandò a Vilna questa lettera: « Ancor che io non abbia mai auta risposta ad alcuna delle mie 4 lettere scrittevi da 10 mesi in qua in diversi tempi, pur torno a replicarvi l’istesso con la presente; e voglio più presto credere che siano andate mal tutte, ed ogn’altra cosa meno verisimile, che dubitare che voi fussi per mancare di tanto all'obbligo vostro, nou solamente del rispondere con lettere alle mie, ma con effetti al debito che aviamo con diverse per- sone, e in particolare col S. Taddeo Galletti nostro cognato, al quale, come più volte vi ho scritto, maritai la Livia nostra sorella con dote di ducati 1800: de i quali 800 si pagarono subito, e mi fu forza pigliarne 600 in presto, confidando che al vostro arrivo in Lituania voi fussi per mandarmi se non tutta questa somma al meno la maggior parte, e per contri- VITA DI GALILEO 25 buire poi del restante di anno in anno sino all’intero paga- mento, conforme all'obbligo che ho fatto sopra tale speranza; che quando io avessi creduto che il successo avesse ad essere altrimenti, o non averei maritata la fanciulla, o l’averei acco- modata con dote tale che io solo fussi stato bastante a sati- sfarla, gia che la mia sorte porta che tutti i carichi si abbino a posare sopra di me. Io vi pregavo in oltre che dovessi man- dare una carta di obbligazione per darla al S. Taddeo, nella quale vi obligassi in solidum alla detta dote insieme meco, e che tale scrittura fussi autenticata per pubblico notaio. Però torno a ripregarvi che non vogliate mancare di eseguire tutto questo quanto prima: e sopra ’l tutto non mancate di darci avviso dell’esser vostro, perché ne stiamo tutti con gran pen- siero, non avendo mai intesa cosa alcuna di voi da che vi partisti di Cracovia, eccetto che circa un mese fa dal S. Carlo Segni, il quale per sua cortesia mi scriveva aver ricevute let- tere. da voi di Lublino, e che stavi in procinto di ritornare in Vilna, ma che per me non avevi mandato né lettere né altro. Circa ’l resto noi stiamo, per grazia di Dio, tutti bene, e si aspetta di giorno in giorno il parto della Livia, la quale in- sieme con suo marito vi si raccomanda infinitamente, come fo io con nostra madre. Di grazia, non mancate avvisarci del- l’esser vostro quanto prima ». La lettera è commovente ma Michelangelo non aveva fatto fortuna e non dovette far nulla. Cosi Galileo fu costretto, come si è accennato, a chiedere ai Riformatori l’anticipo di stipendio, «trovandosi — scriveva, — come ad alcuna delle Signorie loro è più particolarmente manifesto, aggravato da un debito, il quale, oltre al suo peso, lo va con interessi con- sumando, né potendo da quello alleggerirsi senza il lor sussidio e favore ». Nel maggio 1606 Michelangelo era di nuovo a Padova più spiantato di prima, ma trovò un nuovo posto a Monaco di Baviera come maestro di musica e virtuoso della cappella du- cale. Galileo, come al solito, fece le spese col cuore aperto alle speranze; ma Michelangelo, invece di pensare ai debiti coi cognati, sposò Anna Chiara Bandinelli, spendendo una gran somma nel banchetto nuziale. Il 4 marzo 1608 scrisse a Ga- 04 VITA DI GALILEO lileo che, in quanto al banchetto, aveva ragione ma, per non rimanere in vergogna violando l’usanza del paese, era stato forzato a farlo, avendo avuto «da 80 persone, tra le quali ci erano molti signori d'importanza e imbasciatori di quattro principi ». Per il debito avrebbe fatto ogni potere e patito ogni incomodo per darvi soddisfazione, pur ritenendo impossibile di poter trovare i 1400 scudi che si dovevano ancora pagare. « Bisognava dar la dote alle sorelle non conforme al vostro animo solamente, ma ancora conforme alla mia borsa ». Sa che Galileo avrebbe detto che non doveva prender moglie e pensare alle sorelle. « Dio benedetto, stentare tutto il tempo della mia vita per avanzar quattro soldi per darli poi alle sorelle! Soma e giogo troppo amaro e grave, e sono più che sicuro che stentando io 30 anni non potrei io avanzar tanto che io potessi dar l’intera sodisfazione >». Qualcosa però aveva gia fatto: aveva mandato 50 scudi per frutto, prendendone però 30 a prestito che non aveva ancora pagati e che doveva presto pagare perché il signor Cosimo voleva uno dei suoi liuti. «Da poi senza fallo mi farò prestar altri 50 scudi e ve li manderò: altro non so che fare». Ai cognati dovette provvedere Galileo, che continuò ad aiutare anche il fratello, sempre in bisogno. Dovette però chiedere l’anticipo di un’altra annata di stipendio, che ottenne il 19 aprile 1608, con la fideiussione di Cesare Cremonino, suo collega nell'Università di Padova come lettore di filosofia. A proposito del Cremonino, occorre avvertire che se, a quanto risulta da quest’episodio, era amico personale di Ga- lileo, era tutt'altro che un « galileista ». Era cosi convinto del- l’incorruttibilità peripatetica dei cieli, anzi cosî impietrito che non si degnò mai di guardare attraverso il cannocchiale e mori sostenendo che i satelliti di Giove erano una favola e che Aristotile aveva in tutto ragione. Il nome del Cremonino fu associato un’altra volta con quello di Galileo, nell’annotazione dei Decreta del Sant'Uffizio, in data 17 maggio 1611: « Si veda se nel processo del dottor Cesare Cremonino sia nominato Galileo, professore di filosofia e matematica ». Il Cremonino era stato processato dall’Inqui- VITA DI GALILEO 25 sizione per ateismo (e da questo punto di vista non aveva che vedere con Galileo); ma aveva inoltre molto contribuito alla cacciata dei gesuiti da Venezia (10 maggio 1606) ed in questo Galileo era d'accordo con lui, per quanto non risulti che abbia fatto particolari dimostrazioni di giubilo. Nella lettera a Mi- chelangelo in data 11 maggio 1606, a me non pare che Galileo si dimostri « troppo ingenuo » come dice il Nelli. « Iersera a due ore di notte furono mandati via li Padri Gesuiti con due barche, le quali dovevano quella notte condurli fuori dello Stato, Sono partiti tutti con un Crocifisso appiccato al collo e con una candeletta accesa in mano; e ieri dopo desinare furono serrati in casa, e messovi due bargelli alla guardia delle porte, acciò nessuno entrassi o uscisse del convento. Credo che si saranno partiti anco di Padova e di tutto il resto dello Stato, con grande pianto e dolore di molte donne loro devote ». Sono parole misurate e direi deferenti, anche volendo sottilizzare sulla frase delle pie donne; e del resto si trattava di una lettera privata al fratello. Il 26 giugno del 1606 Galileo pubblicò le Operazioni del Compasso geometrico e militare, dedicandole al principe ere- ditario Cosimo de’ Medici, suo affezionato allievo. Per i suoi meriti, e specialmente per gli studi sulla stella nuova del 1604 di cui parleremo, ma anche un po’ per l’intercessione del gio- vane principe, Galileo venne, il 5 agosto, riconfermato nella lettura di Padova, con un aumento di duecento fiorini all'anno. Cosi lo stipendio saliva a cinquecentoventi fiorini. Il 21 agosto, sempre da Marina Gamba, ebbe il figlio Vin- cenzo Andrea, il quale fu battezzato nella parrocchia di Santa Caterina. La Virginia e la Livia erano state battezzate nella parrocchia di S. Lorenzo. Il Favaro deduce perciò che l'amica di Galileo abbia sempre abitato a Padova, e in ultimo vicinissimo a Galileo, ma non nella stessa casa dove, per via della larga ospitalità verso scolari di tutte le nazioni, non si potevano evitare inconvenienti. Il 4 maggio del 1607, in seguito a ricorso di Galileo, Bal- dassar Capra viene condannato per plagio dell’opuscolo sul compasso. Il 2 agosto Galileo pubblicò le Difese contro alle calunnie et imposture di Baldassar Capra. 26 VITA DI GALILEO La controversia col Capra, che si concluse con la vittoria completa di Galileo, risaliva a qualche anno prima, cioè alle lezioni sulla stella nuova del 1604. In una lettera del 30 set- tembre 1604 diretta a Galileo il dotto minore conventuale Frate Ilario Altobelli diceva di aver visto per la prima volta la stella nuova il 9 ottobre, escludendo che potesse essere stata vista prima, come qualcuno diceva. L’Altobelli dice che l’aveva vista con grande meraviglia e che era quasi un arancio mezzo maturo. Il P. Clavio, astronomo del Collegio romano con cui Galileo era stato in corrispondenza scientifica, l'aveva osser- vata con gli strumenti, trovandola sempre immota ed equidi- stante dalle stelle fisse e aveva concluso che era nell’ottava sfera, vale a dire nella sfera delle stelle fisse. Come il lettore sa dal Paradiso di Dante, secondo il sistema tolemaico la terra è immobile al centro dell’universo. Intorno ad essa girano nove sfere o cieli incorruttibili. Le prime sette sfere sono occupate dai « sette pianeti », disposti nel seguente ordine: Luna, Mer- curio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Come si vede, il sole è compreso tra i pianeti, al posto della terra, che è con- siderata un corpo a sé, di natura diversa degli altri. Dopo le sfere dei pianeti, c'è il cielo delle stelle fisse, che sarebbero perciò tutte equidistanti dalla terra, più al di la il nono cielo o cristallino o primo mobile e in ultimo l’Empireo, immobile, sede degli Dei o, per Dante e gli scolastici, sede di Dio e dei Beati. La stella nuova del 1604 apparve nella costellazione del Serpentario e fu visibile per diciotto mesi, durante i quali andò sempre diminuendo di grandezza fino a diventare im- percettibile. Galileo la osservò a lungo e poi fece all’Università le sue tre lezioni, davanti a più di mille persone, suscitando grande interesse anche fuori di Padova e molto malumore tra i peripatetici. Nella lettera inviata a Onofrio Castelli, che era stato suo allievo a Padova nel 1597, Galileo dice che è andato differendo la pubblicazione delle tre lezioni sul lume che vien detto stella nuova, perché esse avevano un interesse scolastico, essendo principalmente dirette a dimostrare «il sito della nuova stella essere e esser sempre stato molto superiore al- VITA DI GALILEO 27 l’orbe lunare ». Ma poiché aveva avuto in pensiero di espri- mere il suo parere « non solo circa il luogo e moto di questo lume, ma circa la sua sustanza e generazione ancora, e cre- dendo di avere incontrato un’opinione che non abbia evidenti contradizioni e che perciò possa esser vera» aveva creduto opportuno di procedere con cautela, aspettando il ritorno della stella nuova in oriente dopo la separazione dal sole, e osser- vandone con gran diligenza le variazioni «si nel sito come nella visibile grandezza e qualità di lume ». Egli era riuscito cosi ad avere, sulla sostanza e generazione di quella mera- viglia, un’opinione che gli sembrava più di una semplice con- gettura. « E perché questa mia fantasia si tira dietro, o più tosto si mette avanti, grandissime conseguenze e conclusioni, però ho risoluto di mutar le lezioni in una parte di discorso, che intorno a questa materia vo distendendo ». Nella stella nuova Galileo vedeva la prima prova positiva della verità del sistema copernicano in cui già credeva ferma- mente. Egli non poteva avere idee chiare sul nuovo fenomeno, che solo in questi ultimi anni s'è cominciato a comprendere, ma aveva capito benissimo che i peripatetici avevano torto ritenendo che non si trattasse di un nuovo astro ma, per dirlo con Ludovico delle Colombe, di una di quelle stelle, che fu- rono da principio nel cielo. Si trattava invece di una mera- viglia, inesplicabile con la fisica di allora, ma che era in aperta contradizione con le teorie dei peripatetici. Nel 1605 il peripatetico Antonio Lorenzini pubblicò un di- scorso contro l’ipotesi sostenuta da Galileo nelle sue tre le- zioni, sostenendo tra l’altro che se fosse sorta una nuova stella i cieli avrebbero perduto la simmetria e quindi il movimento. AI Lorenzini risposero Cecco de’ Ronchitti con un Dialogo in padovano rustico e Baldassar Capra. Il de’ Ronchitti, ispirato visibilmente da Galileo, sostenne la libertà dei matematici contro le sistemazioni arbitrarie dei filosofi e, a proposito dei cieli, disse che non era un gran male se cessassero di muo- versi, visto che valenti matematici non credevano al loro movimento. Baldassar Capra aveva assistito alle lezioni di Galileo, aveva osservato personalmente la stella e aveva te- nuto conto delle osservazioni del suo maestro, Simon Mayr di 28 VITA DI GALILEO Guntzenhausen (Simon Mario). Nella sua Considerazione astro- nomica era in sostanza del parere di Galileo, ma, ispirato da Simon Mario, se la prese anche con Galileo. Forse incoraggiato dal silenzio di Galileo, il Capra, sempre ispirato da Simon Mario, pensò bene di appropriarsi il compasso geometrico e militare, pubblicando l’Usus et Fabrica C'ircini cuiusdam pro- portionis che è una cattiva traduzione delle Operazioni del compasso geometrico e militare. Galileo il 9 aprile 1607 pre- sentò ai Riformatori ricorso contro il Capra, che fu piena- mente condannato, e subito dopo pubblicò la Difesa, in cui mise a posto l’impostore per il compasso e per la stella nuova. In questo periodo Galileo si occupò dell'armatura delle ca- lamite, più che altro per far cosa gradita al principe Cosimo e s’interessò perché il suo amico Giovanfrancesco Sagredo vendesse una bella calamita alla Corte di Toscana. Natural mente continuò i suoi studi copernicani e quelli di meccanica ad essi intimamente collegati. L’11 febbraio del 1609 scriveva ad Antonio de’ Medici che si era occupato di meccanica, otte- nendo risultati nuovi; aveva studiato le resistenze dei legni di diversa lunghezza, grossezza e forma e stava studiando il moto dei proiettili. Il 1609 è l’anno del cannocchiale galileiano, uno degli anni più memorabili non solo della vita di Galileo ma della storia della scienza e della civiltà. Il primo racconto ufficiale che Galileo fece della sua in- venzione è quello della prefazione al Sidereus Nuncius, scritta probabilmente nel febbraio o alla fine di gennaio 1610. Egli dice che una decina di mesi prima aveva sentito dire che un fiammingo aveva fabbricato un occhiale per mezzo del quale gli oggetti, benché assai lontani dell’occhio dell’osservatore, si vedevano distintamente come se fossero vicini. La notizia gli fu confermata giorni dopo per lettera da un nobile francese, lacopo Badouère. Galileo allora si applicò tutto a ricercare le ragioni e i mezzi per rifare l'invenzione e ci riusci in base alla dottrina delle rifrazioni. Preparatosi un cannone, cioè un tubo di piombo, accomodò ai suoi estremi due vetri da oc- chiali, tutt'e due piani da una parte ma dall’altra uno convesso VITA DI GALILEO 29 e l’altro concavo; accostando l'occhio allo strumento, vide gli oggetti assai vicini e ingranditi. In seguito a varie prove, non badando né a spese né a fatica, giunse a fabbricarsi uno stru- mento eccellente, col quale gli oggetti osservati apparivano circa mille volte più grandi e più di trenta volte più vicini di quanto apparivano a occhio nudo. Al cognato Benedetto Landucci aveva scritto il 29 ago- sto 1609: « Dovete sapere, come sono circa a 2 mesi che qua fu sparsa fama che in Fiandra era stato presentato al conte Maurizio un occhiale, fabbricato con tale artifizio, che le cose molto lontane le faceva vedere come vicinissime, si che un uomo per la distanza di 2 miglia si poteva distintamente ve- dere. Questo mi parve effetto tanto maraviglioso, che mi dette occasione di pensarvi sopra; e parendomi che dovessi avere fondamento su la scienza di prospettiva, mi messi a pensare sopra la sua fabbrica: la quale finalmente ritrovai, e cosî per- fettamente, che uno che ne ho fabbricato supera di assai la fama di quello di Fiandra ». Come si vede, Galileo rinunzia esplicitamente alla priorità dell'invenzione e ci tiene a dichiarare che riusci a costruire l'apparecchio in base a un ragionamento di ottica e che fece meglio dell’occhialaio olandese. Nel racconto del Saggiatore, l’unico punto in cui si può sottilizzare è quello del tempo impiegato per costruire il primo apparecchio (evidentemente, Galileo tende a ridurlo); ma qui come altrove egli insiste nel dire che l’Olandese arrivò all’in- venzione per caso e lui per via di discorso. « Questo Artifizio, — ecco il suo ragionamento, — o consta di un vetro solo, o di più d'uno; d'un solo non può essere, perché la sua figura, o è convessa, cioè più grossa nel mezzo, che verso gli estremi, o è concava, cioè più sottile nel mezzo, o è compresa tra super- ficie parallele; ma questa non altera punto gli oggetti visibili col crescerli, o diminuirli; la concava gli diminuisce; la con- vessa gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti, ed abbagliati, adunque un solo vetro non basta per produrre l’effetto. Passando poi a due, e sapendo, che il vetro di super- ficie parallele non altera niente, come si è detto, conchiusi, che l’effetto non poteva né anche seguir dall’accoppiamento di 30 VITA DI GALILEO questo con alcuno degli altri due. Onde mi ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizione degli altri due, cioè del convesso, e del concavo, e vidi come questa mi dava l’intento, e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di nuovo aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione ». Galileo dunque scarta la lamina a facce piane e parallele perché non ingrandisce né diminuisce gli oggetti; scarta la sola lente concava perché li diminuisce e la sola lente con- vesssa perché, guardando attraverso di essa oggetti lontani, li vede sfocati; e conclude che si deve trattare di un occhiale con due lenti. (Le due lamine le elimina immediatamente perché se una sola non ingrandisce è naturale che non ingran- discano due). Si può però domandare: Come mai Galileo non si accorse che c'era ancora la combinazione di due lenti convergenti che che fu poi ideata da Keplero e che condusse ai moderni can- nocchiali astronomici? Secondo me, la risposta più probabile è questa: Dopo aver concluso che il problema si risolveva con la combinazione di due lenti, cominciò a provare le varie combinazioni. Gli capitò tra mano per prima quella che adottò e poiché rispondeva bene allo scopo, non cercò altro o meglio si dedicò cosi febbrilmente al perfezionamento dell’invenzione che dimenticò tutto il resto. In altri termini, la gioia della scoperta e la febbre di far meglio gl’impedirono di perdersi in altri tentativi. Si potrebbe anzi sostenere che per Galileo era più naturale la combinazione olandese che non quella di Keplero. Forse egli pensò, con un moto improvviso più che con un ragionamento spiegato, che se con una lente convessa si vedeva indistinto e abbagliato, con due sarebbe stato peggio. L’altra combinazione era più curiosa, più allettante: le due lenti erano, in un certo senso, opposte e dalla loro unione poteva nascere la mera- viglia. E poiché sono sceso a considerazioni capillari, mi si consenta di aggiungere che la dimenticanza di Galileo mi pare una prova della veridicità del suo racconto. Se egli avesse già visto un cannocchiale olandese e avesse poi voluto a mente VITA DI GALILEO 31 fredda inventare una storiella, non gli sarebbe forse sfuggita la combinazione di due lenti convergenti. Nella lettera del 24 agosto, diretta al Doge Leonardo Do- nato, Galileo diceva che il cannocchiale era « cavato dalle più recondite speculazioni di prospettiva » e il Doge il giorno dopo ripeteva che lo strumento era « cavato dalli secreti della Pro- spettiva ». Un illustre galileiano, che in questa occasione non si deve nominare, ha detto che quando Galileo scriveva la frase della prospettiva non sapeva quel che diceva. Egli si sarebbe avvolto in un finto mistero per vender cara una finta invenzione! No. Galileo voleva dire d’aver costruito l’ap- parecchio per mezzo di un ragionamento di ottica che non avrebbe potuto giustificare e lo disse con parole che non po- trebbero essere più felici, piene come sono di quel senso tutto suo delle cose incognite e inopinabili. L’ottica e la luce erano per Galileo molto misteriose: risulta dal Saggiatore e da altra scritti. Giovanni Tarde racconta nel suo Diario che nel no- vembre 1614 interrogò Galileo sulle rifrazioni e sul modo di formare il vetro del telescopio in modo che gli oggetti s’in- grandiscano e s’'avvicinino nel rapporto che si vuole. Galileo gli rispose che questa scienza non era ancora ben conosciuta; che lui non sapeva che qualcuno l’avesse trattata, tranne quelli che si occupano di prospettiva, a meno che non si fosse voluto pensare a Giovanni Keplero, matematico dell’Impera- tore, che le aveva dedicato un libro cosi oscuro che forse nemmeno lui l’aveva capito. Con la frase calunniata, Galileo esprimeva una grande verità. Anche la pila è nata dai segreti dell’elettrologia e il telegrafo senza fili dai segreti delle onde elettriche. Ogni in- venzione e ogni scoperta, anche quando sembrano un corollario della teoria, superano la teoria. I patrizi veneti capirono il cannocchiale. Nella lettera a Benedetto Landucci Galileo continua: « Ed essendo arrivato a Venezia voce che ne avevo fabbricato uno, sono 6 giorni che sono stato chiamato dalla Serenissima Signoria, alla quale mi è convenuto mostrarlo e insieme a tutto il Senato, con infinito stupore di tutti, e sono stati moltissimi i gentiluomini e se- natori, li quali, benché vecchi, hanno pit di una volta fatte le 32 VITA DI GALILEO scale de’ più alti campanili di Venezia per scoprire in mare vele e vasselli tanto lontani, che venendo a tutte vele verso il porto, passavano due ore e più di tempo avanti che, senza il mio occhiale, potessero essere veduti: perché in somma l’effetto di questo strumento è il rappresentare quell'oggetto che è, verbi gratia, lontano 50 miglia, cosi grande e vicino come se fussi lontano miglia 5 ». ll 25 Galileo offri il cannocchiale alla Repubblica Veneta e allora il procuratore Antonio Priuli (l’autore della Cronaca, che era anche uno dei Riformatori) lo prese per mano e gli disse che se lui era contento gli avrebbero rinnovato la con- dotta a vita con lo stipendio di mille fiorini all'anno, a comin- ciare da quel giorno e quindi regalandogli un anno di aumento perché mancava ancora un anno per finire la condotta. « Io — dice Galileo, — sapendo come la speranza ha le ali molto pigre e la fortuna velocissime, dissi che mi conteniavo di quanto piaceva a S. Serenità. All’ora l’IllL.mo Prioli, abbrac- ciandomi disse: E perché io sono di settimana e mi tocca a comandare quello che mi piace, voglio che oggi doppo desinare sia ragunato il Pregadi, cioè il Senato, e vi sia letta la vostra ricondotta e ballottata, si come fu, restando piena con tutti i voti: talché io mi trovo legato qua in vita, e bisognerà che io mi contenti di godere la patria qualche volta ne’ mesi delle vacanze ». Quell’anno anzi, volendo perfezionare il cannocchiale, ri- nunziò in gran parte alle vacanze e riusci a costruire un appa- recchio col quale in pochi mesi rivoluzionò l'astronomia. Il suo merito, nei riguardi del cannocchiale, come tutti ormai ricono- scono, è appunto questo. Egli seppe trasformare il giocattolo olandese in uno strumento di grandi scoperte. Lo seppe perfe- zionare dal lato ottico, con una rapidità che suscita ancora la nostra meraviglia, e lo seppe adoperare: capi che, per le os- servazioni astronomiche, non doveva essere adoperato a mano libera ma doveva esser tenuto fisso. I dubbi sulle novità celesti di Galileo non erano dovuti soltanto a dottrinarismo e a ot- tusità: in parte erano dovuti al fatto che quei poveri peripa- VITA DI GALILEO 35 tetici erano pessimi osservatori. Prigionieri dei loro pregiudizi, ragionavano male e osservavano peggio. Guardando il cielo col cannocchiale, Galileo vide che le stelle erano molto pit numerose di quanto si credeva: col can- nocchiale se ne vedevano dieci volte di più che a occhio nudo. Egli si accorse pure che la Via Lattea era costituita da « una congerie di minutissime stelle » e che la luna era un corpo similissimo alla terra con monti assai più alti. Fra dunque vero: il mondo peripatetico era un mondo di carta. La distinzione di natura tra la terra e gli astri diveniva insostenibile. Lui s'era gia persuaso per considerazioni ottiche che la luna non poteva avere la superficie liscia come uno specchio; ora vedeva che non si era ingannato. Il sistema co- pernicano, in cui gia credeva da un pezzo come ci credeva Klepero, aveva anch'esso le prime prove sensibili. Finché si aveva qualche ragione per ammettere l’esistenza della sfera stellata, non era inverosimile che le stelle si movessero intorno alla terra; ora diveniva scientificamente assurdo che tante stelle, a distanze cosi diverse, si muovessero tutte con la stessa velocità angolare intorno alla terra. Astrattamente era pos- sibile ma era troppo improbabile per esser vero, tanto più che non se ne vedevano le ragioni. Nella prima quindicina del gennaio del 1610, Galileo fece la scoperta che eccedeva tutte le meraviglie. La notte del 7, all'una, suardando Giove con un cannocchiale più perfezionato gli vide intorno, due da una parte e una dall’altra, tre stelline eccezionalmente splendenti; la notte seguente le tre stelle erano tutte da una parte; la notte del 9, per via delle nuvole, non poté continuare l'osservazione ma la notte del 10 le stelle erano dalla parte opposta. L’idea che si dovesse trattare di satelliti diventava più probabile e divenne evidente nelle notti suc- cessive quando si accorse che le stelline erano quattro e che si movevano intorno a Giove. La terra perdeva un altro dei privilegi che le avevano concesso i peripatetici: non era più l’unico centro di movimento; anzi Giove non aveva una sola luna ma quattro. Il 30 gennaio Galileo era già a Venezia per far stampare il Sidereus Nuncius e ne informava il segretario granducale 3. - G. Galilei, Opere - Il. 34 VITA DI GALILEO Belisario Vinta. I nuovi satelliti che in onore di Cosimo II (successo a Ferdinando I il 3 febbraio 1609) Galileo voleva chiamare sidera cosmica, per evitare equivoci furono chiamati medicea sidera o pianeti medicei. Galileo ebbe tra mano le prime copie ancora sciolte del Sidereus Nuncius il 13 marzo molto tardi; il 19 mandò la prima copia a Cosimo II, insieme con un cannocchiale « assai buono » ma con la sicurezza di mandargliene in breve uno migliore. Il 13 aveva scritto a Belisario Vinta: «Io non so quanto sia per succeder facilmente al Serenissimo Gran Duca e a quei signori di Corte il poter trovare i quattro nuovi pia- neti, li quali sono intorno alla stella di Giove e con lui in 12 anni si volgono intorno al sole, ma intanto con moti velo- cissimi si aggirano intorno al medesimo Giove, si che il più lento di loro fa il suo corso in giorni 15 in circa. Non so, dico, quanto facilmente saranno ritrovati, se ben manderò il mio medesimo occhiale eccellentissimo col quale gli ho osservati; perché a chi non è ben pratico ci vuole sul principio gran pa- zienza, non avendo chi aggiusti lo strumento e ben lo fermi e stabilisca. Però in tal caso, quando paresse a V. S. Ill.ma che per abondare in cautela io mi trasferissi sin costà in queste vacanze della settimana Santa, che sono 23 o 24 giorni, io lo farei». | Galileo andò infatti nelle vacanze di Pasqua a Firenze e fece vedere al Granduca le novità celesti (nel settembre pre- cedente gli aveva già fatto vedere le novità lunari); anzi in quell'occasione intavolò le prime trattative per il ritorno de- finitivo a Firenze. Cosimo II in segno di riconoscenza per la dedica dei satelliti di Giove alla Casa medicea gli regalò una collana d’oro e una medaglia. Si ricorderà che Galileo scrivendo al Landucci il 29 ago- sto 1609, concludeva malinconicamente: « Talché io mi trovo legato qua in vita, e bisognerà che io mi contenti di godere la patria qualche volta ne’ mesi delle vacanzie ». Nel febbraio precedente aveva fatto dei passi per tornare in Toscana con Vincenzo Vespucci, maestro di casa del Granduca. «Io non resterò di dire — gli scriveva, — come avendo ormai trava- VITA DI GALILEO ‘93 doS gliato 20 anni, e i migliori della mia vita. in dispensare, come si dice, a minuto, alle richieste di ogn’uno, quel poco di ta- lento che da Dio e da le mie fatiche mi è stato conceduto nella mia professione: mio pensiero veramente sarebbe con- seguire tanto di ozio e di quiete, che io potessi condurre a fine, prima che la vita, tre opere grandi che ho alle mani, per poterle publicare, e forse con qualche mia lode e di chi mi avesse in tali imprese favorito, apportando per avventura a gli studiosi della professione e maggiore e più universale e più diuturna utilità di quello che nel resto della vita apportar potessi. Ozio maggiore di quello che io abbia qua, non credo che io potessi avere altrove, tuttavolta che e dalla publica e dalle private letture mi fosse forza di ritrarre il sostentamento della casa mia; né io volentieri le eserciterei in altra città che in questa, per diverse ragioni che saria lungo il narrarle: con tutto ciò né anco la libertà che ho qui mi basta, bisognandomi a richiesta di questo e di quello consumar diverse ore del giorno, e bene spesso le migliori. Ottenere da una Repubblica, benché splendida e generosa, stipendi senza servire al pu- blico, non si costuma, perché per cavar utile dal publico bi- sogna satisfare al publico, e non ad un solo particolare; e mentre io sono potente e finché io sia abile a leggere e ser- vire, non può alcuno di Republica esentarmi da questo carico: e in somma simile comodità non posso io sperare da altri, che da un principe assoluto ». Continuando, Galileo dichiarava che non voleva lo sti- pendio gratis e che poteva offrire diverse invenzioni e anche il servizio quotidiano, ma a un principe o signore grande e non a qualsiasi avventore. Il 7 maggio 1610 Galileo ribadi le stesse idee in una lunga lettera a Belisario Vinta. Qui, — gli diceva, — ho uno stipendio di mille fiorini al- l’anno e non devo fare che sessanta mezz’ore di lezione. Ma le lezioni sono per me un perditempo. Io voglio dedicarmi tutto alle mie opere, senz’obbligo di leggere. « Le opere che ho da condurre a fine sono principalmente due libri De sistemate seu constitutione universi, concetto immenso e pieno di filo- sofia, astronomia e geometria; tre libri De motu locali, scienza 36 VITA DI GALILEO interamente nuova, non avendo alcun altro, né antico né mo- derno, scoperto alcuno de i moltissimi sintomi ammirandi che io dimostro nei movimenti naturali e ne i violenti, onde io la posso ragionevolissimamente chiamare scienza nuova e ri- trovata da me sin da i suoi primi principii: tre libri delle me- caniche, due attenenti alle demostrazioni de i principii e fon- damenti, e uno de i problemi: e benché altri abbino scritto questa medesima materia, tuttavia quello che ne è stato scritto sin qui, né in quantità né in altro è il quarto di quello che ne scrivo io. Ho anco diversi opuscoli di soggetti naturali, come De sono et voce, De visu et coloribus, De maris estu, De compositione continui, De animalium motibus, e altri ancora. Ho anco in pensiero di scrivere alcuni libri attenenti al sol- dato, formandolo non solamente in idea, ma insegnando con regole molto esquisite tutto quello che si appartiene di sapere e che depende dalle matematiche, come la cognizione delle castramentazioni, ordinanze, fortificazioni, espugnazioni, levar piante, misurar con la vista, cognizioni attenenti alle arti- glierie, usi di vari strumenti, etc. ». Da questa lettera risulta che nell’anno delle scoperte astro- nomiche Galileo era una specie di vulcano; aveva già in mente i libri che scrisse e quelli che gl’impedirono di scrivere. Il libro De compositione continui diventerà la Geometria degli indivi- sibili di Bonaventura Cavalieri, il libro sul moto degli animali sarà scritto da Gian Alfonso Borelli; alcuni dei suoi problemi saranno risolti dall'Accademia del Cimento. La sua insofferenza di ogni impedimento, la sua decisione di abbandonare la madre dei suoi figli e di monacare la Vir- ginia e la Livia si spiegano col suo desiderio violento di siste- mare idee, osservazioni, esperienze per imporre la sua nuova visione del mondo. Il 15 giugno acquista la convinzione di passare a Firenze e rinunzia al posto di Padova. Il 10 luglio viene nominato pri- mario matematico dello Studio di Pisa e primario matematico e filosofo del granduca di Toscana, con lo stipendio di mille scudi di moneta fiorentina all’anno, senz’obbligo di abitare a VITA DI GALILEO 37 Pisa né di leggervi, se non onorariamente, ma restando a di- sposizione del granduca. Contrariamente all’affermazione del Gherardini, i Signori di Venezia non tentarono in nessun modo di dissuadere Ga- lileo, anzi si offesero. Uno scrisse a Giovanfrancesco Sagredo che avrebbe rinunziato alla sua amicizia se manteneva la re- lazione con Galileo. Alcuni degli amici dello scienziato ebbero insieme dispiacere e preoccupazioni. Nella famosa lettera che gli scrisse al ritorno del viaggio in Soria, il Sagredo gli diceva tra l’altro: La libertà e monarchia di se stesso dove potrà tro- varla come in Venezia? Lei serve al presente il suo Principe naturale, grande, pieno di virti; ma qui non aveva a servire se non se stesso, quasi monarca dell’universo. Prendono un pezzo i principi gusto di alcune curiosità; ma chiamati spesso dall’interesse di cose maggiori, volgono l’animo ad altro. E chi può esser tranquillo nel tempestoso mare della Corte? Chi sa ciò che posson fare i cattivi e gl’invidiosi? Quell’essere in luogo, dove l’autorità degli amici del Berlinzone, cioè dei Ge- suiti, come si ragiona, val molto, molto ancora mi travaglia. Prima di partire per Firenze, tra il luglio e l'agosto Galileo scopri le macchie solari e le mostrò a Fra Paolo Sarpi e a Fra Fulgenzio Micanzio; il 25 luglio scopri la « stravagantis- sima meraviglia » di Saturno. Da Padova parti il 10 settembre; a Firenze arrivò il 12. Si fermò a Bologna dove fu ospite del Magini. A Marina Gamba diede l’addio ma rimase con lei in buoni rapporti, tanto che le lasciò per qualche tempo il figlio Vin- cenzo che era ancora troppo piccolo per poter fare a meno della mamma. La Marina divenne dopo qualche anno Ma- donna Bartoluzzi, perché andò a convivere con Giovanni Bar- toluzzi, agente della famiglia Dolfin. Alcuni hanno detto che sposò il Bartoluzzi ma l'atto di matrimonio non si è mai tro- vato. Del resto, dopo la partenza di Galileo, sulla Marina non si sa quasi più altro: nemmeno la data di morte è sicura. Da una dichiarazione di Galileo il 18 febbraio 1619 risulta morta. Il Bartoluzzi si affezionò a Galileo e in una lettera del 17 agosto 1619 gli scriveva che un certo resto l'avrebbe conser- vato per impiegarlo in mercanzia o in robe « per la nostra cara 38 VITA DI GALILEO Suor Maria Celeste, la qual tanto bramo di vederla ». Qualcuno ha riferito il « nostra » al Bartoluzzi e alla Marina che dunque sarebbe stata ancora viva; evidentemente si riferisce a Barto- luzzi e a Galileo. Il Bartoluzzi voleva bene a Suor Maria Celeste . e bramava tanto di vederla, cosicché la sentiva anche un po’ sua. Non possiamo fermarci sulla monacazione delle due figlie di Galileo. Diremo solo che esse furono messe nel monastero di S. Matteo in Arcetri verso la fine del 1613; la vestizione avvenne non prima del luglio 1614. La Virginia pronunziò i voti il 4 ottobre 1616, prendendo il nome di Suor Maria Ce- leste; la Livia il 28 ottobre 1617 e si chiamò Suor Arcangela. Nel Sidereus Nuncius Galileo aveva annunziato le sco- perte sulla superficie lunare, sulla costituzione della Via Lattea e di altre nebulose, sul numero delle stelle e sui pianeti me- dicei. Aveva spiegato come si adopera il cannocchiale per le osservazioni astronomiche e aveva spiegato la luce cinerea della luna. Keplero, prima ancora di aver verificato le scoperte, gl’inviò la Dissertatio cum Nuncio Sidereo in cui gli esprimeva la sua ammirazione; e quando con un cannocchiale galileiano vide i sa- telliti di Giove gridò il Vicisti, Galilaee! di Giuliano d’Apostata. I peripatetici intuirono il grave pericolo che significavano per loro le novità astronomiche e in particolare quella dei sa- telliti di Giove ma non vollero riconoscerli. Il Cremonino ri- mase convinto che solo Galileo le aveva vedute; «e poi — confessava — quel mirare per gli occhiali mi imbalordisce la testa; basta, non ne voglio saper altro ». Il P. Clavio, secondo il Cigoli, disse che « delle quattro stelle se ne rideva, che bi- sogneria fare un occhiale che le faccia e poi le mostri ». Francesco Sizzi sosteneva nella sua Dianoia astronomica che il numero sette è un numero perfetto e quindi i pianeti non possono essere più di sette. Il Magini diceva che conveniva andar cauti: ma quando un suo allievo, Marino Horky, scrisse il suo stupido opuscolo contro Galileo, lo mise alla porta. Ci fu tale vocio contro Galileo che perfino il granduca ne rimase impressionato. Il 25 giugno del 1610 Galileo scriveva a Vincenzo Giugni sui pianeti medicei: « In proposito da i quali, mi par di dover VITA DI GALILEO 39 dire a V. S. Ill.ma, gia che lei mi scrive che S. A va riservata in mettergli nella sua anticamera o in altri luoghi, che l’andar circuspetto è atto degno della prudenza di ogni savio principe, e perciò laudabilissimo: tutta via mi farà grazia soggiungergli, che quello che ha scoperti i nuovi pianeti è Galileo Galilei, sua fedelissimo vassallo, al quale bastava, per accertarsi della verità di questo fatto, l'osservazione di 3 sere solamente, non che di cinque mesi, come ho fatto continuamente, e che lasci ogni titubazione o ombra di dubbio, perché allora resteranno questi di esser veri pianeti, quando il sole non sarà più il sole ». Il 24 maggio aveva scritto a Matteo Carosio: « L’oc- chiale è arciveridico, e i Pianeti Medicei sono pianeti, e sa- ranno sempre come gli altri: hanno i loro moti velocissimi intorno a Giove, si che il più tardo fa il suo cerchio in 15 giorni incirca ». Contro i pianeti medicei, o gioviali, come pure li chiamava Galileo, ci fu anche l’opposizione degli astrologi, i quali li proclamavano inefficaci, per la loro piccolezza. Galileo rispose che lui non aveva parlato di efficacia e d’influssi; chi li con- siderava superflui e oziosi doveva muovere lite contro la na- tura o Dio e non contro di lui. Ma facendosi subito avvocato della natura, fece vedere che non si potevano considerare oziosi « opere di Dio, ed opere tanto sublimi ». Il valore delle cose non si misura dalla sola grandezza. « Un palo di ferro, accomodato a far fosse e smuover pietre, non oscura il gentile uso dell’ago, col quale artificiosa mano di leggiadra donna la- vora vaghissime trapunte ». Forse le zucche vincono di nobiltà il pepe o i garofani e le oche tolgono il pregio ai rosignoli? Appena arrivato a Firenze, Galileo fece la scoperta delle fasi di Venere e la comunicò l’11 dicembre a Giuliano de’ Medici, con un anagramma che decifrato diceva: Cinthia figuras amulatur mater amorum, cioè Venere imita le figure della luna. Analogamente quando aveva scoperto l’aspetto di Saturno aveva mandato a Keplero un altro anagramma che andava decifrato cosi: Altissimum planetam tergeminum ob- servavi, cioè ho visto che il più alto dei pianeti (Saturno) è costituito da tre stelle, la media delle quali tre o quattro volte 40 VITA DI GALILEO maggiore delle laterali. Frano gli anelli di Saturno, com'era possibile vederli coi cannocchiali di allora. In una lettera del 10 gennaio 1611 Galileo decifrava a Giuliano de’ Medici l’anagramma relativo a Venere e diceva che la mirabile esperienza dimostrava che i pianeti, al con- trario di come credevano gli aristotelici, sono per natura oscuri, cioè essi non fanno che riflettere, o meglio diffondere, la luce del sole, e che Venere gira intorno al sole (come pure Mer- curio e gli altri pianeti). Era un’altra prova della verità del sistema copernicano. Appunto per considerazioni copernicane aveva previsto le fasi di Venere uno dei più grandi discepoli di Galileo, il Padre Benedetto Castelli, monaco cassinese, ingegno acuto e brillante, autore del libro Della misura delle acque correnti, per il quale è considerato come fondatore dell’idraulica mo- derna. Il Castelli propose il quesito di Venere a Galileo in una lettera in data 5 dicembre 1610. Il 50 dicembre Galileo gli rispose cosi: « Sappia dunque che io, circa tre mesi fa, cominciai ad osservar Venere con lo strumento, e la vidi di figura rotonda, e assai piccola; andò di giorno in giorno crescendo in mole, e mantenendo pur la medesima rotondità, sin che finalmente, venendo in assai gran lontananza dal sole, cominciò a scemar dalla rotondità dalla parte orientale, e in pochi giorni si ridusse al mezzo cerchio. In tale figura si è mantenuta molti giorni, ma però crescendo tuttavia in mole: ora comincia a farsi falcata, e sin che si vederà vespertina, ander4 assottigliando le sue cornicelle, sin che svanirà: ma ritornando poi matutina, si vedrà con le corna sottilissime e pure averse al sole, e anderà crescendo verso il mezzo cerchio sino alla sua massima digressione. Manterrassi poi semicircolare per alquanti giorni, diminuendo però in mole; e poi dal mezzo cerchio passerà al tutto tondo in pochi giorni, e quindi per molti mesi si vedrà, e Lucifero e Vespe- rugo, tutta tonda, ma piccoletta di mole». Sullo stesso ar- gomento lo stesso giorno scrisse a lungo al P. Clavio e il 12 febbraio 1611 al Sarpi. In quest’ultima lettera accenna alla permanenza per tre settimane nella villa delle Selve di Filippo Salviati e, dopo descritte le fasi di Venere: « Or eccoci fatti VITA DI GALILEO 41 certi — dice — che Venere si volge intorno al sole, e non sotto (come credette Tolommeo), dove mai non si mostrerebbe se non minore di mezzo cerchio; né meno sopra (come piacque ad Aristotele), perché se fusse superiore al sole, non si ve- drebbe mai falcata, ma sempre più di mezza assaissimo, € quasi sempre perfettamente rotonda ». Leggendo queste lettere, si ha l'impressione che Galileo non faccia che delle verifiche di verità ben conosciute: e cosi è infatti. Egli era convinto da molti anni, come sappiamo, della verità del sistema copernicano e sa di darne solo la prova sperimeniale che mancava. D'altra parte se è abilissimo nel leggere nel libro della natura perché ne conosce la lingua, guarda senza partito preso ed è felice d’ogni novità. E guarda da scienziato, non da esteta: determina la sua visione, facendo misure. Non è un indifferente raccoglitore di fatti, né un dog- matico: è, per dirlo col suo linguaggio, uno scienziato filosofo, che però ha sempre vivo il senso della meraviglia. Galileo capiva che i più pericolosi dei suoi avversari erano i peripatetici teologi, coi quali doveva necessariamente fare i conti se voleva evitare un conflitto. Egli d'altra parte era sin- ceramente cattolico e non poteva accettare un conflitto con la Chiesa; sicché poco dopo il ritorno a Firenze chiese al granduca il permesso di andare a Roma, avendo particolare interesse di fare accettare le sue scoperie al P. Clavio e agli altri teologi del Collegio romano. Arrivò a Roma il 1° aprile 1611. Vide il cardinale Maffeo Barberini, che doveva poi essere Papa Urbano VIII, vide il cardinale del Monte, il P. Clavio, altri due gesuiti intenden- tissimi della professione e suoi allievi, i quali stavano leggendo «non senza gran risa » il libello del Sizzi. Fa vedere le novità astronomiche e tutti gli fanno festa come a un nuovo Co- lombo. Il principe Federico Cesi lo accoglie nell'Accademia dei Lincei e dà ricevimenti in suo onore. Perfino il Papa Paolo V lo volle vedere, anzi Sua Beatitudine lo favori straordina- riamente, a detta dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Ambasciatore Piero Guicciardini, perché non comportò che Galileo dicesse una sola parola in ginocchio. Era un trionfo. 4. - G. Galilei, Opere - II. 42 VITA DI GALILEO Senonché il giorno 19 l’autorevolissimo cardinale Roberto Bellarmino, rigido custode della Fede, aveva scritto ai mate- matici del Collegio Romano: « So che le RR. VV. hanno notizia delle nuove osservazioni celesti di un valente matematico per mezzo d'un instrumento chiamato cannone overo ochiale; e ancor io ho visto, per mezzo dell’istesso instrumento alcune cose molto maravigliose intorno alla luna e a Venere. Però desidero mi facciano piacere di dirmi sinceramente il parer loro intorno alle cose seguenti: Prima, se approvano la moltitudine delle stelle fisse, invi- sibili con il solo ochio naturale, e in particolare della Via Lattea e delle nebulose, che siano congerie di minutissime stelle; 2°, che Saturno non sia una semplice stella, ma tre stelle congionte insieme; 5°, che la stella di Venere abbia le mutazioni di figure, cre- scendo e scemando come la luna; 4°, che la luna abbia la superficie aspera e ineguale; 5°, che intorno al pianeta di Giove discorrino quattro stelle mobili e di movimenti fra loro differenti e velocissimi. Questo desidero sapere, perché ne sento parlare varia- mente: e le RR. VV., come essercitate nelle scienze matema- tiche, facilmente mi sapranno dire se queste nuove invenzioni siano ben fondate, o pure siano apparenti e non vere >». 1l Bellarmino ha guardato col cannocchiale, ha ascoltato le spiegazioni di Galileo, ma ha sentito parlare variamente e dubita che le nuove invenzioni siano apparenti e non vere. I matematici del Collegio Romano rispondono il 24, con- fermando quasi tutte le « varie apparenze che si vedono nel cielo con l’occhiale ». Non son sicurissimi che la Via Lattea consti di minute stelle ma, per quel che si vede nelle nebulose del Cancro e delle Pleiadi, inclinano a congetturarlo; la grande inegualità della luna non si può negare ma il P. Clavio crede che si possa mantenere la spiegazione della densità non uni- forme e gli altri sono in dubbio. Forse il Bellarmino leggendo questsa risposta avrà pensato che le novità galileiane erano apparenze pit o meno incerte. Di sicuro si sa che nei Decreta del Sant'Uffizio, in data VITA DI GALILEO 43 17 maggio, c'è la famosa frase su Galileo e il processo di Cre- monino, che è il preludio dell’ammonizione. Nel maggio 1612 Galileo si occupò insieme dei galleggianti e delle macchie solari. Il Discorso sui galleggianti o Discorso intorno alle cose che stanno in sull'acqua o che in quella si muovono usci, come sanno i lettori del primo volume, alla fine del mese, ed è una confutazione delle teorie peripatetiche sul galleggiamento dei corpi. Il 2 giugno Galileo ne mandò una copia al cardinale Barberini che, in occasione della disputa sull'argomento in presenza di Cosimo II, era stato favorevole a lui e gli mandò pure alcuni disegni di macchie solari. Nel- l’Introduzione al Discorso si parlava dei satelliti di Giove e si accennava alle macchie solari; nella seconda edizione, uscita alla fine dell’anno, c'erano le parole che diedero origine alla polemica col P. Scheiner: « Annomi finalmente le continuate osservazioni accertato, tali macchie esser materie contigue alla superficie del corpo solare, e quivi continuamente prodursene molte, e poi dissolversi, altre in più brevi ed altre in più lunghi tempi, ed esser dalla conversione del Sole in se stesso, che in un mese lunare in circa finisce il suo periodo, portate in giro; accidente per sé grandissimo, e maggiore per le sue con- seguenze >. Lo Scheiner aveva sostenuto invece che le macchie solari fossero stelle. In seguito modificò le sue prime idee ma rimase sempre aristotelico e anticopernicano; e fu sempre uno dei più pericolosi nemici di Galileo. Egli cominciò a studiare le macchie solari dopo aver saputo che Galileo le aveva fatte vedere a Roma nel 1611. Le Lettere sulle macchie solari furono pubblicate a Roma, a cura dell’Accademia dei Lincei, nel febbraio del 1613. In esse Galileo sostenne la teoria copernicana. La lotta dei teologi contro di lui era però già cominciata: e ne abbiamo visto i primi indizi nell’atteggiamento del Bel- larmino. Il 2 novembre del 1612 il frate domenicano Niccolò Lorini, facendosi interprete del malumore teologico contro Galileo, aveva predicato nella chiesa di S. Marco di Firenze contro la teoria del moto della terra. Galileo gli dovette chie- 44 V.ITA DI GALILEO dere spiegazione perché il 5, novembre il Lorini gli scrisse che nella sua predica non aveva parlato di filosofia contro nes- suno. Aveva solo detto e ripeteva «che quella opinione di quell’Ipernico, o come si chiami, apparisce che osti alla Divina Scrittura ». C'è qui, formulato brutalmente, l'atteggiamento che il Lo- rini e tutti i teologi antigalileiani mantennero poi sempre. La Bibbia dice cosi e chi non dico ne dissente ma sembra che ne dissenta ha torto, sia Ipernico o come si chiami. Le sue ragioni non vanno nemmeno prese in considerazione. Al Lorini Galileo non replicò ma .il 21 dicembre dell’anno seguente, avendo saputo che il movimento che potremmo chia- mare ipernicano si andava diffondendo, scrisse a Don Bene- detto Castelli la famosa lettera copernicana e svolse in seguito le sue idee nelle lettere a Monsignor Dini e in quella alla granduchessa Cristina di Lorena. Due verità, — dice Galileo, — non si possono contrariare. Poiché la teoria copernicana è vera non può essere contraria alla Scrittura. L’apparente contradizione si risolve pensando che la Bibbia è un libro religioso e non un libro scientifico. Specialmente in materia di astronomia, lo Spirito Santo si è adattato alla capacità degli uomini a cui si è rivolto. In ge- nerale, Dio ha rivelato soltanto le verità che sono superiori alla ragione umana, lasciando libero l’uomo di trovare le altre da sé. Tra la scienza e la fede non ci può dunque essere conflitto. Fra una soluzione bellissima, dal punto di vista cattolico, anzi l’unica possibile; e oggi infatti tutti i cattolici l’accettano. Galileo aveva pure osservato che la lettera della Bibbia, nei riguardi del sole, è pure incompatibile col sistema tole- maico; sicché, rifiutando la sua tesi, bisognava scegliere non tra la fede e le teorie di Copernico ma addirittura tra la fede e la ragione. In realtà quei teologi credevano soltanto alla propria ragione e ai loro privilegi. Noterò ancora, incidentalmente, che Galileo aveva offerto anche un’arma a coloro che fossero rimasti fermi all’interpre- tazione letterale della Bibbia. Se si vuole ammettere per forza, — egli diceva, — che Giosuè abbia fermato il sole e non la VITA DI GALILEO 45 terra, si può supporre che si tratti del moto di rotazione del sole intorno al suo asse. (Questo moto risultava dal suo studio delle macchie solari). L'argomento era nient'altro che un ripiego ma i teologi non dovevano trascurarlo. Di l& viene infatti il concordismo che i cattolici adottarono per un certo tempo da- vanti alla geologia, quando cercarono d’interpretare i giorni mosaici come epoche. Purtroppo la lettera al Castelli non suscitò che scandalo e irritazione nel campo dei teologi antigalileiani. La quarta do- menica dell'Avvento del 1614 (20 dicembre) un frate turbo- lento, che era stato espulso da Bologna per aver provocato disordini, Tommaso Caccini, cominciò una predica contro Ga- lileo gridando: Viri Galilei quid statis aspicientes in colum? e sostenne che la matematica è un’arte diabolica e che i ma- tematici, come autori di tutte le eresie, dovevano essere scac- ciati da tutti gli Stati: proprio come lui era stato cacciato da Bologna. Il Nelli osserva a questo proposito che «il serio ardore di questo indiscreto Claustrale fu veramente straordi- nario, ed il suo contegno meritevole della più risoluta e pub- blica disapprovazione in tutto, e per tutto » e ricorda che «il predicatore del Duomo di Pisa, che era un prudente religioso, biasimò il contegno del Padre Caccini nell'avere recitata senza riguardo e carità alcuna una si fatta Predica contro del Ga- lileo, la quale poteva eccitargli contro il popolaccio ». Il male è che prudenti religiosi e galileiani non contavano nulla in questa faccenda. Il Caccini aveva dietro di sé non solo i suoi confratelli, i domenicani, ma anche il Papa, il Bellarmino e gli altri teologi dell’Inquisizione. Il 7 febbraio del 1615 fra Niccolò Lorini denunziò Galileo al Sant'Uffizio, mandando al cardinale di Santa Cecilia una copia o meglio una brutta copia della lettera al Castelli, sot- tolineando le proporzioni che a tutti i padri del religiosissimo convento di S. Marco sembravano sospette o temerarie. Il Lo- rini si mostrava perfino scandalizzato del fatto che Galileo aveva calpestato «tutta la filosofia d’Aristotile, della quale tanto si serve la filosofia scolastica »; ci teneva a dichiarare che i « Galileisti » erano secondo lui « uomini da bene e buon 46 VITA DI GALILEO Cristiani, ma un poco saccenti e duretti nelle loro opinioni ». Naturalmente egli non era mosso se non da zelo ma suppli- cava il Cardinale di tenere segreta la lettera, non la scrittura, che doveva esser considerata come amorevole avviso. Il Lorini inoltre, senza badare alle date, diceva che la lettera al Ca- stelli era stata provocata dalle lezioni che, come abbiamo detto, Fra Tommaso Caccini aveva fatto in Santa Maria No- vella esattamente un anno dopo che Galileo aveva scritto la lettera. Il 25 febbraio si riuni il Sant'Uffizio in casa del Bellarmino e decise di chiedere all’arcivescovo e all’inquisitore di Firenze la lettera originale di Galileo; il 19 marzo in una riunione presieduta da Paolo V in persona sivordinò di esaminare Fra Tommaso Caccini che risultava informato degli errori di Ga- lileo. Il Caccini si presentò a Roma il 20 marzo e disse che, avendo saputo che la sua predica in S. Maria Novella era molto dispiaciuta ad alcuni discepoli di Galileo, per zelo della verità aveva informato l’Inquisitore di Firenze di ciò che aveva detto sul passo di Giosuè, avvertendolo che era bene di mettere un freno a certi petulanti discepoli di Galileo che, secondo il P. Ferdinando Ximenes, sostenevano che Dio non è sostanza ma accidente, che è sensitivo perché ha sensi divinali e che i miracoli che si attribuiscono ai santi non sono veri mi- racoli. Il Caccini aggiunse che « dopo questi successi » gli era stata mostrata dal Lorini una copia della Lettera al Castelli e depose che era di pubblica fama e l'aveva anche sentito da Mons. Filippo de’ Bardi che Galileo tenesse queste due pro- posizioni: La terra secondo sé tutta si muove, anche di moto diurno; Il sole è immobile. Da un Attavanti, settatore di Ga- lileo, aveva saputo che il Galilei interpretava le Scritture in modo che non repugnassero alla sua opinione. A una domanda sulle opinioni di Galileo in materia di fede, il Caccini rispose che secondo alcuni era tenuto buon cattolico, secondo altri per sospetto « perché dicono sii molto intimo di quel Fra Paolo Servita, tanto famoso in Venezia per le sue impietà ». Galileo aveva in Firenze molti seguaci che si chiamavano Galileisti e andavano magnificando e lodando la sua dottrina e le sue opinioni. Si faceva fiorentino ma il Cac- VITA DI GALILEO 47 cini aveva inteso che era pisano e di professione matematico. Per quanto aveva inteso, aveva studiato a Pisa, letto a Padova e aveva sessant'anni passati. Il Caccini (e non ne dubitiamo) non lo conosceva « manco di viso ». In seguito a questa deposizione, il 13 novembre l’Inquisi- tore di Firenze esaminò il Padre Ferdinando Ximenes il quale disse che la dottrina che aveva sentito attribuire a Galileo era « doctrina contraposita ex diametro alla vera teologia e filosofia ». L’Inquisitore lo pregò di spiegarsi più chiaramente e lo Ximenes: « Ho sentito alcuni suoi scolari, i quali hanno detto che la terra si muove e che il cielo è immobile; hanno sog- giunto che Iddio è accidente, e che non datur substantia rerum né quantità continua, ma che ogni cosa è quantità discreta, composta de vacui; che Iddio è sensitivo dealiter, che ride, che piange etiam dealiter: ma non so però se loro parlino de loro opinione, o per opinione del loro maestro Galileo sopra- detto ». Sui miracoli lo Ximenes non ricordava. Le cose pre- cedenti le aveva udite e ne aveva discusso col piovano di Castel Fiorentino Giannozzi Attavanti. Non aveva mai visto Galileo ma gliene dispiaceva la dottrina « perché non è con- forme alli Padri ortodossi di Santa Chiesa, anzi è contro la verità istessa ». Era il caso di domandargli: Quid est veritas? Il giorno dopo fu chiamato davanti all’Inquisitore di Fi- renze il reverendo Attavanti il quale disse che non aveva sentito dire a Galileo cose che ripugnassero alla Scrittura o alla Fede: egli aveva sentito dire che, secondo la dottrina di Copernico, la terra si muove, e che il sole ruota intorno a se stesso, come è detto nelle Lettere sulle macchie solari. L’Atta- vanti non volle nemmeno ammettere che Galileo negasse, contro Giosuè, il moto di rivoluzione del sole e disse che aveva Galileo per buonissimo cattolico. Quanto a Dio sostanza o ac- cidente o che piange e ride, disse che lui, Attavanti, ne aveva ragionato col P. Ximenes, a titolo d’esercitazione su gli as- soluti di S. Tommaso e su altri argomenti fornitigli e che forse il Caccini, avendo la camera attigua a quella dello Ximenes, aveva immaginato che si trattasse di opinioni di Galileo. 48 PITADIIG4ILILEO Un interrogatorio a tre sarebbe stato gustosissimo ma non fu fatto. Il 25 novembre il Sant'Uffizio si riuni e stabili che si ve- dessero le Lettere sulle macchie solari di Galileo. Questa de- liberazione però non ebbe nessuna conseguenza nel processo. L’Inquisizione tenne cosî rigorosamente il segreto che Ga- lileo per parecchi mesi non ne seppe nulla e quando cominciò ad avere dei sospetti gli amici di Roma smentirono. Alla fine dell’anno Galileo si persuase che qualcosa si andava prepa- rando, se non personalmente contro di lui, contro la teoria copernicana, e decise di andare a Roma. Il 5 dicembre l’ambasciatore Guicciardini scriveva al Pic- chena la famosa lettera cifrata in cui diceva che nel 1611 la dottrina galileiana e qualche altra cosa non erano piaciute ai consultori e. cardinali del Sant'Uffizio e il Bellarmino aveva detto che, nonostante il gran rispetto per le serenissime Al- tezze, se Galileo fosse rimasto ancora a Roma avrebbe dovuto dare « qualche giustificazione de’ casi suoi». «Io non so — concludeva il Guicciardini — se sia mutato di dottrina o d'umore: so bene che alcuni frati di San Domenico che han gran parte nel Sant'Uffizio, e altri gli hanno male animo ad- dosso; e questo non è paese da venire a disputare della luna né da volere, nel secolo che corre, sostenere né portare dot- trine nuove ». Era proprio cosi: Roma era avversa a ogni dottrina nuova e si sforzava di consolidare e di estendere la sua assoluta su- premazia. In particolare non ammetteva che di teologia si potessero occupare altri che i teologi. Galileo, andato a Roma, vide che gli erano stati tesi tanti lacci; ma, convinto com’era e come diventava sempre pit della verità della teoria copernicana (pensava già al flusso e riflusso del mare come a una nuova prova della mobilità della terra) cercava di convincere tutti della verità delle sue idee. Impressionato dall’irresistibile eloquenza di Galileo, che era e faceva sentire di essere a contatto con la verità, il Sant'Uf- fizio affrettò il suo lavoro. Il 29 febbraio 1616 furono trasmesse ai teologi le due seguenti proposizioni da censurarsi: VITA. DI GALILEO 49 t. Che il sole sii centro del mondo, e per conseguenza im- mobile di moto locale; 2. Che la terra non è centro del mondo né immobile, ma si muove secondo sé tutta, etiam di moto diurno. Il 24 febbraio tutt'e gli undici teologi interpellati risposero all'unanimità che la prima proposizione è stolta e assurda in filosofia e formalmente eretica, perché contraddice alla Scrittura secondo la proprietà delle parole e l’interpretazione dei Padri e dei Dottori. La seconda proposizione merita la stessa cen- sura in filosofia ed è per lo meno erronea riguardo alla fede. In seguito a questa censura, il giorno seguente il Papa or- dinò al Bellarmino di chiamare Galileo e di ammonirlo ad abbandonare l’opinione che il sole sia il centro del mondo e immobile di moto locale e che la terra si muova anche di moto diurno. Nel caso che lui avesse rifiutato di ubbidire, il P. Commissario del Sant'Uffizio doveva ordinargli, in pre- senza di notaio e di testimoni, di astenersi del tutto dall’in- segnare o difendere l'opinione condannata, o di occuparsene. Se Galileo non avesse ubbidito, doveva essere messo in carcere. Nella seduta del 3 marzo il Bellarmino riferi all’Inquisi- zione che Galileo Galilei aveva accettato l’ordine di lasciare l'opinione che aveva tenuto, cioè che la terra sì muova in- torno al sole, e che la Congregazione dell’Indice aveva proibito e sospeso il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico, il libro di Diego da Zuniga su Giobbe e quello del carmelitano Fra Paolo Antonio Foscarini. Il decreto della Congregazione dell’Indice usci il 5 marzo e stabiliva che il libro di Copernico e quello di Diego da Zuniga dovessero essere sospesi fino a che non fossero corretti (cioè, come si vide dopo, finché non si togliessero tutte le parole che potevano far credere che la falsa dottrina pitagorica, in tutto contraria alla Scrittura, si sostenesse come realtà e non come ipotesi mate- matica). Il libro del P. Foscarini, in cui l’autore si sforzava di mostrare che la dottrina della mobilità della terra intorno al sole è vera e non contraddice alla Scrittura, era del tutto proibito e condannato. Il tipografo napoletano Lazzaro Sco- riggio, che aveva pubblicato senza permesso il libro del Foscarini, fu messo in carcere per ordine dell’areivescovo, 50 VITA DI GALILEO card. Carafa, e il Santissimo, cioè Paolo V, approvò. Implicita- mente veniva dunque del tutto condannata anche la lettera di Galileo a Don Benedetto Castelli e gli altri scritti sullo stesso argomento ma nessuno scritto di Galileo fu condannato. L'ordine che il 25 febbraio era stato dato al Bellarmino sull’ammonizione a Galileo non si prestava a dubbi. Se Ga- lileo non ubbidiva gli si doveva proibire non solo d’insegnare o difendere la teoria copernicana ma anche di occuparsene in qualunque modo; e se si ribellava lo dovevano mettere in car- cere. Se Galileo ubbidiva, come ubbidi, si restava con lui in buoni rapporti; e cosi fu. Nella visita dell’11 marzo fatta da Galileo al Papa, Paolo V gli disse che non si sarebbe dato leggermente orecchio ai calunniatori e che vivente lui poteva star sicuro; e prima che Galileo se ne andasse, gli replicò più volte d’esser molto ben disposto a mostrargli anche con fatti in tutte le occasioni la sua buona inclinazione a favorirlo. C'è un’altra circostanza. 1 nemici di Galileo avevano diffuso la voce che egli avesse segretamente abiurato in mano del Bel- larmino e che gli fossero state inflitte penitenze e digiuni. Il Bellarmino rilasciò a Galileo il 26 maggio una dichiarazione in cui smentiva tutte le calunnie o accuse, affermando che gli era stata solamente comunicata la dichiarazione fatta dal Papa e pubblicata dalla Congregazione dell’Indice che la dot- trina, attribuita a Copernico, che la terra si muova intorno al sole, è contraria alla Scrittura e perciò non si può né di- fendere né tenere. Senonché nella stessa pagina degli Atti del Processo in cui c'è l'ordine dell’ammonizione, sotto la data del giorno seguente (24 febbraio 1614) si legge che il Bellarmino chiamò Galileo nel suo palazzo e in presenza del Commissario generale del Sant'Uffizio, Fra Michelangelo Seghizzi, lo ammoni dell’errore dell'opinione copernicana, invitandolo a lasciarla; e che suc- cessivamente e immediatamente in presenza dello scrivente, dei testimoni (Badino Nores e Agostino Mongardo) e del car- dinale Bellarmino, il Padre Commissario ordinò a Galileo, a nome proprio, del Papa e del Sant'Uffizio di lasciare del tutto l'opinione condannata e di non pit, in qualsiasi modo, tenerla, insegnarla o difenderla, con la parola o con gli scritti; altri- VITA DI GALILEO 51 menti si sarebbe proceduto contro di lui nel Sant'Uffizio. Ga- lileo assenti e promise di ubbidire. L’analisi dellimpaginazione e della scrittura ha sollevato gravi dubbi su questo famigeratissimo documento, sul quale fu impostato il secondo processo. Il documento è certamente molto strano perché oltrepassa l'ordine del Papa ed è pure in contradizione col contegno successivo di Paolo V e del Bel- larmino, che, come abbiamo visto, rimasero in ottimi rapporti con Galileo. Se è autentico, bisogna attribuirlo a un eccesso di zelo, ma in ogni caso non si può interpretarlo come fecero gli Inquisitori nel 1633, vale a dire come un divieto di occuparsi in qualunque modo dell’opinione di Copernico. Paolo V non aveva proibito in maniera assoluta la teoria copernicana: l'aveva proibita come teoria fisica. Si restava dunque liberi di presentarla come un artificio, comodo per salvare le apparenze. Dal momento che Galileo aveva accettato l’ammonizione (su questo punto non ci può esser dubbio), non si poteva punirlo, impedendo a lui solo di occuparsi, anche dal punto di vista puramente cinematico, del sistema copernicano. Il documento stesso, se lo leggiamo senza prevenzioni, non lascia dubbi. Le parole che si vollero interpretare come un divieto assoluto sono queste: « Nec eam (cioè l'opinione condannata) de coe- tero, quovis modo, teneat, doceat, aut defendat, verbo aut scriptis. Chi le scrisse non doveva essere un grande latinista ma, se avesse voluto dire che non si poteva occuparsi della teoria copernicana nemmeno come ipotesi matematica, si sa- rebbe fatto capire. La frase è infelice ma significa che l’opi- nione copernicana è falsa e quindi non può essere accettata, insegnata o difesa né come vera né come probabile. Non si può gonfiare il quovis modo fino a metterci dentro quello che ci fa comodo. Ma, — si potrebbe dire a questo punto, — Galileo non avrebbe fatto meglio a ribellarsi? Io dico di no. Galileo era sinceramente cattolico e riceveva un ordine perentorio del Papa. L’ordine era la conclusione di un processo imbastito da Lorini, da Caccini e da altri suoi «ignorantissimi e ma- liziosissimi nemici ». E poiché lui non era stato interrogato e sapeva benissimo che non si era tenuto nessun conto né delle» 52 VITA DI GALILEO sue scoperte né delle sue ragioni, l'ordine era un vero arbitrio e lui non lo prese sul serio: finse di piegarsi ma preparò im- mediatamente la rivincita. Non è il caso di fare del puritanismo. Io capisco il sacrificio, ogni sacrificio, ma non credo che sia sempre obbligatorio sacrificarsi: alla pura violenza si può be- nissimo rispondere con l’astuzia. Se domani dieci Caccini o Lorini m’intimano con le armi in pugno di negare il teorema di Pitagora, negherò il teorema di Pitagora. Dopo il processo, Galileo si ritirò nella villa Segni a Bel- losguardo, studiando i periodi dei satelliti di Giove e iniziando le trattative per cedere alla Spagna il suo metodo per la de- terminazione della longitudine in mare in base alle eclissi dei satelliti di Giove. Ma non stava bene e non poté far molto. Quando nell’agosto 1618 comparvero tre comete, la più interessante delle quali era nel segno dello Scorpione, da molte parti fu sollecitato a occuparsene. Si decise a intervenire nella discussione appena ebbe notizia che il gesuita Padre Orazio Grassi aveva tenuto al Collegio Romano un discorso o meglio una discussione sulle tre comete; e fece leggere all'Accademia Fiorentina dal suo amico Mario Guiducci il Discorso delle Comete, che però, come sanno i lettori del primo volume, fu presentato come lavoro del Guiducci. Il Discorso fu pubblicato alla fine di giugno del 1619 e irritò profondamente i gesuiti, anzi il P. Grassi pubblicò, sotto l’anagramma di Lothario Sarsio Sigensano, la Libra astronomica ac philosophica, in cui attaccava «le opinioni di Galileo Galilei sulle comete esposte da Mario Guiducci nell'Accademia Fiorentina ». Galileo gli rispose col Saggiatore, che usci nell’ottobre del 1623, sotto forma di lettera a Monsignor Virginio Cesarini, accademico dei Lincei e maestro di camera del Papa. A cura dell’Accademia dei Lincei che l'aveva pubblicato, il libro era dedicato al nuovo Papa, Urbano VIII, eletto il 6 agosto. Ga- lileo e i suoi amici (è opportuno avvertirlo) si facevano grandi illusioni sul nuovo Papa, che, quand’era cardinale, aveva più volte dimostrato simpatia per Galileo. Aveva parteggiato per lui nella discussione sui galleggianti, aveva scritto un’ode la- stina in suo onore, l’Adulatio perniciosa, e si era mostrato VITA DI GALILEO 53 perfino favorevole a Galileo, ma come poteva farlo un cardi- nale peripatetico, nel processo del 1616. Il P. Niccolò Riccardi, che era stato incaricato della re- visione del Saggiatore, dichiarò galileianamente che il suo secolo si doveva gloriare non solo di essere l’erede delle fa- tiche dei passati filosofi ma come inventore di nuovi segreti: lodò le belle considerazioni di. filosofia naturale che ci son dentro e la sottile e soda speculazione dell'Autore, dichiaran- dosi felice di esser nato nel suo tempo, « quando non più con la stadera e alla grossa, ma con saggi sfî delicati, si bilancia l'oro della verità ». Con queste ultime parole si alludeva ai titoli dell’opera del Grassi e di quella di Galileo. Si sa che il P. Grassi aveva scelto il titolo Libra astronomica ac philo- sophica perché la stessa cometa, — egli diceva, — col nascere nella Libra (o Bilancia) aveva voluto misteriosamente accen- nargli che dovesse pesare con giusta bilancia le affermazioni del Discorso delle Comete. Galileo, accettando la metafora, aveva preferito scegliere, invece che una bilancia qualunque. una bilancia da saggiatori; ma non aveva mancato di osservare che il Grassi, che si prendeva abitualmente gran confidenza con le cose, aveva accomodato l’apparizione della cometa alla sua intenzione. Poiché, — aggiungeva Galileo, — la cometa ap- parve nello Scorpione il Grassi doveva intitolare il suo scritto: L’astronomico e filosofico scorpione. Il resto è bene che il lei- tore lo legga nell’originale. Il Saggiatore è, come sempre si è ritenuto, il capolavoro po- lemico di Galileo. Una teoria soddisfacente delle comete non ci poteva essere e non c'è; ma, se si guarda bene, Galileo non se l'è nemmeno proposta. Il suo vero scopo è quello di protestare contro coloro che pretenderebbero di opporsi all'esperienza con l'autorità dei poeti come faceva il Grassi o con quella della Scrittura come avevano fatto i teologi nel 1616, enunciando nello stesso tempo le idee fondamentali della nuova scienza, chiarendone il metodo, difendendone i diritti. La stroncatura del Grassi è definitiva (quel poveruomo credeva perfino che le uova si potessero cuocere alla babilonese, cioè facendole gi- rare con la fionda) ma Galileo non si propone soltanto un facile compito negativo e, appunto perciò, nonostante l’appa- 54 VITA DI GALILEO I renza del contrario, egli non è mai irritato e non è mai in- giusto. Egli vuole persuadere, non sopraffare. Essendo convinto che la scienza è la verità stessa, vuole far dono della sua fede. Il Saggiatore è animato da un senso quantitativo tutto mo- derno di cui nella Libra non c'è nemmeno un vago indizio; e cosi Galileo riesce a farsi rispettare anche quando sostiene ipotesi discutibili, mentre il P. Grassi si vale del principio ve- rissimo che il moto è causa di calore per farci ridere con gli spropositi delle uova cotte alla babilonese, o delle frecce lan- ciate con tanta violenza che s'incendiano o delle palle d’arti- glieria che, attraversando l’aria, si scaldano fino a fondersi. Molto moderna è pure la teoria galileiana dei colori, sapori, odori e suoni. Il libro piacque molto agli amici di Galileo, piacque mol- tissimo a Monsignor Giovanni Ciampoli, segretario dei brevi di Urbano VIII e ardente ammiratore di Galileo; e piacque anche al Papa, il quale fece capire chiaramente che avrebbe gradito una visita di omaggio da parte di Galileo. Chiesto consiglio a Federico Cesi, con una lettera della granduchessa madre Maria Cristina per Carlo de’ Medici e una del nuovo granduca Ferdinando II (Cosimo Il era morto il 28 febbraio del ’21) diretta al nuovo ambasciatore a Roma Francesco Niccolini, Galileo si mise in viaggio. Arrivò a Pe- rugia il 5 aprile 1624 e vi si trattenne per la Pasqua, poi andò per quindici giorni da Federico Cesi in Acquasparta e la mat- tina del 4 aprile era ai piedi di Nostro Signore, introdotto dal- l'Eccellentissimo signor Don Carlo Barberini e per un'ora fu trattenuto in diversi ragionamenti da Sua Santità, con suo sin- golarissimo gusto. Fu dal Papa altre cinque volte, trattenendosi in lunghi ragionamenti, ebbe da lui « grandissimi onori e fa- vori », la promessa di una pensione per il figlio, un bel quadro, due medaglie, una d’oro e l’altra d’argento e buona quantità di agnusdei; ma in realtà non ottenne lo scopo vero del viaggio, che era quello di rivedere, se non abrogare del tutto, il de- creto anticopernicano. Urbano VIII diceva che la Chiesa aveva condannato la teoria copernicana come temeraria e non come eretica; ma diceva e ripeteva con assoluta sicurezza che « non VITA DI GALILEO 55 era da temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessa- riamente vera ». Il Pontefice giustificava la sua convinzione col suo famoso argomento sull’onnipotenza divina, che doveva quietar l’intelletto anche se non si riuscisse a confutare gli argomenti pitagorici. L'argomento che era stato esposto dal- l’allora cardinale Maffeo Barberini a Galileo in presenza di Agostino Oregio era questo: Anche ammessa l'ipotesi che vo- leva dimostrare Galileo sul sistema del mondo, non si può negare che Dio avrebbe potuto e saputo disporre e muovere i cieli e le stelle in altro modo. Negandolo, si dovrebbe dimo- strare che implica contradizione la possibilità che i moti ce- lesti avvengano in modo diverso da come immaginava Galileo, perché Dio può tutto ciò che non implica contradizione. È se Dio può e sa disporre i cieli in modo che sia salva la Scrit- tura, noi non dobbiamo far violenza alla potenza e alla sapienza divina. Galileo non rispose; ma bisogna convenire che il suo otti- mismo era inesauribile se sperava in un uomo che ragionava in quel modo. Tornato a Firenze, Galileo si affrettò a rispondere a Fran- cesco Ingoli che nel 1616 gli aveva indirizzata una confutazione del sistema copernicano; e poiché aveva scritto con molto garbo e aveva esplicitamente detto che non intendeva aderire all’opi- nione condannata ma solo dimostrare che i cattolici la cono- scevano come i protestanti anche se non l’accettavano, la risposta piacque anche a Urbano VIII e cosî le illusioni di Galileo crebbero. Per ragioni di spazio, dobbiamo sorvolare sui rapporti tra Galileo e i suoi parenti e in particolare con Suor Maria Celeste. Diremo che Michelangelo Galilei nell’agosto 1627 parti da Mo- naco e condusse la famiglia presso Galileo; alla fine del feb- braio 1628 ritornè a Monaco. Nel marzo Galileo si ammalò gravemente e, credendo di morire, si riconciliò col cognato Lan- ducci e richiamò a casa dall'Università di Pisa dove studiava legge il figlio Vincenzo che egli aveva legittimato il 25 giugno del 1619. Il figlio rientrò dopo il 5 giugno in cui prese la laurea. Intanto Michelangelo, preoccupatissimo per la sua « povera bri- 56 VITA DI GALILEO gatina lontana e priva d'ogni aiuto e conforto » scrisse e ri- ‘scrisse e alla fine d'agosto ritornò a Firenze e ricondusse la famiglia a Monaco, guastandosi anche con Galileo. Michelan- gelo mori a Monaco il 3 gennaio 1631, dopo aver chiesto per- dono a Galileo, a cui raccomandò la vedova e i sette figli. Vincenzo sposò il 29 gennaio 1629 Sestilia Bocchineri e Galileo intervenne al matrimonio. Sorella di Sestilia fu Alessandra Boc- chineri, una donna intelligente che fu l'amica del cuore di Galileo. Nel settembre del 1029 Galileo riprese i Dialoghi del flusso e riflusso a‘cui non lavorava più da tre anni, e un mese dopo scrisse a Elia Diodati che nella nuova opera avrebbe inserito altri problemi, oltre quello sul flusso e riflusso del mare e « una amplissima confermazione del sistema Copernicano, con mostrar la nullità di tutto quello che da Ticone e da altri vien portato in contrario >. Da questa dichiarazione e da tutte quelle che, prima 0 dopo, Galileo fece in lettere private, risulta che egli fin da quando era lettore a Pisa era convinto della verità della teoria copernicana. Al tempo della scoperta dei satelliti di Giove la sua convinzione divenne irresistibile; e la sua insofferenza per l'insegnamento fu anche determinata dall’incompatibilità tra le sue idee, che erano ormai un sistema coerente, e l’indirizzo accademico. Ticone, cioè l’astronomo olandese Ticho Brahe, si era convinto che i pianeti girano intorno al sole ma sosteneva che la terra facesse eccezione e che il sole girasse intorno alla terra. Era un ripiego dovuto al fatto che Ticho Brahe credeva con gli aristotelici che il moto della terra conducesse a varie assurdità di carattere meccanico. Keplero dalle stesse osser- vazioni di Ticho Brahe aveva dedotto la verità della teoria copernicana e oggi vediamo ancora meglio che aveva ragione, perché le tre leggi di Keplero sono la premessa della legge di Newton, che è incompatibile col sistema tolemaico. Galileo però con le sue scoperte astronomiche aveva dato nuove con- ferme positive al sistema copernicano, mentre con la sua mec- canica aveva demolito le obiezioni che avevano impressionato Ticho Brahe. Al tempo del secondo processo di Galileo, Ticho Brahe avrebbe anche lui aderito alla teoria copernicana; ma VITA DI GALILEO 57 allora e dopo quei cattolici che sentirono la falsità del sistema tolemaico, non potendo accettare le idee condannate, abbrac- ciarono Ticone. Il 16 marzo del 1630, mentre Galileo stava facendo copiare il Dialogo dei Massimi Sistemi, il Castelli gli scriveva da Roma delle notizie che gli dovettero fare un grande piacere. Il Papa aveva detto giorni prima al Campanella che alcuni gentiluo- mini tedeschi convertiti al cattolicismo si erano mostrati molto scandalizzati della proibizione di Copernico, tanto che aveva risposto con queste precise parole: « Non fu mai nostra inten- zione; e se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto ». Galileo parti col manoscritto del Dialogo per ottenere la licenza di stampa e arrivò a Roma il 3 maggio. Presentò il manoscritto al Padre Niccolò Riccardi, detto Padre Maestro che, a quanto gli aveva scritto il Castelli, era benissimo disposto a servirlo; e il Riccardi lo passò per la revisione al Padre Raf- faele Visconti. Il 16 giugno il P. Visconti, che aveva proposto lievi correzioni, scrisse a Galileo: « II Padre Maestro gli bacia le mani, e dice che l’opera gli piace, e che domattina parlerà con il Papa per il frontespizio dell’opera, e che del resto, ac- comodando alcune poche cosette, simili a quelle che accomo- dammo insieme, gli dara il libro ». Galileo fu anche ricevuto benevolmente da Urbano VIII e parti contento il 29 giugno. Senonché il 2 agosto mori il prin- cipe Cesi, che doveva essere l'editore del volume ed era molto favorevole a Galileo, e ci furono oscure mene contro il Dia- logo, sicché il Castelli consigliò a Galileo di pubblicare il volume a Firenze. Dopo laboriose trattative, il 24 maggio 16531 il P. Riccardi scrisse all’inquisitore di Firenze che ultimasse lui la pratica, ricordandogli che il Papa desiderava che il titolo e il soggetto non fosse del flusso o riflusso ma assolutamente «la mate- matica considerazione della posizione copernicana intorno al moto della terra con fine di provare, che, rimossa la rivela- zione di Dio e la dottrina sacra, si potrebbero salvare le ap- parenze in questa posizione, sciogliendo tutte le persuasioni 58 VITA DI GALILEO contrarie, che dall'esperienza e filosofia peripatetica si potessero addurre ». Non si doveva perciò mai concedere la verità as- soluta ma solamente la ipotetica e senza le Scritture a quella opinione; e si doveva mostrare che si sapevano le ragioni ipo- tetiche e naturali e che non per mancamento di saperle si era bandita in Roma la sentenza contro Copernico. Queste istruzioni completano l'argomento di Urbano VIII. C'è, insomma, una doppia verità: quella della Scrittura e quella della scienza; ma la verità assoluta è quella della Scrittura: l’altra è un'ipotesi più o meno discutibile. Se nella Bibbia ci fosse scritto non che il sole cessò per un certo tempo di girare intorno alla terra ma che il sole non esiste, Ur- bano VIII risolverebbe subito la difficoltà. Noi lo vediamo? Benissimo: diremo che esiste, a titolo d’ipotesi, facendo astra- zione dalla Scrittura. Lo vediamo ma potrebbe non esistere perché, negato, non si nega il principio di contradizione. Affer- mandolo in via assoluta, coarteremmo la volontà di Dio, il quale può tutto ciò che non implica contradizione. Il Simplicio salileiano, dopo aver detto che non stima verace e concludente la spiegazione del flusso e riflusso del mare, continua: « Anzi, ritenendo sempre avanti a gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona dottissima ed eminentissima ap- presi ed alla quale è forza quietarsi, so che essendone voi, interrogati se Iddio con la sua infinita potenza e sapienza poteva conferire all'elemento dell’acqua il reciproco movi- mento, che in esso scorgiamo, in altro modo che co ’1 far muo- vere il vaso contenente, so, dico, che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anco dall’intelletto nostro inescogitabili. Onde io immediatamente vi concludo, che stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limi- tare e coartare la divina potenza e sapienza ad una sua fan- tasia particolare ». Sono le parole che determinarono l’ira di Urbano VIII. (Bisogna proprio dire che il Papa avesse per- duta la testa se credette di essere rappresentato in Simplicio. Il personaggio galileiano dice di avere appresa la saldissima dottrina da persona dottissima ed eminentissima. Del resto Simplicio è una bravissima persona, incapace di fare il minimo male a chiunque. e diventerà galileiano). Galileo ha visto che VITA DI GALILEO 59 l'argomento di Urbano VII abbassa la scienza a una fantasia individuale. Egli aveva un’altra idea. Per lui la Bibbia e la natura procedono ugualmente dal Verbo divino, la prima come dettatura dello Spirito Santo, l’altra come osservantis- sima esecutrice degli ordini di Dio. E poiché la scienza è un leggere nella natura, è vera come la Bibbia. Per Galileo la verità è dunque una sola; ed è per un curioso equivoco che alcuni attribuiscono a lui la dottrina della doppia verità. Il disaccordo tra Galileo e Urbano VIII era, come si vede, inconciliabile. Per accontentare sul serio il Papa, Galileo doveva rinunziare alla scienza. Tuttavia. mostrandosi ubbi- dientissimo e prontissimo col consultore di Firenze, ottenne il permesso. Non nego che ci furono restrizioni mentali da una parte e dall’altra. Il 16 agosto del 1631 Galileo diede da Bel- losguardo la buona notizia a Elia Diodati e il 21 febbraio 1652 il tipografo dei tre pesci, Giovan Battista Landini, fini di stam- pare il Dialogo < dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filoso- fiche e naturali tanto per l'una quanto per l’altra parte >». Senza ripetere quello che su questa grande opera abbiamo detto nel primo volume e quello che diremo altrove, ci limite- remo per ora a dire che Galileo è riuscito a presentare la teoria copernicana o meglio la sua teoria, tutta la nuova scienza, come una verità irresistibile. Si capisce perché i pe- ripatetici ne rimasero sconvolti: il loro mondo era distrutto. Galileo è leale. Non nasconde mai le opinioni degli avversari, non le falsa: se mai, cerca di renderle in qualche modo plau- sibili. È convinto della sua verità, che per lui è la verità senz'altro, ma non è un violento e discute volentieri con tutti. È stato un bene che il libro non si sia intitolato dal flusso e riflusso perché l'argomento che egli credeva decisivo è il più debole. Oggi tutti sono convinti che nella spiegazione delle maree abbia piti ragione Simplicio perché la teoria newtoniana spiega bene il fenomeno anche quantitativamente. Le maree sono dovute principalmente all’azione della luna e anche in parte all’azione del sole; le altre cause sono secondarie. Bi- sogna però convenire che Galileo non aveva tutti i torti quando 60 VITA DI GALILEO si ostinava a negare la teoria degli avversari. L’attrazione della luna di cui essi parlavano era un'attrazione magnetica che a Galileo appariva un ritorno all’aristotelismo. Si deve aggiun- gere che Newton non ammise mai quella forza che oggi chia- miamo attrazione newtoniana. Egli si limitò a formulare la legge matematica ma dichiarò esplicitamente che la natura fisica del fenomeno non la conosceva. Interpretando il suo vero pensiero noi adesso diciamo non che i corpi si attraggono ma che tutto avviene come se si attraessero in ragion diretta delle masse e in ragione inversa dei quadrati delle distanze. Se Ga- lileo tornasse oggi potrebbe non darsi per vinto, mentre ac- cetterebbe con gioia le nuove idee sulle stelle nuove e sulle comete. Egli potrebbe dirci: « Ma perché ho torto? Perché la mia teoria non coincide con quella di Newton? Esagererò ma finché non si chiarisce l’essenza della cosî detta attrazione newtoniana, si può sempre discutere. A ogni modo, io ho ten- tato di dare la teoria fisica e non quella matematica delle maree, come ho dato la teoria fisica e non quella puramente cinematica del sistema planetario ». Ottenuta la licenza di stampare il Dialogo dei Massimi Sistemi Galileo era contento e pensò di lasciare Bellosguardo e ad andarsene ad Arcetri, in modo da poter stare vicino alle figlie e in particolare a Suor Maria Celeste. Verso la fine del- l’anno prese in affitto il villino del Gioiello, che è a pochi passi dal convento di S. Matteo in Arcetri. Li pensava di met- tersi subito a scrivere i dialoghi che oggi conosciamo col titolo di Dialoghi delle Nuove Scienze. Il libro di Galileo urtò profondamente il P. Scheiner e in generale i gesuiti e molti altri teologi che contavano politica- mente. Urbano VIII, a cui si era fatta credere la storiella di Simplicio, diventò furibondo e disse che il libro di Galileo era più esecrando e pernicioso alla Chiesa degli scritti di Lutero e di Calvino. Il 23 settembre ordinò che Galileo si trovasse entro ottobre a Roma, a disposizione del Sant'Uffizio. Galileo non era in grado di viaggiare e si rivolse ad Andrea Cioli. cioè, per dirlo col Nelli che questa volta va citato, al « ministro imbecille di Ferdinando II», per ottenere di giustificarsi a VITA DI GALILEO 61 Firenze; ma né lui né il «Serenissimo Padrone» riuscirono a nulla. L’11 novembre il Papa ordinò all’Inquisitore di Firenze di costringere Galileo ad andare a Roma. Galileo si fece visitare da tre medici i quali lo trovarono col polso intermittente a tre e quattro battute e con un’ernia grave, e dichiararono che per ogni piccola causa esterna po- teva morire. Il 30 dicembre Urbano VIII riscrisse all’Inquisitore che né lui né la Sacra Congregazione potevano tollerare simili sot- terfugi; che avrebbero mandato un commissario con dei me- dici a spese di Galileo; s'era in grado di viaggiare l'avrebbero condotto a Roma incatenato; se no, quando guariva l’avreb- bero condotto a Roma incatenato. Il Papa mandò anche oscure minacce al Granduca e cosi l’11 gennaio Ferdinando II consigliò a Galileo di ubbidire. A Venezia non si sarebbero arresi. Galileo parti il 20 gennaio, in piena peste, e arrivò a Roma venticinque giorni dopo, avendo dovuto fare la quarantena a Ponte a Centina, confine dello Stato pontificio. A Roma andò ospite dell’ambasciatore Niccolini, accolto con « benignità che non si può descrivere » anche dall’ambasciatrice Caterina Ric- cardi che era stata detta « regina della gentilezza ». Ricevette visite dell'Assessore e del Commissario generale del Sant'Uf- fizio e più volte di uno dei consultori, il quale gli dava de- stramente occasione di dire qualche cosa in conferma del suo ossequio per la Chiesa. Lo andò pure a trovare il cardinale Francesco Barberini che gli consigliò di star ritirato. Senza che lui se ne accorgesse, in fondo l'avevano messo in carcere; ma lui s'illudeva, come sempre, e vedeva « un principio di trattaniento molto mansueto e benigno, e del tutto dissimile alle comunicate corde, catene e carceri ». Passavano le settimane e continuava sempre lo stesso silenzio come se fosse stato dimenticato. In- vece si stava studiando il modo d’imbastire un processo. Ai primi di aprile il Niccolini fu informato che non si poteva fare a meno di chiamare e trattenere al Sant'Uffizio Galileo e consigliò al «buon vecchio » di non insistere su « quel parti- colare della mobilità della terra ». All’idea di una ritrattazione Galileo se ne afflisse estremamente, tanto che il Niccolini 62 VITA DI GALILEO scrisse: «L'ho visto da ieri in qua cosi calato che si dubita grandemente della sua vita». Finalmente, dopo due mesi di clausura, Galileo il 12 aprile del ‘53 fu chiamato al Sant'Uf- fizio. Il Commissario generale, P. Vincenzo Maculano da Firen- zuola, cominciò l’interrogatorio. Gli domandò quand'era arrivato a Roma, se immaginava perché era stato chiamato, poi gli mostrò una copia del Dialogo dei Massimi Sistemi e gli do- mandò se riconosceva il libro per suo. Il P. Maculano gli do- mandò ancora le ragioni del suo viaggio a Roma nel 1616 e Galileo rispose che avendo sentito che si trattava di Copernico per rendersi «in stato sicuro di non tenere se non l’opinioni sante e cattoliche» aveva voluto sentire che cosa si dovesse pensare in proposito. P. Maculano desiderava dei particolari sui colloqui col Bellarmino e sulla notificazione fattagli sull’opinione di Co- pernico. Galileo rispose che il Bellarmino gli aveva detto che l'opinione di Copernico, essendo contraria alla Scrittura non si poteva, assolutamente presa, né difendere né tenere ma che ex suppositione si poteva pigliare e servirsene e presentò copia della dichiarazione del 26 maggio 1616. A questo punto l’Inquisitore, se aveva dubbi, doveva chie- dere l'originale della dichiarazione di Bellarmino, ma avendo sotto gli occhi il documento del 26 febbraio 1616, domandò a Galileo se si ricordava che gli era stato intimato di non tenere, difendere o insegnare in qualsiasi modo l’opinione condannata. Galileo rispose che non ricordava di aver avuto se non l'inti- mazione del Bellarmino, e che non ricordava che ci fosse il né insegnare né il quovis modo. « To non ne ho tenuto memoria, — aggiunse, — credo perché non sono spiegate in detia fede, alla quale mi sono rimesso e tenevo per mia memoria ». A domanda dell’Inquisitore, rispose facendo la storia della licenza di stampa e dichiarando che aveva osservato ogni ordine. Disse che col suo libro non aveva contravvenuto al precetto ricevuto nel 1616 e che non aveva parlato del precetto al Maestro del S. Palazzo perché non aveva creduto necessario di dirglielo non avendo né tenuta né difesa l'opinione copernicana, anzi avendo di- mostrato che le ragioni di Copernico sono invalide e non concludenti. VITA DI GALILEO 63 Finito l'interrogatorio, gli si fa firmare il verbale, gli s'im- pone silenzio con giuramento e gli si ordina di rimanere car- cerato in una camera del dormitorio dei custodi. Galileo non poteva esser messo sotto processo perché il Dialogo dei Massimi Sistemi aveva. avuto l'approvazione ec- clesiastica. Se il Papa credeva che i suoi ordini non fossero stati eseguiti poteva infliggere una punizione al Maestro del Sacro Palazzo e al revisore di Firenze, mettendo all'Indice il libro. Volendo colpire a ogni costo Galileo si ricorse al docu- mento del 26 febbraio 1616 che, interpretato cavillosamente contro la volontà di Paolo V, doveva render nulla l’appro- vazione ecclesiastica e quindi giustificare l'apertura del pro- cesso. La fede del Bellarmino non lasciava dubbi: Galileo aveva il diritto di occuparsi della teoria copernicana come ipotesi matematica. Senza badare all’inconseguenza, il Sant'Uffizio decise di continuare il processo, naturalmente cambiando di- rezione, cioè interpellò i tre teologi consultori Agostino Oregio, Melchiorre Incofer e Zaccaria Pasqualigo per sapere se Galileo avesse col suo dialogo violato il precetto di non tenere, inse- gnare o difendere, in qualsiasi modo, a voce o per iscritto, l'opinione copernicana. Ripetendo la formula su cui era stato impostato il processo, forse il Sant’Ufficio credeva d’aver sal- vato la regolarità formale, benché ora si trattasse di stabilire se Galileo avesse sostenuto che l’idea copernicana era una verità e non una semplice ipotesi. Tutt’e tre i teologi risposero che l'Autore dei Massimi Sistemi aveva insegnato che la terra gira intorno al sole, anzi Incofer e Pasqualigo avevano for- tissimi dubbi che egli persistesse nell’errore condannato da Paolo V. La risposta dell’Oregio ha la data del 17 aprile ma anche gli altri due teologi avranno risposto nello stesso giorno. Le cose si mettevano molto male per Galileo perché tra le affermazioni dei periti e le sue c’era contradizione e cosî, per accertare la verità, si doveva ricorrere all’esame rigoroso. L’ambasciatore Niccolini si faceva ancora molte illusioni. Il 16 aprile scriveva al Cioli che Galileo non era stato messo nelle « secrete solite darsi a’ delinquenti » e che essendosi pro- ceduto nella causa «con modi insoliti e piacevoli» c'era da sperare che Galileo sarebbe stato sbrigato presto e bene: « cosi 64 VITA DI GALILEO anche s'ha a sperar la spedizione presta e favorita ». S’intende, questi favori erano concessi da Sua Beatitudine in riguardo all'autorità e alla stima dovute alla Serenissima Casa di To- scana. Il Niccolini non era però cieco. « Come in quel Tribu- nale — diceva — si tratta con uomini che non parlano, non rispondono, né in voce né per lettere, cosi anche più difficile è il negoziarvi o penetrar i lor sensi >». Lo stesso giorno Galileo scriveva a Geri Bocchineri, fratello di Sestilia e di Alessandra, e addetto alla segreteria grandu- cale: < Effetto della scrittura che feci all’Em.mo Sig. Card. Barberini, credo che sia stato il cominciarsi a trattar del mio negozio, pur sotto la consueta e strettissima segretezza; per la continuazion del quale mi è convenuto restare ritirato, ma ben con insolita larghezza e comodità, in tre camere, che sono parte di quelle dove abita il Sig. Fiscale del S.to Offizio, e con libera e ampla facoltà di passeggiare per spazii ampli. Di sa- nità sto bene, per grazia di Dio e per l’esquisito governo della cortesissima casa del S. Ambasciatore e della S.ra Ambascia- trice, invigilantissima in tutte le comodità anco per me so- prabbondantissime ». Suor Maria Celeste, avendo saputo dal Bocchineri che il padre era ritenuto nelle stanze del Sant'Uffizio, gli scrisse il 20 aprile che ne aveva avuto molto disgusto persuadendosi che egli avrebbe avuto poca quiete dell'animo e forse non tutte le comodità. D'altra parte considerando il modo benigno con cui era stato trattato e soprattutto la giustizia della causa e la sua innocenza si consolava e pigliava speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto a cui il suo cuore non cessava mai di esclamare e raccomandarlo con tutto l’affetto e la confidenza possibile. Dopo averlo invitato a stare di buon animo e ad aver fiducia in Dio, il quale, come padre amore- volissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ri- corre, la primogenita di Galileo concludeva: « Carissimo Signor padre, ho voluto scrivergli adesso, acciò ella sappia che io sono a parte de i suoi travagli, il che a lei dovrebbe esser di qualche alleggerimento: non ne ho già dato indizio ad alcun’altra, volendo che queste cose di poco gusto siano tutte mie, e quelle di contento e sodisfazione siano comuni a tutti; che però tutte VITA DI GALILEO 65 stiamo aspettando il suo ritorno, con desiderio di goder la sua conversazione con allegrezza. E chi sa che mentre adesso sto scrivendo, V. S. non si ritrovi fuora d’ogni frangente e di ogni pensiero? Piaccia pur al Signore, il quale sia quello che la consoli e con il quale la lascio ». Galileo cominciava a vedere abbastanza chiaramente, avendo notato che molte speranze che gli erano state date in passato erano fondate più sulle congetture che sopra la scienza; ma il 23 aprile scriveva dal letto, in cui era stato costretto a met- tersi per dolori eccessivi in una coscia, che sperava di nuovo. Il Commissario e il Fiscale, che erano andati a visitarlo, gli avevano dato parola e ferma intenzione di « spedirlo » appena si fosse levato dal letto, replicandogli più volte che stesse di buon animo e allegramente. Il Niccolini scriveva al Cioli il 23 aprile che, secondo lui, Galileo sarebbe stato messo in libertà al ritorno del Papa da Castel Gandolfo, cioè verso l’Ascensione, e che invece sareb- bero stati puniti coloro che avevano concesso la licenza di stampa. « Della materia del libro — aggiungeva — non si parla sin ora >». Il giorno 27 il Padre Maculano, dopo avere ottenuto il permesso dal Sant'Uffizio di trattare in via privata con Galileo per persuaderlo dell'errore e indurlo a confessarlo, dopo molti e molti argomenti ottenne, per grazia del Signore, l’intento. Galileo riconobbe « di avere errato e nel suo libro di aver ec- ceduto » e si dispose a confessare in giudizio. Chiese solo un certo tempo per pensare al modo col quale poteva giustificare la confessione. Evidentemente il Commissario non conosceva bene Urbano VIII. Il 30 aprile Galileo subi il secondo interrogatorio, o meglio il Commissario lo invitò parlare e egli disse che dopo aver ri- flettuto per più giorni sul primo interrogatorio aveva riletto il suo Dialogo che da ire anni non aveva pi riveduto per vedere se, contro la sua purissima intenzione, per inavvertenza gli fosse uscito dalla penna qualcosa che si poteva interpretare come una disubbidienza agli ordini della Santa Chiesa. Riletto il libro, lo trovò, per il lungo disuso, quasi come scrittura nuova e di altro Autore, e doveva confessare che gli argomenti portati 5. - G. Galilei, Opere - II 66 VITA DI GALILEO per la parte falsa che intendeva mostrare inconcludenti erano presentati con tanta efficacia da produrre sul lettore l’effetto opposto e in particolare l'argomento delle macchie solari e quello della marea. Egli giustificava l'errore, tanto alieno dalla sua intenzione, non tanto col dire che gli argomenti che si vogliono confutare non vanno palliati a svantaggio dell’avver- sario ma piuttosto con la natural compiacenza che ognuno ha delle proprie sottigliezze. A ogni modo se avesse dovuto esporre di nuovo le stesse ragioni le avrebbe snervate in modo da non avere più l’apparente forza di cui sono realmente prive. < È stato dunque l’error mio, e lo confesso, di una vana ambizione e di una pura ignoranza e inavvertenza ». Tornando indietro subito dopo, dichiarò che era disposto ad aggiungere al Dialogo una o due altre giornate per ripigliare gli argomenti a favore dell'opinione condannata e confutarli nel modo più efficace che Dio benedetto gli avrebbe suggerito. Nello stesso giorno, dopo ottenuto il permesso da Ur- bano VIII, il Commissario generale concesse a Galileo, per ra- gioni di salute, di ritornare nel Palazzo dell’Ambasciatore, tenendolo però come carcere. Quando Cioli fu informato della cosa, scrisse a Niccolini che il Governo non intendeva sostenere le spese per il mante- nimento di Galileo se non per il primo mese. L’Ambasciatore gli rispose che alle spese pensava lui. Nota a questo proposito il Favaro che l’incidente dimostra quanto fosse grande la tir- cheria del Cioli, perché gli ripugna di farne risalire la respon- sabilità al Granduca. Il 10 maggio Galileo fu chiamato per la terza volta davanti al Sant'Uffizio e il P. Commissario lo invitò a presentare le sue difese. Galileo, che era gié stato preavvisato, disse che aveva gia pronta la difesa e presentò la fede originale del Bellar- mino e uno scritto che pubblicheremo integralmente nelle Note. In questo scritto Galileo confermava la deposizione pre- cedente e quindi negava di avere scientemente e volontaria- mente trasgredito agli ordini; diceva che le pitole vel quovis modo docere gli erano giunte novissime e come inaudite e chiedeva clemenza e benignità in considerazione della sua ca- dente vecchiezza. VITA DI GALILEO 67 Dopo questa seduta, che aveva l’aria di essere una semplice operazione burocratica a conferma della precedente, ci fu più d'un mese di silenzio in cui i nemici di Galileo non rimasero certo inattivi; sicché il 16 giugno il Santissimo decretò che Galileo fosse interrogato sull’intenzione, anche minacciandogli la tortura. Se non cedeva, previa l’abiura de vehementi in piena Congregazione del Sant'Uffizio, doveva esser condannato al carcere ad arbitrio della Congregazione; gli si doveva inoltre ordinare di non trattar più, a parole o per iscritto, in qualsiasi modo né della mobilità della terra né della stabilità del sole o contro, sotto pena di recidiva; il Dialogo doveva essere proibito. Alla sentenza si doveva dare la più grande pubblicità. Il martedi 21 giugno 1633 si ebbe la seduta della tortura. Si domandò a Galileo se avesse qualcosa da dire e lui rispose che non aveva da dire cosa alcuna. Allora gli si domandò da quanto tempo teneva o aveva tenuto che il sole è il centro del mondo e la terra non è il centro del mondo e si muove anche di moto diurno. Poiché Galileo confermò che, dopo la condanna dei superiori, non aveva più tenuta l’opinione co- pernicana, l’Inquisitore gli ordinò di confessare la verità, av- vertendolo che, in caso contrario, avrebbe dovuto procedere contro di lui cogli opportuni rimedi di diritto e di fatto. Ga- lileo rispose: « Io non tengo né ho tenuta questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io do- vessi lasciarla; del resto, son qua nelle loro mani, faccino quello che gli piace ». L’Inquisitore insiste che se non dirà la verità si verrà alla tortura e Galileo: «Io son qua per far l'obedienza; e non ho tenuta questa opinione dopo la determi- nazione fatta, come ho detto ». E poiché, — dice qui il verbale, — nient'altro si poté avere in esecuzione del decreto, avuta la sua sottomissione, fu rimandato al suo carcere. Il giorno dopo, nel convento domenicano di Santa Maria sopra la Minerva gli fu letta la sentenza e gli fu fatta fare l'abiura. I lettori hanno letto i due documenti nel primo vo- lume. Avranno notato che tre dei dieci inquisitori non firma- rono la sentenza: Gaspero Borgia, Laudivio Zacchia, Francesco Barberino. Uno dei firmatari, il cardinale Guido Bentivoglio, 68 VITA DI GALILEO che era stato allievo di Galileo a Padova, non avendo potuto impedire la condanna la sottoscrisse tra i rimorsi. Quanto alla tortura, è facile capire che documenti non ce ne potevano essere. Il Sant'Uffizio e il Papa avevano interesse di tacere, tanto più che si studiarono in ogni modo di far credere al Granduca che agivano per necessità ma avendo i più eccezionali riguardi per Galileo. Se non avessero applicata la tortura, chi sa come se ne sarebbero vantati! Il loro silenzio è significativo. Nemmeno Galileo poteva lasciare documenti perché si sarebbe esposto a terribili rappresaglie. Procedendo « per via di discorso » ed esaminando con at- tenzione i documenti che ci son rimasti, si può intuire la verità. Per Urbano VIII era molto importante che Galileo confessasse, perché si sarebbe avuta la prova dell’eresia e cosî il processo veniva ad essere giustificato. Senza la confessione, Galileo era soltanto sospetto, sia pure fortemente. di eresia e l'illegalità rimaneva. Il Pontefice non poteva avere riguardi per un uomo che manifestamente si ostinava a negare la verità. Piti chiaro è quel periodo della sentenza: «E parendo a noi che tu non avessi detto intieramente la verità circa la tua intenzione, giudicassimo esser necessario venir contro di te al rigoroso essame; nel quale, senza però pregiudizio alcuno delle cose da te confessate e contro di te dedotte come di sopra circa la detta tua intenzione, rispondesti cattolicamente ». Galileo fu sottoposto al rigoroso esame e non, come alcuni ripetono, a un esame pit rigoroso di quello che si era fatto fino allora. Come si sa, nel linguaggio dei criminalisti rigoroso esame era un eufemismo per dire tortura e tutto fa credere che anche nella sentenza contro Galileo abbia lo stesso significato. Se l'esame si fosse limitato a una minaccia in tono diplomatico sarebbe stato una commediola e il Sant'Uffizio non aveva la minima voglia di scherzare. Non meno decisivo è il contegno di Galileo dopo la condanna, che è quello di un uomo mortal- mente offeso. Dopo la condanna Galileo dimentica le cortesie ricevute, visto che gli appaiono oramai come inganni, e vede tutto nero. Il 25 luglio scrive al Cioli da Siena: « Gli scrivo adesso, spinto dal desiderio di liberarmi dal lungo tedio di una carcere di pi di sei mesi già passati, aggiunta al tra- VITA DI GALILEO 69 vaglio e afflizion di mente di un anno intero, e anco non senza molti incomodi e pericoli corporali, e tutto addossatomi per quei miei demeriti che son noti a tutti, fuor che a quelli che mi hanno di questo e di maggior castigo giudicato colpevole ». Più esplicito è quello che dice il 7 marzo a Elia Diodati: <I torti e l’ingiustizie, che l’invidia e la malvagità mi hanno ma- chinato contro, non mi hanno travagliato né mi travagliano. Anzi (restando illesa la vita e l'onore) la grandezza delle in- giurie mi è più presto di sollevamento, e è come una specie di vendetta, e l’infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell'ignoranza, madre della malignità, del- l'invidia, della rabbia e di tutti gli altri vizii e peccati scelerati e brutti. Bisogna che gli amici assenti si contentino di queste generalità, perché i particolari, che sono moltissimi, eccedono di troppo il potere essere racchiusi in una lettera ». Queste parole non si spiegano senza la tortura. I particolari che non si potevano scrivere per lettera si riferivano appunto alla diabolica seduta. Quando Galileo ripeté che era lf, si dovette subito iniziare la fustigazione o qualcosa del genere; ma alle nuove intimazioni egli rispose sempre che aveva detto la verità. Il suo contegno è bello e lo riconoscono perfino gl’inqui- sitori con quel: « Rispondesti cattolicamente ». I consequenziari non l'hanno capito. Quelli di destra sareb- bero stati felici se egli si fosse presentato al Sant'Uffizio, scalzo, con la corda al collo e un cero in mano, ripetendo: Mea culpa; gli altri avrebbero preferito che si fosse precipitato nella strada come Archimede, gridando: Eppur si muovel, o meglio che fosse salito sul rogo, ruggendo il « motto sublime ». Galileo non è né Bellarmino né Bruno (e tanto. meno Kant o peggio Hegel), ed è assurdo pretendere che scelga tra la reli- gione e la scienza. Certo egli si oppone con tutta la sua opera alla Chiesa della controriforma (il suo ideale sarebbe una Chiesa di cui fosse Papa, invece di Urbano VIII, Benedetto Castelli o Mons. Ciampoli); ma è convinto che la Chiesa di Urbano VIII non è la Chiesa senz'altro. La teoria copernicana è vera e sarà riconosciuta necessariamente anche dalla Chiesa. Può sconcertare quando ripete con accento di sincerità che 70 VITA DI GALILEO non è copernicano; ma è un’espressione polemica: per gl’in- quisitori esser copernicano significa essere ostinato nell'errore, eretico, delinquente. Io lo immagino quando si fa portare i Massimi Sistemi e li rilegge come se fossero un’opera di altri. Gli argomenti in favore di Tolomeo ci son tutti nella pit stretta maniera e non palliati a svantaggio dell’avversario; anzi per la naturale com- piacenza che Galileo ha sempre avuto delle sue sottigliezze, per quella sua abilità di trovare, anche per le proposizioni false, ingegnosi ed apparenti discorsi di probabilità, potrebbero sem- brare pit forti di come sono. È vero che la verità coperni- cana s'impone lo stesso, ma per lui e i suoi discepoli. I teologi invece chiudono gli occhi e affermano che non potrà mai esser dimostrata non dico vera ma nemmeno probabile. Com'è noto. nella sentenza venne condannato il Dialogo galileiano; l'Autore fu condannato al carcere formale del San- YUffizio ad arbitrio dei giudici e gli fu imposto di dire per tre anni, una volta la settimana, i sette salmi penitenziali. Dopo l’abiura Galileo fu tradotto al Palazzo del Sant'Uf- fizio, e il 23 giugno passò nel Palazzo Granducale alla Trinità dei Monti con l’ordine di considerarsi in carcere. Egli chiese di essere trasferito a Firenze, e in seguito a ripetute istanze del Niccolini, il 30 giugno il Papa consenti che fosse relegato nel Palazzo arcivescovile di Siena. A Siena arrivò il 9 e l'arcive- scovo Ascanio Piccolomini lo accolse come meritava. Seconde un anonimo che non sospettava di farne un elogio, il Piccolo- mini disse che l'Inquisizione non poteva né doveva riprovare le opinioni che Galileo aveva dimostrato con ragioni invincibili e che l'Autore dei Massimi Sistemi è il primo uomo del mondo e vivrà sempre nei suoi scritti. Appena arrivato a Siena, Galileo cominciò a scrivere la sua opera sul moto. In seguito a molte istanze, in cui ebbe gran parte il Niccolini, alla metà di dicembre poté ritirarsi nella sua villa di Arcetri, con l'obbligo però di starvi come in carcere e perciò senza ricever visite. La gioia di stare vicino alla sua primogenita durò poco perché Suor Maria Celeste il 2 aprile 1634 morfî, lasciandolo «in estrema afflizione ». VITA DI GALILEO 71 L’<« ernia, — scrisse al Bocchineri, — è tornata maggior che prima, il polso fatto interciso con palpitazione di cuore; una tristizia e melanconia immensa; inappetenza estrema, odioso a me stesso, e in somma mi sento continuamente chiamare dalla mia diletta figliuola ». Secondo Galileo, Suor Maria Celeste morî per « radunanza di umori melanconici» durante il processo. Mori bene, come bene era vissuta. La primogenita di Galileo è una delle figure più seducenti del mondo galileiano. Due parole di commemorazione mi sem- brano un dovere. Qualcuno avrebbe preferito che questa donna di squisito ingegno e singolare bontà, affezionatissima al Padre, avesse sposato uno dei discepoli del Padre e avesse cosi potuto pren- dere parte attiva alla nuova scienza. Più romanticamente, si potrebbe pensare a un altro Fra Filippo Lippi che la rapisce dal convento e ne fa una nuova Madonna, per la sua e per la nostra gioia. Io non so davvero immaginare il suo fragile corpo tra le braccia di un uomo. Suor Maria Celeste sta be- nissimo nella sua cella e di li partecipa alla vita spirituale del Padre con un'intensità che in nessun altro modo poteva esser maggiore. Si capisce perché Galileo la sentisse cosi sua. Ha il suo stesso ingegno tutto cose, il suo spirito arguto, la sua instan- cabilità nel lavoro ed è come lui malaticcia. È insieme la sua figlia, la sua allieva e la sua amica. E sempre dietro a mille piccole cose della vita quotidiana ma con lo sguardo rivolto in alto. È religiosissima ma senza esagerazioni. Ha notato acutamente il Favaro che se parla spesso di Dio, parla poco della Madonna e mai dei santi. Al contrario delle altre monache, non ha il santo del cuore che loro chiamavano devoto. Fa conto che il suo devoto sia il Padre, al quale confida tutti i suoi pensieri, mettendolo a parte dei suoi gusti e disgusti. La sua vita è un colloquio continuo col Padre, un’orazione continua col cuore, perché con la voce non ha tempo, un sommesso canto georgico, in fondo al quale s'intravede una grande mestizia. È fiera dell'Uomo che pe- netra i cieli e lo capisce ma non fa mai la saccente. Non fa 72 VITA DI GALILEO che circondarlo di amorose premure. Gli manda acqua di can- nella e pasta reale, mostacciuoli e pere cotte, conserva di fiori di ramerino e vasetti di lattovaro contro la peste e, regalo d'eccezione, una rosa, «la quale, — gli scrive, — come cosa straordinaria in quella stagione, dovra da lei esser molto gradita ». Il Padre le preme più di ogni altra cosa al mondo. Quando ne riceve buone notizie o s'impegna in suo servizio, prende «infinito contento »; quando non lo vede da qualche tempo si strugge dal desiderio di rivederlo e va fabbricando castelli in aria. Se il Padre si lagna perché non gli scrive, risponde che vorrebbe ogni giorno ricevere sue lettere e ogni giorno man- dargliene, stimando questa la maggior soddisfazione che possa dare e ricevere da lui; ma aggiunge che scrive sempre con molta strettezza di tempo, sicché sabato non poté scrivere; ma « (sia detto con sua pace) ho caro che seguissi, perché in quelle sue lamentazioni scorgo un eccesso di affetto dal quale son mosse, e me ne glorio ». Non si abbatte né si agita mai. Una sola volta si altera <« da ver davvero: ma però di quell’adirazione alla quale ci esorta il santo Re David in quel salmo ove dice, Irascimini et nolite peccare »: quando il Padre crede che ella voglia rivederlo per via dei regalini che le porta, il che è tanto differente dal suo pensiero quanto sono le tenebre dalla luce. Qualche volta è faceta, come Galileo negli anni giovanili. Avendo distrattamente creduto uova di bufala certi latticini detti uova bufaline: « Signor Padre, — gli scrive, — vi fo sa- pere, ch'io sono una Bufola, assai maggior di quelle che sono in coteste maremme, perché vedendo che V. S. mi scrive di mandar sette uova di cotesto animale, mi credevo che vera- mente fossino uova e facevo disegno di far una grossa frittata, persuadendo che fussino grandissime, e ne avevo fatto alle- grezza con Suor Luisa, la quale non ha avuto poco da ridere della mia goffaggine ». E quando sa che anche l'arcivescovo è stato informato della goffaggine: « Non potei non arrossire, — dice, — se bene dall’altra banda ho caro d’aver dato a V. S. materia di ridere e rallegrarsi, ché per questo molte volte gli scrivo delle scioccherie », VITA DI GALILEO 73 Avuta all'improvviso notizia della condanna dei Massimi Sistemi, in cui vede un nuovo travaglio del Padre, ne ha « trafitta l’anima d’estremo dolore ». Ma subito si riprende e invita il Padre a sostenere la burrasca con fortezza d’animo, non dimenticando la « fallacia e instabilità di tutte le cose di questo mondaccio ». E quando Galileo le scrive che si sente come cancellato dal libro dei viventi, protesta con affettuosa energia. Letta la sentenza, trova modo di giovargli « un qualche pocolino », addossandosi di recitare una volta la settimana i sette salmi. « Cosi avess'io potuto supplire nel resto, ché molto volentieri mi sarei eletto una carcere. assai più stretta di questa in che mi trovo, per liberarne lei ». Nessuna protesta contro la Chiesa, ma nessuna concessione e nessun dubbio. D'accordo col Padre, Suor Maria Celeste sa che il dissidio non è tra Galileo e la Chiesa ma tra le idee nuove impersonate dal Padre e « questo mondaccio >», ossia lo spirito della controriforma. Alla fine del 1634 il dialogo del moto era pronto ma in Italia non si poteva pubblicare, essendo state proibite tutte le opere di Galileo pubblicate e da pubblicarsi. Galileo riusci a pubblicato a Leida dagli Elzeviri, i quali gli diedero il titolo che ha adesso: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali. Il titolo, che si suole abbreviare in Dialoghi delle Nuove Scienze, è sembrato a Galileo volgare troppo per non dire plebeo. Questo volume è il capolavoro scientifico di Galileo (non il capolavoro senz’altro, che secondo me rimane il Dialogo dei Massimi Sistemi). È la prima sistemazione della meccanica classica o meccanica di Galileo e Newton. Quando l’opera di Galileo usci, il buon vecchio era gia divenuto « irreparabilmente del tutto cieco ». Il 2 gennaio 1638 scriveva a Elia Diodati: « Or pensi V. S. in quale afflizione io mi ritrovo, mentre che vo considerando che quel cielo, quel mondo e quello universo che io con mie maravigliose osserva- zioni e chiare dimostrazioni aveva ampliato per cento e mille volte più del comunemente veduto da’ sapienti di tutti i se- 6. - G. Galilei, Opere - II, 24 VITA DI GALILEO coli passati, ora per me s'è sî diminuito e ristretto, ch'e’ non è maggiore di quel che occupa la persona mia ». Nel suo carcere di Arcetri Galileo continuò a lavorare. Scrisse molte postille antiperipatetiche, che avrebbe voluto raccogliere in volume, molte lettere ai suoi amici e una delle cose più belle: la Lettera sul candore lunare, che abbiamo pubblicato nell’altro volume. Si occupò molto del problema della longitudine, svolgendo lunghe trattative con gli Stati Generali di Olanda. Intendeva anzi mandare in Olanda il P. Vincenzo Renieri, che aveva continuato i suoi studi sui sa- telliti di Giove. Negli ultimi anni ebbe l’assistenza del Castelli, di P. Cle- mente Settimi, delle Scuole Pie, che ebbe anche noie dall’In- quisizione, del giovanissimo Vincenzo Viviani, che si considerò come l’ultimo discepolo e ne scrisse la Vita, e di un altro giovane, che è il pit grande dei suoi discepoli: Evangelista Torricelli. Nei primi del novembre 1641 gli venne una febbriciattola continua e un gran dolor di reni. Il gentiluomo fiorentino Pier Francesco Rinuccini, che era andato a visitarlo, scriveva a Leopoldo de’ Medici: « Questi mali, alla sua età, mi par che devano far temere della sua vita. Egli con tutto ciò discorre con l’istessa franchezza che facea fuori del letto; e mi disse che aveva grandissima soddisfazione del nuovo mattematico Torricelli, e che aveva ricevuto grandissimo gusto in sentir con- frontare alcune nuove dimostrazioni tra lui e ’1 Viviani, del quale mi disse un monte di bene, e m’ordinò ch'io lo scrivessi a V. A. >. Mori infatti 1'8 gennaio 1642. Il Viviani precisa che aveva settantasette anni, dieci mesi e venti giorni e che erano le quattro di notte. Il 20 dicembre 1641 aveva scritto la sua ultima lettera all’amica Alessandra Bocchineri, pregandola di condonare la non volontaria brevità alla gravezza del male e baciandole con affetto cordialissimo le mani. SEB. TIMPANARO DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE ct ceva fin PRE AV PLM mu a DID e i Mr prata È Bee, relati n Mido, JAO siate vi ipa ATO roy Lo | tt SI vedasi è da Kt hifi ih ja posa NEFISDI ohi CAI ni 00 PAR higicn ultrà) I di mg; pa dai fu MA'TUIPO Mat Lug Ni ì Mr pt, ma pa id \o Atei MERE Vila, Ati pero 299 tati Fine Di ti GE A Jo o \ botti uti jan UG RR (RALE Arsndisa VALLE Rep Ni no Pafininit tra tata 3 00 ee n beng è du ardiaoi e ‘0g A Ù Vi, i, Pr: 1 VAIANO ‘iguntimio. 1040 1} istat MI 7 AR TT PIBBRRARTIO a matal'4 osti MR n (Cu © LAGO PARINI, È ; Apa LITTA iii ì riot ir Î LITI RESA AIE, fi ci "ILE ; ai ta vi coi SOM e “a si Ria ae O (Yo GUARINO nua, “spagi AE La » î i Li À y "RION O SL I i ) (ni x A f la “i Î q \ A n do SHILNN Dr 4 ALLO ILLUSTRISSIMO SIGNORE IL SIGNORE CONTE DI NOAILLES Consiglier di Sua Maestà Cristianissima, Cavalier dell'Ordine di Santo Spirito, Mariscalco de’ suoi campi ed esserciti, Siniscalco e Governatore di Roerga e Luogotenente per sua Maestà in Overgna, mio Signore e Padrone colendissimo Illustrissimo Signore, Riconosco per uno effetto della magnanimità di V. S. Illustrissima quanto gli è piaciuto disporre di questa opera mia; non ostante che (come ella sa), confuso e sbi- gottito da i mal fortunati successi di altre mie opere, avendo meco medesimo determinato di non esporre in pubblico mai più alcuna delle mie fatiche, ma solo, acciò del tutto non restassero sepolte, essendomi persuaso di lasciarne copia manuscritta in luogo conspicuo al meno a molti intelligenti delle materie da me trattate, e per ciò avendo fatto elezzione, per il primo e pit illustre luogo, di depositarle in mano di V. S. Illustrissima, sicuro che, per sua particolare affezzione verso di me, avrebbe avuto a cuore la conservazione de’ miei studii e fatiche; e per ciò nel suo passaggio di qua, ritornando dalla sua amba- sciata di Roma, fui a riverirla personalmente, si come più volte avevo fatto per lettere; e con tale incontro presentai a V. S. Illustrissima la copia di queste due opere che allora mi trovavo avere in pronto, le quali benigna- mente mostrò di gradire molto e di essere per farne sicura 28 GALILEO GALILEI conserva, e, col participarle in Francia a qualche amico suo, perito di queste scienzie, mostrare che, se bene ta- cevo, non però passavo la vita del tutto ociosamente. Andavo dipoi apparecchiandomi di mandarne alcune altre copie in Germania, in Fiandra, in Inghilterra, in Spagna, e forse anco in qualche luogo d'Italia, quando improvisamente vengo da gli Elzevirii avvisato come hanno sotto il torchio queste mie opere, e che però io deva prendere risoluzione circa la dedicatoria e prontamente mandargli il mio concetto sopra di ciò. Mosso da questa inopinata ed inaspettata nuova, sono andato meco mede- simo concludendo che la brama di V. S. Illustrissima di suscitare ed ampliare il nome mio, col participare a di- versi i miei scritti, abbia cagionato che sieno pervenuti nelle mani de’ detti stampatori, li quali, essendosi ado- perati in publicare altre mie opere, abbiano voluto ono- rarmi di mandarle alla luce sotto le loro bellissime ed ornatissime stampe. Per ciò questi miei scritti debbono risentirsi per aver avuta la sorte d’andar nell’arbitrio d’un si gran giudice, il quale, nel maraviglioso concorso di tante virtîi che rendono V. S. Illustrissima ammirabile a tutti, ella con incomparabile magnanimità, per zelo anco del ben publico, a cui gli è parso che questa mia opera dovesse conferire, ha voluto allargargli i termini ed i confini dell'onore. Si che, essendo il fatto ridotto in cotale stato, è ben ragionevole che io con ogni segno pit conspicuo mi dimostri grato riconoscitore del generoso affetto di V. S. Illustrissima, che ha avuto a cuore di ac- crescermi la mia fama con farli spiegar le ale liberamente sotto il cielo aperto, dove che a me pareva assai dono che ella restasse in spazii più angusti. Per tanto al nome vostro, Illustrissimo Signore, conviene che io dedichi e consacri questo mio parto; al che fare mi strigne non solo il cumulo de gli oblighi che gli tengo, ma l'interesse an- cora, il quale (siami lecito cosî dire) mette in obligo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE C9 V. S. Illustrissima di difendere la mia riputazione contro a chi volesse offenderla, mentre ella mi ha posto in stec- cato contro a gli avversarii. Onde, facendomi avanti sotto il suo stendardo e protezzione, umilmente me le inchino, con augurarle per premio di queste sue grazie il colmo d'ogni felicità e grandezza. Di V. S. Illustrissima Devotissimo Servitore GaLiLeoO GALILEI. D’Arcetri, li 6 Marzo 1638. LO STAMPATORE A I LETTORI. Trattenendosi la vita civile mediante il mutuo e vi- cendevole soccorso de gli uomini gli uni verso gli altri, ed a ciò servendo principalmente l’uso delle arti e delle scienzie, per questo gl’inventori di esse sono sempre stati tenuti in grande stima, e molto riveriti dalla savia an- tichità; e quanto pit eccellente o utile è stata qualche invenzione, tanto maggior laude ed onore ne è stato at- tribuito a gl’inventori, fin ad essere stati deificati (avendo gli uomini, per commun consenso, con tal segno di su- premo onore voluto perpetuare la memoria de gli autori del loro bene essere). Parimente quelli i quali con l’acu- tezza de i loro ingegni hanno riformato le cose già tro- vate, scoprendo le fallacie e gli errori di molte e molte proposizioni portate da uomini insigni e ricevute per vere per molte età, sono degni di gran lode ed ammira- zione: atteso medesimamente che tale scoprimento è lau- dabile, se bene i medesimi scopritori avesseno solamente rimossa la falsità, senza introdurne la verità, per sé tanto difficile a conseguirsi, conforme al detto del principe de gli oratori: Utinam tam facile possem vera reperire, quam falsa convincere. Ed in fatti il merito di questa lode è dovuto a questi nostri ultimi secoli, ne i quali le arti e le scienzie, ritrovate da gli antichi, per opera di perspicacissimi ingegni sono, per molte prove ed espe- rienzie, state ridotte a gran perfezzione, la quale ogni di va augumentandosi: ed in particolare questo appa- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 81 risce nelle scienzie matematiche, nelle quali (lasciando i diversi che si ci sono adoperati con gran lode e gran successo) al nostro Signore Galileo Galilei, Accademico Linceo, senza alcun contrasto, anzi con l'applauso e l'ap- probazione universale di tutti i periti, meritamente sono dovuti li primi gradi, si per aver mostrato la non con- cludenza di molte ragioni intorno a varie conclusioni, con salde dimostrazioni confermate (come ne sono piene le opere sue gié publicate), si anco per aver col telescopio (uscito prima di queste nostre parti, ma da esso ridotto poi a perfezzione molto maggiore) scoperto e data, prima di tutti, la notizia delle quattro stelle satelliti di Giove, della vera e certa dimostrazione della Via Lattea, delle macchie solari, delle rugosità e parti nebulose della Luna, di Saturno tricorporeo, Venere falcata, della qualità e disposizion delle comete; tutte cose non conosciute mai da gli astronomi né da i filosofi antichi, di maniera che puote dirsi, esser per esso con nuova luce comparsa al mondo e ristorata l'astronomia: dall’eccellenza della quale (in quanto ne’ cieli e ne i corpi celesti con maggiore evi- denza ed ammirazione che in tutte le altre creature ri- splende la potenza sapienzia e bontà del supremo Fattore) risulta la grandezza del merito di chi ce ne ha aperta la conoscenza, con aversi resi tali corpi distintamente con- spicui, non ostante la loro distanza, quasi infinita, da noi; poi che, secondo il dire volgato, l'aspetto insegna assal più e con maggior certezza in un sol giorno che non po- triano fare i precetti, quantunque mille volte reiterati, la notizia intuitiva (come disse un altro) andando del pari con la definizione. Ma molto più si fa manifesta la grazia concedutagli da Dio e dalla natura (per mezzo però di molte fatiche e vigilie) nella presente opera, nella quale si vede, lui essere stato ritrovatore di due intere scienzie nuove, e da i loro primi principii e fon- damenti concludentemente, cioè geometricamente, dimo- 82 GALILEO GALILEI strate: e, quello che deve rendere più maravigliosa questa opera, una delle due scienze è intorno a un suggetto eterno, principalissimo in natura, speculato da tutti i gran filosofi, e sopra il quale ci sono moltissimi volumi scritti; parlo del moto locale, materia d’infiniti accidenti ammirandi, nessuno de’ quali è sin qui stato trovato, non che dimostrato, da alcuno: l’altra scienzia, pure da i suoi principii dimostrata, è intorno alla resistenza che fanno i corpi solidi all'essere per violenza spezzati; notizia di grande utilità, e massime nelle scienzie ed arti meca- niche, ed essa ancora piena d’accidenti e proposizioni sin qui non osservate. Di queste due nuove scienzie, piene di proposizioni che in infinito saranno accresciute col pro- gresso del tempo da gl’ingegni specolativi, in questo libro si aprono le prime porte, e con non piccolo numero di proposizioni dimostrate si addita il progresso e trapasso ad altre infinite, si come da gl’intelligenti sarà facil- mente inteso e riconosciuto. GIORNATA PRIMA. INTERLOCUTORI SALVIATI, SAGREDO E SIMPLICIO. SAL. Largo campo di filosofare a gl’intelletti speco- lativi parmi che porga la frequente pratica del famoso arsenale di voi, Signori Veneziani, ed in particolare in quella parte che mecanica si domanda; atteso che quivi ogni sorte di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande d’artefici, tra i quali, e per l’osservazioni fatte dai loro antecessori, e per quelle che di propria avvertenza vanno continuamente per se stessi facendo, è forza che ve ne siano de i peritissimi e di finissimo discorso. SAGR. V. S. non s'inganna punto: ed io, come per natura curioso, frequento per mio diporto la visita di questo luogo e la pratica di questi che noi, per certa pre- minenza che tengono sopra ‘l resto della maestranza, do- mandiamo proti; la conferenza de i quali mi ha più volte aiutato nell’investigazione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili. È vero che tal volta anco mi ha messo in confusione ed in disperazione di poter penetrare come possa seguire quello che, lontano da ogni mio concetto, mi dimostra il senso esser vero. E pur quello che poco fa ci diceva quel buon vecchio è un dettato ed una proposizione ben assai vulgata; ma però io la reputava in tutto vana, come 84 GALILEO GALILEI molte altre che sono in bocca de i poco intelligenti, credo da loro introdotte per mostrar di saper dir qualche cosa intorno a quello di che non son capaci. SAL. V. S. vuol forse dire di quell’ultimo pronun- ziato ch’ei profferi mentre ricercavamo d'intendere per qual ragione facevano tanto maggior apparecchio di so- stegni, armamenti ed altri ripari e fortificazioni, intorno a quella gran galeazza che si doveva varare, che non si fa intorno a vasselli minori; dove egli rispose, ciò farsi per evitare il pericolo di direnarsi, oppressa dal gravis- simo peso della sua vasta mole, inconveniente al quale non son soggetti i legni minori? SAGR. Di cotesto intendo, e sopra tutto dell’ultima conclusione ch’ei soggiunse, la quale io ho sempre stimata concetto vano del vulgo; cioè che in queste ed altre si- mili machine non bisogna argumentare dalle piccole alle grandi, perché molte invenzioni di machine riescono in piccolo, che in grande poi non sussistono. Ma essendo che tutte le ragioni della mecanica hanno i fondamenti loro nella geometria, nella quale non veggo che la grandezza e la piccolezza faccia i cerchi, i triangoli, i cilindri, i coni e qualunque altre figure solide, soggette ad altre passioni queste e ad altre quelle; quando la machina grande sia fabricata in tutti i suoi membri conforme alle propor- zioni della minore, che sia valida e resistente all’esercizio al quale ella è destinata, non so vedere perché essa an- cora non sia esente da gl’incontri che sopraggiugner gli possono, sinistri e destruttivi. SAL. Il detto del vulgo è assolutamente vano; e tal- mente vano, che il suo contrario si potra profferire con altrettanta verità, dicendo che molte machine si potranno far più perfette in grande che in piccolo: come, per esempio, un oriuolo, che mostri e batta le ore, più giusto si fara d'una tal grandezza che di un’altra minore. Con miglior fondamento usurpano quel medesimo detto altri DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 85 più intelligenti, i quali della riuscita di tali machine grandi, non conforme a quello che si raccoglie dalle pure ed astratte dimostrazioni geometriche, ne rimettono la causa nell’imperfezzione della materia, che soggiace a molte alterazioni ed imperfezzioni. Ma qui non so s'io potrò, senza inciampare in qualche nota di arroganza, dire che né anco il ricorrere all’imperfezzioni della ma- teria, potenti a contaminare le purissime dimostrazioni matematiche, basti a scusare l’inobbedienza delle ma- chine in concreto alle medesime astratte ed ideali: tut- tavia io pure il dirò, affermando che, astraendo tutte l’imperfezzioni della materia e supponendola perfettissima ed inalterabile e da ogni accidental mutazione esente, con tutto ciò il solo esser materiale fa che la machina maggiore, fabbricata dell’istessa materia e con l’'istesse proporzioni che la minore, in tutte l’altre condizioni ri- sponderà con giusta simmetria alla minore, fuor che nella robustezza e resistenza contro alle violente invasioni; ma quanto più sarà grande, tanto a proporzione sarà più debole. E perché io suppongo, la materia essere inaltera- bile, cioè sempre l’istessa, è manifesto che di lei, come di affezzione eterna e necessaria, si possano produr di- mostrazioni non meno dell’altre schiette e pure mate- matiche. Però, Sig. Sagredo, revochi pur l'opinione che teneva, e forse insieme con molti altri che nella mecanica han fatto studio, che le machine e le fabbriche composte delle medesime materie, con puntuale osservanza delle medesime proporzioni tra le loro parti, debban esser egualmente, o, per dir meglio, proporzionalmente, disposte al resistere ed al cedere alle invasioni ed impeti esterni, perché si può geometricamente dimostrare, sempre le maggiori essere a proporzione men resistenti che le mi- nori: sî che ultimamente non solo di tutte le machine e fabbriche artifiziali, ma delle naturali ancora, sia un ter- mine necessariamente ascritto, oltre al quale né l’arte né 86 GALILEO GALILEI la natura possa trapassare: trapassar, dico, con osservar sempre l’istesse proporzioni con l’identità della materia. SAGR. Io già mi sento rivolgere il cervello, e, quasi nugola dal baleno repentinamente aperta, ingombrarmisi la mente da momentanea ed insolita luce, che da lontano mi accenna e subito confonde ed asconde imaginazioni straniere ed indigeste. E da quanto ella ha detto parmi che dovrebbe seguire che fusse impossibil cosa costruire due fabbriche dell’istessa materia simili e diseguali, e tra di loro con egual proporzione resistenti; e quando ciò sia, sarà anco impossibile trovar due sole aste dell’istesso legno tra di loro simili in robustezza e valore, ma dise- guali in grandezza. SAL. Cosî è, Sig. Sagredo: e per meglio assicurarci che noi convenghiamo nel medesimo concetto, dico che se noi ridurremo un'asta di legno a tal lunghezza e gros- sezza, che fitta, v. g., in un muro ad angoli retti, cioè parallela all’orizonte, sia ridotta all'ultima lunghezza che si possa reggere, si che, allungata un pelo pit, si spez- zasse, gravata dal proprio peso, questa sarà unica al mondo; tal che essendo, per esempio, la sua lunghezza centupla della sua grossezza, nissuna altra asta della me- desima materia potrà ritrovarsi che, essendo in lunghezza centupla della sua grossezza, sia, come quella, precisa- mente abile a sostener se medesima, e nulla di piîi; ma tutte le maggiori si fiaccheranno, e le minori saranno po- tenti a sostener, oltre al proprio peso, qualch’altro ap- presso. E questo che io dico dello stato di regger se medesimo, intendasi detto di ogni altra costituzione; e cosi se un corrente potrà reggere il peso di dieci correnti suoi eguali, una trave simile a lui non potrà altramente regger il peso di dieci sue eguali. Ma notino in grazia V. S. e ’1 Sig. Simplicio nostro, quanto le conclusioni vere, benché nel primo aspetto sembrino improbabili, additate solamente qualche poco, depongono le vesti che DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 87 le occultavano, e nude e semplici fanno de’ lor segreti gioconda mostra. Chi non vede come un cavallo cadendo da un'altezza di tre braccia o quattro si romperà l’ossa, ma un cane da una tale, e un gatto da una di otto o dieci, non si farà mal nissuno, come né un grillo da una torre, né una formica precipitandosi dall’orbe lunare? i piccoli fanciulli restare illesi in cadute, dove i provetti si rompono gli stinchi o la testa? E come gli animali più piccoli sono, a proporzione, più robusti e forti de i mag- giori, cosi le piante minori meglio si sostentano: e già credo che amendue voi apprendiate che una quercia du- gento braccia alta non potrebbe sostenere i suoi rami sparsi alla similitudine di una di mediocre grandezza, e che la natura non potrebbe fare un cavallo grande per venti cavalli, né un gigante dieci volte più alto di un uomo, se non 0 miracolosamente o con l’alterar assai le proporzioni delle membra ed in particolare dell’ossa, in- grossandole molto e molto sopra la simmetria dell’ossa comuni. Il creder parimente che nelle machine artifiziali egualmente siano fattibili e conservabili le grandissime e le piccole, è errore manifesto: e cosî, per esempio, piccole guglie, colonnette ed altre solide figure, sicuramente si potranno maneggiare distendere e rizzare, senza risico di rompersi, che le grandissime per ogni sinistro accidente andranno in pezzi, e non per altra cagione che per il lor proprio peso. E qui è forza che io vi racconti un caso degno veramente di esser saputo, come sono tutti gli ac- cidenti che accascano fuori dell’aspettazione, e massime ‘quando il partito preso per ovviare a uno inconveniente riesce poi causa potissima del disordine. Era una gros- sissima colonna di marmo distesa, e posata, presso alle sue estremità, sopra due pezzi di trave; cadde in pensiero dopo certo tempo ad un mecanico che fusse bene, per maggiormente assicurarsi che gravata dal proprio peso non si rompesse nel mezzo, supporgli anco in questa 88 GALILEO GALILEI parte un terzo simile sostegno: parve il consiglio gene- ralmente molto opportuno, ma l'esito lo dimostrò essere stato tutto l’opposito, atteso che non passarono molti mesi che la colonna si trovò fessa e rotta, giusto sopra il nuovo appoggio di mezzo. SIMPL. Accidente in vero maraviglioso e veramente praeter spem, quando però fusse derivato dall’aggiu- snervi il nuovo sostegno di mezzo. SAL. Da quello sicuramente derivò egli, e la ricono- sciuta cagion dell’effetto leva la maraviglia: perché, de- posti in piana terra i due pezzi della colonna, si vedde che l’uno de i travi, su ’1 quale appoggiava uno delle te- state, si era, per la lunghezza del tempo, infracidato ed avvallato, e, restando quel di mezzo durissimo e forte, fu causa che la metà della colonna restasse in aria, abban- donata dall’estremo sostegno; onde il proprio soverchio peso gli fece fare quello che non avrebbe fatto se solo sopra i due primi si fusse appoggiata, perché all’avval- larsi qual si fusse di loro, ella ancora l’arebbe seguito. E qui non si può dubitare che tal accidente non sarebbe avvenuto in una piccola colonna, benché della medesima pietra e di lunghezza rispondente alla sua grossezza con la proporzione medesima della grossezza e lunghezza della colonna grande. SAGR. Già sin qui resto io assicurato della verità dell'effetto, ma non penetro gia la ragione come, nel crescersi la materia, non deva con l’istesso ragguaglio multiplicarsi la resistenza e gagliardia; e tanto più mi confondo, quanto per l’opposito veggo in altri casi cre- scersi molto pit la robustezza e la resistenza al rom- persi, che non cresce l’ingrossamento della materia: che se, v. g. saranno due chiodi fitti in un muro, l’uno più grosso il doppio dell’altro, quello reggerà non solamente doppio peso di questo, ma triplo e quadruplo. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 89 SAL. Dite pur ottuplo, né direte lontano dal vero: né questo effetto contraria a quello. ancor che in sem- biante apparisca cosî diverso. SAGR. Adunque, Sig. Salviati, spianateci questi scogli e dichiarateci queste oscurità, se ne avete il modo, ché ben conietturo, questa materia delle resistenze essere un campo pieno di belle ed utili contemplazioni; e se vi contentate che questo sia il soggetto de i nostri ragio- namenti di oggi, a me, e credo al Sig. Simplicio, sarà gratissimo. SAL. Non posso mancar di servirle, purché la me- moria serva me in sumministrarmi quello che già ap- presi dal nostro Accademico, che sopra tal materia aveva fatte molte speculazioni, e tutte, conforme al suo solito, geometricamente dimostrate, in modo che, non senza ra- gione, questa sua potrebbe chiamarsi una nuova scienza; perché se bene alcune delle conclusioni sono state da altri, e prima di tutti da Aristotele, osservate, tuttavia né sono delle più belle, né (quello che più importa) da i loro primarii e indubitati fondamenti con necessarie dimostrazioni provate. E perché, come dico, voglio dimo- strativamente accertarvi, e non con solamente probabili discorsi persuadervi, supponendo che abbiate quella co- gnizione delle conclusioni mecaniche, da altri sin qui fondatamente trattate, che per il nostro bisogno sarà ne- cessaria, conviene che avanti ogni altra cosa conside- riamo qual effetto sia quello che si opera nella frazzione di un legno o di altro solido, le cui parti saldamente sono attaccate; perché questa è la prima nozione, nella qual consiste il primo e semplice principio che come no- tissimo conviene supporsi. Per più chiara esplicazione di che, segniamo il cilindro o prisma AB di legno o di altra materia solida e coerente, fermato di sopra in A e pendente a piombo, al quale nell’altra estremità B sia attaccato il peso C: è manifesto che, qualunque si sia la 90 GALILEO GALILEI tenacità e coerenza tra di loro delle parti di esso solido, pur che non sia infinita, potrà esser superata dalla forza del traente peso C, la cui gravità pongo che possa ac- crescersi quanto ne piace, e esso solido final- mente si strapperà, a guisa d'una corda. È si come nella corda noi intendiamo, la sua re- sistenza derivare dalla moltitudine delle fila della canapa che la compongono, cosi nel legno si scorgono le sue fibre e filamenti distesi per lungo, che lo rendono grandemente più resi- stente allo strappamento che non sarebbe qual- sivoglia canapo della medesima grossezza: ma nel cilindro di pietra o di metallo la coerenza (che ancora par maggiore) delle sue parti de- pende da altro glutine che da filamenti o fibre; e pure essi ancora da valido tiramento vengono spezzati. SIMPL. Se il negozio procede come voi dite, intendo bene che i filamenti nel legno, che son lunghi quanto l’istesso legno, posson renderlo gagliardo e resistente a gran forza che se gli faccia per romperlo; ma una corda composta di fili di canapa non più lunghi di due o tre braccia l’uno, come potrà ridursi alla lunghezza di cento, restando tanto gagliarda? In oltre vorrei anco sentire la vostra opinione intorno all’attaccamento delle parti de i metalli, delle pietre e di altre materie prive di tali fila- menti, che pur, sio non m’inganno, è anco più tenace. SAL. In nuove specolazioni, e non molto al nostro intento necessarie, converrà divertire, se dovremo delle promosse difficoltà portar le soluzioni. SAGR. Ma se le digressioni possono arrecarci la co- gnizione di nuove verità, che pregiudica a noi, non ob- bligati a un metodo serrato e conciso. ma che solo per proprio gusto facciamo i nostri congressi, digredir ora per non perder quelle notizie che forse, lasciata l’incon- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 91 trata occasione, un’altra volta non ci si rappresente- rebbe? anzi chi sa che bene spesso non si possano scoprir curiosità piî belle delle primariamente cercate conclu- sioni? Pregovi per tanto io ancora a dar sodisfazione al Sig. Simplicio ed a me, non men di esso curioso e desi- deroso d’intender qual sia quel glutine che si tenace- mente ritien congiunte le parti de i solidi, che pur finalmente sono dissolubili: cognizione che pur anco è necessaria per intender la coerenza delle parti de gli stessi filamenti, de i quali alcuni de i solidi son composti. SAL. Eccomi a servirvi, poiché cosî vi piace. È la prima difficoltà, come possano i filamenti d'una corda lunga cento braccia sî saldamente connettersi insieme (non essendo ciascheduno di essi lungo più di due o tre). che gran violenza ci voglia a disseparargli. Ma ditemi, Sig. Simplicio: non potreste voi d’un sol filo di canapa tener l’una dell’estremità talmente stretta fra le dita, che io, tirando dall’altra, prima che liberarlo dalla vostra mano, lo rompessi? Certo si. Quando dunque i fili della canapa fusser non solo nell’estremità, ma in tutta la lor lunghezza, con gran forza da chi gli circondasse tenuti stretti, non è manifesta cosa che lo sbarbargli da chi gli strigne sarebbe assai pit difficile che il rompergli? Ma nella corda l’istesso atto dell’attorcerla strigne le fila scambievolmente tra di loro in maniera, che tirando poi con gran forza la fune, i suoi filamenti si spezzano, e non si separano l’uno dall'altro; come manifestamente si conosce dal vedersi nella rottura i filamenti cortissimi, e non lunghi almeno un braccio l'uno, come dovria vedersi quando la division della corda si facesse non per lo strappamento delle fila, ma per la sola separazione del- l’uno dall’altro strisciando. SAGR. Aggiungasi, in confermazion di questo, il ve- dersi tal volta romper la corda non per il tirarla per lo lungo, ma solo per il soverchiamente attorcerla: argu- 92 GALILEO GALILEI mento, par a me, concludente, le fila esser talmente tra di loro scambievolmente compresse, che le comprimenti non permettono alle compresse scorrer quel minimo che, che sarebbe necessario per allungar le spire, acciò po- tessero circondar la fune che nel torcimento si scorcia ed in consequenza qualche poco s’ingrossa. SAL. Voi benissimo dite: ma considerate appresso come una verità si tira dietro l’altra. Quel filo che stretto tra le dita non segue chi, con qualche forza tirandolo, vorrebbe di tra esse sottrarlo, resiste perché da doppia compressione vien ritenuto; avvenga che non meno il dito superiore preme contro all’inferiore, che questo si prema contro a quello. E non è dubbio che quando di queste due premure se ne potesse ritenere una sola, re- sterebbe la meta di quella resistenza che dalle due con- giunte dependeva; ma perché non si può con l’alzar, v. g., il dito superiore levar la sua pressione senza ri- muover anco l’altra parte, conviene con nuovo artifizio conservarne una di loro, e trovar modo che l’istesso filo comprima se medesimo contro al dito o altro corpo so- lido sopra "1 quale si posa, e far si che l’istessa forza che lo tira per separarnelo, tanto pit ve lo comprima, quanto più gagliardamente lo tira: e questo si conseguirà con l’avvolgere a guisa di spira il filo medesimo intorno al solido; il che acciò meglio s’intenda, ne segnerò un poco di figura. E questi A B, C D siano due cilindri, e tra essi disteso il filo E F, che per maggior chiarezza ce lo figure- remo essere una cordicella: non è dubbio, che premendo gagliardamente i due cilindri l’uno contro all’altro, la corda F E, tirata dall’estremità F, resisterà a non piccola violenza prima che scorrere tra i due solidi comprimen- tila; ma se rimuoveremo l’uno di loro, la corda, benché continui di toccar l’altro, non però da tal toccamento sarà ritenuta che liberamente non scorra. Ma se ritenen- dola, benché debolmente. attaccata verso la sommità del DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 93 cilindro A, l’avvolgeremo intorno a quello a foggia di spira AFLOTR, e dal capo R la tireremo, è manifesto che ella comincerà a strignere il cilindro; e se le spire e volute saranno molte, sempre pit, nel valida- mente tirare, si comprimerà la corda addosso al cilindro; e facendosi, con la multiplica- ‘zione delle spire, più lungo il toccamento, ed in consequenza men superabile, difficile si farà sempre più lo scorrer della corda, e l’ac- consentir alla traente forza. Or chi non vede che tale è la resistenza delle filamenta, che con mille e mille simili avvolgimenti il grosso canapo contessono? Anzi lo strignimento di simili tortuosità collega tanto tenacemente, che di non molti giunchi, né anco molto lun- ghi, si che poche son le spire con le quali tra di loro s'intrecciano, si compongono robustissime funi, che mi par che domandino suste. SAGR. Cessa per il vostro discorso nella mia mente la maraviglia di due effetti, de i quali le ragioni non bene erano comprese da me. Uno era il vedere come due o al più tre rivolte del canapo intorno al fuso dell’argano potevano non solamente ritenerlo, che, tirato dall’im- mensa forza del peso che ei sostiene, scorrendo non gli cedesse, ma che di più, girando l’argano, il medesimo fuso, col solo toccamento del canapo che lo strigne, po- tesse con li succedenti ravvolgimenti tirare e sollevare va- stissime pietre, mentre che le braccia d'un debile ragazzo vanno ritenendo e radunando l’altro capo del medesimo canapo. L'altro è d’un semplice ma arguto ordigno, tro- vato da un giovane mio parente, per poter con una corda calarsi da una finestra senza scorticarsi crudelmente le palme delle mani, come poco tempo avanti gli era inter- venuto con sua grandissima offesa. Ne farò, per facile intelligenza, un piccolo schizzo. Intorno a un simil ci- n DI iù) <<? #° n ZA i az ne} } ca PE, (El zl «gioie (S| o = ). SIAE = TL 94 ° GALILEO GALILEI lindro di legno A B, grosso come ura canna e lungo circa un palmo, incavò un canaletto in forma di spira, di una voluta e mezo e non più, e di larghezza capace della corda che voleva adoprare: e questa fece entrare per il canale dal termine A ed uscire per l’altro B, circondando poi tal cilindro e corda con un cannone pur di legno, o vero anco di latta, ma diviso per lungo ed ingangherato, si che libera- mente potesse aprirsi e chiudersi: ed abbrac- ciando poi e strignendo con ambe le mani esso cannone, raccomandata la corda a un fermo ri- tegno di sopra, si sospese su le braccia; e riusci tale la compressione della corda tra ’1 cannone ambiente e ’1 cilindro, che, ad arbitrio suo, stri- gnendo fortemente le mani poteva sostenersi senza calare, ed allentandole un poco si calava lenta- mente a suo piacimento. SAL. Ingegnosa veramente invenzione; e per intera esplicazione della sua natura, mi par di scorgere cosi per ombra che qualche altra specolazione si potesse aggiu- gnere: ma non voglio per ora digredir più sopra di questo particolare e massime volendo voi sentir il mio pensiero intorno alla resistenza allo strapparsi de gli altri corpi, la cui testura non è di filamenti, come quella delle funi e della maggior parte de i legni; ma la coe- renza delle parti loro in altre cagioni par che consista, le quali, per mio giudizio, si riducono a due capi: l’uno de i quali è quella decantata repugnanza che ha la natura all'’ammettere il vacuo; per l’altro bisogna (non bastando questo del vacuo) introdur qualche glutine, visco o colla, che tenacemente colleghi le particole delle qu'ali esso corpo è composto. Dirò prima del vacuo, mostrando con chiare esperienze quale e quanta sia la sua virtî. È prima, il vedersi, quando ne piaccia, due piastre di marmo, di metallo o di vetro, esquisitamente spianate. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 95 pulite e lustre, che, posata l’una su l’altra, senza veruna fatica se gli muove sopra strisciando (sicuro argumento che nissun glutine le congiugne), ma che volendo sepa- rarle, mantenendole equidistanti, tal repugnanza si trova, che la superiore solleva e si tira dietro l’altra e perpe- tuamente la ritiene sollevata, ancorché assai grossa e grave, evidentemente ci mostra l’orrore della natura nel dover ammettere, sebben per breve momento di tempo, lo spazio voto che tra di quelle rimarrebbe avanti che il concorso delle parti dell’aria circostante l’avesse occupato e ripieno. Vedesi anco, che quando bene tali due lastre non fussero esattamente pulite, e perciò che il lor con- tatto non fusse esquisito del tutto, nel volerle separar lentamente niuna renitenza si trova fuor di quella della sola gravità; ma in un alzamento repentino l’inferior pietra si solleva, ma subito ricade, seguendo solamente la sovrana per quel brevissimo tempo che basta per la di- strazzione di quella poca d’aria che s’interponeva tra le lastre, che non ben combaciavano, e per l'ingresso del- l’altra circunfusa. Tal resistenza, che cosî sensatamente si scorge tra le due lastre, non si può dubitare che pari- mente non risegga tra le parti di un solido, e che nel loro attaccamento non entri almanco a parte e come causa concomitante. SAGR. Fermate di grazia, e concedetemi ch'io dica una particolar considerazione che pur ora mi è caduta in mente: e questa è, che il vedere come la piastra in- feriore segue la superiore e che con moto velocissimo vien sollevata, ci rende sicuri che, contro al detto di molti filosofi e forse d’Aristotele medesimo, il moto nel vacuo non sarebbe instantaneo; perché quando fusse tale, le ng- minate due lastre senza repugnanza veruna si separereb- bero, gia che il medesimo instante di tempo basterebbe per la loro separazione e per il concorso dell’aria am- biente a riempier quel vacuo che tra esse potesse restare. 96 GALILEO GALILEI Dal seguir dunque che fa l’inferior lastra la superiore, si raccoglie come nel vacuo il moto non sarebbe instan- taneo; e si raccoglie insieme che pur tra le medesime piastre resti qualche vacuo, almeno per brevissimo tempo, cioè per tutto quello che passa nel movimento dell’am- biente, mentre concorre a riempiere il vacuo; ché se vacuo non vi restasse, né di concorso né di moto di ambiente vi sarebbe bisogno. Converràa dunque dire che, pur per vio- lenza o contro a natura, il vacuo talor si conceda (benché l’opinion mia è che nissuna cosa sia contro a natura, salvo che l’impossibile, il quale poi non è mai). Ma qui mi nasce un’altra difficoltà ed è che, se ben l’esperienza m'assicura della verità della conclusione, l’intelletto non resta gia interamente appagato della causa alla quale cotale effetto viene attribuito. Imperò che l’effetto della separazione delle due lastre è anteriore al vacuo, che in consequenza alla separazione succederebbe: e perché mi pare che la causa debba, se non di tempo, almeno di na- tura precedere all’effetto, e che d’un effetto positivo po- sitiva altresi debba esser la causa, non resto capace come dell'aderenza delle due piastre e della repugnanza al- l’esser separate, effetti che già sono in atto, si possa re- ferir la cagione al vacuo, che non è, ma che arebbe a seguire; e delle cose che non sono, nissuna può esser l'operazione, conforme al pronunziato certissimo del Fi- losofo. SIMPL. Ma già che concedete questo assioma ad Ari- stotele, non credo che siate per negargliene un altro, bel- lissimo e vero: e questo è, che la natura non intraprende a voler fare quello che repugna ad esser fatto, dal qual pronunziato mi par che dependa la soluzione del vostro dubbio. Perché dunque a se medesimo repugna essere uno spazio vacuo, vieta la natura il far quello in conse- quenza di che necessariamente succederebbe il vacuo; e tale è la separazione delle due lastre. DISCRREI DIMOSTRAZIONI MUA TEM ATTI C. H È intorno è è due nuone (ci fenzie: Attenenti alla MECANICA Si MovimENTI LocaLr ; del Signor GALILEO GALILEI LINCEO, F ilofofo e Matematico primario del Sereniffimo i ent Duca di Tofcana. Con 'vna Appendice delcentro di granita a d’alcuni Solidi. IN L EIDA, Appreffo gli Elfevirii, Mm. D. c. xxxvItI. —a _ FRONTESPIZIO DEI «DISCORSI E DIMOSTRAZIONI MATEMATICHE INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE” (Firenze, R. Biblioteca Nazionale) dadi, KI N La + ‘Bllio si a » Cc) DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 97 SAGR. Ora, ammesso per soluzione adequata del mio dubbio questo che produce il Sig. Simplicio, seguitando il cominciato discorso, parmi che questa medesima repu- gnanza al vacuo devrebbe esser bastante ritegno delle parti di un solido di pietra o di metallo, o se altre ve ne sono che più saldamente stiano congiunte e renitenti alla divisione. Perché, se di uno effetto una sola è la cagione, sf come io ho inteso e creduto, o, se pur molte se n’'as- segnano, ad una sola si riducono, perché questa del vacuo, che sicuramente è, non basterà per tutte le resistenze? SAL. Io per ora non voglio entrare in questa contesa, se il vacuo senz'altro ritegno sia per sé solo bastante a tenere unite le parti disunibili de i corpi consistenti; ma vi dico bene che la ragione del vacuo, che milita e con- clude nelle due piastre, non basta per sé sola al saldo collegamento delle parti di un solido cilindro di marmo o di metallo, le quali, violentate da forze gagliarde che dirittamente le tirino, finalmente si separano e si divi- dono. E quando io trovi modo di distinguer questa già conosciuta resistenza, dependente dal vacuo, da ogni altra, qualunque ella si fusse, che con lei concorresse in fortificar l'attaccamento, e che io vi faccia vedere come essa sola non sia a gran pezzo bastante per tale effetto, non concederete voi che sia necessario introdurne altra? Aiutatelo, Sig. Simplicio, già che egli sta ambiguo sopra quello che debba rispondere. SIMPL. È forza che la sospensione del Sig. Sagredo sia per altro rispetto, non restando luogo di dubitare sopra sî chiara e necessaria consequenza. SAGR. Voi, Sig. Simplicio, l'avete indovinata. Andavo pensando se, non bastando un million d’oro l’anno, che vien di Spagna, per pagar l’esercito, fusse necessario far altra provisione che di danari per le paghe de’ soldati. Ma seguitate pur, Sig. Salviati, e supponendo ch'io am- metta la vostra consequenza, mostrateci il modo di sepa- 7. - G. Galilei, Opere - II. 98 GALILEO GALILEI rare l'operazione del vacuo dall’altre, e misurandola fateci vedere come ella sia scarsa per l’effetto di che si parla. SAL. Il vostro demonio vi assiste. Dirò il modo del- l’appartar la virti del vacuo dall’altre, e poi la maniera del misurarla. E per appartarla, piglieremo una materia continua, le cui parti manchino di ogni altra resistenza alla separazione fuor che di quella del vacuo, quale a lungo è stato dimostrato in certo trattato del nostro Ac- cademico esser l’acqua: talché, qualunque volta si di- sponesse un cilindro d’acqua, e che, attratto, si sentisse resistenza allo staccamento delle sue parti, questo da altra cagione che dalla repugnanza al vacuo non po- trebbe riconoscersi. Per far poi una tale esperienza mi son immaginato un artifizio, il quale con l’aiuto di un poco di disegno, meglio che con semplici parole, potrò dichiarare. Figuro, questo CABD essere il profilo di un cilindro di metallo o di vetro, che sarebbe meglio, voto dentro, ma giustissi- mamente tornito, nel cui concavo entri con esquisitissimo contatto un cilindro di legno, il cui profilo noto EGHF, il qual cilindro si possa spignere in su e ’n giù; e questo voglio che sia bucato nel mezzo, si che vi passi un filo di ferro, oncinato nell’estremità K, e l’altro capo I vadia ingrossandosi in forma di cono o turbine, facendo che il foro fatto nel legno sia nella parte di sopra esso ancora incavato in forma di conica superficie, aggiustata puntualmente per ricevere la conica estremità I del ferro IK, qualunque volta si tiri in già dalla parte K. Inserto il legno, o vo- gliamolo chiamar zaffo, E H nel cavo cilindrico A D, non voglio ch’arrivi sino alla superior superficie di esso ci- lindro, ma che ne resti lontano due o tre dita; e tale spazio deve esser ripieno di acqua, la quale vi si metterà tenendo il vaso con la bocca C D all'in su e calcandovi sopra il DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 99 zaffo EH, col tenere il turbine I remoto alquanto dal cavo del legno per lasciar l’esito all’aria, che nel calcare il zaffo se n'uscirà per il foro del legno, che perciò si fa alquanto più largo della grossezza dell’asticciuola di ferro 1 K. Dato l'esito all’aria e ritirato il ferro, che ben suggelli su ‘1 legno col suo turbine I, si rivolterà il vaso tutto con la bocca all’in git, ed attaccando all’oncino K un recipiente da mettervi dentro rena o altra materia grave, si caricherà tanto, che finalmente la superior super- ficie EF del zaffo si staccher dall’inferiore dell’acqua, alla quale niente altro la teneva congiunta che la repu- gnanza del vacuo; pesando poi il zaffo col ferro col re- cipiente e con ciò che vi sarà dentro, aremo la quantità della forza del vacuo: e se, attaccato a un cilindro di marmo o di cristallo, grosso quanto il cilindro dell’acqua, peso tale che, insieme col peso proprio dell’istesso marmo o cristallo, pareggi la gravità di tutte le nominate ba- gaglie, ne seguirà la rottura, potremo senza verun dubbio affermare, la sola ragion del vacuo tener le parti del marmo e cristallo congiunte; ma non bastando, e che per romperlo bisogni aggiugnervi quattro volte altrettanto peso, converrà dire, la resistenza del vacuo essere delle cinque parti una, e l’altra quadrupla di quella del vacuo. SIMPL. Non si può negare che l'invenzione non sia ingegnosa, ma l'ho per soggetta a molte difficoltà, che me la rendono dubbia; perché, chi ci assicura che l’aria non possa penetrar tra ’l vetro e ’1 zaffo, ancorché si cir- condi bene di stoppa o altra materia cedente? e così, acciò che il cono I saldi bene il foro, forse non baste- rebbe l’ugnerlo con cera o trementina. In oltre, perché non potrebbero le parti dell’acqua distrarsi e rarefarsi? perché non penetrare aria, o esalazioni, o altre sustanze più sottili, per le porosità del legno, o anche dell’istesso vetro? 100 GALILEO GALILEI SAL. Molto destramente ci muove il Sig. Simplicio le difficoltà, ed in parte ci sumministra i rimedii, quanto alla penetrazion dell’aria per il legno, o tra ‘1 legno e Li vetro. Ma io, oltre di ciò, noto che potremo nell’istesso tempo accorgerci, con acquisto di nuove cognizioni, se le promosse difficoltà aranno luogo. Imperò che, se l’acqua sarà per natura, se ben con violenza, distraibile, come ac- cade nell’aria, si vedrà il zaffo calare; e se faremo nella parte superiore del vetro un poco di ombelico promi- nente, come questo V, penetrando, per la sustanza o po- rosità del vetro o del legno, aria o altra pit tenue e spiritosa materia, si vedrà radunare (cedendogli l’acqua) nell’eminenza V: le quali cose quando non si scorgano, verremo assicurati, l’esperienza esser con le debite cautele stata tentata: e conosceremo, l’acqua non esser distraibile, né il vetro esser permeabile da veruna materia, benché sottilissima. ‘ SAGR. Ed io mercé di questi discorsi ritrovo la causa di un effetto che lungo tempo m'ha tenuto la mente in- sombrata di maraviglia e vota d'intelligenza. Osservai già una citerna, nella quale, per trarne l'acqua, fu fatta fare una tromba, da chi forse credeva, ma vanamente, di poterne cavar con minor fatica l'istessa 0 maggior quan- tit4 che con le secchie ordinarie; ed ha questa tromba il suo stantuffo e animella su alta, si che V'acqua si fa salire per attrazzione, e non per impulso, come fanno le trombe che hanno l’ordigno da basso. Questa, sin che nella ci- terna vi è acqua sino ad una determinata altezza, la tira abbondantemente; ma quando l’acqua abbassa oltre a un determinato segno, la tromba non lavora più. Io credetti, la prima volta che osservai tale accidente, che l’ordigno fusse guasto; e trovato il maestro acciò lo raccomodasse, mi disse che non vi era altrimente difetto alcuno, fuor che nell’acqua, la quale, essendosi abbassata troppo, non pativa d'esser alzata a tanta altezza; e mi soggiunse, né DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 101 con trombe, né con altra machina che sollevi l’acqua per attrazzione, esser possibile farla montare un capello pit di diciotto braccia: e siano le trombe larghe o strette, questa è la misura dell’altezza limitatissima. Ed io sin ora sono stato cosi poco accorto, che, intendendo che una corda, una mazza di legno e una verga di ferro, si può tanto e tanto allungare che finalmente il suo proprio peso la strappi, tenendola attaccata in alto, non mi è sovve- nuto che l’istesso, molto più agevolmente, accaderà di una corda o verga di acqua. E che altro è quello che si attrae nella tromba, che un cilindro di acqua, il quale, avendo la sua attaccatura di sopra, allungato pit e più, final- mente arriva a quel termine oltre al quale, tirato dal suo gia fatto soverchio peso. non altrimente che se fusse una corda, si strappa? SAL. Cosi puntualmente cammina il negozio; e perché la medesima altezza delle diciotto braccia è il prefisso ter- mine dell'altezza alla quale qualsivoglia quantità d’acqua, siano cioè le trombe larghissime o strette o strettissime quanto un fil di paglia, può sostentarsi, tutta volta che noi peseremo l’acqua contenuta in diciotto braccia di cannone, sia largo o stretto. aremo il valore della resi- stenza del vacuo ne i cilindri di qualsivoglia materia solida, grossi quanto sono i concavi de i cannoni pro- posti. E gia che aviamo detto tanto, mostriamo come di tutti i metalli, pietre, legni, vetri, etc., si può facilmente ritrovare sino a quanta lunghezza si potrebbono allun- gare cilindri, fili o verghe di qualsivoglia grossezza, oltre alla quale, gravati dal proprio peso, più non potrebber reggersi, ma si strapperebbero. Piglisi, per esempio, un fil di rame di qualsivoglia grossezza e lunghezza, e fer- mato un de’ suoi capi ad alto, si vadia aggiugnendo al- l’altro maggior e maggior peso, si che finalmente si strappi; e sia il peso massimo che potesse sostenere, v. g., cin- quanta libbre: è manifesto che cinquanta libbre di rame, 102 “GALILEO. GALILEI oltre al proprio peso, che sia, per esempio, un ottavo d'oncia. tirato in filo di tal grossezza, sarebbe la lun- shezza massima del filo che se stesso potesse reggere. Misurisi poi quanto era lungo il filo che si strappò, € sia, v. g., un braccio: e perché pesò un ottavo d'oncia, e resse se stesso e cinquanta libbre appresso, che sono ot- tavi d’oncia quattro mila ottocento, diremo, tutti i fili di rame, qualunque si sia la loro grossezza, potersi reggere sino alla lunghezza di quattro mila ottocento un braccio, e non pit. E cosî, una verga di rame potendo reggersi sino alla lunghezza di quattro mila ottocento un braccio, la resistenza che ella trova dependente dal vacuo, rispetto al restante, è tanta, quanto importa il peso d'una verga d’acqua lunga braccia diciotto e grossa quanto quella stessa di rame: e trovandosi, v. g., il rame esser nove volte pit grave dell’acqua, di qualunque verga di rame la resistenza allo strapparsi, dependente dalla ragion del vacuo, importa quanto è il peso di due braccia dell’istessa verga. E con simil discorso ed operazione si potranno tro- vare le lunghezze delle fila o verghe di tutte le materie solide ridotte alla massima che sostener si possa, ed in- sieme qual parte abbia il vacuo nella loro resistenza. SAGR. Resta ora che ci dichiate in qual cosa consista il resto della resistenza, cioè qual sia il glutine o visco che ritien attaccate le parti del solido, oltre a quello che deriva dal vacuo: perché io non saprei imaginarmi qual colla sia quella che non possa esser arsa e consumata dentro una ardentissima fornace in due, tre e quattro mesi, né in dieci o in cento; dove stando tanto tempo ar- gento oro e vetro liquefatti, cavati, poi tornano le parti loro, nel freddarsi, a riunirsi e rattaccarsi come prima. Oltre che, la medesima difficoltà che ho nell’attacca- mento delle parti del vetro, l’arò io nelle parti della colla, cioè che cosa sia quella che le tiene cosî saldamente congiunte. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE ‘103 SAL. Pur poco fa vi dissi che "1 vostro demonio vi assisteva. Sono io ancora nelle medesime angustie; ed ancor io, toccando con mano come la repugnanza al vacuo è indubitabilmente quella che non permette, se non con gran violenza, la separazione delle due lastre, e più delle due gran parti della colonna di marmo o di bronzo, non so vedere come non abbia ad aver luogo ed esser pari- mente cagione della coerenza delle parti minori e sino delle minime ultime delle medesime materie: ed essendo che d’un effetto una sola è la vera e potissima causa, mentre io non trovo altro glutine, perché non debbo tentar di vedere se questo del vacuo, che si trova, può bastarci? SIMPL. Se di gia voi avete dimostrato, la resistenza del gran vacuo, nel separarsi le due gran parti di un so- lido, esser piccolissima in comparazion di quella che tien congiunte le particole minime, come non volete tener pit che per certo, questa esser diversissima da quella? SAL. A questo rispose il Sig. Sagredo, che pur si pa- gavano tutti i particolari soldati con danari raccolti da imposizioni generali di soldi e di quattrini, se bene un million d’oro non bastava a pagar tutto l’esercito. E chi sa che altri minutissimi vacui non lavorino per le minu- tissime particole, si che per tutto sia dell’istessa moneta quello con che si tengono tutte le parti congiunte? To vi dirò quello che tal ora mi è passato per l’imaginazione, e ve lo do non come verità risoluta, ma come una qual si sia fantasia, piena anco d’indigestioni, sottoponendola a più alte contemplazioni: cavatene se nulla vi è che vi gusti; il resto giudicatelo come più vi pare. Nel consi- derar tal volta come, andando il fuoco serpendo tra le minime particole di questo e di quel metallo, che tanto saldamente si trovano congiunte, finalmente le separa e disunisce; e come poi, partendosi il fuoco, tornano con la medesima tenacità di prima a ricongiugnersi, senza diminuirsi punto la quantità nell’oro, e pochissimo in 104 GALILEO GALILEI altri metalli, anco per lungo tempo che restino distrutti; pensai che ciò potesse accadere perché le sottilissime par- ticole del fuoco, penetrando per gli angusti pori del me- tallo (tra i quali, per la loro strettezza, non potessero passare i minimi dell’aria né di molti altri fluidi), col riempiere i minimi vacui tra esse fraposti liberassero le minime particole di quello dalla violenza con la quale i medesimi vacui l’una contro l’altra attraggono, proiben- dogli la separazione; e cosî, potendosi liberamente muo- vere, la lor massa ne divenisse fluida, e tale restasse sin che gl’ignicoli tra esse dimorassero; partendosi poi quelli e lasciando i pristini vacui, tornasse la lor solita attraz- zione, ed in consequenza l’attaccamento delle parti. Ed all’instanza del Sig. Simplicio parmi che si possa rispon- dere, che se bene tali vacui sarebber piccolissimi, ed in consequenza ciascheduno facile ad esser superato, tut- tavia l’innumerabile moltitudine innumerabilmente (per cosi dire) multiplica le resistenze: e quale e quanta sia la forza che da numero immenso di debolissimi momenti insieme congiunti risulta, porgacene evidentissimo argo- mento il veder noi un peso di milioni di libbre, sostenuto da canapi grossissimi, cedere e finalmente lasciarsi vin- cere e sollevare dall'assalto de gl’'innumerabili atomi di acqua, li quali, o spinti dall’austro, o pur che, distesi in tenuissima nebbia, si vadano movendo per l’aria, vanno a cacciarsi tra fibra e fibra de i canapi tiratissimi, né può l'immensa forza del pendente peso vietargli l’entrata; si che, penetrando per gli angusti meati, ingrossano le corde e per consequenza le scorciano, onde la mole gravissima a forza vien sollevata. SAGR. Fi non è dubbio alcuno che mentre una resi- stenza non sia infinita, può dalla moltitudine di mini- missime forze esser superata, sî che anco un numero di formiche stracicherebbe per terra una nave carica di grano; perché il senso ci mostra cotidianamente che una DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 105 formica destramente porta un granello, e chiara cosa è che nella nave non sono infiniti granelli, ma compresi dentro a qualche numero, del quale se ne può prendere un altro quattro e sei volte maggiore, al quale se se ne prenderà un altro di formiche eguale, e si porranno in opera, condurranno per terra il grano e la nave ancora. È ben vero che bisognerà che il numero sia grande, come anco, per mio parere, quello de i vacui che tengono at- taccati i minimi del metallo. SAL. Ma quando bisognasse che fussero anche infiniti, l'avete. voi forse per impossibile? SAGR. No, quando quel metallo fusse una mole infi- nita: altrimenti... SAL. Altrimenti che? Orsi, già che si è messo mano a i paradossi, veggiamo se in qualche maniera si potesse dimostrare, come in una continua estensione finita non repugni il potersi ritrovar infiniti vacui; e nell’istesso . tempo ci verrà, se non altro, almeno arrecata una solu- zione del più ammirabil problema che sia da Aristotele messo tra quelli che esso medesimo addimanda ammi- randi, dico tra le questioni mecaniche; e la soluzione potrebbe esser per avventura non meno esplicante e con- cludente di quella che egli medesimo ne arreca, e diversa anco da quello che molto acutamente vi considera il dot- tissimo Monsig. di Guevara. Ma bisogna prima dichia- rare una proposizione non toccata da altri, dalla quale depende lo scioglimento della questione, che poi, s'io non m'inganno, si tira dietro altre notizie nuove ed ammi- rande: per intelligenza di che, accuratamente descrive- remo la figura. Però intendiamo un poligono equilatero ed equiangolo, di quanti lati esser si voglia, descritto in- torno a questo centro G, e sia per ora un essagono ABCDEF; simile al quale, e ad esso concentrico, ne de- seriveremo un altro minore, quale noteremo HIKLMN: e del maggiore si prolunghi un lato A B indeterminata- 8. - G. Galilei, Opere - II, 106 GALILEO ‘GALILEI mente verso S, e del minore il rispondente lato HI sia verso la medesima parte similmente prodotto, segnando la linea HT parallela all’A S, e per il centro passi l’altra, alle medesime equidistante, G V. Fatto questo, intendiamo il maggior poligono rivolgersi sopra la linea AS, por- tando seco l’altro poligono minore. È chiaro che, stando fisso il punto B, termine del lato A B, mentre si comincia la revoluzione, l'angolo A si solleverà, e ‘1 punto C s'ab- basserà de- scrivendo l'arco CQ, si che il lato BC si adatti alla linea a se stes- so eguale BQ: ma in tal conversione l’angolo I del minor poligono si ele- vera sopra la linea IT, per esser la IB obliqua sopra l'A S, né prima tornerà il punto I su la parallela IT, se non quando il punto C sarà pervenuto in Q; allora l’I sarà ca- duto in O, dopo aver descritto l’arco I O fuori della linea HT, ed allora il lato IK sar passato in OP: ma il centro G tra tanto sempre aver caminato fuori della linea GV, su la quale non sarà tornato se non dopo aver descritto l'arco GC. Fatto questo primo passo, il poligono mag- giore sarà trasferito a posare co ’l lato BC su la linea BQ, il lato I K del minore sopra la linea O P, avendo saltato tutta la parte IO senza toccarla, e ’1 centro G pervenuto in C. facendo tutto il suo corso fuori della parallela G V, e finalmente tutta la figura si sarà rimessa in un posto simile al primo: si che continuandosi la revoluzione e ve- nendo al secondo passo, il lato del maggior poligono DC si adatterà alla parte Q X, il KL del minore (avendo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 107 prima saltato l’arco P Y) caderà in Y Z, ed il centro, pro- cedendo sempre fuori della G V, in essa caderà solamente in R, dopo il gran salto CR: ed in ultimo, finita una in- tera conversione, il maggior poligono avrà calcate sopra la sua A S sei linee eguali al suo perimetro, senza veruna interposizione; il poligono minore arà parimente impresse sei linee eguali all'ambito suo, ma discontinuate dall’in- terposizione de’ cinque archi, sotto i quali restano le corde, parti della parallela H T, non tocche dal poligono; e finalmente il centro G non è convenuto mai con la pa- rallela G V, salvo che in sei punti. Di qui potete com- prendere come lo spazio passato dal minor poligono è quasi eguale al passato dal maggiore, cioè la linea HT alla AS, della quale è solamente minore quanto è la corda d’uno di questi archi, intendendo però la linea HT insieme con li spazii de i cinque archi. Ora questo, che vi ho esposto e dichiarato nell'esempio di questi essagoni, vorrei che intendeste accadere di tutti gli altri poligoni, di quanti lati esser si voglino, purché siano simili, con- centrici e congiunti, e che alla conversion del maggiore sintenda rigirarsi anco l’altro, quanto si voglia minore; che intendeste, dico, le linee da essi passate esser pros- simamente eguali, computando nello spazio passato dal minore gl’intervalli sotto gli archetti, non tocchi da parte veruna del perimetro di esso minor poligono. Passa dunque il gran poligono di mille lati, e misura conse- quentemente, una linea retta eguale al suo ambito; e nel- l’istesso tempo il piccolo passa una prossimamente egual linea, ma interrottamente composta di mille particelle eguali a i suoi mille lati con l’interposizione di mille spazii vacui, che tali possiamo chiamargli in relazione alle mille lineette toccate da i lati del poligono: ed il detto sin qui non ha veruna difficoltà o dubitazione. Ma ditemi: se intorno a un centro, qual sia, v. g., questo punto A, noi descriveremo due cerchi concentrici ed in- 108 GALILEO GALILEI sieme uniti, e che da i punti C, B de i lor semidiametri siano tirate le tangenti C E, B F, e ad esse per il centro À la parallela A D, intendendo girato il cerchio maggiore sopra la linea BF (posta eguale alla di lui circonferenza, come parimente le altre due CE, AD), compita che abbia una revoluzione, che aver4 fatto il minor cerchio, e che il centro? Questo sicuramente avera scorsa e toc- cata tutta la linea A D, e la circonferenza di quello averà con li suoi toccamenti misurata tutta la CE, facendo l’istesso che fecero i poligoni di sopra: in questo sola- mente differenti, che la linea HT non fu tocca in tutte le sue parti dal perimetro del minor poligono, ma ne furon lasciate tante intatte, con l’interposizione de’ vacui saltati, quante furon le parti tocche da i lati: ma qui ne i cerchi mai non si separa la circonferenza del minor cerchio dalla linea C E, si che alcuna sua parte non venga tocca, né mai quello che tocca della circonferenza è manco del toccato nella retta. Or come dunque può senza salti scorrere il cerchio minore una linea tanto mag- giore della sua circonferenza? SAGR. Andava pensando se si potesse dire, che si come il centro del cerchio, esso solo, stracicato sopra A D, la tocca tutta, essendo anco un punto solo, cosi potessero i punti della circonferenza minore, tirati dal moto della maggiore, andare strascicandosi per qualche particella della linea C E. SAL. Questo non può essere, per due ragioni. Prima, perché non sarebbe maggior ragione che alcuno de i toc- camenti simili al C andassero stracicando per qualche parte della linea C F, ed altri no: e quando questo fusse, essendo tali toccamenti (perché son punti) infiniti, gli strascichi sopra la CE sarebbero infiniti, ed essendo quanti, farebbero una linea infinita; ma la CF è finita. L'altra ragione è, che mutando il cerchio grande, nella sua conversione, continuamente contatto, non può non DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 109 mutarlo parimente il minor cerchio, non si potendo da altro punto che dal punto B tirare una linea retta sino al centro A e che passasse per il punto C; si che mu- tando contatto la circonferenza grande, lo muta ancora la piccola, né punto alcuno della piccola tocca più d’un punto della sua retta C E. Oltre che, anco nella conver- sione de i poligoni nissun punto del perimetro del mi- nore si adattava a più d'un punto della linea che dal medesimo perimetro veniva misurata; come si può fa- cilmente intendere considerando la linea IK. esser paral- lela alla BC, onde sin che la BC non si schiaccia sopra la BQ, la IK resta sollevata sopra la IP, né prima la calca se non nel medesimo instante che la BC si unisce con la BQ, ed allora tutta insieme la IK si unisce con la OP, e poi immediatamente se gli eleva sopra. SAGR. Il negozio è veramente molto intrigato, né a me sovviene scioglimento alcuno: però diteci quello che a vol sovviene. SAL. Io ricorrerei alla considerazione de i poligoni sopra considerati, l’effetto de i quali è intelligibile e di gia compreso: e direi, che sf come ne i poligoni di cento mila lati alla linea passata e misurata dal perimetro del maggiore, cioè da i cento mila suoi lati continuamente distesi, è eguale la misurata da i cento mila lati del mi- nore, ma con l’interposizione di cento mila spazii vacui traposti; cosî direi, ne i cerchi (che son poligoni di lati infiniti) la linea passata da gl’infiniti lati del cerchio grande, continuamente disposti, esser pareggiata in lun- ghezza dalla linea passata da gl’infiniti lati del minore, ma da questi con l’interposizion d'’altrettanti vacui tra essi; e si come i lati non son quanti, ma bene infiniti, cosi gl’interposti vacui non son quanti, ma infiniti: quelli, cioè, infiniti punti tutti pieni; e questi, infiniti punti parte pieni e parte vacui. E qui voglio che notiate, come risolvendo e dividendo una linea in parti quante, e per 110 GALILEO GALILEI consequenza numerate, non è possibile disporle in una estensione maggiore di quella che occupavan mentre sta- vano continuate e congiunte senza l’interposizione d’al- trettanti spazii vacui; ma imaginandola risoluta in parti non quante, cioè ne’ suoi infiniti indivisibili, la possiamo concepire distratta in immenso senza l'interposizione di spazii quanti vacui, ma sî bene d’infiniti indivisibili vacui. E questo, che si dice delle semplici linee, s'inten- der4 detto delle superficie e de’ corpi solidi, consideran- dogli composti di infiniti atomi non quanti: che mentre gli vorremo dividere in parti quante, non è dubbio che non potremo disporle in spazii più ampli del primo oc- cupato dal solido se non con l’interposizione di spazii quanti vacui, vacui, dico, almeno della materia del so- lido: ma se intenderemo l’altissima ed ultima resoluzione fatta ne i primi componenti non quanti ed infiniti, po- tremo concepire tali componenti distratti in spazio im- menso senza l’interposizione di spazii quanti vacui, ma solamente di vacui infiniti non quanti: ed in questa guisa non repugna distrarsi, v. g., un piccolo globetto d’oro in uno spazio grandissimo senza ammettere spazii quanti vacui: tutta volta però che ammettiamo, l'oro esser com- posto di infiniti indivisibili. SIMPL. Parmi che voi caminiate alla via di quei vacui disseminati di certo filosofo antico. SAL. Ma però voi non soggiugnete «il quale negava la Providenza divina», come in certo simil proposito, assai poco a proposito, soggiunse un tale antagonista del nostro Accademico. SIMPL. Veddi bene, e non senza stomaco, il livore del mal affetto contradittore: ma io non solamente per ter- mine di buona creanza non toccherei simili tasti, ma perché so quanto sono discordi dalla mente ben tempe- rata e bene organizata di V. S., non solo religiosa e pia, ma cattolica e santa. Ma ritornando su ‘1 proposito, molte DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 111 difficoltà sento nascermi da gli auti discorsi, dalle quali veramente io non saprei liberarmi. E per una mi si para avanti questa, che se le circonferenze de i due cerchi sono eguali alle due rette CE, BF, questa continua- mente presa, e quella con l’interposizione d'’infiniti punti vacui, l’A D descritta dal centro, che è un punto solo, in qual maniera si potrà chiamare ad esso eguale, contenen- done infiniti? In oltre, quel comporre la linea di punti, il divisibile di indivisibili, il quanto di non quanti, mi paiono scogli assai duri da passargli; e l’istesso dover ammettere il vacuo, tanto concludentemente reprovato da Aristotele, non manca delle medesime difficoltà. SAL. Ci sono veramente coteste, e dell’altre: ma ri- cordiamoci che siamo tra gl’infiniti e gl’indivisibili, quelli incomprensibili dal nostro intelletto finito per la lor grandezza, e questi per la lor piccolezza. Con tutto ciò veggiamo che l’umano discorso non vuol rimanersi dal- l’aggirarsegli attorno; dal che pigliando io ancora qualche libertà, produrrei alcuna mia fantasticheria, se non con- cludente necessariamente, almeno, per la novità, appor- tatrice di qualche maraviglia. Ma forse il divertir tanto lungamente dal cominciato cammino potrebbe parervi importuno, e però poco grato. SAGR. Di grazia, godiamo del benefizio e privilegio che s'ha dal parlar con i vivi e tra gli amici, e più di cose arbitrarie e non necessarie, differente dal trattar co i libri morti, li quali ti eccitano mille dubbi e nissuno te ne risolvono. Fateci dunque partecipi di quelle conside- razioni che il corso de i nostri ragionamenti vi suggerisce, ché non ci mancherà tempo, mercé dell’esser noi disob- bligati da funzioni necessarie, di continuar a risolvere l’altre materie intraprese; ed in particolare i dubbii toc- cati dal Sig. Simplicio non si trapassino in tutti i modi. SAL. Cosi si faccia, poiché tale è il vostro gusto: e cominciando dal primo, che fu come si possa mai capire 112 GALILEO GALILEI che un sol punto sia eguale ad una linea, vedendo di non ci poter far altro per ora, procurerò di quietare 0 almeno temperare una improbabilità con un’altra simile o maggiore, come talvolta una maraviglia si attutisce con un miracolo. E questo sarà col mostrarvi, due super- ficie eguali, ed insieme due corpi pur eguali e sopra le medesime dette superficie, come basi loro, collocati, an- darsi continuamente ed egualmente, e queste e quelli, nel medesimo tempo diminuendo, restando sempre tra di loro eguali i loro residui, e finalmente andare, si le su- perficie come i solidi, a terminare le lor perpetue egua- lità precedenti, l'uno de i solidi con l’una delle superficie in una lunghissima linea, e l’altro solido con l’altra su- perficie in un sol punto, cioè, questi in un sol punto, e quelli in infiniti. SAGR. Ammirabil proposta veramente mi par co- testa: però sentiamone l’esplicazione e la dimostrazione. SAL. È necessario farne la figura, perché la prova è pura geometrica. Per tanto intendasi. il mezzo cerchio AF B, il cui centro C, ed intorno ad esso il parallelo- srammo rettangolo A D E B, e dal centro a i punti D, E siano tirate le rette linee C D, CE; figurandoci poi il semidia- metro CF, perpendicolare a una delle due A B, DE, immobile, intendiamo intorno a quello gi- rarsi tutta questa figura: è ma- nifesto che dal rettangolo ADEB verrà descritto un cilindro, dal semicircolo AFB una mezza sfera, e dal triangolo CDE un cono. Inteso questo, voglio che ci immaginiamo esser levato via l’emisferio, lasciando però il cono e quello che rimarrà del cilindro, il quale, dalla figura che riterrà si- mile a una scodella, chiameremo pure scodella: della quale e del cono prima dimostreremo che sono eguali; e poi, un DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 113 piano tirato parallelo al cerchio che è base della scodella, il cui diametro è la linea DE e centro F, dimostreremo, tal piano, che passasse, v. g., per la linea G N, segando la scodella ne i punti G, I, O, N, ed il cono ne’ punti H, L, tagliare la parte del cono CHL eguale sempre alla parte della scodella, il cui profilo ci rappresentano i triangoli GAI, BON; e di più si proverà, la base ancora del mede- simo cono, cioè il cerchio il cui diametro HL, esser eguale a quella circolar superficie che è base della parte della scodella, che è come se dicessimo un nastro di larghezza quanta è la linea GI (notate intanto che cosa sono le definizioni de i matematici, che sono una imposizion di nomi, o vogliam dire abbreviazioni di parlare, ordinate ed introdotte per levar lo stento tedioso che voi ed io sentiamo di presente per non aver convenuto insieme di chiamar, v. g., questa superficie, nastro circolare, e quel solido acutissimo della scodella rasoio rotondo): or co- munque vi piaccia chiamargli, bastivi intendere che il piano prodotto per qualsivoglia distanza, pur che sia parallelo alla base, cioè al cerchio il cui diametro D E, taglia sempre i due solidi, cioè la parte del cono CHL e la superior parte della scodella, eguali tra di loro, e parimente le due superficie basi di tali solidi, cioè il detto nastro e ’1 cerchio HL, pur tra loro eguali. Dal che ne segue la maraviglia accennata: cioè, che se intenderemo il segante piano successivamente inalzato verso la linea A B, sempre le parti de i solidi tagliate sono eguali, come anco le superficie, che son basi loro, pur sempre sono eguali; e finalmente, alzando tanto li due solidi (sempre eguali) quanto le lor basi (superficie pur sempre eguali), vanno a terminare l’una coppia di loro in una circonfe- renza di un cerchio, e l’altra in un sol punto, ché tali sono l’orlo supremo della scodella e la cuspide del cono. Or mentre che nella diminuzione de i due solidi si va, 114 GALILEO GALILEI sino all'ultimo, mantenendo sempre tra essi la egualità, ben par conveniente il dire che gli altissimi ed ultimi termini di tali menomamenti restino tra di loro eguali, e non l’uno infinitamente maggior dell’altro: par dunque che la circonferenza di un cerchio immenso possa chiamarsi eguale a un sol punto. E questo che accade ne i solidi, accade parimente nelle superficie, basi loro, che esse an- cora, conservando nella comune diminuzione sempre la egualità, vanno in fine ad incontrare, nel momento della loro ultima diminuzione, quella per suo termine la cir- conferenza di un cerchio, e questa un sol punto; li quali perché non si devon chiamare eguali, se sono le ultime reliquie e vestigie lasciate da grandezze eguali? E no- tate appresso, che quando ben fussero tali vasi capaci de gl’immensi emisferii celesti, tanto gli orli loro supremi e le punte de i contenuti coni, servando sempre tra loro l’egualità, andrebbero a terminare, quelli in circonferenze eguali a quelle de i cerchi massimi de gli orbi celesti, e questi in semplici punti. Onde, conforme a quello che tali specolazioni ne persuadono, anco tutte le circonferenze de’ cerchi quanto si voglia diseguali, posson chiamarsi tra loro eguali, e ciascheduna eguale a un punto solo. SAGR. La specolazione mi par tanto gentile e pere- grina, che io, quando ben potessi, non me gli vorrei op- porre, ché mi parrebbe un mezzo sacrilegio lacerar si bella struttura, calpestandola con qualche pedantesco af- fronto: però per intera sodisfazione recateci pur la prova, che dite geometrica, del mantenersi sempre l’egualità tra quei solidi e quelle basi loro, che penso che non possa esser se non molto arguta, essendo cosî sottile la filosofica meditazione che da tal conclusione depende. SAL. La dimostrazione è anco breve e facile. Ripi- gliamo la segnata figura, nella quale, per esser l'angolo IPC retto, il quadrato del semidiametro IC è eguale alli due quadrati de i lati IP, PC: ma il semidiametro DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 115 IC è eguale alla AC, e questa alla GP, e la CP è eguale alla PH; adunque il quadrato della linea GP è eguale alli due quadrati delle I P, PH, e ’1 quadruplo a i qua- drupli, cioè il quadrato del diametro G N è eguale alli due quadrati IO, HL: e perché i cerchi son tra loro come i quadrati de’ lor diametri, il cerchio il cui dia- metro G N sarà eguale alli due cerchi i cui diametri I O, HL, e tolto via il comune cerchio il cui diametro I O, il residuo del cerchio G N sarà eguale al cerchio il cui dia- metro è HL. E questo è quanto alla prima parte: quanto poi all’altra parte, lasceremo per ora la dimostrazione, si perché, volendola noi vedere, la troveremo nella duo- decima proposizione del libro secondo De centro gra- vitatis solidorum posta dal Sig. Luca Valerio, nuovo Archimede dell’età. nostra, il quale per un altro suo pro- posito se ne servi, si perché nel caso nostro basta l’aver veduto come le superficie già dichiarate siano sempre eguali, e che, diminuendosi sempre egualmente, vadano a terminare l’una in un sol punto e l’altra nella cir- conferenza d’un cerchio, maggiore anco di qualsivoglia grandissimo, perché in questa consequenza sola versa la nostra maraviglia. SAGR. Ingegnosa la dimostrazione, quanto mirabile la reflessione fattavi sopra. Or sentiamo qualche cosa circa l’altra difficoltà promossa dal Sig. Simplicio, se però avete alcuna particolarità da dirvi sopra, che cre- derei che non potesse essere, essendo una controversia stata tanto esagitata. SAL. Avrò qualche mio pensiero particolare, repli- cando prima quel che poco fa dissi, cioè che l’infinito è per sé solo da noi incomprensibile, come anco gl’indivi- sibili; or pensate quel che saranno congiunti insieme: e pur se vogliamo compor la linea di punti indivisibili, bisogna fargli infiniti; e cosi conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile. Le cose che in 116 GALILEO GALILEI più volte mi son passate per la mente in tal proposito, son molte, parte delle quali, e forse le pit considerabili, potrebb'esser che, cosi improvisamente, non mi sovvenis- sero; ma nel progresso del ragionamento potrà accadere che, destando io a voi, ed in particolare al Sig. Simplicio, obiezzioni e difficoltà, essi all'incontro mi facessero ri- cordar di quello che senza tale eccitamento restasse dor- mendo nella fantasia: e però con la solita libertà sia lecito produrre in mezzo i nostri umani capricci, ché tali meritamente possiamo nominargli in comparazione delle dottrine sopranaturali, sole vere e sicure determinatrici delle nostre controversie, e scorte inerranti ne i nostri oscuri e dubbii sentieri o pit tosto labirinti. Tra le prime instanze che si sogliono produrre contro a quelli che compongono il continuo d’indivisibili, suol esser quella che uno indivisibile aggiunto a un altro in- divisibile non produce cosa divisibile, perché, se ciò fusse, ne seguiterebbe che anco l’indivisibile fusse divisibile; perché quando due indivisibili, come, per esempio, due punti, congiunti facessero una quantità, qual sarebbe una linea divisibile, molto più sarebbe tale una composta di tre, di cinque, di sette e di altre moltitudini dispari; le quali linee essendo poi segabili in due parti eguali, rendon segabile quell’indivisible che nel mezzo era col- locato. In questa ed altre obbiezzioni di questo genere si da sodisfazione alla parte con dirgli, che non solamente due indivisibili, ma né dieci, né cento, né mille non com- pongono una grandezza divisibile e quanta, ma si bene infiniti. SIMPL. Qui nasce subito il dubbio, che mi pare in- solubile: ed è, che sendo noi sicuri trovarsi linee una maggior dell’altra, tutta volta che amendue contenghino punti infiniti, bisogna confessare trovarsi nel medesimo genere una cosa maggior dell’infinito, perché la infinità de i punti della linea maggiore eccedera l’infinità de i DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 117 punti della minore. Ora questo darsi un infinito maggior dell’infinito mi par concetto da non poter esser capito in verun modo. SAL. Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito in- torno a gl'infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconve- niente, perché stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed eguaglità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore 0 eguale all’altro. Per prova di che già mi sovvenne un si fatto discorso, il quale per pit chiara esplicazione pro- porrò per interrogazioni al Sig. Simplicio, che ha mossa la difficoltà. Io suppongo che voi benissimo sappiate quali sono i numeri quadrati, e quali i non quadrati. SIMPL. So benissimo che il numero quadrato è quello che nasce dalla moltiplicazione d'un altro numero in se medesimo: e cosî il quattro, il nove, etc., son numeri quadrati, nascendo quello dal dua, e questo dal tre, in se medesimi moltiplicati. SAL. Benissimo: e sapete ancora, che si come i pro- dotti si dimandano quadrati, i producenti, cioè quelli che si multiplicano, si chiamano lati o radici; gli altri poi, che non nascono da numeri multiplicati in se stessi, non sono altrimenti quadrati. Onde se io dirò, i numeri tutti, comprendendo i quadrati e i non quadrati, esser pit che i quadrati soli, dirò proposizione verissima: non è cosî? SIMPL. Non si può dir altrimenti. SAL. Interrogando io di poi, quanti siano i numeri quadrati, si può con verità rispondere, loro esser tanti quante sono le proprie radici, avvenga che ogni qua- drato ha la sua radice, ogni radice il suo quadrato, né quadrato alcuno ha pit d’una sola radice, né radice al- cuna più d’un quadrato solo. Li 118 GADKLEO SGATTEDÌ SIMEP ba Cost'sta: SAL. Ma se io domanderò, quante siano le radici, non si può negare che elle non siano quante tutti i numeri, poiché non vi è numero alcuno che non sia radice di qualche quadrato; e stante questo, converrà dire che i numeri quadrati siano quanti tutti i numeri, poiché tanti sono quante le lor radici, e radici son tutti i numeri; e pur da principio dicemmo, tutti i numeri esser assai più che tutti i quadrati, essendo la maggior parte non qua- drati. E pur tuttavia si va la moltitudine de i quadrati sempre con maggior proporzione diminuendo, quanto a maggior numeri si trapassa; perché sino a cento vi sono dieci quadrati, che è quanto a dire la decima parte esser quadrati; in dieci mila solo la centesima parte son qua- drati, in un millione solo la millesima: e pur nel numero infinito, se concepir lo potessimo, bisognerebbe dire, tanti essere i quadrati quanti tutti i numeri insieme. SAGR. Che dunque si ha da determinare in questa occasione? SAL. Io non veggo che ad altra decisione si possa ve- nire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudine de’ quadrati esser minore di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella, ed in ultima conclusione, gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità terminate. É però quando il Sig. Simplicio mi propone più linee diseguali, e mi domanda come possa essere che nelle maggiori non siano più punti che nelle minori, io gli rispondo che non ve ne sono né più né manco né altrettanti, ma in cia- scheduna infiniti: o veramente se io gli rispondessi, i punti nell’una esser quanti sono i numeri quadrati, in un’altra maggiore quanti tutti i numeri, in quella picco- lina quanti sono i numeri cubi, non potrei io avergli dato DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 119 sodisfazione col porne pit in una che nell'altra, e pure in ciascheduna infiniti? E questo è quanto alla prima difficoltà. SAGR. Fermate in grazia, e concedetemi che io ag- giunga al detto sin qui un pensiero, che pur ora mi giugne: e questo è, che, stanti le cose dette sin qui, parmi che non solamente non si possa dire, un infinito esser maggiore d'un altro infinito, ma né anco che e’ sia maggior d'un finito, perché se ’1 numero infinito fusse maggiore, v. g., del millione, ne seguirebbe, che passando dal millione ad altri e ad altri continuamente maggiori, si camminasse verso l'infinito; il che non è: anzi, per l’opposito, a quanto maggiori numeri facciamo passaggio, tanto più ci discostiamo dal numero infinito; perché ne i numeri, quanto più si pigliano grandi, sempre più e più rari sono i numeri quadrati in essi contenuti; ma nel numero infinito i quadrati non possono esser manco che tutti i numeri, come pur ora si è concluso; adunque l’andar verso numeri sempre maggiori e maggiori è un discostarsi dal numero infinito. SAL. E cosi dal vostro ingegnoso discorso si conclude, gli attributi di maggiore minore o eguale non aver luogo non solamente tra gl’infiniti, ma né anco tra gl’infiniti e i finiti. Passo ora ad un’altra considerazione, ed è, che stante che la linea ed ogni continuo sian divisibili in sempre divisibili, non veggo come si possa sfuggire, la composi- zione essere di infiniti indivisibili, perché una divisione e subdivisione che si possa proseguir perpetuamente, suppone che le parti siano infinite, perché altramente la subdivisione sarebbe terminabile; e l’esser le parti infinite si tira in consequenza l’esser non quante, perché quanti infiniti fanno un'estensione infinita: e cosi abbiamo il continuo composto d’infiniti indivisibili. 120 GALILEO GALILEI SIMPL. Ma se noi possiamo proseguir sempre la di- visione in parti quante, che necessità abbiamo noi di dover, per tal rispetto, introdur le non quante? SAL. L'istesso poter proseguir perpetuamente la di- visione in parti quante, induce la necessità della compo- sizione di infiniti non quanti. Imperò che, venendo più alle strette, io vi domando che resolutamente mi diciate, se le parti quante nel continuo, per vostro credere, son finite o infinite? SIMPL. Io vi rispondo, essere infinite e finite: infinite, in potenza; e finite, in atto: infinite in potenza, cioè in- nanzi alla divisione: ma finite in atto, cioè dopo che son divise: perché le parti non s'intendono attualmente esser nel suo tutto, se non dopo esser divise o almeno segnate; altramente si dicono esservi in potenza. SAL. Si che una linea lunga, v. g., venti palmi non si dice contener venti linee di un palmo l’una attualmente, se non dopo la divisione in venti parti eguali; ma per avanti si dice contenerle solamente in potenza. Or sia come vi piace; e ditemi se, fatta l’attual divisione di tali parti, quel primo tutto cresce 0 diminuisce, o pur resta della medesima grandezza? SIMPL. Non cresce, né scema. SAL. Cosî credo io ancora. Adunque le parti quante nel continuo, o vi siano in atto o vi siano in potenza, non fanno la sua quantità maggiore né minore: ma chiara cosa è, che parti quante attualmente contenute nel lor tutto, se sono infinite, lo fanno di grandezza infinita: adunque parti quante, benché in potenza solamente, in- finite, non possono esser contenute se non in una gran- dezza infinita; adunque nella finita parti quante infinite, né in atto né in potenza possono esser contenute. SAGR. Come dunque potrà esser vero che il continuo possa incessabilmente dividersi in parti capaci sempre di nuova divisione? DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 121 SAL. Par che quella distinzione d’atto e di potenza vi renda fattibile per un verso quel che per un altro sa- rebbe impossibile. Ma io vedrò d’aggiustar meglio queste partite con fare un altro computo; ed al quesito che do- manda se le parti quante nel continuo terminato sian finite o infinite, risponderò tutto l’opposito di quel che rispose dianzi il Sig. Simplicio, cioè non esser né finite né infinite. SIMPL. Ciò non arei saputo mai risponder io, non pensando che si trovasse termine alcuno mezzano tra ‘l finito e l’infinito, si che la divisione o distinzione che pone, una cosa o esser finita o infinita, fusse manchevole e difettosa. SAL. A me par ch'ella sia. E parlando delle quantità discrete, parmi che tra le finite e l’infinite ci sia un terzo medio termine, che è il rispondere ad ogni segnato nu- mero: si che, domandato, nel presente proposito, se le parti quante nel continuo siano finite o infinite, la più congrua risposta sia il dire, non esser né finite né infinite, ma tante che rispondono ad ogni segnato numero: per il che fare è necessario che elle non siano comprese dentro a un limitato numero, perché non risponderebbono ad un maggiore; ma né anco è necessario che elle siano infinite, perché niuno assegnato numero è infinito: e cosi ad ar- bitrio del domandante una proposta linea gliela potremo assegnare segata in cento parti quante, e in mille e in cento mila, conforme a qual numero più gli piacerà; ma divisa in infinite, questo non già. Concedo dunque a i Si- gnori filosofi che il continuo contiene quante parti quante piace loro, e gli ammetto che le contenga in atto o in po- tenza, a lor gusto e beneplacito; ma gli soggiungo poi, che nel modo che in una linea di dieci canne si con- tengono dieci linee d’una canna l’una, e quaranta d'un braccio l’una, e ottanta di mezzo braccio, etc., cosi con- tiene ella punti infiniti: chiamateli poi in atto o in po- 122 \MOGAZRIEREO IGASITDET tenza, come più vi piace, ché io, Sig. Simplicio, in questo particolare mi rimetto al vostro arbitrio e giudizio. SIMPL. Io non posso non laudare il vostro discorso: ma ho gran paura che questa parità dell’esser contenuti i punti come le parti quante non corra con intera pun- tualità, né che a voi sarà cosî agevole il dividere la pro- posta linea in infiniti punti, come a quei filosofi in dieci canne o in quaranta braccia: anzi ho per impossibile del tutto il ridurrad effetto tal divisione, si che questa sarà una di quelle potenze che mai non si riducono in atto. SAL. L'esser una cosa fattibile se non con fatica o diligenza, o in gran lunghezza di tempo, non la rende impossibile, perché penso che voi altresi non cosi agevol- mente vi sbrighereste da una divisione da farsi d’una linea in mille parti, e molto meno dovendo dividerla in 937 o altro gran numero primo. Ma se questa, che voi per avventura stimate divisione impossibile, io ve la ridu- cessi a cosi spedita come se altri la dovesse segare in quaranta, vi contentereste voi di ammetterla più placi- damente nella nostra conversazione? SIMPL. Io gusto del vostro trattar, come fate talora, con qualche piacevolezza; ed al quesito vi rispondo, che la facilità mi parrebbe grande più che a bastanza, quando il risolverla in punti non fusse pit laborioso che il di- viderla in mille parti. SAL. Qui voglio dirvi cosa che forse vi farà maravi- gliare, in proposito del volere o poter risolver la linea ne suoi infiniti tenendo quell’ordine che altri tiene nel dividerla in quaranta, sessanta o cento parti, cioè con l’andarla dividendo in due e poi in quattro etc.: col qual ordine chi credesse di trovare i suoi infiniti punti, singannerebbe indigrosso, perché con tal progresso né men alla division di tutte le parti quante si perverrebbe in eterno; ma de gli indivisibili tanto è lontano il poter giugner per cotal strada al cercato termine, che più tosto DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 125 altri se ne discosta, e mentre pensa, col continuar la di- visione e col multiplicar la moltitudine delle parti, di avvicinarsi alla infinità, credo che sempre più se n'al- lontani: e la mia ragione è questa. Nel discorso auto poco fa concludemmo, che nel numero infinito bisognava che tanti fussero i quadrati o i cubi quanti tutti i numeri, poiché e questi e quelli tanti sono quante le radici loro, e radici son tutti i numeri. Vedemmo appresso, che quanto maggiori numeri si pigliavano, tanto più radi si trovavano in essi i lor quadrati, e più radi ancora i lor cubi: adunque è manifesto, che a quanto maggiori nu- meri noi trapassiamo, tanto più ci discostiamo dal nu- mero infinito; dal che ne séguita che, tornando in dietro (poiché tal progresso sempre pit ci allontana dal termine ricercato), se numero alcuno può dirsi infinito, questo sia l’unità. E veramente in essa son quelle condizioni e ne- cessarii requisiti del numero infinito, dico del contener in sé tanti quadrati quanti cubi e quanti tutti i numeri. SIMPL. Io non capisco bene come si deva intender questo negozio. SAL. Il negozio non ha in sé dubbio veruno, perché l’unità é quadrato, è cubo, è quadrato quadrato e tutte le altre dignità, né vi è particolarità veruna essenziale a i quadrati, a i cubi, etc., che non convenga all'uno: come, v. g., proprietà di due numeri quadrati è l'aver tra di loro un numero medio proporzionale: pigliate qualsi- voglia numero quadrato per l’uno de’ termini e per l’altro l’unità, sempre ci troverete un numero medio proporzio- nale. Siano due numeri quadrati 9 e 4: eccovi, tra 19 e l’uno, medio proporzionale il 3; fra ’1 4 e l'uno media il 2; e tra i due quadrati 9 e 4 vi è il 6 in mezzo. Proprietà de i cubi è l’esser tra essi necessariamente due numeri medii proporzionali: ponete 8 e 27, gié tra loro son medii 12 e 18; e tra l’uno e 1’8 mediano il 2 e ’l 4; e tra l’uno e l 27. il 3 e 71 9. Concludiamo per tanto, non ci essere altro 175 PANINI GALILEO GALILEI numero infinito che l’unità. E queste sono delle mara- viglie che superano la capacità della nostra immagina- zione, e che devriano farci accorti quanto gravemente si erri mentre altri voglia discorrere intorno a gl’infiniti con quei medesimi attributi che noi usiamo intorno a i finiti, le nature de i quali non hanno veruna convenienza tra di loro. In proposito di che non voglio tacervi un mirabile accidente che pur ora mi sovviene, esplicante l’infinita differenza, anzi repugnanza e contrarietà di natura, che incontrerebbe una quantità terminata nel trapassar all’in- finita. Segniamo questa li- H_ nea retta AB di qualsivo- glia lunghezza; e preso in È lei qualsivoglia punto C, i... che in parti diseguali la B D divida, dico che partendosi coppie di linee da i ter- mini A, B, che, ritenendo fra di loro la medesima proporzione che hanno le parti A C, BC, vadiano a con- correre insieme, i punti de i lor concorsi cadranno tutti nella circonferenza di un medesimo cerchio: come, per esempio, partendosi le AL, BL da i punti A, B, ed avendo tra di loro la medesima proporzione che hanno le parti A C, BC, ed andando a concorrere nel punto L, e ritenendo l’istessa proporzione altre due A K, BK, con- correndo in K, altre AI, BI, AH, HB; AG, GB, AF, FB, AE, E B, dico che i punti de i concorsi L, K, I, H, G, F, E cascano tutti nella circonferenza di un istesso cerchio; talché se ci immagineremo, il punto C muoversi continuamente con tal legge, che le linee da esso prodotte sino a i termini fissi A, B mantenghino sempre la pro- porzione medesima che hanno le prime parti A C, CB, tal punto C descriverà la circonferenza d’un cerchio, M DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 125 come appresso vi dimostrerò; ed il cerchio in cotal modo descritto sarà sempre maggiore e maggiore infinitamente, secondo che il punto C sarà preso più vicino al punto di mezzo, che sia O, e minore sarà quel cerchio che dal punto pit vicino all'estremità B sara descritto; in ma- niera che da i punti infiniti che pigliar si possono nella linea O B si descriveranno cerchi (movendogli con l’espli- cata legge) di qualsivoglia grandezza, minori della luce dell'occhio d'una pulce, e maggiori dell’equinoziale del primo mobile. Ora, se alzandosi qualsivoglia de i punti compresi tra i termini O, B, da tutti si descrivono cerchi, e immensi da i punti prossimi all’O, alzando l’istesso O e continuando di muoverlo con l'osservanza dell’istesso decreto, cioè che le linee da esso prodotte sino a i termini A, B ritenghino la proporzione che hanno le prime linee A O, O B, che linea verrà segnata? Segnerassi la circon- ferenza d'un cerchio, ma d’un cerchio maggiore di tutti gli altri massimi, di un cerchio, dunque, infinito; ma si segna anco una linea retta e perpendicolare sopra la BA, eretta dal punto O e prodotta in infinito senza mai tor- nare a riunire il suo termine ultimo col suo primo, come ben tornavano l’altre: imperò che la segnata per il moto limitato del punto C, dopo segnato il mezzo cerchio su- periore CHE, continuava di segnare l’inferiore E MC, riunendo insieme i suoi estremi termini nel punto C; ma il punto O, mossosi per segnar, come tutti gli altri della linea A B (perché i punti presi nell’altra parte O A de- scriveranno essi ancora i lor cerchi, ed i massimi i punti prossimi all’O), il suo cerchio, per farlo massimo di tutti, e per consequenza infinito, non può più ritornare nel suo primo termine, ed in somma descrive una linea retta in- finita per circonferenza del suo infinito cerchio. Consi- derate ora qual differenza sia da un cerchio finito a un infinito, poiché questo muta talmente l’essere, che total- mente perde l’essere e il poter essere: ché gia ben chia- 126 GALICEO GALILEI ramente comprendiamo, non si poter dare un cerchio infinito: il che si tira poi in consequenza, né meno poter essere una sfera infinita, né altro qualsivoglia corpo 0 superficie figurata e infinita. Or che diremo di cotali metamorfosi nel passar dal finito all’infinito? e perché doviamo sentir repugnanza maggiore, mentre, cercando l'infinito ne i numeri, andiamo a concluderlo nell’uno? e mentre che rompendo un solido in molte parti e segui- tando di ridurlo in minutissima polvere, risoluto che si fusse ne gl’infiniti suoi atomi non più divisibili, perché non potremmo dire, quello esser ritornato in un solo con- tinuo, ma forse fluido come l’acqua o "1 mercurio 0 1 me- desimo metallo liquefatto? e non vediamo noi, le pietre liquefarsi in vetro, ed il vetro medesimo, co "1 molto fuoco, farsi fluido pit che l’acqua? SAGR. Doviamo dunque credere, i fluidi esser tali, perché sono risoluti ne i primi infiniti indivisibili, suoi componenti? SAL. Io non so trovar miglior ripiego per risolver al- cune sensate apparenze, tra le quali una è questa. Mentre io piglio un corpo duro, o sia pietra 0 metallo, e che con martello o sottilissima lima lo vo al possibile dividendo in minutissima ed impalpabile polvere, chiara cosa è che i suoi minimi, ancor che per la lor piccolezza siano im- percettibili a uno a uno dalla nostra vista e dal tatto, tuttavia son eglino ancor quanti, figurati e numerabili: e di essi accade che, accumulati insieme, si sostengono ammucchiati; e scavati sino a certo segno, resta la ca- vità, senza che le parti d'intorno scorrano a riempierla; agitati e commossi, subito si fermano tantosto che il mo- tore esterno gli abbandona: e questi medesimi effetti fanno ancora tutti gli aggregati di corpusculi maggiori e maggiori, e di ogni figura, ancor che sferica, come veg- giamo ne i monti di miglio, di grano, di migliarole di piombo e d'ogni altra materia. Ma se noi tenteremo di DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 129 vedere tali accidenti nell'acqua, nissuno ve ne troveremo; ma, sollevata, immediatamente si spiana, se da vaso o altro esterno ritegno non sia sostenuta; incavata, subito scorre a riempier la cavità; ed agitata, per lunghissimo tempo va fluttuando, e per spazii grandissimi distendendo le sue onde. Da questo mi par di potere molto ragione- volmente arguire, i minimi dell’acqua, ne i quali ella pur sembra esser risoluta (poiché ha minor consistenza di qual- sivoglia sottilissima polvere, anzi non ha consistenza nis- suna), esser differentissimi da i minimi quanti e divisibili; né saprei ritrovarci altra differenza, che l’esser indivisi- bili. Parmi anco che la sua esquisitissima trasparenza ce ne porga assai ferma coniettura: perché se noi piglie- remo del più trasparente cristallo che sia e lo comince- remo a rompere e pestare, ridotto in polvere perde la trasparenza, e sempre più quanto più sottilmente si trita; ma l’acqua, che pure è sommamente trita, è anco som- mamente diafana. L’oro e l'argento, con acque forti pol- verizati più sottilmente che con qualsivoglia lima, pur restano in polvere, ma non divengon fluidi, né prima si liquefanno che gl’indivisibili del fuoco o de i raggi del Sole gli dissolvano, credo ne i lor primi altissimi compo- nenti, infiniti, indivisibili. SAGR. Questo che V. S. ha toccato della luce, ho io più volte veduto con maraviglia; veduto, dico, con uno specchio concavo di tre palmi di diametro, liquefare il piombo in un istante: onde io son venuto in opinione, che quando lo specchio fusse grandissimo e ben terso e di figura parabolica, liquefarebbe non meno ogni altro metallo in brevissimo tempo, vedendo che quello, né molto grande né ben lustro e di cavità sferica, con tanta forza liquefaceva il piombo ed abbruciava ogni materia com- bustibile; effetti che mi rendon credibili le maraviglie de gli specchi d’Archimede. 128 GALILEO GALILEI SAL. Intorno a gli effetti de gli specchi d’Archimede mi rese credibile ogni miracolo, che si legge in più scrit- tori, la lettura de i libri dell’istesso Archimede, già da me con infinito stupore letti e studiati; e se nulla di dubbio mi fusse restato, quello che ultimamente ha dato in luce intorno allo Specchio Ustorio il P. Buonaventura Cavalieri, e che io con ammirazione ho letto, è bastato a cessarmi ogni difficoltà. SAGR. Veddi ancor io cotesto trattato, e con gusto e maraviglia grande lo lessi; e perché per avanti avevo co- noscenza della persona, mi andai confermando nel con- cetto che di esso avevo già preso, ch’ei fusse per riuscire uno de’ principali matematici dell'età nostra. Ma tor- nando all’effetto maraviglioso de i raggi solari nel lique- fare i metalli, doviamo noi credere che tale e si veemente operazione sia senza moto, O pur che sia con moto, ma velocissimo? SAL. Gli altri incendii e dissoluzioni veggiamo noi farsi con moto, e con moto velocissimo: veggansi le ope- razioni de i fulmini, della polvere nelle mine e ne i pe- tardi, ed in somma quanto il velocitar co” i mantici la fiamma de i carboni, mista con vapori grossi e non puri, accresca di forza nel liquefare i metalli: onde io non saprei intendere che l’azzione della luce, benché puris- sima, potesse esser senza moto, ed anco velocissimo. SAGR. Ma quale e quanta doviamo noi stimare che sia questa velocità del lume? forse instantanea, momen- tanea, o pur, come gli altri movimenti, temporanea? né potremo con esperienza assicurarci qual ella sia? SIMPL. Mostra l’esperienza quotidiana, l’espansion del lume esser instantanea; mentre che vedendo in gran lon- tananza sparar un’artiglieria, lo splendor della fiamma senza interposizion di tempo si conduce a gli occhi nostri, ma non già il suono all’orecchie, se non dopo notabile intervallo di tempo. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 129 SAGR. Eh, Sig. Simplicio, da cotesta notissima espe- rienza non si raccoglie altro se non che il suono si con- duce al nostro udito in tempo men breve di quello che si conduca il lume; ma non mi assicura, se la venuta del lume sia per ciò instantanea, più che temporanea ma ve- locissima. Né simile osservazione conclude più che l’altra di chi dice: « Subito giunto il Sole all’orizonte, arriva il suo splendore a gli occhi nostri >»; imperò che éhi mi as- sicura che prima non giugnessero i suoi raggi al detto termine, che alla nostra vista? SAL. La poca concludenza di queste e di altre simili osservazioni mi fece una volta pensare a qualche modo di poterci senza errore accertar, se l’illuminazione, cioè se l’espansion del lume, fusse veramente instantanea: poiché il moto assai veloce del suono ci assicura, quella della luce non poter esser se non velocissima: e l’espe- rienza che mi sovvenne, fu tale. Voglio che due piglino un lume per uno, il quale, tenendolo dentro lanterna o altro ricetto, possino andar coprendo e scoprendo, con l’interposizion della mano, alla vista del compagno, e che, ponendosi l'uno incontro all’altro in distanza di poche braccia, vadano addestrandosi nello scoprire ed occultare il lor lume alla vista del compagno, sî che quando l’uno vede il lume dell'altro, immediatamente scuopra il suo; la qual corrispondenza, dopo alcune risposte fattesi scam- bievolmente, verra loro talmente aggiustata, che, senza sensibile svario, alla scoperta dell'uno risponderà imme- diatamente lo scoperta dell’altro, sf che quando l’uno scuopre il suo lume, vedrà nell’istesso tempo comparire alla sua vista il lume dell’altro. Aggiustata cotal pratica in questa piccolissima distanza, pongansi i due medesimi compagni con due simili lumi in lontananza di due o tre miglia, e tornando di notte a far l’istessa esperienza, va- dano osservando attentamente se le risposte delle loro scoperte ed occultazioni seguono secondo l’istesso tenore 9. - G. Galilei, Opere - II. 130 GALILEO GALILEI che facevano da vicino; che seguendo, si potrà assai si- curamente concludere, l’espansion del lume essere instan- tanea: ché quando ella ricercasse tempo, in una lontananza di tre miglia, che importano sei per l’andata d’un lume e venuta dell’altro, la dimora dovrebbe esser assai os- servabile. E quando si volesse far tal osservazione in di- stanze maggiori, cioè di otto o dieci miglia, potremmo servirci del telescopio, aggiustandone un per uno gli os- servatori al luogo dove la notte si hanno a mettere in pratica i lumi; li quali, ancor che non molto grandi, e per ciò invisibili in tanta lontananza all’occhio libero, ma ben facili a coprirsi e scoprirsi, con l’aiuto de i telescopii già aggiustati e fermati potranno esser commodamente veduti. SAGR. L'esperienza mi pare d'invenzione non men sicura che ingegnosa. Ma diteci quello che nel praticarla avete concluso. SAL. Veramente non l’ho sperimentata, salvo che in iontananza piccola, cioè manco d’un miglio, dal che non ho potuto assicurarmi se veramente la comparsa del lume opposto sia instantanea; ma ben, se non instantanea, ve- locissima, e direi momentanea, è ella, e per ora l’assimi- glierei a quel moto che veggiamo farsi dallo splendore del baleno veduto tra le nugole lontane otto o dieci miglia: del qual lume distinguiamo il principio, e dirò il capo e fonte, in un luogo particolare tra esse nugole, ma bene immediatamente segue la sua espansione amplissima per le altre circostanti; che mi pare argomento, quella farsi con qualche poco di tempo; perché quando l’illumina- zione fusse fatta tutta insieme, e non per parti, non par che si potesse distinguer la sua origine, e dirò il suo centro, dalle sue falde e dilatazioni estreme. Ma in quai pelaghi ci andiamo noi inavvertentemente pian piano in- solfando? tra i vacui, tra gl’infiniti, tra gli indivisibili, tra i movimenti instantanei, per non poter mai, dopo mille discorsi, giungere a riva? DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 131 SAGR. Cose veramente molto sproporzionate al nostro intendimento. Ecco: l’infinito, cercato tra i numeri, par che vadia a terminar nell'unità; da gl’indivisibili nasce il sempre divisibile; il vacuo non par che risegga se non indivisibilmente mescolato tra ’1 pieno: ed in somma in queste cose si muta talmente la natura delle comune- mente intese da noi, che sin alla circonferenza d'un cerchio doventa una linea retta infinita; che, sio ho ben tenuto a memoria, è quella proposizione che voi, Sig. Sal- viati, dovevi con geometrica dimostrazione far mani- festa. Però, quando vi piaccia, sarà bene, senza più digredire, arrecarcela. SAL. Eccomi a servirle, dimostrando per piena intel- ligenza il seguente problema: Data una linea retta divisa secondo qualsivoglia proporzione in parti diseguali, descrivere un cer- chio, alla cui circonferenza prodotte, a qualsivoglia punto di essa, due linee rette da i termini della data linea, ritenghino la proporzion medesima che hanno tra di loro le parti di essa linea data, si che omologhe siano quelle che si partono da i mede- simi termini. Sia la data retta linea AB, divisa in qualsivoglia modo in parti diseguali nel punto C: bisogna descrivere il cerchio, a qualsivoglia punto della cui circonferenza concorrendo due rette prodotte da i termini A, B, ab- biano tra di loro la proporzion medesima che hanno tra di loro le parti AC, BC, si che omologhe sian quelle che si partono dall’istesso termine. Sopra ’1 centro C, con l'intervallo della minor parte C B, intendasi descritto un cerchio, alla circonferenza del quale venga tangente dal punto A la retta AD, indeterminatamente prolungata verso È, e sia il contatto in D, e congiungasi la C D, che sarà perpendicolare alla A E; ed alla BA sia perpendi- colare la BE, la quale prodotta concorrerà con la AE, 132 GALILEO GALILEI essendo l'angolo A acuto; sia il concorso in E, di dove si ecciti la perpendicolare alla A È, che prodotta vadia a concorrere con la AB, infinitamente prolungata, in Fi: dico primieramente, le due rette FE, FC esser eguali. Imperò che, tirata la EC, aremo ne i due triangoli DEC, BEC li due lati dell'uno DE, EC eguali alli due dell’altro BE, EC, essen- do le due D E, EB tan- senti del cerchio DB, e le basi D C, CB parimente eguali; onde li due ango- li DEC, BEC saranno eguali. E perché all’an- golo BCE per esser retto manca quanto è l’angolo CEB, ed all'angolo CEF, pur per esser retto, manca quanto è l'angolo CED, essendo tali mancamenti eguali, gli angoli FCE, FEC saranno eguali, ed in conse- quenza i lati F E, FC; onde fatto centro il punto F, e con l'intervallo FE descrivendo un cerchio, passerà per il punto C. Descrivasi, e sia CEG: dico, questo esser il cerchio ricercato, a qualsivoglia punto della circonfe- renza del quale ogni coppia di linee che vi concorrano, partendosi da i termini A, B, aranno la medesima pro- porzione tra di loro che hanno le due parti A C, BC, le quali di gia vi concorrono nel punto C. Questo, delle due che concorrono nel punto E, cioè delle A E, B E, è mani- festo, essendo l’angolo E del triangolo AEB diviso in mezzo dalla C E; per lo che qual proporzione ha la AC alla CB, tale ha la AF alla BE. L'istesso proveremo delle due A G, BG, terminate nel punto G. Imperò che, essendo (per la similitudine de’ triangoli AFE, EF B) come AF ad FE così EF ad F Bb, cioè come AF ad FC, cost CF ‘ad F B, sarà, dividendo, come AC a CF (cioè DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 133 ad FG) cosi CB a BF, e tutta AB a tutta BG come una CB ad una BF, e, componendo, come AG a GB cosi CF ad FB, cioè EF ad FB, cioè AE ad EB, ed AC a CB: il che bisognava provare. Prendasi ora qual- sivoglia altro punto nella circonferenza, e sia H, al quale concorrano Je due A H, BH: dico parimente, come A C a C B, cosi essere A H ad H B. Prolunghisi H B sino alla circonferenza in I, e congiungasi I F: e perché già ‘si è visto, come A B a BG, cosî essere C B a BF, sarà il ret- tangolo ABF eguale al rettangolo C BG, cioè IBH, e però come A B a BH, cosî TB a BF; e sono gli angoli al B eguali; adunque A H ad HB sta come IF, cioè E F, ad FB, ed AE ad EB. Dico, oltre a ciò, che è impossibile che le linee che abbiano tal proporzione, partendosi da i termini A, B. concorrano a verun punto o dentro o fuori del cerchio CEG. Imperò che, se è possibile, concorrano due tali linee al punto L, posto fuori, e siano le AL, BL, e pro- lunghisi la LB sino alla circonferenza in M, e congiun- gasi MF. Se dunque la AL alla BL è come la AC alla BC, cioè come la MF alla FB, aremo due triangoli ALB, MFB, li quali intorno alli due angoli ALB, MFB hanno i lati proporzionali, gli angoli alla cima nel punto B eguali, e li due rimanenti F M B, L AB minori che retti (imperò che l’angolo retto al punto M ha per base tutto il diametro C G, e non la sola parte BF: e l’altro al punto A è acuto, perché la linea A L, omologa della A C, è maggiore della BL, omologa della BC); adunque i triangoli ABL, MBF son simili, e però come A B a BL cosi MB a BF, onde il rettangolo ABF sarà eguale al rettangolo MBL: ma il rettangolo ABF s'è dimostrato eguale al CBG; adunque il rettangolo MBL è eguale al rettangolo C BG, il che è impossibile: adunque il con- corso non può cader fuori del cerchio. E nel medesimo 134 GALILEO GALILEI modo si dimostrerà. non poter cader dentro: adunque tutti i concorsi cascano nella circonferenza stessa. Ma è tempo che torniamo a dar sodisfazione al desi- derio del Sig. Simplicio, mostrandogli come il risolver la linea ne’ suoi infiniti punti non è non solamente impos- sibile, ma né meno ha in sé maggior difficoltà che "1 di- stinguere le sue parti quante, fatto però un supposto, il quale penso, Sig. Simplicio, che non siate per negarmi: e questo è, che non mi ricercherete che io vi separi i punti l’uno dall’altro e ve li faccia veder a uno a uno distinti sopra questa carta, perché io ancora mi conten- terei. che, senza staccar l’una dall’altra le quattro o le sei parti d’una linea, mi mostraste le sue divisioni se- gnate, o al piti piegate ad angoli, formandone un qua- drato o un essagono; perché mi persuado pure che allora le chiamereste a bastanza distinte ed attuate. SIMPL. Veramente si. SAL. Ora, se l’inflettere una linea ad angoli, forman- done ora un quadrato, ora un ottangolo, ora un poligono di quaranta, di cento o di mille angoli, è mutazione ba- stante a ridurre all'atto quelle quattro, otto, quaranta, cento e mille parti che prima nella linea diritta erano, per vostro detto, in potenza, quando io formi di lei un poligono di lati infiniti, cioè quando io la infletta nella circonferenza d’un cerchio, non potrò io con pari licenza dire d’aver ridotto all'atto quelle parti infinite, che voi prima, mentre era retta, dicevi esser in lei contenute in potenza? Né si può negare, tal risoluzione esser fatta ne suoi infiniti punti non meno che quella delle sue quattro parti nel formarne un quadrato, 0 nelle sue mille nel formarne un millagono: imperò che in lei non manca ve- runa delle condizioni che si trovano nel poligono di mille e di cento mila lati. Questo, applicato a una linea retta, se gli posa sopra toccandola con uno de’ suoi lati, cioè con una sua centomillesima parte; il cerchio, che è un DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 135 poligono di lati infiniti, tocca la medesima retta con uno de’ suoi lati, che è un sol punto, diverso da tutti i suoi collaterali, e perciò da quelli diviso e distinto non meno che un lato del poligono da i suoi conterminali: e come il poligono rivoltato sopra un piano stampa con i tocca- menti conseguenti de’ suoi lati una linea retta eguale al suo perimetro, cosî il cerchio girato sopra un tal piano descrive con gl’infiniti suoi successivi contatti una linea retta egual alla propria circonferenza. Non so adesso, Sig. Simplicio, se i Signori Peripatetici, a i quali io am- metto, come verissimo concetto, il continuo esser divisi- bile in sempre divisibili, sf che continuando una tal divisione e suddivisione mai non si perverrebbe alla fine, sl contenteranno di concedere a me, niuna delle tali loro divisioni esser l’ultima, come veramente non è, poiché sempre ve ne resta un'altra, ma bene l’ultima ed altis- sima esser quella che lo risolve in infiniti indivisibili, alla quale concedo che non si perverrebbe mai dividendo successivamente in maggiore e maggior moltitudine di parti; ma servendosi della maniera che propongo io, di distinguere e risolvere tutta la infinità in un tratto solo (artifizio che non mi dovrebbe esser negato), crederei che dovessero quietarsi, ed ammetter questa composizione del continuo di atomi assolutamente indivisibili, e massime essendo, questa una strada forse più d’ogni altra corrente per trarci fuori di molto intrigati laberinti, quali sono, oltre a quello già toccato della coerenza delle parti de i solidi, il comprender come stia il negozio della rare- fazzione e della condensazione, senza incorrer per causa di quella nell’inconveniente di dovere ammettere spazii vacui, e per questa la penetrazione de i corpi: inconve- nienti, che amendue mi pare ch’assai destramente ven- gano schivati con l’ammetter detta composizione d’in- divisibili. 156 GALILEO GALILEI SIMPL. Io non so quello che i Peripatetici fusser per dire, atteso che le considerazioni fatte da voi credo che gli giugnerebbero per la maggior parte nuove, e come tali converrebbe esaminarle; e potrebbe accadere che quelli vi ritrovassero risposte e soluzioni potenti a sciorre quei nodi, che io, per la brevità del tempo e per la de- bolezza del mio ingegno, non saprei di presente risolvere. Però sospendendo per ora questa parte, sentirei ben vo- lentieri come l’introduzzione di questi indivisibili faciliti l'intelligenza della condensazione e della rarefazzione, schivando nell’istesso tempo il vacuo e la penetrazion de i COrpI. SAGR. Sentirò io ancora con gran brama la mede- sima cosa, all’intelletto mio tanto oscura; con questo però, che io non rimanga defraudato di sentire, conforme a quello che poco fa disse il Sig. Simplicio, le ragioni d'Ari- stotele in confutazion del vacuo, ed in consequenza le so- luzioni che voi gli arrecate, come convien fare mentre voi ammettete quello che esso nega. SAL. Faremo l’uno e l’altro. E quanto al primo, è ne- cessario che, si come in grazia della rarefazzione.ci ser- viamo della linea descritta dal minor cerchio, maggiore della propria circonferenza, mentre vien mosso alla re- voluzione del maggiore, cosî per intelligenza della con- densazione mostriamo come alla conversione fatta dal minor cerchio il maggiore descriva una linea retta mi- pore della sua circonferenza; per la cui pit chiara espli- cazione, porremo innanzi la considerazione di quello che accade ne i poligoni. In una descrizzione simile a quell’altra, siano due es- sagoni circa il comune centro L, che siano questi A B C, HIK, con le linee parallele HO M, A Bc, sopra le quali si abbiano a far le revoluzioni; e fermato l'angolo I del poligono minore, volgasi esso poligono sin che il lato IK caschi sopra la parallela, nel qual moto il punto K_ de- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 137 scriverà l'arco KM. e ’l lato KI si unirà con la parte IM: tra tanto bisogna vedere quel che fara il lato CB del poligono maggiore. E perché il rivolgimento si fa sopra il punto I, la linea 1 B col termine suo B descriverà, tor- nando indietro, l'arco B b sotto alla parallela c A, tal che quando il lato KI si congiugneràa con la linea MI, il lato BC si unirà con la linea bc, con l’avanzarsi per l’innanzi solamente quanto è la parte Bc e ri- tirando in dietro la parte suttesa all’arco Bb, la quale vien sopraposta alla linea BA. Ed intendendo continuarsi nell’istesso mo- do la conversione fatta dal minor poligono, questo de- scriverà bene e passerà so- pra la sua parallela una linea eguale al suo peri- metro; ma il maggiore pas- sera una linea minore del suo perimetro la quantità di tante linee b B quanti sono uno manco de’ suoi lati; e sarà tal linea prossimamente eguale alla descritta dal poligono minore, eccedendola solamente di quanto è la bB. Qui dunque senza veruna repugnanza si scorge la cagione per la quale il maggior poligono non trapassi (portato dal minore) con i suoi lati linea maggiore della passata dal minore; che è perché una parte di ciascheduno de’ lati si soprappone al suo precedente conterminale. Ma se considereremo i due cerchi intorno al centro A, li quali sopra le lor parallele posino, toccando il minore la sua nel punto B, ed il maggiore la sua nel punto C, qui nel cominciar a far la revoluzione del minore non 10. - G. Galilei, Opere - Il 138 GALILEO GALILEI avverrà che il punto B resti per qualche tempo immo- bile, si che la linea B C dando in dietro trasporti il punto C, come accadeva ne i poligoni, che restando fisso il punto I sin che il lato KI cadesse sopra la linea I M, la linea IB riportava in dietro il B, termine del lato C B, sino in b, onde il lato BC cadeva in bc, soprapponendo alla linea BA la parte Bb e solo avanzandosi per l’in- nanzi la parte Bc, eguale alla IM, cioè a un lato del poligono minore; per le quali soprapposizioni, che sono gli eccessi de i lati maggiori sopra i minori, gli avanzi che restano, eguali a i lati del minor poligono, vengono a comporre nell’intera revoluzione la linea retta eguale alla segnata e misurata dal poligono minore. Ma qui dico, che se noi vorremo applicare un simil discorso all'effetto de i cerchi, converrà dire, che dove i lati di qualsivoglia po- ligono son compresi da qualche numero, i lati del cerchio sono infiniti: quelli son quanti e divisibili; questi, non quanti e indivisibili: i termini de i lati del poligono nella revoluzione stanno per qualche tempo fermi, cioè -cia- scheduno tal parte del tempo di una intera conversione, qual parte esso è di tutto il perimetro; ne i cerchi simil- mente le dimore de’ termini de’ suoi infiniti lati son mo- mentanee, perché tal parte è un instante d’un tempo quanto, qual è un punto d’una linea, che ne contiene in- finiti: i regressi in dietro fatti da i lati del maggior po- ligono sono non di tutto ’1 lato, ma solamente dell’eccesso suo sopra ‘1 lato del minore, acquistando per l’innanzi tanto di spazio quanto è il detto minor lato; ne i cerchi il punto o lato C, nella quiete instantanea del termine B, si ritira in dietro quanto è il suo eccesso sopra ’l lato B, acquistando per l’innanzi quanto è il medesimo B: ed in somma gl’infiniti lati indivisibili del maggior cerchio con gl’infiniti indivisibili ritiramenti loro, fatti nell’infinite instantanee dimore de gl’infiniti termini de gl’infiniti lati del minor cerchio, e con i loro infiniti progressi, eguali a DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 139 gl'infiniti lati di esso minor cerchio, compongono e dise- gnano una linea eguale alla descritta dal minor cerchio, contenente in sé infinite soprapposizioni non quante, che fanno una costipazione e condensazione senza veruna pe- netrazione di parti quante, quale non si può intendere farsi nella linea divisa in parti quante, quale è il pe- rimetro di qualsivoglia poligono, il quale, disteso in linea retta, non si può ridurre in minor lunghezza se non col far che i lati si soprapponghino e penetrino l’un l’altro. Questa costipazione di parti non quante ma infinite, senza penetrazione di parti quante, e la prima distraz- zione di sopra dichiarata de gl’infiniti indivisibili con l’interposizione di vacui indivisibili, credo che sia il più che dir si possa per la condensazione e rarefazzione de i corpi, senza necessità d’introdurre la penetrazione de i corpi e gli spazii quanti vacui. Se ci è cosa che vi gusti, fatene capitale; se no, reputatela vana, e ’l mio di- scorso ancora, e ricercate da qualche altro esplicazione ‘di maggior quiete per l'intelletto. Solo queste due parole vi replico, che noi siama tra gl’infiniti e gl’indivisibili. SAGR. Che il pensiero sia sottile, ed a’ miei orecchi nuovo e peregrino, lo confesso liberamente; se poi nel fatto stesso la natura proceda con tal ordine, non saprei che risolvermi: vero è che sin ch'io non sentissi cosa che maggiormente mi quietassi, per non rimaner muto alf- fatto, m’atterrei a questa. Ma forse il Sig. Simplicio avrà (quello che sin qui non ho incontrato) modo di esplicare l’esplicazione che in materia cosi astrusa da i filosofi si arreca; ché in vero quel che sin qui ho letto circa la con- densazione è per me cosi denso, e quel della rarefazzione cosi sottile, che la mia debol vista questo non comprende e quello non penetra. SIMPL. Io son pieno di confusione, e trovo duri in- toppi nell’un sentiero e nell’altro, ed in particolare in questo nuovo: perché, secondo questa regola, un’oncia 140 GADILEO \GALTEBI d’oro si potrebbe rarefare e distrarre in una mole mag- giore di tutta la Terra, e tutta la Terra condensare e ri- durre in minor mole di una noce, cose che io non credo, né credo che voi medesimo crediate: e le considerazioni e dimostrazioni sin qui fatte da voi, come che son cose matematiche, astratte e separate dalla materia sensibile. credo che applicate alle materie fisiche e naturali non camminerebbero secondo coteste regole. SAL. Che io vi sia per far vedere l'invisibile, né 10 lo saprei fare, né credo voi lo ricerchiate; ma per quanto da i nostri sensi può esser compreso, gia che voi avete nominato l’oro, non veggiam noi farsi immensa distraz- zione delle sue parti? Non so se vi sia occorso di veder le maniere che tengono gli artefici in condur l'oro tirato, il quale non è veramente oro se non in superficie, ma la materia interna è argento: ed il modo del condurlo è tale. Pigliano un cilindro, o volete dire una verga, d’argento, lunga circa mezzo braccio e grossa per tre o quattro volte il dito pollice, e questa indorano con foglie d’oro battuto, che sapete esser cosi sottile che quasi va vagando per l’aria, e di tali foglie ne soprappongono otto 0 dieci, e non più. Dorato che è, cominciano a tirarlo con forza immensa. facendolo passare per fori della filiera; e tor- nando a farlo ripassare molte e molte volte successiva- mente per fori più angusti, dopo molte e molte ripassate lo riducono alla sottigliezza d’un capello di donna, se non maggiore: e tuttavia resta dorato in superficie. Lascio ora considerare a voi quale sia la sottigliezza e distrazzione alla quale si è ridotta la sustanza dell'oro. SIMPL. Io non veggo che da questa operazione venga in consequenza un assottigliamento della materia del- l'oro da farne quelle maraviglie che voi vorreste: prima, perché già la prima doratura fu di dieci foglie d’oro, che vengono a far notabile grossezza: secondariamente, se ben. nel tirare e assottigliar quell’argento, cresce in lun- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 141 ghezza, scema però anco tanto in grossezza, che, compen- sando l'una dimensione con l’altra, la superficie non si agumenta tanto, che per vestir l'argento di oro, bisogni ri- durlo a sottigliezza maggiore di quella delle prime foglie. SAL. Vingannate d’assai, Sig. Simplicio, perché l’ac- crescimento della superficie è sudduplo dell’allungamento, come io potrei geometricamente dimostrarvi. SAGR. Io, e per me e per il Sig. Simplicio, vi pre- gherei a recarci tal dimostrazione, se però credete che da noi possa esser capita. SAL. Vedrò se cosi improvisamente mi torna a me- moria. Gia è manifesto, che quel primo grosso cilindro d’argento ed il filo lunghissimo tirato sono due cilindri eguali, essendo l’istesso argento; tal che s'îo mostrerò qual proporzione abbiano tra di loro le superficie de i cilindri eguali, averemo l’intento. Dico per tanto che: Le superficie de i cilindri eguali, trattone le basi, son tra di loro in sudduplicata proporzione delle loro lunghezze. Siano due cilindri eguali, l’altezze de i quali AB, CD, e sia la linea E media proporzionale tra esse: dico, la superficie del cilindro A B, trattone le basi, alla super- ficie del cilindro C D, trattone parimente le basi, aver la medesima proporzione che la linea A B alla linea E, che è suddupla dalla proporzione di AB a CD. Taglisi la parte del cilindro A B in F, e sia l'altezza AF eguale alla CD: e perché le basi de’ cilindri eguali rispondon contrariamente alle loro altezze, il cerchio base del ci- lindro CD al cerchio base del cilindro AB sarà come l'altezza BA alla DC; e perché i cerchi son tra loro come i quadrati de i diametri, aranno detti quadrati la medesima proporzione che la BA alla CD: ma come BA a CD, cosi il quadrato B A al quadrato della E: som dunque tali quattro quadrati proporzionali: e però i lor lati ancora saranno proporzionali, e come la linea AB 142 GALILEO GALILEI alla E, cosi il diametro del cerchio C al diametro del cerchio A. Ma come i diametri, cosî sono le circonfe- renze, e come le circonferenze cosî sono ancora le super- ficie de' cilindri egualmente alti: adunque come la linea A B alla E, cosi la superficie del cilindro <> CD alla superficie del cilindro AF. Perché dunque l'altezza AF alla AB sta come la superficie AF alla superficie A B: e come l’altezza A B alla linea È. cosî la superficie C D alla A F: sarà, per p | la perturbata, come l'altezza AF alla È, cosi la superficie CD alla superficie AB: e convertendo, come la superficie del ci- lindro A B alla superficie del cilindro CD, cost la linea E alla A F, cioè alla C D, o vero la AB alla E, che è pro- porzione suddupla della AB alla CD: che è quello che bisognava provare. Ora, se noi applicheremo questo, che si è dimostrato, al nostro proposito, presupposto che quel cilindro d’ar- sento, che fu dorato mentre non era piti lungo di mezzo braccio e grosso tre o quattro volte pit del dito pollice, assottigliato alla finezza d'un capello si sia allungato sino in venti mila braccia (che sarebbe anche più assai), tro- veremo, la sua superficie esser cresciuta dugento volte più di quello che era: ed in consequenza quelle foglie d’oro, che furon soprapposte dieci in numero, distese in superficie dugento volte maggiore, ci assicurano, l'oro, che cuopre la superficie delle tante braccia di filo, restar non pit grosso che la ventesima parte d’una foglia del- l’ordinario oro battuto. Considerate ora voi qual sia la sua sottigliezza, e se è possibile concepirla fatta senza una immensa distrazzione di parti, e se questa vi pare una esperienza che tenda anche ad una composizione d’infiniti indivisibili nelle materie fisiche: se ben di ciò DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 143 non mancano altri più gagliardi e concludenti rincontri. SAGR. La dimostrazione mi par tanto bella, che quando non avesse forza di persuader quel primo intento per il quale è stata prodotta (che pur mi par che ve l'abbia grande), ad ogni modo benissimo si è impiegato questo breve tempo che per sentirla si è speso. SAL. Già che veggo che gustate tanto di queste geo- metriche dimostrazioni, apportatrici di guadagni sicuri, vi dirò la compagna di questa, che sodisfà ad un quesito curioso assai. Nella passata aviamo quello che accaggia de i cilindri eguali, ma diversi di altezze o vero lun- ghezze: è ben sentire quello che avvenga a i cilindri eguali di superficie, ma diseguali d’altezze; intendendo sempre delle superficie sole che gli circondano intorno, cioè non comprendendo le due basi, superiore e inferiore. Dico dunque che: I cilindri retti, le superficie de i quali, trattone le basi, siano eguali, hanno fra di loro la medesima proporzione che le loro altezze contrariamente prese. Siano eguali le superficie de i due cilindri A E, CF, ma l’altezza di questo C D maggiore dell’al- tezza dell’altro A B: dico, il cilindro A E al cilindro CF aver la medesima proporzione po che l’altezza CD alla AB. Perché dunque d la superficie CF è eguale alla superficie AF, (> A sarà il cilindro CF minore dell’A E, perché se li fusse eguale, la sua superficie, per la passata proposizione, sarebbe maggiore della (A superficie A E, e molto più se il medesimo DF cilindro CF fusse maggiore dell'A FE. Inten- dasi il cilindro ID eguale all’A E; adunque, per la pre- cedente, la superficie del cilindro ID alla superficie dell'A E starà come l’altezza IF alla media tra IF, A B. Ma essendo, per il dato, la superficie AE eguale alla CF, ed avendo la superficie ID alla CF la medesima pro- 144 GALILEO GALILEI porzione che l’altezza IF alla CD, adunque la CD è media tra le IF, AB: in oltre, essendo il cilindro ID eguale al cilindro A E, aranno amendue la medesima pro- porzione al cilindro CF: ma VID al CF sta come l'al- tezza IF alla CD: adunque il cilindro A È al cilindro CF arà la medesima proporzione che la linea IF alla C D, cioè che la C D alla A B, che è l'intento. Di qui s'intende la ragione d’un accidente, che non senza maraviglia vien sentito dal popolo; ed è, come possa essere che il medesimo pezzo di tela più lungo per un verso che per l’altro, se se ne facesse un sacco da te- nervi dentro del grano, come si costuma fare con un fondo di tavola, terrà pi servendoci per l'altezza del sacco della minor misura della tela e con l’altra circon- dando la tavola del fondo, che facendo per l'opposito: come se, v. g., la tela per un verso fusse sei braccia e per l’altro dodici, più terrà quando con la lunghezza di dodici si circondi la tavola del fondo, restando il sacco alto braccia sei, che se si circondasse un fondo di sei braccia, avendone dodici per altezza. Ora, da quello che si è dimostrato, alla generica notizia del capir più per quel verso che per questo, si aggiugne la specifica e par- ticolare scienza del quanto ei contenga pit; che è, che tanto più terra quanto sarà pit basso, e tanto meno quanto pit alto: e cosî, nelle misure assegnate essendo la tela il doppio più lunga che larga, cucita per la lun- ghezza terrà la metà manco che per l'altro verso; e pa- rimente avendo una stuoia, per fare una bugnola, lunga venticinque braccia e larga, v. g., sette, piegata per lo lungo terrà solamente sette misure di quelle che per l’altro verso ne terrebbe venticinque. SAGR. E cosi con nostro gusto particolare andiamo continuamente acquistando nuove cognizioni curiose € non ignude di utilità. Ma nel proposito toccato adesso, veramente non credo che tra quelli che mancano di DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 145 qualche cognizione di geometria se ne trovassero quattro per cento che non restassero a prima giunta ingannati, che quei corpi che da superficie eguali son contenuti, non fussero ancora in tutto eguali: sî come nell’istesso errore incorrono parlando delle superficie, che per de- terminar, come spesse volte accade, delle grandezze di diverse città, intera cognizione gli par d’averne qua- lunque volta sanno la quantità de i recinti di quelle, ignorando che può essere un recinto eguale a un altro, e la piazza contenuta da questo assai maggiore della piazza di quello: il che accade non solamente tra le su- perficie irregolari, ma tra le regolari, delle quali quelle di più lati son sempre più capaci di quelle di manco lati, si che in ultimo il cerchio, come poligono di lati in- finiti, è capacissimo sopra tutti gli altri poligoni di egual circuito; di che mi ricordo averne con gusto particolare veduta la dimostrazione studiando la Sfera del Sacro- bosco con un dottissimo commentario sopra. SAL. È verissimo: ed avendo io ancora incontrato co- testo luogo, mi dette occasione di ritrovare, come con una sola e breve dimostrazione si concluda, il cerchio esser maggiore di tutte le figure regolari isoperimetre: e, dell’altre, quelle di più lati, maggiori di quelle di manco. SAGR. Ed io, che sento tanto diletto in certe propo- sizioni e dimostrazioni scelte e non triviali. importunan- dovi vi prego che me ne facciate partecipe. SAL. In brevi parole vi spedisco, dimostrando il se- guente teorema, cioè: Il cerchio è medio proporzionale tra qualsivo- glino due poligoni regolari tra di loro simili, de i quali uno gli sia circoscritto e l’altro gli sia isope- rimetro. In oltre, essendo egli minore di tutti i circoscritti, è all'incontro massimo di tutti gli iso- perimetri. De i medesimi poi circoscritti, quelli che hanno più angoli son minori di quelli che ne 146 SY GALILEO GALILEI hanno manco; ma all'incontro, de gl’'isoperimetri quelli di più angoli son maggiori. Delli due poligoni simili A, B sia l'A circoscritto al cerchio A, e l’altro B ad esso cerchio sia isoperimetro: dico, il cerchio esser medio proporzionale tra essi. Im- però che (tirato il semidiametro A C), essendo il cerchio eguale a quel triangolo rettangolo, de i lati del quale che sono intorno all’angolo retto, uno sia eguale al se- midiametro A C e l’altro alla circonferenza; e similmente essendo il poligono A eguale al triangolo rettangolo, che intorno all'angolo retto ha uno de i lati egua- lialla me- desima retta AC, e l’altro al perimetro del medesimo poligono; è manifesto, il circoscritto poligono aver al cerchio la medesima pro- porzione che ha il suo perimetro alla circonferenza di esso cerchio, cioè al perimetro del poligono B, che alla circonferenza detta si pone eguale: ma il poligono A al B ha doppia proporzione che ’1 suo perimetro al peri- metro di B (essendo figure simili): adunque il cerchio À è medio proporzionale tra i due poligoni A, B. Ed essendo il poligono A maggior del cerchio A, è manifesto, esso cerchio A esser maggiore del poligono B, suo isoperimetro, ed in consequenza massimo di tutti i poligoni regolari suoi isoperimetri. Quanto all’altra parte, cioè di provare che de i po- ligoni circoscritti al medesimo cerchio, quello di manco lati sia maggior di quello di più lati; ma che all'incontro, de i poligoni isoperimetri quello di pit lati sia maggiore di quello di manco lati; dimostreremo cosî. Nel cerchio, DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 147 il cui centro O, semidiametro O A, sia la tangente A D, ed in essa pongasi, per esempio, A D esser la metà del lato del pentagono circoscritto, ed A C metà del lato del- l’ettagono, e tirinsi le rette O GC, OF D, e, centro O, intervallo O C, descrivasi l'arco E CI. E perché il trian- golo DOC è maggiore del settore E OC, e ’1 settore COI maggiore del triangolo C O A, maggior proporzione ara il triangolo DO C al triangolo CO A, che ’l settore E OC al settore COI, cioè che ’l settore FOG al set- tore GOA; e componendo e permutando, il triangolo DOA al settore FO A_ ar maggior proporzione che il triangolo C O A al settore GO A, e dieci triangoli DO A a dieci settori FO A aranno maggior proporzione che quattordici triangoli CO A a quattordici settori GO A, cioè il pentagono circoscritto arà maggior proporzione al cerchio che non gli ha l’ettagono; e però il pentagono sara maggior dell’ettagono. Intendansi ora un ettagono ed un pentagono isoperimetri al medesimo cerchio: dico, l’et- tagono esser maggior del pentagono. Imperò che, essendo l’istesso cerchio medio proporzionale tra ’1 pentagono circoscritto e "1 pentagono suo isoperimetro, e parimente medio tra ’l circoscritto e l’isoperimetro ettagono; essen- dosi provato, il circoscritto pentagono esser maggiore del circoscritto ettagono; avra esso pentagono maggior pro- porzione al cerchio che l’ettagono, cioè il cerchio ar maggior proporzione al suo isoperimetro pentagono che all’isoperimetro ettagono: adunque il pentagono è minore dell’isoperimetro ettagono: che si doveva dimostrare. SAGR. Gentilissima dimostrazione e molto acuta e che ritiene una quasi contradizion nel primo aspetto; poiché la cagione dell’esser il poligono di più lati maggior del suo isoperimetro di manco lati, proviene dall’esser il circonscritto di più lati minor del circonscritto di manco lati. Ma dove siamo trascorsi a ingolfarci nella geometria? mentre eramo su ‘1 considerare le difficoltà promosse dal 148 GALILEO GALILEI Sig. Simplicio, che veramente son di gran considera- zione; ed in particolare quella della condensazione mi par durissima. SAL. Se la condensazione e la rarefazzione son moti opposti, dove si vegga una immensa rarefazzione, non si potrà negare una non men grandissima condensazione: ma rarefazzioni immense, e, quel che accresce la mara- viglia, quasi che momentanee, le veggiamo noi tutto ‘l giorno. E quale sterminata rarefazzione è quella di una poca quantità di polvere d’artiglieria, risoluta in una mole vastissima di fuoco? e quale, oltre a questa, l’'espan- sione, direi quasi senza termine, della sua luce? E se quel fuoco e questo lume si riunissero insieme, che pur non è impossibile, poiché dianzi stettero dentro quel piccolo spazio, qual condensamento sarebbe questo? Voi, discor- rendo. troverete mille di tali rarefazzioni, che sono molto pia in pronto ad esser osservate che le condensazioni, perché le materie dense son più trattabili e sottoposte a i nostri sensi, che ben maneggiamo le legne e le vediamo risolvere in fuoco e in luce, ma non cosî veggiamo il fuoco e ’1 lume condensarsi a costituire il legno; veg- giamo i frutti, i fiori e mille altre solide materie risolversi in gran parte in odori, ma non cosî osserviamo gli atomi odorosi concorrere alla costituzione de i solidi odorati. Ma dove manca la sensata osservazione, si deve supplir col discorso, che basterà per farci capaci non men del moto alla rarefazzione e resoluzione de i solidi, che alla condensazione delle sustanze tenui e rarissime. In oltre, noi trattiamo come si possa far la condensazione e rare- fazzione de i corpi che si possono rarefare e condensare, specolando in qual maniera ciò possa esser fatto senza l’introduzzion del vacuo e della penetrazione de i corpi; il che non esclude che in natura possano esser materie che non ammettono tali accidenti, ed in consequenza non danno luogo a quelli che voi chiamate inconvenienti e DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 149 impossibili. E finalmente, Sig. Simplicio, io, in grazia di voi altri, Signori filosofi, mi sono affaticato in specolare come si possa intendere, farsi la condensazione e la ra- refazzione senza ammetter la penetrazione de i corpi e l’introduzzione de gli spazii vacui, effetti da voi negati ed aborriti; che quando voi gli voleste concedere, io non vi sarei cosi duro contradittore. Però, o ammettete questi inconvenienti, o gradite le mie specolazioni, o trovatene di più aggiustate. SAGR. Alla negativa della penetrazione son io del tutto con i filosofi peripatetici. A quella del vacuo vorrei sentir ben ponderare la dimostrazione d’Aristotele, con la quale ei l’impugna, e quello che voi, Sig. Salviati, gli opponete. Il Sig. Simplicio mi farà grazia di arrecar puntualmente la prova del Filosofo. e voi, Sig. Salviati, la risposta. SIMPL. Aristotele, per quanto mi sovviene, insurge contro alcuni antichi, i quali introducevano il vacuo come necessario per il moto, dicendo che questo senza quello non si potrebbe fare. A questo contrapponendosi Aristo- tele, dimostra che. all’opposito, il farsi (come veggiamo) il moto distrugge la posizione del vacuo; e ‘1 suo pro- gresso è tale. Fa due supposizioni: l'una è di mobili diversi in gravità, mossi nel medesimo mezzo; l’altra è dell’istesso mobile mosso in diversi mezzi. Quanto al primo, suppone che mobili diversi in gravità si muovano nell’istesso mezzo con diseguali velocità, le quali man- tengano tra di loro la medesima proporzione che le gra- vità: si che, per esempio, un mobile dieci volte più grave di un altro si muova dieci volte piîù velocemente. Nel- l’altra posizione piglia che le velocità del medesimo mo- bile in diversi mezzi ritengano tra di loro la proporzione contraria di quella che hanno le grossezze o densità di essi mezzi; talmente che, posto, v. g., che la crassizie dell’acqua fusse dieci volte maggiore di quella dell’aria, 150 GALILEO GALILEI vuole che la velocità nell'aria sia dieci volte più che la velocità nell'acqua. E da questo secondo supposto trae la dimostrazione in cotal forma: Perché la tenuità del vacuo supera d’infinito intervallo la corpulenza, ben che sotti- lissima, di qualsivoglia mezzo pieno, ogni mobile che nel mezzo pieno si movesse per qualche spazio in qualche tempo, nel vacuo dovrebbe muoversi in uno instante; ma farsi moto in' uno instante è impossibile; adunque darsi il vacuo in grazia del moto è impossibile. SAL. L'argomento si vede che è ad hominem, cioè contro a quelli che volevano il vacuo come necessario per il moto: che se io concederò l'argomento come conclu- dente, concedendo insieme che nel vacuo non si farebbe il moto, la posizion del vacuo, assolutamente presa e non in relazione al moto, non vien destrutta. Ma per dire quel che per avventura potrebber rispondere quegli an- tichi, acciò meglio si scorga quanto concluda Ja dimostra- zione d’Aristotele, mi par che si potrebbe andar contro a gli assunti di quello, negandogli amendue. È quanto al primo, io grandemente dubito che Aristotele non speri- mentasse mai quanto sia vero che due pietre, una più srave dell'altra dieci volte, lasciate nel medesimo instante cader da un'altezza, v. g., di cento braccia, fusser tal- mente differenti nelle lor velocità, che all’arrivo della maggior in terra, l’altra si trovasse non avere né anco sceso dieci braccia. o SIMPL. Si vede pure dalle sue parole ch’ei mostra d’averlo sperimentato, perché ei dice: Veggiamo il più grave; or quel vedersi accenna l’averne fatta l'esperienza. SAGR. Ma io, Sig. Simplicio, che n'ho fatto la prova, vi assicuro che una palla d’artiglieria, che pesi cento, du- sento e anco più libbre, non anticiperà di un palmo so- lamente l’arrivo in terra della palla d'un moschetto, che ne pesi una mezza, venendo anco dall’altezza di dugento braccia. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 151 SAL. Ma, senz’altre esperienze, con breve e conclu- dente dimostrazione possiamo chiaramente provare, non esser vero che un mobile più grave si muova pit veloce- mente d'un altro men grave, intendendo di mobili del- l'istessa materia, ed in somma di quelli de i quali parla Aristotele. Però ditemi, Sig. Simplicio, se voi ammettete che di ciascheduno corpo grave cadente sia una da na- tura determinata velocità, si che accrescergliela o dimi- nuirgliela non si possa se non con usargli violenza o opporgli qualche impedimento. SIMPL. Non si può dubitare che l’istesso mobile nel- l’istesso mezzo abbia una statuita e da natura determi- nata velocità, la quale non se gli possa accrescere se non con nuovo impeto conferitogli, o diminuirgliela salvo che con qualche impedimento che lo ritardi. SAL. Quando dunque noi avessimo due mobili, le na- turali velocità de i quali fussero ineguali, è manifesto che se noi congiugnessimo il più tardo col più veloce, questo dal più tardo sarebbe in parte ritardato, ed il tardo in parte velocitato dall’altro piti veloce. Non concorrete voi meco in quest’opinione? SIMPL. Parmi che cosi debba indubitabilmente seguire. SAL. Ma se questo è, ed è insieme vero che una pietra grande si muova, per esempio, con otto gradi di velo- cità, ed una minore con quattro, adunque, congiugnendole amendue insieme, il composto di loro si moverà con ve- locità minore di otto gradi: ma le due pietre, congiunte insieme, fanno una pietra maggiore che quella prima, che si moveva con otto gradi di velocità: adunque questo composto (che pure è maggiore che quella prima sola) si muoverà più tardamente che la prima sola, che è minore: che è contro alla vostra supposizione. Vedete dunque come dal suppor che ’1 mobile piti grave si muova pit veloce- mente del men grave, io vi concludo, il più grave muo- versi men velocemente. 152 GALILEO GALILEI SIMPL. Io mi trovo avviluppato, perché mi par pure che la pietra minore aggiunta alla maggiore le aggiunga peso, e. aggiugnendole peso, non so come non debba ag- ciugnerle velocità, o almeno non diminuirgliela. SAL. Qui commettete un altro errore, Sig. Simplicio, perché non è vero che quella minor pietra accresca peso alla maggiore. SIMPL. Oh, questo passa bene ogni mio concetto. SAL. Non lo passerà altrimente, fatto ch'io v'abbia ac- corto dell’equivoco nel quale voi andate fluttuando: però avvertite che bisogna distinguere i gravi posti in moto da . i medesimi costituiti in quiete. Una gran pietra messa nella bilancia non solamente acquista peso maggiore col soprapporgli un’altra pietra, ma anco la giunta di un pennecchio di stoppa la farà pesar più quelle sei o dieci once che peserà la stoppa: ma se voi lascerete libera- mente cader da un'altezza la pietra legata con la stoppa. credete voi che nel moto la stoppa graviti sopra la pietra, onde gli debba accelerar il suo moto, o pur credete che ella la ritardera, sostenendola in parte? Sentiamo gravi- tarci su le spalle mentre vogliamo opporci al moto che farebbe quel peso che ci sta addosso; ma se noi scendes- simo con quella velocità che quel tal grave naturalmente scenderebbe, in che modo volete che ci prema e graviti sopra? Non vedete che questo sarebbe un voler ferir con la lancia colui che vi corre innanzi con tanta velocità. con quanta o con maggiore di quella con la quale voi lo seguite? Concludete pertanto che nella libera e naturale caduta la minor pietra non gravita sopra la maggiore, ed in consequenza non le accresce peso, come fa nella quiete. SIMPL. Ma chi posasse la maggior sopra la minore? SAL. Le accrescerebbe peso. quando il suo moto fusse pit veloce: ma già si è concluso che quando la minore fusse pit tarda, ritarderebbe in parte la velocità della maggiore, tal che il loro composto si moverebbe men ve- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 153 loce, essendo maggiore dell’altra; che è contro al vostro assunto. Concludiamo per ciò, che i mobili grandi e i pic- coli ancora, essendo della medesima gravità in spezie, si muovono con pari velocità. SIMPL. Il vostro discorso procede benissimo vera- mente: tuttavia mi par duro a credere che una lagrima di piombo si abbia a muover cosî veloce come una palla d'artiglieria. SAL. Voi dovevi dire, un grano di rena come una ma- cina da guado. Io non vorrei, Sig. Simplicio, che voi fa- ceste come molt’altri fanno, che, divertendo il discorso dal principale intento, vi attaccaste a un mio detto che mancasse dal vero quant'è un capello, e che sotto questo capello voleste nasconder un difetto d’un altro, grande quant'una gomona da nave. Aristotele dice: « Una palla di ferro di cento libbre, cadendo dall’altezza di cento braccia, arriva in terra prima che una di una libbra sia scesa un sol braccio »; io dico ch'’ell’arrivano nell’istesso tempo; voi trovate, nel farne l’esperienza, che la mag- giore anticipa due dita la minore, cioè che quando la grande percuote in terra, l’altra ne è lontana due dita: ora vorreste dopo queste due dita appiattare le novan- tanove braccia di Aristotele, e parlando solo del mio minimo errore, metter sotto silenzio l’altro massimo. Ari- stotele pronunzia che mobili di diversa gravità nel me- desimo mezzo si muovono (per quanto depende dalla gravità) con velocitadi proporzionate a i pesi loro, e l’esemplifica con mobili ne i quali si possa scorgere il puro ed assoluto effetto del peso, lasciando l'altre con- siderazioni si delle figure come de i minimi momenti, le quali cose grande alterazione ricevono dal mezzo, che al- tera il semplice effetto della sola gravità: che perciò si vede l’oro, gravissimo sopra tutte l’altre materie, ridotto in una sottilissima foglia andar vagando per aria; l’istesso fanno i sassi pestati in sottilissima polvere. Ma se voi 154 GALILEO GALILEI volete mantenere la proposizione universale, bisogna che voi mostriate, la proporzione delle velocità osservarsi in tutti i gravi, e che un sasso di venti libbre si muova dieci volte più veloce che uno di due; il che vi dico esser falso, e che, cadendo dall’altezza di cinquanta o cento braccia, arrivano in terra nell’istesso momento. SIMPL. Forse da grandissime altezze di migliaia di braccia seguirebbe quello che in queste altezze minori non si vede accadere. SAL. Se Aristotele avesse inteso questo, voi gli addos- sereste un altro errore, che sarebbe una bugia; perché, non si trovando in terra tali altezze perpendicolari, chiara cosa è che Aristotele non ne poteva aver fatta esperienza: e pur ci vuol persuadere d’averla fatta, mentre dice che tale effetto si vede. SIMPL. Aristotele veramente non si serve di questo principio, ma di quell’altro, che non credo che patisca queste difficoltà. SAL. E l’altro ancora non è men falso di questo; e mi maraviglio che per voi stesso non penetriate la fal- lacia, e che non v'accorghiate che quando fusse vero che l’istesso mobile in mezzi di differente sottilità e rarità, ed in somma di diversa cedenza, quali, per esempio, son l’acqua e l’aria, si movesse con velocità nell'aria mag- giore che nell'acqua secondo la proporzione della rarità dell’aria a quella dell’acqua, ne seguirebbe che ogni mo- bile che scendesse per aria, scenderebbe anco nell'acqua: il che è tanto falso, quanto che moltissimi corpi scendono nell'aria, che nell'acqua non pur non descendono, ma sor- montano all'in su. SIMPL. To non intendo la necessità della vostra con- sequenza; e pit dirò che Aristotele parla di quei mobili gravi che descendono nell’un mezzo e nell’altro, e non di quelli che scendono nell’aria, e nell'acqua vanno all'in su. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 155 SAL. Voi arrecate per il Filosofo di quelle difese che egli assolutamente non produrrebbe, per non aggravar il primo errore. Però ditemi se la corpulenza dell'acqua, o quel che si sia che ritarda il moto, ha qualche propor- zione alla corpulenza dell’aria, che meno lo ritarda; ed avendola, assegnatela a vostro beneplacito. SIMPL. Halla, e ponghiamo ch’ella sia in proporzione decupla; e che però la velocità di un grave che descenda in amendue gli elementi, sarà dieci volte più tardo nel- l’acqua che nell’aria. SAL. Piglio adesso un di quei gravi che vanno in giù nell'aria, ma nell'acqua no, qual sarebbe una palla di legno, e vi domando che voi gli assegniate qual velocità più vi piace, mentre scende per aria. SIMPL. Ponghiamo che ella si muova con venti gradi di velocità. SAL. Benissimo. Ed è manifesto che tal velocità a qualche altra minore può aver la medesima proporzione che la corpulenza dell’acqua a quella dell’aria, e che questa sarà la velocità di due soli gradi; tal che vera- mente, a filo e a dirittura, conforme all’assunto d’Aristo- tele, si doverebbe concludere che la palla di legno, che nell’aria, dieci volte pit cedente dell’acqua, si muove scendendo con venti gradi di velocità, nell'acqua do- vrebbe scendere con due, e non venir a galla dal fondo, come fa: se già voi non voleste dire che nell’acqua il venir ad alto, nel legno, sia l’istesso che ‘1 calare a basso con due gradi di velocità; il che non credo. Ma gia che la palla del legno non cala al fondo, credo pure che mi con- cederete che qualche altra palla d’altra materia, diversa dal legno, si potrebbe trovare, che nell’acqua scendesse con due gradi di velocità. SIMPL. Potrebbesi senza dubbio, ma di materia no- tabilmente più grave del legno. 156 GALILEO GALILEI SAL. Questo è quel ch'io vo cercando. Ma questa se- conda palla, che nell'acqua descende con due gradi di velocità, con quanta velocità descenderà nell’aria? Bi- sogna (se volete servar la regola d'Aristotele) che rispon- diate che si moverà con venti gradi: ma venti gradi di velocità avete voi medesimo assegnati alla palla di legno: adunque questa e l’altra assai più grave si moveranno per l’aria con egual velocità. Or come accorda il Filosofo questa conclusione con l’altra sua, che i mobili di diversa gravità nel medesimo mezzo si muovano con diverse ve- locità, e diverse tanto quanto le gravità loro? Ma senza molto profonde contemplazioni, come avete voi fatto a non osservar accidenti frequentissimi e palpabilissimi, e non badare a due corpi che nell'acqua si moveranno l'uno cento volte più velocemente dell’altro, ma che nel- l’aria poi quel più veloce non supererà l’altro di un sol centesimo? come, per esempio, un uovo di marmo scen- derà nell'acqua cento volte più presto che alcuno di gal- lina, che per l’aria nell’altezza di venti braccia non l’anticiper4 di quattro dita; ed in somma tal grave andrà al fondo in tre ore in dieci braccia d’acqua, che in aria le passerà in una battuta o due di polso, dalla quale esperienza seguirebbe che la densità dell'acqua supe- rasse a più di mille doppi quella dell’aria: ed all’in- contro, un altro corpo (qual sarebbe una palla di piombo) passerà nell’acqua le medesime 10 braccia in tempo per avventura poco più che doppio del tempo nel quale pas- serà altrettanto spazio per l’aria; talché da questa se- conda esperienza si dovrebbe concludere che la densità dell’acqua fosse poco più che doppia di quella dell’aria. E qui so ben, Sig. Simplicio, che voi comprendete che non ci ha luogo distinzione o risposta veruna. Conclu- diamo per tanto, che tale argomento non conclude nulla contro al vacuo; e quando concludesse, distruggerebbe solamente gli spazii notabilmente grandi, quali né io né DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 157 credo che quelli antichi supponessero naturalmente darsi, se ben forse con violenza si possan fare, come par che da varie esperienze si raccolga, le quali troppo lungo sa- rebbe il voler al presente arrecare. SAGR. Vedendo che il Sig. Simplicio tace, piglierò io campo di dire alcuna cosa. Già che assai apertamente avete dimostrato, come non è altrimenti vero che mobili disegualmente gravi si muovano nel medesimo mezzo con velocità proporzionate alle gravità loro, ma con eguale, intendendo de i gravi dell’istessa materia o vero del- l’istessa gravità in specie, ma non già (come credo) di gravità differenti in specie (perché non penso che voi in- tendiate di concluderci ch’una palla di sughero si muova con pari velocità ch’una di piombo); ed avendo, di pit, dimostrato molto chiaramente, come non è vero che ’l me- desimo mobile in mezzi di diverse resistenze ritenga nelle velocità e tardità sue la medesima proporzione che le resistenze; a me sarebbe cosa gratissima il sentire, quali siano le proporzioni che nell’un caso e nell’altro vengono osservate. SAL. I quesiti son belli, ed io ci ho molte volte pen- sato: vi dirò il discorso fattoci attorno, e quello che ne ho in ultimo ritratto. Dopo essermi certificato, non esser vero che il medesimo mobile in mezzi di diversa resi- stenza osservi nella velocità la proporzione delle cedenze di essi mezzi; né meno che nel medesimo mezzo mobili di diversa gravità ritengano nelle velocità loro la propor- zione di esse gravità (intendendo anco delle gravità di- verse in specie); cominciai a comporre insieme amendue questi accidenti, avvertendo quello che accadesse de i mobili differenti di gravità posti in mezzi di diverse re- sistenze: e m’accorsi, le disegualità delle velocità trovarsi tuttavia maggiori ne i mezzi più resistenti che ne i più cedenti, e ciò con diversità tali, che di due mobili che scendendo per aria pochissimo differiranno in velocità di 158 GALILEO GALILEI moto, nell'acqua l’uno si movera dieci volte più veloce dell'altro: anzi che tale che nell'aria velocemente de- scende, nell'acqua non solo non scenderà, ma restera del tutto privo di moto, e, quel che è più, si moverà all'in su: perché si potrà tal volta trovare qualche sorte di legno, o qualche nodo o radica di quello, che nell'acqua potrà stare in quiete, che nell’aria velocemente descenderà. SAGR. Io pit volte mi son messo con una estrema flemma per veder di ridurre una palla di cera, che per se stessa non va a fondo, con l’aggiugnergli grani di rena, a segno tale di gravità simile all'acqua, che nel mezzo di quella si fermasse; né mai, per diligenza usata, mi suc- cesse il poterlo conseguire: onde non so se altra materia solida si ritrovi tanto naturalmente simile in gravità al- l’acqua, che, posta in essa, in ogni luogo potesse fermarsi. SAL. Sono in questo, come in mille altre operazioni, assai più diligenti molti animali, che non siamo noi altri. E nel vostro caso i pesci vi arebber potuto porger qualche documento, essendo in questo esercizio cosi dotti, che ad arbitrio loro si equilibrano non solo con un'acqua, ma «con differenti notabilmente o per propria natura o per una sopravvenente torbida o per salsedine, che fa diffe- renza assai grande; si equilibrano, dico, tanto esatta- mente, che senza punto muoversi restano in quiete in ogni luogo; e ciò, per mio credere, fanno eglino serven- dosi dello strumento datogli dalla natura a cotal fine, cioè di quella vescichetta che hanno in corpo, la quale per uno assai angusto meato risponde alla lor bocca, e per quello a posta loro o mandano fuori parte dell'aria che in dette vesciche si contiene, o, venendo col nuoto a galla, altra ne attraggono, rendendosi con tale arte or più or meno gravi dell’acqua, ed a lor beneplacito equi- librandosegli. SAGR. Io con un altro artifizio ingannai alcuni amici, appresso i quali mi ero vantato di ridurre quella palla DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 159 di cera al giusto equilibrio con l’acqua; ed avendo messo nel fondo del vaso una parte di acqua salata, e sopra quella della dolce, mostrai loro la palla che a mezz’acqua si fermava, e spinta nel fondo o sospinta ad alto né in questo né in quel sito restava, ma ritornava nel mezzo. SAL. Non è cotesta esperienza priva di utilità: perché trattandosi da i medici in particolare delle diverse qua- lità di acque, e tra l’altre principalmente della legge- rezza o gravità più di questa che di quella, con una simil palla, aggiustata si che resti ambigua, per cosî dire, tra lo scendere e ’1 salire in un'acqua, per minima che sia la differenza di peso tra due acque, se, in una, tal palla scenderà, nell’altra, che sia più grave, salirà; ed è tal- mente esatta cotale esperienza, che la giunta di due grani di sale solamente, che si mettino in sei libbre d’acqua, farà risalire dal fondo alla superficie quella palla che vi era pur allora scesa. E più vi voglio dire, in conferma- zione dell’esattezza di questa esperienza ed insieme per chiara prova della nulla resistenza dell’acqua all’esser di- visa, che non solamente l’ingravirla, con la mistione di qualche materia più grave di lei, induce tanto notabil differenza, ma il riscaldarla o raffreddarla un poco pro- duce il medesimo effetto, e con sî sottile operazione, che l’infonder quattro gocciole d’altra acqua un poco più calda o un poco più fredda delle sei libbre, farà che la palla vi scenda o vi sormonti: vi scenderà infondendovi la calda, e monterà per l’infusione della fredda. Or ve- dete quanto s’'ingannino quei filosofi che voglion metter nell'acqua viscosità o altra congiunzione di parti, che la facciano resistente alla divisione e penetrazione. SAGR. Veddi molto concludenti discorsi intorno a questo argomento in un trattato del nostro Accademico: tuttavia mi resta un gagliardo scrupolo, il quale non so rimuovere; perché se nulla di tenacità e coerenza risiede tra. le parti dell’acqua, come possono sostenersi assai 160 GALILEO GALILEI srandi pezzi e molto rilevati, in particolare sopra le foglie de i cavoli, senza spargersi e spianarsi? SAL. Ancor che vero sia che colui che ha dalla sua la conclusione vera, possa risolvere tutte l'instanze che ven- sono opposte in contrario, non però mi arrogherei io il poter ciò fare; né la mia impotenza deve denigrare la candidezza della verità. Io, primieramente, vi confesso che non so come vadia il negozio del sostenersi quei globi d’acqua assai rilevati e grandi, se bene io so di certo che da tenacità interna, che sia tra le sue parti, ciò non de- riva; onde resta necessario che la cagione di cotal effetto risegga fuori. Che ella non sia interna, oltre all’esperienze mostrate ve lo posso confermare con un’altra efficacis- sima. Se le parti di quell’acqua che, rilevata, si sostiene mentre è circondata dall’aria, avessero cagione interna per ciò fare, molto piti si sosterrebbono circondate che fussero da un mezzo nel quale avessero minor propen- sione di descendere che nell'aria ambiente non hanno: ma un mezzo tale sarebbe ogni fluido più grave dell’aria, come, v. g., il vino; e però infondendo intorno a quel globo d’acqua del vino, se gli potrebbe alzare intorno intorno, senza che le parti dell’acqua, conglutinate dall’interna vi- scosità, si dissolvessero: ma ciò non accad’egli; anzi non prima se gli accosterà il liquore sparsogli intorno, che, senza aspettar che molto se gli elevi intorno, si dissol- verà e spianerà, restandogli di sotto, se sarà vino rosso: è dunque esterna, e forse dell’aria ambiente, la cagione di tale effetto. E veramente si osserva una gran dissen- sione tra l’aria e l’acqua, la quale ho io in un’altra espe- rienza osservata; e questa è, che sio empio d'acqua una palla di cristallo, che abbia un foro angusto quant'è la srossezza d’un fil di paglia, e cosi piena la volto con la bocca all’in già, non però l’acqua, benché gravissima e pronta a scender per aria, e l’aria, altrettanto disposta a salire, come leggerissima, per l’acqua, si accordano, i e ii i n STEFANO DELLA BELLA DISEGNO PER L'EDIZIONE BOLOGNESE DELLE OPERE DI GALILEO (Firenze, Gabinetto delle Stampe agli Uffizî) i (o 0) STI I . n bf Î f i PCI iù pupo? n PR A ia Ton) ; ERA 2 i tr AZ ° MOI si 1 200 PRO ; MI AI RIIE kei LI N) n 5 d, » ML tc) (T Ò si pri Dassi Dee : ti pv mA DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 161 quella a scendere uscendo per il foro, e questa a salire entrandovi, ma restano amendue ritrose e contumaci; al- l’incontro poi, se io presenterò a quel foro un vaso con del vino rosso, che quasi insensibilmente è men grave del- l’acqua, lo vedremo subito con tratti rosseggianti lenta- mente ascendere per mezzo l’acqua, e l’acqua con pari tardità scender per il vino, senza punto mescolarsi, sin che finalmente la palla si empirà tutta di vino e l’acqua calerà tutta nel fondo del vaso di sotto. Or che si deve qui dire o che argumentarne, fuor che una disconvenienza tra l’acqua e l’aria, occulta a me, ma forse... SIMPL. Mi vien quasi da ridere nel veder la grande antipatia che ha il Sig. Salviati con l’antipatia, che né pur vuol nominarla; e pur è tanto accommodata a scior la difficoltà. SAL. Or sia questa, in grazia del Sig. Simplicio, la soluzione del nostro dubbio: e lasciato il digredire, tor- niamo al nostro proposito. Veduto come la differenza di velocità, ne i mobili di gravità diverse, si trova esser som- mamente maggiore ne i mezzi più e più resistenti; ma che pi? nel mezzo dell’argento vivo l’oro non solamente va in fondo più velocemente del piombo, ma esso solo vi descende, e gli altri metalli e pietre tutti vi si muo- vono in su e vi galleggiano, dove che tra palle d’oro, di piombo, di rame, di porfido, o di altre materie gravi, quasi del tutto insensibile sarà la disegualità del moto per aria, ché sicuramente una palla d’oro nel fine della scesa di cento braccia non preverrà una di rame di quattro dita: veduto, dico, questo, cascai in opinione che se si levasse totalmente la resistenza del mezzo, tutte le materie descenderebbero con eguali velocità. SIMPL. Gran detto è questo, Sig. Salviati. Io non cre- derò mai che nell’istesso vacuo, se pur vi si desse il moto, un fiocco di lana si movesse cosî veloce come un pezzo di piombo. pid 11. - G. Galilei, Opere - Il. 162 GALILEO GALILEI SAL. Pian piano, Sig. Simplicio: la vostra difficoltà non è tanto recondita, né io cosi inavveduto, che si debba credere che non mi sia sovvenuta, e che in consequenza io non vi abbia trovato ripiego. Però, per mia dichiara- zione e vostra intelligenza, sentite il mio discorso. Noi siamo su "1 volere investigare quello che accaderebbe a i mobili differentissimi di peso in un mezzo dove la resi- stenza sua fusse nulla, si che tutta la differenza di velo- cità, che tra essi mobili si ritrovasse, referir si dovesse alla sola disuguaglianza di peso; e perché solo uno spazio del tutto voto d’aria e di ogni altro corpo, ancor che tenue e cedente, sarebbe atto a sensatamente mostrarci quello che ricerchiamo, gié che manchiamo di cotale spazio, an- dremo osservando ciò che accaggia ne i mezzi più sottili e meno resistenti, in comparazione di quello che si vede accadere ne gli altri manco sottili e più resistenti: ché se noi troveremo in fatto, i mobili differenti di gravità meno e meno differir di velocità secondo che in mezzi più e più cedenti si troveranno, e che finalmente, ancor che estremamente diseguali di peso, nel mezzo più d'ogni altro tenue, se ben non voto, piccolissima si scorga e quasi inosservabile la diversità della velocità, parmi che ben potremo con molto probabil coniettura credere che nel vacuo sarebbero le velocità loro del tutto eguali. Per tanto consideriamo ciò che accade nell’aria: dove, per aver una figura di superficie ben terminata e di materia leggierissima, voglio che pigliamo una vescica gonfiata, nella quale l’aria che vi sara dentro peserà, nel mezzo dell’aria stessa, niente o poco, perché poco vi si potrà comprimere; talché la gravità è solo quella poca della stessa pellicola, che non sarebbe la millesima parte del peso d'una mole di piombo grande quanto la medesima vescica gonfiata. Queste, Sig. Simplicio, lasciate dall’al- tezza di quattro o sei braccia, di quanto spazio stime- reste che ‘1 piombo fusse per anticipare la vescica nella DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 163 sua scesa? siate sicuro che non l’anticiperebbe del triplo, né anco del doppio, se ben già l’aresti fatto mille volte più veloce. SIMPL. Potrebbe esser che nel principio del moto, cioè nelle prime quattro o sei braccia, accadesse cotesto che dite: ma nel progresso ed in una lunga continua- zione, credo che ‘1 piombo se la lascerebbe indietro non solamente delle dodici parti dello spazio le sei, ma anco le otto e le dieci. SAL. Ed io ancora credo l’istesso, e non dubito che in distanze grandissime potesse il piombo aver passato cento miglia di spazio, prima che la vescica ne avesse passato un solo: ma questo, Sig. Simplicio mio, che voi proponete come effetto contrariante alla mia proposi- zione, è quello che massimamente la conferma. È (torno a dire) l'intento mio dichiarare, come delle diverse ve- locità di mobili di differente gravità non ne sia altra- mente causa la diversa gravità, ma che ciò dependa da accidenti esteriori ed in particolare dalla resistenza del mezzo, si che, tolta questa, tutti i mobili si moverebber con i medesimi gradi di velocità: e questo deduco io prin- cipalmente da quello che ora voi stesso ammettete e che è verissimo, cioè che di mobili differentissimi di peso le velocità più e più differiscono secondo che maggiori e maggiori sono gli spazii che essi van trapassando; effetto che non seguirebbe quando ei dependesse dalle differenti gravità. Imperò che, essendo esse sempre le medesime, medesima dovrebbe mantenersi sempre la proporzione tra gli spazii passati, la qual proporzione noi veggiamo andar, nella continuazion del moto, sempre crescendo; poiché l’un mobile gravissimo nella scesa d’un braccio non anticiperà il leggierissimo della decima parte di tale spazio, ma nella caduta di dodici braccia lo preverrà della terza parte, in quella di cento l’anticiperà di "/, etc. 164 | GALILEO GALILEI SIMPL. Tutto bene: ma, seguitando le vostre vestigie. se la differenza di peso in mobili di diversa gravità non può cagionare la mutazion di proporzione nelle velocità loro, atteso che le gravità non si mutano, né anco il mezzo, che sempre si suppone mantenersi l’istesso, potrà cagionar alterazion alcuna nella proporzione delle ve- locità. SAL. Voi acutamente fate instanza contro al mio detto, la quale è ben necessario di risolvere. Dico per tanto che un corpo grave ha da natura intrinseco prin- cipio di muoversi verso ’1 comun centro de i gravi, cioè del nostro globo terrestre, con movimento continuamente accelerato, ed accelerato sempre egualmente, cioè che in tempi eguali si fanno aggiunte eguali di nuovi momenti e gradi di velocità. E questo si deve intender verificarsi tutta volta che si rimovessero tutti gl'impedimenti acci- dentarii ed esterni. tra i quali uno ve ne ha che noi ri- muover non possiamo, che è l’impedimento del mezzo pieno, mentre dal mobile cadente deve esser aperto e lateralmente mosso: al qual moto trasversale il mezzo, benché fluido cedente e quieto, si oppone con resistenza or minore ed or maggiore e maggiore, secondo che len- tamente o velocemente ei deve aprirsi per dar il transito al mobile; il quale, perché, come ho detto, si va per sua natura continuamente accelerando, vien per conseguenza ad incontrar continuamente resistenza maggiore nel mezzo, e però ritardamento e diminuzione nell'acquisto di nuovi gradi di velocità, sf che finalmente la velocità perviene a tal segno, e la resistenza del mezzo a tal grandezza, che, bilanciandosi fra loro, levano il più accelerarsi, e ri- ducono il mobile in un moto equabile ed uniforme, nel quale egli continua poi di mantenersi sempre. È dunque, nel mezzo, accrescimento di resistenza, non perché si muti la sua essenza, ma perché si altera la velocità con la quale ei deve aprirsi e lateralmente muoversi per cedere DIALOGHI DELLE NUOVE. SCIENZE 165 il passaggio al cadente, il quale va successivamente ac- celerandosi. Ora il vedere che la resistenza dell’aria al poco momento della vescica è grandissima, ed al gran peso del piombo è piccolissima, mi fa tener per fermo che chi la rimovesse del tutto, con l’arrecare alla vescica grandissimo commodo, ma ben poco al piombo, le velo- cità loro si pareggerebbero. Posto dunque questo prin- cipio, che nel mezzo dove, o per esser vacuo o per altro, non fusse resistenza veruna che ostasse alla velocità del moto. si che di tutti i mobili le velocità fusser pari; po- tremo assai congruamente assegnar le proporzioni delle velocità di mobili simili e dissimili nell’istesso ed in di- versi mezzi pieni, e però resistenti: e ciò conseguiremo col por mente quanto la gravità del mezzo detrae alla gravità del mobile, la qual gravità è lo strumento col quale il mobile si fa strada, rispingendo le parti del mezzo alle bande, operazione che non accade nel mezzo vacuo, e che però differenza nissuna si ha da attendere dalla diversa gravità; e perché è manifesto, il mezzo de- trarre alla gravità del corpo da lui contenuto quant'è il peso d’altrettanta della sua materia, scemando con tal proporzione le velocità de i mobili, che nel mezzo non resistente sarebbero (come si è supposto) eguali, aremo l'intento. Come, per esempio, posto che il piombo sia dieci mila volte più grave dell’aria, ma l’ebano mille volte solamente: delle velocità di queste due materie, che, assolutamente prese, cioè rimossa ogni resistenza, sareb- bero eguali, l’aria al piombo detrae delli dieci mila gradi uno, ma all’ebano suttrae de’ mille gradi uno, o vogliam dire de i dieci mila dieci: quando dunque il piombo e l’ebano scenderanno per aria da qualsivoglia altezza, la quale, rimosso ‘1 ritardamento dell’aria, avrebbon passata nell’istesso tempo, l’aria alla velocità del piombo detrarrà de i dieci mila gradi uno; ma all’ebano detrae de, i dieci mila dieci; che è quanto a dire, che divisa quella altezza, 166 GALILEO GALILEI dalla quale si partono tali mobili, in dieci mila parti; il piombo arriverà in terra restando in dietro l’ebano dieci, anzi pur nove, delle dette dieci mila parti. E che altro è questo, salvo che, cadendo una palla di piombo da una torre alta dugento braccia, trovar che ella anticiperà una d’ebano. di manco di quattro dita? Pesa l’ebano mille volte più dell’aria; ma quella vescica cosî gonfia pesa solamente quattro volte tanto: l’aria, dunque, dalla intrin- seca e naturale velocità dell’ebano detrae de’ mille gradi uno; ma a quella che pur della vescica assolutamente sa- rebbe stata l’istessa, l’aria ne toglie delle quattro parti una: allora dunque che la palla d’ebano, cadendo dalla torre, giugnera in terra, la vescica ne avera passati i tre quarti solamente. Il piombo è più grave dell’acqua dodici volte, ma l’avorio il doppio solamente: l’acqua, dunque, alle assolute velocità loro, che sarebbero eguali, toglie al piombo la duodecima parte, ma all’avorio la metà: nell'acqua adunque, quando il piombo arà sceso undici braccia, l’avorio ne arà scese sei. E discorrendo con tal regola, credo che troveremo, l’esperienze molto più aggiustatamente risponder a cotal computo che a quello d’Aristotele. Con simil progresso troveremo la pro- porzione tra le velocità del medesimo mobile in diversi mezzi fluidi, paragonando non le diverse resistenze de i mezzi, ma considerando gli eccessi di gravità del mobile sopra le gravità de i mezzi: v. g., lo stagno è mille volte più grave dell’aria, e dieci pi dell’acqua; adunque, di- visa la velocità assoluta dello stagno in mille gradi, nel- l’aria, che glie ne detrae la millesima parte, si movera con gradi novecento novanta nove, ma nell'acqua con no- vecento solamente, essendo che l’acqua gli detrae solo la decima parte della sua gravità, e l’aria la millesima. Posto un solido poco più grave dell’acqua, qual sarebbe, v. g., il legno di rovere, una palla del quale pesando, diremo, mille dramme, altrettanta acqua ne pesasse no- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 167 vecencinquanta, ma tanta aria ne pesasse due, è mani- festo, che posto che la velocità sua assoluta fusse di mille gradi, in aria resterebbe di novecennovant’otto, ma in acqua solamente cinquanta, atteso che l’acqua de i mille gradi di gravità glie ne toglie novecencinquanta, e glie ne lascia solamente cinquanta: tal solido dunque si mo- verebbe quasi venti volte più velocemente in aria che in acqua, sf come l’eccesso della gravità sua sopra quella dell’acqua è la vigesima parte della sua propria. E qui voglio che consideriamo, che non potendo muoversi in sid nell'acqua se non materie più gravi in spezie di lei, e, per conseguenza, per molte centinaia di volte più gravi dell’aria, nel ricercare qual sia la proporzione delle ve- locità loro in aria e in acqua, possiamo senza notabile errore far conto che l’aria non detragga cosa di momento dalla assoluta gravità, ed in conseguenza dall’'assoluta velocità, di tali materie; onde, speditamente trovato l'ec- cesso della gravità loro sopra la gravità dell’acqua, di- remo, la velocità loro per aria alla velocità loro per acqua aver la medesima proporzione che la loro totale gravità all’eccesso di questa sopra la gravità dell’acqua. Per esempio, una palla d’avorio pesa venti once, altret- tanta acqua pesa once diciasette; adunque la velocità dell’avorio in aria alla sua velocità in acqua è, prossima- mente, come venti a tre. SAGR. Grandissimo acquisto ho fatto in una materia per se stessa curiosa e nella quale, ma senza profitto, ho molte volte affaticata la mente; né mancherebbe altro, per poter anche praticare queste specolazioni, se non il trovar modo di poter venire in cognizione di quanta sia la gravità dell’aria rispetto all'acqua, ed in consequenza all’altre materie gravi. SIMPL. Ma quando si trovasse che l’aria, in vece di gravità, avesse leggerezza, che si dovrebbe dire de gli auti discorsi, per altro molto ingegnosi? 168 GALILEO GALILEI SAL. Converrebbe dire che fussero stati veramente aerei, leggieri e vani. Ma vorrete voi dubitare se l’aria sia grave, mentre avete il testo chiaro d’Aristotele che l’afferma, dicendo che tutti gli elementi, eccetto il fuoco, hanno gravità, anco l’aria stessa? segno di che (soggiugne egli) ne é che l’otro gonfiato pesa più che sgonfiato. SIMPL. Che l’otro o pallone gonfiato pesi pit, cre- derei io che procedesse non da gravità che sia nell’aria, ma ne i molti vapori grossi tra essa mescolati in queste nostre regioni basse; mercé de i quali direi io che cresce la gravità dell’otro. SAL. Non vorrei che lo diceste voi, e molto meno che lo faceste dire ad Aristotele; perché, parlando egli de gli elementi e volendomi persuadere che l'elemento dell’aria è grave, facendomelo veder con l’esperienza, se nel venire alla prova ei mi dicesse: « Piglia un otro e empilo di va- pori grossi, ed osserva che il suo peso crescerà >», io gli direi che più ancora peserebbe chi l’empiesse di semola; ma soggiugnerei dopo, che tali esperienze provano che le semole ed i vapori grossi son gravi, ma quanto all’ele- mento dell’aria resterei nel medesimo dubbio di prima. L'esperienza, dunque, di Aristotele è buona, e la propo- sizion vera. Ma non direi già cosî di cert'altra ragione, presa pure a signo, di un tal filosofo del quale non mi sovviene il nome, ma so che l’ho letta, il quale argomenta, l’aria esser più grave che leggiera, perché più facilmente porta i gravi all’in giù che i leggieri all’in su. SAGR. Bene, per mia fè. Adunque, per questa ra- gione, l’aria sarà molto più grave dell’acqua, avvenga che tutti i gravi son portati più facilmente in giù per aria che per acqua, e tutti i leggieri più agevolmente in questa che in quella; anzi infiniti gravi scendono per l’aria, che nell'acqua ascendono, ed infinite materie sal- gono per acqua, che per aria calano in basso. Ma sia la gravità dell’otro, Sig. Simplicio, o per i vapori grossi o DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 169 per l’aria pura, questo niente osta al proposito nostro, che cerchiamo quel che accade a mobili che si muovono in questa nostra regione vaporosa. Però, ritornando a quello che pit mi preme, vorrei, per intera ed assoluta instruzzione della presente materia, non solo restare assi- curato che l’aria sia (come io tengo per fermo) grave, ma vorrei, se è possibile, saper quanta sia la sua gravità. Però, Sig. Salviati, se avete da sodisfarmi in questo an- cora, vi prego a farmene favore. SAL. Che nell’aria risegga gravità positiva, e non al- trimente, come alcuni hanno creduto, leggerezza, la quale forse in veruna materia non si ritrova, assai conclu- dente argomento ce ne porge l’esperienza del pallone sonfiato, posta da Aristotele; perché se qualità di asso- luta e positiva leggerezza fusse nell'aria, multiplicata e compressa l’aria, crescerebbe la leggerezza, e ‘n conse- quenza la propensione di andare in su: ma l'esperienza mostra l’opposito. Quanto all'altra domanda, che è del modo d’investigare la sua gravità, io l'ho praticato in cotal maniera. Ho preso un fiasco di vetro assai capace e col collo strozzato, al quale ho applicato un ditale di cuoio, legato bene stretto nella strozzatura del fiasco, avendo in capo al detto ditale inserta e saldamente fer- mata un’animella da pallone, per la quale con uno schiz- zatoio ho per forza fatto passar nel fiasco molta quantità d’aria; della quale, perché patisce d'esser assaissimo con- densata, se ne può cacciare due e tre altri fiaschi oltre a quella che naturalmente vi capisce. In una esattissima bilancia ho io poi pesato molto precisamente tal fiasco con l’aria dentrovi compressa, aggiustando il peso con minuta arena. Aperta poi l’animella e dato l'esito al- l’aria, violentemente nel vaso contenuta, e rimessolo in bilancia, trovandolo notabilmente alleggerito, sono an- dato detraendo dal contrappeso tant’arena, salvandola da parte, che la bilancia resti in equilibrio col residuo con- 12, - G. Galilei, Opere - II. 170 GALILEO GALILEI trappeso, cioè col fiasco: e qui non è dubbio che ’1 peso della rena salvata è quello dell’aria che forzatamente fu messa nel fiasco e che ultimamente n'è uscita. Ma tale esperienza sin qui non mi assicura d’altro, se non che l’aria contenuta violentemente nel vaso pesò quanto la salvata arena; ma quanto resolutamente e determinata- mente pesi l’aria rispetto all'acqua o ad altra materia grave, non per ancora so io, né posso sapere, se io non misuro la quantità di quell’aria compressa: ed a questa investigazione bisogna trovar regola, nella quale ho tro- vato di potere in due maniere procedere. L’una delle quali è di pigliar un altro simil fiasco, pur, come ’l primo, strozzato, alla strozzatura del quale sia strettamente le- gato un altro ditale, che dall’altra sua testa abbracci l’animella dell’altro, e intorno a quella con saldissimo nodo sia legato. Questo secondo fiasco convien che nel fondo sia forato, in modo che per tal foro si possa mettere uno stile di ferro, con il quale si possa, quando vorremo, aprir la detta animella per dar l’esito alla soverchia aria del- l’altro vaso, pesata ch’ella sia: ma deve questo secondo fiasco esser pieno d’acqua. Apparecchiato il tutto nella maniera detta ed aprendo con lo stile l’animella, l’aria, uscendo con impeto e passando nel vaso dell’acqua, la cacceràa fuora per il foro del fondo; ed è manifesto, la quantità dell’acqua che in tal guisa verrà cacciata, esser eguale alla mole e quantità d’aria che dall'altro vaso sarà uscita. Salvata dunque tale acqua, e tornato a pesare il vaso alleggerito dell’aria compressa (il quale suppongo che fusse pesato anche prima, con detta aria sforzata), e detratto, al modo già dichiarato, l'arena superflua, è ma- nifesto, questa essere il giusto peso di tanta aria in mole, quanta è la mole dell’acqua scacciata e salvata; la quale peseremo, e vedremo quante volte il peso suo conterrà il peso della serbata arena, e senza errore potremo af- fermar, tante volte esser più grave l’acqua dell’aria: la DIALOGHI DELLE NUOVE» SCIENZE 171 quale non sar dieci volte altrimenti, come par che sti- masse. Aristotele, ma ben circa quattrocento, come tale esperienza ne mostra. L'altro modo è più speditivo, e puossi fare con un vaso solo, cioè col primo, accomodato nel modo detto; nel quale non voglio che mettiamo altra aria oltre a quella che naturalmente vi si ritrova, ma voglio che vi cacciamo dell’acqua senza lasciare uscir punto di aria, la quale, dovendo cedere alla sopravve- nente acqua, è forza che si comprima. Spintavi dunque più acqua che sia possibile, che pure senza molta vio- lenza vi se ne potrà mettere i tre quarti della tenuta del fiasco, mettasi su la bilancia, e diligentissimamente si pesi; il che fatto, tenendo il vaso col collo in su, si apra l’animella, dando l’uscita all'aria, della quale ne scap- pera fuora giustamente quanta è l’acqua contenuta nel fiasco. Uscita che sia l’aria, si torni a metter il vaso in bi- lancia, il quale per la partita dell’aria si troverà allegge- rito; e detratto dal contrappeso il peso superfluo, da esso aremo la gravità di tant'aria quanta è l’acqua del fiasco. SIMPL. Gli artifizii ritrovati da voi non si può dire che non siano sottili e molto ingegnosi: ma mentre mi pare che in apparenza diano intera sodisfazzione all’in- telletto, mi metton per un altro verso in confusione. Im- però che, essendo indubitabilmente vero che gli elementi nelle proprie regioni non sono né leggieri né gravi, non posso intender come e dove quella porzione d’aria che parve pesasse, v. g., quattro dramme di rena, debba poi realmente aver tal gravità nell’aria, nella quale ben la ritiene la rena che la contrappesò; e però mi pare che l’esperienza dovesse esser praticata non nell’elemento del- l’aria, ma in un mezzo dove l’aria stessa potesse eserci- tare il suo talento del peso, se ella veramente ne possiede. SAL. Acuta certo è l'opposizione del Sig. Simplicio, e però è necessario o che ella sia insolubile o che la so- luzione sia non men sottile. Che quell’aria la quale, com- 172 GALILEO GALILEI pressa, mostrò pesare quanto quella rena, posta in libertà nel suo elemento non sia pit per pesare, ma si ben la rena, è cosa chiarissima: e però per far tale esperienza conveniva eleggere un luogo e un mezzo, dove l’aria, non men che la rena, potesse gravitare; perché, come più volte si è detto, il mezzo detrae dal peso d'ogni materia che vi simmerge, tanto quant'è il peso d’altrettanta parte dell’istesso mezzo, quant'è la mole immersa, si che l’aria all'aria leva tutta la gravità: l'operazione dunque, acciò fusse fatta esattamente, converrebbe farla nel vacuo, dove ogni grave eserciterebbe il suo momento senza diminu- zione alcuna. Quando dunque, Sig. Simplicio, noi pe- sassimo una porzione d’aria nel vacuo, restereste allora sincerato e assicurato del fatto? SIMPL. Veramente si; ma questo è un desiderare o richieder l'impossibile. SAL. E però grandissimo converrà che sia l’obbligo che mi dovrete, qual volta per amor vostro io effettui un impossibile. Ma io non voglio vendervi quel che già vi ho donato, perché di già nell’addotta esperienza pesiamo noi l’aria nel vacuo, e non nell’aria o in altro mezzo pieno. Che alla mole, Sig. Simplicio, che nel mezzo fluido simmerge, venga dall’istesso mezzo detratto della gra- vità, ciò proviene perché ei resiste all’esser aperto, di- scacciato e finalmente sollevato; segno di che ne da la prontezza sua nel ricorrer subito a riempier lo spazio che l’immersa mole in lui occupava, qualunque volta essa ne parta: che quando di tale immersione ei nulla sentisse, niente opererebbe egli contro di quella. Ora ditemi: mentre che voi avete in aria il fiasco di già pieno della medesima aria naturalmente contenutavi, qual divisione, scacciamento, o in somma qual mutazione, riceve l’aria esterna ambiente dalla seconda aria che nuovamente s'’in- fonde con forza nel vaso? Forse s'ingrandisce il fiasco, onde l’ambiente debba maggiormente ritirarsi per cedergli DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 175 luogo? certo no: e però possiam dire che la seconda aria non si immerge nell'ambiente, non vi occupando ella spazio, ma è come se si mettesse nel vacuo; anzi pur vi si mette ella realmente, e si trapone ne i vacui non ben ripieni dalla prima aria non condensata. E veramente non so conoscere differenza nissuna tra due costituzioni d'ambito ed ambiente, mentre in questa l’ambiente niente preme l'ambito, ed in quella l'ambito punto non spinge contr'all'ambiente: e tali sono la locazione di qualche ma- teria nel vacuo e la seconda aria compressa nel fiasco. Il peso, dunque, che si trova in tal aria condensata, è quello che ella arebbe liberamente sparsa nel vacuo. Ben è vero che ’1 peso della rena che la contrappesò, come quella che era nell’aria libera, nel vacuo sarebbe stato un poco più del giusto; e però convien dire che l'aria pesata sia veramente alquanto men grave della rena che la con- trappesò, cioè tanto quanto peserebbe altrettanta aria nel vacuo. SAGR. Acuta veramente speculazione, la quale in sé comprende la resoluzione di un problema il quale pare avere dell'’ammirando, mentre che, ristretto in sustanza ed in poche parole, ci mostra il modo di trovare la gra- vità di un corpo pesato nel vacuo, non lo pesando noi se non nel mezzo pieno d’aria; e l’esplicazione è tale. L'aria ad ogni corpo grave che in essa è locato detrae dalla as- soluta sua gravità tanto di peso, quanta è la gravità di altrettanta mole di aria quanta è la mole del medesimo corpo: adunque chi potesse accoppiare col medesimo corpo tanta aria quanta è la sua mole senza punto ingrandirlo, pesandolo si avrebbe quella assoluta sua gravità che egli avrebbe nel vacuo, atteso che, senza cre- scerlo di mole, se gli aggiunge il peso che dal mezo del- l’aria gli veniva suttratto. Quando dunque nel fiasco già pieno di aria naturalmente contenutavi ci si infonde una quantità di acqua, senza lasciarne uscire niente dell’aria 174 GALILEO GALILEI gia contenutavi, è manifesto che questa aria naturalmente contenutavi si restringe e condensa in minor mole, per dar luogo all'acqua infusa, ed è manifesto che la mole dell’aria che si restringe è eguale alla mole dell’acqua infusavi. Quando dunque si pesa nell’aria il vaso così accommodato, è manifesto che il peso dell’acqua viene accompagnato con altrettanta aria; del qual peso ne è parte quello dell’acqua insieme di quello di altrettanta aria, che è quel medesimo peso che l’acqua sola avrebbe nel vacuo, Quando dunque, pesato tutto il vaso e notato da parte tutto il peso, e dando l’esito a l’aria compressa e ripesando tutto il rimanente, che, per l’esito dell’aria, sarà diminuito di peso, presa la differenza di questi due pesi, avremo la gravità di quell'aria compressa che in mole era eguale all'acqua; pigliando poi il peso del- l’acqua sola ed a quello aggiungendo questo peso che mettemmo a parte. e che era dell’aria compressa, avremo il peso della medesima acqua sola nel vacuo. Trovar poi quanto sia il peso dell’acqua, sara col cavare dal vaso l’acqua, e pesando il vaso solo, detrarre questo peso da quello che fu del vaso e dell’acqua, pesato innanzi; ché è manifesto, il rimanente essere il peso dell’acqua sola in aria. SIMPL. Pur mi pareva che nell’addotte esperienze vi fusse qualche cosa da desiderare; ma ora mi quieto in- teramente. | i SAL. Le cose da me sin qui prodotte, ed in partico- lare questa, che la differenza di gravità, ben che grandis- sima, non abbia parte veruna nel diversificare le velocità de i mobili, si che, per quanto da quella depende, tutti si moverebbero con egual celerità, è tanto nuova e, nella prima apprensione, remota dal verisimile, che quando non si avesse modo di dilucidarla e renderla più chiara che ’1 Sole, meglio sarebbe il tacerla che ’1 pronunziarla: però, gia che me la sono lasciata scappar di bocca, DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 175 convien ch'io non lasci indietro esperienza o ragione che possa corroborarla. SAGR. Non questa sola, ma molte altre insieme delle vostre proposizioni son cosi remote dalle opinioni e dot- trine communemente ricevute, che spargendosi in pu- blico vi conciterebber numero grande di contradittori, essendo che l’innata condizione de gli uomini non vede con buon occhio che altri nel loro esercizio scuopra verità o falsità non scoperte da loro; e col dar titolo di inno- vatori di dottrine, poco grato a gli orecchi di molti, s'in- gegnano di tagliar quei nodi che non possono sciorre, e con mine sotterranee dissipar quelli edifizii che sono stati, con gli strumenti consueti, da pazienti artefici costrutti. Ma con esso noi, lontani da simili pretensioni, l’esperienze e le ragioni sin qui addotte bastano a quietarci: tuttavia, quando abbiate altre più palpabili esperienze e ragioni più efficaci, le sentiremo molto volentieri. SAL. L'esperienza fatta con due mobili quanto pi si possa differenti di peso, col fargli scendere da un'altezza per osservar se la velocità loro sia eguale, patisce qualche difficoltà: imperò che se l'altezza sarà grande, il mezzo, che dall’impeto del cadente deve esser aperto e lateral- mente spinto, di molto maggior pregiudizio sarà al piccol momento del mobile leggierissimo che alla violenza del gravissimo, per lo che per lungo spazio il leggiero ri- marrà indietro; e nell’altezza piccola si potrebbe dubi- tare se veramente non vi fusse differenza, o pur se ve ne: fusse, ma inosservabile. E però sono andato pensando di reiterar tante volte la scesa da piccole altezze, ed ac- cumulare insieme tante di quelle minime differenze di tempo, che potessero intercedere tra l’arrivo al termine del grave e l’arrivo del leggiero, che cosî congiunte fa- cessero un tempo non solo osservabile, ma grandemente osservabile. In oltre, per potermi prevaler di moti quanto si possa tardi, ne i quali manco lavora la resistenza del 176 GALILEO GALILEI mezzo in alterar l’effetto che depende dalla semplice gra- vità, sono andato pensando di fare scendere i mobili sopra un piano declive, non molto elevato sopra l’orizontale: ché sopra questo, non meno che nel perpendicolo, potrà scorgersi quello che facciano i gravi differenti di peso: e passando più avanti, ho anco voluto liberarmi da qualche impedimento che potesse nascer dal contatto di essi mo- bili su "1 detto piano declive: e finalmente ho preso due palle, una di piombo ed una di sughero, quella ben più di cento volte più grave di questa, e ciascheduna di loro ho attaccata a due sottili spaghetti eguali, lunghi quattro o cinque braccia, legati ad alto; allontanata poi l'una e l’altra palla dallo stato perpendicolare, gli ho dato l’an- dare nell’istesso momento, ed esse, scendendo per le cir- conferenze de’ cerchi descritti da gli spaghi eguali, lor semidiametri, passate oltre al perpendicolo, son poi per le medesime strade ritornate indietro; e reiterando ben cento volte per lor medesime le andate e le tornate, hanno sensatamente mostrato, come la grave va talmente sotto il tempo della leggiera, che né in ben cento vibra- zioni, né in mille, anticipa il tempo d’un minimo mo- mento, ma camminano con passo egualissimo. Scorgesi anco l'operazione del mezzo, il quale, arrecando qualche impedimento al moto, assai più diminuisce le vibrazioni del sughero che quelle del piombo, ma non però che le renda più o men frequenti; anzi quando gli archi passati dal sughero non fusser più che di cinque o sei gradi, e quei del piombo di cinquanta o sessanta, son eglin pas- sati sotto i medesimi tempi. SIMPL. Se questo è, come dunque non sarà la velocità del piombo maggiore della velocità del sughero, facendo quello sessanta gradi di viaggio nel tempo che questo ne passa appena sei? SAL. Ma che direste, Sig. Simplicio, quando amendue spedissero nell’istesso tempo i lor viaggi, mentre il su- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 127 ghero, allontanato dal perpendicolo trenta gradi, avesse a passar l’arco di sessanta, e ‘1 piombo, slargato dal me- desimo punto di mezzo due soli gradi, scorresse l'arco di quattro? non sarebbe allora altrettanto più veloce il su- ghero? e pur l’esperienza mostra ciò avvenire. Però no- tate: slargato il pendolo del piombo, v. g., cinquanta sradi dal perpendicolo e di lî lasciato in libertà, scorre, e passando oltre al perpendicolo quasi altri cinquanta, descrive l’arco di quasi cento gradi, e ritornando per se stesso indietro, descrive un altro poco minore arco, e con- tinuando le sue vibrazioni, dopo gran numero di quelle si riduce finalmente alla quiete. Ciascheduna di tali vibra- zioni si fa sotto tempi eguali, tanto quella di novanta gradi, quanto quella di cinquanta, di venti, di dieci e di quattro: si che, in consequenza, la velocità del mobile vien sempre languendo, poiché sotto tempi eguali va pas- sando successivamente archi sempre minori e minori. Un simile, anzi l’istesso, effetto fa il sughero pendente da un filo altrettanto lungo, salvo che in minor numero di vi- brazioni si conduce alla quiete, come meno atto, mediante la sua leggerezza, a superar l'ostacolo dell’aria: con tutto ciò tutte le vibrazioni, grandi e piccole, si fanno sotto tempi eguali tra di loro, ed eguali ancora a i tempi delle vibrazioni del piombo. Onde è vero che, se mentre il piombo passa un arco di cinquanta gradi, il sughero ne passa uno di dieci, il sughero allora è più tardo del piombo; ma accaderà ancora, all'incontro, che il sughero passi l’arco di cinquanta, quando il piombo passi quel di dieci o di sei: e cosî, in diversi tempi, or sarà più veloce il piombo ed ora il sughero. Ma se gli stessi mobili pas- seranno ancora, sotto i medesimi tempi eguali, archi eguali, ben sicuramente si potrà dire allora essere le ve- locità loro eguali. SIMPL. Mi pare e non mi pare che questo discorso sia concludente, e mi sento nella mente una tal qual con- 178 GALILEO GALILEI fusione, che mi nasce dal muoversi, e l’uno e l’altro mo- bile, or veloce or tardo ed or tardissimo, che non mi lascia ridurre in chiaro come vero sia che le velocità loro sian sempre eguali. SAGR. Concedami in grazia, Sig. Salviati, che io dica due parole. E ditemi, Sig. Simplicio, se voi ammettete che dir si possa con assoluta verità, le velocità del sughero e del piombo essere eguali ogni volta che, partendosi amendue nell’istesso momento dalla quiete e movendosi per le medesime inclinazioni, passassero sempre spazii eguali in tempi eguali? SIMPL. In questo non si può dubitare, né se gli può contradire. SAGR. Accade ora ne i pendoli, che ciaschedun di lor passi or sessanta gradi, or cinquanta, or trenta, or dieci, or otto, or quattro, or due, etc.; e quando amendue passano l’arco di sessanta gradi, lo passano nell’istesso tempo; nell'arco di cinquanta, metton l’istesso tempo l’uno che l’altro mobile; cosi nell’arco di trenta, di dieci, e ne gli altri: e però si conclude, che la velocità del piombo nell'arco di sessanta gradi è eguale alla velocità del su- ghero nell'arco medesimo di sessanta, e che le velocità nell’arco di cinquanta son pur tra loro eguali, e cosi ne gli altri. Ma non si dice già che la velocità che si esercita nell'arco di sessanta, sia eguale alla velocità che si eser- cita nell'arco di cinquanta, né questa a quella dell’arco di trenta, etc.; ma sen sempre minori le velocità ne gli archi minori: il che si raccoglie dal veder noi sensata- mente, il medesimo mobile metter tanto tempo nel passar l'arco grande de i sessanta gradi, quanto nel passare il minor di cinquanta o ’l minimo di dieci, ed in somma nell’esser passati tutti sempre sotto tempi eguali. È vero dunque che ben vanno, e 1 piombo e ‘1 sughero, ritar- dando il moto secondo la diminuzione de gli archi, ma non però alterano la concordia loro nel mantener l’egualità DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 179 della velocità in tutti i medesimi archi da loro passati. Ho voluto dir questo pit per sentire se ho ben capito il con- cetto del Sig. Salviati, che per bisogno ch'io credessi che avesse il Sig. Simplicio di pi chiara esplicazione di quella del Sig. Salviati, che è, come in tutte le sue cose, lucidissima, e tale che, sciogliendo egli il pit delle volte questioni non solo in apparenza oscure, ma repugnanti alla natura ed al vero, con ragioni o osservazioni o espe- rienze tritissime e familiari ad ogn’uno, ha (come da di- versi ho inteso) dato occasione a tal uno de i professori più stimati di far minor conto delle sue novità, tenen- dole come a vile, per dependere da troppo bassi e popo- lari fondamenti: quasi che la più ammirabile e più da stimarsi condizione delle scienze dimostrative non sia lo scaturire e pullulare da principii notissimi, intesi e con- ceduti da tutti. Ma seguitiamo pur noi d’andarci pa- scendo di questi cibi leggieri: e posto che il Sig. Simplicio sia restato appagato nell’intender ed ammettere come l’in- terna gravità de i diversi mobili non abbia parte alcuna nel diversificar le velocità loro, si che tutti, per quanto da quella depende, si moverebber con l'istesse velocitadi, diteci, Sig. Salviati, in quello che voi riponete le sensate ed apparenti disegualità di moto, e rispondete a quell’in- stanza che, oppone il Sig. Simplicio, e ch'io parimente confermo, dico del vedersi una palla d'artiglieria muo- versi piti velocemente d’una migliarola di pombo; ché poca sarà la differenza di velocità rispetto a quella che voppongo io, di mobili dell’istessa materia, de i quali alcuni de i maggiori scenderanno in meno d’una battuta di polso, in un mezzo, quello spazio che altri minori non lo passeranno in un’ora, né in quattro, né in venti; quali sono le pietre e la minuta rena, e massime quella sotti- lissima che intorbida l’acqua, nel qual mezzo in molte ore non scende per due braccia, che pietruzze, né molto più grandi, passano in una battuta di polso. 180 GALILEO GALILEI SAL. Quel che operi il mezzo nel ritardar più i mo- bili, secondo che tra di loro sono in spezie men gravi, gia si è dichiarato, mostrando ciò accadere dalla suttraz- zione di peso: ma come il medesimo mezzo possa con si gran differenza scemar la velocità ne i mobili differenti solo in grandezza, ancor che siano della medesima ma- teria e dell’istessa figura, ricerca per sua dichiarazione discorso pit sottile di quello che basta per intender come la figura del mobile più dilatata, o 71 moto del mezzo che sia fatto contro al mobile, ritarda la velocità di quello. Io del presente problema riduco la cagione alla scabro- sità e porosità, che comunemente, e per lo più necessa- riamente, si ritrova nelle superficie de i corpi solidi, le quali scabrosità nel moto di essi vanno urtando nell’aria o altro mezzo ambiente: di che segno evidente ce ne porge il sentir noi ronzar i corpi, ancor che quanto più si possa rotondati, mentre velocissimamente scorrono per l’aria: e non solo ronzare, ma sibilare e fischiar si sen- tono, se qualche più notabil cavità o prominenza sarà in essi. Vedesi anco nel girar sopra 1 torno ogni solido rotondo far un poco di vento. Ma che più? non sentiam noi notabil ronzio, ed in tuono molto acuto, farsi dalla trottola, mentre per terra con somma celerità va girando? l’acutezza del qual sibilo si va ingravendo secondo che la velocità della vertigine va di grado in grado lan- guendo: argomento parimente necessario de gl’intoppi nell'aria delle scabrosità, ben che minime, delle .super- ficie loro. Queste non si può dubitare che, nello scendere i mobili, soffregandosi con l’ambiente fluido, apporteranno ritardamento alla velocità, e tanto maggiore quanto la superficie sarà più grande, quale è quella de i solidi mi- nori paragonati a i maggiori. SIMPL. Fermate, in grazia, perché qui comincio a confondermi. Imperò che, se bene io intendo ed ammetto che la confricazione del mezzo con la superficie del mo- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 181 bile ritardi il moto, e che più lo ritardi dove, ceteris pa- ribus, la superficie sia maggiore, non capisco però con qual fondamento voi chiamiate maggiore la superficie de i solidi minori: ed oltre a ciò, se, come voi affermate, la maggior superficie deve arrecar maggior ritardamento, i solidi maggiori devriano esser pit tardi, il che non è. Ma questa instanza facilmente si toglie con dire, che se bene il maggiore ha maggior superficie, ha anco maggior gra- vità, contro la quale l’impedimento della maggior super- ficie non ha a prevalere all’impedimento della superficie minore contro alla minor gravità, si che la velocità del solido maggiore ne divenga minore. È però non veggo ragione per la quale si debba alterare l’egualità delle velocità, mentre che, quanto si diminuisce la gravità mo- vente, altrettanto si diminuisce la facoltà della superficie ritardante. SAL. Risolverò congiuntamente tutto quello che op- ponete. Per tanto voi, Sig. Simplicio, senza controversia ammettete, ehe quando di due mobili eguali, della stessa materia e simili di figura (i quali indubitabilmente si mo- verebber egualmente veloci), all'uno di loro si diminuisse tanto la gravità quanto la superficie (ritenendo però la similitudine della figura). non perciò si scemerebbe la ve- locità nel rimpiccolito. SIMPL. Veramente parmi che cosî dovrebbe seguire. stando però nella vostra dottrina, che vuol che la mag- giore o minor gravità non abbia azzione nell’accelerare o ritardar il moto. SAL. E questo confermo io, e vi ammetto anco ] vostro detto, dal qual mi par che in consequenza si ri- tragga, che quando la gravità si diminuisse pit che la superficie, nel mobile in tal maniera diminuito si introdur- rebbe qualche ritardamento di moto, e maggiore e mag- giore quanto a proporzione maggior fusse la diminuzion del peso che la diminuzion della superficie. 182 GALILEO GALILEI SIMPL. In ciò non ho io repugnanza veruna. SAL. Or sappiate, Sig. Simplicio, che non si può ne i solidi diminuir tanto la superficie quanto ’1 peso, man- tenendo la similitudine delle figure. Imperò che, essendo manifesto che nel diminuir un solido grave tanto scema il suo peso quanto la mole, ogni volta che la mole ve- nisse sempre diminuita più che la superficie (nel conser- varsi massime la similitudine di figura), la gravità ancora più che la superficie verrebbe diminuita. Ma la geometria cinsegna che molto maggior proporzione è tra la mole e la mole, ne i solidi simili, che tra le loro superficie: il che per vostra maggiore intelligenza vi esplicherò in qualche caso particolare. Però figuratevi, per esempio, un dado, un lato del quale sia, v. g., lungo due dita, si che una delle sue faccie sara quattro dita quadre, e tutte e sei, cioè tutta la sua superficie, venti quattro dita quadre; intendete poi, il medesimo dado esser con tre tagli segato in otto piccoli dadi: il lato di ciascun de’ quali sarà un dito, e una sua faccia un dito quadro, e tutta la sua superficie sei dita quadre, delle quali l’intero dado ne conteneva venti quattro in superficie. Or vedete come la superficie del piccol dado è la quarta parte della su- perficie del grande (che tanto è sei di venti quattro); ma l’istesso dado solido è solamente l’ottava; molto pit dunque cala la mole, ed in consequenza il peso, che la superficie. E se voi suddividerete il piccol dado in altri otto, aremo per l’intera superficie di un di questi un dito e mezzo quadro, che è la sedicesima parte della super- ficie del primo dado; ma la sua mole è solamente la ses- santaquattresima. Vedete per tanto come in queste sole due divisioni le moli scemano quattro volte più che le loro superficie; e se noi andremo seguitando la suddivi- sione sino che si riduca il primo solido in una minuta polvere, troveremo la gravità dei minimi atomi diminuita centinaia e centinaia di volte più che le loro superficie. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 183 E questo, che vi ho esemplificato ne i cubi, accade in tutti i solidi tra di loro simili, le moli de i quali sono in sesquialtera proporzione delle loro superficie. Vedete dunque con quanto maggior proporzione cresce l’impedi- mento del contatto della superficie del mobile col mezzo ne i mobili piccoli che ne i maggiori; e se noi aggiugne- remo che le scabrosità nelle superficie piccolissime delle polveri sottili non son forse minori di quelle delle su- perficie de i solidi maggiori che siano con diligenza pu- liti, guardate quanto bisognerà che ’1 mezzo sia fluido e privo onninamente di resistenza all’esser aperto, per dover cedere il passo a cosi debil virti. E in tanto notate, Sig. Simplicio, ch'io non equivocai quando poco fa dissi, la superficie de’ solidi minori esser pit grande in com- parazione di quella de i maggiori. SIMPL. Io resto interamente appagato: e mi credano certo che se io avessi a ricominciare i miei studii, vorrei seguire il consiglio di Platone e cominciarmi dalle mate- matiche, le quali veggo che procedono molto scrupolo- samente, né vogliono ammetter per sicuro fuor che quello che concludentemente dimostrano. SAGR. Ho auto gusto grande di questo discorso; ma prima che passiamo più avanti, arei caro di restar ca- pace d’un termine che mi giunse nuovo, quando pur ora diceste che i solidi simili son tra di loro in sesquialtera proporzione delle lor superficie: perché ho ben veduto e inteso la proposizione, con la sua dimostrazione, nella quale si prova, le superficie de’ solidi simili esser in du- plicata proporzione de i lor lati, e l’altra che prova, i medesimi solidi esser in tripla proporzione de i mede- simi lati; ma la proporzione de i solidi con le lor super- ficie non mi sovvien né anco d’averla sentita nominare. SAL. V. S. medesima da per sé si risponde, e dichiara il dubbio. Imperò che quello che è triplo d’una cosa, della quale un altro è doppio, non vien egli ad esser sesquial- 184 GALILEO GALILEI tero di questo doppio? certo sf. Or se le superficie sono in doppia proporzione delle linee, delle quali i solidi sono in proporzione tripla, non possiam noi dire, i solidi essere in sesquialtera proporzion delle superficie? SAGR. Ho inteso benissimo. E se bene alcuni altri particolari, attenenti alla materia di cui si tratta, mi re- sterebbero da domandare, tuttavia, quando ce n'andas- simo così di digressione in digressione, tardi verremmo alle quistioni principalmente intese, che appartengono alle diversità de gli accidenti delle resistenze de i solidi al- l’esser spezzati: e però, quando cosi piaccia loro, potremo ritornare su "1 primo filo, che si propose da principio. SAL. V. S. dice molto bene: ma le cose tante e tanto varie che si sono esaminate, ci han rubato tanto tempo, che poco ce n’avanzeràa per questo giorno da spendere nell'altro nostro principal argomento, che è pieno di di- mostrazioni geometriche, da esser con attenzione conside- rate: onde stimerei che fusse meglio differire il congresso a dimane, sî per questo che ho detto, come ancora perché potrei portar meco alcuni fogli, dove ho per ordine no- tati i teoremi e problemi ne i quali si propongono e di- mostrano le diverse passioni di tal soggetto, che forse alla memoria, col necessario metodo, non mi sovverrebbero. SAGR. Io molto bene mi accomodo a questo consiglio, e tanto pit volentieri, quanto che, per finire la sessione odierna, arò tempo di sentir la dichiarazione d'alcuni dubbi che mi restavano nella materia che ultimamente trattavamo. De i quali uno è, se si deve stimare che l’im- pedimento del mezzo possa esser bastante a por termine all’accelerazione a’ corpi di materia gravissima, e gran- dissimi di mole, e di figura sferica; e dico sferica, per pigliar quella che è contenuta sotto la minima superficie, e però meno soggetta al ritardamento. Un altro sarà circa le vibrazioni de i pendoli, e questo ha più capi: l'uno è, se tutte. e grandi e mediocri e minime. si fanno veramente DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 185 e precisamente sotto tempi eguali; ed un altro, qual sia la proporzione de i tempi de i mobili appesi a fili di- seguali, de i tempi, dico, delle lor vibrazioni. SAL.I quesiti son belli, e, si come avviene di tutti i veri, dubito che trattandosi di qualsisia di loro, si tirerà dietro tante altre vere e curiose consequenze, che non so se l’avanzo di questo giorno ci basterà per discuterle tutte. SAGR. Selle saranno del sapore delle passate, più grato mi sarebbe l’impiegarvi tanti giorni, non che tante ore, quante restano sino a notte; e credo che il Sig. Sim- plicio non si ristuccherà di tali ragionamenti. SIMPL. Sicuramente no, e massime quando si trattano quistioni naturali intorno alle quali non si leggono opi- nioni o discorsi d'altri filosofi. SAL. Vengo dunque alla prima, affermando senza veruna dubitazione. non essere sfera si grande, né di materia si grave, che la renitenza del mezzo, ancor che tenuissimo, non raffreni la sua accelerazione, e che nella continuazion del moto non lo riduca all’equabilità: di che possiamo ritrar molto chiaro argomento dall'esperienza stessa. Imperò che, se alcun mobile cadente fusse abile, nella sua continuazion di moto, ad acquistar qualsivoglia grado di velocità, nissuna velocità che da motore esterno gli fusse conferita, potrebbe esser cosi grande, che egli la recusasse e se ne spogliasse mercé dell’impedimento del mezzo; e cosi una palla d’artiglieria che fusse scesa per aria, v. g., quattro braccia, ed avesse, per esempio, ac- quistato dieci gradi di velocità, e che con questi entrasse nell'acqua, quando l’impedimento dell’acqua non fusse potente a vietare alla palla un tale impeto, ella l’accre- scerebbe, o almeno lo continuerebbe sino al fondo: il che non si vede seguire; anzi l’acqua, benché non fusse più che poche braccia profonda, l’impedisce e debilita in modo, che leggerissima percossa farà nel letto del fiume o del lago. È dunque manifesto, che quella velocità della 186 {GALILEO ‘GALILEL: quale l’acqua l'ha potuta spogliare in un brevissimo viaggio, non glie la lascerebbe già mai acquistare anco nella profondità di mille braccia. E perché permettergli ‘1 guadagnarsela in mille, per levargliela poi in quattro braccia? Ma che più? non si ved’egli, l'immenso impeto della palla, cacciata dall’istessa artiglieria, esser tal- mente rintuzzato dall’interposizione di pochissime braccia d’acqua, che senza veruna offesa della nave appena si conduce a percuoterla? L’aria ancora, benché cedentis- sima, pur reprime la velocità del mobile cadente, ancor che molto grave, come possiamo con simili esperienze comprendere: perché se dalla cima d'una torre molto alta tireremo un’archibusata in giù, questa fara minor botta in terra, che se scaricheremo l’archibuso, alto dal piano solamente quattro o sei braccia; segno evidente che l’im- peto con che la palla usci della canna, scaricata nella sommità della torre, andò diminuendosi nello scender per aria. Adunque lo scender da qualunque grandissima al- tezza non baster4 per fargli acquistare quell’impeto, del quale la resistenza dell’aria la priva quando già in qual- sivoglia modo gli sia stato conferito. La rovina parimente che farà in una muraglia un colpo d’una palla cacciata da una colubrina dalla lontananza di venti braccia, non credo che la facesse venendo a perpendicolo da qualsivoglia al- tezza immensa. Stimo per tanto, esser termine all’accele- razione di qualsivoglia mobile naturale che dalla quiete si parta, e che l’impedimento del mezzo finalmente lo ri- duca all’egualità, nella quale ben poi sempre si mantenga. SAGR. L’esperienze veramente mi par che siano molto a proposito; né ci è altro se non che l'avversario po- trebbe farsi forte col negar che si debbano verificar nelle moli grandissime e gravissime, e che una palla d’arti- glieria venendo dal concavo della Luna, o anco dalla su- prema region dell’aria, farebbe percossa maggiore che uscita dal cannone. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 187 SAL. Non è dubbio che molte cose si posson opporre, e che non tutte si possono con esperienze redarguire: tuttavia in questa contradizzione, alcuna cosa par che si possa metter in considerazione, cioè che molto ha del ve- risimile che ’1 grave cadente da un'altezza acquisti tanto d’impeto nell’arrivar in terra, quanto fusse bastante a tirarlo a quell’altezza; come chiaramente si vede in un pendolo assai grave, che slargato cinquanta o sessanta gradi dal perpendicolo, guadagna quella velocità e virtù che basta precisamente a sospignerlo ad altrettanta ele- vazione, trattone però quel poco che gli vien tolto dal- l’impedimento dell’aria. Per costituir dunque la palla dell'artiglieria in tanta altezza che bastasse per l’ac- quisto di tanto impeto quanto è quello che gli da il fuoco nell’uscir del pezzo, dovrebbe bastar il tirarla in su a perpendicolo con l’istessa artiglieria, osservando poi. se nella ricaduta ella facesse colpo eguale a quello della percossa fatta da vicino nell’uscire; che credo veramente che non sarebbe, a gran segno, tanto gagliardo: e però stimo che la velocità che ha la palla vicino all’uscita del pezzo, sarebbe di quelle che l’impedimento dell’aria non gli lascerebbe ‘conseguire gia mai mentre con moto natu- rale scendesse, partendosi dalla quiete, da qualsivoglia grand’altezza. Vengo ora a gli altri quesiti, attenenti a i pendoli, materia che a molti parrebbe assai arida, e massime a quei filosofi che stanno continuamente occupati nelle più profonde quistioni delle cose naturali; tuttavia non gli voglio disprezzare, inanimito dall’esempio d’Aristotele me- desimo, nel quale io ammiro sopra tutte le cose il non aver egli lasciato, si può dir, materia alcuna, degna in qualche modo di considerazione, che e’ non l’abbia toc- cata. Ed ora, mosso da i quesiti di V. S., penso che potrò dirvi qualche mio pensiero sopra alcuni problemi atte- nenti alla musica, materia nobilissima, della quale hanno 188 GALILEO GALILEI scritto tanti grand'uomini e l’istesso Aristotele, e circa di essa considera molti problemi curiosi; talché se io ancora da cosi facili e sensate esperienze trarrò ragioni di acci- denti maravigliosi in materia de i suoni, posso sperare che i miei ragionamenti siano per esser graditi da voi. SAGR. Non solamente graditi, ma da me in partico- lare sommamente desiderati, come quello che, sendomi di- lettato di tutti gli strumenti musici, ed assai filosofato intorno alle consonanze, son sempre restato incapace 6 perplesso onde avvenga che più mi piaccia e diletti questa che quella, e che alcuna non solo non mi diletti, ma sommamente m'’offenda. Il problema poi trito delle due corde tese all’unisono, che al suono dell'una l’altra si muova e attualmente risuoni, mi resta ancora irresoluto, come anco non ben chiare le forme delle consonanze ed altre particolarità. SAL. Vedremo se da questi nostri pendoli si potrà cavare qualche sodisfazione a tutte queste difficoltà. E quanto al primo dubbio, che è, se veramente e puntua- lissimamente l’istesso pendolo fa tutte le sue vibrazioni, massime, mediocri e minime, sotto tempi precisamente eguali, io mi rimetto a quello che intesi già dal nostro Accademico; il quale dimostra bene, che ‘’1 mobile che descendesse per le corde suttese a qualsivoglia arco, le passerebbe necessariamente tutte in tempi eguali, tanto la suttesa sotto cent’ottanta gradi (cioè tutto il diametro), quanto le suttese di cento, di sessanta, di dieci, di due, di mezzo e di quattro minuti, intendendo che tutte vadano a terminar nell’infimo punto, toccante il piano orizon- tale. Circa poi i descendenti per gli archi delle medesime corde elevati sopra l’orizonte, e che non siano maggiori d'una quarta, cioè di novanta gradi, mostra parimente l’esperienza, passarsi tutti in tempi eguali, ma però più brevi de i tempi de’ passaggi per le corde; effetto che in tanto ha del maraviglioso, in quanto nella prima appren- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 189 sione par che dovrebbe seguire il contrario: imperò che, sendo comuni i termini del principio e del fine del moto, ed essendo la linea retta la brevissima che tra i mede- simi termini si comprende, par ragionevole che il moto fatto per lei s'avesse a spedire nel più breve tempo; il che poi non è, ma il tempo brevissimo, ed in consequenza il moto velocissimo, è quello che si fa per l’arco del quale essa linea retta è corda. Quanto poi alla proporzione de i tempi delle vibrazioni di mobili pendenti da fila di differente lunghezza, sono essi tempi in proporzione sud- dupla delle lunghezze delle fila, o vogliam dire le lun- ghezze esser in duplicata proporzion de i tempi, cioè son come i quadrati de i tempi: sf che volendo, v. g., che tempo d’una vibrazione d'un pendolo sia doppio del tempo d’una vibrazione d'un altro, bisogna che la lun- ghezza della corda di quello sia quadrupla della lun- ghezza della corda di questo; ed allora, nel tempo d'una vibrazione di quello, un altro ne farà tre, quando la corda di quello sarà nove volte pit lunga dell’altra: dal che ne séguita che le lunghezze delle corde hanno fra di loro la proporzione che hanno i quadrati de’ numeri delle vibrazioni che si fanno nel medesimo tempo. SAGR. Adunque, se io ho ben inteso, potrò spedita- mente sapere la lunghezza d’una corda pendente da qualsivoglia grandissima altezza, quando bene il termine sublime dell’attaccatura mi fusse invisibile e solo si ve- desse l’altro estremo basso. Imperò che, se io attaccherò qui da basso un assai grave peso a detta corda e farò che si vada vibrando in qua e in là, e che un amico vadia numerando alcune delle sue vibrazioni e che io nell’istesso tempo vadia parimente contando le vibrazioni che farà un altro mobile appeso a un filo di lunghezza precisa- mente d’un braccio, da i numeri delle vibrazioni di questi pendoli, fatte nell’istesso tempo, troverò la lunghezza della corda: come, per esempio, ponghiamo che nel tempo 190 GALILEO GALILEI che l’amico mio abbia contate venti vibrazioni della corda lunga, io ne abbia contate dugenquaranta dal mio filo, che è lungo un braccio; fatti i quadrati delli due numeri venti e dugenquaranta, che sono 400 e 57600, dirò, la lunga corda contener 57600 misure di quelle che il mio filo ne contien 400; e perché il filo è un sol braccio, par- tirò 57600 per 400, che ne viene 144; e 144 braccia dirò esser lunga quella corda. SAL. Né vi ingannerete d'un palmo, e massime se pi- glierete moltitudini grandi di vibrazioni. SAGR. V. S. mi da pur frequentemente occasione d'ammirare la ricchezza ed insieme la somma liberalità della natura, mentre da cose tanto comuni, e direi anco in certo modo vili, ne andate traendo notizie molto cu- riose e nuove, e bene spesso remote da ogni immagina- zione. Jo ho ben mille volte posto cura alle vibrazioni, in particolare, delle lampade pendenti in alcune chiese da lunghissime corde, inavvertentemente state mosse da al- cuno; ma il più che io cavassi da tale osservazione, fu l’improbabilità dell'opinione di quelli che vogliono che simili moti vengano mantenuti e continuati dal mezzo, cioè dall’aria, perché mi parrebbe bene che l’aria avesse un gran giudizio, ed insieme una poca faccenda, a con- sumar le ore e le ore di tempo in sospignere con tanta regola in qua e in l& un peso pendente: ma che io fussi per apprenderne che quel mobile medesimo, appeso a una corda di cento braccia di lunghezza, slontanato dal- l’imo punto una volta novanta gradi ed un’altra un grado solo o mezzo, tanto tempo spendesse in passar questo mi- nimo, quanto in passar quel massimo arco, certo non credo che mai l'avrei incontrato, ché ancor ancora mi par che tenga dell’impossibile. Ora sto aspettando di sentire che queste medesime semplicissime minuzie mi assegnino ragioni tali di quei problemi musici, che mi possino, al- meno in parte, quietar la mente. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 191 SAL. Prima d'ogni altra cosa bisogna avvertire che ciaschedun pendolo ha il tempo delle sue vibrazioni tal- mente limitato e prefisso, che impossibil cosa è il farlo muover sotto altro periodo che l’unico suo naturale. Prenda pur chi si voglia in mano la corda ond'è attaccato il peso, e tenti quanto gli piace d’accrescergli o scemargli la frequenza delle sue vibrazioni; sarà fatica buttata in vano: ma ben all'incontro ad un pendolo, ancor che grave e posto in quiete, col solo soffiarvi dentro conferi- remo noi moto, e moto anche assai grande col reiterare i soffi, ma sotto 71 tempo che è proprio quel delle sue vi- brazioni; che se al primo soffio l’aremo rimosso dal per- pendicolo mezzo dito, aggiugnendogli il secondo dopo che, sendo ritornato verso noi, comincerebbe la seconda vibrazione, gli conferiremo nuovo moto, e cosî successi- vamente con altri soffi. ma dati a tempo, e non quando il pendolo ci vien incontro (che cosî gl'impediremmo, e non aiuteremmo, il moto); e seguendo, con molti impulsi gli conferiremo impeto tale, che maggior forza assai che quella d’un soffio ci bisognerà a cessarlo. SAGR. Ho da fanciullo osservato, con questi impulsi dati a tempo un uomo solo far sonare una grossissima campana, e nel volerla poi fermare, attaccarsi alla corda quattro e sei altri e tutti esser levati in alto, né poter tanti insieme arrestar quell’impeto che un solo con rego- lati tratti gli aveva conferito. SAL. Esempio che dichiara 1 mio intento non meno acconciamente di quel che questa mia premessa si acco- modi a render la ragione del maraviglioso problema della corda della cetera o del cimbalo, che muove e fa real- mente sonare quella non solo che all'unisono gli è con- corde, ma anco all'ottava e alla quinta. Toccata, la corda comincia e continua le sue vibrazioni per tutto "1 tempo che si sente durar la sua risonanza: queste vibrazioni fanno vibrare e tremare l’aria che gli è appresso, i cui 192 GALILEO GALILEI tremori e increspamenti si distendono per grande spazio e vanno a urtare in tutte le corde del medesimo stru- mento, ed anco di altri vicini: la corda che è tesa all’uni- sono con la tocca, essendo disposta a far le sue vibrazioni sotto 71 medesimo tempo, comincia al primo impulso a muoversi un poco; e sopraggiugnendogli il secondo, il terzo, il ventesimo e più altri, e tutti ne gli aggiustati e periodici tempi, riceve finalmente il medesimo tremore che la prima tocca, e si vede chiarissimamente andar di- latando le sue vibrazioni giusto allo spazio della sua motrice. Quest'ondeggiamento che si va distendendo per l’aria, muove e fa vibrare non solamente le corde, ma qualsivoglia altro corpo disposto a tremare e vibrarsi sotto quel tempo della tremante corda: si che se si fic- cheranno nelle sponde dello strumento diversi pezzetti di setole o di altre materie flessibili, si vedrà, nel sonare il cimbalo, tremare or questo or quel corpuscolo, secondo che verrà toccata quella corda le cui vibrazioni van sotto ‘1 medesimo tempo: gli altri non si muoveranno al suono di questa corda, né quello tremerà al suono d’altra corda. Se con l’archetto si toccherà gagliardamente una corda grossa d’una viola, appressandogli un bicchiere di vetro sottile e pulito, quando il tuono della corda sia all’unisono del tuono del bicchiere, questo tremerà e sensatamente riso- nera. Il diffondersi poi amplamente l’increspamento del mezzo intorno al corpo risonante, apertamente si vede nel far sonare il bicchiere, dentro ‘1 quale sia dell’acqua, fregando il polpastrello del dito sopra l'orlo; imperò che l’acqua contenuta con regolatissimo ordine si vede andar ondeggiando: e meglio ancora si vedrà l’istesso effetto fermando il piede del bicchiere nel fondo di qualche vaso assai largo, nel quale sia dell’acqua sin presso al- l’orlo del bicchiere; ché parimente, facendolo risonare con la :confricazione del dito, si vedranno gl’increspamenti nell'acqua regolatissimi, e con gran velocità spargersi in DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 193 gran distanza intorno al bicchiere: ed io più volte mi sono incontrato, nel fare al modo detto sonare un bic- chiere assai grande e quasi pieno d’acqua, a veder prima le onde nell'acqua con estrema egualità formate, ed ac- cadendo tal volta che ’1 tuono del bicchiere salti un'ot- tava più alto, nell’istesso momento ho visto ciascheduna delle dette onde dividersi in due; accidente che molto chiaramente conclude, la forma dell’ottava esser la dupla. SAGR. A me ancora è intervenuto l’istesso pi d'una volta con mio diletto ed anco utile: imperò che stetti lungo tempo perplesso intorno a queste forme delle con- sonanze, non mi parendo che la ragione che comune- mente se n’adduce da gli autori che sin qui hanno scritto dottamente della musica, fusse concludente a bastanza. Dicono essi, la diapason, cioè l’ottava, esser contenuta dalla dupla, la diapente, che noi diciamo la quinta, dalla sesquialtera, etc.; perché, distesa sopra il monocordo una corda, sonandola tutta e poi sonandone la metà, col met- tere un ponticello in mezzo, si sente l'ottava, e se il pon- ticello si metterà al terzo di tutta la corda, toccando l’intera e poi li due terzi, ci rende la quinta; per lo che l'ottava dicono esser contenuta tra ’1 due e l’uno, e la quinta tra il tre e ’1 dua. Questa ragione, dico, non mi pareva concludente per poter assegnar iuridicamente la dupla e la sesquialtera per forme naturali della diapason e della diapente: e ’1 mio motivo era tale. Tre sono le maniere con le quali noi possiamo inacutire il tuono a una corda: l’una è lo scorciarla; l’altra, il tenderla più, o vogliam dir tirarla; il terzo è l’assottigliarla. Ritenendo la medesima tiratezza e grossezza della corda, se vorremo sentir l'ottava, bisogna scorciarla la metà, cioè toccarla tutta, e poi mezza: ma se, ritenendo la medesima lun- ghezza e grossezza, vorremo farla montare all'ottava col tirarla più, non basta tirarla il doppio più, ma ci bisogna il quadruplo, si che se prima era tirata dal peso d'una 13. - G. Galilei, Opere - II. 194 GALILEO GALILEI libbra, converrà attaccarvene quattro per inacutirla al- l'ottava: e finalmente se, stante la medesima lunghezza e tiratezza, vorremo una corda che, per esser più sottile, renda l'ottava, sarà necessario che ritenga solo la quarta parte della grossezza dell’altra più grave. E questo che dico dell’ottava, cioè che la sua forma presa dalla ten- sione o dalla grossezza della corda è in duplicata pro- porzione di quella che si ha dalla lunghezza, intendasi di tutti gli altri intervalli musici: imperò che quello che ci da la lunghezza con la proporzion sesquialtera, cioè col sonarla tutta e poi li due terzi, volendolo cavar dalla tiratezza o dalla sottigliezza, bisogna duplicar la propor- zione sesquialtera, pigliando la dupla sesquiquarta, e se la corda grave era tesa da quattro libbre di peso, attac- carne all’acuta non sei, ma nove, e quanto alla grossezza, far la corda grave più grossa dell’acuta secondo la pro- porzione di nove a quattro, per aver la quinta. Stante queste verissime esperienze, non mi pareva scorger ra- gione alcuna per la quale avesser i sagaci filosofi a sta- bilir, la forma dell’ottava esser pit la dupla che la quadrupla, e della quinta più la sesquialtera che la dupla sesquiquarta. Ma perché il numerar le vibrazioni d'una corda, che nel render la voce le fa frequentissime, è del tutto impossibile, sarei restato sempre ambiguo se vero fusse che la corda dell’ottava, pi acuta, facesse nel me- desimo tempo doppio numero di vibrazioni di quelle della più grave, se le onde permanenti per quanto tempo ci piace, nel far sonare e vibrare il bicchiere, non m’aves- sero sensatamente mostrato come nell’istesso momento che alcuna volta si sente il tuono saltare all’ottava, si veg- gono nascere altre onde pifi minute, le quali con infinita pulitezza tagliano in mezzo ciascuna di quelle prime. SAL. Bellissima osservazione per poter distinguer ad una ad una le onde nate dal tremore del corpo che ri- suona, che son poi quelle che, diffuse per l’aria, vanno a DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 195 far la titillazione su ’1 timpano del nostro orecchio, la quale nell'anima ci doventa suono. Ma dove che il vederle ed osservarle nell'acqua non dura se non quanto si con- tinua la confricazion del dito, ed anco in questo tempo non sono permanenti, ma continuamente si fanno e si dissolvono, non sarebbe bella cosa quando se ne potesse far con grand’esquisitezza di quelle che restassero lungo tempo, dico mesi ed anni, si che desser commodità di po- terle misurare ed agiatamente numerare? SAGR. Veramente io stimerei sommamente una tale invenzione. SAL. L'invenzione fu del caso, e mia fu solamente l'osservazione e ’1 far di essa capitale e stima come di riprova di nobil contemplazione, ancor che fattura in se stessa assai vile. Raschiando con uno scarpello di ferro ta- gliente una piastra d’ottone per levarle alcune macchie, nel muovervi sopra lo scarpello con velocità, sentii una volta e due, tra molte strisciate, fischiare e uscirne un sibilo molto gagliardo e chiaro; e guardando sopra la piastra, veddi un lungo ordine di virgolette sottili, tra di loro parallele e per egualissimi intervalli l'una dall’altra distanti. Tornando a raschiar di nuovo più e più volte, m'accorsi che solamente nelle raschiate che fischiavano lasciava lo scarpello le ’ntaccature sopra la piastra; ma quando la strisciata passava senza sibilo, non restava pur minima ombra di tali virgolette. Replicando poi altre volte lo scherzo, strisciando ora con maggiore ed ora con minor velocità, il sibilo riusciva di tuono or più acuto ed or più grave; ed osservai, i segni fatti nel suono più acuto esser pit spessi, e quelli del più grave più radi, e tal volta ancora, secondo che la strisciata medesima era fatta verso "1 fine con maggior velocità che nel prin- cipio, si sentiva il suono andarsi inacutendo, e le virgo- lette si vedeva esser andate inspessendosi, ma sempre con estrema lindura e con assoluta equidistanza segnate; ed 196 GALILEO GALILEI oltre a ciò, nelle strisciate sibilanti sentivo tremarmi il ferro in pugno, e per la mano scorrermi certo rigore: ed in somma si vede e sente fare al ferro quello per ap- punto che facciamo noi nel parlar sotto voce e nell’in- tonar poi il suono gagliardo, che, mandando fuora il fiato senza formare il suono, non sentiamo nella gola e nella bocca farsi movimento alcuno, rispetto però ed in com- parazione del tremor grande che sentiamo farsi nella la- ringe ed in tutte le fauci nel mandar fuora la voce, e massime in tuono grave e gagliardo. Ho anco tal volta tra le corde del cimbalo notatone due unisone alli due sibili fatti strisciando al modo detto, e de i pit differenti di tuono, de i quali due precisamente distavano per una quinta perfetta; e misurando poi gl’intervalli delle virgolette dell'una e dell’altra strisciata, si vedeva, la distanza che conteneva quarantacinque spazii dell'una, contenere trenta dell'altra, quale veramente è la forma che si attribuisce alla diapente. Ma qui, prima che pas- sare più avanti, voglio avvertirvi, che delle tre maniere d’inacutire il suono, quella che voi referite alla sotti- gliezza della corda, con più verità deve attribuirsi al peso. Imperò che l’alterazione presa dalla grossezza ri- sponde quando le corde siano della medesima materia: e cosi una minugia per far l'ottava deve esser più grossa quattro volte dell'altra pur di minugia; ed una d'ottone, più grossa quattro volte d’un’altra d’ottone: ma s'io vorrò far l'ottava con una d’ottone ad una di minugia, non si ha da ingrossar quattro volte, ma si ben farla quattro volte più grave; sf che, quanto alla grossezza, questa di metallo non sarà altrimente quattro volte più grossa, ma ben quadrupla in gravità, che tal volta sarà più sottile che la sua rispondente all'ottava, più acuta, che sia di minugia: onde accade che incordandosi un cimbalo di corde d'oro ed un altro d’ottone, se saranno della mede- sima lunghezza, grossezza e tensione, per esser l’oro quasi DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 197 il doppio più grave, riuscirà l'accordatura circa una quinta piî grave. E qui notisi come alla velocità del moto pit resiste la gravità del mobile che la grossezza, contro a quello che a prima fronte altri giudicherebbe; che ben pare che, ragionevolmente, più dovesse esser ri- tardata la velocità dalla resistenza del mezzo all’esser aperto in un mobile grosso e leggiero, che in uno grave e sottile; tuttavia in questo caso accade tutto l’opposito. Ma seguitando il primo proposito, dico che non è la ragion prossima ed immediata delle forme de gl’inter- valli musici la lunghezza delle corde, non la tensione, non la grossezza, ma si bene la proporzione de i numeri delle vibrazioni e percosse dell’onde dell’aria che vanno a ferire il timpano del nostro orecchio, il quale esso ancora sotto le medesime misure di tempi vien fatto tremare. Fermato questo punto, potremo per avventura assegnar assai congrua ragione onde avvenga che di essi suoni, differenti di tuono, alcune coppie siano con gran diletto ricevute dal nostro sensorio, altre con minore, ed altre ci feriscano con grandissima molestia; che è il recar la ragione delle consonanze piti o men perfette e delle dissonanze. La molestia di queste nascerà, credo io, dalle discordi pulsazioni di due diversi tuoni che sproporzio- natamente colpeggiano sopra ‘1 nostro timpano, e cru- dissime saranno le dissonanze quando i tempi delle vibrazioni fussero incommensurabili; per una delle quali sarà quella quando di due corde unisone se ne suoni una con tal parte dell’altra quale è il lato del quadrato del suo diametro: dissonanza simile al tritono o semidia- pente. Consonanti, e con diletto ricevute, saranno quelle coppie di suoni che verranno a percuotere con qualche ordine sopra ’l timpano; il qual ordine ricerca, prima, che le percosse fatte dentro all’istesso tempo siano commen- surabili di numero, acciò che la cartilagine del timpano non abbia a star in un perpetuo tormento d’inflettersi in 198 GALILEO GALILEI due diverse maniere per acconsentire ed ubbidire alle sempre discordi battiture: sarà dunque la prima e più grata consonanza l'ottava. essendo che per ogni percossa che dia la corda grave su ’l timpano, l’acuta ne dé due, tal che amendue vanno a ferire unitamente in una si, e nell’altra no, delle vibrazioni della corda acuta, si che di tutto ’1 numero delle percosse la metà s'accordano a bat- tere unitamente: ma i colpi delle corde unisone giungon sempre tutti insieme, e però son come d'una corda sola, né fanno consonanza. La quinta diletta ancora, atteso che per ogni due pulsazioni della corda grave l’acuta ne da tre, dal che ne séguita che, numerando le vibrazioni della corda acuta, la terza parte di tutte s'accordano a battere insieme, cioè due solitarie s'interpongono tra ogni coppia delle concordi; e nella diatesseron se n'interpongon tre. Nella seconda, cioè nel tuono sesquiottavo, per ogni nove pulsazioni una sola arriva concordemente a percuotere con l’altra della corda pit grave; tutte l'altre sono di- scordi e con molestia ricevute su ’1 timpano, e giudicate dissonanti dall’udito. SIMPL. Vorrei con maggior chiarezza spiegato questo discorso. SAL. Sia questa linea A B lo spazio e la dilatazione d’una vibrazione della corda grave, e la linea CD quella della corda acuta, la quale con Valtra renda l'ottava, e dividasi la AB in mezzo in E: è manifesto, che comin- ciando a muoversi le corde nei termini A, C, quando la vibrazione acuta sar& pervenuta al termine D, l’altra si sarà distesa solamente sino al mezzo È, il quale, non sendo termine del moto. non percuote, ma ben si fa colpo in D. Ritornando poi la vibrazione dal D in C, l'altra passa da E in B, onde le due percosse di B e di C bat- tono unitamente su 71 timpano: e tornando a reiterarsi le simili seguenti vibrazioni, si concluderà, alternatamente in una st e nell’altra no delle vibrazioni C, D accadere DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 199 l'unione delle percosse con quelle di A, B. Ma le pulsa- zioni de i termini hanno sempre per compagne una delle C, D, e sempre la medesima: il che è manifesto; perché, posto che A, C battano insieme, nel passar A in B, C va in D e torna in C, tal che C batte con B; e nel tempo che B torna in A, 4_____FE___B C passa per D e torna in C, si che i colpi A, C si fanno insieme. Ma € D sieno ora le due vibrazioni A B, CD quelle che producono la diapente, i Asa Patata et tempi delle quali sono in proporzion sesquialtera, e dividasi la AB della € D corda grave in tre parti eguali in E, O, e intendansi le vibrazioni cominciare nell’'istesso mo- mento da i termini A, C: è manifesto che nella percossa che si far4 nel termine D, la vibrazione di A B sarà giunta solamente in O; il timpano dunque riceve la percossa D sola: nel ritorno poi da D in C, l’altra vibrazione passa da O in B e ritorna in O, facendo la pulsazione in B, che pure è sola e di contrattempo (accidente da conside- rarsi); perché, avendo noi posto le prime pulsazioni fatte nell’istesso momento ne i termini A, C, la seconda, che fu sola del termine D, si fece dopo quanto importa il tempo del transito C D, cioè A O, ma la seguente, che si fa in B, dista dall’altra solo quanto è il tempo di OB, che è la metà: continuando poi il ritorno da O in A, mentre da C si va in D, si viene a far le due pulsazioni unitamente in A e D. Seguono poi altri periodi simili a questi, cioè con l’interposizione di due pulsazioni della corda acuta, scompagnate e solitarie, e una della corda grave, pur solitaria e interposta tra le due solitarie del- l’acuta. Si che, se noi figureremo il tempo diviso in mo- menti, cioè in minime particole eguali; posto che nei due primi dalle concordi pulsazioni fatte in A, C si passi in O, D, e in D si batta: che nel terzo e quarto momento si 200 GALILEO GALILEI torni da D in C, battendo in C, e che da O si passi per B e si torni in O, battendosi in B; e che finalmente nel quinto e sesto momento da O e C si passi in Ave D,'bat- tendo in amendue; avremo sopra ’l timpano le pulsazioni distribuite con tal ordine, che poste le pulsazioni delle due corde nel medesimo instante, due momenti dopo ri- ceverà una percossa solitaria, nel terzo momento un'altra pur solitaria, nel quarto un’altra sola, e due momenti dopo, cioè nel sesto, due congiunte insieme: e qui finisce il periodo, e, per dir cosi, l'anomalia, il qual periodo si va poi più volte replicando. SAGR. Io non posso pit tacere: è forza ch'io esclami il gusto che sento nel vedermi tanto adequatamente rese ragioni di effetti che tanto tempo m'hanno tenuto in te- nebre e cecità. Ora intendo perché l’unisono non diffe- risce punto da una voce sola: intendo perché l'ottava è la principal consonanza, ma tanto simile all'unisono, che come unisono si prende e si accompagna con le altre; simile è all'unisono, perché, dove le pulsazioni delle corde unisone vanno a ferire tutte insieme sempre, queste della corda grave dell'ottava vanno tutte accompagnate da quelle dell’acuta, e di queste una s’interpone solitaria ed in distanze eguali ed in certo modo senza fare scherzo alcuno, onde tal consonanza ne diviene sdolcinata troppo e senza brio. Ma la quinta, con quei suoi contrattempi, e con l’interpor tra le coppie delle due pulsazioni con- giunte due solitarie della corda acuta ed una pur soli- taria della grave, e queste tre con tanto intervallo di tempo quanto è la metà di quello che è tra ciascuna coppia e le solitarie dell’acuta, fa una titillazione ed un solletico tale sopra la cartilagine del timpano, che tem- perando la dolcezza con uno spruzzo d’'acrimonia, par che insieme soavemente baci e morda. SAL. È forza, poiché veggo che V. S. gusta tanto di queste novellizie, che io gli mostri il modo col quale DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 201 l'occhio ancora, non pur l’udito, possa recrearsi nel veder i medesimi scherzi che sente l’udito. Sospendete palle di piombo, o altri simili gravi, da tre fili di lunghezze di- verse, ma tali che nel tempo che il più lungo fa due vi- brazioni, il pit corto ne faccia quattro e °l1 mezzano tre, il che accaderà quando il più lungo contenga sedici palmi o altre misure, delle quali il mezzano ne contenga nove ed il minore quattro; e rimossi tutti insieme dal perpen- dicolo e poi lasciatigli andare, si vedrà un intrecciamento vago di essi fili, con incontri varii, ma tali che ad ogni quarta vibrazione del più lungo tutti tre arriveranno al medesimo termine unitamente, e da quello poi si parti- ranno, reiterando di nuovo l’istesso periodo: la qual mi- stione di vibrazioni è quella che, fatta dalle corde, rende all’udito l'ottava con la quinta in mezzo. E se con simile disposizione si andranno temperando le lunghezze di altri fili, st che le vibrazioni loro rispondano a quelle di altri intervalli musici, ma consonanti, si vedranno altri ed altri intrecciamenti, e sempre tali, che in determinati tempi e dopo determinati numeri di vibrazioni tutti i fili (siano tre o siano quattro) si accordano a giugner nell'istesso momento al termine di loro vibrazioni, e di li a comin- ciare un altro simil periodo. Ma quando le vibrazioni di due o più fili siano 0 incommensurabili, si che mai non ritornino a terminar concordemente determinati numeri di vibrazioni, o se pur, non essendo incommensurabili, vi ritornano dopo lungo tempo e dopo gran numero di vibrazioni, allora la vista si confonde nell’ordine disor- dinato di sregolata intrecciatura, e l’udito con noia riceve gli appulsi intemperati de i tremori dell’aria, che senza ordine o regola vanno a ferire su ‘1 timpano. Ma dove, Signori miei, ci siamo lasciati trasportare per tante ore da i varii problemi ed inopinati discorsi? Siamo giunti a sera, e della proposta materia abbiamo trattato pochissimo o niente; anzi ce ne siamo in modo 14. - G. Galilei, Opere - II 202 GALILEO GALILEI disviati, che a pena mi sovviene della prima introduz- zione e di quel poco ingresso che facemmo come ipotesi e principio delle future dimostrazioni. SAGR. Sara dunque bene che ponghiamo per oggi fine a i nostri ragionamenti, dando commodo alla mente di andarsi nel riposo della notte tranquillando, per tornar poi domani (quando piaccia a V. S. di favorirci) a i di- scorsi desiderati e principalmente intesi. SAL. Non mancherò d’esser qua all’istessa ora li oggi a servirle e goderle. FINISCE LA PRIMA GIORNATA. GIORNATA SECONDA. SAGR. Stavamo, il Sig. Simplicio ed io, aspettando la venuta di V. S., e nel medesimo tempo ci andavamo riducendo a memoria l’ultima considerazione, che, quasi come principio e supposizione delle conclusioni che V. S. intendeva di dimostrarci, fu circa quella resistenza che hanno tutti i corpi solidi all’esser rotti, dependente da quel glutine che tiene le parti attaccate e congiunte, si che non senza una potente attrazzione cedono e si sepa- rano. Si andò poi cercando qual potesse esser la causa di tal coerenza, che in alcuni solidi è gagliardissima, proponendosi principalmente quella del vacuo, che fu poi cagione di tante digressioni che ci tennero tutta la giornata occupati e lontani dalla materia primieramente intesa, che era, come ho detto, la contemplazione delle re- sistenze de i solidi all’essere spezzati. SAL. Ben mi sovviene del tutto. E ritornando su ’l filo incominciato, posta qualunque ella sia la resistenza de i corpi solidi all'essere spezzati per una violenta at- trazzione, basta che indubitabilmente ella in loro si trova; la quale, ben che grandissima contro alla forza di chi per diritto gli tira, minore per lo pit si osserva nel vio- lentargli per traverso: e cosi vegghiamo una verga, per esempio, d'acciaio o di vetro reggere per lo lungo il peso di mille libbre, che fitta a squadra in un muro si spez- zerà con l’attaccargliene cinquanta solamente: e di questa seconda resistenza deviamo noi parlare, ricercando se- condo quali proporzioni ella si ritrovi ne i prismi e ci- lindri simili o dissimili in figura, lunghezza e grossezza, 204 GALILEO GALILEI essendo però dell’istessa materia. Nella quale specola- zione io piglio come principio noto quello che nelle me- caniche si dimostra tra le passioni delle vette, che noi chiamiamo leva, cioè che nell’uso della leva la forza alla resistenza ha la proporzion contraria di quella che hanno le distanze tra ’1 sostegno e le medesime forza e resistenza. SIMPL. Questo fu dimostrato da Aristotile, nelle sue Mecaniche, prima che da ogni altro. SAL. Voglio che gli concediamo il primato nel tempo: ma nella fermezza della dimostrazione parmi che se gli deva per grand’intervallo anteporre Archimede, da una sola proposizione del quale, dimostrata da esso ne gli Equiponderanti, dependono le ragioni non solamente della leva, ma della maggior parte de gli altri strumenti me- canici. SAGR. Ma già che questo principio è il fondamento di tutto quello che voi avete intenzione di volerci dimo- strare, non sarebbe se non molto a proposito l’arrecarci anco la prova di tal supposizione, quando non sia ma- teria molto prolissa. dandoci una intera e compita in- struzzione. SAL. Come questo si abbia a fare, sarà pur meglio che io per altro ingresso, alquanto diverso da quello ‘d’Archimede, v’'introduca nel campo di tutte le future specolazioni, e che non supponendo altro se non che pesi eguali posti in bilancia di braccia eguali facciano l’equi- librio (principio supposto parimente dal medesimo Ar- chimede), io venga poi a dimostrarvi come non solamente altrettanto sia vero che pesi diseguali facciano l'equilibrio in stadera di braccia diseguali secondo la proporzione di essi pesi permutatamente sospesi, ma che l’istessa cosa fa colui che colloca pesi eguali in distanze eguali, che quello che colloca pesi diseguali in distanze che abbiano per- mutatamente la medesima proporzione che i pesi. Or per chiara dimostrazione di quanto dico, segno un DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 205 prisma o cilindro solido A B, sospeso dall’estremità alla linea HI, e sostenuto da due fili H A, I B: è manifesto, che se io sospenderò il tutto dal filo C, posto nel mezzo della bilancia H I, il prisma A B resterà equilibrato, es- sendo la metà del suo peso da una banda, e l’altra dal- l’altra, del punto della sospensione C, per il principio da noi supposto. Intendasi ora il prisma esser diviso in parti diseguali dal piano per la linea D, e sia la parte DA maggiore, e la DB minore; ed acciò che, fatta tal di- visione, le parti del prisma restino nel medesimo sito e co- stituzione rispetto alla linea HI, soc- corriamo con un filo E D, il quale, fer- mato nel punto E, sostenga le parti del prisma AD, DB; non è da dubitarsi che, non si essendo fatta ve- runa local mutazione nel prisma rispetto alla bilancia HI, ella resterà nel medesimo stato dell’equilibrio. Ma nella medesima costituzione resterà ancora se la parte del prisma che ora è sospesa dalle due estremità con li fili AH, DE, si appenda ad un sol filo GL, posto nel mezzo; e parimente l’altra parte DB non muterà stato sospesa dal mezzo e sostenuta dal filo FM: sciolti dunque i fili HA, ED, IB, e lasciati solo li due GL, FM, re- sterà l’istesso equilibrio, fatta pur sempre la sospensione dal punto C. Or qui voltiamoci a considerare come noi abbiamo due gravi A D, DB, pendenti da i termini G, F di una libra GF, nella quale si fa l'equilibrio dal punto C, in modo che la distanza della sospensione del grave A D dal punto C è la linea CG, e l’altra parte CF è la distanza dalla qual pende l’altro grave DB: resta dunque solo da dimostrarsi, tali distanze aver la medesima proporzione tra di loro che hanno gli stessi 206 GALILEO GALILEI pesi, ma permutatamente presi, cioè che la distanza GC alla CF sia come il prisma DB al prisma DA; il che proveremo cosî. Essendo la linea G È la meta della E H, e la EF metà della ET, sarà tutta la GF metà di tutta la HI, e però eguale alla CT; e trattane la parte comune CF, sar4 la rimanente GC eguale alla rimanente F I, cioè alla FE; e presa comunemente la C È, saranno le due GE, CF eguali: e però, come G E ad EF, cosî FC a CG: ma come GE ad EF, cosi la doppia alla doppia. cioè HE ad EL cioè il prisma AD al prisma DB; adunque, per l’egual proporzione.e convertendo, come la distanza GC alla distanza C F, cosî il peso BD al peso D A: che è quello che io volevo provarvi. Inteso sin qui. non credo che voi porrete difficoltà in ammettere che i due prismi AD, DB facciano l'equi- librio dal punto C. perché la metà di tutto ‘1 solido A B è alla destra della sospensione C, e l’altra meta dalla si- nistra,. e che cosî si vengono a rappresentar due pesi eguali disposti e distesi in due distanze eguali. Che poi li due prismi A D, D B ridotti in due dadi, o in due palle, o in due qual’altre si siano figure (purché si conservino le sospensioni medesime G, F), seguitino di far l'equi- librio dal punto C, non credo che sia alcuno che ne possa dubitare, perché troppo manifesta cosa è che le figure non mutano peso, dove si ritenga la medesima quantità di materia. Dal che possiamo raccor la general conclu- sione, che due pesi. qualunque si siano, fanno l'equilibrio da distanze permutatamente respondenti alle lor gravità. Stabilito dunque tal principio, avanti che passiamo più oltre. devo metter in considerazione come queste forze, resistenze, momenti, figure, etc., si posson considerar in astratto e separate dalla materia, ed anco in concreto e congiunte con la materia; ed in questo modo quelli accidenti che converranno alle figure considerate come immateriali. riceveranno alcune modificazioni mentre li DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 207 aggiugneremo la materia, ed in consequenza la gravità. Come, per esempio, se noi intenderemo una leva, qual sarebbe questa B A, la quale, posando su ‘1 sostegno È, sia applicata per sollevare il grave sasso D, è manifesto, per il dimostrato principio, che la forza posta nell’estre- mità B basterà per adequare la resistenza del grave D, se il suo momento al momento di esso D abbia la mede- sima proporzione che ha la distanza AC alla distanza CB; e questo è vero, non mettendo in considerazione altri momenti che quelli della semplice forza in B e della resistenza in D, quasi che l’istes- sa leva fusse im- materiale e sen- za gravità: ma se noi metteremo in conto la gravità ancora dello strumento stesso della leva, la quale sarà talor di legno e tal volta anco di ferro, è manifesto che, alla forza in B aggiunto il peso della leva, alterera la proporzione, la quale converrà pronunziare sotto altri termini. E però, prima che passar più oltre, è necessario che noi convenghiamo in por distinzione tra queste due maniere di considerare, chiamando un prendere assoluta- mente quello quando intenderemo lo strumento preso in astratto, cioè separato dalla gravità della propria ma- teria: ma congiugnendo con le figure semplici ed assolute la materia, con la gravità ancora, nomineremo le figure congiunte con la materia momento o forza composta. SAGR. È forza ch'io rompa il proposito che avevo di non dar occasione di digredire; ma non potrei con atten- zione applicarmi al rimanente, se non mi fusse rimosso certo scrupolo che mi nasce; ed è questo: che mi pare che V. S. faccia comparazione della forza posta in B con la total gravità del sasso D, della qual gravità mi pare che 208 GALILEO GALILEI una parte, e forse forse la maggiore, si appoggi sopra ’l piano dell’orizonte; si che... SAL. Ho inteso benissimo. V. S. non soggiunga altro; ma solamente avverta che io non ho nominata la gravità totale del sasso, ma ho parlato del momento che egli tiene ed esercita sopra ’1 punto A, estremo termine della leva B A, il quale è sempre minore dell'intero peso del sasso, ed è variabile secondo la figura della pietra e secondo che ella vien più o meno sollevata. SAGR. Resto appagato; ma mi nasce un altro desi- derio, che è, che per intera cognizione mi fusse dimostrato il modo, se vi è, di poter investigare qual parte sia del peso totale quella che vien sostenuta dal soggetto piano, e quale quella che grava su ’l vette nell’estremità A. SAL. Perché posso con poche parole dargli soddisfaz- zione, non voglio lasciar di servirla. Però, facendone un poco di figura, intenda V. S. il peso il cui centro di gra- vità sia A, appoggiato sopra l’orizonte co ‘1 termine B, e nell’altro ‘sia sostenuto col vette C G, sopra ’l sostegno N, da una po- tenza posta in G; e dal centro A e dal termine C caschino, perpendicolari all’orizonte, A O, CF: dico, il momento di tutto il peso al momento della potenza in G aver la proporzion composta della distanza GN alla distanza NC e della FB alla BO. Facciasi, come la linea F B alla BO, cosî la NC alla X: ed essendo tutto il peso A sostenuto dalle due potenze poste in B e C, la potenza B alla C è come la distanza FO alla OB; e componendo, le due potenze B, C insieme, cioè il total momento di tutto ’1 peso A, alla potenza in C è come la linea F B alla BO, cioè come la NC alla X: ma il mo- mento della potenza in C al momento della potenza in G è come la distanza GN alla NC: adunque, per la DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 209 perturbata, il total peso A al momento della potenza in G è come la G N alla X. Ma la proporzione di GN ad X è composta della proporzione di G N ad NC e di quella di N C ad X, cioè di FB a BO; adunque il peso A alla potenza che lo sostiene in G ha la proporzione composta della GN ad NC e di quella di FB a BO: ch'è quello che si doveva dimostrare. Or tornando al nostro primo proposito, intese tutte le cose sin qui dichiarate, non sarà difficile l’intender la ragione onde avvenga che un prisma o ci- lindro solido, di vetro, acciaio, legno o altra materia fran- gibile, che sospeso per lungo sosterrà gravissimo peso che gli sia attaccato, ma in traverso (come poco fa dicevamo) da minor peso assai potrà tal volta essere spezzato, se- condo che la sua lunghezza eccederà la sua grossezza. Imperò che figuriamoci il prisma solido ABCD, fitto in un muro dalla parte AB, e nell'altra estremità s'in- tenda la forza del peso E (intendendo sempre, il mu- Prop. I. = TI) jo LAT] I, 5 pai ro esser eretto all’orizonte, i Fave ed il prisma o cilindro fitto Se ada . . SYATTI nel muro ad angoli retti): odi è manifesto che, dovendosi 4% ;a . , 3 VA IIA spezzare, si romperà nel S$#7F% luogo B, dove il taglio del è muro serve per sostegno, e EIA la BC per la parte della leva dove si pone la forza; e la grossezza del solido B A è l’altra parte della leva, nella quale è posta la resistenza, che consiste nello staccamento che sha da fare della parte del solido BD, che è fuor del muro, da quella che è dentro: e per le cose dichia- rate, il momento della forza posta in C al momento della 210 GALILEO GALILEI resistenza, che sta nella grossezza del prisma, cioè nel- l'attaccamento della base B A con la sua contigua, ha la medesima proporzione che la lunghezza CB alla metà della BA; e però l’assoluta resistenza all’esser rotto, che è nel prisma BD (la quale assoluta resistenza è quella che si fa col tirarlo per diritto, perché allora tanto è il moto del movente quanto quello del mosso), all’esser rotto con l’aiuto della leva BC, ha la medesima proporzione che la lunghezza BC alla metà di AB nel prisma, che nel cilindro è il semidiametro della sua base. É questa sia la nostra prima proposizione. E notate, che questo che dico, si debbe intendere, rimossa la considerazione del peso proprio del solido B D, il qual solido ho preso come nulla pesante: ma quando vorremo mettere in conto la sua gravità congiugnendola col peso È, doviamo al peso E aggiugnere la metà del peso del solido BD; si che es- sendo, v. g., il peso di B D due libbre, e ‘1 peso di E libbre dieci, si deve pigliare il peso E come se fusse undici. SIMPL. E perché non come se fusse dodici? SAL. Il peso E, Sig. Simplicio mio, pendente dal ter- mine C, preme, in rispetto alla leva B C, con tutto ’1 suo momento di libbre dieci; dove se fusse appeso il solo BD, graverebbe con tutto ‘1 momento di due libbre: ma, come vedete, tal solido è distribuito per tutta la lun- ghezza BC uniformemente, onde le parti sue vicine al- l'estremità B gravano manco delle più remote; si che in somma, ristorando quelle con queste, il peso di tutto ‘l prisma si riduce a lavorare sotto ‘1 centro della sua gra- vità, che risponde al mezzo della leva BC: ma un peso pendente dalla estremità C ha momento doppio di quello che arebbe pendendo dal mezzo: e però la metà del peso del prisma si deve aggiugnere al peso E, mentre ci ser- viamo del momento di amendue, come locati nel ter- mine C. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 211 SIMPL. Resto capacissimo; e di più, sio non min- sanno, parmi che la potenza di amendue i pesi BD edE, posti cosî, arebbe l’istesso momento che se tutto il peso di BD col doppio di E fusse appeso nel mezo della leva BE SAL. Cosî è precisamente, e si deve tenere a memoria. Qui possiamo immediatamente intender, come e con che proporzione resista pit una verga, 0 vogliam dir prisma pit largo che grosso, all’esser rotto, fattogli forza secondo la sua larghezza, che secondo la srossezza. Per intelligenza di che, intendasi una riga ad, la cui larghezza sia ac. e la grossezza, assai minore, € Db: si cerca perché, vo- , lendola romper per taglio, come nella prima figura, resi- sterà al gran peso T; ma posta per piatto, come nella seconda figura, non resistera all’X, minore del T. Il che si fa manifesto, mentre intendiamo, il sostegno essere una volta sotto la linea bc, ed un’altra sotto la c a, e le distanze delle forze esser nell’un caso e nell’altro eguali, cioè la lunghezza bd: ma nel primo caso la distanza della resistenza dal sostegno, che è la metà della linea c a, è maggiore della distanza nell’altro caso, la quale è la metà della db c; però la forza del peso T conviene che sia maggiore della X quanto la metà della larghezza ca è maggiore della metà della grossezza b c, servendoci quella per contralleva della ca, e questa della cb, per superare la medesima resi- stenza, che è la quantità delle fibre di tutta la base a db. Concludesi per tanto, la medesima riga o prisma più largo che grosso resister più all’esser rotto per taglio che per piatto, secondo la proporzione della larghezza alla grossezza. Prop. II. 212 GALILEO GALILEI Conviene ora che cominciamo a investigare se- condo qual proporzione vadia crescendo il mo- mento della propria gravità, in relazione alla propria resistenza all’essere spezzato in un prisma o cilindro, mentre, stando parallelo all’orizonte, si va allungando; il qual momento trovo andar crescendo in duplicata propor- zione di quella dell’allungamento. Per la cui dimostra- zione, intendasi il prisma o cilindro A D fitto saldamente nel muro dall’estremità A, e sia equidistante al- l’orizonte; ed il medesi- mo intendasi allungato sino in E, aggiugnendovi la parte BE. È manifesto che l'allungamento della leva AB sino in C cresce per sé solo, cioè assoluta- mente preso, il momento della forza premente contro alla resistenza dello staccamento e rot- tura da farsi in A secondo la proporzione di C A a BA: ma, oltre a questo, il peso aggiunto del solido B È al peso del solido A B cresce il momento della gravità premente secondo la proporzione del prisma AE al prisma AB. la qual proporzione è la medesima della lunghezza A C alla A B: adunque è manifesto che, congiunti i due ac- crescimenti delle lunghezze e delle gravità, il momento composto di amendue è in doppia proporzione di qua- lunque di esse. Concludasi per tanto, i momenti delle forze de i prismi e cilindri egualmente grossi, ma dise- gualmente lunghi, esser tra di loro in duplicata propor- zione di quella delle lor lunghezze, cioè esser come i quadrati delle lunghezze. Mostreremo adesso, nel secondo luogo, secondo qual Prop. II. MEANS DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 213 proporzione cresca la resistenza all'essere spezzati ne i prismi e cilindri, mentre restino della medesima lun- ghezza e si accresca la grossezza. E qui dico che: Ne i prismi e cilindri egualmente lunghi, ma disegualmente grossi, la resistenza all’esser rotti cresce in triplicata proporzione de i diametri delle lor grossezze, cioè delle lor basi. I due cilindri siano questi A, B; le cui lunghezze eguali, DG, FH; le basi diseguali, i cerchi i cui diametri CD, EF: dico, la resistenza del cilindro B alla resi- stenza del cilindro A, ad esser rotti, aver triplicata pro- porzione di quella che ha il diametro F È al diametro DC. Imperò che, se consideriamo l'assoluta e semplice resistenza == che risiede nelle basi, cioè ne i _A___G cerchi EF, DC, all’essere strap- © 1 pati facendogli forza col tirargli per diritto, non è dubbio che la resistenza del cilindro B è tanto maggiore che quella del cilindro A, quanto il cerchio EF è maggiore del CD, perché tante più sono le fibre, i filamenti o le parti tenaci, che tengono unite le parti de i solidi. Ma se consideriamo che nel far forza per traverso ci serviamo di due leve, delle quali le parti o distanze dove si applicano le forze sono le linee DG, FH, i sostegni sono ne’ punti D, F, ma le altre parti o distanze dove son poste le resistenze sono i semidiametri de i cerchi DC, E F, perché i filamenti sparsi per tutte le superficie de i cerchi è come se tutti si riducessero ne i centri; considerando, dico, tali leve, intenderemo, la re- sistenza nel centro della base EF contro alla forza di H esser tanto maggiore della resistenza della base CD contro alla forza posta in G (e sono le forze in G ed H di leve eguali DG, FH), quanto il semidiametro FE è maggiore del semidiametro DC. Cresce dunque la resi- Prop. IV. NH si VÀ dx}Àx (VV: SÙ | AN i F 214 GALILEO GALILEI stenza all’esser rotto nel cilindro B sopra la resistenza del cilindro A secondo amendue le proporzioni de i cerchi E F, DC e de i lor semidiametri, o vogliam dir diametri: ma la proporzione de i cerchi è doppia di quella de i diametri: adunque la proporzione delle re- sistenze, che di quelle si compone, è triplicata della pro- porzione de i medesimi diametri: che è quello che dovevo provare. Ma perché anco i cubi sono in tripla. propor- zione de i loro lati, possiamo similmente concludere, le resistenze de i cilindri egualmente lunghi esser tra di loro come i cubi de i lor diametri. Da questo che si è dimostrato possiamo con- cludere ancora, le resistenze de i prismi e cilindri egualmente lunghi aver sesquialtera proporzione di quella de gli stessi cilindri. Il che è manifesto: perché i prismi e cilindri egualmente alti hanno fra di loro la medesima proporzione che le lor basi, cioè doppia de i lati o dia- metri di esse basi: ma le resistenze (come si è dimo- strato) hanno triplicata proporzione de i medesimi lati o diametri; adunque la proporzione delle resistenze è ses- quialtera della proporzione de gli stessi solidi, ed in consequenza de i pesi de i medesimi solidi. SIMPL. Egli è forza che, avanti che si proceda più oltre, io resti sincerato di certa mia difficoltà. E questa è, che sin qui non ho sentito mettere in considerazione cert’altra sorte di resistenza, la quale mi par che venga diminuita ne i solidi secondo che si vanno più e più al- lungando, e non solo nell'uso trasversale, ma ancora per lo lungo: in quel modo appunto che veggiamo, una corda lunghissima esser molto meno atta a reggere un gran peso, che se fusse corta: onde io credo che una verga di legno o di ferro più peso assai potrà reggere se sarà corta, che se sarà molto lunga: intendendo sempre usata per lo lungo, e non in traverso, ed anco messo in conto il suo proprio peso, che nella pit lunga è maggiore. Corol. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 215 SAL. Dubito, Sig. Simplicio, che in questo punto voi, con molti altri, vinganniate, se però ho ben compreso il vostro concetto, si che voi vogliate dire che una corda lunga, v. g.. quaranta braccia non possa sostenere tanto peso, quanto se fussse un braccio o due della medesima corda. SIMPL. Cotesto ho voluto dire, e sin qui mi par pro- posizione assai probabile. SAL. Ma io l'ho per falsa, non che per improbabile; e credo di potervi assai agevolmente cavar d'errore. Però ponghiamo questa corda A B, fermata di sopra dal capo A; e dall’altro sia il peso C, dalla cui forza debba essa corda essere rotta: assegnatemi voi, Sig. Simplicio, il luogo particolare dove debba seguir la rottura. SIMPL. Sia nel luogo D. SAL. Vi domando qual sia la cagione dello strap- parsi in D. SIMPL. È la causa di ciò, perché la corda in quella parte non era potente a reggere, v. g., cento libbre di peso, quanto è la parte DB con la pietra C. SAL. Adunque, tutta volta che tal corda nella parte D venisse violentata dalle medesime cento libbre di peso, ella lf si strapperebbe. SIMPL. Cosi credo. SAL. Ma ditemi ora: chi attaccasse il mede- simo peso non al fine della corda B, ma vicino al punto D, come sarebbe in E, o vero legasse la corda non nella altezza A, ma più vicina e sopra al punto medesimo D, come sarebbe in F, ditemi, dico, se il punto D sentirebbe il me- desimo peso delle cento libbre. '.. SIMPL. Sentirebbelo, accompagnando però il pezzo di corda E B con la pietra C. SAL. Se dunque la corda nel punto D vien tirata dalle medesime cento libbre di peso, si romperà, per la 216 GALILEO GALILEI vostra concessione: e pure la FE è un piccol pezzo della lunga AB: come dunque volete più dire che la corda lunga sia pit debole della corta? Contentatevi dunque d'esser cavato d'un errore nel quale avete auto molti compagni, ed anco per altro molto intelligenti; e segui- tiamo innanzi. Ed avendo dimostrato, i prismi e cilindri crescere il lor momento sopra le proprie resistenze se- condo i quadrati delle lunghezze loro (mantenendo però sempre la medesima grossezza); e parimente, gli egual- mente lunghi, ma differenti in grossezza, crescer le lor resistenze secondo la proporzione de i cubi de i lati o diametri delle lor basi, passiamo a investigare quello che accaggia a tali solidi differenti in lunghezza e grossezza insieme. Ne i quali io osservo che: I prismi e cilindri di diversa lunghezza e erossezza hanno le lor resistenze all'esser rotti di proporzione composta della proporzione de i cubi de’ diametri delle lor basi e della proporzione delle lor lunghezze permutatamente prese. Siano tali due cilindri questi ABC, DEF: dico, la resistenza del cilindro A C alla resistenza del cilindro DF aver la proporzione com- posta della proporzione del cubo del diametro A B al cubo del diametro DE e della pro- porzione della lunghezza E F alla lunghezza B C. Pongasi la EG eguale alla BC, e delle linee A B, DE sia terza proporzionale la H, e quarta la I, e come la EF alla BC cosi sia la I alla S. E perché la resistenza del cilindro A C alla resistenza del cilindro DG è come il cubo A B al cubo DE, cioè come la linea AB alla linea I; e la resistenza del cilindro DG alla resistenza del cilindro Prop. V. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 212 DF come la lunghezza FE alla E G, cioè come la linea I alla S: adunque, per l’egual proporzione, come la re- sistenza del cilindro A C alla resistenza del cilindro D F, cosi la linea AB alla S: ma la linea AB alla S ha la proporzion composta della AB alla I e della Lalla S: adunque la resistenza del cilindro A C alla resistenza del cilindro DF ha la proporzion composta della AB alla I. cioè del cubo di A B al cubo di DE, e della propor- zione della linea I alla S, cioè della lunghezza EF alla lunghezza B C: che è quello che intendevo di dimostrare. Dopo la dimostrata proposizione, voglio che conside- riamo quello che accaggia tra i cilindri e prismi simili: de i quali dimostreremo come: De i cilindri e prismi simili i momenti com- posti, cioè risultanti dalle lor gravità e dalle loro lunghezze, che sono come leve, hanno tra di loro proporzione sesquialtera di quella che hanno le re- sistenze delle medesime lor basi. Per il che dimostrare, segniamo i due cilindri simili A B, CD: dico, il momento del cilindro AB per supe- rare la resistenza della sua base B, al momento di CD per superare la resistenza della sua D, aver sesquialtera proporzione di quella che ha la medesima resistenza della base B alla resistenza della base D. E perché i momenti de i solidi A B, CD per superar le resi- stenze delle lor basi B, D son composti delle lor gravità e delle forze delle lor leve, e la forza della leva AB è eguale alla forza della leva CD (e questo perché la lunghezza AB al semi- diametro della base B ha la medesima proporzione, per la similitudine de’ cilindri, che la lunghezza CD al se- midiametro della base D), resta che ’1 momento totale del cilindro AB al momento totale di C D sia come la Prop. VI. 218 GALILEO GALILEI sola gravità del cilindro AB alla sola gravità del ci- lindro CD, cioè come l’istesso cilindro AB all’istesso CD: ma questi sono in triplicata proporzione de i dia- metri delle basi loro B, D; e le resistenze delle medesime basi, essendo tra di loro come l’istesse basi, sono, in con- sequenza, in duplicata proporzione de i medesimi loro diametri: adunque i momenti de i cilindri son in sesquial- tera proporzione delle resistenze delle basi loro. SIMPL. Questa proposizione mi è veramente giunta non solamente nuova, ma inaspettata, e nel primo aspetto assai remota dal giudizio che io ne averei coniettural- mente fatto: imperò che, essendo tali figure in tutto ’l restante simili, arei tenuto per fermo che anco i mo- menti loro verso le proprie resistenze avessero ritenuta la medesima proporzione. SAGR. Questa è la dimostrazione di quella proposi- zione, che nel principio de’ nostri ragionamenti dissi pa- rermi di scorger per ombra. . SAL. Quello che ora accade al Sig. Simplicio, avvenne per alcun tempo a me, credendo che le resistenze di so- lidi simili fusser simili, sin che certa, né anco molto fissa o accurata, osservazione mi pareva rappresentarmi, ne i solidi simili non mantenersi un tenore eguale nelle loro robustezze, ma i maggiori esser meno atti a patire gl’in- contri violenti, come rimaner pit offesi dalle cadute gli uomini grandi che i piccoli fanciulli; e, come da prin- cipio dicevamo, cadendo dalla medesima altezza vedesi andare in pezzi una gran trave o una colonna, ma non cosi un piccolo corrente o un piccol cilindro di marmo. Questa tal quale osservazione mi destò la mente all’in- vestigazione di quello che ora son per dimostrarvi: pro- prietà veramente ammirabile, poiché tra le infinite figure solide simili tra di loro, pur due non ve ne sono, i mo- menti delle quali verso le proprie resistenze ritenghino la medesima proporzione. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 219 SIMPL. Ora mi fate sovvenire non so che, posto da Aristotele tra le sue Quistioni Mecaniche, mentre vuol render la ragione onde avvenga che i legni, quanto più son lunghi, tanto più son deboli e più si piegano, ben che i più corti sieno più sottili, e i lunghi pit grossi; e se io ben mi ricordo, ne riduce la ragione alla semplice leva. SAL. È verissimo: e perché la soluzione non par che tolga interamente la ragion del dubitare, Monsig. di Gue- vara, il quale veramente con i suoi dottissimi comentarii ha altamente nobilitata e illustrata quell’opera, si estende con altre più acute specolazioni per sciorre tutte le dif- ficoltà, restando però esso ancora perplesso in questo punto, se crescendosi con la medesima proporzione le lunghezze e le grossezze di tali solide figure, si deva man- tenere l’istesso tenore nelle loro robustezze e resistenze nell’esser rotte ed anco nel piegarsi. Io, dopo un lungo pensarvi, ho in questa materia ritrovato quello che se- suentemente son per apportarvi. È prima dimostrerò che: De i prismi o cilindri simili gravi, un solo e unico è quello che si riduce (gravato dal proprio peso) all’ultimo stato tra lo spezzarsi e 1 sostenersi intero: si che ogni maggiore, come im- potente a resistere al proprio peso, si romperà; e ogni minore resiste a qualche forza che gli venga fatta per romperlo. Sia il prisma grave AB ridotto alla somma lunghezza di sua consistenza, si che allungato un minimo di pit si rompesse: dico, questo esser unico tra tutti i suoi simili (che pur sono infiniti); atto ad esser ridotto in tale stato ancipite; si che ogni maggiore, oppresso dal proprio peso, si spezzerà, ed ogni minore no, anzi potrà resistere a qualche aggravio di nuova violenza, oltre a quella del proprio peso. Sia prima il prisma C E, simile e maggiore di A B: dico, questo non poter consistere, ma rompersi, Prop. VII. 220 GALILEO GALILEI superato dalla propria gravità. Pongasi la parte CD lunga quanto A B: e perché la resistenza di C D a quella i di AB è come il cubo della Af Fial B GU H i grossezza di CD al cubo della grossezza di A B, cioè come il prisma C E al pri- CRD Ii o TIR sma AB (essendo simili), Gi Ù " adunque il peso di CE è il sommo che possa esser sostenuto nella lunghezza del prisma CD; ma la lunghezza CÈ è maggiore; adunque il prisma CE si romperà. Ma sia FG minore: si dimo- strera similmente (posta FH eguale alla BA), la resi- stenza di FG a quella di A B esser come il prisma FG al prisma A B, quando la distanza A B, cioè F H, fusse eguale alla FG; ma è maggiore; adunque il momento del prisma FG posto in G non basta per romper il prisma FG. SAGR. Chiarissima e breve dimostrazione, concludente la verità e necessità di una proposizione che, nel primo aspetto, sembra assai remota dal verisimile. Bisognerebbe dunque alterare assai la proporzione tra la lunghezza e la grossezza del prisma maggiore, con l’ingrossarlo o scor- ciarlo, acciò si riducesse allo stato ancipite tra ’1 reggersi e lo spezzarsi; e l’investigazione di tale stato penso che potesse esser altrettanto ingegnosa. SAL. Anzi più presto d’avvantaggio, come anco pit laboriosa; ed io lo so, che vi spesi non piccol tempo per ritrovarla, ed ora voglio participarvela. Dato dunque un cilindro o prisma di mas- sima lunghezza da non esser dal suo proprio peso spezzato, e data una lunghezza maggiore, trovar la grossezza d’un altro cilindro o prisma che sotto la data lunghezza sia l’unico e massimo resistente al proprio peso. (A 7 % 4 Y % 4, Prop. VIII. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 221 Sia il cilindro BC massimo resistente al proprio peso, e sia la DE lunghezza maggiore della A C: bisogna tro- vare la grossezza del cilindro che sotto la lunghezza DE sia il massimo resistente al proprio peso. Sia delle lun- ghezze DE, AC terza proporzionale I, e come DE ad I, cosi sia il diametro F D al diametro B À, e facciasi il cilindro F E: dico, questo esser il massimo ed unico, tra tutti i suoi simili, resistente al A pre! proprio peso. Delle linee DE, I Fasnà sia terza proporzionale M, e D 3 DI quarta O, e pongasi FG eguale (> I alla AC: e perché il diametro FD al diametro A B è come la Cona 7 linea DE alla I, e delle DE, I la O è quarta proporzionale, il cubo di FD al cubo di BA sarà come la DE alla O; ma come il cubo di FD al cubo di B A, cosi è la resistenza del cilindro DG alla resistenza del cilindro BC; adunque la resistenza del ci- lindro DG a quella del cilindro B C è come la linea DE alla O. E perché il momento del cilindro BC è eguale alla sua resistenza, se si mostrerà, il momento del cilindro FE al momento del cilindro B C esser come la resistenza DF alla resistenza BA, cioè come il cubo di FD al cubo di B A, cioè come la linea DE alla O, aremo l'in- tento, cioè il momento del cilindro F E esser eguale alla resistenza posta in F D. Il momento del cilindro FE al momento del cilindro D G è come il quadrato della DE al quadrato della A C, cioè come la linea DE alla I; ma il momento del cilindro DG al momento del cilindro BC è come il quadrato DF al quadrato B A, cioè come il quadrato di DE al quadrato della I, cioè come il qua- drato della I al quadrato della M, cioè come la I alla O; adunque, per l’egual proporzione, come il momento del cilindro F E al momento del cilindro BC, cosi è la linea DE alla O, cioè il cubo DF al cubo BA, cioè la resi- 222 GALILEO GALILEI stenza della base DF alla resistenza della base BA: che è quello che si cercava. SAGR. Questa, Sig. Salviati, è una lunga dimostra- zione, e molto difficile a ritenersi a memoria per sentirla una sola volta; onde io vorrei che V. S. si contentasse di replicarla di nuovo. | SAL. Farò quanto V. S. comanda; ma forse sarebbe meglio arrecarne una più speditiva e breve: ma converrà fare una figura alquanto diversa. SAGR. Maggiore sarà il favore; e la gia dichiarata mi farà grazia darmela scritta, acciò a mio bell’agio possa ristudiarla. SAL. Non mancherò di servirla. Ora intendiamo un cilindro A, il diametro della cui base sia la linea DC, e sia questo A il massimo che possa sostenersi; del quale D $, vogliamo trovare un maggiore, (fee 0 che pur sia il massimo esso an- CE prata ul cora ed unico che si sostenga. eee Re DA Intendiamone un simile ad esso M i A e lungo quanto la linea asse- IDPA gnata, e questo sia, v. g., E, il = diametro della cui base sia la K L, e delle due linee DC, KL sia terza proporzionale la M N, che sia diametro della base del cilindro X, di lunghezza eguale all’E: dico, questo X esser quello che cerchiamo. E perché la resi- stenza DC alla resistenza KL è come il quadrato DC al quadrato K L, cioè come il quadrato K L al quadrato MN, cioè come il cilindro E al cilindro X, cioè come il momento E al momento X: ma la resistenza KL alla MN è come il cubo di K L al cubo di M N, cioè come il cubo DC al cubo K L, cioè come il cilindro A al cilindro E, cioè come il momento A al momento E; adunque, per l'analogia perturbata, come la resistenza DC alla MN, cosi il momento A al momento X: adunque il prisma X DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 223 è nella medesima costituzione di momento e resistenza che il prisma A. Ma voglio che facciamo il problema più generale; e la proposizione sia questa: Dato il cilindro A C, qualunque si sia il suo momento verso la sua resistenza, e data qual si sia lunghezza DE, trovar la grossezza del cilindro, la cui lunghezza sia DE, e ’1 suo momento verso la sua resistenza ritenga la medesima proporzione che il momento del cilindro A C alla sua. Ripresa l’istessa figura di sopra e quasi l'istesso pro- gresso, diremo: perché il momento del cilindro FE al momento della parte DG ha la medesima proporzione che il quadrato E D al quadrato FG, cioè che la linea DE alla I; ed il momento del cilindro F G al momento del cilindro AC è come il quadrato FD al quadrato A B, cioè come il quadrato DE al quadrato I, cioè come il quadrato I al quadrato M, cioè come la linea T'alla: ©; adunque ex aquali, il momento del cilindro FE al mo- mento del cilindro A C ha la medesima proporzione della linea DE alla O, cioè del cubo DE al cubo I, cioè del cubo di F D al cubo di A B, cioè della resistenza della base F D alla resistenza della base A B: ch'è quello che si doveva fare. Or vegghino come dalle cose sin qui dimostrate aper- tamente si raccoglie l'impossibilità del poter non sola- mente l’arte, ma la natura stessa, crescer le sue macchine a vastità immensa: si che impossibil sarebbe fabbricar navilii, palazzi o templi vastissimi, li cui remi, antenne, travamenti, catene di ferro, ed in somma le altre lor parti, consistessero; come anco non potrebbe la natura far alberi di smisurata grandezza, poiché i rami loro, gravati dal proprio peso, finalmente si fiaccherebbero; e parimente sarebbe impossibile far strutture di ossa per uomini, cavalli o altri animali, che potessero sussistere e 224 GALILEO GALILEI far proporzionatamente gli uffizii loro, mentre tali ani- mali si dovesser agumentare ad altezze immense, se già non si togliesse materia molto più dura e resistente della consueta, o non si deformassero tali ossi, sproporzionata- mente ingrossandogli, onde poi la figura ed aspetto del- l’animale ne riuscisse mostruosamente grosso: il che forse fu avvertito dal mio accortissimo Poeta, mentre descri- vendo un grandissimo gigante disse: Non si può compartir quanto sia lungo, Si smisuratamente è tutto grosso. E per un breve esempio di questo che dico, disegnai già la figura di un osso allungato solamente tre volte, ed ingrossato con tal proporzione, che potesse nel suo ani- male grande far l’uffizio proporzionato a quel dell'osso minore nell’animal più piccolo, e le figure son que- ste: dove vedete spropor- zionata figura che diviene quella dell’osso ingrandito. Dal che è manifesto, che chi volesse mantener in un vastissimo gigante le proporzioni che hanno le membra in un uomo ordinario, bisognerebbe o trovar materia molto più dura e resistente, per formarne l’ossa, o vero ammettere che la robustezza sua fusse a proporzione assai piti fiacca che ne gli uomini di statura mediocre; altrimente, crescendogli a smisurata altezza, si vedrebbono dal proprio peso opprimere e ca- dere. Dove che, all'incontro, si vede, nel diminuire i corpi non si diminuir con la medesima proporzione le forze, anzi ne i minimi crescer la gagliardia con pro- porzion maggiore: onde io credo che un piccolo cane porterebbe addosso due o tre cani eguali a sé, ma non penso gia che un cavallo portasse né anco un solo ca- vallo, a se stesso eguale. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 225 SIMPL. Ma se così è, grand’occasione mi danno di dubitare le moli immense che vediamo ne i pesci; ché tal balena, per quanto intendo, sarà grande per dieci ele- fanti; e pur si sostengono. SAL. Il vostro dubbio, Sig. Simplicio, mi fa accorgere d'una condizione da me non avvertita prima, potente essa ancora a far che giganti ed altri animali vastissimi potessero consistere e agitarsi non meno che i minori: e ciò seguirebbe quando non solo si aggiugnesse gagliardia all’ossa ed all’altre parti, offizio delle quali è il sostener il proprio e ’l sopravegnente peso; ma, lasciata la struttura delle ossa con le medesime proporzioni, pur nell’istesso modo, anzi più agevolmente, consisterebbono le medesime fabbriche quando con tal proporzione si diminuisse la gravità della materia delle medesime ossa, e quella della carne o di altro che sopra l’ossa si abbia ad appoggiare. E di questo secondo artifizio si è prevalsa la natura nella fabbrica de i pesci, facendogli le ossa e le polpe non so- lamente assai leggiere, ma senza veruna gravità. SIMPL. Veggo bene, Sig. Salviati, dove tende il vostro discorso: voi volete dire, che per esser l'abitazione de i pesci l’elemento dell’acqua, la quale per la sua corpu- lenza, 0, come altri vogliono, per la sua gravità, scema il peso a i corpi che in quella si demergono, per tal ra- gione la materia de i pesci, non pesando, può senza ag- gravio dell’ossa loro esser sostenuta. Ma questo non basta; perché quando bene il resto della sustanza del pesce non graviti, grava però senza dubbio la materia dell’ossa loro. E chi dirà che una costola di balena, grande quanto una trave, non pesi assaissimo, e nell'acqua non vadia al fondo? Queste dunque non deveriano poter sussistere in si vasta mole. SAL. Voi acutamente opponete: e per risposta al vostro dubbio, ditemi se avete osservato stare i pesci, quando piace loro, sott'acqua immobili, e non descendere 15. - G. Galilei, Opere - II. ‘ 226 GALILEO GALILEI verso "1 fondo o sollevarsi alla superficie senza far qualche forza col nuoto? SIMPL. Questa è chiarissima osservazione. SAL. Questo, dunque, potersi i pesci fermare come immobili a mezz'acqua è concludentissimo argomento, il composto della lor mole corporea agguagliar la gravità in spezie dell’acqua; si che se in esso si trovano alcune parti più gravi dell’acqua, necessariamente bisogna che ve ne siano altre altrettanto men gravi, acciò si possa pareggiar l'equilibrio. Se dunque le ossa son più gravi, è necessario che le polpe, o altre materie che vi siano, sien' più leggiere, e queste si opporranno con la lor leg- gerezza al peso dell’ossa: talché ne gli aquatici avverrà l’opposito di quel che accade ne gli animali terrestri, cioè che in questi tocchi all’ossa a sostenere il peso proprio e quel della carne, e in quelli la carne regga la gravezza propria e quella dell’ossa. E però deve cessar la mara- viglia, come nell'acqua possano essere animali vastissimi, ma non sopra la terra, cioè nell’aria. SIMPL. Resto appagato; e di più noto che questi, che noi addimandiamo animali terrestri, più ragionevolmente si devrebbero dimandar aerei, perché nell’aria veramente vivono, e dall'aria son circondati e dell’aria respirano. SAGR. Piacemi il discorso del Sig. Simplicio, col suo dubbio e con la soluzione: e di più comprendo assai fa- cilmente che uno di questi smisurati pesci, tirato in terra, forse non si potrebbe per lungo tempo sostenere, ma che, relassate le attaccature dell’ossa, la sua mole si ammac- cherebbe. SAL. Io per ora inclino a creder l’istesso; né son lontano a credere che ’1 medesimo avverrebbe a quel vastissimo navilio, il quale, galleggiando in mare, non si dissolve per il peso e carico di tante merci ed armamenti, che in secco e circondato dall’aria forse si aprirebbe. Ma seguitiamo la nostra materia, e dimostriamo come: DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 227 Dato un prisma o cilindro col suo peso, ed il peso massimo sostenuto da esso, si possa trovare la massima lunghezza, oltre alla quale prolungato, dal solo suo proprio peso si romperebbe. Sia dato il prisma AC col suo proprio peso, e dato parimente il peso D, massimo da poter esser sostenuto dall’estremità C: bisogna trovare la lunghezza massima sino alla quale si possa al- lungare il detto prisma senza rompersi. Facciasi, come il peso del prisma A C al com- posto de i pesi A C col dop- pio del peso di D, cosî la lunghezza CA alla A H, tra le quali sia media propor- zionale la A G: dico, AG esser la lunghezza cercata. Imperò che il momento gravante del peso D in C è eguale ‘al momento del peso doppio di D che fusse posto nel mezzo di AC, dove è anco il centro del momento del prisma AC; il momento dunque della resistenza del prisma A C, che sta in A, equivale al gravante del doppio del peso D col peso A C, attaccati però nel mezo di A C. E perché viene ad essersi fatto, come ’1 momento di detti pesi cosi situati, cioè del doppio D con A C, al momento di AC, cosî la HA alla AC, tra le quali è media la AG, adunque il momento del doppio I) col momento AC al momento AC è come il quadrato GA al qua- drato A C: ma il momento premente del prisma G A al momento di AC è come il quadrato GA al quadrato AC: adunque la lunghezza A G è la massima che si cer- cava, cioè quella sino alla quale allungandosi il prisma A C si sosterrebbe, ma più oltre si spezzerebbe. Sin qui si son considerati i momenti e le resistenze de i prismi e cilindri solidi, l’una estremità de i quali sia posta immobile, e solo nell'altra sia applicata la forza di un peso premente, considerandolo esso solo, o ver con- 228 GALILEO GALILEI giunto con la gravità del medesimo solido, o veramente la sola gravità dell’istesso solido: ora voglio che discor- riamo alquanto de i medesimi prismi e cilindri quando fussero sostenuti da amendue l’estremità, o vero che sopra un sol punto, preso tra le estremità, fusser posati. È prima dico, che il cilindro che gravato dal proprio peso sarà ridotto alla massima lunghezza, oltre alla quale più non si sosterrebbe, o sia retto nel mezo da un solo so- stegno o vero da due nelle estremità, potrà esser lungo il doppio di quello che sarebbe, fitto nel muro, cioè so- stenuto in un sol termine. Il che per se stesso è assai ma- nifesto: perché se intenderemo, del cilindro che io segno ABC, la sua metà AB esser la somma lun- ghezza potente a soste- nersi stando fissa nel termine B, nell’istesso modo si sosterrà se, po- sata sopra 1 sostegno G, sar4 contrappesata dall’altra sua metà BC. E simil- mente, se del cilindro DEF la lunghezza sarà tale, che solamente la sua metà potesse sostenersi fissa nel ter- mine D, ed in consequenza l’altra EF fissa nel termine F, è manifesto che posti i sostegni H, I sotto l’estremità D, F, ogni momento che si aggiunga di forza o di peso in E, quivi si farà la rottura. Quello che ricerca più sottile specolazione è quando, astraendo dalla gravità propria di tali solidi, ci fusse proposto di dovere investigare se quella forza o peso che, applicato al mezo d’un cilindro sostenuto nelle estremità, basterebbe a romperlo, potrebbe far l’istesso effetto ap- plicato in qualsivoglia altro luogo, più vicino all'una che all'altra estremità: come, per esempio, se volendo noi rompere una mazza, presola con le mani nell’estremità ed appuntato il ginocchio in mezo, l’istessa forza che ba- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 229 sterebbe usare per romperla in tal modo, basterebbe an- cora quando il ginocchio si puntasse non nel mezzo, ma più vicino all’un de gli estremi. SAGR. Parmi che ’1 problema sia toccato da Aristo- tele nelle sue Questioni Mecaniche. SAL. Il quesito d’Aristotele non è precisamente l'istesso, perché ei non cerca altro, se non di render la ragione perché manco fatica si ricerchi a romperlo tenendo le mani nell’estremità del legno, cioè remote assai dal gi- nocchio, che se le tenessimo vicine: e ne rende una ragione generale, riducendo la causa alle leve più lunghe, quando s'allargano le braccia afferrando l'estremità. Il nostro quesito aggiugne qualche cosa di più, ricercando se, posto il ginocchio nel mezo o in altro luogo, tenendo pur le mani sempre nell’estremità, la medesima forza serva in tutti i siti. SAGR. Nella prima apprensione parrebbe di si, at- teso che le due leve mantengono in certo modo il mede- simo momento, mentre che, quanto si scorcia l’una, tanto sallunga l’altra. SAL. Or vedete quanto sono in pronto l’'equivocazioni, e con quanta cautela e circospezione convien andare per non v'incorrere. Cotesto che voi dite, e che veramente nel primo aspetto ha tanto del verisimile, in ristretto poi è tanto falso, che quando il ginocchio, che è il fulcimento delle due leve, sia posto o non posto nel mezo, fa tal di- versità, che di quella forza che basterebbe per far la frazzione nel mezo, dovendola fare in qualche altro luogo, tal volta non basterà l’applicarvene quattro volte tanto, né dieci, né cento, né mille. Faremo sopra ciò una tal quale considerazione generale, e poi verremo alla speci- fica determinazione della proposizione secondo la quale si vanno variando le forze per far la frazzione più in un punto che in un altro. 230 GALILEO GALILEI Segniamo prima questo legno A B, da rompersi nel mezo sopra "l sostegno C, ed appresso segniamo l'istesso, ma sotto i caratteri DE, da rompersi sopra ‘1 sostegno F, remoto dal mezo. Prima, è manifesto che sendo le di- stanze AC, CB eguali, la forza sarà compartita egual- mente nelle estremità B, A. Secondo, poi che la distanza DF diminuisce dalla distanza AC, il momento della forza posta in D scema dal momento in A, cioè posto nella distanza C A, e scema secondo la proporzione della linea DF alla AC, ed in con- È sequenza bisogna crescerlo DI E per pareggiare o superar la resistenza di F: ma la distan- za DF si può diminuire in infinito in relazione alla di- stanza AC: adunque bisogna poter crescere in infinito la forza da applicarsi in D per pareggiar la resistenza in F. Ma all'incontro, secondo che cresce la distanza F È sopra la C B, convien diminuire la forza in E per pareg- giare la resistenza in F: ma la distanza FE in relazione alla CB non si può crescere in infinito col ritirar il so- stegno F verso il termine D, anzi né anco il doppio: adunque la forza in E per pareggiare la resistenza in F sarà sempre pit che la metà della forza in B. Compren- desi dunque la necessità del doversi agumentare i mo- menti del congiunto delle forze in E, D infinitamente per pareggiare o superar la resistenza posta in F, secondo che il sostegno F s'andrà approssimando verso l’estremità D. SAGR. Che diremo, Sig. Simplicio? non convien egli confessare, la virti della geometria esser il più potente strumento d’ogni altro per acuir l'ingegno e disporlo al perfettamente discorrere e specolare? e che con gran ra- gione voleva Platone i suoi scolari prima ben fondati nelle matematiche? To benissimo avevo compreso la fa- A C B DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 231 cultà della leva, e come crescendo o sciemando la sua lun- ghezza, cresceva o calava il momento della forza e della resistenza; con tutto ciò nella determinazione del presente problema m’ingannavo, e non di poco, ma d’infinito. SIMPL. Veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento prestantissimo per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al destar la mente all'invenzione, all’acutezza della geometria. SAGR. A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni gia fatte e trovate proce- dano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo io. Ma sarà meglio che il Sig. Salviati ci mostri se- condo qual proporzione vadian crescendo i momenti delle forze per superar la resistenza del medesimo legno se- condo i luoghi diversi della rottura. SAL. La proporzione, che ricercate, procede in cotal forma, che: | Se nella lunghezza d’un cilindro si noteranno due luoghi sopra i quali si voglia far la frazzione di esso cilindro, le resistenze di detti due luoghi hanno fra di loro la medesima proporzione che i rettangoli fatti dalle distanze di essi luoghi contra- riamente presi. Siano le forze A, B minime per rompere in C, e le E, F parimente le minime per rompere in D: dico, le forze A, B alle forze E, F aver la proporzion medesima che ha il rettangolo A DB al rettangolo A C B. Imperò che le forze A, B alle forze E, F hanno la proporzion composta delle forze A, B alla forza B, della B alla F, e della F alle F, E: ma come le forze A, B alla forza B, cosi sta la lunghezza BA ad AC; e come la forza B alla F, cosi sta la linea DB alla BC; e come la forza F alle F, E, cosi sta la linea DA alla AB: adunque le forze A, B alle forze E, F hanno la proporzion composta delle 232 GALILEO GALILEI tre, cioè della retta BA ad A C, della DB a BC, e della DA ad AB. Ma delle due DA ad AB, ed AB ad AC, si compone la proporzione della DA ad AC; adunque le forze A, B alle forze E, F hanno la proporzion com- posta di questa DA ad AC e dell'altra DB a BC. Ma il rettangolo ADB al rettan- golo A C B ha la proporzion composta delle medesime DA ad AC e DB a BC: adunque le forze A, B alle E, F stanno come il rettangolo A D B al rettangolo A C B: che è quanto a dire, la resistenza in C ad esser spezzato alla resistenza ad esser rotto in D aver la medesima proporzione che il rettangolo ADB al rettangolo ACB: che è quello, che si doveva provare. In consequenza di questo teorema possiamo risolvere un problema assai curioso; ed è: Dato il peso massimo retto dal mezo di un ci- lindro o prisma, dove la resistenza è minima, e dato un peso maggior di quello, trovare nel detto cilindro il punto nel quale il dato peso maggiore sia retto come peso massimo. Abbia il dato peso, maggiore del peso massimo retto dal mezo del cilindro A B, ad esso massimo la propor- zione della linea E alla F: bisogna trovare il punto nel cilindro dal quale il dato peso venga sostenuto come mas- simo. Tra le due E, F sia media proporzionale la G, e come la E alla G, cosî si faccia la A D alla S: sara la S minore della A D. Sia A D diametro del mezo cerchio AHD, nel quale pongasi la AH eguale alla S, e con- giungasi H D, e ad essa si tagli eguale la DR: dico, il punto R essere il cercato, dal quale il dato peso, mag- giore del massimo retto dal mezo del cilindro D, verrebbe come massimo retto. Sopra la lunghezza BA facciasi il mezo cerchio A NB, e si alzi la perpendicolare RN, e {(BZU9IIG E[[PP BLIO]S IP 9]guUoI 2NT O9Snj ‘OZUO.II J ) ONTMNTVO IO ODTILANOHOS OSSYANOO "HI îì EINE TC a to DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 233 congiungasi ND: e perché i due quadrati NR, RD sono eguali al quadrato ND, cioè al quadrato A D, cioè alli due AH, HD, e ’HD è eguale al quadrato DR, adunque il quadrato N R, cioè il rettangolo A R B, sara eguale al quadrato AH, cioè al quadrato S; ma il quadrato S al qua- drato A D è come la F alla E, cioè come il peso massimo retto in D al dato peso maggiore; adunque questo mag- giore sarà retto in R come il massimo che vi possa esser sostenuto: che è quello che si cercava. SAGR. Intendo benissimo: e vo considerando che, es- sendo il prisma AB sempre più gagliardo e resistente alla pressione nelle parti che più e più si allontanano dal mezo, nelle travi grandissime e gravi se ne potrebbe levar non piccola parte verso l’estremità, con notabile alleggerimento di peso, che ne i travamenti di grandi stanze sarebbe di commodo ed utile non piccolo. E bella cosa sarebbe il ritrovar quale figura devrebbe aver quel tal solido che in tutte le sue parti fusse egualmente re- sistente, tal che non pit facile fusse ad esser rotto da un peso che lo premesse nel mezo, che in qualsivoglia altro luogo. SAL. Già ero in procinto di dirvi cosa assai notabile e vaga in questo proposito. Fo un poco di figura per meglio dichiararmi. Questo DB è un prisma, la cui resi- stenza ad essere spezzato nell’estremità AD da una forza premente nel termine B è tanto minore della resistenza che si troverebbe nel luogo C I, quanto la lunghezza CB è minore della B A, come già si è dimostrato. Intendasi 16. - G. Galilei, Opere - II 234 GALILEO GALILEI adesso il medesimo prisma segato diagonalmente secondo la linea F B, si che le faccie opposte siano due triangoli, uno de i quali, verso noi, è questo F A B: ottiene tal so- lido contraria natura del prisma, cioè che meno resiste all'essere spezzato sopra ’l termine C che sopra l’A dalla forza posta in B, quanto la lunghezza CB è minore della B A. Il che facilmente proveremo: perché intendendo il taglio CNO parallelo all’altro A FD, la linea FA alla CN nel triangolo FAB aré la medesima proporzione che la linea A B alla BC; e però se noi intenderemo, ne i punti A, C esser i so- stegni di due leve, le cui distanze BA, AF, BC, CN, queste saranno simili; e però quel momento che ha la forza posta in B con la distanza BA sopra la resi- stenza posta nella distanza A F, l’arà la medesima forza in B con la distanza BC sopra la medesima resistenza che fusse posta nella distanza C N: ma la resistenza da superarsi nel sostegno C, posta nella distanza C N, dalla forza in B, è minore della resistenza in A tanto, quanto il rettangolo CO è minore del rettangolo AD, cioè quanto la linea CN è minore della AF, cioè la CB della BA: adunque la resistenza della parte OCB ad esser rotto in C è tanto minore della resistenza del- l’intero DAB ad esser rotto in A, quanto la lunghezza CB è minore della AB. Aviamo dunque nel trave o prisma DB levatone una parte, cioè la metà, segandolo diagonalmente, e lasciato il cuneo o prisma triangolare FBA; e sono due solidi di condizioni contrarie, cioè quello tanto più resiste quanto più si scorcia, e questo nello scorciarsi perde altrettanto di robustezza. Ora, stante questo, par ben ragionevole, anzi pur necessario, che se gli possa dare un taglio, per il quale, togliendo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 235 via il superfluo, rimanga un solido di figura tale, che in tutte le sue parti sia egualmente resistente. SIMPL. È ben necessario che dove si passa dal mag- giore al minore, s incontri ancora l’eguale. SAGR. Ma il punto sta ora a trovar come si ha da guidar la sega per far questo taglio. SIMPL. Questo mi si rappresenta che dovrebbe esser opera assai facile; perché, se col segar il prisma diago- nalmente, levandone la metà, la figura che resta ritien contraria natura a quella del prisma intero, si che in tutti i luoghi ne i quali questo acquistava robustezza, quello altrettanto la perdeva, parmi che tenendo la via del mezo, cioè levando solamente la metà di quella metà, che è la quarta parte del tutto, la rimanente figura non guadagner4 nè perderà robustezza in tutti quei medesimi luoghi ne i quali la perdita e il guadagno dell’altre due figure erano sempre eguali. SAL. Voi, Sig. Simplicio, non avete dato nel segno: e st come io vi mostrerò, vedrete veramente che quello che si può segar del prisma e levar via senza indebolirlo, non è la sua quarta parte, ma la terza. Ora resta (che è quello che accennava il Sig. Sagredo) il ritrovar secondo che linea si deve far camminar la sega: la quale proverò che deve esser linea parabolica. Ma prima è necessario dimostrare certo lemma, che è tale: Se saranno due libre o leve, divise da i loro so- stegni in modo, che le due distanze dove si hanno a costituire le potenze, abbiano tra di loro doppia proporzione delle distanze dove saranno le resi- stenze, le quali resistenze siano tra loro come le lor distanze, le potenze sostenenti saranno eguali. Siano due leve A B, C D, divise sopra i lor sostegni E, F talmente, che la distanza E B alla FD abbia doppia proporzione di quella che ha la distanza E A alla KG; ed intendansi in A, C resistenze tra di loro nella propor- 236 GALILEO GALILEI zione di E A, FC: dico, le potenze che in B, D soster- ranno le resistenze di A, C esser tra loro eguali. Pongasi la EG media proporzionale tra E B e FD: sarà dunque come BE ad EG, cosîf GE ad FD ed AEaCKF;e così si è posto esser la resistenza di A alla resistenza di C. E perché come EG ad FD, cosi AE a CF, sarà, per- mutando, come GE ad EA Amile ateo lor hond 0) cost Dadi; tefp-romane | £ G esser le due leve DC, GA CL CITROTD pj divise proporzionalmente ne i punti F, E) quando la po- tenza che posta in D pareggia la resistenza di C, fusse in G, pareggerebbe la medesima resistenza di C posta in À: ma, per il dato, la resistenza di A alla resistenza di C ha la medesima proporzione che la A E alla CF, cioè che la BE alla EG: adunque la potenza G, o vogliam dire D, posta in B, sosterrà la resistenza posta in A: che è quello che si doveva provare. Inteso questo, nella faccia F B del prisma D B sia se- gnata la linea parabolica FNB, il cui vertice B, secondo la quale sia segato esso prisma, restando il solido com- preso dalla base A D, dal piano rettangolo A G, dalla linea retta BG e dalla superficie DG B F, incurvata se- condo la curvità della linea parabolica F N B: dico, tal solido esser per tutto egualmente resistente. Sia segato dal piano CO, parallelo all’A D, e intendansi due leve divise e posate sopra i sostegni A, C, e siano dell’una le distanze BA, AF, e dell’altra le BC, CN. E perché nella parabola FB A la AB alla BC sta come il qua- drato della F A al quadrato di C N, è manifesto, la di- stanza BA dell’una leva alla distanza BC dell’altra aver doppia proporzione di quella che ha l’altra distanza AF all’altra C N: e perché la resistenza da pareggiarsi con la leva BA alla resistenza da pareggiarsi con la leva BC ha la medesima proporzione che ’1 rettangolo D A al ret- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 237 tangolo OC, la quale è la medesima che ha la linea AF alla NC, che sono l’altre due distanze delle leve, è ma- nifesto, per il lemma passato, che la medesima forza che sendo applicata alla linea BG pareggera la resistenza DA, pareggera ancora la resistenza CO. Ed il mede- simo si dimostrerà segandosi il solido in qual si sia altro luogo: adunque tal so- lido parabolico è per tutto egualmente resi- stente. Che poi, segan- dosi il prisma secondo la linea parabolica FNB, se ne levi la terza parte, si fa manifesto: perché la semiparabola FNBA e 7 rettangolo F B son basi di due solidi com- presi tra due piani paralleli, cioè tra i rettangoli F B, DG, per lo che ritengono tra di loro la medesima pro- porzione che esse lor basi; ma il rettangolo FB è sesquial- tero della semiparabola FNBA; adunque, segando il prisma secondo la linea parabolica, se ne leva la terza parte. Di qui si vede come con diminuzion di peso di pit di trentatrè per cento si posson far i travamenti, senza diminuir punto la loro gagliardia; il che ne i navilii grandi, in particolare per regger le coverte, può esser d’utile non piccolo, atteso che in cotali fabbriche la leg- gerezza importa infinitamente. SAGR. Le utilità son tante, che lungo o Si ostiii sarebbe il registrarle tutte: ma io, lasciate queste da banda, arei più gusto d’intender che l’alleggerimento si faccia secondo le proporzioni assegnate. Che il taglio se- condo la diagonale levi la met& del peso, l’intendo be- nissimo; ma che l’altro, secondo la parabolica, porti via la terza parte del prisma, posso crederlo al Sig. Salviati, sempre veridico, ma in ciò piti della fede mi sarebbe grata la scienza. 238 GALILEO GALILEI SAL. Vorreste dunque aver la dimostrazione, come sia vero che l’eccesso del prisma sopra questo che per ora chiamiamo solido parabolico, sia la terza parte di tutto il prisma. So d’averlo altra volta dimostrato; ten- terò ora se potrò rimetter insieme la dimostrazione, per la quale intanto mi sovviene che mi servivo di certo lemma d’Archimede, posto da esso nel libro delle Spirali: ed è, che se quante linee si vogliono si eccederanno egualmente, e l’eccesso sia eguale alla minima di quelle, ed altrettante siano ciascheduna eguale alla massima, i quadrati di tutte queste saranno meno che tripli de i quadrati di quelle che si eccedono; ma i medesimi sa- ranno ben più che tripli di quelli altri che restano, trat- tone il quadrato della massima. Posto questo, sia in questo rettangolo ACBP inscritta la linea parabolica AB: doviamo provare, il triangolo mi- sto BAP, i cui lati sono BP, PA e base la linea parabolica B A, esser la terza parte di tutto ’l ret- tangolo C P. Imperò che, se non è tale, sarà o pit che la terza parte o meno. Sia, se esser può, meno, ed a quello che gli manca intendasi esser eguale lo spazio X. Divi- dendo poi il rettangolo C P continuamente in parti eguali con linee parallele a i lati BP, CA arriveremo finalmente a parti tali, ch'una di loro sarà minore dello spazio X: or sia una di quelle il rettangolo O B, e per i punti dove l’altre parallele segano la linea parabolica, facciansi pas- sare le parallele alla A P; e qui intenderò circoscritta in- torno al nostro triangolo misto una figura composta di rettangoli che sono BO, IN, HM, FL, EK, GA, la qual figura sara pur ancora meno che la terza parte del ret- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 259 tangolo C P, essendo che l’eccesso di essa figura sopra ‘l triangolo misto è manco assai del rettangolo B O, il quale è ancor minore dello spazio X. SAGR. Piano, di grazia, ch'io non vedo come l'eccesso di questa figura circoscritta sopra ’l triangolo misto sia manco assai del rettangolo BO. SAL.Il rettangolo BO non è egli eguale a tutti questi rettangoletti per i quali passa la nostra linea parabolica? dico di questi BI, IH, HF, FE, EG, GA, de i quali una parte sola resta fuori del triangolo misto? ed il.ret- . tangolo BO non si è egli posto ancor minore dello spazio X? Adunque, se il triangolo insieme con l’X pareggiava, per l'avversario, la terza parte del rettangolo Chola figura circoscritta, che al triangolo aggiugne tanto meno che lo spazio X, resterà pur ancora minore della terza parte del rettangolo medesimo CP: ma questo non può essere, perché ella è piti della terza parte: adunque non è vero che il nostro triangolo misto sia manco del terzo del rettangolo. SAGR. Ho intesa la soluzione del mio dubbio. Ma bi- sogna ora provarci che la figura circoscritta sia più della terza parte del rettangolo CP, dove credo che aremo assai più da fare. SAL. Eh non ci è gran difficoltà. Imperò che nella parabola il quadrato della linea DE al quadrato della Z.G ha la medesima proporzione che la linea DA alla AZ, che è quella che ha il rettangolo K E al rettangolo AG (per esser l’altezze AK, KL eguali); adunque la proporzione che ha il quadrato ED al quadrato ZG, cioè il quadrato LA al quadrato A K, l’ha ancora il rettan- golo KE al rettangolo K Z. E nel medesimo modo ap- punto si proverà de gli altri rettangoli LF, MH, NI, O B star tra di loro come i quadrati delle linee M A, NA, OA, PA. Consideriamo adesso come la figura circoscritta è composta di alcuni spazii che tra di loro stanno come 240 VVGATILEO NGATITDEI i quadrati di linee che si eccedono con eccessi eguali alla minima, e come il rettangolo C P è composto di altret- tanti spazii ciascuno eguale al massimo, che sono tutti i rettangoli eguali all’O B; adunque, per il lemma d’Archi- mede, la figura circoscritta è pit della terza parte del rettangolo CP: ma era anche minore, il che è impossi- bile: adunque il triangolo misto non è manco del terzo del rettangolo CP. Dico parimente che non è più. Imperò che, se è più del terzo del rettangolo CP, intendasi lo spazio X eguale all’eccesso del triangolo sopra la terza parte di esso rettangolo C P; e fatta la divisione e suddi- visione del rettangolo in rettangoli sempre eguali, si ar- rivera a tale che uno di quelli sia minore dello spazio X. Sia fatta, e sia il rettangolo BO minore dell’X; e de- scritta come sopra la figura, avremo nel triangolo misto inscritta una figura composta de i rettangoli VO, T N, SM, RL, QK, la quale non sarà ancora minore della terza parte del gran rettangolo C P. Imperò che il trian- golo misto supera di manco assai la figura inscritta di quello che egli superi la terza parte di esso rettangolo CP, atteso che l’eccesso del triangolo sopra la terza parte del rettangolo CP è eguale allo spazio X, il quale è minore del rettangolo BO, e questo è anco minore assai dell’eccesso del triangolo sopra la figura inscrittagli; im- però che ad esso rettangolo BO sono eguali tutti i ret- tangoletti A G, GE, EF, FH, HI, IB, de i quali son ancora manco che la metà gli avanzi del triangolo sopra la figura inscritta. E però, avanzando il triangolo la terza parte del rettangolo CP di più assai (avanzandolo dello spazio X) che ei non avanza la sua figura inscritta, sarà tal figura ancora maggiore della terza parte del rettan- golo CP; ma ella è minore, per il lemma supposto; im- però che il rettangolo CP, come aggregato di tutti i rettangoli massimi, a i rettangoli componenti la figura inscritta ha la medesima proporzione che l’aggregato di DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 241 tutti i quadrati delle linee eguali alla massima a i qua- drati delle linee che si eccedono egualmente, trattone il quadrato della massima; e però (come de i quadrati ac- cade) tutto l’aggregato de i massimi (che è il rettangolo CP) è più che triplo dell’aggregato de gli eccedentisi, trattone il massimo, che compongono la figura inscritta. Adunque il triangolo misto non è né maggiore né minore della terza parte del rettangolo C P; è dunque eguale. SAGR. Bella e ingegnosa dimostrazione, e tanto più, quanto ella ci di la quadratura della parabola, mostran- dola essere sesquiterza del triangolo inscrittogli, provando quello che Archimede con due tra di loro diversissimi, ma amendue ammirabili, progressi di molte proposizioni dimostrò; come anco fu dimostrata ultimamente da Luca Valerio, altro Archimede secondo dell’età nostra, la qual dimostrazione è registrata nel libro che egli scrisse del centro della gravità de i solidi. SAL. Libro veramente da non esser posposto a qual si sia scritto da i più famosi geometri del presente e di tutti i secoli passati; il quale quando fu veduto dall’Ac- cademico nostro, lo fece desistere dal proseguire i suoi trovati, che egli andava continuando di scrivere sopra ’l medesimo suggetto, gia che vedde il tutto tanto felice- mente ritrovato e dimostrato dal detto Sig. Valerio. SAGR. Io ero informato di tutto questo accidente dall’istesso Accademico: e l'avevo anco ricercato che mi lasciasse una volta vedere le sue dimostrazioni sin allora ritrovate quando ei s'incontrò nel libro del Sig. Valerio, ma non mi successe poi il vederle. SAL. Io ne ho copia, e le mostrerò a V. S., che averà gusto di vedere la diversità de i metodi con i quali cam- minano questi due autori per l’investigazione delle mede- sime conclusioni e loro dimostrazioni; dove anco alcune delle conclusioni hanno differente esplicazione, benché in effetto egualmente vere. 242 GALILEO GALILEI SAGR. Mi sarà molto caro il vederle, e V. S., quando ritorni a i soliti congressi, mi farà grazia di portarle seco. Ma intanto, essendo questa, della resistenza del solido ca- vato dal prisma col taglio parabolico, operazione non men bella che utile in molte opere mecaniche, buona cosa sarebbe per gli artefici l'aver qualche regola facile e spe- dita per potere sopra ’l piano del prisma segnare essa linea parabolica. SAL. Modi di disegnar tali linee ce ne son molti, ma due sopra tutti gli altri speditissimi glie ne dirò io: uno de i quali è veramente maraviglioso, poiché con esso, in manco tempo che col compasso altri disegnerà sottilmente sopra una carta quattro o sei cerchi di differenti gran- dezze, io posso disegnare trenta e quaranta linee para- boliche, non men giuste sottili e pulite delle circonferenze di essi cerchi. Io ho una palla di bronzo esquisitamente rotonda, non più grande d'una noce; questa, tirata sopra uno specchio di metallo, tenuto non eretto all’orizonte, ma alquanto inchinato, si che la palla nel moto vi possa camminar sopra, calcandolo leggiermente nel muoversi, lascia una linea parabolica sottilissimamente e pulitissi- mamente descritta, e più larga e più stretta secondo che la proiezzione si sarà più o meno elevata. Dove anco ab- biamo chiara e sensata esperienza, il moto de i proietti farsi per linee paraboliche: effetto non osservato prima che dal nostro amico, il quale ne arreca anco la dimo- strazione nel suo libro del moto, che vedremo insieme nel primo congresso. La palla poi, per descrivere al modo detto le parabole, bisogna, con maneggiarla alquanto con la mano, scaldarla ed alquanto inumidirla, ché così la- scerà più apparenti sopra lo specchio i suoi vestigii. L'altro modo, per disegnar la linea, che cerchiamo, sopra il prisma, procede cosi. Ferminsi ad alto due chiodi in un parete, equidistanti all’orizonte e tra di loro lontani il doppio della larghezza del rettangolo su "1 quale vo- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 243 gliamo notare la semiparabola, e da questi due chiodi penda una catenella sottile, e tanto lunga che la sua sacca si stenda quanta è la lunghezza del prisma: questa catenella si piega in figura parabolica, sî che andando punteggiando sopra ’1 muro la strada che vi fa essa ca- tenella, aremo descritta un’intera parabola, la quale con un perpendicolo, che penda dal mezo di quei due chiodi, si dividerà in parti eguali. Il trasferir poi tal linea sopra le faccie opposte del prisma non ha difficoltà nessuna, si che ogni mediocre artefice lo saprà fare. Potrebbesi anco con l’aiuto delle linee geometriche segnate su '1 compasso del nostro amico, senz’altra fattura, andar su l’istessa faccia del prisma punteggiando la linea medesima. Abbiamo sin qui dimostrate tante conclusioni attenenti alla contemplazione di queste resistenze de i solidi al- l'essere spezzati, con l'aver prima aperto l’ingresso a tale scienza col suppor come nota la resistenza per diritto, che si potrà consequentemente camminar avanti, ritro- vandone altre ed altre conclusioni, e loro dimostrazioni, di quelle che in natura sono infinite. Solo per ora, per ultimo termine de gli odierni ragionamenti, voglio aggiu- snere la specolazione delle resistenze de i solidi vacui, de i quali l’arte, e più la natura, si serve in mille opera- zioni, dove senza crescer peso si cresce grandemente la robustezza, come si vede nell’ossa de gli uccelli ed in moltissime canne, che son leggiere e molto resistenti al piegarsi e rompersi: che se un fil di paglia, che sostien una spiga pit grave di tutto 1 gambo, fusse fatto della medesima quantità di materia, ma fusse massiccio, sa- rebbe assai meno resistente al piegarsi ed al rompersi. È con tal ragione ha osservato l’arte, e confermato l’espe- rienza, che un’asta vota o una canna di legno o di me- tallo è molto pit salda che se fusse, d’altrettanto peso e della medesima lunghezza, massiccia, che in consequenza sarebbe più sottile; e però l’arte ha trovato di far vote 244 GALILEO GALILEI dentro le lancie, quando si desideri averle gagliarde e leggiere. Mostreremo per tanto, come: Le resistenze di due cilindri eguali ed egual- mente lunghi, l'uno de i quali sia voto e l’altro massiccio, hanno tra di loro la medesima propor- zione che i lor diametri. Siano, la canna o cilindro voto A E, ed il cilindro IN massiccio, eguali in peso ed egualmente lunghi: dico, la resistenza della canna AE all’esser rotta alla resistenza del cilindro solido IN aver la medesima proporzione che ’1 diametro A B al diametro IL. Il che è assai mani- festo: perché, essendo la canna e ’l cilindro IN eguali ed egualmente lunghi, il cerchio IL, base del cilindro, sarà eguale alla ciambella A B, base della canna A E (chiamo ciam- bella la superficie che resta, tratto un cerchio minore dal suo concentrico maggiore), e però le loro resistenze assolute saranno eguali: ma perché nel romper in traverso ci serviamo, nel cilindro I N, della lunghezza LN per leva, e per sostegno del punto L, e del semidia- metro o diametro LI per contralleva, e nella canna la parte della leva, cioè la linea B E, è eguale alla LN, ma la contralleva oltre al sostegno B è il semidiametro o diametro A B, resta manifesto, la resistenza della canna superar quella del cilindro solido secondo l’eccesso del diametro A B sopra ’1 diametro I L: che è quello che cer- cavamo. S'acquista, dunque, di robustezza nella canna vota sopra la robustezza del cilindro solido secondo la proporzione de i diametri, tutta volta però che amendue siano dell’istessa materia, peso e lunghezza. Sarà bene che conseguentemente andiamo investigando quello che accaggia negli altri casi indifferentemente tra tutte le canne e cilindri solidi egualmente lunghi, benché in quan- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 245 tità di peso diseguali e più e meno evacuati. E prima di- mostreremo, come: Data una canna vota, si possa trovare un ci- lindro pieno, eguale ad essa. Facilissima è tal operazione. Imperò che sia la linea AB diametro della canna, e CD diametro del voto: applichisi nel cer- chio maggiore la linea A E egual al diametro C D, e congiungasi la E B. E perché nel mezo cerchio A EB l'angolo E è retto, il cerchio il cui diametro è A B, sar4 eguale alli due cerchi de i diametri A F, EB; ma AÉ è il diametro del voto della canna; adunque il cerchio il cui diametro sia EB, sara egual alla ciambella ACBD: e però il cilindro solido, il cerchio della cui base abbia il diametro E B, sarà eguale alla canna, essendo egualmente lungo. Dimostrato questo, po- tremo speditamente Trovare qual proporzione abbiano le resistenze d’una canna e di un cilindro, qualunque siano, pur che egualmente lunghi. Sia la canna ABE, ed il cilindro RSM egualmente lungo: bisogna trovare qual I ; 1 A proporzione abbiano tra di loro le lor resistenze. Trovisi, (TM per la precedente, il cilindro B RI ILN eguale alla canna ed egualmente lungo, e delle li- DELI DANA Reaper) nee IL, RS (diametri delle S basi de i cilindri IN, RM) sia quarta proporzionale la CH linea V: dico, la resistenza della canna A E a quella del cilindro RM esser come la linea AB alla V. Imperò che, essendo la canna A É 246 GALILEO GALILEI eguale ed egualmente lunga al cilindro I N, la resistenza della canna alla resistenza del cilindro starà come la linea A B alla IL: ma la resistenza del cilindro I N alla resistenza del cilindro RM sta come il cubo IL al cubo RS, cioè come la linea IL alla V; adunque, ex @quali, la resistenza della canna A È alla resistenza del cilindro RM ha la medesima proporzione che la linea AB alla V: che è quello che si cercava. FINISCE LA SECONDA GIORNATA. GIORNATA TERZA. DE MOTU LOCALI. De subiecto vetustissimo novissimam promovemus scientiam. MOTU nil forte antiquius in natura, et circa eum volumina nec pauca nec parva a philosophis cons- cripta reperiuntur; symptomatum tamen, qua complura et scitu digna insunt in eo, adhuc inobservata, necdum indemonstrata, comperio. Leviora quadam adnotantur, ut, gratia exempli, naturalem motum gravium descen- dentium continue accelerari; verum, iuxta quam propor- tionem eius fiat acceleratio, proditum hucusque non est: nullus enim, quod sciam, demonstravit, spatia a mobili descendente ex quiete peracta in temporibus aqualibus, eam inter se retinere rationem, quam habent numeri im- pares ab unitate consequentes. Observatum est, missilia, seu proiecta, lineam qualitercunque curvam designare; peruntamen, eam esse parabolam, nemo prodidit. Haec ita esse, et alia non pauca nec minus scitu digna, a me de- monstrabuntur, et, quod pluris faciendum censeo, aditus et accessus ad amplissimam preestantissimamque scien- tiam, cuius hi nostri labores erunt elementa, recludetur, in qua ingenia meo perspicaciora abditiores recessus pe- netrabunt. Tripartito dividimus hanc tractationem: in prima parte consideramus ea qua spectant ad motum @qua- bilem, seu uniformem; in secunda de motu naturaliter accelerato scribimus; in tertia, de motu violento, seu de proiectis. 248 GALILEO GALILEI DE MOTU AQUABILI. Circa motum aquabilem, seu uniformem, unica opus habemus definitione, quam eiusmodi profero: DEFINITIO. Aqualem, seu uniformem, motum intelligo eum, cuius partes quibuscunque temporibus aequalibus a mobili pe- ractae, sunt inter se aequales. ADMONITIO. Visum est addere veteri definitioni (quae simpliciter appellat motum aquabilem, dum temporibus aqualibus aqualia transiguntur spatia) particulam quibuscunque, hoc est omnibus temporibus aqualibus: fieri enim potest, ut temporibus aliquibus aqualibus mobile pertranseat spatia sequalia, dum tamen spatia transacta in partibus eorundem temporum minoribus, licet aequalibus, sequalia non sint. Ex allata definitione quatuor pendent axiomata, scilicet: AXIOMA I. Spatium transactum tempore longiori in eodem motu aquabili maius esse spatio transacto tempore breviori. AXIOMA ILL Tempus quo maius spa‘ium conficitur in eodem motu zequabili, longius est tempore quo conficitur spatium minus. AXIOMA III. Spatium a maiori velocitate confectum tempore eodem, maius est spatio confecto a minori velocitate. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 249” AXIOMA IV. Velocitas qua tempore eodem conficitur maius spa- tium, maior est velocitate, qua conficitur spatium minus. THEOREMA I, PROPOSITIO I. Si mobile aequabiliter latum eademque cum ve- locitate duo pertranseat spatia, tempora lationum erunt inter se ut spatia peracta. Pertranseat enim mobile aquabiliter latum eadem cum velocitate duo spatia A B, BC, et sit tempus motus per A B, DE; tempus vero motus per BC esto EF: dico, ut spatium AB ad spatium BC, ita esse tempus DE ad tempus EF. Protrahantur utrinque spatia et tempora versus G, H et I, K, et in AG su- 1,100; ee Tr rei 215 (01 mantur quotcun- Geo pata ga Hi que spatia ipsi AB «aqualia, et totidem tempora in DI, tempori DE, similiter aqualia; et rursus in CH sumantur secundum quamcunque multitudinem spatia ipsi CB sequalia, et totidem tempora in FK, tempori EF @aqualia: erunt iam spatium BG et tempus EI aque multiplicia spatîii BA et temporis ED iuxta quamcunque multiplicationem accepta, et similiter spatium HB et tempus KE spatii CB temporisque F E aque multiplicia in qualibet multi- plicatione. Et quia DE est tempus lationis per A B, erit totum EI tempus totius BG, cum motus ponatur aqua- bilis sintque in EI tot tempora ipsi DE aqualia quot sunt in BG spatia aequalia B A; et similiter concludetur, K E esse tempus lationis per HB. Cum autem motus po- natur sequabilis, si spatium GB esset @quale ipsi BH, tempus quoque I E tempori E K. foret @quale; et si GB maius sit quam BH, etiam TE quam EK maius erit; et si minus, minus. Sunt itaque quatuor magnitudines, A B 250 GALILEO GALILEI prima, BC secunda, DE tertia, EF quarta, et prima et lertie, nempe spatii A B et temporis DE, sumpta sunt xeque multiplicia iuxta quamcunque multiplicationem tempus TE et spatium GB; ac demonstratum est, hac vel una @quari, vel una deficere, vel una excedere, tempus EK et spatium BH, @que multiplicia scilicet secunda et quarta: ergo prima ad secundam, nempe spatium AB ad spatium BC, eandem habet rationem quam tertia et quarta, nempe tempus DE ad tempus EF: quod erat demonstrandum. THEOREMA II, PROPOSITIO IL Si mobile temporibus aqualibus duo pertran- seat spatia, erunt ipsa spatia inter se ut veloci- tates. Et si spatia sint ut velocitates, tempora erunt aqualia. Assumpta enim superiori figura, sint duo spatia A B, BC transacta aqualibus temporibus, spatium quidem A B cum pelocitate DE, et spatium BC cum pelocitate E F: dico, spatium AB ad spatium BC esse ut DE pe- locitas ad velocitatem EF. Sumptis enim utrinque, ut supra, et spatiorum et velocitatum aque multiplicibus secundum quamcunque multiplicationem, scilicet GB et TE ipsorum AB et DE, pariterque HB, KE ipsorum BC, EF, concludetur, eodem modo ut supra, multiplicia GB, IE vel una deficere, vel @quari, vel excedere, e que multiplicia BH, EK. Igitur et manifestum est propositum. THEOREMA III, PROPOSITIO III. Inaqualibus velocitatibus per idem spatium la- torum tempora, velocitatibus e contrario respondent. Sint velocitates inaequales A maior, B minor, et se- cundum utramque fiat motus per idem spatium CD: dico, tempus quo A velocitas permeat spatium CD, ad DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 251 tempus quo velocitas B idem spatium permeat, esse ut pelocitas B ad velocitatem A. Fiat enim ut A ad B, ita CD ad CE: erit igitur, ex precedenti, tempus, quo À pelocitas conficit C D, idem cum tempore quo B conficit CE: sed tempus quo velocitas B conficit C E, ad tempus quo eadem conficit CD, est ut CE ad CD; £ Eye: ergo tempus quo velocitas A con- ficit C D, ad tempus quo velocitas B idem CD conficit, est ut CE ad CD, hoc est ut velocitas B ad velocitatem A: quod erat intentum. THEOREMA IV, PROPOSITIO IV. Si duo mobilia ferantur motu @quabili, inaequali tamen velocitate, spatia temporibus inaequalibus ab ipsis peracta habebunt rationem compositam ex ra- tione velocitatum et ex ratione temporum. Mota sint duo mobilia E, F motu aquabili, et ratio velocitatis mobilis E ad velocitatem mobilis F sit ut A ad B: temporis vero quo movetur E, ad tempus quo mo- petur F, ratio sit ut C ad D: dico, spatium peractum ab E cum velocitate A in tempore C, ad spatium peractum ab F cum pvelocitate B in tempore D, habere ratio- pi nem compositam ex ratio- Crac ne velocitatis A. ad velo- B 1 citatem B et ex ratione pio i temporis C ad tempus D. Sit spatium ad E cum velocitate A in tempore C peractum G, et ut velocitas A ad velocitatem B, ita fiat G ad I; ut autem tempus C ad tempus D, ita sit I ad L: constat, I esse spatium quo movetur F in tempore eodem in quo E motum est per G, cum spatia G, I sint ut velocitates A, B. Et cum sit ut tempus C ad tempus D, ita I ad L: sit autem 252 GALILEO GALILEI I spatium quod conficitur a mobili F in tempore C; erit L spaltium quod conficitur ab F in tempore D cum velocitate B. Ratio autem G ad L componitur ex rationibus G ad I et 1 ad L, nempe ex rationibus velocitatis A ad veloci- tatem B et temporis C ad tempus D: ergo patet pro- positum. THEOREMA V, PROPOSITIO V. Si duo mobilia aquabili motu ferantur, sint tamen velocitates inaquales, et inaequalia spatia pe- racta, ratio temporum composita erit ex ratione spatiorum et ex ratione velocitatum contrarie sump- tarum. Sint duo mobilia A, B, sitque velocitas ipsius A ad velocitatem ipsius B ut V ad T; spatia autem peracta sint ut S ad R: dico, rationem temporis quo motum est A, ad tempus quo motum est B, compositam esse ex ra- tione velocitatis T ad V è, ) As velocitatem V et ex È È ratione spatii S ad Big G-_———_—__________ spatium R. Sit ipsius motus A tempus C, et ut velocitas T ad velocitatem V, ita sit tempus C ad tempus E; et cum C sit tempus in quo A cum velocitate V conficit spatium S, sitque ut velocitas T mobilis B ad velocitatem V, ita tempus C ad tempus È, erit tempus E illud in quo mobile B conficeret idem spatium S. Fiat modo ut spatium S ad spatium R, ita tempus E ad tempus G: constat, G esse tempus quo B conficeret spatium R. Et quia ratio C ad G componitur ex rationibus C ad E et E ad G; est autem ratio C ad E eadem cum ratione velocitatum mobilium A, B contrarie sumptarum, hoc est cum ratione T ad V; ratio vero È ad G est eadem cum ratione spatiorum S, R; ergo patet propositum. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 253 THEOREMA VI, PROPOSITIO VI. Si duo mobilia aquabili motu ferantur, ratio velocitatum ipsorum composita erit ex ratione spa- tiorum peractorum et ex ratione temporum con- trarie sumptorum. Sint duo mobilia A, B, aquabili motu lata; sint autem spatia ab illis peracta in ratione V ad T, tempora vero sint ut S ad R: dico, velocitatem mobilis A_ ad velocitatem at c di d (e ipsius B habere ralionem compositam ex ratione spatii V ad spatium T et temporis R_ ad tempus S. Sit velocitas C ea cum qua mobile A conficit spatium V in tempore S, et quam rationem habet spatium V ad spatium T, hanc habeat velocitas C ad aliam E; erit È velocitas cum qua mobile B conficit spatium T in tem- pore eodem S: quod si fiat, ut tempus R ad tempus S, ita velocitas E ad aliam G, erit velocitas G illa secundum quam mobile B conficit spatium T in tempore R. Habe- mus itaque velocitatem C, cum qua mobile A conficit spatium V in tempore $, et velocitatem G, cum qua mo- bile B conficit spatium T in tempore R, et est ratio C ad G composita ex rationibus C ad E et E ad G; ratio autem C ad E posita est eadem cum ratione spatii V ad spatium T; ratio vero E ad G est eadem cum ratione R_ ad S: ergo patet propositum. SAL. Questo che abbiamo veduto, è quanto il nostro Autore ha scritto del moto equabile. Passeremo dunque a più sottile e nuova contemplazione intorno al moto na- turalmente accelerato, quale è quello che generalmente è 254 GALILEO GALILEI esercitato da i mobili gravi descendenti: ed ecco il titolo e l'introduzione. DE MOTU NATURALITER ACCELERATO. Qua in motu aquabili contingunt accidentia, in pra- cedenti libro considerata sunt: modo de motu accelerato pertractandum. Et primo, definitionem ei, quo utitur natura, ap- prime congruentem investigare atque explicare convenit. Quamvis enim aliquam lationis speciem ex arbitrio con- fingere, et consequentes eius passiones contemplari, non sit inconveniens (ita, enim, qui helicas aut conchoides lineas ex motibus quibusdam exortas, licet talibus non utatur natura, sibi finxerunt, earum symptomata ex supposi- tione demonstrarunt cum laude), tamen, quandoquidem quadam accelerationis specie gravium descendentium uti- tur natura, eorundem speculari passiones decrevimus, si eam, quam allaturi sumus de nostro motu accelerato de- finitionem, cum essentia motus naturaliter accelerati con- gruere conligerit. Quod tandem, post diuturnas mentis agitationes, repperisse confidimus; ea potissimum ducti ratione, quia symptomatis, deinceps a nobis demonstratis, apprime respondere atque congruere videntur ea, qua na- turalia experimenta sensui reprasentant. Postremo, ad investigalionem motus naturaliter accelerati nos quasi manu duxit animadversio consuetudinis atque instituti ipsiusmet natura in ceteris suis operibus omnibus, in quibus exercendis uti consuevit mediis primis, simplicis- simis, facillimis. Neminem enim esse arbitror qui credat, natatum aut volatum simpliciori aut faciliori modo exer- ceri posse, quam eo ipso, quo pisces et aves instinctu naturali utuntur. Dum igitur lapidem, ex sublimi a quiete descen- dentem, nova deinceps velocitatis acquirere incrementa DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 255 animadverto, cur talia additamenta, simplicissima atque omnibus magis obvia ratione, fieri non credam? Quod si attente inspiciamus, nullum additamentum, nullum incre- mentum, magis simplex inveniemus, quam illud, quod semper eodem modo superaddit. Quod facile intelligemus, maximam temporis atque motus affinitatem inspicientes: sicut enim motus @quabilitas et uniformitas per tempo- rum spatiorumque aquabilitates definitur ac concipitur (lationem, enim, tunc aquabilem appellamus, cum tem- poribus aqualibus aqualia conficiuntur spatia), ita per easdem aqualitates partium temporis, incrementa celeri- tatis simpliciter facta percipere possumus; mente conci- pientes, motum illum uniformiter eodemque modo con- tinue acceleratum esse, dum temporibus quibuscumque aqualibus aqualia ei superaddantur celeritatis addita- menta. Adeo ut, sumptis quotcumque temporis particulis aqualibus a primo instanti in quo mobile recedit a quiete et descensum aggreditur, celeritatis gradus in prima cum secunda temporis particula acquisitus, duplus sit gradus quem acquisivit mobile in prima particula; gradus vero quem obtinet in tribus temporis particulis, triplus; quem in quatuor, quadruplus eiusdem gradus primi temporis: ita ut (clarioris intelligentia causa), si mobile lationem suam continuaret iuxta gradum seu momentum veloci- tatis in prima temporis particula acquisita, motumque suum deinceps 2quabiliter cum tali gradu extenderet, latio haec duplo esset tardior ea, quam iuxta gradum pelocitatis in duabus temporis particulis acquisita obti- neret. Et sic a recta ratione absonum nequaquam esse vi- detur, si accipiamus, intentionem velocitatis fieri iuxta temporis extensionem; ex quo definitio motus, de quo acturi sumus, talis accipi potest: Motum aquabiliter, seu uniformiter, acceleratum dico illum, qui, a quiete recedens, temporibus aqualibus aqualia celeritatis momenta sibi superaddit. 256 GALILEO GALILEI SAGR. Io, si come fuor di ragione mi opporrei a questa o ad altra definizione che da qualsivoglia autore fusse assegnata, essendo tutte arbitrarie, cosî ben posso senza offesa dubitare se tal definizione, concepita ed ammessa in astratto, si adatti, convenga e si verifichi in quella sorte di moto accelerato che i gravi natural- mente descendenti vanno esercitando. E perché pare che l'Autore ci prometta che tale, quale egli ha definito, sia il moto naturale de i gravi, volentieri mi sentirei rimuover certi scrupoli che mi perturbano la mente, acciò poi con maggior attenzione potessi applicarmi alle proposizioni, e lor dimostrazioni, che si attendono. SAL. È bene che V. S. ed il Sig. Simplicio vadano proponendo le difficoltà; le quali mi vo immaginando che siano per essere quelle stesse che a me ancora sov- vennero, quando primieramente veddi questo trattato, e che o dall’Autor medesimo, ragionandone seco, mi furon sopite, o tal una ancora da me stesso, co ’1 pensarvi, rimosse. SAGR. Mentre io mi vo figurando, un mobile grave descendente partirsi dalla quiete, cioè dalla privazione di ogni velocità, ed entrare nel moto, ed in quello andarsi velocitando secondo la proporzione che cresce ’1 tempo dal primo instante del moto, ed avere, v. g., in otto bat- tute di polso acquistato otto gradi di velocità, della quale nella quarta battuta ne aveva guadagnati quattro, nella seconda due, nella prima uno, essendo il tempo subdivi- sibile in infinito, ne séguita che, diminuendosi sempre con tal ragione l’antecedente velocità, grado alcuno non sia di velocità cosi piccolo, o vogliamo dir di tardità cosi grande, nel quale non si sia trovato costituito l’istesso mo- bile dopo la partita dall’infinita tardità, cioè dalla quiete: tal che, se quel grado di velocità ch’egli ebbe alle quattro battute di tempo, era tale che, mantenendola equabile, arebbe corso due miglia in un’ora, e co ’1 grado di velo- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 257 cità ch’ebbe nella seconda battuta arebbe fatto un miglio per ora, convien dire che ne gl’instanti ‘del tempo più e più vicini al primo della sua mossa dalla quiete si tro- vasse cosî tardo, che non arebbe (seguitando di muoversi con tal tardità) passato un miglio in un'ora, né in un giorno, né in un anno, né in mille, né passato anco un sol palmo in tempo maggiore; accidente al quale pare che assai mal agevolmente s'accomodi l'immaginazione, mentre che il senso ci mostra, un grave cadente venir subito con gran velocità. SAL. Questa è una delle difficoltà che a me ancora su ’l principio dette che pensare, ma non molto dopo la rimossi; ed il rimuoverla fu effetto della medesima espe- rienza che di presente a voi la suscita. Voi dite, parervi che l’esperienza mostri, che a pena partitosi il grave dalla quiete, entri in una molto notabile velocità; ed io dico che questa medesima esperienza ci chiarisce, i primi impeti del cadente, benché gravissimo, esser lentissimi e tardissimi. Posate un grave sopra una materia cedente, lasciandovelo sin che prema quanto egli può con la sua semplice gravità: è manifesto che, alzandolo un braccio o due, lasciandolo poi cadere sopra la medesima materia, farà con la percossa nuova pressione, e maggiore che la fatta prima co ’l solo peso; e l’effetto sarà cagionato dal mobile cadente congiunto con la velocità guadagnata nella caduta, il quale effetto sarà più e piti grande, secondo che da maggior altezza verrà la percossa, cioè secondo che la velocità del percuziente sarà maggiore. Quanta dunque sia la velocità d’un grave cadente, lo potremo noi senza errore conietturare dalla qualità e quantità della per- cossa. Ma ditemi, Signori: quel mazzo che lasciato cadere sopra un palo dall’altezza di quattro braccia lo ficca in terra, v. g., quattro dita, venendo dall’altezza di duo braccia lo caccerà assai manco, e meno dall’altezza di uno, e manco da un palmo; e finalmente, sollevandolo 17. - G. Galilei, Opere - II. 258 AN GALILEO GALILEI un dito, che farà di pi che se, senza percossa, vi fusse posto sopra? certo pochissimo: ed operazione del tutto impercettibile sarebbe, se si elevasse quanto è grosso un foglio. E perché l’effetto della percossa si regola dalla ve- locità del medesimo percuziente, chi vorra dubitare che lentissimo sia 1 moto e più che minima la velocità, dove l'operazione sua sia impercettibile? Veggano ora quanta sia la forza della verità, mentre l’istessa esperienza che pareva nel primo aspetto mostrare una cosa, meglio con- siderata ci assicura del contrario. Ma senza ridursi a tale esperienza (che senza dubbio è concludentissima), mi pare che non sia difficile co ‘1 semplice discorso penetrare una tal verità. Noi abbiamo un sasso grave, sostenuto nell’aria in quiete; si libera dal sostegno e si pone in libertà, e, come più grave dell’aria, vien descendendo al basso, e non con moto equabile, ma lento nel principio, e conti- nuamente dopo accelerato: ed essendo che la velocità è augumentabile e menomabile in infinito, qual ragione mi persuaderà che tal mobile, partendosi da una tardità in- finita (ché tal è la quiete), entri immediatamente in dieci. gradi di velocità più che in una di quattro, o in questa prima che in una di due, di uno, di un mezo, di un cen- tesimo? ed in somma in tutte le minori in infinito? Sen- tite, in grazia. Io non credo che voi fuste renitenti a concedermi che l'acquisto de i gradi di velocità del sasso cadente dallo stato di quiete possa farsi co ’l1 medesimo ordine che la diminuzione e perdita de i medesimi gradi, mentre da virti impellente fusse ricacciato in su alla me- desima altezza; ma quando ciò sia, non veggo che si possa dubitare che nel diminuirsi la velocità del sasso ascendente, consumandola tutta, possa pervenire allo stato di quiete prima che passar per tutti i gradi di tardità. SIMPL. Ma se i gradi di tardità maggiore e maggiore sono infiniti, gia mai non si consumeranno tutti; onde tal grave ascendente non si condurrà mai alla quiete, ma in- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 259 finitamente si moverà, ritardandosi sempre: cosa che non si vede accadere. SAL. Accaderebbe cotesto, Sig. Simplicio, quando il mobile andasse per qualche tempo trattenendosi in cia- schedun grado; ma egli vi passa solamente, senza dimo- rarvi oltre a un instante; e perché in ogni tempo quanto, ancor che piccolissimo, sono infiniti instanti, però son bastanti a rispondere a gl’infiniti gradi di velocità di- minuita. Che poi tal grave ascendente non persista per verun tempo quanto in alcun medesimo grado di velocità, si fa manifesto cosi: perché se, assegnato qualche tempo quanto, nel primo instante di tal tempo ed anco nell’ul- timo il mobile si trovasse aver il medesimo grado di ve- locità, potrebbe da questo secondo grado esser parimente sospinto in su per altrettanto spazio, sî come dal primo fu portato al secondo, e per l’istessa ragione passerebbe dal secondo al terzo, e finalmente continuerebbe il suo moto uniforme in infinito. SAGR. Da questo discorso mi par che si potrebbe cavare una assai congrua ragione della quistione agitata tra i filosofi, qual sia la causa dell’accelerazione del moto naturale de i gravi. Imperò che, mentre io considero, nel grave cacciato in su andarsi continuamente diminuendo quella virti impressagli dal proiciente; la quale, sin che fu superiore all’altra contraria della gravità, lo sospinse in alto; giunte che siano questa e quella all'equilibrio, resta il mobile di più salire e passa per lo stato della quiete, nel quale l’impeto impresso non è altramente an- nichilato, ma solo consumatosi quell’eccesso che pur dianzi aveva sopra la gravità del mobile, per lo quale, preva- ‘ lendogli, lo spigneva in su; continuandosi poi la dimi- nuzione di questo impeto straniero, ed in consequenza cominciando il vantaggio ad esser dalla parte della gra- vità, comincia altresi la scesa, ma lenta per il contrasto della ‘virti impressa, buona parte della quale rimane an- 260 GALILEO GALILEI cora nel mobile; ma perché ella pur va continuamente diminuendosi, venendo sempre con maggior proporzione superata dalla gravità, quindi nasce la continua accele- razione del moto. SIMPL. Il pensiero è arguto, ma pit sottile che saldo: imperò che, quando pur sia concludente, non sodisfà se non a quei moti naturali a i quali sia preceduto un moto violento, nel quale resti ancora vivace parte della virtù esterna: ma dove non sia tal residuo, ma si parta il mo- bile da una antiquata quiete, cessa la forza di tutto il discorso. SAGR. Credo che voi siate in errore, e che questa di- stinzione di casi, che fate, sia superflua, o, per dir meglio, nulla. Però ditemi, se nel proietto può esser tal volta im- pressa dal proiciente molta e tal ora poca virti, si che possa essere scagliato in alto cento braccia, ed anco venti, o quattro, o uno? SIMPL. Non è dubbio che si. SAGR. E non meno potrà cotal virti impressa di cosi poco superar la resistenza della gravità, che non l'alzi più d'un dito; e finalmente può la virtà del proiciente esser solamente tanta, che pareggi per l'appunto la resi- stenza della gravità, sî che il mobile sia non cacciato in alto, ma solamente sostenuto. Quando dunque voi reggete in mano una pietra, che altro gli fate voi che l’impri- merli tanta virtîi impellente all’in su, quanta è la facolta della sua gravità, traente in giù? e questa vostra virtù non continuate voi di conservargliela impressa per tutto il tempo che voi la sostenete in mano? si diminuisce ella forse per la lunga dimora che voi la reggete? e questo so- stentamento che vieta la scesa al sasso, che importa che sia fatto più dalla vostra mano, che da una tavola, o da una corda dalla quale ei sia sospeso? Certo niente. Con- cludete pertanto, Sig. Simplicio, che il precedere alla ca- duta del sasso una quiete lunga o breve o momentanea, DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 261 non fa differenza alcuna, si che il sasso non parta sempre affetto da tanta virti contraria alla sua gravità, quanta appunto bastava a tenerlo in quiete. SAL. Non mi par tempo opportuno d’entrare al pre- sente nell’investigazione della causa dell’accelerazione del moto naturale, intorno alla quale da varii filosofi varie sentenzie sono state prodotte, riducendola alcuni all’avvi- cinamento al centro, altri al restar successivamente manco parti del mezo da fendersi, altri a certa estrusione del mezo ambiente, il quale, nel ricongiugnersi a tergo del mobile, lo va premendo e continuatamente scacciando; le quali fantasie, con altre appresso, converrebbe andare esaminando e con poco guadagno risolvendo. Per ora basta al nostro Autore che noi intendiamo che egli ci vuole investigare e dimostrare alcune passioni di un moto accelerato (qualunque si sia la causa della sua accelera- zione) talmente, che i momenti della sua velocità vadano accrescendosi, dopo la sua partita dalla quiete, con quella semplicissima proporzione con la quale cresce la conti- nuazion del tempo, che è quanto dire che in tempi eguali si facciano eguali additamenti di velocità; e se s’incon- trerà che gli accidenti che poi saranno dimostrati si ve- rifichino nel moto de i gravi naturalmente descendenti ed accelerati, potremo reputare che l’assunta definizione comprenda cotal moto de i gravi, e che vero sia che l’ac- celerazione loro vadia crescendo secondo che cresce il tempo e la durazione del moto. SAGR. Per quanto per ora mi si rappresenta all’in- telletto, mi pare che con chiarezza forse maggiore si fusse potuto definire, senza variare il concetto: Moto uniforme- mente accelerato esser quello, nel quale la velocità an- dasse crescendo secondo che cresce lo spazio che si va passando; si che, per esempio, il grado di velocità acqui- stato dal mobile nella scesa di quattro braccia fusse doppio di quello ch’egli ebbe, sceso che e’ fu lo spazio 262 GALILEO GALILEI di due, e questo doppio del conseguito nello spazio del primo braccio. Perché non mi par che sia da dubitare, che quel grave che viene dall’altezza di sei braccia, non abbia e perquota con impeto doppio di quello che ebbe, sceso che fu tre braccia, e triplo di quello che ebbe alle due, e sescuplo dell’auto nello spazio di uno. SAL. To mi consolo assai d'aver auto un tanto com- pagno nell’errore; e più vi dirò che il vostro discorso ha tanto del verisimile e del probabile, che il nostro me- desimo Autore non mi negò, quando io glielo proposi, d’esser egli ancora stato per qualche tempo nella mede- sima fallacia. Ma quello di che io poi sommamente mi maravigliai, fu il vedere scoprir con quattro semplicis- sime parole, non pur false, ma impossibili, due proposi- zioni che hanno del verisimile tanto, che avendole io proposte a molti, non ho trovato chi liberamente non me l’ammettesse. SIMPL. Veramente io sarei el numero de i concedi- tori: e che il grave descendente vires acquirat eundo, crescendo la velocità a ragion dello spazio, e che ’1 mo- mento dell’istesso percuziente sia doppio venendo da doppia altezza, mi paiono proposizioni da concedersi senza repugnanza o controversia. SAL. E pur son tanto false e ORI quanto arte il moto si faccia in un instante: ed eccovene chiarissima dimostrazione. Quando le velocità hanno la medesima proporzione che gli spazii passati o da passarsi, tali spazii vengon passati in tempi eguali; se dunque le velocità con le quali il cadente passò lo spazio di quattro braccia, furon doppie delle velocità con le quali passò le due prime braccia (si come lo spazio è doppio dello spazio), adunque i tempi di tali passaggi sono eguali: ma pas- sare il medesimo mobile le quattro braccia e le due nel- l’istesso tempo, non può aver luogo fuor che nel moto instantaneo: ma noi veggiamo che il grave cadente fa DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 263 suo moto in tempo, ed in minore passa le due braccia che le quattro; adunque è falso che la velocità sua cresca come lo spazio. L'altra proposizione si dimostra falsa con la medesima chiarezza. Imperò che, essendo quello che perquote il medesimo, non può determinarsi la differenza e momento delle percosse se non dalla differenza della velocità: quando dunque il percuziente, venendo da doppia altezza, facesse percossa di doppio momento, bi- sognerebbe che percotesse con doppia velocità: ma la doppia velocità passa il doppio spazio nell’istesso tempo, e noi veggiamo il tempo della scesa dalla maggior altezza esser più lungo. SAGR. Troppa evidenza, troppa agevolezza, è questa con la quale manifestate conclusioni ascoste; questa somma facilità le rende di minor pregio che non. erano mentre stavano sotto contrario sembiante. Poco penso io che prezzerebbe l’universale notizie acquistate con si poca fatica, in comparazione di quelle intorno alle quali si fanno lunghe ed inesplicabili altercazioni. SAL. A quelli i quali con gran brevità e chiarezza mostrano le fallacie di proposizioni state comunemente tenute per vere dall’universale, danno assai comportabile sarebbe il riportarne solamente disprezzo, in luogo di aggradimento; ma bene spiacevole e molesto riesce cer- t'altro affetto che suol tal volta destarsi in alcuni, che, pretendendo ne i medesimi studii almeno la parità con chiunque si sia, si veggono aver trapassate per vere con- clusioni che poi da un altro con breve e facile discorso vengono scoperte e dichiarate false. Io non chiamerò tale affetto invidia, solita a convertirsi poi in odio ed ira contro agli scopritori di tali fallacie, ma lo dirò uno stimolo e una brama di voler pit presto mantener gli errori inveterati, che permetter che si ricevano le verità nuovamente scoperte; la qual brama tal volta gl’induce a scrivere in contradizione a quelle verità, pur troppo in- 264 GALILEO GALILEI ternamente conosciute anco da loro medesimi, solo per tener bassa nel concetto del numeroso e poco intelligente vulgo l'altrui reputazione. Di simili conclusioni false, ri- cevute per vere e di agevolissima confutazione, non piccol numero ne ho io sentite dal nostro Academico, di parte delle quali ho anco tenuto registro. SAGR. E V. S. non dovrà privarcene, ma a suo tempo farcene parte, quando ben anco bisognasse in grazia loro fare una particolar sessione. Per ora, continuando il nostro filo, parmi che sin qui abbiamo fermata la defini- zione del moto uniformemente accelerato, del quale si tratta ne i discorsi che seguono; ed è: Motum @quabiliter, seu uniformiter, acceleratum dicimus eum, qui, a quiete recedens, temporibus aequalibus aequalia celeritatis momenta sibi super- addit. SAL. Fermata cotal definizione, un solo principio do- manda e suppone per vero l'Autore, cioè: Accipio, gradus velocitatis eiusdem mobilis su- per diversas planorum inclinationes acquisitos tunc esse eequales, cum eorumdem planorum elevationes aequales sint. Chiama la elevazione di un piano inclinato la per- pendicolare che dal termine sublime di esso piano casca sopra la linea orizontale prodotta per l’infimo termine di esso piano inclinato; come, per in- C. telligenza, essendo la linea AB pa- rallela all’orizonte, sopra ’1 quale siano inclinati li due piani CÀ, AE: B CD, la perpendicolare C B, caden- te sopra l’orizontale BA, chiama l’Autore la elevazione de i piani C A, CD; e suppone che i gradi di velocità del medesimo mobile scendente per li piani inclinati C A, CD, acquistati ne i termini A; D, siano eguali, per esser la loro elevazione l’istessa DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 265 CB: e tanto anco si deve intendere il grado di velocità che il medesimo cadente dal punto C arebbe nel termine B. SAGR. Veramente mi par che tal supposto abbia tanto del probabile, che meriti di esser senza controversia conceduto, intendendo sempre che si rimuovano tutti gl'impedimenti accidentarii ed esterni, e che i piani siano ben solidi e tersi ed il mobile di figura perfettissima- mente rotonda, si che ed il piano ed il mobile non ab- biano scabrosità. Rimossi tutti i contrasti ed impedimenti, il lume naturale mi detta senza difficoltà, che una palla grave e perfettamente rotonda, scendendo per le linee CA, CD, CB, giugnerebbe ne i termini A, D, B con impeti eguali. SAL. Voi molto probabilmente discorrete; ma, oltre al verisimile, voglio con una esperienza accrescer tanto la probabilità, che poco gli manchi all’agguagliarsi ad una ben necessaria dimostrazio- ne. Figuratevi, questo foglio essere una parete eretta al- l’orizonte, e da un chiodo fitto in essa pendere una palla di piombo d’un’oncia o due, sospesa dal sottil filo A B, lungo due o tre brac- cia, perpendicolare all’ori- zonte, e nella parete segnate una linea orizontale DC, segante a squadra il perpendicolo A B, il quale sia lon- tano dalla parete due dita, in circa; trasferendo poi il filo AB con la palla in AC, lasciate essa palla in li- bertà: la quale primieramente vedrete scendere descri- vendo l’arco C BD, e di tanto trapassare il termine B, che, scorrendo per l'arco BD, sormonterà sino quasi alla segnata parallela CD, restando di pervenirvi per piccolissimo intervallo, toltogli il precisamente arrivarvi dall’impedimento dell’aria e del filo; dal che possiamo 18. - G. Galilei, Opere - II. 266 i GALILEO GALILEI veracemente concludere, che l’impeto acquistato nel punto B dalla palla, nello scendere per l'arco CB, fu tanto, che bastò a risospingersi per un simile arco BD alla medesima altezza. Fatta e pit volte reiterata cotale espe- rienza, voglio che ficchiamo nella parete, rasente al per- pendicolo A B, un chiodo, come in E o vero in F, che sporga in fuori cinque o sei dita, e questo acciò che il filo A C tornando, come prima, a riportar la palla C per l’arco C B, giunta che ella sia in B, intoppando il filo nel chiodo E, sia costretta a camminare per la circonferenza BG, descritta intorno al centro E; dal che vedremo quello che potrà far quel medesimo impeto che, dianzi, concepito nel medesimo termine B, sospinse l’istesso mo- bile per l'arco BD all'altezza della orizontale C D. Ora, Signori, voi vedrete con gusto condursi la palla all’ori- zontale nel punto G, e l’istesso accadere se l’intoppo si mettesse pit basso, come in F, dove la palla descrive- rebbe l’arco BI, terminando sempre la sua salita preci- samente nella linea C D; e quando l’intoppo del chiodo fusse tanto basso che l’avanzo del filo sotto di lui non arrivasse all'altezza di C D (il che accaderebbe quando fusse più vicino al punto B che al segamento dell’A B coll’orizontale CD), allora il filo cavalcherebbe il chiodo e se gli avvolgerebbe intorno. Questa esperienza non lascia luogo di dubitare della verità del supposto: imperò che, essendo li due archi C B, DB eguali e similmente posti, l'acquisto di momento fatto per la scesa nell'arco C B è il medesimo che il fatto per la scesa dell’arco D B; ma il momento acquistato in B per l'arco C B è potente a risospingere in su il medesimo mobile per l'arco BD; adunque anco il momento acquistato nella scesa DB è eguale a quello che sospigne l’istesso mobile per il me- desimo arco da B in D; si che, universalmente, ogni mo- mento acquistato per la scesa d’un arco è eguale a quello DIALOGHI: DELLE NUOVE SCIENZE 267 che può far risalire l’istesso mobile per il medesimo arco: ma i momenti tutti che fanno risalire per tutti gli archi B D, BG, BI sono eguali, poiché son fatti dall’istesso me- desimo momento acquistato per la scesa C B, come mostra l’esperienza; adunque tutti i momenti che si acquistano per le scese ne gli archi D B, G B, IB sono eguali. SAGR. Il discorso mi par concludentissimo, e l’espe- rienza tanto accomodata per verificare il postulato, che molto ben sia degno d’esser conceduto come se fusse di- mostrato. RECE i i SAL. Io non voglio, Sig. Sagredo, che noi ci pigliamo più del dovere, e massimamente che di questo assunto ci abbiamo a servire principalmente ne i moti fatti sopra superficie rette, e non sopra curve, nelle quali l’accele- razione procede con gradi molto differenti da quelli con i quali noi pigliamo ch'ella proceda ne’ piani retti. Di modo che, se ben l’esperienza addotta ci mostra che la scesa per l’arco C B conferisce al mobile momento tale, che può ricondurlo alla medesima altezza per qualsi- voglia arco BD, BG, BI, noi non possiamo con simile evidenza mostrare che l’istesso accadesse quando una per- fettissima palla dovesse scendere per piani retti, inclinati secondo le inclinazioni delle corde di questi medesimi archi; anzi è credibile che, formandosi angoli da essi piani retti nel termine B, la palla scesa. per l’inclinato secondo la corda C B, trovando intoppo ne i piani ascen- denti secondo le corde BD, BG, BI, nell’urtare in essi perderebbe del suo impeto, né potrebbe, salendo, con- dursi all'altezza della linea CD: ma levato l’intoppo, che progiudica all'esperienza, mi par bene che l’intelletto resti capace, che l’impeto (che in effetto piglia vigore dalla quantità della scesa) sarebbe potente a ricondurre il mobile alla medesima altezza. Prendiamo dunque per ora questo come postulato, la verità assoluta del quale ci 268 GALILEO GALILEI verrà poi stabilita dal vedere altre conclusioni, fabbri- cate sopra tale ipotesi, rispondere e puntualmente con- frontarsi con l’esperienza. Supposto dall’Autore questo solo principio, passa alle proposizioni, dimostrativamente concludendole; delle quali la prima è questa: THEOREMA I, PROPOSITIO I. Tempus in quo aliquod spatium a mobili con- ficitur latione ex quiete uniformiter accelerata, est aquale tempori in quo idem spatium conficeretur ab eodem mobili motu @quabili delato, cuius ve- locitatis gradus subduplus sit ad summum et ul- timum gradum velocitatis prioris motus uniformiter accelerati. Reprasentetur per extensionem AB tempus in quo a mobili latione uniformiter accelerata ex quiete in C con- ficiatur spatium C D:; graduum autem velocitatis adaucta in instantibus temporis AB maximus et C > Di G__A ultimus reprasentetur per EB, utcunque super AB constitutam; iunctaque A È, linea omnes ex singulis punctis linea AB ipsi BE «quidistanter acta, cre- scentes velocitatis gradus post instans I A reprasentabunt. Divisa deinde BÈ bifariam in F, ductisque parallelis F G, AG ipsis BA, BF, parallelogrammum AGFB erit constitutum, triangulo AEB aquale, dividens suo latere GF bifariam AF in I: quodsi parallela trianguli AEB E FB. | usque ad IG extendantur, habebimus î aggregatum parallelarum omnium in quadrilatero contentarum aqualem aggregatui comprehen- sarum in triangulo AE B; qua enim sunt in triangulo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 269 IEF, pares sunt cum contentis in triangulo GIA; ea vero quae habentur in trapezio ATF B, communes sunt. Cum- que singulis et omnibus instantibus temporis A B respon- deant singula et omnia puncta linea AB, ex quibus acta parallele in triangulo AEB comprehensae crescentes gradus velocitatis adaucta reprasentant, parallele vero intra parallelogrammum contenta totidem gradus veloci- tatis non adaucta, sed aquabilis, itidem repraesentent; apparet, totidem velocitatis momenta absumpta esse in motu accelerato iuxta crescentes parallelas trianguli AEB. ac in motu @quabili iuxta parallelas parallelogrammi GB: quod enim momentorum deficit in prima motus accelerati medietate (deficiunt enim momenta per paral- lelas trianguli A GI repraesentata), reficitur a momentis per parallelas trianguli IEF reprasentatis. Patet igitur, aqualia futura esse spatia tempore eodem a duobus mo- bilibus peracta, quorum unum motu ex quiete unifor- miter accelerato moveatur, alterum vero motu aquabili iuxta momentum subduplum momenti maximi velocitatis accelerati motus: quod erat intentum. THEOREMA II, PROPOSITIO II. Si aliquod mobile motu uniformiter accelerato descendat ex quiete, spatia quibuscunque tempo- ribus ab ipso peracta, sunt inter se in duplicata ratione eorundem temporum, nempe ut eorundem temporum quadrata. Intelligatur, fluxus temporis ex aliquo primo instanti A reprasentari per extensionem A B, in qua sumantur duo queelibet tempora AD, A È; sitque HI linea, in qua mobile ex puncto H, tanquam primo motus principio, descendat uniformiter acceleratum; sitque spatium HL peractum primo tempore A D, HM vero sit spatium per 270 — GALILEO GALILEI quod descenderit in tempore A È: dico, spatium MH ad spatium HL esse in duplicata ratione eius quam habet tempus E A ad tempus AD; seu dicamus, spatia M H, HL eandem habere rationem quam habent quadrata EA, A D. Ponatur linea AC, quemcunque angulum cum ipsa A B continens; ex punctis vero D, È ducta sint parallela DO, E P: quarum DO representabit maximum gradum pelocitatis acquisite in instanti D temporis AD; PE vero, maximum gradum velocitatis acquisita in instanti E temporis AE. Quia vero supra demonstratum est, quod attinet ad spatia peracta, aqualia esse inter se A Fi illa, quorum alterum conficitur a mobili ex quiete ol motu uniformiter accelerato, alterum vero quod pHE}, tempore eodem conficitur a mobili motu aqua- F bili delato, cuius velocitas subdupla sit maxima G in motu accelerato acquisita; constat, spatia MH, LH esse eadem qua motibus aqualibus, N quorum velocitates essent ut dimidie PE, OD, conficerentur in temporibus E A, DA. Si igitur ostensum fuerit; hac ‘spatia MH, LH esse in duplicata ratione temporum EA, DA, intentum PBI probatum erit. Verum in. quarta propositione primi libri demonstratum est, mobilium @qua- bili motu latorum spatia peracta habere inter se rationem compositam ‘ex ratione velocitatum et ex ratione temporum: hic autem ratio velocitatum est eadem cum ratione temporum (quam enim rationem habet di- midia P E ad dimidiam O D, seu tota PE ad totam OD, hanc habet AE ad AD): ergo ratio spatiorum perac- torum dupla est rationis temporum; quod erat demon- strandum. Patet etiam hinc, eandem spatiorum rationem esse duplam rationis maximorum graduum velocitatis, nempe linearum PE, OD, cum sit PE ad OD ut EA ad DA. DIALOGHI DELLE NUOVE. SCIENZE 271 COROLLARIUM I. Hinc manifestum est, quod si fuerint quotcunque tem- pora aqualia consequenter sumpta a primo instanti seu principio lationis, utputa AD, DE, EF, FG, quibus conficiantur spatia H L, L M, M N, NI, ipsa spatia erunt inter se ut numeri impares ab unitate, scilicet ut 1, 3, 5, 7: hac enim est ratio excessuum quadratorum linearum sese aqualiter excedentium et quarum excessus est aqualis minima ipsarum, seu dicamus quadratorum sese ab uni- tate consequentium. Dum igitur gradus velocitatis augen- tur iuxta seriem simplicem numerorum in temporibus aqualibus, spatia peracta iisdem temporibus incrementa suscipiunt iuxta seriem numerorum imparium ab unitate. SAGR. Sospendete, in grazia, alquanto la lettura, mentre io vo ghiribizando intorno a certo concetto pur ora cascatomi in mente; per la spiegatura del quale, per mia e per vostra pit chiara intelligenza, fo un poco di disegno. Dove mi figuro DA per la linea AI la continuazione del tempo dopo il primo instante in A; ap- plicando poi in A, secondo qualsivoglia angolo, la retta A F, e congiugnendo i termini I, F, diviso il tempo AI in mezo in C, tiro la CB parallela alla IF; con- siderando poi la CB come grado mas- simo della velocità che, cominciando dal- la quiete nel primo instante del tempo A, si andò augumentando secondo il cre- _ 57q n) scimento delle parallele alla BC, pro- dotte nel triangolo A B C (che è il medesimo che crescere secondo che cresce il tempo), ammetto senza controversia, per i discorsi fatti sin qui, che lo spazio passato dal mo- bile cadente con la velocità accresciuta nel detto modo 272 GALILEO GALILEI sarebbe eguale allo spazio che passerebbe il medesimo mobile quando si fusse nel medesimo tempo AC mosso di moto uniforme, il cui grado di velocità fusse eguale all’E C, metà del B C. Passo ora più oltre, e figuratomi, il mobile sceso con moto accelerato trovarsi nell’instante C avere il grado di velocità B C, è manifesto, che se egli continuasse di muoversi con l’istesso grado di velocità BC senza più accelerarsi, passerebbe nel seguente tempo CI spazio doppio di quello che ei passò nell’egual tempo A C col grado di velocità uniforme È C, metà del grado BC; ma perché il mobile scende con velocità accresciuta sempre uniformemente in tutti i tempi eguali, aggiugnerà al grado C B nel seguente tempo CI quei momenti me- desimi di velocità crescente secondo le parallele del trian- golo BF G, eguale al triangolo ABC: si che, aggiunto al grado di velocità GI la metà del grado F G, massimo degli acquistati nel moto accelerato e regolati dalle paral- lele del triangolo BF G, aremo il grado di velocità IN, col quale di moto uniforme si sarebbe mosso nel tempo CI; il qual grado I N essendo triplo del grado E C, con- vince, lo spazio passato nel secondo tempo CI dovere esser triplo del passato nel primo tempo C A. E se noi intenderemo, esser aggiunta all'’A I un’altra ugual parte di tempo IO, ed accresciuto il triangolo sino in APO, è manifesto, che quando si continuasse il moto per tutto ’l tempo IO col grado di velocità IF, acquistato nel moto accelerato nel tempo AI, essendo tal grado IF quadruplo dell’E C, lo spazio passato nel tempo IO sarebbe qua- druplo del passato nell’egual primo tempo A C; ma con- tinuando l’accrescimento dell’uniforme accelerazione nel triangolo FPQ simile a quello del triangolo A BC, che ridotto a moto equabile aggiugne il grado eguale all’EC, aggiunto il QR eguale all’E C, aremo tutta la velocità equabile esercitata nel tempo IO quintupla dell’equa- bile del primo tempo A C, e però lo spazio passato quin- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 203 tuplo del passato nel primo tempo A C. Vedesi dunque anco in questo semplice calcolo, gli spazii passati in tempi eguali dal mobile che, partendosi dalla quiete, va acqui- stando velocità conforme all’accrescimento del tempo, esser tra di loro come i numeri impari ab unitate 1, 3, 5, e, congiuntamente presi gli spazii passati, il passato nel doppio tempo esser quadruplo del passato nel sudduplo, il passato nel tempo triplo esser nonuplo, ed in somma gli spazii passati essere in duplicata proporzione de i tempi, cioè come i quadrati di essi tempi. SIMPL. Io veramente ho preso pit gusto in questo semplice e chiaro discorso del Sig. Sagredo, che nella per me pit oscura dimostrazione dell'Autore; sî che io resto assai ben capace che il negozio deva succeder cosi, posta e ricevuta la definizione del moto uniformemente accele- rato. Ma se tale sia poi l’accelerazione della quale si serve la natura nel moto de i suoi gravi descendenti, io per ancora ne resto dubbioso; e però, per intelligenza mia e di altri simili a me, parmi che sarebbe stato op- portuno in questo luogo arrecar qualche esperienza di quelle che si è detto esservene molte, che in diversi casi s'accordano con le conclusioni dimostrate. SAL. Voi, da vero scienziato, fate una ben ragionevol domanda: e cosî si costuma e conviene nelle scienze le quali alle conclusioni naturali applicano le dimostra- zioni matematiche, come si vede ne i perspettivi, negli astronomi, ne i mecanici, ne i musici ed altri, li quali con sensate esperienze confermano i principii loro, che sono i fondamenti di tutta la seguente struttura: e però non voglio che ci paia superfluo se con troppa lunghezza aremo discorso sopra questo primo e massimo fondamento, sopra "1 quale s'appoggia l'immensa machina d’infinite conclusioni, delle quali solamente una piccola parte ne abbiamo in questo libro, poste dall’Autore, il quale arà fatto assai ad aprir l'ingresso e la porta stata sin or ser- 274 GALILEO GALILEI rata agl’ingegni specolativi. Circa dunque all’esperienze, non ha tralasciato l’Autor di farne; e per assicurarsi che l'accelerazione de i gravi naturalmente descendenti segua nella proporzione sopradetta, molte volte mi son ritrovato io a farne la prova nel seguente modo, in sua compagnia. In un regolo, o vogliàn dir corrente, di legno, lungo circa 12 braccia, e largo per un verso mezo braccio e per l’altro 3 dita, si era in questa minor larghezza incavato un canaletto, poco più largo d’un dito; tiratolo drittis- simo, e, per averlo ben pulito e liscio, incollatovi dentro una carta pecora zannata e lustrata al possibile, si faceva in esso scendere una palla di bronzo durissimo, ben ro- tondata e pulita; costituito che si era il detto regolo pen- dente, elevando sopra il piano orizontale una delle sue estremità un braccio o due ad arbitrio, si lasciava (come dico) scendere per il detto canale la palla, notando, nel modo che appresso dirò, il tempo che consumava nello scorrerlo tutto, replicando il medesimo atto molte volte per assicurarsi bene della quantità del tempo, nel quale non si trovava mai differenza né anco della decima parte d'una battuta di polso. Fatta e stabilita precisamente tale operazione, facemmo scender la medesima palla sola- mente per la quarta parte della lunghezza di esso canale; e misurato il tempo della sua scesa, si trovava sempre puntualissimamente esser la metà dell’altro: e facendo poi l’esperienze di altre parti, esaminando ora il tempo di tutta la lunghezza col tempo della metà, o con quello delli duo terzi o de i °/,, o in conclusione con qualunque altra divisione, per esperienze ben cento volte replicate sempre s'incontrava, gli spazii passati esser tra di loro come i quadrati de i tempi, e questo in tutte le incli- nazioni del piano, cioè del canale nel quale si faceva scender la palla; dove osservammo ancora, i tempi delle scese per diverse inclinazioni mantener esquisitamente tra di loro quella proporzione che più a basso troveremo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 275 essergli assegnata e dimostrata dall’Autore. Quanto poi alla misura del tempo, si teneva una gran secchia piena d’acqua, attaccata in alto, la quale per un sottil cannel- lino, saldatogli nel fondo, versava un sottil filo d’acqua, che s'andava ricevendo con un piccol bicchiero per tutto ‘1 tempo che la palla scendeva nel canale e nelle sue parti: le particelle poi dell’acqua, in tal guisa raccolte, sandavano di volta in volta con esattissima bilancia pesando, dandoci le differenze e proporzioni de i pesi loro le differenze e proporzioni de i tempi; e questo con tal giustezza, che, come ho detto, tali operazioni, molte e molte volte repli- cate, gia mai non differivano d’un notabil momento. SIMPL. Gran sodisfazione arei ricevuta nel trovarmi presente a tali esperienze: ma sendo certo della vostra diligenza nel farle e fedeltà nel referirle, mi quieto, e le ammetto per sicurissime e vere. SAL. Potremo dunque ripigliar la nostra lettura, e seguitare avanti. COROLLARIUM II. Colligitur, secundo, quod si a principio lationis su- mantur duo spatia queelibet, quibuslibet temporibus pe- racia, tempora ipsorum erunt inter se ut alterum eorum ad spatium medium proportionale inter ipsa. $ Sumptis enim a principio lationis S duobus spatti ST, SV, quorum medium sit proportionale S X, tempus casus per ST ad tempus casus per SV erit ut ST ad SX, seu dicamus, tempus per SV ad tempus per ST esse ut VS ad SX. Cum enim demonstratum sit, spatia peracta esse in duplicata ratione tempo- rum, seu (quod idem est) esse ut temporum qua- drata; ratio autem spatii VS ad spatium ST sit du- | v pla rationis VS ad SX, seu sit eadem quam habent quadrata VS, SX; patet, rationem temporum lationum per SV, ST esse ut spatiorum, seu linearum, VS, S X. 276 GALILEO GALILEI SCHOLIUM. Id autem quod demonstratum est in lationibus pe- ractis in perpendiculis, intelligatur etiam itidem contin- gere in planis utcunque inclinatis; in iisdem enim as- sumptum est, accelerationis gradus eadem ratione augeri, nempe secundum temporis incremenium, seu dicas se- cundum simplicem ac primam numerorum seriem. SAL. Qui vorrei, Sig. Sagredo, che a me ancora fosse permesso, se ben forsi con troppo tedio del Sig. Simplicio, il differir per un poco la presente lettura, fin ch'io possa esplicare quanto dal detto e dimostrato fin ora, e con- giuntamente dalla notizia d’alcune conclusioni mecaniche apprese gia dal nostro Academico, sovviemmi adesso di poter soggiugnere per maggior confermazione della ve- rità del principio che sopra con probabili discorsi ed esperienze fu da noi esaminato, anzi, quello più importa, per geometricamente concluderlo, dimostrando prima un sol lemma, elementare nella contemplazione de gl’'impeti. SAGR. Mentre tale deva esser l'acquisto quale V. S. ci promette, non vi è tempo che da me volentierissimo non si spendesse, trattandosi di confermare e interamente stabilire queste scienze del moto: e quanto a me, non solo vi concedo il poter satisfarvi in questo particolare, ma di più pregovi ad appagare quanto prima la curiosità che mi avete in esso svegliata; e credo che il Sig. Simplicio abbia ancora il medesimo sentimento. SIMPL. Non posso dire altrimenti. SAL. Già che dunque me ne date licenza, considerisi in primo luogo, come effetto notissimo, che i momenti o le velocità d'un istesso mobile son diverse sopra diverse inclinazioni di piani, e che la massima è per la linea per- pendicolarmente sopra l’orizonte elevata, e che per l’altre inclinate si diminuisce tal velocità, secondo che quelle DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 220 più dal perpendicolo si discostano, cioè più obliquamente s'inclinano; onde l’impeto, il talento, l'energia, o vogliamo dire il momento, del descendere vien diminuito nel mo- bile dal piano soggetto, sopra il quale esso mobile s'ap- poggia e descende. E per meglio dichiararmi, intendasi la linea A B. perpendicolarmente ‘eretta sopra l’'orizonte AC; pongasi poi la medesima in diverse inclinazioni verso l'orizonte piegata, come in AD, A E, AF, etc: dico, l’impeto mas- simo e totale del grave per descendere esser per la per- pendicolare BA, minor di questo per la DA, e minore ancora per D la E A, e successivamente an- darsi diminuendo per la più in- clinata F A, e finalmente esser del tutto estinto nella orizontale C A, dove il mobile si trova in- differente al moto e alla quiete, e non ha per se stesso inclina- zione di muoversi verso alcuna parte, né meno alcuna resistenza all’esser mosso; poiché, si come è impossibile che un grave o un composto di essi si muova naturalmente all’in su, discostandosi dal comun centro verso dove conspirano tutte le cose gravi, così è impossibile che egli spontaneamente si muova, se con tal moto il suo proprio centro di gravità non acquista avvi- cinamento al sudetto centro comune: onde sopra l’ori- zontale, che qui s'intende per una superficie egualmente lontana dal medesimo centro, e perciò affatto priva d’in- clinazione, nullo sarà l’impeto o momento di detto mobile. Appresa questa mutazione d’impeto, mi fa qui mestier esplicare quello che in un antico trattato di mecaniche, scritto gia in Padova dal nostro Academico sol per uso de’ suoi discepoli, fu diffusamente e concludentemente di- mostrato. in occasione di considerare l'origine e natura B 278 GALILEO GALILEI del maraviglioso strumento della vite; ed è con qual pro- porzione si faccia tal mutazione d’'impeto per diverse inclinazioni di piani: come, per esempio, del piano in- clinato AF tirando la sua elevazione sopra l’orizonte, cioè la linea F C, per la quale l’impeto d’un grave ed il momento del descendere è il massimo, cercasi qual pro- porzione abbia questo momento al momento dell’istesso mobile per l’inclinata FA; qual proporzione dico esser reciproca delle dette lunghezze: e questo sia il lemma da premettersi al teorema, che dopo io spero di poter dimo- strare. Qui è manifesto, tanto essere l’împeto del descen- dere d'un grave, quanta è la resistenza o forza minima che basta per proibirlo e fermarlo: per tal forza e resi- stenza, e sua misura, mi voglio servire della gravità d’un altro mobile. Intendasi ora, sopra il piano FA posare il mobile G, legato con un filo che, cavalcando sopra l'F, abbia attaccato un peso H; e consideriamo che lo spazio della scesa o salita a perpendicolo di esso è ben sempre eguale a tutta la salita o scesa dell’altro mobile G per l’inclinata A F, ma non già alla salita o scesa a perpen- dicolo, nella qual sola esso mobile G (si come ogn’altro mobile) esercita la sua resistenza. Il che è manifesto. Im- peroché considerando, nel triangolo AF C il moto del mobile G, per esempio all'in su da A in F, esser com- posto del trasversale orizontale A C e del. perpendicolare CF; ed essendo che quanto all’orizontale, nessuna, come sè detto, è la resistenza del medesimo all’esser mosso (non facendo con tal moto perdita alcuna, né meno ac- quisto, in riguardo della propria distanza dal comun centro delle cose gravi, che nell’orizonte si conserva sempre l’istessa); resta, la resistenza esser solamente ri- spetto al dover salire la perpendicolare C F. Mentre che dunque il grave G, movendosi da A in F, resiste solo, nel salire, lo spazio perpendicolare C F, ma che l’altro grave H scende a perpendicolo necessariamente quanto tutto lo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 279 spazio FA, e che tal proporzione di salita e scesa si mantien sempre l’istessa, poco o molto che sia il moto de i detti mobili (per esser collegati insieme); possiamo assertivamente affermare, che quando debba seguire l’equi- librio, cioè la quiete tra essi mobili, i momenti, le velo- cità, o le lor propensioni al moto, cioè gli spazii che da loro si passerebbero nel medesimo tempo, devon rispon- dere reciprocamente alle loro gravità, secondo quello che in tutti i casi de movimenti mecanici si dimostra; si che basterà, per impedire la scesa del G, che lo H sia tanto men grave di quello, quanto a proporzione lo spazio CF è minore dello spazio F A. Sia fatto, dunque, come FA ad FC, cosî il grave G al grave H; ché allora seguirà l'equilibrio, cioè i gravi H, G averanno momenti eguali, e cesserà il moto de i detti mobili. E perché siamo con- venuti, che di un mobile tanto sia l’impeto, l'energia, il momento, o la propensione al moto, quanta è la forza o resistenza minima che basta a fermarlo, e s'è concluso che il grave H è bastante a proibire il moto al grave G, adunque il minor peso H, che nella perpendicolare F C esercita il suo momento totale, sarà la precisa misura del momento parziale che il maggior peso G esercita per il piano inclinato F A; ma la misura del total momento del medesimo grave G è egli stesso (poiché per impedire la scesa perpendicolare d’un grave si richiede il contrasto d’altrettanto grave, che pur sia in libertà di moversi per- pendicolarmente); adunque l’impeto o momento parziale del G per l’inclinata F A, all’impeto massimo e totale dell’istesso G per la perpendicolare F C, starà come il peso H al peso G, cioè, per la costruzione, come essa per- pendicolare F C, elevazione dell’inclinata, alla medesima inclinata F A: che è quello che per lemma si propose di dimostrare, e che dal nostro Autore, come vedranno, vien supposto per noto nella seconda parte della stessa pro- posizione del presente trattato. 280 GALILEO GALILEI SAGR. Da questo che V. S. ha concluso fin qui, parmi che facilmente si possa dedurre, argumentando ex quali con la proporzione perturbata, che i momenti dell’istesso mobile per piani diversamente inclinati, come F A, FI, che abbino l’istessa elevazione, son fra loro in reciproca proporzione de’ medesimi piani. SAL. Verissima conclusione. Fermato questo, passerò adesso a dimostrare il teorema, cioè che: I gradi di velocità d'un mobile descendente con moto naturale dalla medesima sublimità per piani in qualsivoglia modo inclinati, all'arrivo all’orizonte son sempre eguali, rimossi gl’impedimenti. Qui devesi prima avvertire, che stabilito che in qual- sivoglino inclinazioni il mobile dalla partita dalla quiete vada crescendo la velocità, o la quantità dell'impeto, con la proporzione del tempo (secondo la definizione data dal- l'Autore al moto naturalmente accelerato), onde, com'’egli ha per l’antecedente proposizione dimostrato, gli spazii passati sono in duplicata proporzione de’ tempi, e conse- guentemente de’ gradi di velocità; quali furono gl'impeti nella prima mossa, tali proporzionalmente saranno i gradi delle velocità guadagnati nell’istesso tempo, poiché e questi e quelli crescono con la medesima proporzione nel medesimo tempo. I Ora sia il piano inclinato A B, la sua elevazione sopra l’orizonte la perpendicolare A C, e l’orizontale CB; e perché, come poco fa si è concluso, l’impeto d'un mobile per la perpendicolare A C, all’impeto del medesimo per l’inclinata AB, sta come AB ad AC, prendasi nell’in- clinata AB la A D, terza proporzionale delle A B, A C: l’impeto dunque per A C all’impeto per la A B, cioè per la AD, sta come la AC all’A D; e perciò il mobile nel- l’istesso tempo che passerebbe lo spazio perpendicolare A C, passerà ancora lo spazio A D nell’inclinata A B (es- sendo i momenti come gli spazii), ed il grado di velocità DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 281 in C al grado di velocità in D averà la medesima pro- porzione della A C alla A D. Ma il grado di velocità in B al medesimo grado in D sta come il tempo per AB al tempo per A D, per la defi- nizione del moto accelerato, ed il tempo per AB al tempo per AD sta come la mede- sima A C, media tra le BA, AD, alla AD, per l’ultimo corollario della seconda pro- posizione; adunque i gradi f F3 in B ed in C al grado in D hanno la medesima proporzione della AC alla AD, e però sono eguali: che è il teorema che intesi di dimostrare. Da questo potremo più concludentemente provare la seguente terza proposizione dell'Autore, nella quale egli si vale del principio; ed è che il tempo per l’inclinata al tempo per la perpendicolare ha l’istessa proporzione di essa inclinata e perpendicolare. Imperoché diciamo: quando B A sia il tempo per A B, il tempo per AD sarà la media tra esse, cioè la A C, per il secondo corollario della seconda proposizione; ma quando A C sia il tempo per A D, sarà anco il tempo per A C, per essere le AD, AC scorse in tempi eguali; e però quando BA sia il tempo per AB, AC sarà il tempo per AC; adunque, come AB ad AC, cost il tempo per AB al tempo per AC. Col medesimo discorso si proverà, che il tempo per AC al tempo per altra inclinata A E sta come la AC alla AF: adunque, ex «quali, il tempo per l'inclinata A B al tempo dell’inclinata A E sta omologamente come la AB alla AÉ, etc. Potevasi ancora dall’istesso progresso del teorema, come vedrà benissimo il Sig. Sagredo, dimostrar imme- diatamente la sesta proposizione dell'Autore: ma basti per ora tal digressione, che forsi gli è riuscita troppo te- A D C 282 GALILEO GALILEI diosa, benché veramente di profitto in queste materie del moto. SAGR. Anzi di mio grandissimo gusto, e necessaris- sima alla perfetta intelligenza di quel pripcipio. SAL. Ripiglierò dunque la lettura del testo. - THEOREMA III, PROPOSITIO III. Si super. plano inclinato atque in perpendiculo, quorum eadem sit altitudo, feratur ex quiete idem. mobile, tempora lationum erunt inter se ut plani ipsius et perpendiculi longitudines. Sit planum inclinatum AC, et perpendiculum A B, quorum eadem sit allitudo supra horizontem C B, nempe ipsamet linea BA: dico, tempus descensus eiusdem mo- bilis super plano AC, ad tempus ca-. sus in perpendiculo AB, eam habere ralionem, quam habet longitudo plani AC ad ipsius perpendiculi AB lon- gitudinem. Intelligantur enim. quot- libet linee D G, EI, FL, horizonti CB parallela: constat ex assumpto, gradus velocitatis mobilis ex A, primo motus initio, in punctis G, D acqui- sitos, esse a@equales, cum accessus ad horizontem aquales sint; similiter, gradus in punctis I, E iidem erunt, nec non. gradus in L et F. Quod si non ha tantum parallela, sed ex punctis omnibus linea A B usque ad lineam AC protracta intelligantur, momenta seu gradus velocitatum in terminis singularum paralle- larum semper erunt inter se paria. Conficiuntur itaque spatia duo A C, A B iisdem gradibus velocitatis. Sed ‘de- monstratum est, quod si duo spatia conficiantur a mobili quod iisdem velocitatis gradibus feratur, quam rationem habent ipsa spatia, eamdem habent tempora lationum; G M B DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 283 ergo tempus lationis per AC ad tempus per AB est ut longitudo plani AC ad longitudinem perpendiculi A B: quod erat demonstrandum. SAGR. Parmi che assai chiaramente e con brevità si poteva concludere il medesimo, essendosi gi concluso che la somma del moto accelerato de i passaggi.per A C, A B è quanto il moto equabile il cui grado di velocità sia sud- duplo al grado massimo C B; essendo dunque passati li due spazii A C, AB con l'istesso moto equabile, già è manifesto, per la proposizione prima del primo, che..i tempi de’ passaggi saranno come gli spazii medesimi. COROLLARIUM. Hinc colligitur, tempora descensuum super planis di- persimode inclinatis, dum tamen eorum eadem sit elevatio, esse inter se ut eorum longitudines. Si enim intelligatur aliud planum AM ex A ad eundem horizontem CB fer- minatum, demonstrabitur pariter, tempus descensus per AM ad tempus per AB esse ut linea AM ad AB; ut autem tempus AB ad tempus per A C, ita linea AB ad AC: ergo, ex squali, ut AM ad AC, ita tempus per AM ad tempus per AC. THEOREMA IV, PROPOSITIO IV. Tempora lationum super planis aequalibus, sed inaequaliter inclinatis, sunt inter se ‘in subdupla ratione elevationum eorumdem planorum permu- tatim accepta. | Sint ex eodem termino B plana aqualia, sed inaqua- liter inclinata, BA, BC; et ductis A E, CD, lineis hori- zontalibus, ad perpendiculum usque BD, esto plani BA elevatio BE, plani vero BC elevatio.sit.BD; et ipsarum 284 GALILEO GALILEI elevationum DB, BE media proportionalis sit BI: constat, rationem DB ad BI esse subduplam rationis DB ad BE. Dico iam, rationem temporum descensuum seu lationum super planis BA, BC esse eamdem cum ratione DB ad BI permutatim assumpta, ut sci- licet temporis per BA homologa sit elevatio alterius plani BC, nempe BD, temporis vero per BC homologa sit BI. Demonstrandum proinde est, tempus per BA ad tempus per BC esse ut DB ad BI. Ducatur IS, ipsi DC @qui- S I distans: et quia iam demonstratum Cc p est, tempus descensus per BA ad tempus casus per perpendiculum BE esse ut ipsa BA ad BE, tempus vero per BE ad tempus per BD ut BE ad BI, tempus vero per BD ad tempus per BC ut BD ad BC, seu BI ad BS, ergo, ex aquali, tempus per BA ad tempus per BC erit ut BA ad BS, seu CB ad BS; est autem CB ad BS ut DB ad BI; ergo patet propositum. B 73 THEOREMA V, PROPOSITIO V. Ratio temporum descensuum super planis, quo- rum diversa sint inclinationes et longitudines, nec non elevationes inaequales, componitur ex ratione longitudinum ipsorum planorum et ex ratione sub- dupla elevationum eorumdem permutatim accepta. Sint plana AB, AC diversimode inclinata, quorum longitudines sint inaequales, et inaequales quoque eleva- tiones: dico, rationem temporis descensus per AC ad tempus per AB compositam esse ex ratione ipsius A C ad ‘AB et ex subdupla elevationum earumdem permu- tatim accepta. Ducatur enim perpendiculum AD, cui DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 285 occurrant horizontales BG, CD, et inter elevationes DA, AG media sit AL; ex puncto vero L ducta parallela horizonti occurrat plano AC in F: erit quoque AF media inter C A, A E. Et quia tempus per A C ad tempus per AE est ut linea FA ad AE, tempus vero per AE ad tempus per AB ut A eadem A E ad eamdem AB; patet, tem- pus per AC ad tempus per AB esse ut AF ad AB: demonstrandum itaque re- stat, rationem AF ad A B componi ex B G ratione C A ad AB et ex ratione GA ad AL, qua est ratio subdupla eleva- F. n tionum D A, AG permutatim accepta. Id autem manifestum fit, posita CA inter F A, A B: ratio enim FÀ ad AC est eadem cum ratione LA ad AD, seu GA ad AL, quae est subdupla rationis elevationum GA, AD; et ratio CA ad AB est ipsamet ratio longitu- dinum; ergo patet propositum. C D THEOREMA VI, PROPOSITIO VI. Si a puncto sublimi vel imo circuli ad hori- zontem erecti ducantur qualibet plana usque ad circumferentiam inclinata, tempora descensuum per ipsa erunt aqualia. Sit circulus ad horizontem G H erectus, cuius ex imo puncto, nempe ex contactu cum horizontali, sit erecta diameter F A, et ex puncto sublimi A plana quelibet inclinentur usque ad circumferentiam AB, AC: dico, tempora descensuum per ipsa esse aqualia. Ducantur BD, CF ad diametrum perpendiculares, et inter pla- norum EA, AD altitudines media sit proportionalis Al: et quia rectangula F AE, FAD «qualia sunt quadratis AC, AB; ut autem rectangulum FAF ad rectangulum 286 GALILEO GALILEI FAD, ita EA ad AD; ergo ut quadratum CA ad qua- dratum AB, ita EA linea ad lineam AD. Verum ut linea EA ad DA, ita quadratum I A_ ad quadratum A D; ergo G +FF quadrata linearum CÀ, A B sunt inter se ut qua- drata linearum TA, AD, et ideo ut CA linea ad A B, ita IA ad AD. At in pracedenti demonstratum est, rationem temporis de- scensus per AC ad tempus descensus per AB componi ex rationibus C A ad AB et DA ad AI, qua est eadem cum ratione B A ad AC; ergo ratio temporis descensus per A C ad tem- pus descensus per A B componitur ex rationibus C A ad AB et BA ad AC; est igitur ratio eorumdem temporum ratio aqualitatis: ergo patet propositum. Idem aliter demonstratur ex mechanicis: nempe, in sequenti figura, mobile temporibus aqualibus pertran- . sire CA, DA. Sit enim BA @qualis ipsi DA, et ducantur perpendiculares BE, DF: constat ex elemen- tis mechanicis, momen- tum ponderis super plano secundum lineam ABC elevato ad mo- mentum suum totale esse ut BE ad BA, eius- demque ponderis mo- mentum super eleva- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 287 tione A D ad totale suum momentum esse ut DF ad DA vel B À; ergo eiusdem ponderis momentum super plano secundum DA inclinato ad momentum super inclina- tione secundum ABC est ut linea DF ad lineam BE; quare spatia, quae pertransibit idem pondus temporibus aqualibus super inclinationibus C A, DA, erunt inter se ut linea BE, DF, ex propositione secunda primi libri. Verum ut BE ad DF, ita demonstratur se habere AC ad DA; ergo idem mobile temporibus aqualibus per- transibit lineas CA, DA. Esse autem ut BE ad DF, ita CA ad DA, ita de- monstratur: Iungatur CD, et per D et B, ipsi AF POLIZIA agantur D GL, secans CA in puncto I, et BH: eritque angulus ADI aqualis angulo DCA, cum circumferentiis LA, AD «qualibus insistant, estque angulus DAC com- munis. Ergo triangulorum aquiangulorum CAD, DAI latera circa 2quales angulos proportionalia erunt, et ut CA ad AD, ita DA ad AL, id est BA ad AI, seu HA ad AG, hoc est BE ad DF: quod erat probandum. Aliter idem magis expedite demonstrabitur sic: Sit ad horizontem AB erectus circulus, cuius diameter CD ad horizontem sit perpendicularis; ex termino autem sublimi D inclinetur ad cir- D cumferentiam usque quodli- bet planum DF: dico, de- scensum per planum DF, et casum per diametrum DC eiusdem mobilis, temporibus aqualibus absolvi. Ducatur enim FG horizonti AB pa- rallela, qua erit ad diame- trum DC perpendicularis, et connectatur F.C: et quia tem- pus casus per DC ad tempus A C B 288 GALILEO GALILEI casus per DG est ut media proportionalis inter CD, DG ad ipsam DG; media autem inter CD, DG est DF, cum angulus DFC in semicirculo sit rectus, et F G perpen- dicularis ad DC; tempus itaque casus per DC ad tempus casus per DG est ut linea FD ad DG. Sed iam demon- stratum est, tempus descensus per DE ad tempus casus per DG esse ut eadem linea DF ad DG; tempora igitur descensus per DF et casus per DC ad idem tempus casus per DG eamdem habent rationem; ergo sunt aequalia. Si- militer demonstrabitur, si ab imo termino C elevetur chorda CE, ducta E H horizonti parallela et iuncta E D, tempus descensus per E C aquari tempori casus per dia- metrum D C. COROLLARIUM I. Hinc colligitur, tempora descensuum per chordas omnes ex terminis C seu D perductas, esse inter se aqualia. COROLLARIUM II. Colligitur etiam, quod si ab eodem puncto descen- dant perpendiculum et planum inclinatum, super quae descensus fiant temporibus aqualibus, eadem esse in se- micirculo, cuius diameter est perpendiculum ipsum. COROLLARIUM III Hine colligitur, lationum tempora super planis incli- natis tunc esse aqualia, quando elevationes partium aqua- lium eorumdem planorum fuerint inter se ut eorumdem planorum longitudines: ostensum enim est, tempora per CA, DA, in penultima figura, esse aqualia, dum elevatio partis AB, aqualis AD, nempe BE, ad elevationem DF fuerit ut CA ad DA. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 289 SAGR. Sospenda in grazia V. S. per un poco la let- tura delle cose che seguono, sin che io mi vo risolvendo sopra certa contemplazione che pur ora mi si rivolge per la mente; la quale, quando non sia una fallacia, non è lontana dall’essere uno scherzo grazioso, quali sono tutti quelli della natura o della necessità. È manifesto, che se da un punto segnato in un piano orizontale si faranno produr sopra ’1 medesimo piano in- finite linee rette per tutti i versi, sopra ciascuna delle quali s'intenda muoversi un punto con moto equabile co- minciandosi a muover tutti nell’istesso momento di tempo dal segnato punto, e che siano le velocità di tutti eguali, si verranno conseguentemente a figurar da essi punti mo- bili circonferenze di cerchi, tuttavia maggiori e maggiori, concentrici tutti intorno al primo punto segnato; giusto in quella maniera che vediamo farsi dall’ondette dell’acqua stagnante, dopo che da alto vi sia caduto un sassetto, la percossa del quale serve per dar principio di moto verso tutte le parti, e resta come centro di tutti i cerchi che vengon disegnati, successivamente maggiori e maggiori, da esse ondette. Ma se noi intenderemo un piano eretto all’orizonte, ed in esso piano notato un punto sublime, dal quale si portano infinite linee inclinate secondo tutte le inclinazioni, sopra le quali ci figuriamo descender mo- bili gravi, ciascheduno con moto naturalmente accelerato, con quelle velocità che alle diverse inclinazioni conven- gono; posto che tali mobili descendenti fusser continua- mente visibili, in che sorti di linee gli vedremmo noi continuamente disposti? Qui nasce la mia maraviglia, mentre le precedenti dimostrazioni mi assicurano che si vedranno sempre tutti nell’istessa circonferenza di cerchi successivamente crescenti, secondo che i mobili nello scen- dere si vanno più e più successivamente allontanando dal punto subblime, dove fu il principio della lor caduta. È per meglio dichiararmi, segnisi il punto subblime A, dal 19. - G. Galilei, Opere - II. 290 GALILEO GALILEI quale descendano linee secondo qualisivogliano inclina- zioni AF, AH, e la perpendicolare AB, nella quale presi i punti C, D descrivansi intorno ad essi cerchi che passino per il punto A, segando le linee inclinate ne i punti «Fiji HB} Gradi manifesto, per le antecedenti dimostrazioni, che partendosi nell’istesso tempo dal termi- ne A mobili descendenti per esse linee, quando l'uno sarà in È, l’altro sarà in G e V’al- tro in I; e così, continuando di scendere, si troveranno nell’istesso momento di tem- po in F, H, B; e continuando di muoversi questi ed altri infiniti per le infinite diverse inclinazioni, si troveranno sempre successivamente nelle medesime circonferenze, fatte maggiori e maggiori in infinito. Dalle due specie dunque di moti, delle quali la natura si serve, nasce con mirabil corrispondente diversità la generazione di cerchi infiniti: quella si pone, come in sua sede e prin- cipio originario, nel centro d’infiniti cerchi concentrici; questa si costituisce nel contatto subblime delle infinite circonferenze di cerchi, tutti tra loro eccentrici: quelli nascono da moti tutti eguali ed equabili; questi, da moti tutti sempre inequabili in se stessi, e diseguali l'uno dal- l’altro tutti, che sopra le differenti infinite inclinazioni si esercitano. Ma più aggiunghiamo, che se da i due punti assegnati per le emanazioni noi intenderemo eccitarsi linee non per due superficie sole, orizontale ed eretta, ma per tutti i versi, sî come da quelle, cominciandosi da un sol punto, si passava alla produzzione di cerchi, dal minimo al massimo, cosî, cominciandosi da un sol punto, si ver- A DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 291 ranno producendo infinite sfere, o vogliam dire una sfera che in infinite grandezze si andrà ampiando, e questo in due maniere: cioè, o col por l'origine nel centro, o vero nella circonferenza di tali sfere. SAL. La contemplazione è veramente bellissima, e pro- porzionata all’ingegno del Sig. Sagredo. SIMPL. Io, restando al meno capace della contempla- zione sopra le due maniere del prodursi, con li due di- versi moti naturali, i cerchi e le sfere, se bene della produzzione dependente dal moto accelerato e della sua dimostrazione non son del tutto intelligente, tuttavia quel potersi assegnare per luogo di tale emanazione tanto il centro infimo quanto l’altissima sferica superficie, mi fa credere che possa essere che qualche gran misterio si contenga in queste vere ed ammirande conclusioni; mi- sterio, dico, attenente alla creazione dell'universo, il quale si stima essere di forma sferica, ed alla residenza della prima causa. SAL. Io non ho repugnanza al creder l’istesso. Ma si- mili profonde contemplazioni si aspettano a più alte dot- trine che le nostre: ed a noi deve bastare d’esser quei men degni artefici, che dalle fodine scuoprono e cavano i marmi, ne i quali poi gli scultori industri fanno ap- parire maravigliose immagini, che sotto roza ed informe scorza stavano ascoste. Or, se cosi vi piace, seguiremo avanti. THEOREMA VII, PROPOSITIO VII. Si elevationes duorum planorum duplam habue- rint rationem eius quam habeant eorumdem pla- norum longitudines, lationes ex quiete in ipsis, temporibus aqualibus absolventur. Sint plana inaqualia et inaqualiter inclinata A E, AB, quorum elevationes sint FA, DA; et quam rationem habet AE ad AB, eamdem duplicatam habeat FA ad 292 GALILEO GALILEI D A: dico, tempora lationum super planis AE, AB ex quiete in A esse aqualia. Ducta sint parallela horizon- tales ad lineam elevationum E F et DB qua secet A E in G: et quia ratio FA ad AD dupla est rationis E A ad AB, et ut FA ad AD, ita EA ad AG, ergo ratio EA ad AG dupla est rationis E A ad AB; ergo AB media est inter E A, AG. Et quia tempus descensus per AB ad tempus per AG est ut AB ad AG, tempus autem descensus per AG ad tempus E e per AE est ut AG ad mediam inter AG, AE, quae est AB, ergo, ex aquali, tempus per AB ad tempus per AE est ut AB ad se ipsam; sunt igitur tempora aqualia: quod erat demonstrandum. A THEOREMA VIII, PROPOSITIO VIII. In planis ab eodem sectis circulo ad horizon- tem erecto, in iis qua cum termino diametri erecti conveniunt, sive imo sive sublimi, lationem tempora sunt aqualia tempori casus in diametro; in illis vero que ad diametrum non pertingunt, tempora sunt breviora; in eis tandem qua diametrum secant, sunt longiora. Circuli ad horizontem erecti esto diameter perpendicularis A B. De planis ex terminis A, B ad circumferentiam usque productis, quod tempora A DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 293 lationum super eis sint aqualia, iam demonstratum est. De plano DF ad diametrum non pertingente, quod tempus descensus in eo sit brevius, demonstratur ducto plano DB, quod et longius erit et minus declive quam DF; ergo tempus per DF brevius quam per DB, hoc est per A B. De plano vero diametrum secante, ut CO, quod tempus descensus in eo sit longius, itidem constat; est enim et longius et minus declive quam C B. Ergo patet propositum. THEOREMA IX, PROPOSITIO IX. Si a puncto in linea horizonti parallela duo plana utcunque inclinentur, et a linea secentur, quae cum ipsis angulos faciat permutatim aquales angulis ab iisdem planis et horizontali contentis, lationes in partibus a dicta linea sectis, tempo- ribus aequalibus absolventur. Ex puncto C horizontalis linea X duo plana utcumque inflectantur CD, CE, et in quolibet puncto linea CD constituatur angulus CD F, angulo XCE «qualis; secet autem linea DF planum CE in F, adeo ut anguli CDF, CFD angulis XCE, LCD permutatim sumptis sint I A BaXx aequales: dico, tempora de- scensuum per CD, CF esse E aequalia. Quod autem (posito D AB angulo CDF «quali angulo I XCE) angulus CFD sit aequalis angulo D C L, mani- festum est. Dempto enim an- gulo communi DC F, ex tribus angulis trianguli CDF, equalibus duobus rectis, quibus aquantur anguli omnes ad lineam LX in puncto C constitutis, remanent in trian- gulo duo CDF, CFD, duobus XCE, LCD aquales; positus autem est CDF ipsi XCE «qualis; ergo reliquus CFD 294 GALILEO GALILEI reliquo DCL. Ponatur planum CE xequale plano CD, et ex punctis D, E perpendiculares agantur DA, EB ad hori- zontalem XL, ex C vero ad DF ducatur perpendicularis CG; et quia angulus CDG angulo ECB est @qualis, et recti sunt DGC, CBE, erunt trianguli CDG, CBE @qui- anguli, et ut DC ad CG, ita CE ad E B: est autem 1DJ@G aqualis CE: ergo CG @qualis erit BE: cumque trian- gulorum DAC, CGF anguli C, A angulis F, G sini aquales, erit ut C D ad DA, ita F C ad CG, et, permu- tando, ut DC ad CF, ita DA ad CG seu BE. Ratio itaque elevationum planorum aqualium CD, (Gest eadem cum ratione longitudinum DC, CF; ergo, ex co- rollario primo precedentis propositionis sextae, tempora descensuum in ipsis erunt @qualia: quod erat probandum. Aliter idem: ducta FS perpendiculari ad horizontalem A S. Quia triangulum CSF simile est triangulo D GC, erit ut SF ad FC, ita GC ad CD; et quia triangulum CFG simile est triangulo DCA, L_À RESP: X.erit ut FC ad GC, ita CD ad DA: ergo, ex aquali, ut SF ad G CG, ita CG ad DA: media est G igitur CG inter SF, DA, et ut D Sa ea PE DIA F, ita quadratum ai DA ad quadratum CG. Rur- È sus, cum triangulum ACD si- mile sit triangulo C GF, erit ut DA ad DC. ita GC ad CF, et, permutando, ut DA ad C G, ita DC ad CF, et ut quadratum DA ad qua- dratum CG, ita quadratum DC ad quadratum CF; sed ostensum est, quadratum DA ad quadratum CG esse ut linea DA ad lineam FS; ergo, ut quadratum DC ad qua- dratum CF, ita linea DA ad FS; ergo, ex precedenti septima, cum planorum CD, CF elevationes DAMS duplam habeant rationem eorumdem planorum, tempora lationum per ipsa erunt aqualia. SI DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 29: THEOREMA X, PROPOSITIO X. Tempora lationum super diversas planorum in- clinationes, quorum elevaltiones sint aequales, sunt inter se ut eorumdem planorum longitudines, sive fiant lationes ex quiete, sive pracedat illis ratio ex eadem altitudine. Fiant lationes per ABC et per ABD usque ad hori- zontem DC, adeo ut latio per AB pracedat lationibus per BD et per BC: dico, tempus lationis per BD ad tempus per BC esse ut BD longitudo ad BC. Ducatur AF horizonti parallela, ad quam extendatur DB occurrens in F, et ipsarum DF, FB media sit FE: et ducta EO ipsi DC parallela, erit AO media inter CA, AB. Quod. si intelligatur, tempus per A B esse ut AB, erit tempus per FB ut FB, et tempus per totam A C erit ut media AO, per totam vero FD erit FE; quare tempus per reliquam BC erit BO, per reliquam vero BD erit BE: verum ut BE ad BO, ita est BD ad BC: ergo tem- pora per BD, BC post casus per A B, FB, seu, quod idem est, per communem A B, erunt inter se ut--longitu- dines BD, BC. Esse autem tempus per BD ad tempus per BC ex quiete in B ut longitudo BD ad BC, supra demonsiratum est. Sunt igitur tempora lationum per plana diversa, quorum aquales sint elevationes, inter. se ut eorumdem planorum longitudines, sive motus fiat in ipsis ex quiete, sive lationibus iisdem pracedat alia latio ex eadem altitudine: quod erat ostendendum. A E 296 GALILEO GALILEI THEOREMA XI, PROPOSITIO XI. Si planum, in quo fit motus ex quiete, dividatur utcunque, tempus lationis per priorem partem ad tempus lationis per sequentem est ut ipsamet prima pars ad excessum quo eadem pars superalur a me- dia proportionali inter totum planum et primam eamdem partem. Fiat latio per totam AB ex quiete in A, que in} C divisa sit utcumque; totius autem BA et prioris partis AC media sit proportionalis AF; erit CF excessus media FA super partem AC: dico, tempus lationis per AC ad tempus sequentis lalionis per CB esse ut AC ad CF. Quod patet: nam tempus |C per AC ad tempus per totam AB est ut AC ad lg mediam AF; ergo, dividendo, tempus per AC ad tempus per reliquam CB erit ut AC ad CF. Si itaque intelligatur, tempus per AC esse ipsamet A C, tempus per C B erit CF: quod est propositum. Quod si motus non fiat per continuatam A CB, sed per in- flexas ACD usque ad horizon- tem BD, cui ex F parallela ducta sit FE, demonstrabitur pariter, tempus per AC ad tempus per reflexam CD esse ut AC ad CE. Nam tempus per AC ad tempus peri: Brest uti ACaad®G a tempus vero per CB post AC ad tempus per CD post eumdem descensum per AC demonsiratum est esse ut CB ad CD, hoc est ut CF ad CE; ergo, ex aquali, tempus per AC ad tempus per CD erit ut AC linea ad CE. B TERMOSCOPIO DI GALILEO (Firenze, Museo di Storia della Scienza) n ì Ur ul , pagli \ n [vi il u CI intra È "y Da v vd ì | } } DE Ù N, i) x I di Ù Mi i 1 PE li fa, î) Ret Hb dicand Wah ita ly Mari A; 1 a sini DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 297 THEOREMA XII, PROPOSITIO XII. Si perpendiculum et planum utcunque incli- natum secentur inter easdem horizontales lineas, sumanturque media proportionalia ipsorum et par- tium suarum a communi sectione et horizontali superiori comprehensarum, tempus lationis in per- pendiculo ad tempus lationis facte in parte su- periori perpendiculi, et consequenter in inferiori secantis plani, cam habebit rationem, quam habet tota perpendiculi longitudo ad lineam compositam ex media in perpendiculo sumpta et ex excessu quo totum planum inclinatum suam mediam superat. Sint horizontes superior A F, inferior CD, inter quos secentur perpendiculum A C et planum inclinatum DF in B, et totius perpendiculi C A et superioris partis AB media sit AR, totius vero DF et superioris partis BF media sit FS: dico, tempus casus per totum perpendiculum A C ad tempus per suam superiorem partem AB cum inferiori plano, nempe cum BD, eam habere ralionem, quam habet AC ad mediam perpendiculi, scilicet A R, cum SD, qua est excessus totius plani DF super suam mediam FS. Connectatur RS, qua erit horizontalibus parallela: et quia tempus casus per totam A C ad tempus per partem AB est ut CA ad mediam AR, si intelli- gamus, A C esse tempus casus per A C, erit AR tempus casus per A B, et RC per reliquam BC. Quod si tempus per AC ponatur, uti factum est, ipsa A C, tempus per FD erit FD, et pariter concludetur, DS esse tempus per BD post F B, seu post A B. Tempus igitur per totam 20. -- G. Galilei, Opere - II. 298 GALILEO GALILEI AC est AR cum RG; per inflexas vero ABD erit AR cum SD: quod erat probandum. Idem accidit si loco perpendiculi ponatur aliud pla- num, quale, v. g., NO; eademque est demonstratio. PROBLEMA I, PROPOSITIO XIII. Dato perpendiculo, ad ipsum planum inflectere, in quo, cum ipsum habeat cum dato perpendiculo eandem elevationem, fiat motus post casum in per- pendiculo eodem tempore, ac in eodem perpendi- culo ex quiete. Sit datum perpendiculum A B, cui, extenso in C, po- natur pars BC @qualis, et ducantur horizontales C È, AG: oportet, ex B planum usque ad horizontem C È in- flectere, in quo fiat motus post A e _G casum ex A eodem tempore, ac in AB ex quiete in A. Ponatur CD «@qualis C B, et ducta BD, B applicetur BE @qualis utrisque E, BD, DC: dico, BE esse planum quaesitum. Producatur EB, oc- ESD a currens horizonti AG in G, et ipsarum EG, GB media sit GF; erit EF ad FB ut EG ad GF, et quadratum EF ad quadratum FB ut quadratum EG ad quadratum GF, hoc est ut linea E G ad G B: est autem E G dupla GB: ergo quadratum EF duplum quadrati F B. Verum qua- dratum quoque DB duplum est quadrati BC; ergo ut linea EF ad FB, ita DB ad BC, et, componendo et permutando, ut EB ad duas DB, BC, ita BF ad BC: sed B E duabus DB, BC est aqualis: ergo BF ipsi BC, seu B A, aqualis est. Si igitur intellisatur, A B esse tempus casus per A B, erit GB tempus per GB, et GF tempus per totam GE; ergo BF erit tempus per reliquam BE post casum ex G, seu ex A: quod erat propositum. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 299 PROBLEMA II, PROPOSITIO XIV. Dato perpendiculo et plano ad eum inclinato, partem in perpendiculo superiori reperire, qua ex quiete conficiatur tempore aquali ei, quo confi- citur planum inclinatum post casum in parte re- perta in perpendiculo. Sit perpendiculum D B, et planum ad ipsum inclina- tum AC: oportet, in perpendiculo AD partem reperire, quae ex quiete conficiatur tempore aquali ei, quo post casum in ea conficitur planum A C. Ducatur horizontalis C B, et ut BA cum dupla AC ad AC, ita fiat CA ad AE, et ut BA ad AC, ita fiat EA ad AR, et ab R ducatur perpendicularis. RX ad DB: dico, X esse pun- ctum queesitum. Et quia ut BA cum dupla AC ad AC, ita CA ad AE, dividendo erit ut BA cum AC ad AC, ita CE ad E A; et quia ut BA ad AC, ita EA ad AR, erit, com- ponendo, ut BA cum AC ad AC, ita ER ad RA: sed ut BA cum AC ad AC, ita est CE ad E A: ergo ut CEadEA, itaER ad RA,et ambo antecedentia ad ambo consequentia, nempe CR ad RE. Sunt itaque CR, RE, RA proportionales. Amplius, quia ut BA ad AC, ita posita est EA ad AR, et, propter similitudinem trian- gulorum, ut BA ad AC, ita XA ad AR, ergo ut E A ad AR, ita XA ad AR: sunt itaque E A, X A @quales. Modo si intellisamus, tempus per RA esse ut R A, tempus per RC erit RE, media inter CR, RA, et AE erit tempus per AC post R A, sive post X A: verum tempus. per X A est X A, dum RA est tempus per R À: ostensum autem est, X A, AE esse @quales: ergo patet propositum. 300 GALILEO GALILEI PROBLEMA III, PROPOSITIO XV. Dato perpendiculo et plano ad ipsum inflexo, partem in perpendiculo infra extenso reperire, quae tempore eodem conficiatur ac planum inflexum post casum ex dato perpendiculo. Sit perpendiculum A B, et planum ad ipsum inflexum BC: oportet, in perpendiculo infra extenso partem repe- rire, quae ex casu ab A conficiatur tempore eodem atque BC ex eodem casu ab A. Ducatur horizontalis A D, cui occurrat C B extensa in D, et ipsarum CD, DB media sit DE, et BF ponatur zequalis BE; deinde ipsarum BA, A F tertia proportionalis sit A G: dico, BG esse spatium quod post casum AB conficitur tempore eodem ac planum BC post eun- dem casum. Si enim ponamus,. tempus per AB esse ut AB, erit tempus DB ut DB; et quia DE est media inter BD, DC, erit eadem DE tempus per totam DC, et BE tempus per reliquam BC ex quiete in D, seu ex casu A B. Et similiter concludetur, BF esse tempus per BG, post casum eundem; est autem BF sequalis BE; ergo patet propositum. A D THEOREMA XIII, PROPOSITIO XVI. Si plani inclinati et perpendiculi partes, qua- rum tempora lationum ex quiete sint aqualia, ad idem punctum componantur, mobile veniens ex qualibet altitudine sublimiori, citius absolvet ean- dem partem plani inclinati, quam ipsam partem perpendiculi. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 301 Sit perpendiculum E B et planum inclinatum CE, ad idem punctum E composita, quorum tempora lationum ex quiete in È sint aqualia; et in perpendiculo extenso sumptum sit quodlibet punctum sublime A, ex quo de- mittantur mobilia: dico, tempore breviori absolvi planum inclinatum EC, quam perpendiculum EB post casum AE. Jungatur CB, et ducta horizontali A D, extendatur C E, illi occurrens in D, et CD, DE media proportionalis sit DYF, ipsarum vero B A, AE media sit AG, et ducantur FG, DG: et quia tempora lationum per EC, EB ex quiete in E sunt aqualia, erit angulus C rectus, ex corollario secundo pro- positionis sexta; estque rectus A, et anguli ad verticem E @quales, trian- gula igitur AED, CEB sunt aquian- gula, et latera circa aquales angulos proportionalia; ergo ut BE ad EC, ita DE ad EA. Rectangulum ergo BEA est «quale rectangulo CED; et quia rectan- gulum CDE superat rectangulum CDE quadrato E D, rectangulum vero BA E superat rectangulum BE A qua- drato E À, excessus rectanguli CDE super rectangulo BAE, hoc est quadrati FD super quadrato AG, erit idem cum excessu quadrati D E super quadrato A E, qui excessus est quadratum DA. Est igitur quadratum FD sequale duobus quadratis GA, AD, quibus est quoque aequale quadratum GD; ergo linea DF ipsi DG est aequalis, et angulus DGF @qualis angulo D FG, et an- gulus E GF minor angulo E F G, et latus oppositum E F minus latere E G. Modo si intelligamus, tempus casus per A E esse ut AE, erit tempus per DE ut DE; cumque A G media sit inter BA, A E, erit A G tempus per totam A B, et reliqua EG erit tempus per reliquam EB ex 302 GALILEO GALILEI quiete in A; et similiter concludetur, E F esse tempus per EC post descensum DE, seu post casum AE: demon- stratum autem est, EF minorem esse quam EG: ergo patet propositum. COROLLARIUM. Ex hac atque ex precedenti constat, spatium quod conficitur in perpendiculo post casum ex sublimi, tem- pore eodem quo conficitur planum inclinatum, minus , esse eo quod conficitur tempore eodem atque in inclinato non precedente casu ex sublimi, maius tamen quam idem planum inclinatum. Cum enim modo demonstratum sit, quod mobilium venientium ex termino sublimi A, tempus conversi per EC brevius sit tempore pro- A__D cedentis per EB, constat, spatium quod conficitur per EB tempore @quali tempori B per EC, minus esse toto spatio E B. Quod 6 5. 1F autem idem spatium perpendiculi maius sit | quam EC, manifestum fit sumpta figura G pracedentis propositionis, in qua partem perpendiculi BG confici demonstratum est tempore eodem cum BC post casum AB: hanc autem BG maiorem esse quam BC, sic colligitur. Cum BE, FB aequales sint, BA vero minor BD, maiorem rationem habet FB ad BA quam EB ad BD, et, componendo, FA ad AB maiorem habet quam ED ad D 5; est autem ut FA ad AB, ita GF ad FB (est enim AF media inter BA, AG), et, similiter, ut ED ad BD, ita est CE ad E B: ergo GB ad BF maiorem habet rationem quam C B ad BE: est igitur GB maior BC. DIALOGHI DELLE NUOVE. SCIENZE 303 PROBLEMA IV, PROPOSITIO XVII. Dato perpendiculo et plano ad ipsum inflexo, in dato plano partem signare, in qua post casum in perpendiculo fiat motus tempore aquali ei, quo mobile datum perpendiculum ex quiete confecit. Sit perpendiculum A B, et ad ipsum planum inflexum BE: opor- A__D tet, in BE spatium signare, per quod mobile post casum in AB B movealur tempore @quali ei, quo. ipsum perpendiculum AB ex 1) quiete conficit. Sit horizontalis linea AD, cui occurrat in D planum extensum, et accipiatur F B aqualis B A, et fiat ut BD ad DF, ita FD ad DE: dico, tempus per BE post casum in AB aquari tempori per AB ex quiete in A. Si enim intellisatur, AB esse tempus per AB, erit DB tempus per DB; cumque sit ut BD ad DF, ita FD ad DE, erit DF tempus per totum planum DE, et BF per partem BE ex D: sed tempus per BE post DB est idem ac post A B: ergo tempus per BE post AB erit BF, «quale scilicet tempori A B ex quiete in À: quod erat propositum. E PROBLEMA V, PROPOSITIO XVIII. Dato in perpendiculo quovis spatio a principio lationis signato, quod in dato tempore conficiatur, datoque quocunque alio tempore minori, aliud spa- tium in perpendiculo eodem reperire, quod in dato tempore minori conficiatur. Sit perpendiculum A, in quo detur spatium AB, cuius tempus ex principio A sit A B, sitque horizon CBE, et detur tempus ipso AB minus, cui in horizonte notetur 304 GALILEO GALILEI aequale BC: oportet, in eodem perpendiculo spatium eidem AB @quale reperire, quod tempore BC conficiatur. Jungatur linea A C, cumque BC minor sit BA, erit an- gulus B A C minor angulo B C A; constituatur ei aequalis CAE, et linea AE horizonti occurrat in puncto E, ad quam perpendicularis ponatur ED, secans perpendiculum in D, et linea DF ipsi BA secetur aqualis: dico, ipsam FD esse perpen- diculi partem, in qua latio ex principio motus in A absolvitur tempore BC dato. Cum enim in triangulo rectan- gulo AED ab angulo recto E per- pendicularis ad latus oppositum AD ducta sit EB, erit AE media inter DA, A B, et BE media inter D B, BA, seu inter F A, A B (est enim FA ipsi DB aequalis); cumque AB positum sit esse tempus per À, erit A E, seu E C, tempus per totam AD, et EB tempus. per AF; ergo reliqua BC erit tempus per reliquam FD: quod erat intentum. PROBLEMA VI, PROPOSITIO XIX. Dato in perpendiculo spatio quocunque a prin- cipio lationis peracto, datoque tempore casus, tem- pus reperire, quo aliud aequale spatium, ubicunque in eodem perpendiculo acceptum, ab eodem mobili consequenter conficiatur. Sit in perpendiculo AB quodcunque spatium A C ex principio lationis in A acceptum, cui aquale sit aliud spatium DB ubicunque accepium, sitque datum tempus lationis per A C, sitque illud A C: oportet, reperire tem- pus lationis per DB post casum ex A. Circa totum AB semicirculus describatur A E B, et ex C ad AB perpen- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE dicularis sit CE, et iungatur A E, qua maior erit quam EC; secetur EF ipsi E EC «qualis: dico, reliquum FA esse tempus lationis per DB. Quia enim —, AE est media inter BA, AC, estque AC tempus casus per AC, erit AE tempus per totam AB; cumque CE media sit inter DA, AC (est enim DA «qualis ipsi BC), erit CE, hoc est iolEX Je E F, tempus per AD; ergo reliqua AF 305 est tempus per reliquam DB: quod est propositum. COROLLARIUM. Hinc colligitur, quod si alicuius spatii ponatur, tempus ex quiete esse ut ipsummet spalium, tempus illius post aliud spatium adiunctum erit excessus A medii inter adiunctum una cum spatio, et ipsum spatium super medium inter primum et adiunctum: veluti, posito quod tempus per A B ex quiete in A sit AB, addito AS, tempus per AB post SA erit excessus medii inter SB, BA super medium inter BR BA. PROBLEMA VII, PROPOSITIO XX. Dato quolibet spatio et parte in eo post principium lationis, partem alteram versus finem reperire, quae conficiatur tempore eodem ac prima data. Sit spatium CB, et in eo pars CD, data post principium lationis in C: oportet, partem alteram versus finem B reperire, qua conficiatur tempore eodem ac data C D. Sumatur media inter BC, C D, cui sequalis ponatur BA; et ipsarum BC, CA B tertia proportionalis sit C E: dico, E B esse spatium quod . 306 GALILEO GALILEI post casum ex C conficitur tempore eodem ac ipsum C D. Si enim intelligamus, tempus per totam CB esse ut C B, erit BA (media scilicet inter BC, C D) tempus per C D; cumque CA media sit inter BC, CE, erit CA tempus per CÈ: est autem tota BC tempus per totam C B; ergo reliqua BA erit tempus per reliquam EB post casum ex C: eadem vero BA fuit tempus per CD; ergo tempo- ribus aqualibus conficiuntur CD et E B ex quiete in A: quod erat faciendum. THEOREMA IV, PROPOSITIO XXI. Si in perpendiculo fiat casus ex quiete, in quo a principio lationis sumalur pars, quovis tempore peracta, post quam sequatur motus inflexus per aliquod planu:n utcunque inclinatum, spatium quod in tali plano conficitur in tempore aquali tempori casus iam peracti in perpendiculo, ad spatium iam peractum in perpendiculo, maius erit quam du- plum, minus vero quam triplum. Infra horizontem A E sit perpendiculum A B, in quo ex principio A fiat casus, cuius sumatur queelibet pars AC; inde ex C inclinetur utcunque planum C G, super quo post casum in AC continuetur motus: dico, quod spatium tali motu peractum per CG in tempore aequali tem- pori casus per AC, est plus quam du- plum, minus vero quam triplum, eius- dem spatii A C. Po- natur enim CF @&- qualis AC, et extenso plano G C usque ad DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE - 307 horizontem in E, fiat ut CE ad EF, ita FE ad EG. Si itaque ponalur, tempus casus per AC esse ut linea AC, erit C E tempus per E C, et CF, seu C A, tempus motus per CG: ostendendum itaque est, spatium CG ipsius CA maius esse quam duplum, minus vero quam triplum. Cum enim sit ut CE ad EF, ita FE ad EG, erit etiam ita CF ad FG; minor autem est EC quam EF; quare et CF minor erit quam F G, et GC maior quam dupla ad FC, seu AC. Cumque rursus F E minor sit quam dupla ad EC (est enim EC maior GA seuiCt), certi quoque GF minor quam dupla ad FC, et GC minor quam tripla ad C F, seu C À: quod erat demonstrandum. Poterat autem universalius idem proponi: quod enim accidit in perpendiculari et plano inclinato, contingit etiam si post motum in plano quodam inclinato inflec- tatur per magis inclinatum, ut videtur in altera figura; eademque est demonstratio. PROBLEMA VIII, PROPOSITIO XXII. Datis duobus temporibus inaqualibus, et spatio quod in perpendiculo ex quiete conficitur tempore breviori ex datis, a puncto supremo perpendiculi usque ad horizontem planum inflectere, super quo mobile descendat tempore @quali longiori ex datis. Tempora inequalia sint A maius, B vero minus; spa- tium autem quod in perpendiculo conficitur ex quiete in tempore B, sit CD: oportet, ex termino C planum usque ad horizontem inflectere, ) C quod tempore A conficia- a | tur. Fiat ut B ad A, ita x JD CD ad aliam lineam, cui VIVI NIZIONOJNE Lulu eat ELA linea CX aqualis ex C | ad horizontem descendat: manifestum est, planum CX esse illud super quo mobile descendit tempore dato A. 308 GALILEO GALILEI Demonstratum enim est, tempus per planum inclinatum ad tempus in sua elevatione eam habere rationem, quam habet plani longitudo ad longitudinem elevationis sua; tempus igitur per CX ad tempus per CD est ut CX ad CD, hoc est ut tempus A ad tempus B: tempus vero B est illud quo conficitur perpendiculum CD ex quiete: ergo tempus A est illud quo conficitur planum C X. PROBLEMA IX, PROPOSITIO XXIII. Dato spatio, quovis tempore peracto ex quiete in perpendiculo, ex termino imo huius spatii pla- num inflectere, super quo post casum in perpen- diculo tempore eodem conficiatur spatium cuilibet spatio dato a@quale, quod tamen maius sit quam duplum, minus vero quam triplum, spatii peracti in perpendiculo. Sit in perpendiculo A S tempore AC peractum spa- tum AC ex quiete in A, cuius IR maius sit quam duplum, minus vero quam triplum: oportet, ex termino C planum inflectere super quo mobile eodem tempore . AC conficiat post casum per IMNR AC spatium ipsi IR quale. A Sint RN, NM ipsi AC @aqua- Ta È lia, et quam rationem habet 06 resduum IM ad MN, eam- dem habeat AC linea ad aliam, cui a@equalis applicetur CE ex C ad horizontem AE, qua extendatur versus O, et accipiantur C F, FG, GO aequales ipsis RN, NM, MI: dico, tempus super in- flexa CO post casum AC esse aequale tempori AC ex quiete in A. Cum enim sit ut OG ad GF, ita FC ad CE, erit, componendo, ut OF ad FG, seu FC, ita FE ad EC, et ut unum antecedentium ad unum consequen- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 309 tium, ita omnia ad omnia, nempe tota OE ad EF, ut FE, ad EC. Sunt itaque O E, E F, EC continue propor- tionales: quod cum positum sit, tempus per AC esse ut AC, erit CE tempus per EC, et EF tempus per totam EO, et reliquum CF per reliquam CO; est autem CF aqualis ipsi CA; ergo factum est quod fieri oportebalt. Est enim tempus C A tempus casus per AC ex quiete in A, CF vero (quod aquatur C A) est tempus per CO post descensum per E C, seu post casum per AC: quod est propositum. Notandum autem est, quod idem accidet, si praecedens latio non in perpendiculo fiat, sed in plano inclinato, ut in sequenti figura, in qua latio pracedens facta sit per planum inclinatum AS infra horizontem AE; et de- monstratio est prorsus eadem. SCHOLIUM. Si diligenter attendatur, manifestum erit, quod quo minus data linea IR deficit a tripla ipsius AC, eo planum inflexum, super quod facienda est secunda latio, puta CO, accedit vicinius ad perpendiculum, in quo tandem in tempore aquali AC conficitur spatium ad A C triplum. Cum enim IR proxima fuerit ad triplicitatem AC, erit IM «@qualis fere ipsi MN; cumque ut IM ad MN, in constructione, ita fiat AC ad CE, constat, ipsam CE paulo maiorem reperiri quam C A, et, quod consequens est, punctum E proximum reperiri puncto A, et CO cum CS acutis- simum angulum continere, et fere mutuo coincidere. E contra vero, si data IR minimum quid maior fuerit IMAGNA R 310 GALILEO GALILEI quam dupla eiusdem AC, erit IM brevissima linea; ex quo accidet, minimam quoque futuram esse AC re- spectu C E, quae longissima erit et quam proxime accedet ad parallelam horizontalem per C productam. Indeque colligere possumus, quod si, in apposita figura, post de- scensum per planum inclinatum AC fiat reflexio per lineam horizontalem, qualis esset CT, spatium, tempore zequali tempori descensus per A C, per quod mobile con- sequeniter moveretur, esset duplum spatii AC exacte. Videtur autem et hic accommodari consimilis ratioci- natio: apparet enim ex eo, cum OE ad EF sit ut FE ad EC, ipsam FC determinare tempus per CO. Quod si pars horizontalis T C, dupla C A, divisa sit bifariam in V, extensa versus X in infinitum elongata erit, dum occursum cum producta A E querrit, et ratio infinite T X ad infinitam V X non erit alia a ratione infinite V X._ ad infinitam X C. Istud idem alia aggressione concludere poterimus, consimile resumentes raliocinium ei, quo usi sumus in CT dl prima demonstratione. Resumentes enim triangulum ABC, nobis reprasentans in suis parallelis basi BC pvelocitatis gradus con- tinue adauctos iuxta temporis incrementa, ex quibus, cum infinita sint, veluti infinita sunt puncta in linea AC et instantia in quovis tempore, exurget superficies ipsa trianguli; si intelligamus, motum per alterum AFRO. tantum temporis continuari, sed non amplius ”. motu accelerato, verum @quabili, iuxta ma- ximum gradum velocitatis acquisita, qui gradus repre- sentatur per lineam BC; ex talibus gradibus conflabitur aggregatum consimile parallelogrammo ADBC, quod duplum est trianguli ABC: quare spatium quod cum gradibus consimilibus tempore eodem conficietur, duplum erit spatii peracti cum gradibus velocitatis a triangulo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 311 ABC repreesentatis. At in plano horizontali motus est aquabilis, cum nulla ibi sit causa accelerationis aut re- tardationis; ergo concluditur, spatium CD peractum tempore aquali tempori AC, duplum esse spatii A C: hoc enim motu ex quiete accelerato, iuxta parallelas trianguli, conficitur; illud vero, iuxta parallelas paralle- logrammi, quae, dum fuerint infinite, duplae sunt ad pa- rallelas infinitas trianguli. Attendere insuper licet, quod velocitatis gradus, qui- cunque in mobili reperiatur, est in illo suapte natura indelebiliter impressus, dum externa causa accelerationis aut retardationis tollantur, quod in solo horizoniali plano contingit; nam in planis declivibus adest iam causa ac- celerationis maioris, in acclivibus vero retardalionis: ex quo pariter sequitur, motum in horizontali esse quoque seternum; si enim est @quabilis, non debilitatur aut re- mittitur, et multo minus tollitur. Amplius, existente gradu celeritatis per naturalem descensum a mobili acquisito, suapte natura indelebili atque aterno, considerandum oc- currit, quod si post descensum per planum declive fiat rellexio per aliud planum acclipe, iam in isto occurrit causa retardationis: in tali enim plano idem mobile na- turaliter descendit; quare mixtio quadam contrariarum affectionum exurgit, nempe gradus illius celeritatis ac- quisitae in pracedenti descensu, qui per se uniformiter mobile in infinitum abduceret, et naturalis propensionis ad motum deorsum iuxta illam eandem proportionem ac- celerationis iuxta quam semper movetur. Quare admodum rationabile videbitur si, inquirentes quanam contingant accidentia dum mobile post descensum per aliquod pla- num inclinatum reflectatur per ‘planum aliquod acclive, accipiamus, gradum illum maximum in descensu acqui- situm, idem per se perpetuo in ascendente plano servari; attamen in ascensu ei supervenire naturalem inclinatio- nem deorsum, motum nempe ex quiete acceleratum iuxta 312 GALILEO GALILEI semper acceptam proportionem. Quod si forte hac intel- ligere fuerit subobscurum, clarius per aliquam delinea- tionem explicabitur. Intelligatur itaque, factum esse descensum per planum decline A B, ex quo per aliud acclive BC continuetur motus reflexus, et sint, primo, plana aqualia, et ad a quales angulos super horizontem G H elevata: constat iam, quod mobile ex quiete in A descendens per A B, gradus acquirit velocitatis iuxta temporis ipsius incrementum; gradum vero in B esse maximum acquisitorum, et suapte na- tura immutabiliter impres- sum, sublatis scilicet causis accelerationis nova aut re- tardationis: accelerationis, inquam, si adhuc super extenso plano ulterius progrede- retur; retardationis vero, dum super planum acclive BC fit reflexio: in horizontali autem GH @quabilis motus, iuxta gradum velocitatis ex A in B acquisita, in infinitum extenderetur; esset autem talis velocitas, ut in tempore squali tempori descensus per AB in horizonte conficeret spatium duplum ipsius AB. Modo fingamus, idem mobile eodem celeritatis gradu aquabiliter moveri per planum BC, adeo ut, etiam in hoc, tempore aquali tempori de- scensus per AB conficeret super BC extenso spatium du- plum ipsius A B; verum intelligamus, statim atque ascen- dere incipit, ei suapte natura supervenire illud idem quod ei contigit ex A super planum AB, nempe descensus qui- dam ex quiete secundum gradus eosdem accelerationis, vi quorum, ut in AB contigit, tempore eodem tantumdem descendat in plano reflexo, quantum descendit per A B: manifestum est, quod ex eiusmodi mixtione motus aqua- bilis ascendentis et accelerati descendentis perducetur mo- bile ad terminum C per planum BC iuxta eodem velo- citatis gradus, qui erunt aquales. Quod vero sumptis DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 313 utcunque duobus punctis D, E, aqualiter ab angulo B remotis, transitus per DB fiat tempore @quali tempori reflexionis per BE, hinc colligere possumus. Ducta D F, erit parallela ad BC; constat enim, descensum per AD reflecti per DF: quod si post D mobile feratur per hori- zontalem DE, impetus in E erit idem cum impetu in D; ergo ex E ascendet in C; ergo gradus velocitatis in D est squalis gradui in E. Ex his igitur ralionabiliter asserere possumus, quod si per aliquod planum inclinatum fiat descensus, post quem sequatur reflexio per planum elevatum, mobile per impetum conceptum ascendet usque ad eandem altitudi- nem, seu elevationem ab horizonte; ut si fiat descensus per A B, feretur mobile per planum reflexum BC usque ad horizontalem A CD, non tantum si inclinationes pla- norum sint aquales, verum B etiam si inaequales sint, qualis est plani BD: assumptum enim prius est, gradus veloci- tatis esse 2equales, qui super planis inaqualiter inclinatis acquiruntur, dum ipsorum planorum eadem fuerit supra horizontem elevatio. Si autem, existente eadem inclina- tione planorum EB, BD, descensus per EB impellere valet mobile per planum BD usque ad D; cum talis im- pulsus fiat propter conceptum velocitatis impetum in puncto B, sitque idem impetus in B, seu descendat mo- bile per AB seu per EB; constat, quod expelletur pa- riter mobile per BD post descensum per A B, atque per E B. Accidet vero, quod tempus ascensus per BD longius erit quam per BC, prout descensus quoque per E B lon- giori fit tempore quam per AB: ratio autem eorundem temporum iam demonstrata est eadem ac longitudinum ipsorum planorum. Sequitur modo ut inquiramus pro- portionem spatiorum temporibus aqualibus peractorum DITE ASICE, 314 GALILEO GALILEI in planis, quorum diversa sint inclinationes, caedem tamen elevationes, hoc est, qua inter easdem parallelas hori- zontales comprehendantur. Id autem contingit iuxta se- quentem rationem. THEOREMA XV, PROPOSITIO XXIV. Dato inter easdem parallelas horizontales per- pendiculo et plano elevato ab eius imo termino, spatium quod a mobili, post casum in perpendi- culo, super plano elevato conficitur in tempore squali tempori casus, maius est ipso perpendiculo, minus tamen quam duplum eiusdem perpendiculi. Inter easdem parallelas horizontales BC, HG sint perpendiculum A E et planum elevatum E B, super quo, post casum in perpendiculo A E, ex termino E fiat re- flexio versus B: dico, spatium per quod mobile ascendit in tempore «quali tempori B A C. descensus AE, maius esse quam A E, minus vero quam duplum eiusdem AE. Pona- D tur ED ipsi AE «quale, et ut EB ad BD, ita fiat DB H F G ad BF: ostendetur, primo, punctum F esse signum, quo mobile motu reflexo per EB perveniet tempore aquali tempori A E; deinde, EF maius esse quam E A, minus vero quam duplum eiusdem. Si intellisamus, tempus descensus per À E esse ut A E, erit tempus descensus per BE, seu ascensus per E B, ut ipsa linea BE; cumque DB media sit inter EB, BF, sitgue BE tempus descensus pur totam BE, erit BD tempus descensus per BF, et reliqua DE tempus descensus per reliquam FE: verum idem est tempus per FE ex. quiete in B, atque tempus DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 315 ascensus per E F, dum in E fuerit velocitatis gradus per descensum BE, seu AE, acquisitus: ergo idem tempus DE erit id in quo mobile, post casum ex A per AL, motu reflexo per EB, pervenit ad signum F; positum autem est, ED esse aequale ipsi AE: quod erat primo ostendendum. Et quia, ut tota EB ad totam BD, ita ablata DB ad ablatam BF. erit ut tota EB ad totam BD, ita reliqua ED ad DF: est autem EB maior BD: ergo et ED maior DF, et EF minor quam dupla DE, seu AE: quod erat ostendendum. Idem autem accidet si motus pracedens, non in perpendiculo, sed in plano in- clinato, fiat; eademque est demonstratio, dummodo pla- num reflexum sit minus acclive, nempe longius plano declivi. THEOREMA XVI, PROPOSITIO XXV. Si post casum per aliquod planum inclinatum sequatur motus per planum horizontis, erit tempus casus per planum inclinatum ad tempus motus per quamlibet lineam horizontis ut : dupla longitudo plani inclinati ad lineam acceptam horizontis. Sit linea horizontis C B, planum inclinatum AB, et post casum per AB sequatur motus per horizontem, in quo sumatur quodlibet spatium BD: dico, tempus casus per A B ad tempus motus per BD esse ut dupla AB ad BD. A Sumpta enim BC ipsius AB dupla, constat ex prademon- stratis, tempus casus per AB €_D B aequari tempori motus per BC: sed tempus motus per BC ad tempus motus per DB est ut linea CB ad lineam BD: ergo tempus motus per A B ad tempus per BD est ut dupla AB ad BD: SR erat probandum. 316 GALILEO GALILEI PROBLEMA X, PROPOSITIO XXVI. Dato perpendiculo inter lineas parallelas hori- zontales, datoque spatio maiori eodem per pendiculo, sed minori quam duplum eiusdem, ex imo terminò perpendiculi planum attollere inter easdem paral- lelas, super quo motu reflexo post descensum in perpendiculo conficiat mobile spatium dato quale, et in tempore aquali tempori descensus in perpen- diculo. Inter parallelas horizontales A O, BC sit perpendi- culum AB; FE pero maior sit quam BA, minor vero quam dupla eiusdem: oportet, ex B planum inter hori- zontales erigere, super quo mobile, post casum ex A in B, motu reflexo, in tempore aquali tempori descensus per AB, conficiat ascen- dendo spatium 2- quale ipsi EF. Po- natur ED @qualis A B; erit reliqua DF minor, cum tota E F minor sit quam dupla ad AB: sit DI aqualis DF, et ut ET ad ID, ita fiat DF ad aliam F X, atque ex B reflectatur recta BO @qualis E X: dico, planum per BO esse illud, super quo post casum AB mobile in tempore @equali tempori casus per AB pertransit ascendendo spatium aquale dato spatio EF. Ipsis ED, DF aequales ponantur BR, RS: cum enim sit ut EI ad ID, ita DF ad FX, erit, componendo, ut ED ad DI, ita DX ad XF; hoc est, ut ED ad DF, ita DX ad XF, et EX ad XD; hoc est, ut BO ad OR, ita RO ad OS. Quod si ponamus, tempus per AB esse A B, erit tempus per O B ipsa OB, et RO tempus per OS, et reliqua BR tempus per re- liquum SB, descendendo ex O in B: sed tempus descensus (0) A DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 317 per SB ex quiete in O est aequale tempori ascensus ex B in S post descensum A B: ergo BO est planum ex B elevatum, super quo post descensum per AB conficitur tempore BR, seu B A, spatium BS, @quale spatio dato E F: quod facere oportebat. THEOREMA XVII, PROPOSITIO XXVII. Si in planis inaqualibus, quorum eadem sit ele- patio, descendat mobile, spatium quod in ima parte longioris conficitur in tempore @quali ei in quo conficitur totum planum brevius, est 2equale spatio quod componitur ex ipso breviori plano et ex parte ad quam idem brevius planum eam habet ra- tionem, quam habet planum longius ad excessum quo longius brevius superat. Sit planum AC longius, AB vero brevius, quorum eadem sit elevatio A D, et ex ima parte A C sumatur C E aquale ipsi A B, et quam rationem habet totum CA ad A E, nempe ad ex- cessum plani CA super AB, hanc habeat CE ad EF: dico, spatium F C esse illud quod con- ficitur, post disces- sum ex A, tempore aquali tempori descensus per A B. Cum enim totum CÀ ad totum AE sit ut ablatum CE ad ablatum EF, erit reliquum E A ad reliquum AF ut totum CA ad totum A E; sunt itaque tres C A, A E, AF continue proportio- nales: quod si ponatur, tempus per A B esse ut A B, erit tempus per A C ut A C; tempus vero per AF erit ut A E, et per reliquum F C erit ut E C: esse autem EC ipsi A B aquale: ergo patet propositum. 318 GALILEO GALILEI PROBLEMA XI, PROPOSITIO XXVIII. Tangat horizontalis linea A G circulum, et a contactu sit diameter A B, et due chorda utcunque A E B: deter- minanda sit ratio temporis casus per AB ad tempus descensus per ambas A EB. Extendatur BE usque ad n ; tangentem in G, et angulus BA È bifariam secetur, ducta AF: dico, ENVY tempus per AB ad tempus per AEB esse ut AE ad AEF. Cum enim angulus F A B aqualis sit an- gulo FAE, angulus vero EAG angulo A BF, erit totus G AF duo- bus FAB, ABF «&«qualis; quibus aquatur quoque angulus GFA; ergo linea GF ipsi GA est @qualis: et quia rectangulum BGE zequatur quadrato GA, erit quoque aquale quadrato GF, et tres linea BG, GF, GE proportionales. Quod si po- natur, A E esse tempus per A E, erit GE tempus per G E, et GF tempus per totam GB, et EF tempus per EB, post descensum ex G seu ex A per AE: tempus igitur per AF, seu per AB, ad tempus per AEB est ut AE ad AEF: quod erat determinandum. Aliter brevius. Secetur GF aqualis GA; constat, GF esse mediam proportionalem inter BG, GE. Reliqua ut supra. B THEOREMA XVIII, PROPOSITIO XXIX. Dato quolibet spatio horizontali, ex cuius ter- mino erectum sit perpendiculum, in quo sumatur pars aqualis dimidio spatii in horizontali dato, mobile ex tali altitudine descendens et in horizon- tali conversum conficiet horizontale spatium una cum perpendiculo breviori tempore, quam quod- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 319 cunque aliud spatium perpendiculi cum eodem spatio horizontali. Sit planum horizontale, in quo datum sit quodlibet spatium BC, et ex termino B sit perpendiculum, in quo BA sit dimidium ipsius B C: dico, tempus, quo mobile ex A demissum conficiet ambo spatia A B, BC, esse tem- porum omnium brevissimum, quibus idem spatium BC cum parte perpendiculi, sive maiori sive minori parte A B, conficeretur. Sit sumpta maior, ut in E prima figura vel mi- 0 nor, ut in secunda, E B: ostendendum est, tem- pus quo conficiuntur spatia EB, BC, longius esse tempore quo confi- ciuntur A B, B C. Intel- ligatur, tempus per AB esse ut AB; erit quoque Cc D B tempus motus in hori- zontali BC, cum BC dupla sit ad AB, et per ambo spatia ABC tempus erit dupla BA. Sit BO media inter EB, BA; erit BO tempus casus per EB: sit praterea horizontale spatium BID duplum ipsius BE; constat, tempus ipsius post casum E B esse idem BO. Fiat ut DB ad BC, seu ut EB ad BA, ita OB ad BN, et cum motus in horizon- tali sit @quabilis, sitque O B tempus per BD post casum ex E: erit N B tempus per BC post casum ex eadem al- titudine E. Ex quo constat, O B cum B N esse tempus per EBC: cumque dupla BA sit tempus per A BC, osten- dendum relinquitur, 0B cum BN maiora esse quam dupla BA. Cum autem OB media sit inter EB, BA, ratio EB ad BA dupla est rationis O B ad BA; et cum EB ad BA sit ut OB ad BN, erit quoque ratio OB ad a IST Zz S (e s°) 320 GALILEO GALILEI B N dupla rationis O B ad B A: verum ipsa ratio O B ad B N componitur ex rationibus O B ad BA et AB ad BN: ergo ratio AB ad BN est eadem cum ratione O B ad BA. Sunt igitur BO, B A, B N tres continue proportionales, et OB cum BN maiores quam dupla BA: ex quo patet propositum. THEOREMA XIX, PROPOSITIO XXX. Si ex aliquo puncto linea horizontalis descen- dat perpendiculum, ex alio vero puncto in eadem horizontali sumpto ducendum sit planum usque ad perpendiculum, per quod mobile tempore bre- vissimo usque ad perpendiculum descendat; tale planum erit illud quod de perpendiculo abscindit partem aqualem distantia puncti accepti in hori- zontali a termino perpendiculi. Sit perpendiculum BD, ex puncto B horizontalis linea A C descendens, in qua sit quodlibet punctum C, et in perpendiculo ponatur distantia BEY «qualis distantia BC. et ducatur C E: dico, planorum omnium ex puncto C usque ad perpendiculum inclinatorum, CE esse illud super quo tempore omnium brevissimo fit descensus usque ad per- pendiculum. Inclinentur enim, supra et infra, plana CF, CG, et ducatur IK, circulum semidiametro BC descriptum tangens in C, qua erit perpendiculo aequidistans; et ipsi CF parallela sit E K, usque ad tangentem protracta, secans circumferentiam circuli in L: constat, tempus casus per LE esse aquale tempori casus per CE: sed tempus per K E est longius quam per LE: ergo tempus per KE longius est quam per CE. Sed tempus per KE @quatur tempori per CF, cum sint DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 321 sequales et secundum eandem inclinationem ducta; si- militer, cum CG et EI sint aquales et iuxla eandem inclinationem inclinata, tempora lationum per ipsas erunt 2equalia: sed tempus per HE, breviorem ipsa 1 E, est brevius tempore per I È: ergo tempus quoque per C E (quod aquatur tempori per H È) brevius erit tempore per TIE. Patet ergo propositum. THEOREMA XX, PROPOSITIO XXXI. Si linea recta super horizontalem fuerit utcun- que inclinata, planum a dato puncto in horizontali usque ad inclinatam extensum, in quo descensus fit tempore omnium brevissimo, est illud quod bi- fariam dividit angulum contentum a duabus per- pendicularibus a dato puncto extensis, una ad horizontalem lineam, altera ad inclinatam. Sit CD linea supra horizontalem AB utcunque in- clinata, datoque in horizontali quocunque puncto A, educantur ex eo A C perpendi- cularis ad AB, AE vero perpen- C dicularis ad CD, et angulum F CAE bifariam dividat FA li- E nea: dico, planorum omnium ex quibuslibet punctis linee CD ad punctum A inclinatorum, extensum per F A esse in quo, tempore omnium brevissimo fiat descensus. Ducatur FG ipsi x 7 AF parallela; erunt anguli GF A, FAE coalterni @quales: est autem EAF ipsi FAG «aqualis: ergo trianguli latera FG, GA @qualia erunt. Si itaque centro G, intervallo G A, circulus descri- batur, transibit per F, et horizontalem et inclinatam tangelt in punctis A, F; est enim angulus GF C rectus, cum G F DS 21. - G. Galilei, Opere - II. 322 GALILEO GALILEI ipsi AE sit aquidistans: ex quo constat, lineas omnes usque ad inclinatam ex puncto A productas extra circum- ferentiam extendi, et, quod consequens est, lationes per ipsas longiori tempore absolvi quam per F A. Quod erat demonstrandum. LEMMA. Si duo circuli se se intus contingant, quorum interiorem queelibet linea recta contingat, exterio- rem vero secet, tres linea a contactu circulorum ad tria puncta recta linea tangentis, nempe ad con- tactum interioris circuli et ad sectiones exterioris, protraciae, angulos in contactu circulorum aquales continebunt. Tangant se intus in puncto A duo circuli, quorum centra, B minoris, C maioris; interiorem vero circulum contingat recta qualibet linea F G in puncto H, maiorem autem secet in punctis F, G: et connectantur tres linea AF, AH, AG: dico, angulos ab illis contentos F AH, GAH esse aequales. Extendatur AH usque ad circumferentiam in I, et ex centris producantur BH, CI, et per eadem centra ducta sit BC, qua extensa cadet in contactum A et in cir- cumferentias circulorum in O et N: et quia anguli ICN, HBO sequales sunt, cum quilibet ipsorum duplus sit anguli IAN, erunt linee BH, CI parallele. Cumque BH, ex centro ad contactum, sit perpendicularis ad F G, erit quoque ad eandem perpendicularis CI, et arcus FI arcui IG @qualis, et, quod consequens est, angulus FAI angulo IAG. Quod erat ostendendum. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 323 THEOREMA XXI, PROPOSITIO XXXII. Si in horizonte sumantur duo puncta, et ab al- tero ipsorum queelibet linea versus alterum incli- netur, ex quo ad inclinatam recta linea ducatur, ex ea partem abscindens aqualem ei qua. inter puncta horizontis intercipitur, casus per hanc duc- tam citius absolvetur quam per quascunque alias rectas ex eodem puncto ad eandem inclinatam pro- tractas. In aliis autem, qua per angulos aquales hinc inde ab hac distiterint, casus fiunt temporibus inter se aqualibus. Sint in horizonte duo puncta A, B, et ex B inclinetur recta BC, in qua ex termino B sumatur BD, ipsi BA aequalis, et iungatur AD: dico, casum per AD pvelocius fieri quam per quamlibet ex À ad inclinatam BC productam. Ex punctis enim A, D ad ipsas BA, BD per- pendiculares ducan- tur AF, DE, se se in E secantes: et quia in triangulo aquicru- ri ABD anguli BAD, BDA sunt @quales, erunt reliqui ad rectos DA E, EDA zequales; ergo, centro E, intervallo E A, descriptus cir- culus per D quoque transibit, et lineas BA, BD tanget in punctis A, D. Et cum A sit terminus perpendiculi A E, casus per AD citius absolvetur quam per quamcunque aliam ex eodem termino A usque ad lineam BC ultra circumferentiam circuli extensam: quod era primo osten- dendum. 524 GALILEO GALILEI Quod si, extenso perpendiculo A E, in eo sumatur quodvis centrum F, et secundum intervallum FA cir- culus A G C describatur, tangentem lineam in punctis G, C secans, iunctae AG, A C per angulos aquales a media AD, ex ante demonstratis, dirimentur; et per ipsas, la- tiones temporibus aqualibus absolventur, cum ex puncto sublimi A ad circumferentiam circuli AGC terminentur. PROBLEMA XII, PROPOSITIO XXXIII. Dato perpendiculo et plano ad ipsum inclinato, quorum eadem sit altitudo idemque terminus su- blimis, punctum in perpendiculo supra terminum communem reperire, ex quo si demittatur mobile, quod postea convertatur per planum inclinatum, ipsum planum conficiat tempore eodem, quo ipsum perpendiculum ex quiete conficeret. i Sint perpendiculum ei planum inclinatum, quorum eadem sit altitudo, A B. A C: oportet, in perpendiculo B A, producto ex parte A, punctum reperire, ex quo 'descendens mobile conficiat spatium AC eodem tempo- re) quor»confiicit datum perpendicu- lum AB ex quiete in A. Ponatur DCE ad angulos rectos ad AC, et secetur CD «qualis A B, et iungatur AD: erit angulus A DC maior angulo C A D (est enim C A maior quam A B, seu C D). Fiat angulus DA E aqualis angulo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 325 ADE, et ad ipsam A È perpendicularis sit E F, plano in- clinato et utrinque extenso occurrens in F, et utraque AI, AG ponatur ipsi CF aqualis, et per G ducatur GH, hori- zonti aquidistans: dico, H esse punctum quod queritur. Intelligatur enim, tempus casus per perpendiculum . AB esse AB: erit tempus per AC ex quiete in A ipsamet AC: cumque in triangulo rectansulo AEF ab angulo recto È perpendicularis ad basim AF sit acta E C, erit A E media inter F A, AC, et CE media inter AC, CF, hoc est inter C A, AI: et cum ipsius A C tempus ex A sit AC, erit A E tempus totius AF, et E C tempus ipsius AT. Quia vero in triangulo aquicruri AED latus A E est aquale lateri E D, erit ED tempus per AF: et est EC tempus per AI: ergo CD, hoc est A B, erit tempus per 1F ex quiete in A: quod idem est ac si dicamus, A B esse tempus per AC ex G, seu ex H: quod erat faciendum. PROBLEMA XIII, PROPOSITIO XXXTV. Dato plano inclinato et perpendiculo, quorum idem sit sublimis terminus, punctum sublimius in perpendiculo extenso reperire, ex quo mobile deci- dens, et per planum inclinatum conversum, utrum- que conficiat tempore eodem ac solum planum inclinatum ex quiete in eius superiori termino. Sint planum inclinatum et perpendiculum AB, AC, quorum idem sit terminus A: oportei, in perpendiculo ad partes A extenso punctum sublime reperire, ex quo mo- bile decidens et per planum AB conversum, partem as- sumptam perpendiculi et pla- num AB conficiat tempore 326 GALILEO GALILEI eodem ac solum planum A B ex quiete in A. Sit horizon- talis linea BC, et secetur A N aqualis A C; et ut AB ad BN, ita fiat AL ad LC; et ipsi AL ponatur aqualis A I, et ipsarum AC, BI tertia proportionalis sit C È, in per- pendiculo AC producto signata: dico, C E esse spatium queesitum, adeo ut, extenso perpendiculo supra À et as- sumpta parte AX ipsi CE «quali, mobile ex X confi- ciet utrumque spatium X AB @quali tempore ac solum AB ex A. Ponatur horizontalis X R aquidistans B C, cui occur- rat BA extensa in R; deinde, producta AB in D, ducatur ED «quidistans CB, et supra AD semicirculus descri- batur, et ex B ipsi DA perpendicularis erigatur BF usque ad circumferentiam: patet, F B esse mediam inter A B, BD, et ductam FA mediam inter DA, AB. Po- natur BS aqualis BI, et FH @qualis FB: et quia ut AB ad BD, ita AC ad CE, estque BF media inter A B, BD, et BI media inter AC, CE, erit ut BA ad AC, ita FB ad BS; et cum sit ut BA ad AC, seu ad AN, ita FB ad BS, erit, per conversionem rationis, BF ad FS ut AB ad BN, hoc est AL ad LC. Rectangulum isitur sub F B, CL aquatur rectangulo sub AL, SF; hoc autem rectangulum AL, SF est excessus rectanguli sub AL, FB, seu AT, BF, super rectangulo AI, BS, seu ATB; rectangulum vero F B, LC est excessus rectanguli A C, BF super rectangulo AL, BF; rectangulum autem AC, BF aquatur rectangulo ABI (est enim ut BA ad AC, ita FB ad B1): excessus igitur rectanguli ABI super rectangulo AI, BF, seu AI, FH, @quatur excessui rectanguli AI, FH super rectangulo AIB: ergo bina rectangula AI, FH aquantur duobus ABI, AIB, nempe binis ATB cum quadrato BI. Commune sumatur qua- dratum ATI: erunt bina rectangula AIB cum duobus quadratis AT, IB, nempe quadratum ipsum A B, quale binis rectangulis AI, FH cum quadrato AI. Commu- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 327 niter rursus assumpto quadrato BF, erunt duo quadrata A B, BF, nempe unicum quadratum AF, aquale binis rectangulis AI, F H cum duobus quadratis AI, F B, id est AI, FH. Verum idem quadratum AF «quale est binis rectangulis AH F cum duobus quadratis A H, HF; ergo bina rectangula AI, FH cum quadratis AI, FH aequalia sunt binis rectangulis AH F cum quadratis A H, HF; et dempto communi quadrato HF, bina rectangula AI, FH cum quadrato AI erunt aqualia binis rectan- gulis AHF cum quadrato A H. Cumque rectangulorum omnium F H sit latus commune, erit linea AH @qualis linee AI: si enim maior vel minor esset, rectangula quoque F HA et quadratum HA maiora vel minora es- sent rectangulis F H, I A et quadrato I A, contra id quod demonstratum est. Modo si intelligamus, tempus casus per A B esse ut A B, tempus per A C erit ut A C, et ipsa I B, media inter A C, C E, erit tempus per CE, seu per XA ex quiete in X: cumque inter DA, AB, seu R B, BA, media sit AF, inter vero AB, BD, id est RA, AB, media sit BF, cui aequatur FH, erit, ex prademonstratis, excessus A H tempus per AB ex quiete in R, seu post casum ex X, dum tempus eiusdem AB ex quiete in A fuerit A B. Tempus igitur per X A est 1B; per AB vero post RA, seu post X A, est A I; ergo tempus per X A B erit ut A B, idem nempe cum tempore per solam A B ex quiete in A. Quod erat propositum. PROBLEMA XIV, PROPOSITIO XXXV. Data inflexa ad datum perpendiculum, partem in inflexa accipere, in qua sola, ex quiete, fiat motus eodem tempore alque in eadem cum per- pendiculo. Sit perpendiculum A B, et ad ipsum nol BC: oportet, in BC partem accipere, in qua sola, ex quiete, 328 GALILEO GALILEI fiat motus eodem tempore ac in eadem cum perpendiculo A B. Ducatur horizon: A D, cui inclinata CB extensa oc- currat in E, ponaturque BF @qualis BA, et, centro È, intervallo E F, circulus describatur F IG, et F È ad cir- cumferentiam usque protrahatur in G, et ut GB ad BF, ita fiat BH ad HF, et HI circulum tangat in I; deinde ex B perpendicularis ad F C erigatur B K, cui occurrat in L linea EIL; tandem ipsi E L perpendicularis ducatur LM, occurrens BC in M: dico, in linea BM ex quiete in B fieri motum eodem tem- pore ac ex quiete in A per ambas AB, BM. Ponatur EN aequalis E L: cumque ut G B ad BF, ita sit BH ad HF, erit, permutando, ut GB ad B H, ita BF ad F H, et, divi- dendo; ‘G'H'ad ‘i Bieurtbin ad HF; quare rectangulum GHF quadrato HB erit aquale: sed idem rectangulum aquatur quoque qua- drato HI: erso BH ipsi HI est aqualis. Cumque in quadrilatero 1L BH latera H B, HI sint aqualia, et an- guli B, I recti, erit latus quoque BL ipsi LI aquale: est autem EI aqualis EF: ergo tota LE, seu NE, duabus LB, EF est @qualis. Auferatur communis E F; erit re- liqua F N ipsi LB aqualis: at posita est Y B aqualis ipsi BA: ergo LB duabus A B, BN xaquatur. Rursus, si in- tellicatur, tempus per AB esse ipsam A B, erit tempus per EB ipsi EB aquale; tempus autem per totam EM erit EN, media scilicet inter ME, EB; quare reliquae BM tempus casus post E B, seu post A B, erit ipsa BN: po- situm autem est, tempus per AB esse A B: ergo tempus casus per ambas ABM est ABN. Cum autem tempus per E B ex quiete in E sit E B, tempus per BM ex quiete DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 329 in B erit media proportionalis inter BE, BM; hac autem est BL; tempus igitur per ambas ABM ex quiete in A est ABN: tempus vero per BM solam ex quiete in B est BL; ostensum autem est, BL esse aqualem duabus A B, BN; ergo patet propositum. Aliter, magis expedite. Sit BC planum inclinatum, BA perpendiculum. Ducta perpendiculari per B ad EC, et utrinque extensa, po- natur BH aqualis excessui BE super BA, et angulo BHE ponatur aqualis angulus HEL; ipsa vero EL exten- A E sa occurrat BK in L, et ex L excitetur perpendicula- ris ad EL, LM, occurrens BC in M: dico, BM esse spatium in plano BC qua- situm. Quia enim angulus MLE rectus est, erit BL media inter MB, BE, et LE media inter ME, E B, cui EL secetur aequalis E N; et erunt tres linea NE, E L, LH @quales, et HB erit excessus NE super BL: verum eadem H B est etiam excessus N E super N B, BA: ergo duze NB, BA @quales sunt BL. Quod si ponatur, EB esse tempus per E B, erit BL tempus per BM ex quiete in B, et BN erit tempus eiusdem post E B, seu post A B, et AB erit tempus per AB: ergo tempora per ABM, nempe AB N, «qualia sunt tempori per solam BM ex quiete in B: quod est intentum. LEMMA. Sit DC ad diametrum BA perpendicularis, et a ter- mino B educatur BED utcunque, et connectatur F B: 22. - G. Galilei, Opere - II. 330 GALILEO GALILEI A dico, FB inter DB, BE esse mediam. Connectatur EF, et per B ducatur tangens BG, qua erit ipsi CD parallela; quare c /\E D angulus DBG angulo FDB erit JA sequalis: at eidem GBD @aqua- fa tur quoque angulus EF B in portione alterna: ergo similia sunt triangula FBD, FEB, et ut G B G BD ad BF, ita FB ad BE. LEMMA. Sit linea AC maior ipsa DF, et habeat AB ad BC maiorem rationem quam DE ad EF: dico, A B ipsa DE esse maiorem. Quia enim AB ad BC maiorem rationem habet quam DE ad EF; A B_C quamrationem habet AB ad D EAGLE BC, hanc habebit DE ad mi- norem quam E F. Habeat ad EG: et quia AB ad BC est ut DE ad EG, erit, com- ponendo et per conversionem rationis, ut CA ad AB, ita GD ad DE: est autem CA maior G D: ergo B A ipsa DE maior erit. LEMMA. Sit circuli quadrans ACIB; et ex B, ipsi AC parallela, BE; et ex quovis centro in ea sumpto circulus BOES descriptus, tangens AB in B, et se- cans circumferenitiam quadrantis in I; et iuncta sit CB, et CI usque ad S extensa: dico, lineam CI minorem semper esse ipsa CO. Jungatur AI, qua circulum BOE tanget. Si enim DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 331 ducatur DI, erit aqualis ipsi DB; cum vero DB qua- drantem tangat, tanget etiam cumdem DI et ad diame- trum A I erit perpendicularis; quare et ipsa A I circulum BOE tanget in I. Et quia angulus AIC maior est an- gulo A BC, cum maiori insistat peripheria, ergo angulus quoque SIN ipso ABC maior erit: quare portio IE S maior est portione BO, et linea CS, centro vicinior, maior ipsa CB: quare et CO maior CI, cum SC ad Puo Crad CL Idem autem magis accidet, si (ut in altera figura) BIC qua- drante fuerit minor. Nam perpen- dicularis DB circulum secabit CIB; quare DI quoque, cum ipsi DB sit aqualis; et angulus DIA erit obtusus, et ideo AIN circulum quoque BIE secabit. Cumque an- gulus ABC minor sit angulo AIC, qui aequatur ipsi SIN; iste autem est adhuc minor eo qui ad con- tactum in I fieret per lineam SI; ergo portio SE I est longe maior portione BO: unde etc. Quod erat demonstrandum. THEOREMA XXII, PROPOSITIO XXXVI. Si in circulo ad horizontem erecto ab imo puncto elevetur planum non maiorem subtendens circum- ferentiam quadrante, a terminis cuius duo alia plana ad quodlibet circumferentiae punctum inflec- tantur, descensus in planis ambobus inflexis bre- viori tempore absolvetur, quam in solo priori plano elevato, vel quam in altero tantum ex illis duobus, nempe in inferiori. 352 GALILEO GALILEI Sit circuli ad horizontem erecti ab imo puncto C cir- cumferentia C BD, non maior quadrante, in qua sit pla- num elevatum CD, et duo plana a terminis D, C inflexa ad quodlibet punctum B, in circumferentia sumptum: dico, tempus descensus per ambo plana DBC brevius esse tempore descensus per solum DC, vel per unicum M D Ù BC ex quiete in B. Ducta sit per D horizontalis MDA. cui CB extensa occurrat in A; sintque DN, MC ad MD, et BN ad BD perpendicula- res, et circa trian- gulum rectangu- OP VANE E È P lum DBN semicir- culus describatur DFBN, secans DC in F: et ipsarum CD, DF media sit proportionalis DO, ipsarum autem CA, AB media sit AV. Sit autem PS tempus quo peragitur tota DC, vel BC (constat enim, tempore eodem peragi utramque), et quam rationem habet CD ad DO, hanc habeat tempus SP ad tempus PR: erit tempus PR id, in quo mobile ex D pe- ragit DF; RS vero id, in quo reliquum FC. Cum vero PS sit quoque tempus quo mobile ex B peragit BC, si fiat ut BCiad CD, ita SP. ad PIT, erit PI tempus'casus ex A in C, cum DC inedia sit inter AC, CB. ex ante demonstratis. Fiat tandem ut CA ad AV, ita TP ad PG: erit PG tempus quo mobile ex A venit in B, GT vero tempus residuum motus BC consequentis post motum ex A in B. Cum vero DN, circuli DFN diameter, ad hori- zontem sit erecta, temporibus aqualibus peragentur D F et DB linee: quare si demonstratum fuerit, mobile citius permeare BC post casum DB, quam FC post peractam DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 933 DF, habebimus intentum. At eadem temporis celeritate conficit mobile veniens ex D per DB ipsam BC, ac si ve- nerit ex A per AB, cum ex utroque casu DB, AB @qualia accipiat velocitatis momenta: ergo demonstrandum erit, breviori tempore peragi BC post AB, quam FC post DF. Explicatum est autem, tempus quo peragitur BC post AB, esse GT; tempus vero ipsius FC post DF esse RS: osten- dendum itaque est, RS maius esse quam GT. Quod sic ostenditur: quia ut SP ad PR, ita CD ad DO, per con- versionem rationis et convertendo, ut RS ad SP, ita OC ad CD, ut autem SP ad PT, ita DC ad CA; et quia est ut TP ad PG, ita CA ad AV, per conversionem rationis erit quoque ut PT ad TG, ita AC ad CV; ergo, ex squali, ut RS ad GT, ita OC ad CV: est autem OC maior quam C V, ut mox demonstrabitur: ergo tempus RS maius est tempore GT: quod demonstrare oportebat. Cum vero CF maior sit CB, FD vero minor BA, habebit CD ad DEF maiorem rationem quam CA ad AB; ut autem CD ad D F, ita quadratum CO ad quadratum O F, cum sint CD, DO, DF proportionales; ut vero CA ad AB, ita quadratum CV ad quadratum VB; ergo CO ad OF maiorem rationem habet quam CV ad V B: igitur, ex lemmate pradicto, CO maior est quam C V. Constat in- super; tempus per DC ad tempus per DBC esse ut DOC ad DO cum CV. SCHOLIUM. Ex his qua demonstrata sunt, colligi posse videtur, lationem omnium velocissimam ex termino ad terminum non per brevissimam lineam, nempe per rectam, sed per circuli portionem, fieri. In quadrante enim BAEC, cuius latus BC sit ad horizontem erectum, divisus sit arcus A C in quotcunque partes aequales, A D, DE, E F, FG, 334 GALILEO GALILEI GC, et ducta sint recta ex C ad puncta A, D, E, F, G, et iuncta sint recte quoque AD, DE, EF, FG, GC: manifestum est, lationem per duas A DC citius absolvi quam per unam AC, vel DC ex quiete in D. Sed ex quiete in A citius absolvitur DC quam dua@ A DC: sed per duas DEC ex quiete in A verisimile est, citius ab- soli descensum quam per so- lam CD: ergo descensus per D tres ADEC absolvitur citius quam per duas ADC. Verum similiter, precedente descen- È su per ADE, citius fit latio per duas EFC quam per so- F lam EC; ergo per quatuor È ADEFC citius fit motus € quam per tres ADEC. Ac tandem per duas FGC, post pracedentem descensum per ADEF, citius absolvitur latio quam per solam FC; ergo per quinque ADEFGC breviori adhuc tempore fit de- scensus quam per quatuor ADEFC. Quo igitur per inscriptos polygonos magis ad circumferentiam accedi- mus, eo citius absolvitur motus inter duos terminos si- gnatos A, C. Quod autem in quadrante explicatum est, contingit etiam in circumferentia quadrante minori; et idem est ratiocinium. B PROBLEMA XV, PROPOSITIO XXXVII. Dato perpendiculo et plano inclinato, quorum eadem sit elevatio, partem in inclinato reperire, quae sit aqualis perpendiculo et conficiatur eodem tempore ac ipsum perpendiculum. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 335 Sint AB perpendiculum et AC planum inclinatum: oportet, in inclinato partem reperire aequalem perpendi- culo A B, qua post quietem in A conficiatur tempore aequali tempori quo conficitur perpendiculum. Ponatur AD aqualis A B, et reliqua DC bifariam secetur in I; et ut AC ad CI, ita fiat CI ad aliam AE, cui ponatur aqualis DG: patet, EG aequalem esse AD et AB. Ig Dico insuper, hanc E G eam esse, qua conficitur a mobili, veniente ex quiete in A, tempore zequali tempori quo mo- bile cadit per AB. Quia, C dB enim, ut AC ad CI, ita CI ad AE, seu ID ad DG, erit, per conversionem ra- tionis, ut CA ad AT, ita DI ad IG: cum itaque sit ut totum C A ad totum AT, ita ablatum CI ad ablatum IG, erit reliquum IA ad reliquum AG ut totum CA ad totum AT. Est itaque AI media inter C A, AG, et CI media inter CA, AF. Si itaque ponatur, tempus per AB esse ut AB, erit AC tempus per AC, et CI, seu ID, tempus per AE; cumque AT media sit inter C A, AG, sitque CA tempus per totam AC; erit AI tempus per AG, et re- liquum I C per reliquum G C: fuit autem DI tempus per A E: sunt itaque DI, IC tempora per utrasque A E, C G: ergo reliquum DA erit tempus per EG, aquale nempe tempori per A B. Quod faciendum fuit. COROLLARIUM. Ex his constat, spatium quesitum esse intermedium inter :partes superam et inferam, qua temporibus aqua- libus conficiuntur. 336 GALILEO GALILEI PROBLEMA XVI, PROPOSITIO XXXVIII. Datis duobus planis horizontalibus a perpen- diculo sectis, in perpendiculo punctum sublime reperire, ex quo cadentia mobilia, et in planis horizontalibus reflexa, conficiant, in temporibus aqualibus temporibus casuum, in iisdem horizon- talibus, in superiore nempe atque in inferiore, spatia qua inter se habeant quamcumque datam rationem minhoris ad maiorem. Secta sint plana horizontalia CD, BE a perpendiculo ACB, sitque data ratio minoris ad maiorem, N ad F G: oportet, in perpendiculo A B punctum sublime reperire, ex quo mobile cadens, et in plano C D reflexum, tempore aequali tempori sui ca- sus spatium conficiat, quod ad spatium con- fecium ab altero mobili, ex eodem puncto subli- mi veniente, tempore sequali tempori sui ca- sus, motu reflexo per BE planum, habealt ra- N F H G tionem eamdem cum data N ad FG. Ponatur GH «aqualis ipsi N; et ut FH ad HG, ita fiat BC ad CL: dico, L esse puncium sublime quesitum. Accepta enim CM dupla ad CL, ducatur LM, plano BE occur- rens in O: erit BO dupla BL: et quia ut FH ad HG, ita BC ad CL, erit, componendo et convertendo, ut HG, hoc est N, ad GF, ita CL: ad LB, hoc est CM ad BO. Cum autem CM dupla sit ad LC, patet, spatium CM esse illud quod a mobili veniente ex L post casum LC conficitur in plano CD, et eadem ratione BO esse illud quod conficitur post casum LB in tempore aquali tem- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 357, pori casus per LB, cum BO sit dupla ad BL. Ergo patet propositum. SAGR. Parmi veramente che conceder si possa al nostro Accademico; che egli senza iattanza abbia nel principio di questo suo trattato potuto attribuirsi di ar- recarci una nuova scienza intorno a un suggetto anti- chissimo. Ed il vedere con quanta facilità e chiarezza da un solo semplicissimo principio ei deduca le dimostra- zioni di tante proposizioni, mi fa non poco maravigliare come tal materia sia passata intatta da Archimede, A pol- lonio, Euclide e tanti altri matematici e filosofi illustri, e massime che del moto si trovano scritti volumi grandi e molti. SAL. Si vede un poco di fragmento d’Euclide intorno al moto, ma non vi si scorge vestigio che egli s'incaminasse all’investigazione della proporzione dell’accelerazione e delle sue diversità sopra le diverse inclinazioni. Tal che veramente si può dire, essersi non prima che ora aperta la porta ad una nuova contemplazione, piena di conclu- sioni infinite ed ammirande, le quali ne i tempi avenire potranno esercitare altri ingegni. SAGR. To veramente credo, che sî come quelle poche passioni (dirò per esempio) del cerchio, dimostrate nel terzo de’ suoi Elementi da Euclide, sono l'ingresso ad in- numerabili altre più recondite, cosi le prodotte e dimo- strate in questo breve trattato, quando passasse nelle mani di altri ingegni specolativi, sarebbe strada ad altre ed altre più maravigliose; ed è credibile che cosi seguirebbe, mediante la nobiltà del soggetto sopra tutti gli altri naturali. Lunga ed assai laboriosa giornata è stata questa d'oggi, nella quale ho gustato più delle semplici proposizipni che delle loro dimostrazioni, molte delle quali credo che, per 338 GALILEO GALILEI ben capirle, mi porteranno via più d’un’ora per ciasche- duna: studio che mi riserbo a farlo con quiete, lascian- domi V. S. il libro nelle mani, dopo che avremo veduto questa parte che resta intorno al moto de i proietti; che sarà, se cosî gli piace, nel seguente giorno. SAL. Non mancherò d'esser con lei. FINISCE LA TERZA GIORNATA. GIORNATA QUARTA. SAL. Attempo arriva ancora il Sig. Simplicio; però, senza interpor quiete, venghiamo al moto: ed ecco il testo del nostro Autore. DE MOTU PROIECTORUM. Qua in motu aquabili contingunt accidentia, itemque in motu naturaliter accelerato super quascunque pla- norum inclinationes, supra consideravimus. In hac, quam modo aggredior, contemplatione, praecipua quaedam symp- tomata, caque scitu digna, in medium afferre conabor, eademque firmis demonstrationibus stabilire, quae mobili accidunt dum motu ex duplici latione composito, aqua- bili nempe et naturaliter accelerata, movetur: huiusmodi autem videtur esse motus ille, quem de proiectis dicimus; cuius generationem talem constituo. Mobile quoddam super planum horizontale proiectum mente concipio, omni secluso impedimento: iam constat, ex his qua fusius alibi dicta sunt, illius motum aquabilem et perpetuum super ipso plano futurum esse, si planum in infinitum extendatur; si vero terminatum et in sublimi positum intelligamus, mobile, quod gravitate praditum concipio, ad plani terminum delatum, ulterius progre- diens, 2equabili atque indelebili priori lationi superaddet illam quam a propria gravitate habet deorsum propen- sionem, indeque motus quidam emerget compositus ex aequabili horizontali et ex deorsum naturaliter accele- rato, quem proiectionem voco. Cuius accidentia nonnulla demonstrabimus: quorum primum sit. 340 GALILEO GALILEI THEOREMA I, PROPOSITIO 1. Proiectum, dum fertur motu composito ex ho- rizontali aquabili et ex naturaliter accelerato deorsum, lineam semiparabolicam describit in sua latione. SAGR. È forza, Sig. Salviati, in grazia di me, ed anco, credo io, del Sig. Simplicio, far qui un poco di pausa; av- venga che io non mi son tanto inoltrato nella geometria, che io abbia fatto studio in Apollonio, se non in quanto so ch'ei tratta di queste parabole e dell’altre sezzioni co- niche, senza la cognizione delle quali e delle lor passioni non credo che intendersi possano le dimostrazioni di altre proposizioni a quelle aderenti.‘ E perché già nella bella prima proposizione ci vien proposto dall’Autore, doversi dimostrare, la linea descritta dal proietto esser parabo- lica, mi vo imaginando che, non dovendosi trattar d'altro che di tali linee, sia assolutamente necessario avere una perfetta intelligenza, se non di tutte le passioni di tali figure dimostrate da Apollonio, almeno di quelle che per la presente scienza son necessarie. SAL. V. S. si umilia molto, volendosi far nuovo di quelle cognizioni le quali non è gran tempo che ammesse come ben sapute, allora, dico, che nel trattato delle resi- stenze avemmo bisogno della notizia di certa proposi- zione d'Apollonio, sopra la quale ella non mosse difficoltà. SAGR. Può essere o che io la sapessi per ventura o che io la supponessi per una volta tanto che ella mi bisognò in tutto quel trattato: ma qui, dove mi imagino d’avere a sentir tutte le dimostrazioni circa tali linee, non bi- sogna, come si dice, bever grosso, buttando via il tempo e la fatica. SIMPL. È poi, rispetto a me, quando bene, come credo, il Sig. Sagredo fusse ben corredato di tutti i suoi bisogni, DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 341 a me cominciano già a giugner come nuovi gli stessi primi termini; perché, se bene i nostri filosofi hanno trattata questa materia del moto de’ proietti, non mi sovvien che si siano ristretti a definire quali siano le linee da quelli descritte, salvo che assai generalmente sian sempre linee curve, eccetto che nelle proiezzioni perpendicolari sursum. Però, quando quel poco di geometria che io ho appreso da Fuclide, da quel tempo in qua che noi avemmo altri discorsi, non sia bastante per rendermi capace delle co- gnizioni necessarie per l’intelligenza delle seguenti dimo- strazioni, mi converrà contentarmi delle sole proposizioni credute, ma non sapute. SAL. Anzi voglio io che le sappiate mercé dell’istesso Autor dell’opera, il quale, quando già mi concesse di veder questa sua fatica, perché io ancora in quella volta non aveva in pronto i libri di Apollonio, s'ingegnò di di- mostrarmi due passioni principalissime di essa parabola, senza veruna altra precognizione, delle quali sole siamo bisognosi nel presente trattato: le quali son ben anco provate da Apollonio, ma dopo molte altre, che lungo sarebbe a vederle; ed io voglio che abbreviamo assai il viaggio, cavando la prima immediatamente dalla pura e semplice generazione di essa parabola, e da questa poi pure immediatamente la dimostrazione delia seconda. Ve- nendo dunque alla prima: } Intendasi il cono retto, la cui base sia il cerchio ib kc, e vertice il punto l, nel quale, segato con un piano parallelo al lato L k, nasca la sezzione bac, detta parabola; la cui base bc seghi ad angoli retti il dia- metro ik del cerchio ib kc, e sia l’asse della parabola ad parallelo al lato 1k; e preso qualsivoglia punto f nella linea bf a, tirisi la retta fe 342 GALILEO GALILEI parallela alla bd: dico che il quadrato della bd al quadrato della f e ha la medesima proporzione che l’asse da alla parte ae. Per il punto e intendasi passare un piano parallelo al cerchio ib Kc, il quale farà nel cono una sezzione circolare, il cui diametro sia la linea ge h: e perché sopra il diametro ik del cerchio ib k la bd è perpendicolare, sarà il quadrato della bd eguale al ret- tangolo fatto dalle parti id, dk; e parimente nel cerchio superiore, che s'intende passare per i punti g, f, h, il quadrato della linea f e è eguale al rettangolo delle parti geh; adunque il quadrato della bd al quadrato della fe ha la medesima proporzione che il rettangolo id k al rettangolo g eh. E perché la linea ed è parallela alla hk, sarà la eh eguale alla d k, che pur son parallele: e però il rettangolo id k al rettangolo ge h ara la mede- sima proporzione che la id alla ge, cioè che la da alla ae: adunque il rettangolo id k al rettangolo g e h, cioè il quadrato bd al quadrato fe, ha la medesima proporzione che l’asse d a alla parte a e; che bisognava dimostrare. L’altra proposizione, pur necessaria al presente trat- tato, cosi faremo manifesta. Segniamo la parabola, della quale sia prolungato fuori l’asse c a in d, e preso qualsi- voglia punto b, per esso intendasi pro- dotta la linea bc, parallela alla base di essa parabola; e posta la da eguale alla parte dell'asse c a, dico che la retta tirata per i punti d, b non cade dentro alla parabola, ma fuori, si che solamente la tocca nell’istesso punto b. Imperò che, se è possibile, caschi dentro, segandola sopra, o, prolungata, segandola sotto, ed in essa sia preso qualsivoglia punto g, per il quale passi la retta fge. E perché il quadrato fe è maggiore del quadrato ge, maggior pro- porzione avrà esso quadrato fe al quadrato bc che ’1 qua- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 343 drato ge al medesimo bc; e perché, per la precedente, il quadrato fe al quadrato bc sta come la ea alla ac, adunque maggior proporzione ha la ea alla ac che "1 qua- drato ge al quadrato bc, cioè che ’1 quadrato ed al qua- drato dc (essendo che nel triangolo dge come la ge alla parallela bc, cosi sta ed a dc): ma la linea ea alla ac, cioè alla ad, ha la medesima proporzione che 4 rettangoli ead a 4 quadrati di ad, cioè al quadrato cd (che è eguale a 4 quadrati di ad): adunque 4 rettangoli ead al quadrato cd aranno maggior proporzione che il quadrato ed al quadrato dc: adunque 4 rettangoli e a d saranno maggiori del quadrato e d: il che è falso, perché son minori; im- però che le parti e a, ad della linea e d non sono eguali. Adunque la linea d db tocca la parabola in b, e non la sega: il che si doveva dimostrare. SIMPL. Voi procedete nelle vostre dimostrazioni troppo alla grande, ed andate sempre, per quanto mi pare, sup- ponendo che tutte le proposizioni di Euclide mi siano cosi familiari e pronte, come gli stessi primi assiomi, il che non è. E pur ora l’uscirmi addosso, che 4 rettangoli ead son minori del quadrato d e, perché le parti e a, ad della linea ed non sono equali, non mi quieta, ma mi lascia sospeso. SAL. Veramente tutti i matematici non vulgari sup- pongono che il lettore abbia prontissimi al meno gli Ele- menti di Fuclide: e qui, per supplire al vostro bisogno, basterà ricordarvi una proposizione del secondo, nella quale si dimostra, che quando una linea è segata in parti eguali ed in diseguali, il rettangolo delle parti diseguali è minore del rettangolo delle parti eguali (cioè del qua- drato della metà) quanto è il quadrato della linea com- presa tra i segamenti; onde è manifesto. che il quadrato di tutta, il quale contiene 4 quadrati della metà, è mag- giore di 4 rettangoli delle parti diseguali. Ora, di queste . 344 GALILEO GALILEI due proposizioni dimostrate, prese da gli elementi conici, conviene che tenghiamo memoria per l’intelligenza delle cose seguenti nel presente trattato: ché di queste sole, e non di più, si serve l'Autore. Ora possiamo ripigliare il testo, per vedere in qual maniera ei vien dimostrando la sua prima proposizione, dove egli intende di provarci la linea descritta dal mobile grave, che mentre ci descende con moto composto dell’equabile orizontale e del naturale descendente, sia una semiparabola. Intellisatur horizontalis linea seu planum ab in su- blimi positum, super quo ex a in b motu @quabili feratur mobile: deficiente vero plani fulcimento in b, superveniat ipsi mobili, a propria gravita- te, motus natu- ralis deorsum iuxta perpendi- cularem b n. In- telligatur insu- per plano ab in directum posita linea be, tan- quam temporis effluxus seu mensura, super qua ad libitum notentur partes quotlibet temporis aequales, bc, cd, de; atque ex punctis b, c, d, e intelligantur producta linea perpendiculo bn aquidistantes: in quarum prima acci- piatur qualibet pars ci; cuius quadrupla sumatur in se- quenti, d f; nonupla, eh; et consequenter in reliquis se- cundum rationem quadratorum ipsarum cb, d b, eb seu dicamus in ratione earundem linearum duplicata. Quod si mobili ultra b versus c aquabili latione lato descensum perpendicularem secundum quantitatem ci superadditum intelligsamus, reperietur tempore be in termino i consti- tutum. Ulterius autem procedendo, tempore db, duplo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 345 scilicet bc, spatium descensus deorsum erit spatii primi ci quadruplum; demonstratum enim est in primo tractalu, spatia peracta a gravi, motu naturaliter accelerato, esse in duplicata ratione temporum: pariterque consequenter spa- tium eh, peractum tempore be, erit ut 9: adeo ut manifeste constet, spatia eh, df, ci esse inter se ut quadrata linea- rum eb, db, cb. Ducantur modo a punctis i, f, h recia io, fg. hl, ipsi eb @quidistantes: erunt hl, fg, io linea lineis eb, db, cb, singula singulis, aequales; nec non ipse bo, bg, bl, ipsis ci, df, eh @quales; eritque quadratum hl ad quadratum fg ut linea 1b ad bg, et quadratum £g ad quadratum io ut gb ad bo; ergo puncta i, f, h sunt in una cademque linea parabolica. Similiterque demonstra- bitur, assumptis quibuscunque temporis particulis aqua- libus cuiuslibet magnitudinis, loca mobilis simili motu composito lati iisdem temporibus in eadem linea para- bolica reperiri. Ergo patet propositum. SAL. Questa conclusione si raccoglie dal converso della prima delle due proposizioni poste di sopra. Imperò che, descritta, per esempio, la parabola per li punti b, h, se alcuno delli 2 f, i non fusse nella descritta linea pa- rabolica, sarebbe dentro o fuori, e, per conseguenza, la linea f g sarebbe o minore o maggiore di quella che an- dasse a terminare nella linea parabolica; onde il quadrato della kh non al quadrato della f g, ma ad altro maggiore o minore, arebbe la medesima proporzione che ha la linea Ib alla bg: ma la ha al quadrato della f g: adunque il punto f è nella parabolica: e cosi tutti gli altri, etc. SAGR. Non si può negare che il discorso sia nuovo, ingegnoso e concludente, argomentando ex suppositione, supponendo cioè che il moto traversale si mantenga sempre equabile, e che il naturale deorsum parimente mantenga il suo tenore, d’andarsi sempre accelerando se- condo la proporzion duplicata de i tempi, e che tali moti 346 GALILEO GALILEI e loro velocità, nel mescolarsi, non si alterino perturbino ed impedischino, si che finalmente la linea del proietto non vadia, nella continuazion del moto, a degenerare in un'altra spezie: cosa che mi si rappresenta come impos- sibile. Imperò che, stante che l’asse della parabola nostra, secondo ‘1 quale noi supponghiamo farsi il moto naturale de i gravi, essendo perpendicolare all’orizonte, va a ter- minar nel centro della terra; ed essendo che la linea parabolica si va sempre slargando dal suo asse; niun proietto andrebbe già mai a terminar nel centro, o, se vi andrebbe, come par necessario, la linea del proietto tra- lignerebbe in altra, diversissima dalla parabolica. SIMPL. Io a queste difficoltà ne aggiungo dell’altre: una delle quali è, che noi supponghiamo che il piano ori- zontale, il quale non sia né acclive né declive, sia una linea retta, quasi che una simil linea sia in tutte le sue parti egualmente distante dal centro, il che non è vero; perché, partendosi dal suo mezo, va verso le estremità sempre più e più allontanandosi dal centro, e però ascen- dendo sempre; il che si tira in conseguenza, essere im- possibile che il moto si perpetui, anzi che né pur per qualche spazio si mantenga equabile, ma ben sempre vadia languendo. In oltre, è, per mio credere, impossibile lo schivar l’impedimento del mezo, si che non levi l’equa- bilità del moto trasversale e la regola dell’accelerazione ne i gravi cadenti. Dalle quali tutte difficoltà si rende molto improbabile che le cose dimostrate con tali suppo- sizioni incostanti possano poi nelle praticate esperienze verificarsi. SAL. Tutte le promosse difficoltà e instanze son tanto ben fondate, che stimo essere impossibile il rimuoverle, ed io, per me, le ammetto tutte, come anco credo che il nostro Autore esso ancora le ammetterebbe; e concedo che le conclusioni cosi in astratto dimostrate si alterino in concreto, e si falsifichino a segno tale, che né il moto DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 347 trasversale sia equabile, né l'accelerazione del naturale sia con la proporzion supposta, né la linea del proietto sia parabolica, etc.: ma ben, all'incontro, domando che elle non contendano al nostro Autor medesimo quello che altri grandissimi uomini hanno supposto, ancor che falso. E la sola autorità d’Archimede può quietare ogn’uno, il quale, nelle sue Mecaniche e nella prima Quadratura della parabola, piglia come principio vero, l'ago della bi- lancia o stadera essere una linea retta in ogni suo punto equalmente distante dal centro commune de i gravi, e le corde alle quali sono appesi i gravi esser tra di loro pa- rallele: la qual licenza viene da alcuni scusata, perché nelle nostre pratiche gli strumenti nostri e le distanze le quali vengono da noi adoperate, son così piccole in com- parazione della nostra gran lontananza dal centro del globo terrestre, che ben possiamo prendere un minuto di un grado del cerchio massimo come se fusse una linea retta, e due perpendicoli che da i suoi estremi pendes- sero, come se fussero paralleli. Che quando nelle opere praticali si avesse a tener conto di simili minuzie, biso- gnerebbe cominciare a riprendere gli architetti, li quali col perpendicolo suppongono d’alzar le altissime torri tra linee equidistanti. Aggiungo qui, che noi possiamo dire che Archimede e gli altri supposero nelle loro contempla- zioni, esser costituiti per infinita lontananza remoti dal centro, nel qual caso i loro assunti non erano falsi, e che però concludevano con assoluta dimostrazione. Quando poi noi vogliamo praticar in distanza terminata le con- clusioni dimostrate col suppor lontananza immensa, do- viamo diffalcar dal vero dimostrato quello che importa il non esser la nostra lontananza dal centro realmente infinita, ma ben tale che domandar si può immensa in comparazione della piccolezza de gli artifici ‘praticati da noi: il maggior de i quali sarà il tiro de i proietti, e di questi quello solamente dell’artiglierie, il quale, per 348 GALILEO GALILEI grande che sia, non passera 4 miglia di quelle delle quali noi siamo lontani dal centro quasi altrettante migliara; ed andando questi a terminar nella superficie del globo terrestre, ben potranno solo insensibilmente alterar quella figura parabolica, la quale si concede che sommamente si trasformerebbe nell’andare a terminar nel centro. Quanto poi al perturbamento procedente dall’impe- dimento del mezo, questo è piti considerabile, e, per la sua tanto moltiplice varietà, incapace di poter sotto re- gole ferme esser compreso e datone scienza; atteso che, se noi metteremo in considerazione il solo impedimento che arreca l’aria a i moti considerati da noi, questo si troverà perturbargli tutti, e perturbargli in modi infiniti, secondo che in infiniti modi si variano le figure, le gravità e le velocità de i mobili. Imperò che, quanto alla velocità, secondo che questa sarà maggiore, maggiore sarà il con- trasto fattogli dall'aria; la quale anco impedirà più i mobili, secondo che saranno men gravi: talché, se bene il grave descendente dovrebbe andare accelerandosi in du- plicata proporzione della durazion del suo moto, tuttavia, per gravissimo che fusse il mobile, nel venir da grandis- sime altezze sara tale l’impedimento dell’aria, che gli torrà il poter crescere pit la sua velocità, e lo ridurrà ad un moto uniforme ed equabile; e questa adequazione tanto più presto ed in minori altezze si otterrà, quanto il mobile sarà men grave. Quel moto anco che nel piano orizontale, rimossi tutti gli altri ostacoli, devrebbe essere equabile e perpetuo, verrà dall’impedimento dell’aria alte- rato, e finalmente fermato: e qui ancora tanto più presto, quanto il mobile sarà pit leggiero. De i quali accidenti di gravità, di velocità, ed anco di figura, come variabili in modi infiniti, non si può dar ferma scienza: e però, per poter scientificamente trattar cotal materia, bisogna astrar da essi, e ritrovate ‘e dimostrate le conclusioni astratte da gl’impedimenti, servircene, nel praticarle, con DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 349 quelle limitazioni che l’esperienza ci verrà insegnando. È non però piccolo sarà utile, perché le materie e lor figure saranno elette le men soggette a gl’impedimenti del mezo, quali sono le gravissime e le rotonde, e gli spazii e le velocità per lo pit non saranno si grandi, che le loro esorbitanze non possano con facil tara esser ridotte a segno; anzi pure ne i proietti praticabili da noi, che siano di materie gravi e di figura rotonda, ed anco di materie men gravi e di figura cilindrica, come frecce, lanciati con frombe o archi, insensibile sarà del tutto lo svario del lor moto dall’esatta figura parabolica. Anzi (e voglio pi- gliarmi alquanto più di licenza), che ne gli artifizii da noi praticabili la piccolezza loro renda pochissimo no- tabili gli esterni ed accidentarii impedimenti, tra i quali quello del mezo è il più considerabile, vi posso io con due esperienze far manifesto. Io farò considerazione sopra i movimenti fatti per l’aria, ché tali son principalmente quelli de i quali noi parliamo; contro i quali essa aria in due maniere esercita la sua forza: l’una è coll’impedir più i mobili men gravi che i gravissimi; l’altra è nel con- trastar più alla velocità maggiore che alla minore del- l’istesso mobile. Quanto al primo, il mostrarci l’espe- rienza che due palle di grandezza eguali, ma di peso l’una 10 o 12 volte più grave dell’altra, quali sarebbero, per esempio. una di piombo e l’altra di rovere, scendendo dall’altezza di 150 o 200 braccia, con pochissimo diffe- rente velocità arrivano in terra, ci rende sicuri che l’im- pedimento e ritardamento dell’aria in amendue è poco: che se la palla di piombo, partendosi nell’istesso mo- mento da alto con l’altra di legno, poco fusse ritardata, e questa molto, per assai notabile spazio devrebbe il piombo, nell’arrivare in terra, lasciarsi a dietro il legno. mentre è 10 volte più grave: il che tutta via non accade, anzi la sua anticipazione non sarà né anco la centesima parte di tutta l'altezza: e tra una palla di piombo ed una 350 GALILEO GALILEI di pietra, che di quella pesasse la terza parte o la metà, appena sarebbe osservabile la differenza del tempo delle lor giunte in terra. Ora, perché l’impeto che acquista una palla di piombo nel cadere da un'altezza di 200 braccia (il quale è tanto, che continuandolo in moto equabile scorrerebbe braccia 400 in tanto tempo quanto fu quello della sua scesa) è assai considerabile rispetto alle velocità che noi con archi o altre machine confe- riamo a i nostri proietti (trattone gl’impeti dependenti dal fuoco), possiamo senza errore notabile concludere e reputar come assolutamente vere le proposizioni che si dimostreranno senza il riguardo dell’alterazion del mezo. Circa poi all'altra parte, che è di mostrare, l’impedi- mento che l’istesso mobile riceve dall’aria, mentre egli con gran velocità si muove, non esser grandemente mag- giore di quello che gli contrasta nel muoversi lentamente, ferma certezza ce ne porge la seguente esperienza. So- spendansi da due fili egualmente lunghi, e di lunghezza di 4 o 5 braccia, due palle di piombo eguali, e attaccati i detti fili in alto, si rimuovano amendue le palle dallo stato perpendicolare; ma l’una si allontani per 80 o più gradi, e l’altra non più che 4 o 5: sî che, lasciate in libertà, l'una scenda e, trapassando il perpendicolo, de- scriva archi grandissimi di 160, 150, 140 gradi, etc., diminuendogli a poco a poco; ma l’altra, scorrendo libe- ramente, passi archi piccoli di 10, 8, 6, etc., diminuendogli essa ancora a poco a poco: qui primieramente dico, che in tanto tempo passerà la prima li suoi gradi 180, 160, etc., in quanto l’altra li suoi 10, 8, etc. Dal che si fa manifesto, che la velocità della prima palla sarà 16 e 18 volte mag- giore della velocità della seconda; si che, quando la ve- locità maggiore più dovesse essere impedita dall’aria che la minore, più rade devriano esser le vibrazioni ne gli archi grandissimi di 180 o 160 gradi, etc., che ne i pic- colissimi di 10, 8, 4, ed anco di 2 e di 1: ma a questo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 351 repugna l’esperienza; imperò che se due compagni si metteranno a numerare le vibrazioni, l’uno le grandis- sime e l’altro le piccolissime, vedranno che ne numere- ranno non pur le decine, ma le centinaia ancora, senza discordar d’una sola, anzi d’un sol punto. È questa osser- vazione ci assicura congiuntamente delle 2 proposizioni, cioè che le massime e le minime vibrazioni si fanno tutte a una a una sotto tempi eguali, e che l’impedimento e ritardamento dell’aria non opera più ne i moti velocis- simi che ne i tardissimi; contro a quello che pur dianzi pareva che noi ancora comunemente giudicassimo. SAGR. Anzi, perché non si può negare che l’aria im- pedisca questi e quelli, poi che e questi e quelli vanno languendo e finalmente finiscono, convien dire che tali ritardamenti si facciano con la medesima proporzione nell’una e nell’altra operazione. Ma che? L’avere a far maggior resistenza una volta che un’altra, da che altro proced’egli fuor che dall’esser assalito una volta con im- peto e velocità maggiore, ed un’altra con minore? È se questo è, la quantità medesima della velocità del mobile è cagione ed insieme misura della quantità della resi- stenza. Adunque tutti i moti, siano tardi o veloci, son ri- tardati e impediti con l’istessa proporzione: notizia, par a me, non disprezzabile. SAL. Possiam per tanto anco in questo secondo caso concludere, che le fallacie nelle conclusioni le quali | astraendo da gli accidenti esterni si dimostreranno, siano | ne gli artifizii nostri di piccola considerazione, rispetto «| ai moti di gran velocità, de i quali per lo più si tratta, ed alle distanze, che non sono se non piccolissime in re- lazione alla grandezza del semidiametro e de i cerchi . massimi del globo terrestre. O SIMPL. Io volentieri sentirei la cagione per la quale V. S. sequestra i proietti dall’impeto del fuoco, cioè, come credo, dalla forza della polvere, da gli altri proietti con | | 352 GALILEO GALILEI frombe archi o balestre, circa ’l1 non essere nell’istesso modo soggetti all’alterazione ed impedimento dell’aria. SAL. Muovemi l’eccessiva e, per via di dire, furia so- prannaturale con la quale tali proietti vengono cacciati; ché bene anco fuora d’iperbole mi par che la velocità con la quale vien cacciata la palla fuori d’un moschetto o d’una artiglieria, si possa chiamar sopranaturale. Im- però che, scendendo naturalmente per l’aria da qualche altezza immensa una tal palla, la velocità sua, mercé del contrasto dell’aria, non si andrà accrescendo perpetua- mente: ma quello che ne i cadenti poco gravi si vede in non molto spazio accadere, dico di ridursi finalmente a un moto equabile, accaderà ancora, dopo la scesa di qualche migliara di braccia, in una palla di ferro o di. piombo; e questa terminata ed ultima velocità si può dire esser la massima che naturalmente può ottener tal grave per aria: la qual velocità io reputo assai minor di quella che alla medesima palla viene impressa dalla pol- vere accesa. Del che una assai acconcia esperienza ci può render cauti. Sparisi da un'altezza di cento o più braccia un archibuso con palla di piombo all’in giù perpendico- larmente sopra un pavimento di pietra, e col medesimo si tiri contro una simil pietra in distanza d’un braccio 0 2, e veggasi poi qual delle 2 palle si trovi esser più am- maccata: imperò che, se la venuta da alto si troverà meno schiacciata dell’altra, sarà segno che l’aria gli avrà im- pedita e diminuita la velocità conferitagli dal fuoco nel principio del moto, e che, per conseguenza, una tanta velocità non gli permetterebbe l’aria che ella guadagnasse gia mai venendo da quanto si voglia subblime altezza; ché quando la velocità impressagli dal fuoco non ecce- desse quella che per se stessa, naturalmente scendendo, potesse acquistare, la botta all’ingit devrebbe più tosto esser più valida che meno. Io non ho fatto tale espe- rienza, ma inclino a credere che una palla d’archibuso o DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 353 d'artiglieria, cadendo da un'altezza quanto si voglia grande, non farà quella percossa che ella fa in una mu- raglia in lontananza di poche braccia, cioè di cosi poche, che ’1 breve sdrucito, o vogliam dire scissura, da farsi nell’aria non basti a levar l'eccesso della furia soprana- turale impressagli dal fuoco. Questo soverchio impeto di simili tiri sforzati può cagionar qualche deformità nella linea del proietto, facendo ’1 principio della parabola meno inclinato e curvo del fine; ma questo, poco o niente può esser di progiudizio al nostro Autore nelle praticali operazioni: tra le quali principale è la composizione d'una tavola per i tiri che dicono di volata, la quale con- tenga le lontananze delle cadute delle palle tirate se- condo tutte le diverse elevazioni; e perché tali proiezzioni si fanno con mortari, e con non molta carica, in questi non essendo sopranaturale l’impeto, i tiri segnano le lor linee assai esattamente. Ma in tanto procediamo avanti nel trattato, dove l'Autore ci vuole introdurre alla contemplazione ed in- vestigazione dell’impeto del mobile, mentre si muove con moto composto di due; e prima, del composto di due equabili, l’uno orizontale e l’altro perpendicolare. THEOREMA II, PROPOSITIO II. Si aliquod mobile duplici motu @quabili mo- veatur, nempe horizontali et perpendiculari, im- petus seu momentum lationis ex utroque motu composita erit potentia equalis ambobus momentis priorum motuum. Moveatur enim aliquod mobile aquabiliter duplici latione, et mutationi perpendiculari respondeat spatium ab, lationi vero horizontali eodem tempore confecta re- spondeat b c. Cum igitur per motus aquabiles conficiantur eodem tempore spatia a b, b ec, erunt harum lationum mo- | 23. - G. Galilei, Opere - II. 554 GALILEO GALILEI menta inter se ut ipsa ab, bc: mobile vero, quod secun- dum hasce duas mutationes movetur, describit diagonalem ac; erit momentum sux velocitatis ut ® ac.Verumac potentia aquatur ipsis a b, bc; ergo momentum compositum ex utrisqgue momentis ab, bc est potentia tantum illis simul sumptis È > quale: quod erat ostendendum. SIMPL. È necessario levarmi un poco di scrupolo che qui mi nasce, parendomi che questo, che ora si conclude, repugni ad un’altra proposizione del trattato passato, nella quale si affermava, l’impeto del mobile venente dall’a in b essere eguale al venente dall’a in c; ed ora si conclude, l’impeto in c esser maggiore che in b. SAL. Le proposizioni, Sig. Simplicio, sono amendue vere, ma molto diverse tra di loro. Qui si parla d’un sol mobile, mosso d’un sol moto, ma composto di due, amendue equabili; e l& si parla di 2 mobili, mossi di moti natu- ralmente accelerati, uno per la perpendicolare ab, e l’altro per l’inclinata ac. In oltre, i tempi quivi non si suppon- gono eguali, ma il tempo per l’inclinata ac è maggiore del tempo per la perpendicolare ab; ma nel moto del quale si parla al presente, i moti per le a b, bc, ac s'in- tendono equabili e fatti nell’istesso tempo. SIMPL. Mi scusino, e seguano avanti, ché resto ac- quietato. SAL. Séguita l'Autore per incaminarci a intender quel che accaggia intorno all’impeto d’un mobile mosso pur d'un moto composto di 2, uno cioè orizontale ed equabile, e l’altro perpendicolare ma naturalmente accelerato, de i quali finalmente è composto il moto del proietto e si de- scrive la linea parabolica, in ciaschedun punto della quale si cerca di determinare quanto sia l’impeto del proietto. Per la cui intelligenza ci dimostra l'Autore il modo, o DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 355 voglian dir metodo, di regolare e misurar cotale impeto sopra l’istessa linea nella quale si fa il moto del grave descendente con moto naturalmente accelerato, partendosi dalla quiete, dicendo: THEOREMA III, PROPOSITIO III Fiat motus per lineam ab ex quiete in a, et accipiatur in ea quodlibet punclum c; et ponatur ipsamet ac esse tempus, seu temporis mensura, casus ipsius per spatium ac, nec non mensura quoque impelus seu momenti in puncio c ex descensu ac ac- quisiti. Modo sumatur in ea- dem linea ab quodcunque aliud punctum, utputa b, in quo determinandum est de impetu acquisito a mobili per descensum a b, in ratione ad impetum quem obtinuit in c, cuius mensura posita est ac. Ponatur as media propor- tionalis inter b a, ac: demonstrabimus, impetum in b ad impetum in c esse ut lineam sa ad ac. Sumantur hori- zontales c d, dupla ipsius a c, be vero dupla ba: constat, ex demonstratis, cadens per ac, conversum in horizonte cd, atque iuxta impetum in c acquisitum motu @quabili delatum, conficere spatium cd aquali tempore, atque ipsum ac motu accelerato confecit; similiterque, be con- fici eodem tempore atque ab: sed tempus ipsius de- scensus ab est as: ergo horizontalis be conficitur tempore as. Fiat ut tempus sa ad tempus ac, ita eb ad bl; cumque motus per be sit aquabilis, erit spatium bl pe- ractum tempore ac secundum momentum celeritatis in b: sed tempore eodem a c conficitur spatium c d secundum momentum celeritatis in c; momenta autem celeritatis sunt inter se ut spalia, qua iuxta ipsa momenta eodem con- 356 GALILEO GALILEI ficiuntur tempore: ergo momentum celeritatis in c ad momentum celeritatis in b est ut dec ad bl. Quia vero ut de ad be, ita ipsarum dimidia, nempe ca ad ab; ut autem eb ad bl, ita ba ad as; ergo, ex quali, ut de ad bl, itaca ad a s: hoc est, ut momentum celeritatis in c ad momentum celeritatis in b, ita ca ad as, hoc est, tempus per ca ad tempus per a b. Patet itaque ratio mensurandi impetum seu celeritatis momentum super linea in qua fit motus descensus; qui quidem impetus ponitur augeri pro ratione temporis. Hic autem, antequam ulterius progrediamur, pramo- nendum est, quod cum de motu composito ex @quabili horizontali et ex naturaliter accelerato deorsum futurus sit sermo (ex tali enim mixtione conflatur ac designatur linea proiecti, nempe parabola), necesse habemus definire aliquam communem mensuram, iuxta quam utriusque motus velocitatem, impetum, seu momentum, dimetiri va- leamus; cumque lationis aquabilis innumeri sint veloci- tatis gradus, quorum non quilibet fortuito, sed unus ex illis innumeris, cum gradu celeritatis per motum natu- raliter acceleratum acquisito sit confe- €. rendus et coniungendus, nullam faciliorem viam excogitare potui pro eo eligendo atque determinando, quam alium eiusdem generis assumendo. Ut autem clarius me explicem, intelligatur perpendicularis ac ad horizontalem cb; ac vero esse altitu- dinem, cb autem amplitudinem semipara- bole ab, qua describitur a compositione duarum lationum, quarum una est mobilis db c descendentis per ac motu naturaliter ac- celerato ex quiete in a, altera est motus transversalis aquabilis iuxta horizontalem a d. Impetus acquisitus in c per descensum ac determinatur a quan- titate eiusdem altitudinis ac: unus enim atque idem est DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 352 semper impetus mobilis ex eadem altitudine cadentis: verum in horizontali non unus, sed innumeri assignari possunt gradus velocitatis motuum aquabilium. Ex quo- rum multitudine ut illum quem elegero a reliquis segre- gare et quasi digito monstrare possim, altitudinem ca in sublimi extendam, in qua, prout opus fuerit, sublimi- tatem a e firmabo: ex qua si cadens ex quiete in e mente concipiam, patet, impetum eius in termino a acquisitum, unum esse cum quo idem mobile, per horizontalem ad conversum, ferri concepero; eiusque gradum celeritatis esse illum, quo, in tempore descensus per e a, spatium in horizontali duplum ipsius ea conficiet. Haec praemonere necessarium visum est. Advertatur insuper, semiparabole ab “« amplitudi- nem» a me vocari horizontalem cb; <altitudinem >», ac nempe, eiusdem parabole axem: lineam vero ea, ex cuius descensu determinatur im- petus horizontalis, « sublimitatem » appello. His declaratis ac definitis, ad demonstrandum me confero. SAGR. Fermate, in grazia, perché qui mi par che convenga adornar questo pensiero dell'Autore con la con- formità del concetto di Platone intorno al determinare le diverse velocità de i moti equabili delle conversioni de i moti celesti. Il quale, avendo per avventura auto con- cetto, non potere alcun mobile passare dalla quiete ad alcun determinato grado di velocità, nel quale ei debba poi equabilmente perpetuarsi, se non col passare per tutti gli altri gradi di velocità minori, o vogliam dire di tardità maggiori, che tra l’assegnato grado e l’altissimo di tardità, cioè della quiete, intercedono, disse che Iddio, dopo aver creati i corpi mobili celesti, per assegnar loro quelle velocità con le quali poi dovessero con moto cir- colare equabile perpetuamente muoversi, gli fece, par- 358 GALILEO GALILEI tendosi loro dalla quiete, muover per determinati spazii di quel moto naturale e per linea retta secondo ’1 quale noi sensatamente veggiamo i nostri mobili muoversi dallo stato di quiete accelerandosi successivamente; e soggiugne che, avendogli fatto guadagnar quel grado nel quale gli piacque che poi dovessero mantenersi perpetuamente, converti il moto loro retto in circolare, il quale solo è atto a conservarsi equabile, rigirandosi sempre senza al- lontanarsi o avvicinarsi a qualche prefisso termine da essi desiderato. Il concetto è veramente degno di Platone; ed è tanto più da stimarsi, quanto i fondamenti taciuti da quello e scoperti dal nostro Autore, con levargli la ma- schera o sembianza poetica, lo scuoprono in aspetto di verace istoria. E mi pare assai credibile, che avendo noi per le dottrine astronomiche assai competente notizia delle grandezze de gli orbi de i pianeti e delle distanze loro dal centro intorno al quale si raggirano, come ancora delle loro velocità, possa il nostro Autore (al quale il concetto Platonico non era ascosto) aver tal volta per sua curiosità auto pensiero d’andare investigando se si potesse assegnare una determinata sublimità, dalla quale partendosi, come da stato di quiete, i corpi de i pianeti, e mossisi per certi spazii di moto retto e naturalmente accelerato, convertendo poi la velocità acquistata in moti equabili, si trovassero corrispondere alle grandezze de gli orbi loro e a i tempi delle loro revoluzioni. SAL. Mi par sovvenire che egli gia mi dicesse, aver una volta fatto il computo, ed anco trovatolo assai ac- conciamente rispondere alle osservazioni, ma non averne voluto parlare, giudicando che le troppe novità da lui scoperte, che lo sdegno di molti gli hanno provocato, non accendessero nuove scintille. Ma se alcuno avrà simil de- siderio, potra per se stesso, con la dottrina del presente trattato, sodisfare al suo gusto. Ma seguitiamo la nostra materia, che è di dimostrare: DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 359 PROBLEMA I, PROPOSITIO IV. Quomodo in data parabola, a proiecto descrip- te, punctis singulis impetus sit determinandus. Sit semiparabola bec, cuius amplitudo cd, altitudo db, qua extensa in sublimi occurrat tangenti parabolam ca in a; et per verticem b sit horizonti et cd parallela bi. Quod si amplitudo cd sit aqualis toti altitudini da, erit bi aqualis ba et bd; et si temporis casus per ab, et momenti velocitatis acquisiti in b per descensum ab ex quiete in a, ponamus mensuram esse ipsammet ab, erit dec (dupla nempe bi) spatium quod per impetum ab, per horizontalem conversum, con- ficiet eodem tempore: sed eodem tempore cadens per bd ex quiete in b conficit al- titudinem bd: ergo mobile cadens ex quiete in a, per a b conversum cum impetu a b, per horizontalem conficit spa- tum aquale dc. Superve- . niente vero casu per bd, con- ficit altitudinem bd, et parabola bc designatur, cuius im- petus in termino c est compositus ex aquabili transversali, cuius momentum est ut ab, et ex altero momento acqui- sito in descensu bd in termino d seu c; qua momenta sequalia sunt. Si ergo intellisamus, ab alterius illorum esse mensuram, ut puta transversalis aquabilis: bi vero qua ipsi bd est aqualis, esse mensuram impetus acquisiti in d seu c; subtensa ia erit quantitas momenti compositi ex ambobus: erit ergo quantitas seu mensura integri momenti, quo proiectum veniens per parabolam bc impetum facit in c. His retentis, accipiatur in parabola quodlibet pun- ctum e, in quo de impetu proiecti determinandum sit. 360 GALILEO GALILEI Ducatur horizontalis ef, et accipiatur bg media propor- tionalis inter bd, bf; cumque posita sit ab, seu bd, esse mensura temporis et momenti velocitatis in casu bd ex quiete in b, erit bg tempus seu mensura temporis et im- petus in f venientis ex b. Si igitur ponatur bo aqualis bg, iuncta diagonalis ao erit quantitas impetus in puncto e: est enim ab determinatrix posita temporis et impetus in b, qui conversus in horizontali semper servatur idem; bo vero determinat impetum in f seu e per descensum ex quiete in b in altitudine bf: his autem ab, bo potentia sequipollet a o. Patet ergo quod quarebatur. SAGR. La contemplazione del componimento di questi impeti diversi, e della quantità di quell’impeto che da tal > mistione ne risulta, mi giugne tanto nuova, che mi lascia la mente in non piccola confusione: non dico della mi- stione di due movimenti equabili, benché tra di loro di- seguali, fatti uno per la linea orizontale e l’altro per la perpendicolare, ché di questi resto capacissimo farsi un moto in potenza eguale ad amendue i componenti; ma mi nasce confusione nel mescolamento dell’orizontale equa- bile, e perpendicolare naturalmente accelerato. Però vorrei che insieme digerissimo meglio questa materia. SIMPL. Ed io tanto più ne son bisognoso, quanto che non sono ancor totalmente quietato di mente, come bi- sogna, nelle proposizioni che sono come primi fondamenti dell’altre che gli seguono appresso. Voglio inferire che anco nella mistione de i due moti equabili, orizontale e perpendicolare, vorrei meglio intendere quella potenza del lor composto. Ora, Sig. Salviati, V. S. intende il nostro bisogno e desiderio. SAL. Il desiderio è molto ragionevole, e tenterò se l'aver io più lungo tempo potuto pensarvi sopra, può age- volare la vostra intelligenza. Ma converraà comportarmi e DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 361 scusarmi, se nel discorrere anderò replicando buona parte delle cose sin qui poste dall’Autore. Discorrer determinatamente circa i movimenti e lor velocità o impeti, siano quelli o equabili o naturalmente accelerati, non possiamo noi senza prima determinar della misura che usar vogliamo per misurar tali velocità, come anco della misura del tempo. Quanto alla misura del tempo, gia abbiamo la comunemente ricevuta per tutto, delle ore, minuti primi e secondi etc.; e come per misura del tempo ci è la detta comune, ricevuta da tutti, cosî bi- sogna assegnarne una per le velocità, che appresso tutti sia comunemente intesa e ricevuta, cioè che appresso tutti sia l’istessa. Atta per tale uso ha stimato l'Autore, come si è dichiarato, esser la velocità de i gravi naturalmente descendenti, de i quali le crescenti velocità in tutte le parti del mondo serbano l’istesso tenore; si che quel grado di velocità che (per esempio) acquista una palla di piombo d'una libra nell’esser, partendosi dalla quiete, scesa perpendicolarmente quanto è l’altezza di una picca, è sempre e in tutti i luoghi il medesimo, e per ciò acco- modatissimo per esplicar la quantità dell’impeto deri- vante dalla scesa naturale. Resta poi il trovar modo di determinare anco la quantità dell’impeto in un moto equabile in guisa tale, che tutti coloro che circa di quello discorrino, si formino l’istesso concetto della grandezza e velocità sua, sf che uno non se lo figuri più veloce e un altro meno, onde poi nel congiugnere e mescolar questo da sé concepito equabile con lo statuito moto accelerato, da diversi uomini ne vengano formati diversi concetti di diverse grandezze d’impeti. Per determinare e rappresen- tare cotal impeto e velocità particolare, non ha trovato il nostro Autore altro mezo pit accomodato, che ‘1 servirsi dell’impeto che va acquistando il mobile nel moto na- turalmente accelerato; del quale qualsivoglia momento acquistato, convertito in moto equabile, ritien la sua ve- ‘24. - G. Galilei, Opere - II. 362 GALILEO GALILEI locità limitata precisamente, e tanta, che in altrettanto tempo quanto fu quello della scesa passa doppio spazio dell’altezza dalla quale è caduto. Ma perché questo è punto principale nella materia che si tratta, è bene con qualche esempio particolare farsi perfettamente intendere. Ripigliando dunque la velocità e l’impeto acquistato dal grave cadente, come dicemmo, dall’altezza d’una picca, della quale velocità vogliamo servirci per misura di altre velocità ed impeti in altre occasioni; e posto, per esempio, che il tempo di tal caduta sia 4 minuti secondi d’ora; per ritrovar da questa tal misura quanto fusse l’impeto del cadente da qualsivoglia altra altezza mag- giore o minore, non doviamo dalla proporzione la quale quest'altra altezza avesse con l’altezza d’una picca, argo- mentare e concludere la quantità dell’impeto acquistato in questa seconda altezza, stimando, per esempio, che il cadente da quadrupla altezza avesse acquistato quadrupla velocità, perché ciò è falso: imperò che non cresce o cala la velocità nel moto naturalmente accelerato secondo la proporzione degli spazii, ma ben secondo quella de i tempi, della quale quella degli spazii è maggiore in dupli- cata proporzione, come già fu dimostrato. Però, quando noi avessimo in una linea retta assegnatane una parte per misura della velocità, ed anco del tempo e dello spazio in tal tempo passato (ché per brevità tutte tre queste grandezze con un'’istessa linea spesse volte vengono rap- presentate), per trovar la quantità del tempo e ’1 grado di velocità che il mobile medesimo in altra distanza arebbe acquistato, ciò otterremo noi non immediatamente da questa seconda distanza, ma dalla linea che tra le due distanze sara media proporzionale. Ma con un esempio meglio mi dichiaro. Nella linea ac, perpendicolare al- l’orizonte, intendasi la parte a b essere uno spazio passato da un grave naturalmente descendente di moto accele- rato; il tempo del qual passaggio, potendo io rappresen- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 363 tarlo con qualsivoglia linea, voglio per brevità figurarlo esser quanto la medesima linea a b; e parimente per mi- sura dell’impeto e velocità acquistata per tal moto pongo pur l’istessa linea ab: si che di tutti gli spazii che nel progresso del discorso si hanno a considerare, la misura sia la parte ab. Stabilite ad arbitrio nostro sotto _a una sola grandezza a b queste 3 misure di generi di quantità diversissimi, cioè di spazii, di tempi e di |, impeti, siaci proposto di dover determinare, nell’as- segnato spazio e altezza ac, quanto sia per essere il tempo della scesa del cadente da l’a in c, e quanto l’impeto che in esso termine c si troverà avere ac- quistato, in relazione al tempo ed all’impeto misu- rati per la a bd. L'uno e l’altro quesito si determinerà pigliando delle due linee ac, ab la media propor- zionale a d; affermando, il tempo della caduta per tutto lo spazio ac esser quanto il tempo ad in relazione al tempo a b, posto da principio per la quantità del tempo nella scesa ab. Diremo parimente, l’impeto o grado di velocità che otterrà ’1 cadente nel termine c, in rela- zione all’impeto che ebbe in b, esser quale la medesima linea ad in relazione alla ab, essendo che la velocità cresce con la medesima proporzione che cresce il tempo: la qual conclusione se ben fu presa come postulato, pur tuttavia volse l'Autore esplicarne l'applicazione di sopra, alla Proposizion terza. Ben compreso e stabilito questo punto, venghiamo alla considerazione dell’impeto derivante da 2 moti composti; uno de i quali sia composto dell’orizontale e sempre equabile, e del perpendicolare all’orizonte e esso ancora equabile; ma l’altro sia composto dell’orizontale, pur sempre equabile, e del perpendicolare naturalmente ac- celerato. Se amendue saranno equabili, già s'è visto come l’impeto resultante dalla composizione di amendue è in potenza equale ad amendue, come per chiara intelligenza c 364 GALILEO GALILEI esemplificheremo cosî. Intendasi, il mobile descendente per la perpendicolare ab aver, per esempio, 3 gradi d'impeto equabile, ma, trasportato per la ab verso c, esser tal velocità ed impeto di 4 gradi, 4 si che nel tempo medesimo che scen- dendo passerebbe nella perpendico- lare, v. g., 3 braccia, nella orizontale ne passerebbe 4: ma nel composto di amendue le velocità viene, nel mede- simo tempo, dal punto a nel termine c, caminando sempre per la diagonale ac, la quale non è lunga 7, quanto sarebbe la composta delle 2, ab 3 e bc 4, ma è 5; la qual 5 è in potenza equale alle due 3 e 4. Imperò che, fatti li qua- drati del 3 e del 4, che sono 9 e 16, e questi congiunti insieme, fanno 25 per il quadrato di a c, il quale alli due quadrati di a b e di bc è eguale; onde la ac sarà quanto è il lato, o vogliam dir la radice, del quadrato 25, che è 5. Per regola dunque ferma e sicura, quando si debba as- segnare la quantità dell’impeto resultante da 2 impeti dati, uno orizontale e l’altro perpendicolare ed amendue equabili, si deve di amendue fare i quadrati, e, compo- nendogli insieme, estrar la radice del composto, la quale ci darà la quantità dell’impeto composto di amendue quelli. E cosî nell'esempio posto, quel mobile che in virtî del moto perpendicolare arebbe percosso sopra l’orizonte con 3 gradi di forza, e col moto solo orizontale arebbe percosso in c con gradi 4, percotendo con amendue gl’im- peti congiunti, il colpo sara come quello del percuziente mosso con gradi 5 di velocità e di forza: e questa tal per- cossa sarebbe del medesimo valore in tutti i punti della diagonale ac, per esser sempre gl’impeti composti i me- desimi, non mai cresciuti o diminuiti. Veggiamo ora quello che accaschi nel comporre il moto orizontale equabile con un moto perpendicolare al- l’orizonte. il quale. cominciando dalla quiete, vadia natu- (e DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 365 ralmente accelerandosi. Già è manifesto che la diagonale, che è la linea del moto composto di questi due, non è una linea retta, ma semiparabolica, come si è dimostrato; nella quale l’impeto va sempre crescendo, mercé del continuo crescimento della velocità del moto perpendicolare. Là onde, per determinar qual sia l'impeto in un assegnato punto di essa diagonale parabolica, prima bisogna as- segnar la quantità dell’impeto uniforme orizontale, e poi investigar qual sia l’impeto del cadente nell’assegnato punto, il che non si può determinare senza la considera- zione del tempo decorso dal principio della composizione de i 2 moti, la qual considerazione di tempo non si ri- chiede nella composizione de i moti equabili, le velocità ed impeti de i quali son sempre i medesimi; ma qui, dove entra nella mistione un moto che, cominciando dalla somma tardità, va crescendo la velocità conforme alla continuazion del tempo, è necessario che la quantità del tempo ci manifesti la quantità del grado di velocità nel- l’assegnato punto: ché quanto al resto poi, l'impeto com- posto di questi 2 è (come nei moti uniformi) eguale in potenza ad amendue i componenti. Ma qui ancora meglio mi dichiaro con un esempio. Sia nella perpendicolare all’orizonte ac presa qualsivoglia parte a b, la quale figuro che serva per misura dello spazio del moto naturale fatto in essa per- PARINI: b pendicolare, e parimente sia misura del tempo ed anco del grado di velo- i È cità, o vogliam dire de gl’'impeti: è primieramente manifesto, che se l'’im- ; È peto del cadente in b dalla quiete in a si convertirà sopra la bd, parallela all'orizonte, in moto equabile, la quantità della sua velocità sara tanta, che nel tempo ab passerà uno spazio doppio dello spa- zio ab; e tanta sia la linea bd. Posta poi la bc eguale a 366 GALILEO GALILEI alla b a, e tirata la parallela c e alla b d, e ad essa eguale, descriveremo per i punti b, e la linea parabolica bei. E perché nel tempo a b con l’impeto a b si passa l’orizon- tale bdo c e, doppia della a b, e passasi ancora in altret- tanto tempo la perpendicolare bc con acquisto d'impeto in c eguale al medesimo orizontale; adunque il mobile, in tanto tempo quanto è a b, si troverà dal b giunto in e per la parabola be con un impeto composto di due, ciascheduno eguale all’impeto ab: e perché l’uno di essi è orizontale e l’altro perpendicolare, l’impeto com- posto di essi sarà in potenza eguale ad amendue, cioè doppio di uno; onde, posta la b f eguale alla ba e tirata la diagonale a f, l’impeto e la percossa in e sarà mag- giore della percossa in b del cadente dall’altezza a, o vero della percossa dell’impeto orizontale per la bd, secondo la proporzione di af ad ab. Ma quando, rite- nendo pur sempre la ba per misura dello spazio della caduta dalla quiete in a sino in b e per misura del tempo e dell’impeto del cadente acquistato in b, l’al- tezza bo non fusse eguale, ma maggiore della a b, presa la b g media proporzionale tra esse a b, b 0, sarebbe essa bg misura del tempo e dell’impeto in o, per la caduta nell’altezza bo acquistato in o: e lo spazio per l’orizon- tale, il quale passato con l’impeto ab nel tempo ab sa- rebbe doppio della ab, sarà in tutta la durazion del tempo bg tanto maggiore, quanto a proporzione la b g è maggiore della b a. Posta dunque la /b eguale alla b g, e tirata la diagonale a l, avremo da essa la quantità com- posta delli 2 impeti orizontale e perpendicolare, da i quali si descrive la parabola; de i quali l’orizontale ed equabile è l’acquistato in b per la caduta a b, e l’altro è l’acquistato in 0, o vogliam dire in i, per la caduta bo, il cui tempo fu b g, come anco la quantità del suo mo- mento. È con simil discorso investigheremo l’impeto nel termine estremo della parabola, quando l’altezza sua fusse DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 367 minore della sublimità ab, prendendo tra amendue la media; la quale posta nell’orizontale in luogo della b f, e congiunta la diagonale, come af, aremo da questa la quantità dell’impeto nell'estremo termine della parabola. A quanto sin qui si è considerato circa questi impeti, colpi o vogliam dir percosse, di tali proietti, convien aggiugnere un’altra molto necessaria considerazione: e questa è, che non basta por mente alla sola velocità del proietto per ben determinare della forza ed energia della percossa, ma convien chiamare a parte ancora lo stato e condizione di quello che riceve la percossa, nell’efficacia della quale esso per più rispetti ha gran participazione e interesse. E prima, non è chi non intenda che la cosa percossa intanto patisce violenza dalla velocità del per- cuziente, in quanto ella se gli oppone, e frena in tutto o in parte il moto di quello: ché se il colpo arriverà sopra tale che ceda alla velocità del percuziente senza resistenza alcuna, tal colpo sarà nullo; e colui che corre per ferir con lancia il suo nimico, se nel sopraggiugnerlo accaderà che quello si muova fuggendo con pari velocità, non farà colpo, e l’azzione sarà un semplice toccare senza offen- dere. Ma se la percossa verrà ricevuta in un oggetto che non in tutto ceda al percuziente, ma solamente in parte, la percossa danneggerà, ma non con tutto l’impeto, ma solo con l'eccesso della velocità di esso percuziente sopra la velocità della ritirata e cedenza del percosso: si che, se, v. g., il percuziente arriverà con 10 gradi di velocità sopra ‘1 percosso, il quale, cedendo in parte, si ritiri con gradi 4, l’impeto e percossa sarà come di gradi 6. E final- mente, intera e massima sarà la percossa, per la parte del percuziente, quando il percosso nulla ceda, ma inte- ramente si opponga, e fermi tutto ’1 moto del percuziente; se però questo può accadere. Ed ho detto per la parte del percuziente, perché quando il percosso si movesse con moto contrario verso ’1 percuziente, il colpo e l’incontro 368 GALILEO GALILEI si farebbe tanto più gagliardo, quanto le 2 velocità con- trarie unite son maggiori che la sola del percuziente. Di più, conviene anco avvertire che il ceder più o meno può derivare non solamente dalla qualità della materia più o men dura, come se sia di ferro, di piombo o di lana etc., ma dalla positura del corpo che riceve la percossa: la qual positura se sarà tale che ’1 moto del percuziente la vadia a investire ad angoli retti, l’impeto del colpo sarà il massimo; ma se "1 moto verrà obbliquamente e, come diciam noi, a scancfo, il colpo sarà più debole, e più e più secondo la maggiore obbliquità; perché in oggetto in tal modo situato, ancor che di materia sodissima, non si spegne e ferma tutto l’impeto e moto del percuziente, il quale, sfuggendo, passa oltre, continuando almeno in qualche parte a muoversi sopra la superficie del resistente opposto. Quando dunque si è di sopra determinato della grandezza dell’impeto del proietto nell’estremità della linea parabolica, si deve intendere della percossa rice- vuta sopra una linea ad angoli retti ad essa parabolica o vero alla tangente la parabola nel detto punto; perché, se ben quel moto è composto d’un orizontale e d’un per- pendicolare, l’impeto né sopra l’orizontale né sopra ‘’l piano eretto all’orizonte è il massimo, venendo sopra amendue ricevuto obbliquamente. l SAGR. Il ricordar V. S. questi colpi e queste percosse mi ha risvegliato nella mente un problema o vogliam dire questione mecanica, della quale non ho trovato ap- presso autore alcuno la soluzione, né cosa che mi scemi la maraviglia o al meno in parte mi quieti l’intelletto. E ‘1 dubbio e lo stupor mio consiste nel non restar capace onde possa derivare, e da qual principio possa depen- dere, l'energia e la forza immensa che si vede consistere nella percossa, mentre col semplice colpo d’un martello, che non abbia peso maggiore d’8 o 10 libbre, veggiamo superarsi resistenze tali, le quali non cederanno al peso DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 369 d'un grave che, senza percossa, vi faccia impeto, sola- mente calcando e premendo, benché la gravità di quello passi molte centinaia di libre. lo vorrei pur trovar modo di misurar la forza di questa percossa; la quale non penso però che sia infinita, anzi stimo che ella abbia il suo ter- mine da potersi pareggiare e finalmente regolare con altre forze di gravità prementi, o di leve o di viti o di altri strumenti mecanici, de i quali io a sodisfazione resto ca- pace della multiplicazione della forza loro. SAL. V. S. non è solo, nella maraviglia dell'effetto e nella oscurità della cagione di cosi stupendo accidente. Io vi pensai per alcun tempo in vano, accrescendo sempre la confusione, sin che finalmente, incontrandomi nel nostro Academico, da esso ricevei doppia consolazione: prima, nel sentire come egli ancora era stato lungo tempo nelle medesime tenebre; e poi nel dirmi che, dopo l’avervi in vita sua consumate molte migliara di ore spe- colando e filosofando, ne aveva conseguite alcune cogni- zioni lontane dai nostri primi concetti, e però nuove e per la novità ammirande. E perché ormai so che la cu- riosità di V. S. volentieri sentirebbe quei pensieri che si allontanano dall’opinabile, non aspetterò la sua richiesta, ma gli do parola che, spedita che avremo la lettura di questo trattato de i proietti, gli spiegherò tutte quelle fantasie, o voglifn dire stravaganze, che de i discorsi del- l’Accademico mi son rimaste nella memoria. In tanto se- guitiamo le proposizioni dell'Autore. PROPOSITIO V, PROBLEMA. In axe extenso date parabole punctum sublime reperire, ex quo cadens parabolam ipsam describit. Sit parabola ab, cuius amplitudo h b, et axis extensus he, in quo reperienda sit sublimitas, ex qua cadens, et 370 GALILEO GALILEI impetum in a conceptum in horizontalem convertens, pa- rabolam ab describat. Ducatur horizontalis a g, qua erit parallela ipsi bh, et posita af @quali ah, ducatur recta fb, quae parabolam tanget in-b, et horizontalem ag in g secabit; accipiaturque ipsarum f a, a g tertia proportio- nalis ae: dico, e esse punctum sublime quasitum, ex quo cadens ex quiete in e, et conceptum im- f petum in a in horizontalem con- verltens, superveniente impetu descensus in h ex quiete in a, parabolam ab describet. Si enim intelligamus, ea esse mensuram temporis descensus ex e in a, nec non impelus acquisiti in a, erit ag (media nempe inter ea, af) tempus et impetus venientis ex f in a, seu ex a in h: et quia veniens ex e, tempore e a, cum impetu acquisito in a, conficit in latione horizontali, motu aqua- bili, duplam e a, ergo etiam latum eodem impetu conficiet in tempore ag duplam ga, mediam nempe bh (spatia enim confecta eodem motu aquabili sunt inter. se ut eorundem motuum tempora), et in perpendiculari motu ex quiete, codem tempore ga, conficitur ah; ergo eodem tempore conficiuntur a mobili amplitudo hb et altitudo ah. Describitur ergo parabola ab ex casu venientis a sublimitate e: quod quarebatur. COROLLARIUM. Hinc constat, dimidiam basim, seu amplitudinem, se- miparabole (quae est quarta pars amplitudinis integra parabola) esse mediam proportionalem inter altitudinem eius et sublimitatem ex qua cadens eam designat. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 371 PROPOSITIO VI, PROBLEMA. Data sublimitate et altitudine semiparabola, amplitudinem reperire. Sit ad horizontalem lineam de perpendicularis ac, in qua data sit altitudo cb et sublimi- tas ba: oportet, in horizontali cd a amplitudinem semiparabola reperire, que ex sublimitate b.a cum altitudi- ne bc designatur. Accipiatur media proportionalis inter cb, ba, cuius b cd ponatur dupla: dico, cd esse amplitudinem quesitam. Id autem ex precedenti manifestum est. d Cc THEOREMA, PROPOSITIO VII. In proiectis a quibus semiparabola eiusdem am- plitudinis describuntur, minor requiritur impetus in eo quod describit illam cuius amplitudo sua altitudinis est dupla, quam in quolibet alio. Sit enim semiparabola bd, cuius amplitudo c d dupla sit altitudinis sue cb, et in axe in sublimi extenso po- natur ba altitudini bc aqualis, et iungatur ad, qua semiparabolam tanget in d et horizontalem be secabit in e, eritque be ipsi bc, seu ba, @equalis: constat, ipsam de- scribi a proiecto, cuius impetus aequabilis horizontalis sit qualis est in b cadentis ex quiete in a, impetus vero na- turalis deorsum qualis est venientis in c ex quiete in b: ex quo constat, impetum ex istis compositum, quodque in termino d impingit, esse ut diagonalem ae, potentia nempe ipsis ambobus aequalem. Sit modo queelibet alia semiparabola gd, cuius amplitudo eadem cd, altitudo pero cg minor vel maior altitudine bc, eamque tangat hd, secans horizontalem per g ductam in puncto k; et 372 GALILEO GALILEI fiat uthg ad gk, itakg ad gl: erit, ex antedemonstratis, altitudo gl, ex qua cadens describet parabolam gd. Inter ab et gl media proportionalis sit gm: erit gm tempus et momentum, sive impetus, in g cadentis ex | (positum enim est, ab esse mensuram temporis et impetus). Sit rursus inter bc, cg media gn, qua erit temporis et impetus mensura cadentis ex g in c. Si igitur iungatur m n, erit ipsa impetus mensura proiecti per parabolam dg, illi- dentis in termino d: quem quidem impe- tum, maiorem esse dico impetu proiecti per parabolam bd, cuius quantitas erat ut ae. Quia enim gn posita est media inter bc, cg; est autem bc aqualis be, hoc est kg (est enim una- quaque subdupla dc); erit ut cg ad gn, ita ng ad gk, et ut c g, seu h g, ad gk, ita quadratum n g ad quadratum gk; ut autem hg ad gk, ita facta estkg ad gl: ergo ul ng ad quadratum gk, ita kg ad gl. Sed ut kg ad gl, ita quadratum kg ad quadratum gm; media enim est gm inter kg, gl: ergo tria quadrata ng, kg, gm sunt continue proportionalia, et duo extrema ng, gm simul sumpta, id est quadratum m n, maius quam duplum qua- drati kg, cuius quadratum ae duplum est: ergo qua- dratum mn maius est quadrato ae, et linea mn maior linea ea: quod erat demonstrandum. COROLLARIUM. Hinc apparet, quod, conversim, in proiecto ex termino d per semiparabolam db minor impetus requiritur, quam DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 323 per quamcunque aliam iuxta elevationem maiorem seu minorem elevatione semiparabola bd, qua est iuxta tan- gentem ad, angulum semirectum supra horizonte continen- tem. Quod cum ita sit, constat quod, si cum eodem impetu fiant proiectiones ex termino d iuxta diversas elepationes, maxima proiectio, seu amplitudo semiparabola sive in- tegrae parabola, eri que consequitur ad elevationem anguli semirecti; reliqua vero iuxta maiores sive minores angulos facta, minores erunt. SAGR. Piena di maraviglia e di diletto insieme è la forza delle dimostrazioni necessarie, quali sono le sole ma- tematiche. Già sapevo io, per fede prestata alle relazioni di più bombardieri, che di tutti i tiri di volata dell'arti- glieria, o del mortaro, il massimo, cioè quello che in mag- gior lontananza caccia la palla, era il fatto all’elevazione di mezo angolo retto, che essi dicono del sesto punto della squadra; ma l’intender la cagione onde ciò avvenga, su- pera d’infinito intervallo la semplice notizia auta dalle altrui attestazioni, ed anco da molte replicate esperienze. SAL. V. S molto veridicamente discorre: e la cogni- zione d'un solo effetto acquistata per le sue cause ci apre l'intelletto a ’ntendere ed assicurarci d'altri effetti senza bisogno di ricorrere alle esperienze, come appunto av- viene nel presente caso: dove, guadagnata per il discorso dimostrativo la certezza dell’essere il massimo di tutti i tiri di volata quello dell’elevazione dell'angolo semiretto, ci dimostra l’Autore quello che forse per l’esperienza non è stato osservato: e questo è, che de gli altri tiri, quelli sono tra di loro eguali, le elevazioni de i quali superano o inancano per angoli eguali dalla semiretta; si che le palle tirate dall’orizonte, una secondo l’elevazione di 7 punti e l’altra di 5, andranno a ferir su l’orizonte in lon- tananze eguali, e cosî eguali saranno 1 tiri di 8 e di 4 punti. di 9 e di 5, etc. Or sentiamone la dimostrazione. 574 GALILEO GALILEI THEOREMA, PROPOSITIO VIII. Amplitudines parabolarum a proiectis eodem impetu explosis factarum, iuxta elevationes per angulos aquales supra et infra a semirecto di- stantes, a2equales sunt inter se. Trianguli mc b circa angulum rectum c sint horizon- talis bc et perpendicularis c m @quales; sic enim angulus mbe semirectus eril: et extensa cm in d, supra et infra diagonalem mb constituantur in b duo anguli @quales, mbe, mbd: demonstrandum est, amplitudines parabo- larum a proiectis explosis eodem impetu ex termino b iuxta eleva- tiones angulorum ebc, dbc, esse Ù) aquales. Quia enim angulus exter- nus bme internis ndb, dbm est 5 h «aqualis, iisdem aquabitur quoque € angulus mbe: quod si loco anguli sg dbm ponamus mbe, erit idem an- g gulus mbe duobus mbe, bde ; e @qualis; et dempto communi mbe, reliquus bde reliquo ebc erit aqua- lis: sunt igitur trianguli deb, bce similes. Dividantur recta de, ec bifariam in h et f, et ducantur hi, fg horizontali cb aquidistantes, et ut dh ad hi, ita fiat ih ad hl: erit triangulus ih] similis triangulo ih d, cui etiam similis est e g f; cumque ih, g f sint @quales (dimidie nempe ipsius bc), erit fe, idest fc, equalis hl; et addita communi n erit ch ipsi fl aqualis. Si itaque intelligamus, per h et b semiparabolam esse descriptam, cuius altitudo erit h c, sublimitas vero hl, erit amplitudo eius cb, qua dupla est ad hi, media scilicet inter d h, seu ch, et h]; eamque tanget db, &aqualibus existentibus ch, hd. Quod. si, rursus, parabolam per fb descriptam concipiamus a su- blimitate £ 1 cum altitudine f c, quarum media proportio- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 375 nalis est f g, cuius dupla est horizontalis c b, erit pariter cb eius amplitudo, illamque tanget eb, cum e f, fc sint equales: distant autem anguli dbc, ebc (elevationes scilicet ipsarum) aqualiter a semirecto: ergo patet pro- positum. THEOREMA, PROPOSITIO IX. Equales sunt amplitudines parabolarum, qua- rum altitudines et sublimitates e contrario sibi respondent. Parabola fh altitudo gf ad altitudinem cb parabola bd eandem habeat rationem, quam sublimitas ba ad su- blimitatem fe: dico, ampli- tudinem hg amplitudini dc esse aqualem. Cum enim prima gf ad secundam cb eandem habeat rationem quam tertia ba ad quartam fe, rectangulum g f e, prima et quarta, aquale erit rectan- gulo cba, secunda et ter- ) tia; ergo quadrata qua hisce rectangulis @qualia sunt, aqualia erunt inter se: rectan- gulo vero gfe aquale est quadratum dimidiae gh; rec- tangulo autem cb a quale quadratum dimidia c d: ergo | quadrata hc, et eorum latera, et laterum dupla, aequalia erunt. Haec autem sunt amplitudines gh, c d: ergo patet propositum. a LEMMA PRO SEQUENTI. Si recta linea secta fuerit utcumque, quadrata mediarum inter totam et partes aequalia sunt qua- drato totius. 376 GALILEO GALILEI Secta sit ab utcunque in c: dico, quadrata linearum mediarum inter totam a b et partes a c, c b, simul sumpta, aequalia esse quadrato totius ab. Id e autem constat, descripto semicirculo super tota ba, et ex c erecta per- pendiculari c d, iunctisque da, db. E Pr: } Est enim da media inter ba, ac, estque d b media inter a b, bc; sunt- que quadrata linearum da, db, simul sumpta, aqualia quadrato totius a b, recto existente angulo ad b in semi- circulo. Ergo patet propositum. THEOREMA, PROPOSITIO X. Impetus seu momentum cuiuslibet semipara- bolae aquatur momento naturaliter cadentis in perpendiculari ad horizontem, qua tanta sit quanta est composita ex sublimitate cum altitudine semi- parabola. Sit semiparabola ab, cuius sublimitas da, altitudo vero a c, ex quibus componitur perpendicularis dc: dico, impetum semiparabola in b esse aqualem momento na- turaliter descendentis ex d in c. Ponatur È, ipsamet dc mensura esse temporis el impetus, et accipiatur media proportio- / nalis inter c d, da, cui aequalis ponatur so cf; sit insuper inter dc, ca media ce: erit iam cf mensura temporis et mo- menti descendentis per da ex quiete in d: ce vero tempus erit et momentum descendentis per ac ex quiete in a; et diagonalis ef erit momentum ex illis ,/| h compositum, hoc est semiparabole in b. Et quia de secta est utcunque in a, suntque cf, ce medie inter totam cd et partes da. ac, erunt harum nenti LA CALAMITA NATURALE DI GALILEO (Firenze, Museo Nazionale di Storia della Scienza) DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 360 quadrata, simul sumpta, aqualia quadrato totius, ex lem- mate superiori: vero iisdem quadratis aquatur quoque quadratum ipsius e f: ergo et linea e f ipsi dc @qualis est. Ex quo constat, momenta per dc et per semiparabolam ab, in c et b, esse @qualia: quod oportebat. COROLLARIUM. Hinc constat, semiparabolarum omnium, quarum alti- tudines cum sublimitatibus iuncta pares sunt, impetus quoque aquales esse. PROBLEMA, PROPOSITIO XI. Dato impetu et amplitudine semiparabola, alti- tudinem eius reperire. Impetus datus definitus sit a perpendiculo ad hori- zontem a b; amplitudo vero in horizontali sit bc: oportet, sublimitatem semiparabola reperire, cuius impetus sit ab, amplitudo vero bc. Constat ex iam demonstratis, dimidiam amplitudinem bc futuram esse g mediam proportionalem inter alti- tudinem et sublimitatem ipsius se- miparabola, cuius impetus, ex precedenti, est idem cum impetu cadentis ex quiete in a per totam ab: est propterea ba ita secanda, ut rectangulum a partibus eius contentum aquale sit quadrato di- midiae bc, qua sit bd. Hinc ap- paret, necessarium esse quod d b ; 1, 5 dimidiam ba non superet: rectan- gulorum enim a partibus contentorum maximum est, cum tota linea in partes secatur aquales. Dividatur (0) L 378 GALILEO GALILEI itaque ba bifariam in e: quod si ipsa bd aqualis fuerit be, absolutum est opus, eritque semiparabolae altitudo be, sublimitas vero ea (et ecce parabola elevationis semirecta amplitudinem, ut supra demonstratum est, omnium esse maximam ab eodem impetu descripta- rum). At minor sit bd quam dimidia ba, quae ita. secanda est, ut rectangulum sub partibus quadrato bd sit aquale. Supra ea semicirculus describatur, in quo ex a applicetur a f, aqualis b d, et iungatur f e, cui secetur pars a@qualis e g: erit iam rectangulum bga cum qua- drato eg aquale quadrato e a, cui quoque aqualia sunt duo quadrata a f, fe. Demptis itaque quadratis ge, fe aqualibus, remanet rectangulum bga &quale quadrato a f, nempe bd, et linea b d media proportionalis inter b g, ga: ex qui patet, semiparabola cuius amplitudo bc, im- petus vero ab, altitudinem esse bg, sublimitatem ga. Quod si ponatur inferius b i aqualis g a, erit hac altitudo, ia vero sublimitas semiparabola ic. Ex demonstratis hucusque possumus: PROBLEMA, PROPOSITIO XII. Semiparabolarum omnium amplitudines calculo colligere, atque in tabulas exigere, qua a proiectis eodem impetu explosis describuntur. Constat ex praedemonstratis, tunc parabolas a proiectis eodem impetu designari, cum illarum sublimitates, cum altitudinibus iuncta, aquales conficiunt perpendiculares supra horizontem: inter easdem ergo parallelas horizon- tales hac perpendiculares comprehendi debent. Ponatur itaque horizontali cb perpendicularis ba @qualis, et connectatur diagonalis ac: erit angulus acb semirectus,. gr. 45; divisaque perpendiculari ba bifariam in d, semi- parabola de erit ea, qua a sublimitate ad cum altitudine db designatur, et impetus eius in c tantus erit, quantus DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 379 est in b mobilis venientis ex quiete in a per lineam a b: et si ducatur a g aequidistans bc, reliquarum omnium se- miparabolarum quarum impetus futurus sit idem cum modo explicato, altitudines cum sublimitatibus iuncta spatium inter parallelas a g. bc explere debent. Insuper, cum iam demonstratum sit, semiparabolarum quarum tangentes @qualiter, sive supra sive infra, ab elevatione semirecta distant, amplitudines aquales esse, calculus quem pro maioribus elevationibus compilabimus, pro mi- noribus quoque deserviet. Éligimus praterea numerum partium decem milia, 10000, pro maxima amplitudine proiectionis semiparabola ad elevationem gr. 45 facta:: itaque tanta supponatur esse linea ba et amplitudo semiparabola be. e Eligimus autem numerum 10000, quia utimur in calculis tabula tangentium, cuius hic numerus congruit cum n tangente gr. 45. Iam, ad opus acce- 9 dendo, ducatur ce, angulum ecb f angulo acb maiorem (acutum ta- d men) comprehendens, sitque semi- parabola designanda, quae a linea ec tangatur, et cuius sublimitas cum © b altitudine iuncta ipsam ba adaquet. Ex tabula tangentium, per angulum datum bce tangens ipsa be accipiatur, qua bifariam dividatur in f; deinde ipsarum b f, bi (dimidia bc) tertia proportionalis repe- riatur, qua necessario maior erit quam fa. Sit igitur illa fo. Semiparabola igitur in triangulo e c b inscripta iuxta tangentem c e, cuius amplitudo est c b, reperta est altitudo bf et sublimitas f o. Verum tota bo supra parallelas a g, cb attollitur, cum nobis opus sit inter easdem contineri; sic enim tum ipsa, tum semiparabola dc, describentur a proiectis ex c impetu eodem explosis: reperienda igitur est altera huic similis (innumera enim intra angulum bc e, 380 i GALILEO GALILEI matores et minores, inter se similes, designari possunt), cuius composita sublimitas cum altitudine (homologa sci- licet ipsi bc) aquatur ba. Fiat igitur ut ob ad ba, ita amplitudo be ad cr, et inventa erit c r, amplitudo scilicet semiparabola iuxta elevationem anguli bc e, cuius subli- mitas cum altitudine iuncta spatium a parallelis ga, cb contentum adaquat: quod quarebatur. Operatio itaque talis erit: i Anguli dati bce tangens accipiatur, cuius medietati adiungatur tertia proportionalis ipsius et medietatis bc, qua sit fo; fiat deinde ut ob ad ba, ita bc ad aliam, qua sit cr, amplitudo nempe quessita. Exemplum ponamus. Sit angulus e cb gr. 50; erit eius tangens 11918, cuius dimidium, nempe b f, 5959; dimidia be 5000; harum dimidiarum tertia proportionalis 4195, qua addita ipsi b f conficit 10154 pro ipsa bo. Fiat rursus ut ob ad ba, nempe ut 10154 ad 10000, ita bc, nempe 10000 (utraque enim gr. 45 est tangens), ad aliam, et habe- bimus quesitam amplitudinem r c 9848, qualium b c (ma- xima amplitudo) est 10000. Harum autem duplae sunt amplitudines integrarum parabolarum, nempe 19696 et 20000; tantaque est etiam amplitudo parabola iuxta ele- vationem gr. 40, cum aqualiter distet a gr. 45. SAGR. Mi manca, per l’intera intelligenza di questa dimostrazione, il saper come sia vero che la terza pro- porzionale delle b f, ib sia (come dice l'Autore) necessa- riamente maggiore della f a. SAL. Tal conseguenza mi par che si possa dedurre in tal modo. Il quadrato della media di tre linee proporzio- nali è eguale al rettangolo dell’altre due; onde il quadrato della bi, o della bd ad essa eguale, deve esser eguale al rettangolo della prima f d nella terza da ritrovarsi: la qual terza è necessario che sia maggiore della fa, perché il rettangolo della b f in f a è minore del quadrato b d, ed il DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 381 mancamento è quanto il quadrato della df, come dimostra Euclide in una del secondo. Devesi anco avvertire che il punto f, che divide la tangente e b in mezo, altre molte volte cadrà sopra ’l punto a, ed una volta anco nell’istesso a; ne i quali casi è per sé noto che la terza proporzionale della metà della tangente e della bi (che da la subblimità) è tutta sopra la a. Ma l'Autore ha preso il caso dove non era manifesto che la detta terza proporzionale fusse sempre maggiore della f a, e che però, aggiunta sopra ’l punto f, passasse oltre alla parallela a g. Or seguitiamo. Non erit inutile, ope huius tabula, alteram componere, complectentem altitudines earundem semiparabolarum proiectorum ab eodem impetu; Constructio autem talis erit. elevationum Gradus Amplitudines semiparabo- larum ab eodem impetu descriptarum. 10000 9994 44 9976 43 9945 49 9902 41 9848 40 9782 39 9704 38 9612 37 9511 36 9396 35 9272 34 9136 33 8989 32 8829 531 8659 530 8481 29 8290 28 8090 DI 7880 26 7660 9 GALILEO elevationum Gradus GALILEI Altitudines semiparabolarum quarum impetus sit idem. 5173 0346 5528 5698 5868 6038 6207 6379 6546 6710 6873 7033 7190 7348 7502 7649 7796 7939 8078 8214 . 8346 elevationum Gradus DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 3853 elevationum Gradus 384 GALILEO GALILEI PROBLEMA, PROPOSITIO XIII. Ex datis semiparabolarum ambplitudinibus, in precedenti tabula digeslis, retentoque communi impetu quo unaquaque describitur, singularum se- miparabolarum altitudines elicere. Sit amplitudo data bc; impetus vero, qui semper idem intelligatur, mensura sit ob, aggregatum nempe altitudinis et sublimitatis: reperienda est ac distinguenda ipsamet altitudo; quod quidem tunc con- 1) i Mn e. sequemur, cum bo ita divisa fuerit, ut f ì ì rectangulum sub eius partibus contentum aquale sit quadrato dimidia amplitudi- d nis bc. Incidat talis divisio in f; et utra- que o b, bc secetur bifariam in d, i. Est igitur quadratum ib @aquale rectangulo b fo; quadratum vero do aquatur eidem i b rectangulo cum quadrato f d: si igitur ex quadrato do auferatur quadratum bi, quod rectangulo bfo est aquale, remanebit quadratum fd, cuius latus d f additum linea bd dabit queaesitam altitudinem bf. Componitur itaque sic ex datis: Ex quadrato dimidia bo nota aufer quadratum bi, pariter note; residui sume radicem quadratam, quam adde nota bd, et habebis altitudinem quasitam b f. Exemplum. Invenienda sit altitudo semiparabola ad elevationem gr. 55 descripta. Ambplitudo, ex pracedenti tabula, est 9396; eius dimidium est 4698; quadratum ipsius 22071204; hoc dempto ex quadrato dimidia b 0, quod sem- per idem est, nempe 25000000, residuum est 2928796, cuius radix quadrata 1710 proxime. Hac dimidia bo, nempe 5000, addita, exhibet 6710; tantaque est altitudo b f. Non erit inutile, tertiam exponere tabulam, altitudines et sublimitates continentem semiparabolarum, quarum eadem futura sit amplitudo. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 385 SAGR. Questa vedrò io molto volentieri, mentre che per essa potrò venir in cognizione della differenza de gl’impeti e delle forze che si ricercano per cacciar il proietto nella medesima lontananza con tiri che chiamano di volata; la qual differenza credo che sia grandissima secondo le diverse elevazioni: si che, per esempio, se altri volesse alla elevazione di 3 o 4 gradi, o di 87 o 88, far cader la palla dove fu cacciata alla elevazione di 45 (dove si è mostrato ricercarsi l’impeto minimo), credo si ricercherebbe un eccesso immenso di forza. SAL. V. S. stima benissimo; e vedrà che per eseguire l’opera intera in tutte l’elevazioni, bisogna andar a gran passo verso l’impeto infinito. Or veggiamo la costruzzione della tavola. 25. - G. Galilei, Opere - II. GALILEO GALILEI Tabula continens altitudines et sublimitates semiparabolarum quarum amplitudines eadem sint, partium scilicet 10000, ad singulos gradus elevationis calculata. si all. ala lidia ilo rvanvib dl arl 1 87 286533 99 2020 12376 9 175 142450 93 2193 11778 3 962 95802 2A 29%6 11230 Abano 71531 8 2332 10722 5 437 * 57142 29 | 2439 10253 3 525 47573 97 2547 9814 dd Hi suda ie i 40716 98 2658 9104 Sun 02 35587 29 2772 9020 o | 7 31565 30 2887 8659 i0ibdlaresi 28367 31 3008 8336 ii. (979 25720 32 3124 8001 12 | 1063 93318 33 3247 7699 13 | 1154 21701 34 3373 7413 14 1246 20056 35 3501 TA4A 15 1339 18663 36 3633 6882 16 1434 17405 37 3768 6635 17 1529 16355 38 3906 6395 18 1624 15389 39 4049 6174 19 1729 14529 40 4196 0959 20 1820 13736 41 4346 5792 21 19199» 13024 42 4502 0053 ser DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE alt. 11779 12375 13025 13237 14521 15388 16354 174537 18660 (S Sì 25 Ul dI =] a 143181 286499 infinita 1819 1721 1624 | 1528 1433 1339 1246 1154 | 1062... 972 | 881 | 792 702 613 5925 437 349 262 | 388 GALILEO GALILEI PROPOSITIO XIV. Altitudines atque sublimitates semiparabola- rum, quarum amplitudines aquales futura sint, per singulos elevationis gradus reperire. Hac omnia facili negotio consequemur: posita enim semiparabolae amplitudine partium semper 10000, me- dietas tangentis cuiuslibet gradus elevationis altitudinem exhibet. Ut, exempli gratia, semiparabola, cuius elevatio sit gr. 30, amplitudo vero, ut ponitur, partium 10000, al- titudo erit 2887; tanta enim est proxime medietas tan- gentis. Inventa autem altitudine, sublimitatem eliciemus tali pacto. Cum demonstratum sit, dimidiam amplitu- dinem semiparabola mediam esse proportionalem inter altitudinem et sublimitatem, sitque altitudo iam reperta, medietas vero amplitudinis sempre eadem, partium sci- licet 5000, si huius quadratum per altitudinem datam di- viserimus, sublimitas queesita exurget. Ut, in exemplo, altitudo reperta fuit 2887; quadratum partium 5000 est 25000000; quod divisum per 2887, dat 8659 proxime pro sublimitate quassita. SAL. Or qui si vede, primieramente, come è verissimo il concetto accennato di sopra, che nelle diverse eleva- zioni, quanto più si allontanano dalla media, o sia nelle più alte o nelle più basse, tanto si ricerca maggior impeto e violenza per cacciar il proietto nella medesima lonta- nanza. Jmperò che, consistendo l’impeto nella mistione de i due moti, orizontale equabile e perpendicolare na- turalmente accelerato, del qual impeto vien ad esser mi- sura l’aggregato dell'altezza e della sublimità, vedesi dalla proposta tavola, tale aggregato esser minimo nel- l'elevazione di gr. 45, dove l’altezza e la sublimità sono eguali, cioè 5000 ciascheduna, e l’aggregato loro 10000: che se noi cercheremo ad altra maggiore altezza, come, . DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE ‘389 ‘per esempio, di gr. 50, troveremo l'altezza esser 5959, e la sublimità 4196, che giunti insieme sommano 10155; e tanto troveremo parimente esser l’impeto di gr. 40, es- sendo questa e quella elevazione egualmente lontane dalla media. Dove doviamo secondariamente notare, esser vero che eguali impeti si ricercano a due a due delle eleva- zioni distanti egualmente dalla media, con questa bella alternazione di pit, che l’altezze e le sublimità delle su- periori elevazioni contrariamente rispondono alle subli- mità ed altezze delle inferiori; si che dove, nell'esempio proposto, nell’elevazione di 50 gr. l’altezza è 5969 e la sublimità 4196, nell’elevazione di gr. 40 accade all’in- contro l'altezza esser 4196 e la sublimità 5959: e l’istesso accade in tutte l’altre senza veruna differenza, se non in quanto, per fuggir il tedio del calcolare, non si è tenuto conto di alcune frazzioni, le quali in somme cosî grandi non sono di momento né di progiudizio alcuno. SAGR. Io vo osservando, come delli due impeti ori- zontale e perpendicolare, nelle proiezzioni, quanto più sono sublimi, tanto meno vi si ricerca dell’orizontale, e molto del perpendicolare; all'incontro, nelle poco elevate grande bisogna che sia la forza dell’impeto orizontale, che a poca altezza deve cacciar il proietto. Ma se ben io capisco benissimo, che nella totale elevazione di gr. 90, per cacciar il proietto un sol dito lontano dal perpen- dicolo, non basta tutta la forza del mondo, ma neces- sariamente deve egli ricadere nell’istesso luogo onde fu cacciato; non però con simil sicurezza ardirei di affer- mare, che anco nella nulla elevazione, cioè nella linea orizontale, non potesse da qualche forza, ben che non in- finita, esser in alcuna lontananza spinto il proietto, si che, per esempio, né anco una colubrina sia potente a spignere una palla di ferro orizontalmente, come dicono, di punto bianco, cioè di punto niuno, che è dove non si da elevazione. Io dico che in questo caso resto con ‘390 GALILEO GALILEI qualche ambiguità: e che io non neghi resolutamente il fatto, mi ritiene un altro accidente, che par non meno strano, e pure ne ho la dimostrazione concludente neces- sariamente. E l’accidente è l’esser impossibile distendere una corda si, che resti tesa dirittamente e parallela al- l’orizonte; ma sempre fa sacca e si piega, né vi è forza che basti a tenderla rettamente. SAL. Adunque, Sig. Sagredo, in questo caso della corda cessa in voi la maraviglia circa la stravaganza del- l'effetto, perché ne avete la dimostrazione; ma se noi ben considereremo, forse troveremo qualche corrispondenza tra l’accidente del proietto e questo della corda. La curvità della linea del proietto orizontale par che derivi dalle due forze, delle quali una (che è quella del proiciente) lo caccia orizontalmente, e l’altra (che è la propria gravità) lo tira in gia a piombo. Ma nel tender la corda vi sono le forze di coloro che orizontalmente la tirano, e vi è an- cora il peso dell’istessa corda, che naturalmente inclina al basso. Son dunque queste due generazioni assai simili. E se voi date al peso della corda tanta possanza ed energia di poter contrastare e vincer qual si voglia im- mensa forza che la voglia distendere drittamente, perché vorrete negarla al peso della palla? Ma più voglio dirvi, recandovi insieme maraviglia e diletto, che la corda cosi tesa, e poco o molto tirata, si piega in linee, le quali assai si avvicinano alle paraboliche: e la similitudine è tanta, che se voi segnerete in una superficie piana ed eretta al- l’orizonte una linea parabolica, e tenendola inversa, cioè col vertice in giù e con la base parallela all’orizonte, fa- cendo pendere una catenella sostenuta nelle estremità della base della segnata parabola, vedrete, allentando più o meno la detta catenuzza, incurvarsi e adattarsi alla medesima parabola, e tale adattamento tanto più esser preciso, quanto la segnata parabola sarà men curva, cioè più distesa: sf che nelle parabole descritte con elevazioni DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 391 sotto a i gr. 45, la catenella camina quasi ad unguem sopra la parabola. SAGR. Adunque con una tal catena sottilmente lavo- rata si potrebbero in un subito punteggiar molte linec paraboliche sopra una piana superficie. SAL. Potrebbesi, ed ancora con qualche utilità non piccola, come appresso vi dirò. SIMPL. Ma prima che passar più avanti, vorrei pur io ancora restar assicurato almeno di quella proposi- zione della quale voi dite essercene dimostrazione neces- sariamente concludente; dico dell’esser impossibile, per qualunque immensa forza, fare star tesa una corda drit- tamente ed equidistante all’orizonte. SAGR. Vedrò se mi sovviene della dimostrazione; per intelligenza della quale bisogna, Sig. Simplicio, che voi supponghiate per vero quello che in tutti gli strumenti mecanici, non solo con l’esperienza, ma con la dimo- strazione ancora, si verifica: e questo è, che la velocità del movente, ben che di forza debole, può superare la resistenza, ben che grandissima, di un resistente che lentamente debba esser mosso, tutta volta che maggior proporzione abbia la velocità del movente alla tardità del resistente, che non ha la resistenza di quel che deve esser mosso alla forza del movente. SIMPL. Questo mi è notissimo, e dimostrato da Ari- stotele nelle sue Quistioni Mecaniche; e manifestamente si vede nella leva e nella stadera, dove il romano, che non pesi più di 4 libbre, leverà un peso di 400, mentre che la lontananza di esso romano dal centro, sopra ‘l quale si volge la stadera, sia più di cento volte maggiore della distanza .:dal medesimo centro di quel punto dal quale pende il gran peso: e questo avviene, perché, nel calar che fa il romano, passa spazio pit di cento volte maggiore dello spazio -per il quale nel medesimo tempo monta il gran peso; che è l’istesso che dire, che il piccolo 392 GALILEO GALILEI ‘romano si muove con velocità più che cento volte mag- giore della velocità del gran peso. SAGR. Voi ottimamente discorrete, e non mettete dubbio alcuno nel concedere, che per piccola che sia la forza del movente, supererà qualsivoglia gran resistenza, tutta volta che quello più avanzi di velocità, ch’ei non cede di vigore e gravità. Or venghiamo al caso della corda: e segnando un poco di figura, intendete per ora, questa linea ab, passando sopra i due punti fissi e stabili a, b, aver nelle estremità sue pendenti, come vedete, due im- mensi pesi c, d, li quali, tirandola con grandissima forza, la facciano star veramente te- sa dirittamente, essendo essa una semplice linea, senza veruna gravità. Or qui vi soggiungo e dico, che se dal mezo di quella, che sia il punto e, voi sospenderete qualsivoglia piccolo peso, quale sia questo h, la linea a b cederà, ed inclinandosi verso il punto f, ed in consequenza allungandosi, costrignerà i due gravissimi pesi c, d a salir in alto: il che in tal guisa vi dimostro. Intorno a i due punti a, b, come centri, descrivo 2 quadranti, eig, elm; ed essendo che li due semidiametri ai, bl sono eguali alli due ae, eb, gli avanzi fi, fl saranno le quantità de gli allun- gamenti delle parti af, fb sopra le ae, eb, ed in conse- guenza determinano le salite de i pesi c, d, tutta volta però che il peso h avesse auto facoltà di calare in f: il che al- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 393 lora potrebbe seguire, quando la linea ef, che è la quantità della scesa di esso peso A, avesse maggior proporzione alla linea fi, che determina la salita de i due pesi c, d, che non ha la gravità di amendue essi pesi alla gravità del peso h. Ma questo necessariamente avverrà, sia pur quanto si voglia massima la gravità de i pesi c, d, e mi- nima quella dell’h: imperò che non è si grande l’eccesso de i pesi c, d sopra ’l peso h, che maggiore non possa essere a proporzione l’eccesso della tangente e f sopra la parte della segante fi. Il che proveremo così. Sia il cerchio, il cui diametro gai; e qual proporzione ha la gravità de i pesi c, d alla gravità di h, tale la abbia la linea bo ad un’altra, che sia c, della quale sia minore la d, si che maggior proporzione arà la bo alla d che alla c. Prendasi delle due ob, d la terza proporzionale be, e come 0 e ad e b, così si faccia il diametro gi (prolungan- dolo) all’i f, e dal termine f tirisi la tangente fn; e perché si è fatto, come oe ad eb, cosi gi ad if, sarà, compo- nendo, come ob a be, cosi gf ad fi: ma tra ob e be media la d, e tra g f, fi media la n f: adunque n f alla fi ha la medesima proporzione che la ob alla d, la qual proporzione è maggiore di quella de i pesi c, d al peso h. Avendo dunque maggior proporzione la scesa 0 velocità del peso h alla salita o velocità dei pesi c, d, che non ha la gravità di essi pesi c, d alla gravità del peso h; resta manifesto che il peso f descenderà, cioè la linea a b par- tira dalla rettitudine orizontale. E quel che avviene alla retta a db priva di gravità, mentre si attacchi in e qualsi- voglia minimo peso h, avviene all'istessa corda a b intesa di materia pesante, senza l'aggiunta di alcun altro grave; poiché vi si sospende il peso istesso della materia com- ponente essa corda a b. SIMPL. Io resto satisfatto a pieno: però potrà il Sig. Salviati, conforme alla promessa, esplicarci qual sia l'utilità che da simile catenella si può ritrarre, e, dopo 26. - G. Galilei, Opere - Il. 394 GALILEO GALILEI questo, arrecarci quelle specolazioni che dal nostro Ac- cademico sono state fatte intorno alla forza della percossa. SAL. Assai per questo giorno ci siamo occupati nelle contemplazioni passate: l’ora, che non poco è tarda, non ci basterebbe a gran segno per disbrigarci dalle nominate materie; però differiremo il congresso ad altro tempo più opportuno. SAGR. Concorro col parere di V. S., perché da diversi ragionamenti auti con amici intrinseci del nostro Acca- demico ho ritratto, questa materia della forza della per- cossa essere oscurissima, né di quella sin ora esserne, da chiunque ne ha trattato, penetrato i suoi ricetti, pieni di tenebre ed alieni in tutto e per tutto dalle prime imma- ginazioni umane; e tra le conclusioni sentite profferire me ne resta in fantasia una stravagantissima, cioè che la forza della percossa è interminata, per non dir infinita. Aspetteremo dunque la commodità del Sig. Salviati. Ma intanto dicami che materie sono queste, che si veggono scritte dopo il trattato de i proietti. SAL. Queste sono alcune proposizioni attenenti al centro di gravità de i solidi, le quali in sua gioventii andò ritrovando il nostro Accademico, parendogli che quello che in tal materia aveva scritto Federigo Comandino non mancasse di qualche imperfezzione. Credette dunque con queste proposizioni, che qui vedete scritte, poter supplire a quello che si desiderava nel libro del Comandino; ed applicossi a questa contemplazione ad instanza dell’Il- lustrissimo Sig. Marchese Guid’'Ubaldo Dal Monte, gran- dissimo matematico de’ suoi tempi, come le diverse sue opere publicate ne mostrano, ed a quel Signore ne dette copia, con pensiero di andar seguitando cotal materia anco ne gli altri solidi non tocchi dal Comandino; ma incontratosi, dopo alcun tempo, nel libro del Sig. Luca Valerio, massimo geometra, e veduto come egli risolve tutta questa materia senza niente lasciar in dietro, non DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 395 seguitò più avanti, ben che le aggressioni sue siano per strade molto diverse da quelle del Sig. Valerio. SAGR. Sarà bene dunque che in questo tempo che sintermette tra i nostri passati ed i futuri congressi, V. S. mi lasci nelle mani il libro, che io tra tanto anderò vedendo e studiando le proposizioni conseguentemente scrittevi. SAL. Molto volentieri eseguisco la vostra domanda, e spero che V. S. prenderà gusto di tali proposizioni. APPENDIX in qua continentur theoremata eorumque demonstra- tiones, quae ab eodem Autore circa centrum gravitatis solidorum olim conscripta fuerunt. POSTULATUM. Petimus, eequalium ponderum similiter in diversis libris dispositorum, si horum quidem compositorum cen- trum gravitatis libram secundum aliquam rationem divi- serit et illorum etiam gravitatis centrum libram secundum eandem rationem dividere. LEMMA. Sit linea ab bifariam in c secta, cuius medietas ac divisa sit in e; ita ut quam rationem habet be ad ea, hanc habeat ae ad ec. Dico, be ipsius ea duplam esse. Quia enim ut be ad ea, Quizu ipa albi rho crpi Vitasto alad$e,crerit i ii nendo et permutando, ut ba ad ac, ita ae ad ec; est autem ut ae ad ec, nempe ut ba adac, ita be ad ea: quare be ipsius ea dupla est. His positis demonstratur: Si magnitudines quotcunque sese aequaliter excedentes, et quarum excessus earum mi- nima sint a@quales, ita in libra disponantur, ut ex di- stantiis aqualibus pendeant, centrum gravitatis omnium libram ita dividere, ut pars versus minores reliqua sit dupla. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 397 In libra itaque ab ex distantiis sequalibus pendeant quotcunque numero magnitudines f, g, h, k, n, quales dictum est, quarum minima sit n; sintque puncta suspen- sionum a, c, d, e, b, sitque omnium magnitudinum sic dispositarum gravitatis centrum x. Ostendendum est, par- tem libre db x, versus minores magnitudines, relique x a duplam esse. Dividatur libra bifariam in puncto d, quod vel in aliquo puncto suspensionum, vel in duarum suspensionum medio cadet necessario; reliquae vero suspensionum di- stantize, que inter a et d intercipiuntur, omnes bifariam dividantur punctis m, i; magnitudines deinde omnes in partes ipsi n «- quales dividan- tur: erunt iam partes ipsius f tot numero, quot sunt quee ex libra pen- dent magnitudi- nes; partes vero ipsius g erunt una pauciores; et sic de reliquis. Sint itaque ipsius f partes n, 0, r, s, t; ipsius g vero, n, 0, r, s; ipsius h quoque, n, 0, r; ipsius denique k sint n, 0: eruntque magnitudines omnes in quibus n, ipsi f sequales; magnitudines vero omnes in quibus 0, ipsìi g sequales; et magnitudines in quibus r, ipsi h; ille autem in quibus s, ipsi k; et magnitudo t ipsi n sequalis est. Quia igitur magnitudines omnes, in quibus n, inter se sunt equales, eque ponderabunt in signo d, quod libram ab bifariam dividit; et eandem ob causam omnes magni- tudines, in quibus 0, eque ponderant in i; ille autem, in quibus r, in c; et in quibus s, in m aeque ponderant; i autem in a suspenditur. Sunt igitur in libra ad, ex di- stantiis equalibus d, i, c, m, a, suspense magnitudines sese sequaliter excedentes, et quarum excessus minime equatur: maxima autem, quee est composita ex omnibus n, 398 GALILEO GALILEI pendet ex d; minima, que est f, pendet ex a; et reliqua ordinate dispositae sunt. Estque rursus alia libra ab; in qua magnitudines alia, preedictis numero et magnitudine eequales, eodem ordine disposite sunt: quare libre a b, ad a centris omnium magnitudinum secundum eandem rationem dividentur. Est autem centrum gravitatis dicta- rum magnitudinum x: quare x dividit libras db a, ad sub eadem ratione, ita ut sicut b x ad xa, ita xa ad xd; quare b x dupla est ipsius x a, ex lemmate supra posito. Quod erat probandum. Si conoidi parabolico figura inscribatur, et altera cir- cumscribatur ex cylindris equalem altitudinem habenti- bus, et axis dicti conoidis dividitur ita ut pars ad verticem partis ad basin sit dupla; centrum gravitatis inscripta figura basi portionis, dicto puncto divisionis, erit propin- quius; centrum autem gravitatis circumscripta a basi conoidis eodem puncto erit remotius; eritque utrorumque centrorum a tali puncto distantia aequalis linea, qua sit pars sexta altitudinis unius cylindri ex quibus figura constant. Sit itaque conoidale parabolicum, et figure quales dicte sunt: altera sit inscripta, altera circumscripta; et axis conoidis, qui sit a e, dividatur in n, ita ut a n ipsius ne sit dupla. Ostendendum est, centrum gravitatis in- scriptee figura esse in linea ne, circumscripte autem cen- trum esse in a n. Secentur figure ita disposite plano per axem, et sit sectio parabole bac; plani autem secantis, et basis conoidis, sectio sit b c linea; cylindrorum autem sectiones sint rectangulee figure: ut in descriptione ap- paret. Primus itaque cylindrus inscriptorum cuius axis est de, ad cylindrum cuius axis est d y, eandem habet rationem quam quadratum id ad quadratum s y, hoc est quam da ad ay; cylindrus autem cuius axis est d y ad cylindrum yz est ut sy ad rz potentia, hoc est ut y a ad DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 399 az; et cadem ratione cylindrus cuius axis est zy; ad eum, cuius axis est zu, est ut za ad au. Dicti itaque cylindri sunt inter se ut linee da, ay, za, au: iste autem sunt sese eequaliter excedentes, et est excessus sequalis minime, ita ut az du- pla sit ad au; ay autem eius- dem est tripla, et da quadrupla. Sunt igitur dicti cylindri ma- gnitudines queedam sese ad in- vicem eequaliter excedentes, qua- rum excessus aequantur earum minima; et est linea x m, in qua ex distantiis sequalibus su- spense sunt (unumquodque enim cylindrorum centrum gravitatis habet in medio axis): quare, per ea que superius demon- strata sunt, centrum gravitatis magnitudinis ex omnibus composite dividet lineam x m, ita ut pars ad x relique sit dupla. Dividatur itaque, et sit xa ipsius am dupla; est ergo a centrum gravitatis inscripte figure. Dividatur au bifariam in «; erit ex dupla ipsius me: est autem x a dupla ipsius a m; quare ee tripla erit e a. Est autem ae tripla ipsius e n; constat ergo, en maiorem esse quam e a, et ideo a. quod est centrum figure inscripte, magis ac- cedere ad basin conoidis quam n. Et quia est ut ae ad en ita ablatum se ad ablatum e a, erit et reliquum ad reliquum, idest ae ad na, ut ae ad en. Est ergo an tertia pars ipsius a e, et sexta ipsius a u. Fodem autem pacto cylindri circumscripte figure demonstrabuntur esse sese sequaliter excedentes, et esse excessus sequales minimo, et habere in linea e m centra gravitatum in di- stantiis equalibus. Si itaque dividatur em in 2, ita ut ex relique xm sit dupla, erit a centrum gravitatis totius circumscripte magnitudinis: et, cum ex dupla sit ad x m, ae autem minor sit quam dupla ad em (cum ei sit 400 | . GALILEO GALILEI equalis), erit tota a e minor quam tripla ipsius ex; quare ex maior erit ipsa en. Et cum em tripla sit ad ma, et me cum duabus ea similiter tripla sit ad me, erit tota ae cum ae tripla ad e x. Est autem ae tripla ad en; quare reliqua a reliquee x n tripla erit. Est igitur na sexta pars ipsius a u. Haec autem sunt, que demonstranda fuerunt. Ex his manifestum est, posse conoidi parabolico figu- ram inscribi, et alteram circumscribi, ita ut centra gra- vitatum earum a puncto n minus quacunque proposita linea distent. Si enim sumatur linea propositae lines sexcupla, fiantque cylindrorum axes, ex quibus figure componuntur, hac sumpta linea minores; erunt, quae inter harum figurarum centra gravitatum et signum n cadunt lineze, proposita linea minores. ALITER IDEM. Axis conoidis, qui sit cd, dividatur in 0, ita ut co ipsius o d sit dupla. Ostendendum est, centrum gravitatis inscripte figure esse in linea od; circumscripte vero centrum esse .in co. Secentur figure plano per axem et c, ut dictum est. Quia igitur cylindri, sn, tm, vi, xe sunt inter se ut quadrata linearum sd, tn,vm, x i; haec autem sunt inter se ut linee nc, cm, ci, ce; he autem sunt sese sequaliter excedentes, et excessus sequantur minime, nempe ce; estque cylindrus tm cylindro gn equalis; cylindrus autem vi ipsi pn, et xe ipsi Ln equatur; ergo cylindri sn, gn, pn, In sunt sese equaliter excedentes, et excessus eequantur minimo eorum, nempe cylindro /n. Fst autem excessus cylindri sn super cylindrum gn anulus, cuius altitudo DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 401 est gt, hoc est nd, latitudo autem sg; excessus autem cylindri gn super pn est anulus, cuius latitudo est qp; excessus autem cylindri pn super In est anulus, cuius latitudo pl. Quare dicti anuli sq, gp, pl sunt inter se sequales et cylindro n. Anulus igitur s £ equatur cylindro xe; anulus go, qui ipsius st est duplus, sequatur cylindro vi, qui similiter cylindri x e duplus est; et eamdem ob causam anulus px cylindro tm, et cylindrus le cylindro sn aqualis erit. In libra itaque kf, puncta media rectarum ei, dn connectente, et in partes equales punctis h, g secta, sunt magnitudines quedam, nempe cylindri sn, fm, vi, xe; et gravitatis centrum primi cylindri est k, secundi vero est h, tertii g, quarti f. Habemus autem et aliam libram mk, que est ipsius fk dimidia, totidemque punctis in partes #equas distributa, nempe mh, hn, nk; et in ea alie magnitu- dines, illis quee sunt in libra f K numero et magnitudine eequales, et centra gravitatum in signis m, h, n, k haben- tes, et eodem ordine disposite, sunt. Cylindrus enim le centrum gravitatis habet in m, et aequatur cylindro sn centrum habenti in k: anulus vero px centrum habet h, et equatur cylindro tm cuius centrum est h; et anulus go, centrum habens n, sequatur cylindro vi, cuius cen- trum est g; et denique anulus st, centrum habens k, sequatur cylindro x e, cuius centrum est f. Igitur centrum gravitatis dictarum magnitudinum libram dividet in eadem ratione: carumdem vero unum est centrum, ac propterea punctum aliquod utrique libre commune, quod sit y. Itaque fy ad yk erit ut ky ad ym; est ergo fy dupla ipsius y k; et, divisa ce bifariam in z, erit zf dupla ipsius kd, ac propterea zd tripla ipsius d y. Recta vero do tripla est cd: maior est ergo recta do, quam dy; ac propterea y centrum inscripte magis ad basin accedit, quam punctum o. Et, quia ut cd ad do, ita est ablatum zd ad ablatum dy, erit et reliquum cz 402 GALILEO GALILEI ad reliquum yo, ut cd ad do: nempe yo tertia pars erit ipsius c z, hoc est pars sexta ipsius c e. Fadem prorsus ratione demonstrabimus, cylindros circumscriptae figure sese aequaliter excedere, et esse excessus sequales minimo, et ipsorum centra gravitatum in distantiis sequalibus li- bre kz constituta; et, pariter, anulos iisdem cylindris eequales similiter disponi in altera libra kg, ipsius kz dimidia; ac propterea circumscriptae gravitatis centrum, quod sit r, libras ita dividere, ut zr ad r k sit ut kr ad rg. Erit ergo zr dupla ipsius rk; cz vero recte kd eequalis est, et non dupla; erit tota c d minor quam tripla ipsius dr; quare recta dr maior est quam do: scilicet centrum circumscripte a basi magis recedit, quam punc- tum o. Et quia z k tripla est ad kr, et kd cum duabus zc tripla ad kd, erit tota cd cum cz tripla ipsius dr. Fst autem cd tripla ad do: quare reliqua cz relique ro tripla erit; scilicet or sexta pars est ipsius e c. Quod est propositum. His autem prademonstratis, demonstratur, centrum gravitatis parabolici conoidis axem ita dividere, ut pars ad verticem relique ad basin sit dupla. Esto parabolicum conoidale, cuius axis sit a b, divisus in n ita ut an ipsius nb sit dupla. Ostendendum est, centrum gravitatis conoidis esse n punctum. Si enim non est n, aut infra ipsum, aut supra ipsum, erit. Sit, primum, infra, sitque x; et exponatur linea /o ipsi n x aequalis, et lo contingenter dividatur in s; et quam rationem habet utraque simul b x, 0s ad 0s, hance habeat conoidale ad solidum r; et inscribatur conoidi figura ex cylindris aequa- lem altitudinem habentibus, ita ut que inter illius cen- trum gravitatis et punctum n intercipitur, minor sit quam ls; excessus autem, quo a conoide superatur, minor sit solido r. Hoc autem fieri posse, clarum est. Sit itaque inscripta, cuius gravitatis centrum sit i: erit iam ix maior s0; et quia est, ut x b cum so ad so, ita conoidale ad r DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 403 (est autem r maius excessu quo conoidale fisuram in- scriptam superat), erit conoidalis ad dictum excessum proportio, maior quam utriusque Dx, 0 s ad so; et, di- videndo, figura inscripta ad dictum excessum maiorem rationem habebit quam bx ad so. Habet autem bx ad xi proportionem adhuc minorem quam ad so: inscripta igitur figura ad reliquas portiones multo maio- rem proportionem habebit quam b x ad xi. Quam igitur proportionem habet inscripta figura ad reliquas portiones, alia queedam linea habebit ad xi: que necessario maior erit quam bx. Sit igitur mx. Habemus itaque centrum. gravitatis conoidis x; figure autem in ipso inscripte centrum gravitatis est i: reliquarum ergo portionum, quibus conoidale in- scriptam figuram excedit, gravitatis centrum erit in linea xm, atque in eo ipsius puncto in quo sic terminata fuerit ut, quam proportionem habet inscripta figura ad excessum quo a conoidale superatur, candem ipsam habeat ad xi. Ostensum autem est, hanc proportionem esse illam quam habet mx ad xi; erit ergo m gravi- tatis centrum earum portionum quibus conoidale excedit inscriptam figuram: quod certe esse non potest; nam, si per m ducatur planum basi conoidis sequidistans, erunt omnes dicte portiones versus eandem partem, nec ab eo dividentur. Non est igitur gravitatis centrum ipsius conoidis infra punctum n. Sed neque supra. Sit enim, si fieri potest, h; et rursus, ut supra, exponatur linea lo sequalis ipsi h n, et contingenter divisa in s; et quam pro- portionem habet utraque simul bn, so ad sl, hanc habeat conoidale ad r: et conoidali circumscribatur figura ex cylindris, ut dictum est, a qua minori quantitate exce- datur, quam sit solidum r: et linea inter centrum gravi- tatis circumscripte et signum n sit minor quam so: erit a 404 GALILEO GALILEI residua uh maior quam /s; et quia est, ut utraque b n, os ad sl, ita conoidale ad r (est autem r maius excessu quo conoidale a circumscripta superatur), ergo bn, so ad sl minorem rationem habet quam conoidale ad dictum excessum. Est autem bu minor quam utraque b n, SO; uh autem, maior quam sl: multo igitur maiorem ratio- nem habet conoidale ad dictas portiones, quam bu ad uh. Quam igitur rationem habet conoidale ad easdem portiones, hanc habebit ad uh linea maior ipsa bu. Habeat, sitque ea mu; et, quia centrum gravitatis cir- cumscripte figure est u, centrum vero conoidis est h, atque est ut conoidale ad residuas portiones ita mu ad uh, erit m centrum gravitatis residuarum portionum: quod similiter est impossibile. Non est ergo centrum gra- vitatis conoidis supra punetum n: sed demonstratum est, quod neque infra: restat ergo ut in ipso n sit necessario. Et eadem ratione demonstrabitur de conoide plano super axe non erecto secto. Aliter, idem, ut constat in sequenti, centrum gravitatis conoidis parabolici inter centrum cir- cumscripte figure et centrum inscripte cadit. Sit conoidale, cuius axis ab; et centrum circumscripte sit c, inscripte vero sit o. Dico, centrum conoidis inter c, o puncta esse. Nam, si non, infra vel supra vel in altero eorum erit. Sit infra, ut in r: et, quia r est centrum gra- vitatis totius conoidis, inscripte autem fi- a gura est gravitatis centrum o, reliquarum ergo portionum, quibus inscripta figura a conoide superatur, centrum gravitatis erit c in linea or ad partes r extensa, atque in P i eo puncto in quo sic terminatur, ut quam rationem habent dicta portiones ad inscrip- tam, eandem habeat or ad lineam inter r et punctum illud cadentem. Sit heec ratio illa quam habet or ad rx. Aut igitur x cadet extra conoidem, aut intra, aut in ipsa basi. Si vel extra, vel in basi cadat, iam DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 405 DI manifestum est absurdum. Cadat intra: et, quia xr ad ro est ut inscripta figura ad excessum quo a conoide su- peratur, rationem illam quam habet br ad ro, ecandem habeat inscripta figura ad solidum k, quod necessario minus erit dicto excessu; et inscribatur alia figura, que a conoide superetur minori quantitate quam sit k, cuius gravitatis centrum cadet intra oc. Sit u: et, quia prima figura ad k est ut br ad ro, secunda autem figura, cuius centrum u, maior est prima, et a conoide exceditur mi- nori quantitate quam sit k, quam rationem habet secunda figura ad excessum quo a conoide superatur, hane habebit ad ru linea maior ipsa br. Est autem r centrum gravi- tatis conoidis; inscripte autem secunde, u: centrum ergo reliquarum portionum erit extra conoidem, infra b; quod est impossibile. Et eodem pacto demonstrabitur, centrum gravitatis eiusdem conoidis non esse in linea ca. Quod autem non sit alterum punctorum c, o, manifestum est. Si enim dicas esse, descriptis aliis figuris, inscripta quidem maiori illa cuius centrum o, circumscripta vero minore ea cuius centrum c, centrum conoidis extra harum figu- rarum centrum caderet; quod nuper, impossibile esse, conclusum est. Restat ergo ut inter centrum circumscripte et inscriptee figuree sit. Quod si ita est, necessario erit in signo illo, quod axem dividit ut pars ad verticem relique sit dupla. Cum enim circumscribi et inscribi possint fisure, ita ut quee inter ipsarum centrum et dictum si- gnum cadunt linea, quacunque linea sint minores, aliter dicentem ad impossibile deduceremus: quod, scilicet, cen- trum conoidis non intra inscriptee et circumscripte centra caderet. Si fuerint tres linea proportionales, et quam propor- tionem habet minima ad excessum quo maxima minimam superat, eandem habeat linea quadam sumpta ad duas tertias excessus quo maxima mediam superat; et, item, 406 GALILEO GALILEI quam proportionem habet composita ex maxima et dupla media ad compositam ex tripla maxima et media, eandem habuerit alia linea sumpta ad excessum quo ma- xima mediam excedit; erunt amba linea sumpta simul, tertia pars maxima proportionalium. Sint tres linea proportionales ab, bc, bf: et quam proportionem habet bf ad a f, hanc habeat ms ad duas tertias ipsius ca; quam vero proportionem habet com- posita ex ab et dupla bc ad compositam ex tripla utriusque a b, bc, candem habeat alia, nempe sn, ad ac. Demonstrandum est, mn tertiam esse partem ipsius a b. Quia itaque ab, bc, bf sunt a____e__ofÎ © proportionales, erunt etiam ac, cf in eadem ratione: est igitur ut ab ad bc, ita ac ad cf; et ut tripla ab ad triplam be, ita ac ad cf. Quam itaque rationem habet tripla a db cum tripla be ad triplam cb, hanc habebit ac ad lineam minorem ipsa cfhsitamlla co. Quare, componendo et per conversionem propor- tionis, oa ad ac eandem habebit rationem, quam tripla a b cum sexcupla bc ad triplam a db cum tripla be: habet autem ac ad sn eandem rationem quam tripla a b cum tripla be ad ab cum dupla be: ex aequali igitur 0 a ad ns eandem habebit rationem, quam tripla ab cum sex- cupla bc ad ab cum dupla be. Verum tripla ab cum sexcupla bc triple sunt ad ab cum dupla be; ergo ao tripla est ad sn. Rursus: quia oc ad ca est ut tripla c b ad triplam a db cum tripla cd; est autem sicut ca ad cf, ita tripla ab ad triplam bc: ex eequali, ergo, in proportione pertur- bata, ut oc ad cf, ita erit tripla ab ad triplam ab cum tripla bc, et, per conversionem rationis, ut o f ad fc, sic tripla bc ad triplam a b cum tripla bce. Est autem, sicut cf ad fb, ita ac ad cb, et tripla ac ad triplam be; ex sequali igitur, in proportione perturbata, ut o f ad f b ita m Ss 4? DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 402 tripla ac ad triplam utriusque simul a b, bc. Tota igitur ob ad bf erit ut sexcupla ab ad triplam utriusque a b, bc; et, quia f c, ca in eadem sunt ratione et c b, ba, erit sicut fc ad ca, ita bc ad ba, et, componendo, ut fa ad ac, ita utraque ba, bc ad ba, et sic tripla ad triplam: ergo ut fa ad ac, ita composita ex tripla b a et tripla Dc ad triplam a b; quare, sicut f a ad duas tertias ipsius a c, sic composita ex tripla b a et tripla bc ad duas tertias triple ba, hoc est ad duplam ba. Sed sicut fa ad duas tertias ipsius a c, ita fb ad ms; sicut ergo f db ad ms, ita composita ex tripla ba et tripla bc ad duplam ba. Verum sicut ob ad fb, ita erat sexcupla ab ad triplam utriusque ab, bc: ergo, ex aequali, ob ad ms eandem habebit ra- tionem quam sexcupla ab ad duplam ba; quare ms erit tertia pars ipsius ob. Et demonstratum est, sn tertiam esse partem ipsius ao: constat ergo, mn ipsius ab tertiam similiter esse partem. Et hoc est quod demonstrandum fuit. Cuiuslibet frusti a conoide parabolico abscissi centrum gravitatis est in linea recta quae frusti est axis; qua in tres aquas partes divisa, centrum gravitatis in media existit, camque sic dividit, ut pars versus minorem basim ad partem versus maiorem basim, eandem habeat rationem quam maior basis ad basim minorem. A conoide, cuius axis rb, abscissum sit solidum, cuius axis be, et planum abscindens sit basi equidistans; se- cetur autem altero plano per axem super basin erectum, sitque sectio parabole urc; huius autem et plani secantis et basis sectiones sint linee recte lm, uc: erit rb dia- meter proportionis, vel diametro eequidistans; .m, uc erunt ordinatim applicata. Dividatur itaque e b in tres partes equales, quarum media sit qy; haec autem signo i ita dividatur, ut, quam rationem habet basis cuius dia- meter uc, ad basin cuius diameter fm, hoc est quam habet quadratum uc ad quadratum /m, eandem habeat 408 GALILEO GALILEI gi ad iy. Demonstrandum est, i centrum gravitatis esse frusti [mc. Exponatur linea ns aequalis ipsi br, et sx eequalis sit er; ipsarum autem ns, sx sumatur tertia proportionalis sg; et quam proportionem habet ng ad gs, hanc habeat linea b qg ad io. Nihil autem refert, si punctus o supra vel infra Im cadat. Et quia in sectione urc linee /m, uc ordinatim sunt applicate, erit ut quadratum uc ad quadratum /m, ita linea br ad re: est autem ut qua- dratum uc ad quadratum lm, ita qi ad iy, et ut br ad re, ita ns ad sx; ergo gi ad iy est ut ns ad sx. Quare ut qy pa IE ad yi, ita erit utraque ns, sx ad sx, et ut eb ad yi, ita composita ex tripla ns et tripla sx ad sx: est autem uteb ad by, ita composita ex tripla utriusque simul ns, sx ad compositam ex ns, sx: ergo ut eb ad bi, ita composita ex tripla ns et tripla sx ad compositam ex ns et dupla sx. Sunt igitur tres lines proportio- nales, ns, sx, gs; et quam proportionem habet sg ad gn, hanc habet quedam sumpta oi ad duas tertias ipsius e b, hoc est ipsius n x; quam autem proportionem composita ex ns et dupla sx, ad compositam ex tripla ns et tripla sx, eandem habet alia quedam sumpta ib ad be, hoc est ad nx. Per ea igitur, que supra de- monstrata sunt, erunt lineze illee simul sumptea tertia pars ipsius n s, hoc est ipsius r db; est ergo r db tripla ipsius b o: quare o erit centrum gravitatis conoidis ur c. Sit autem a centrum gravitatis conoidis /rm; frusti ergo ulme cen- trum gravitatis est in linea o db, atque in eo puncto qui illam sic terminat, ut quam rationem habet ulmc frustum ad rm portionem, eam habeat linea a o ad eam qua inter DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 409 o et dictum punctum intercedit. Et quia ro est due tertie ipsius rd, ra vero due tertiae ipsius re; erit reliqua 20 duze tertise reliquee e b. Et quia est, ut frustum u Ime ad portionem lr m, ita ng ad gs; ut autem ng ad gs, ita due tertie eb ad oi; duabus autem tertiis ipsius e b sequalis est linea a0; erit ut frustum ulmc ad portionem Irm, ita ao ad o i. Constat igitur, frusti ulmec gravi- tatis centrum esse punctum i, et axem ita dividere, ut pars versus minorem basin ad partem versus malorem sit ut dupla maioris basis una cum minori ad duplam minoris una cum maiori. Quod est propositum elegantius explicatum. . Si magnitudines quotcunque ita inter se disposit, ut secunda addat super primam duplum prima, tertia addat secundam triplum prima, quarta vero addat super tertiam quadruplum prime, et sic unaquaque sequentium super sibi proximam addat magnitudinem prima mul- tiplicem secundum numerum quem ipsa in ordine reti- nuerit; si, inquam, ha magnitudines ordinatim in libra ex distantiis equalibus suspendantur; centrum eequilibrii omnium compositarum libram ita dividet, ut pars versus minores magnitudines reliqua sit tripla. Esto libra LT: et magnitudines, quales dictum est, in ea pendeant, et sint A, F, G, H, K, quarum À ex T su- spensa sit prima. Dico, centrum equilibrii libram TL ita secare, ut pars versus T reliquee sit tripla. Sit TL tripla ad LI, et SL tripla LP, et QL ipsius LN, et LP ipsius LO; erunt IP, PN, NO, OL equales. Et acci- piatur in F magnitudo ipsius A dupla, in G vero alia eiusdem tripla, in H eiusdem quadrupla, et sic deinceps; et sint sumpte magnitudines ille in quibus a. Et idem fiat in magnitudinibus F, G, H, K: quum enim in Y re- liqua magnitudo, nempe b, sit sequalis A, sumatur in G 410 GALILEO GALILEI ipsius dupla, in H tripla, etc.; et sint he magnitudines sumptee, in quibus b: et eodem pacto sumantur ille, in quibus c, et in quibus d, et e. Erunt iam omnes in quibus a, eequales ipsi K; composita vero ex omnibus b aequa- bitur ipsi H; composita ex c, ipsi G; ex omnibus d vero composita equabitur F; et e, ipsi A. Et, quia TI du- pla est IL, erit I puncetum eequilibrii magnitudinis composite ex omnibus a; et, similiter, cum SP ipsius PL sit dupla, erit P_pun- ctum aquilibrii composita ex omnibus b; et. eamdem ob causam, N erit punetum equilibrii composita ex omnibus c; O, vero, composite ex d: et L ipsius e. Est igitur libra queedam TL, in qua ex distantiis equa- libus pendent magnitudines quedam K, H, G, F, A; et, rursus, est alia libra LI, in qua ex distantiis similiter sequalibus pendent totidem numero magnitudines, et eodem ordine preedictis aequales: est enim composita ex omnibus a, quae pendet ex I, equalis K pendenti ex L; et composita ex omnibus b, que pendet ex P, aequatur H pendenti ex P; et, similiter, composita ex c, que pendet ex N, aequatur G; et composita ex d, que pendet ex O, aquatur F; et e, pendens ex L, sequalis est A. Quare libre eadem ratione a centro compositarum ma- gnitudinum dividentur: unum est autem centrum com- posite ex dictis magnitudinibus: erit ergo punctum commune recte TL et recte LI, centrum; quod sit X. Itaque ut TX.ad.X.L,.ita erit LX. ad:XIypettota TL ad LI: est autem TL ipsius LI tripla: quare et TX ipsius XL tripla erit. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 411 Si magnitudines quotcumque ita sumantur, ut se- cunda addat super primam triplum prime, tertia vero super secundam addat quintuplum prime, quarta autem super tertiam addat septuplum prime, et sic deinceps uniuscuiusque augmentum super sibi proximam procedat multiplex prime magnitudinis secundum numeros con- sequenter impares, sicuti procedunt quadrata linearum sese aqualiter excedentium, quarum excessus minima sit aequalis; et in libra ex distantiis aqualibus suspendantur; omnium compositarum centrum aquilibrii libram dividet, ut pars versus minores magnitudines reliquae sit maior quam tripla, eadem vero, dempta una distantia, eiusdem minor sit quam tripla. Sint in libra BE magni- B FOD G E : : fora <|[erraro| tudines, quales dictum est, DCS a quibus auferantur magni- [ae a tudines aliquee inter se ut. [Ca {Te que in precedenti dispo- [_a_[_&_l ite fuerunt; et sint com- |__| @&_ site ; 2 4 i i ib t “ai positee ex omni us a; erun relique, in quibus c, eodem ordine distribute, sed defi- cientes maxima. Sit E D tri- pla D B, et GF tripla F B; erit D centrum ®quilibrii composite ex omnibus a; F vero, composite ex omnibus Cc: quare composite ex omnibus a, c, centrum cadet inter D et F. Sit O. Manifestum itaque est, EO ipsius OB maiorem esse quam triplam; GO vero eiusdem OB mi- norem esse quam triplam. Quod demonstrandum erat. Si cuicumque cono, vel coni portioni, ex cylindris aequalem altitudinem habentibus figura una inscribatur, et altera circumscribatur; itemque axis eius ita divi- 412 GALILEO GALILEI datur, ut pars qua inter punctum divisionis et verticem intercipitur, reliqua sit tripla; erit inscripta figura gra- vitalis centrum propinquius basi coni quam punctum illud divisionis; circumscripte vero centrum gravitatis eodem puncto erit vertici propinquius. Sit itaque conus, cuius axis nm dividatur in s ita ut ns relique sm sit tripla. Dico, cuiuscumque figure cono, ut dictum est, inscripte centrum gravitatis in axe nm consistere, et ad basin coni magis accedere quam s punctum; circumscripta vero gravitatis centrum similiter in axe nm esse, et vertici propinquius quam sit s. Intelli- gatur itaque inscripta figura ex cylin- dris, quorum axes mc, cb, be, ea equa- les sint. Primus itaque cylindrus, cuius axis mc, ad cylindrum, cuius axis c b, eamdem habet rationem quam sua basis ad basin alterius (sunt enim eorum alti- tudines sequales); heec autem ratio eadem est ei quam habet quadratum cn ad quadratum n b. Et similiter ostendetur, cylindrum, cuius axis c b, ad cylindrum, cuius axis be, eandem habere rationem quam quadratum b n ad quadratum ne; eylindrum Vero, cuius axis de, ad cylindrum circa axem e a, eam quam habet quadratum en ad quadratum na. Sunt autem linee nc, nb, ne, na sese eequaliter excedentes, et earum ex- cessus aequantur minime, nempe ipsi n a. Sunt igitur ma- gnitudines quedam, nempe inscripti cylindri, eam inter se consequenter rationem habentes, quam quadrata linearum sese aequaliter excedentium et quarum excessus minime eequantur: suntque ita dispositi in libra t i, ut singulorum centra gravitatum in ea, et in distantiis aequalibus, consi- stant. Per ea igitur que supra demonstrata sunt, constat, gravitatis centrum omnium ita compositorum libram ti DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 413 ita dividere, ut pars versus f sit maior quam tripla re- lique. Sit hoc centrum 0; est ergo to maior quam tripla ipsius oi. Verum tn tripla est ad im; ergo tota mo minor erit quam pars quarta totius m n, cuius ms pars quarta posita est. Constat ergo, signum 0 basi coni magis accedere quam s. Verum sit iam circumscripta figura constans ex cylindris, quorum axes mc, € b, be, ca, an inter se sint eequales. Similiter, ut de inscriptis, osten- detur, esse inter se sicut quadrata linearum mn, nc, bn, ne, an, que sese eequaliter excedunt, excessusque sequatur minime an; quare, per premissam, cenirum gravitatis omnium cylindrorum ita dispositorum, quod sit u, libram ri sic dividet, ut pars versus r, nempe r u, reliquae ui sit maior quam tripla; fu vero eiusdem minor erit quam tripla. Sed nt tripla est ipsius im; igitur tota um maior est quam pars quarta totius mn, cuius ms pars quarta posita est. Itaque punctum u vertici propinquius est quam punctum s. Quod ostendendum erat. Cono dato potest figura circumscribi et altera inscribi, ex cilindris 2equalem altitudinem habentibus, ita ut linea quae inter centrum gravitatis circumscripta et centrum gravitatis inscripia intercipitur, minor sit. quacumque linea proposita. Sit datus conus, cuius axis ab; data autem recta sit k. Dico: exponatur cylindrus ! equalis ei qui in cono inscribitur, altitudinem habens dimidium axis a b,etab dividatur in c, ita ut ac ipsius c b tripla sit, et quam ra- tionem habet ac ad k, hane habeat cylindrus / ad solidum x: cono autem circumscribatur figura ex cylindris equa- lem altitudinem habentibus, et altera inscribatur, ita ut circumscripta excedat inscriptam minori quantitate quam sit solidum x; sitque circumscripte gravitatis centrum e, quod cadet supra c; inscripte vero centrum sit s, cadens sub c. Dico iam, e s lineam ipsa k minorem esse. Nam, si 414 GALILEO GALILEI non, ponatur ipsi ca aequalis eo: quia igitur oe ad k eandem habet rationem quam / ad x, inscripta vero figura minor non est cylindro /, excessus autem, quo dicta figura a circumscripta superatur, minor est solido x; inscripta igitur figura ad dictum excessum maio- pi rem rationem habebit quam oe ad k. (94 . z Ratio autem o e ad k non est minor ea /\ quam habet o e ad e s, cum e s non po- natur minor k: igitur inscripta figura ad excessum, quo a circumscripta su- peratur, maiorem habet rationem quam habebit ad lineam es linea quaedam maior ipsa eo. Sit illa er; est autem I inscripta figure centrum gravitatis s; circumscripte vero centrum est e: constat ergo, reliquarum portionum, quibus circumscripta excedit inscriptam, centrum gravi- tatis esse in linea re, atque in eo puncto, a quo sic ter- minatur, ut quam rationem habet inscripta ad dictas portiones, eandem habeat linea inter e et punctum illud intercepta, ad lineam es. Hanc vero rationem habet re ad es; ergo reliquarum portionum, quibus circum- scripta superat inscriptam figuram, gravitatis centrum erit r: quod est impossibile; planum enim ductum per r basi coni aequidistans dictas portiones non secat. Falsum igitur est, lineam es non esse minorem ipsa k; erit ergo minor. Heec autem, non dissimili modo, in pyramide fieri posse, demonstrabuntur. Ex his manifestum est, cono dato posse figuram unam circumscribi et alteram inscribi, ex cylindris eequalem altitudinem habentibus, ita ut linee, que inter earum centra gravitatum, et punctum quod axem coni ita dividit IC oe ad es. Quam igitur rationem habet 7 inscripta ad dictum excessum, hanc ELA L DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 415 ut pars ad verticem relique sit tripla, intercipiuntur, quacunque data linea sint minores. Cum enim, ut demon- stratum est, dictum punctum axem dividens, ut dictum est, semper inter circumscripte et inscripte gravitatum centra reperiatur; fierique possit, ut que inter eadem centra mediat linea, minor sit quacumque linea propo- sita: multo minor eadem proposita linea sit, que inter alterum centrorum et dictum punctum axem dividens intercipitur. Cuiuslibet coni vel pyramidis centrum gravitatis axem dividit, ut pars ad verticem reliqua ad basin sit tripla. Fsto conus. cuius axis a b, et in c dividatur, ita ut ac reliquee c b sit tripla: ostendendum est, c esse gravitatis centrum coni. Nam si non est, erit coni centrum aut supra, aut infra punctum c. Sit prius infra, et sit e; et exponatur linea ! p sequalis ce, que contingenter divi- datur in n; et quam rationem habet utraque simul be, pn ad a pn, hanc habeat conus ad solidum x; et inscribatur cono solida figura ex cylindris equalem altitudinem habentibus, cuius centrum gravi- tatis a puncto c minus distet quam sit linea /n; et excessus, quo a cono superatur, minor sit solido x. Heec enim fieri posse, ex demonstratis manifestum est. Sit iam inscripta figura, qualis petitur, cuius cen- trum gravitatis sit i. Erit igitur ie linea maior quam np, cum lp sit sequalis ce; et ic, minor In: et, quia utraque simul b e, n p ad n p est ut conus ad x, excessus autem, quo conus inscriptam fisuram superat, minor est solido x, ergo conus ad dictum excessum maiorem rationem habebit quam utraque b e, n p ad n p; 416 GALILEO GALILEI et, dividendo, inscripta figura ad excessum quo a cono superatur, maiorem rationem habebit quam be ad n p. Habet autem be ad ei minorem adhuc rationem quam ad np, cum ie maior sit n p; ergo inscripta figura ad excessum quo a cono superatur, multo maiorem rationem habet quam be ad ei. Quam igitur rationem habet in- scripta ad dictum excessum, hanc habebit ad ei linea quedam maior ipsa be. Sit illa me: quia igitur me ad ei est ut inscripta figura ad excessum quo a cono supe- ratur, et est e centrum gravitatis coni, i vero est gravitatis centrum inscripte, ergo m. erit centrum gravitatis reli- quarum portionum, quibus conus inscriptam sibi figuram excedit; quod est impossibile. Non est ergo centrum gra- vitatis coni infra c punctum. Sed neque supra. Nam, si potest, sit r; et rursus sumatur linea / p contingenter in n secta; et quam rationem habet utraque simul bc, n p ad nl, hanc habeat conus ad x; et circumscribatur similiter cono figura, a qua minori quantitate superetur, quam sit solidum x; et linea, quee inter illius centrum gravitatis et c intercipitur, minor sit ipsa np. Sit iam circumscripta, cuius centrum sit o: erit reliqua or maior ipsa nl. Ét quia, ut utraque simul bc, pn ad nl, ita conus ad x, excessus Vero, quo conus a circumscripta superatur, minor est quam x, ipsa vero bo minor est quam utraque simul bc, pn, ipsa autem or maior quam In; conus igitur ad reliquas portiones, quibus a circumscripta superatur, multo maiorem rationem habebit quam bo ad or. Habeat rationem illam mo ad or: erit mo maior ipsa bc; et m erit centrum gravitatis portionum, quibus conus a cir- cumscripta superatur figura; quod est inconveniens. Non est ergo gravitatis centrum ipsius coni supra punctum c: sed neque infra, ut ostensum est: ergo erit ipsum c. Et. idem, eodem prorsus modo, in pyramide quacumque de- monstrabitur. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 417 Si fuerint quatuor linea continue proportionales; et quam rationem habet minima earum ad excessum quo maxima minimam superat, eandem habuerit linea quadam sumpta ad */, excessus quo maxima secundam superat; quam autem rationem habet linea his @qualis, maxim@, dupla secunda, et triple tertie, ad lineam aqualem quadruple maxima, quadrupla secunda, et quadrupla tertiae, candem habuerit alia quaedam sumpta ad excessum quo maxima secundam superat; erunt iste due linea, simul sumpta, quarta pars maxima proportionalium. Sint enim quatuor linese proportionales a b, bc, bd, be; et quam rationem habet be ad ea, eandem habeat fg ad */, ipsius ac; quam autem rationem habet linea aequalis ab et duplee bc et triple bd, ad equalem quadruple ipsarum a b, bc, bd, hane habeat hg ad ac. Ostenden- dum est, hf quartam esse par- tem ipsius a b. Quia igitur a b, Qu it e 40 bc, bd, be sunt proportionales, hfgaf in eadem ratione erunt etiam ac, cd, de; et ut quadrupla ipsarum ab, bc, bd ad ab cum dupla bc et tripla bd, ita quadrupla ipsarum ac, cd, de, hoc est quadrupla ipsius ae, ad ac cum dupla cd et tripla de; et sic est ac ad hg: ergo ut tripla ipsius a e ad ac cum dupla cd et tripla de, ita ‘/, ipsius ac ad hg. Est autem ut tripla ae ad triplam eb, ita /, ac ad g f: ergo, per conversam vigesimam quartam quinti, ut tripla ae ad ac cum dupla cd et tripla db, ita #, ipsius ac ad hf; et ut quadrupla ae ad ac cum dupla cd et tripla d b, hoc est ad ab cum cb et bd, ita ac ad hf; et, permutando, ut quadrupla ae ad ac, ita ab cum cb et bd ad hf; ut autem ac ad ae, ita ab ad ab cum cb et bd: ergo, ex eequali, in proportione per- turbata, ut quadrupla ae ad ae, ita ab ad hf. Quare constat, hf quartam esse partem ipsius a b. 27. - G. Galilei, Opere - II. 418 GALILEO GALILEI Cuiuscumque frusti pyramidis, seu coni, plano basi aequidistante secti, centrum gravitatis in axe consistit; eumque ita dividit, ut pars versus minorem basin ad re- liquam sit ut tripla maioris basis cum spacio duplo medii inter basin maiorem et minorem una cum basi minori, ad triplam minoris basis cum eodem duplo spatii medii et cum basi maiori. A cono vel pyramide, cuius axis ad, secetur plano basi aequidistante frustum, cuius axis ud; et quam ra- tionem habet tripla maxima basis cum dupla media et minima ad triplam minime cum dupla medie et ma- xima, hanc habeat uo ad od. Ostendendum est, o centrum (0) gravitatis frusti existere. Sit um quarta pars ipsius ud. Exponatur linea hx ipsi ad eequalis, sitque kx aqualis au; ipsarum vero hx, kx tertia proportionalis sit x /, et quarta xs; et quam rationem habet hs ad sx, hanc habeat md ad lineam sumptam ab o versus a; que sit on. Et quia maior basis ad eam quee inter maiorem et minorem est media proportionalis, est ut da ad au, hoc est ut hx ad xk, dicta autem media ad minorem est ut kx ad xl; erunt maior, media, et minor basis in eadem ratione et lines hx, xk, xl Quare ut tripla maioris basis cum dupla media et minima, ad triplam minime cum dupla media et maxima, hoc est ut uo ad od, ita tripla hx cum dupla xk et xl, ad triplam xl cum dupla x k et x ki; et, componendo et convertendo, erit o d ad du,ut hx cum dupla x k et tripla x ad quadruplam ipsarum h x, x k, x L Sunt igitur 4 linee proportionales, h 7,3 L 42 DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 419 hx, xk, xl, xs; et quam rationem habet x s ad sh, hanc habet linea queedam sumpta no ad °/, ipsius d u, nempe ad dm, hoc est ad ’/, ipsius hf k; quam autem rationem babet hx cum dupla xk et tripla x/ ad quadruplam ipsarum h x, x k, x], eandem habet alia quaedam sumpta od ad du, hoc est ad h k: ergo (per ea quae demonstrata sunt) dn erit quarta pars ipsius h x, hoc est ipsius a d; quare punctum n erit gravitatis centrum coni, vel pyra- midis, cuius axis ad. Sit pyramidis, vel coni, cuius axis au, centrum gravitatis i. Constat igitur, centrum gra- vitatis frusti esse in linea in ad partes n extensa, in eoque eius puncto qui cum puncto n lineam intercipiat, ad quam in eam habeat rationem quam abscissum fru- stum habet ad pyramidem vel conum, cuius axis au. Ostendendum itaque restat, in ad no eandem habere ra- tionem quam frustum ad conum cuius axis au. Est autem ut conus cuius axis da ad conum cuius axis au, ita cubus da ad cubum au, hoc est cubus h x ad cubum x k: hac autem eadem est proportio quam habet hx ad xs: quare, dividendo, ut hs ad sx, ita erit frustum cuius axis du, ad conum vel pyramidem cuius axis ua. Est autem ut hs ad sx, ita etiam md ad on; quare frustum ad pyra- midem cuius axis a u, est ut md ad no. Et quia an est ’/, ipsius ad; ai autem est ’/, ipsius a u; erit reliqua in ‘/, relique ud; quare in aqualis erit ipsi md. Et demon- stratum est, md ad no esse ut frustum ad conum au: constat ergo, hanc eandem rationem habere etiam in ad no. Quare patet propositum. FINIS. DELLA" FORZANDELTA*PERCOS5E PRINCIPIO DI GIORNATA AGGIUNTA AI DISCORSI E DIMOSTRAZIONI MATEMATICHE INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE. [GIORNATA SESTA] INTERLOCUTORI SALVIATI, SAGREDO E APROINO. SAGR. L’assenza di V. S., Sig. Salviati, di questi quin- dici giorni mi ha dato campo di poter vedere le propo- sizioni attenenti a’ centri di gravità de’ solidi, ed anco dare un’altra diligente lettura alle dimostrazioni delle tante e si nuove proposizioni de’ moti naturali e violenti: e perché ne sono tra esse non poche di assai difficile ap- prensione, di speziale aiuto mi è stata la conferenza di questo gentiluomo, che V. S. qui vede. SAL. lo voleva appunto domandar V. S. dell’essere appresso di lei questo Signore e del mancarne il nostro Sig. Simplicio. SAGR. Dell’assenza del Sig. Simplicio mi vo imma- ginando, anzi lo tengo per fermo, che cagione ne sia stata la grande oscurità che egli ha incontrata in alcune di- mostrazioni di vari problemi attenenti al moto; e pil, di altre sopra le proposizioni del centro di gravità: parlo di quelle che, per lunghe concatenazioni di varie proposi- zioni degli elementi della geometria, vengono inappren- sibili a quelli che tali elementi non hanno prontissimi alle mani. Questo gentiluomo che qui vede, è il Sig. Paolo Aproino, nobile Trivisano, stato non solamente uditore DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 421 del nostro Accademico, mentre lesse in Padova, ma suo intrinsechissimo familiare e di lunga e continuata con- versazione, nella quale, insieme con altri (tra’ quali fu principalissimo il Sig. Daniello Antonini, nobilissimo d’Udine, d’ingegno e di valore sopraumano, il quale per difesa della Patria e del suo Serenissimo Principe glorio- samente mori, ricevendo onori condegni al suo merito dalla Serenissima Repubblica Veneta), intervenne in par- ticolare a gran numero di esperienze che intorno a di- versi problemi, in casa esso Accademico, si facevano. Ora, essendo circa dieci giorni fa venuto questo Signore a Ve- nezia e, conforme al suo solito, a visitarmi, sentendo come aveva appresso di me questi trattati del comune amico, ha preso gusto che gli vediamo insieme: e sentendo l’ap- puntamento del ritrovarci a parlare sopra il maraviglioso problema della percossa, mi ha detto come ne aveva più volte discorso, ma sempre irresolutamente ed ambigua- mente, con esso Accademico, col quale mi diceva che si era trovato, nel far diverse esperienze attenenti a vari problemi, a farne ancora alcune riguardanti alla forza della percossa ed alla sua esplicazione; ed ora appunto stava in procinto di arrecarne tra l'altre una, per quanto egli dice, assai ingegnosa e sottile. SAL.Io mi reputo a gran ventura l’essermi incontrato nel Sig. Aproino ed il poterlo conoscere di vista e di presenza, come per fama e per molte relazioni del nostro Accademico già aveva conosciuto; e di sommo piacere mi sara il poter sentire almeno parte delle varie esperienze che sopra diverse proposizioni furon fatte in casa l’amico nostro, coll’intervento d’ingegni cosi accurati quali sono quelli del Sig. Aproino e del Sig. Antonini, del quale con tante lodi ed ammirazioni mille volte mi parlò detto amico nostro. E perché siamo ora qui per discorrere sopra il particolare della percossa, potrà V. S., Sig. Aproino, dirci quello che in tal materia ne trassero dalle espe- 422 n. GALILEO GALILEI rienze, con promessa però di arrecarne, con altra occa- sione, altre fatte sopra altri problemi; ché so che non glie ne mancheranno, per la sicurezza che ho dell’essere l'Ac- cademico nostro stato sempre non meno curioso che di- ligente sperimentatore. APR. Se io volessi con i debiti ringraziamenti pagare il debito al quale la cortesia di V. S. mi obbliga, mi con- verrebbe spendere tante parole, che poco tempo o punto ci avanzerebbe di tutto il giorno per parlare dell’intra- presa materia. SAGR. No, no, Sig. Aproino: venghiamo pure a dar principio a i discorsi di dottrina, e lasciamo i compli- menti di cerimonie a i cortigiani; ed io entro per sicurtà tra amendue loro della scambievole soddisfazione pro- dotta, per quanto basta, dalle brevi, ma candide e sin- cere, loro ofiziose parole. APR. Ancorché io stimi di non essere per produr cosa ignota al Sig. Salviati, e che perciò tutta la carica del discorso doverebbe essere appoggiata sulle sue spalle; tuttavia, se non per altro, almeno per alleggerirlo in parte, andrò toccando quei primi motivi, insieme colla prima esperienza, che mossero l’amico ad internarsi nella contemplazione di questo ammirabile problema della percossa. Cercando la maniera del poter trovare e misurare la sua gran forza, ed insieme, se fusse possibile, risolvere ne’ suoi principî e nelle sue prime cause l’essenza di cotale effetto, il quale molto diversamente par che proceda, nel- l'acquisto della sua somma potenza, dal modo nel quale procede la moltiplicazione di forza in tutte le altre mac- chine meccaniche (dico meccaniche per escludere l’im- menso vigore del fuoco), nelle quali si scorge ed assai concludentemente s'intende come la velocità d’un debile movente compensa la gagliardia di un forte resistente che lentamente venga mosso; ma perché si scorge. pur DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 423 anco nella operazione della percossa intervenire il mo- vimento del percuziente, congiunto colla sua velocità, contro al movimento del resistente ed il suo poco o molto dovere essere mosso; fu il primo concetto dell’ Accademico di cercar d’investigare qual parte abbia nell’effetto ed operazione della percossa, v. g., il peso del martello, e quale la velocità maggiore o minore colla quale vien mosso, cercando, se fusse possibile, di trovare una misura la quale comunemente ci misurasse ed assegnasse l'una e l’altra energia: e per arrivare a tal cognizione s'imma- ginò, per quanto a me parve, una ingegnosa esperienza. Accomodò un'asta assai gagliarda, e di lunghezza di circa tre braccia, volubile sopra un perno, a guisa dell'ago di una bilancia; sospese poi nell’estremità delle braccia di cotal bilancia due pesi eguali ed assai gravi, uno de’ quali era il composto di due vasi di rame, cioè di due secchie, l’una delle quali, appesa all’estremità detta del- l'ago, si teneva piena d’acqua, e dalle orecchie di tale secchia pendevano due corde di lunghezza circa due braccia l’una, alle quali era, per gli orecchi, attaccata un’altra simil secchia, ma vota, la quale veniva a piombo a risponder sotto alla prima secchia già detta e piena d’acqua; nell’estremo poi dell’altro braccio della bilancia si faceva pendere un contrappeso di pietra o di qual si fusse altra materia grave, il quale equilibrasse giusta- mente la gravità di tutto il composto delle due secchie, dell’acqua ‘e delle corde. La secchia superiore era forata nel fondo con foro largo alla grossezza di un uovo o poco meno, e questo tal foro si poteva aprire e serrare. Fu la prima immaginazione e concetto comune di amendue noi, che fermata la bilancia in equilibrio, essendo preparato il tutto nella maniera detta, quando poi si sturasse la secchia superiore e si desse l’andare all'acqua, la quale precipitando andasse a percuotere nella secchia da basso, l'aggiunta di cotal percossa dovesse aggiugnere tal mo- 424 GALILEO GALILEI mento in questa parte, che bisogno fusse, per restituire l'equilibrio, aggiugnere nuovo peso alla gravità del con- trappeso dell’altro braccio, la quale aggiunta è manifesto che ristorerebbe e adeguerebbe la nuova forza della per- cossa dell’acqua; sicché potessimo dire, essere il suo mo- mento equivalente al peso delle 10 o 12 libbre che fusse stato di bisogno aggiugnere all’altro contrappeso. SAGR. Ingegnoso veramente mi pare cotesto mac- chinamento, e sto con avidità attendendo l’esito di tale esperienza. APR. La riuscita, siccome agli altri fu inopinata, cosi fu maravigliosa: imperocché, subito aperto il foro e co- minciato ad uscirne l’acqua, la bilancia inclinò dall’altra parte del contrappeso; ma non tantosto arrivò l’acqua percuotendo nel fondo dell’inferior secchia, che restando di più inclinarsi il contrappeso, cominciò a sollevarsi, e con un moto placidissimo, mentre l’acqua precipitava, si ricondusse all'equilibrio, e quivi, senza passarlo pur di un capello, si librò e fermossi perpetuamente. SAGR. Inaspettato veramente m'è stato l’esito di questo caso; e benché il successo sia stato diverso da quello che io mi aspettava, e dal quale pensava di po- tere imparare quanta fosse la forza di tal percossa, nul- ladimeno mi par potere conseguire in buona parte la desiderata notizia, dicendo che la forza ed il momento di cotal percossa equivale al momento ed al peso di quella quantità d’acqua cadente che si trova sospesa in aria tra le due acque delle due secchie, superiore ed in- feriore, la qual quantità d’acqua non gravita punto né contro alla secchia superiore né contro all’inferiore: non contro alla superiore, perché, non essendo le parti del- l’acqua attaccate insieme, non possono le basse far forza e tirar gi le superiori, come farebbe, v. g., una materia viscosa, come pece o pania; non contro all’inferiore, perché, andandosi continuamente accelerando il moto DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 425 della cadente acqua, non possono le parti più alte gra- vitare o premere sopra le pit basse: laonde ne segue che tutta l’acqua contenuta nella troscia è come se non fusse in bilancia. Il che anco pit che chiaramente si mani- festa: perché se tal acqua esercitasse sua gravità sopra le secchie, queste colla giunta della percossa grande- mente inclinerebbero a basso, sollevando il contrappeso; il che non si vede seguire. Confermasi anco puntualissi- mamente questo: perché se noi ci immagineremo tutta quell'acqua repentinamente agghiacciarsi, già la troscia, fatta un solido di ghiaccio, peserebbe con tutto il resto della macchina, e, cessando il moto, verrebbe tolta la percossa. APR. Il discorso di V. S. è puntualmente conforme a quello che facemmo noi di subito sopra la veduta espe- rienza, ed a noi ancora parve di poter concludere che l'operazione della sola velocità acquistata per la caduta di quella quantità d’acqua dall’altezza delle due braccia operasse, nell’aggravare, senza il peso dell’acqua quel medesimo appunto che il peso dell’acqua senza l'impeto della percossa; sicché, quando si potesse misurare e pe- sare la quantità dell’acqua compresa in aria tra i vasi, si potesse sicuramente affermare, la tal percossa esser potente ad operare, gravitando, quello che opera un peso eguale a 10 o 12 libbre dell’acqua cadente. SAL. Piacemi molto l’arguta invenzione; e parmi che, senza il partirci dal suo progresso, nel quale ci arreca qualche ambiguità la difficoltà del misurare la quantità dell’acqua cadente, potremmo con una non dissimile esperienza agevolarci la strada per arrivare all'intera co- gnizione che desideriamo. Però, figurandoci, per esempio, uno di quei gran pesi che per ficcare grossi pali nel ter- reno si lasciano cadere da qualche altezza sopra uno de’ detti pali (i quali pesi mi pare che gli addimandino berte), ponghiamo, v. g., il peso di una tal berta esser 100 libbre, 28. - G. Galilei, Opere - II 426 GALILEO GALILEI l'altezza dalla quale cade essere quattro braccia, e la fitta del palo nel terreno duro, fatta per una sola percossa, importare 4 dita: e posto che la medesima pressura e fitta delle 4 dita, volendola noi far senza percossa, ricer- casse che le fusse soprapposto un peso di mille libbre, il quale, operando colla sola gravità, senza moto prece- dente, chiameremo peso morto, domando se noi potremo senza equivocazione o fallacia affermare, la forza ed energia di un peso di 100 libbre, congiunto colla velocità acquistata nel cadere dall’altezza di quattro braccia, es- sere equivalente al gravitare di un peso morto di mille libbre; sicché la virti della sola velocità importasse quanto la pressura di libbre novecento di peso morto, ché tante ne rimangono trattene dalle mille le cento della berta? Vedo che amendue tardate la risposta, forse perché bene non ho esplicata la mia domanda: però torno a brevemente dire, se possiamo per la detta sperienza asserire, che l’aggravio del peso morto farà sempre il me- desimo effetto sopra una resistenza, che fa il peso di 100 libbre cadente dall’altezza di quattro braccia; in guisa tale, che (per più chiara esplicazione) cadendo l'istessa berta dalla medesima altezza, ma percuotendo sopra un più resistente palo, non lo cacciasse più che due dita, se possiamo tenerci sicuri che l’istesso effetto facesse, solo col gravitare, il peso morto delle mille libbre; dico di cacciare il palo le due dita? APR. Io non penso che, almeno a prima fronte, ciò non fusse conceduto da ciascheduno. SAL. E voi, Sig. Sagredo, ci mettereste sopra qualche dubbio? SAGR. Per ora veramente no; ma l’avere per molte e molte esperienze provato quanto sia facile l’ingannarsi, non mi rende cosi baldanzoso, che del tutto mi spogli di timore. ll 712 1D)]\] 3 I DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 427 SAL. Ora, poi che V. S., la cui perspicacia ho in mille e mille occasioni conosciuta acutissima, si mostra inclinare ad ammettere la parte falsa, ben posso credere che tra mille difficile sarebbe d’incontrarne uno o due, che in una fallacia tanto simile al vero non incappassero. Ma quello che più vi farà maravigliare, sarà quando ve- drete, la fallacia esser sotto così sottil velo ricoperta, ch’ogni leggier vento poteva esser bastante a discoprirla e palesarla; e pure ne resta ella velata e ascosa. Tor- niamo dunque a far cadere nel primo modo sopraddetto la berta sul palo, cacciandolo sotto quattro dita, e sia vero che per ciò fare si ricercassero puntualmente le mille libbre di peso morto; torniamo di poi a sollevare alla medesima altezza l’istessa berta, la quale, cadendo la seconda volta sopra il medesimo palo, lo cacci sola- mente due dita, per avere, v. g., incontrato il terreno più sodo: dobbiamo noi stimare che altrettanto lo ricacciasse la pressura dell’istesso peso morto delle mille libbre? APR. Parmi che si. SAGR. Ah, Sig. Paolo, miseri noi; bisogna dire riso- lutamente che no. Imperocché, se nella prima posata il peso morto delle mille libbre cacciò il palo quattro dita e non più, perché volete che l’avernelo tolto solamente e poi rimessoglielo sopra torni a cacciarlo due altre dita? e perché non lo cacciò prima che ne fusse levato, mentre già gli era addosso? volete che lo smontarlo solamente e riposatamente riporvelo gli faccia fare quello che prima non potette? APR. Io non posso se non arrossire, e dichiararmi d'essere stato in pericolo di sommergermi in un bicchier d’acqua. SAL. Non vi sbigottite, Sig. Aproino, perché vi as- sicuro che avete avuto molti compagni in rimanere al- lacciato in nodi per altro di facilissima scioglitura; e non è dubbio che ogni fallacia sarebbe per sua natura d’age- 428 GALILEO GALILEI vole scoprimento, quando altri ordinatamente l’andasse sviluppando e risolvendo ne’ suoi principî, de’ quali esser non può che alcun suo contiguo o poco lontano non si scopra apertamente falso. Ed in questa parte, di ri- durre con pochissime parole ad assurdi ed inconvenienti palpabili conclusioni false e state sempre credute per vere, ha il nostro Accademico avuto certo particolar genio: ed io ho una raccolta di molte e molte conclusioni naturali, state sempre trapassate per vere, e da esso poi, con brevi e facilissimi discorsi, manifestate false. SAGR. Questa veramente ne è una; e se l’altre sa- ranno su questo andare, sarà bene che a qualche tempo ce le partecipiate. Ma intanto per ora seguitiamo l’intra- presa materia: ed essendo che noi siamo sul cercare il modo (se alcuno ve ne ha) di regolare ed assegnare mi- sura giusta e nota alla forza della percossa, questo non mi par che conseguir si possa col mezzo dell’assegnata sperienza. Imperocché, reiterando i colpi della berta sopra il palo, e per ciascheduno ricacciandolo continua- mente più e più, come la sensata esperienza ne mostra, si fa chiaro che ciascheduno de’ conseguenti colpi lavora: il che non accade nel peso morto, il quale, avendo operato quello che fece la prima pressura, non séguita di fare l’effetto della seconda, cioè di cacciare ancor di nuovo il palo, quando vi si riponga sopra; anzi apertamente si vede che per la seconda rifitta ci vuol peso maggiore di mille libbre, e se si vorranno pareggiare con pesi morti le fitte del terzo, quarto e quinto colpo etc., ci vorranno le gravità di pesi morti continuamente maggiori e mag- giori. Or quale di queste doveremo noi prendere per ferma e certa misura della forza del colpo, che pur. quanto a se stesso, è sempre il medesimo? SAL. Questa è delle prime maraviglie che indubita- bilmente credo che debbano avere tenuti perplessi ed ir- resoluti gl’'ingegni speculativi. E veramente a chi non DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 429 giugnerà nuovo il sentire che la misura della forza della percossa si debba prendere non da quello che percuote, ma più presto da quello che la percossa riceve? E quanto all’addotta esperienza, pare che da lei ritrar si possa, la forza della percossa essere infinita, o vogliamo dire in- determinata o indeterminabile, e farsi ora minore ed ora maggiore, secondo che ella viene applicata ad una mag- giore o minore resistenza. SAGR. Gi& mi pare di comprendere che vero possa essere, la forza della percossa essere immensa o infinita. Imperocché, stando nella proposta esperienza, e dato che il primo colpo cacciasse il palo quattro dita, e il secondo tre, e, continuandosi d’incontrare sempre il terreno più duro, il colpo terzo vi cacci il palo due dita, il quarto uno e mezzo, e conseguentemente un sol dito, un mezzo, un quarto, etc., pare che quando per la durezza del ter- reno la resistenza del palo non si faccia infinita, che il colpo reiterato sempre caccierà perpetuamente il palo, ma bene per ispazi minori e minori: ma perché, quanto si voglia lo spazio sia breve, è egli però divisibile e sud- divisibile sempre; si continueranno le fitte; e perché la seguente, dovendosi fare coll’aggravio di peso morto, ri- chiede peso maggiore che l’antecedente, potrà essere che per pareggiare le forze dell’ultime percosse si ricerchi peso maggiore e maggiore in immenso. SAL. Così crederei io veramente. APR. Non potrà dunque essere resistenza alcuna cosi grande, che resti salda e contumace contro al potere di alcuna percossa, benché leggiera? SAL. Penso di no, se quello in che si percuote non è del tutto immobile, cioè non è la sua resistenza infinita. SAGR. Mirabili, e per modo di dire prodigiosi, paiono questi asserti, e che l’arte in questo solo effetto superi e defraudi la natura, cosa che nella prima apparenza par che facciano altri strumenti meccanici ancora, alzandosi 430. GALILEO GALILEI gravissimi pesi con poca forza in virtà della leva, della vite, della taglia ed altri; ma in questo effetto della per- cossa, che pochi colpi di martello, non più pesante di 10 o 12 libbre, abbiano ad ammaccare, v. g., un dado di rame, il quale non infragnerebbe né ammaccherebbe il carico non solo di una vastissima guglia di marmo, ma né anco una torre altissima che sopra il martello si po- sasse, eccede, pare a me, ogni natural discorso che ten- tasse di torne la maraviglia. Però, Sig. Salviati, mettete mano al filo, e cavateci di cosî intrigati laberinti. SAL. Da quanto essi producono, pare che il nodo principale della difficoltà batta qua, che non bene si comprenda come l'operazione della percossa, che sembra infinita, non debba di necessità procedere per mezzi di- versi da quelli di altre macchine, che con pochissima forza superano resistenze immense: tuttavia io non di- spero di poter esplicare come in questa ancora si procede nella medesima maniera. Tenterò di spiegarne il pro- gresso, e benché mi paia assai complicato, forse il mio dire potrebbe, dal vostro dubitare ed opporre, assotti- gliarsi ed acuirsi tanto, che allargasse almeno, se non del tutto sciogliesse, il nodo. È manifesto, la facultà della forza del movente e della resistenza del mosso non essere una e semplice, ma com- posta di due azioni, dalle quali la loro energia dee essere misurata; l’una delle quali è il peso, si del movente come del resistente, e l’altra è la velocità, secondo la quale quello dee muoversi e questo esser mosso. E cosî, quando il mosso dee muoversi colla velocità del movente, cioè che gli spazi passati da amendue nell’istesso tempo sieno eguali, impossibile sara che la gravità del movente sia minore di quella del mosso, ma sibbene alquanto mag- giore, attesoché dalla puntuale egualità nasce l'equilibrio e la quiete, come si vede nella bilancia di braccia eguali. Ma se noi vorremo con peso minore sollevarne un mag- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 431 giore, bisognerà ordinar la macchina in modo, che il peso movente minore si muova nell’istesso tempo per ispazio maggiore dell’altro peso, che è quanto a dire che quello più velocemente si muova di questo: e cosi di già la ragione non meno che l’esperienza ci mostra che, per esempio, nella stadera, acciocché il peso del romano possa alzare un altro 10 o 15 volte di lui più grave, bi- sogna che la sua lontananza nell’ago sia lontana dal centro, intorno al quale si fa il moto, 10 o 15 volte più che la distanza tra il medesimo centro ed il punto della sospensione dell’altro peso; che è il medesimo che dire, che la velocità del movente sia 10 o 15 volte maggiore della velocità del mosso. E perché questo si scorge acca- dere in tutti gli altri strumenti, possiamo con sicurezza stabilire che le gravità e velocità coll’istessa proporzione, ma alternatamente prese, si rispondano. Generalmente dunque diciamo, il momento del men grave pareggiare il momento del più grave, quando la velocità del minore alla velocità del maggiore abbia l’istessa proporzione che la gravità del maggiore a quella del minore; al quale ogni poco vantaggio che si conceda, supera l'equilibrio, e s'introduce il moto. Fermato questo, io dico che non solamente nella per- cossa la sua operazione pare infinita circa il superare qualsivoglia somma resistenza, ma tale si mostra ella in qualsivoglia altro meccanico ordigno; perché non è egli manifesto che un piccolissimo peso di una libbra, scen- dendo, alzerà un peso di 100 e di 1000 e più quanto ne piace, se noi lo costituiremo nell’ago della stadera cento o mille volte più lontano dal centro che l’altro peso mas- simo, cioè se noi faremo che lo spazio, per lo quale scenderà quello, sia cento e mille e pit volte maggiore dello spazio della salita dell'altro, cioè se la velocità di quello sia cento e mille volte maggiore della velocità di questo? Ma voglio con uno più arguto esempio farli toccar 432 GALILEO GALILEI con mano come qualsivoglia piccolissimo peso, scendendo, faccia salire qualsivoglia immensa e gravissima mole. In- tenda V. S., un tal vastissimo peso essere attaccato a una corda fermata in luogo stabile e sublime, intorno al quale, come centro, intenda esser descritta la circonfe- renza di un cerchio che passi pel centro di gravità della sospesa mole; il qual centro di gravità è noto che viene a perpendicolo sotto la corda della sospensione, o, per meglio dire, è in quella retta linea che dal punto della sospensione va a terminare nel centro comune di tutti i gravi, cioè nel centro della Terra. Immaginatevi poi un altro filo sottilissimo, al quale sia attaccato qualsivoglia peso, benché minimo, in guisa che il centro di gravità di questo termini nella gia immaginata circonferenza; e po- nete, questo piccolo peso andare a toccare e semplice- mente appoggiarsi a quella vasta mole: non credete voi che, aggiunto per fianco questo nuovo peso, spignerà al- quanto quel massimo; separando il suo centro di gravità dalla gia immaginata linea perpendicolare, nella quale prima si trovava, e senza dubbio si moverà per la cir- conferenza gia detta, e movendovisi si separerà dalla linea orizontale che è la tangente della detta circonfe- renza nell’imo punto dove si trovava esso centro di gra- vità della gran mole? E quanto allo spazio, tanto sarà l'arco passato dal gravissimo, quanto il passato dal pic- colissimo peso, che al grandissimo si appoggiava; ma non sarà già la salita del centro del peso massimo eguale alla scesa del centro del peso minimo, perché questo scende per un luogo o spazio molto più inclinato che non è quello della salita dell’altro centro, che vien fatta dal contatto del cerchio in certo modo secondo un angolo mi- nore di ogni acutissimo. Qui, se io avessi a trattare con persone men versate di voi nella geometria, dimostrerei, come partendosi un mobile dall’imo punto del contatto, può benissimo essere che l’alzamento della linea orizon- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 433 tale di qualche punto della circonferenza separato dal contatto sia secondo qualsivoglia proporzione minore del- l'abbassamento di un asse a questo eguale, preso in qual- sivoglia altro luogo, purché in esso non si contenga il contatto: ma voi son sicuro che in ciò non avete dubbio. E se il semplice appoggiarsi del piccol peso alla gran mole può muoverla ed alzarla, che sar4 se discostandolo e lasciandolo scorrere per la circonferenza, egli vi anderà a percuotere? APR. Veramente non mi pare che ci resti più luogo di dubitare, la forza della percossa essere infinita, per quanto l’addotta esperienza ne dichiara. Ma tal notizia non basta al mio intelletto a schiarirmi molte oscure tenebre, le quali lo tengono offuscato in modo che non discerno come il negozio di queste percosse cammini, sicché io potessi rispondere ad ogni dubbio che mi fusse promosso. SAL. Ma prima che io passi più oltre, voglio scoprirvi un certo equivoco che sta nascoso e come in aguato, e ci lascia stimare, tutti quei colpi con i quali nel soprap- posto esempio si andava cacciando il palo, esser eguali o vogliamo dire gl'istessi, sendo fatti dalla medesima berta, elevata sopra il palo sempre alla medesima al- tezza: il che non è vero. Per intelligenza di che, figura- tevi di andare ad incontrare colla mano una palla che venga scendendo da alto, e ditemi: se nell’arrivare ella sopra la vostra mano, voi la mano andaste abbassando per la medesima linea e colla medesima velocità che scende la palla, ditemi, dico, qual percossa voi sentireste? certo nessuna. Ma se all’arrivo della palla voi andaste solamente in parte cedendo, con abbassar la mano con minor velocità di quella della palla, voi bene ricevereste percossa, ma non come da tutta la velocità della palla, ma solamente come dall’eccesso della velocità di quella sopra la velocità della cedenza della mano: sicché quando 434 GALILEO GALILEI la palla scendesse con 10 gradi di velocità e la mano cedesse con otto, il colpo sarebbe come fatto da due gradi di velocità della palla; e cedendo la mano con 4, il colpo sarebbe come di 6; ed essendo il cedere come uno, il per- cuoter sarebbe come di 9; e tutta l’intera percossa della velocità de’ 10 gradi sarebbe quella che percotesse sopra la mano che nulla cedesse. Applicando ora il discorso alle percosse della berta, mentre il palo cede la prima volta 4 dita, e la seconda 2, e la terza un sol dito, all’impeto della berta, le percosse rimangono disuguali, e la prima più debole della seconda, e la seconda più della terza, secondo che la cedenza delle 4 dita pit detrae dalla ve- locità del primo colpo che la seconda; e questa è più de- bole della terza, come quella che toglie il doppio più di questa dalla medesima velocità. Se dunque il molto ce- dere del palo alla prima percossa, ed il meno cedere alla seconda, e meno anco alla terza, e cosi sempre continua- tamente, è cagione che men valido sia il primo colpo del secondo, e questo del terzo, che maraviglia è che manco quantità di peso morto si ricerchi per la prima cacciata delle 4 dita, e che maggiore ne bisogni per la seconda cacciata delle due dita, e maggiore ancora per la terza, e sempre più e più continuatamente, secondo che le cac- ciate si vanno diminuendo nelle diminuzioni delle ce- denze del palo, che è quanto a dire nell’augumento delle resistenze? Da quanto ho detto mi pare che agevolmente si possa raccorre, quanto malagevolmente si possa determinare sopra la forza della percossa fatta sopra un resistente il quale vadia variando la cedenza, quale è il palo che in- determinatamente va pit e pit resistendo; laonde stimo che sia necessario l’andar contemplando sopra tale, che, ricevendo le percosse, a quelle sempre colla medesima resistenza si opponga. Ora, per istabilire tal resistente, voglio che ci figuriamo un solido grave, per esempio di DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 435 mille libbre di peso, il quale posi sopra un piano che lo sostenti; voglio poi che intendiamo una corda a cotal so- lido legata, la quale cavalchi sopra una carrucola fermata in alto, per buono spazio, sopra detto solido. Qui è ma- nifesto, che aggiugnendo forza traente in giù all’altro capo della corda, nel sollevar quel peso si averà sempre una egualissima resistenza, cioè il contrasto di mille libbre di gravità; e quando da quest'altro capo si sospenda un altro solido egualmente pesante come il primo, verrà da essi fatto l'equilibrio; e stando sollevati, senza che sopra alcuno sottoposto sostegno si appoggino, staranno fermi, né scenderà questo secondo grave alzando il primo, salvo che quando egli abbia qualche eccesso di gravità: e se riposeremo il primo peso sopra il soggetto piano, che lo sostenga, potremo far prova con altri pesi di diversa gravità (ma ciascheduna minore del peso che riposa in quiete) quali siano le forze di diverse percosse, con le- gare alcuno di questi pesi all’altro capo della corda, la- sciandolo da qualche altezza cadere ed osservando quello che segue nell’altro gran solido nel sentir la strappata dell'altro peso cadente, la quale strappata sarà ad esso gran peso come un colpo che lo voglia cacciare in su. Qui, primieramente, mi pare che si raccolga, che per pic- cola che sia la gravità del peso cadente, doverà senz'altro superare la resistenza del peso gravissimo ed alzarlo; la qual conseguenza mi par che si tragga molto concluden- temente dalla sicurezza che abbiamo, come un peso mi- nore prevalerà ad un altro quanto si voglia maggiore, qualunque volta la velocità del minore abbia maggior proporzione alla velocità del maggiore che non ha la gra- vità del maggiore alla gravità del minore: ma ciò segue nel presente caso, nel quale la velocità del peso cadente supera d’infinito intervallo quella dell’altro peso, la quale è nulla, posando egli in quiete; ma non gia è nulla la gravità del solido cadente in relazione alla gravità del- 436 GALILEO GALILET l’altro, non ponendo noi questa infinita, né quella nulla; supererà dunque la forza di questo percuziente la resi- stenza di quello in cui si impiega la percossa. Séguita ora che cerchiamo d’investigare, quanto sia per essere lo spazio al quale la ricevuta percossa lo solleverà, e se forse questo risponda a quello delli altri strumenti meccanici: come, per esempio, nella stadera si vede, l’alzamento del peso grave esser quella tal parte dello abbassamento del romano, quale è il peso del romano dell’altro peso mag- giore; e cosi nel caso nostro bisogna che vediamo, se es- sendo la gravità del gran solido posto in quiete, per esempio, mille volte maggiore della gravità del peso ca- dente, il quale caschi dall’altezza, v. g., di un braccio, egli sia alzato da questo minore un centesimo di braccio, ché cosi pare che venisse osservata la regola degli altri istrumenti meccanici. Figuriamoci di fare la prima espe- rienza col far cadere da qualche altezza, diciamo di un braccio, un peso eguale all’altro, che ponghiamo posare sopra un piano, essendo amendue tali pesi legati, l’uno all’un capo e l’altro all’altro capo dell’istessa corda; che crediamo noi che sia per operare la strappata del peso cadente circa il muovere e sollevar l’altro, che era in quiete? Io volentieri sentirei l’opinione vostra. APR. Poiché V. S. guarda verso di me, comecché da me ella attenda la risposta, mi pare che, essendo amendue i solidi egualmente gravi, ed avendo il cadente, di più, l’impeto della velocità, l’altro ne doverà esser innalzato assai sopra l'equilibrio; imperocché per ridurlo in bilancio la sola gravità di quello era bastante: sormonterà dunque, per mio credere, il peso ascendente per molto maggiore spazio di un braccio, che è la misura della scesa del cadente. SAL. Che dice V. S., Sig. Sagredo? SAGR. Il discorso mi pare assai concludente nel primo aspetto; ma, come poco fa dissi, le molte esperienze mi DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 432 hanno insegnato quanto sia facile l'ingannarsi, e però quanto sia necessario l'andar circospetto prima che riso- lutamente pronunziare ed affermare alcun detto. Dirò dunque (però sempre dubitando) che è vero che il peso, v. g., delle 100 libbre del grave descendente basta per alzare l’altro, che pure pesi 100 libbre, infino allo equi- librio, senza che quello venga instrutto e fornito d'altra velocità, e baster4 solo l’eccesso di mezza oncia; ma vo considerando che questa equilibrazione verrà fatta con gran tardità, dove che quando il cadente sopraggiunga con gran velocità, con una simile bisognerà che tiri in alto il suo compagno. Ora, non mi pare che sia dubbio che maggior forza ci voglia a cacciar con gran velocità un grave all’in su, che a spignervelo con gran lentezza: onde possa accadere che il vantaggio della velocità, gua- dagnata dal cadente nella libera caduta di un braccio, possa rimaner consunto, e, per modo di dire, spento, nel cacciar l’altro con altrettanta velocità ad altrettanta al- tezza: perloché non sarei lontano dal credere che tali due movimenti in gii ed in su terminassero in quiete immediatamente dopo la salita di un braccio del peso ascendente, che sarebbero due braccia di scesa dell’altro, computandovi il primo braccio che questo scese libero e solo. SAL. lo veramente inclino a credere questo stesso: perché, sebbene il peso cadente è un aggregato di gravità e di velocità, l'operazione della gravità nel sollevar l’altro è nulla, avendo a sé opposta e renitente altrettanta gra- vità dell'altro peso, il quale è manifesto che mosso non sarebbe senza l'aggiunta all’altro di qualche piccola gra- vità: l’operazion dunque per la quale il peso cadente dee sollevar l’altro, è tutta della velocità, la quale altro che velocità non può conferire; né potendo conferirne altra che quella che egli ha, e non avendo altra che quella che, partendosi dalla quiete, ha guadagnata nello spazio 438 GALILEO GALILEI della scesa di un braccio, per altrettanto spazio e con al- trettanta velocità spignerà4 l’altro all’in su, conforman- dosi con quello che in varie esperienze si può riconoscere, che è che il grave cadente, partendosi dalla quiete, si trova in ogni sito aver tant'impeto, che basta per ridur se stesso alla medesima altezza. SAGR. Sovviemmi che apertamente ciò dimostra un grave pendente da un filo che sia fermato in alto; il qual grave, rimosso dal perpendicolo per un arco di qualsi- voglia grandezza, non maggiore di una quarta, lasciato in libertà, scende e trapassa oltre al perpendicolo, sa- lendo altrettanto arco quanto fu quello della scesa: dove è manifesto, la salita derivar tutta dalla velocità appresa nello scendere; imperocché nel montare in su niuna parte vi può avere la gravità del mobile, ma bene, repugnando questa alla salita, va spogliando esso mobile di quella velocità della quale nella scesa lo veste. SAL. Se l'esempio di quello che fa il solido grave ap- peso al filo, del quale mi sovviene che parlammo ne’ di- scorsi de’ giorni passati, quadrasse e si aggiustasse cosf bene al caso del quale noi di presente trattiamo, come ei si aggiusta alla verità, molto concludente sarebbe il di- scorso di V. S.; ma non piccola discrepanza trovo io tra queste due operazioni: dico tra quella del solido grave pendente dal filo, che, lasciato da qualche altezza, scen- dendo per la circonferenza del cerchio, acquista impeto di trasportare se medesimo ad altrettanta altezza: e l’altra operazione del cadente legato ad un capo della corda per inalzare l’altro a sé eguale in gravità. Imperocché lo scendente per lo cerchio va acquistando velocità sino al perpendicolo, favorito dalla propria gravità, la quale, tra- passato il perpendicolo, lo disaiuta nel dovere ascendere (che è moto contrario alla gravità): sicché dello impeto acquistato nella scesa naturale non piccola ricompensa è il ricondurlo con moto preternaturale o per altezza. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 439 Ma nell’altro caso sopraggiugne il grave cadente al suo eguale, posto in quiete, non solamente colla velocità ac- quistata, ma colla sua gravità ancora, la quale, mante- nendosi, leva per sé sola ogni resistenza di essere alzato all’altro suo compagno; perloché la velocità acquistata non trova contrasto di un grave che allo andare in su faccia resistenza, talché, sî come l’impeto conferito all’in gif ad un grave non trova in esso ragione di annichi- larsi o ritardarsi, cosi non si ritrova in quello ascen- dente, la cui gravità rimane nulla, essendo contrappesata da altrettanta descendente. E qui mi pare che accada per appunto quello che accade ad un mobile grave e perfettamente rotondo, il quale, se si porrà sopra un piano pulitissimo ed alquanto inclinato, da per se stesso naturalmente vi scenderà, acquistando sempre velocità maggiore; ma se, per l’opposito, dalla parte bassa si vorrà quello cacciare in su, ci bisognerà conferirgli impeto, il quale si anderà sempre diminuendo e finalmente annichi- lando; ma se il piano non sarà inclinato, ma orizontale, tal solido rotondo, postovi sopra, farà quello che piacerà a noi, cioè, se ve lo metteremo in quiete, in quiete si con- serverà, e dandogli impeto verso qualche parte, verso quella si moverà, conservando sempre l’istessa velocità che dalla nostra mano averà ricevuta, non avendo azione né di accrescerla né di scemarla, non essendo in tal piano né declività né acclività: ed in simile guisa i due pesi eguali, pendenti da’ due capi della corda, ponendogliene in bilancio, si quieteranno, e se ad uno si darà impeto all'in già, quello si andrà conservando equabile sempre. E qui si dee avvertire che tutte queste cose seguirebbero quando si movessero tutti gli esterni ed accidentari im- pedimenti, dico di asprezza e gravità di corda, di girelle e di stropicciamenti nel volgersi intorno al suo asse, ed altri che ve ne potessero essere. Ma perché si è fatta con- siderazione della velocità, la quale l'uno de’ due pesi 440 GALILEO GALILEI eguali acquista scendendo da qualche altezza, mentre l'altro posi in quiete, è bene determinare quale e quanta sia per essere la velocità colla quale sieno per muoversi poi amendue, dopo la caduta dell’uno, scendendo questo e salendo quello. Gi&, per le cose dimostrate, noi sap- piamo che quel grave che partendosi dalla quiete libe- ramente scende, acquista tuttavia maggiore e maggior grado di velocità perpetuamente; sicché, nel caso nostro, il grado massimo di velocità del grave, mentre libera- mente scende, è quel che si trova avere nel punto che egli comincia a sollevare il suo compagno; ed è manifesto che tal grado di velocità non si andrà più augumentando, essendo tolta la cagione dello augumento, che era la gra- vità propria di esso grave descendente, la quale non opera più, essendo tolta la sua propensione di scendere dalla repugnanza del salire di altrettanto peso del suo com- pagno. Si conserverà dunque il detto grado massimo di velocità, ed il moto, di accelerato, si convertirà in equa- bile: quale poi sia per essere la futura velocità, è manifesto dalle cose dimostrate e vedute ne’ passati giorni, cioè che la velocità futura sarà tale, che in altrettanto tempo quanto fu quello della scesa, si passerà doppio spazio di quello della caduta. SAGR. Meglio dunque di me aveva filosofato il Sig. Aproino, e sin qui resto molto bene appagato del discorso di V. S., ed ammetto per verissimo quanto mi ha detto; ma per ancora non mi sento aver fatto acquisto tale, che mi basti per levare l’eccessiva maraviglia che sento nel vedere, essere superate resistenze grandissime dalla virti della percossa del percuziente, ancorché né molta sia la sua gravità, né eccessiva la sua velocità; e quello che ne accresce lo stupore è il sentire che ella af- ferma, nessuna essere la resistenza (salvo che se fusse in- finita) che al colpo possa resistere senza cedere, e più che di tal percossa non si possa in veruna maniera assegnare DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 441 una determinata misura. Però il desiderio nostro sarebbe che V. S. mettesse mano a dilucidare queste tenebre. SAL. Essendo che non si può applicare dimostrazione alcuna sopra una proposizione della quale il dato non sia uno e certo, però, volendo noi filosofare intorno la forza di un percuziente e la resistenza di quello che la percossa riceve, bisogna che prendiamo un percuziente la cui forza sia sempre l’istessa, quale è quella del medesimo grave cadente sempre dalla medesima altezza, e parimente sta- bilischiamo un ricevitore del colpo, la cui resistenza sia sempre la medesima. E per averlo tale, voglio che (stando su l'esempio di sopra, de i due gravi pendenti da’ capi dell’istessa corda) che percuziente sia il piccol grave che si lascia cadere, e che l’altro, quanto si voglia maggiore, sia quello nell’alzamento del quale venga esercitato l’im- peto del piccolo cadente: dove è manifesto, la resistenza del grande esser sempre ed in tutti i luoghi la medesima cosa; il che non accade nella resistenza del chiodo o del palo, ne’ quali ella va sempre crescendo nel penetrare, e con proporzione ignotissima per gli accidenti vari che s’interpongono di variate durezze nel legno e nel ter- reno etc., ancor che il chiodo ed il palo sieno sempre i medesimi. Inoltre è necessario che ci riduchiamo a me- moria alcune conclusioni vere, delle quali si parlò a' giorni passati nel trattato del moto: e sia la prima di esse, che i gravi descendenti da un punto sublime sino a un soggetto piano orizontale, acquistano eguali gradi di velocità, sia la scesa loro fatta o nella perpendicolare 0 sopra qualsivogliano piani diversamente inclinati; come, per esempio, essendo AB un piano orizontale, sopra il quale dal punto C caschi la perpendicolare C B, e dal medesimo C altre diversamente inclinate C A, CD, C È, dobbiamo intendere, i gradi di velocità de’ cadenti dal punto sublime C per qualsivoglia delle linee che dal punto C vanno a terminare nell’orizontale, essere tutti 442 GALILEO GALILEI eguali. Inoltre si dee, nel secondo luogo, supporre, l’im- peto acquistato in A dal cadente dal punto C esser tanto, quanto appunto si ricercherebbe per cacciare in alto il medesimo cadente, o altro a lui eguale, sino alla mede- sima altezza; onde possiamo in- tendere che tanta forza bisogna per sollevar dall’orizonte sino all'altezza C l’istesso grave, venga egli cacciato da qual- sivoglia de’ punti A, D, E, B. Riduchiamoci, nel terzo luogo, a memoria, che i tempi delle À D EEN B. scese per i notati piani incli- nati hanno tra di loro la me- desima proporzione che le lunghezze di essi piani; sicché quando, per esempio, il piano A C fusse lungo il doppio del CE e quadruplo del CB, il tempo della scesa per CA sarebbe doppio del tempo della scesa per CE e quadruplo della caduta per CB. Inoltre ricordiamoci che per far montare, o vogliam dire per strascicare, l’istesso peso sopra i diversi piani inclinati, sempre minor forza basta per muoverlo sopra il più inclinato che sopra il meno, secondo che la lunghezza di questo è minore della lunghezza di quello. Ora, stante questi veri supposti, finghiamoci il piano AC esser, v. g., dieci volte più lungo del perpendicolo CB, e sopra esso AC esser posato un solido S, pesante cento libbre: è manifesto che se a tal solido fusse attaccata una corda, la quale cavalcasse sopra una girella posta pit alta del punto C, la qual corda nell’altro suo capo avesse attaccato un peso di 30 libbre, qual sarebbe il peso P, è manifesto che tal peso P, con ogni poco di giunta di forza, scendendo, tire- (6) DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 443 rebbe il grave S sopra il piano A C. E qui si dee notare, che sebbene lo spazio per lo quale il maggior peso si muove sopra il suo piano soggetto è eguale allo spazio per lo quale si muove il piccolo descendente (onde alcuno potrebbe dubitare sopra la generale verità di tutte le meccaniche proposizioni, cioè che piccola forza non su- pera e muove gran resistenza se non quando il moto di quella eccede il moto di questa colla proporzione con- trariamente rispondente a i pesi loro), nel presente caso la scesa del piccolo peso, che è a perpendicolo, si dee paragonare colla salita a perpendicolo del gran solido S, vedendo quanto egli dalla orizontale perpendicolarmente si solleva, cioè si dee riguardare quanto ei monta nella perpendicolare B C. Avendo io, Signori, fatto diverse meditazioni circa il distendere quello che mi resta a dire, e che è la somma del presente negozio, fermo la seguente conclusione, per esser di poi esplicata e dimostrata. PROPOSIZIONE. Se l’effetto che fa una percossa del medesimo peso, e cadente dalla medesima altezza, caccier4 un resistente di resistenza sempre eguale per qualche spazio, c che per fare un simile effetto ci bisogni una determinata quantità di peso morto, che senza percossa prema, dico che quando il medesimo percuziente sopra un altro resistente mag- giore, con tal percossa, lo caccerà, v. g., per la metà dello spazio che fu cacciato l’altro, per far questa seconda cacciata non basta la pressura del detto peso morto, ma ve ne vuole altro il doppio più grave; e cosî in tutte le altre proporzioni, quanto una cacciata fatta dal medesimo percuziente è più breve, tanto, per l’opposito, con pro- porzione contraria vi si ricerca, per far l’istesso, gravità maggiore di peso morto premente. 444 GALILEO GALILEI Intendasi la resistenza, stando nel medesimo esempio del palo, esser tale che non possa esser superata da meno di cento libbre di peso morto premente, e che il peso del percuziente sia solamente dieci libbre, e che cadendo dal- l'altezza, v. g., di quattro braccia, cacci il palo quattro dita. Qui, primieramente, è manifesto che il peso delle dieci libbre, dovendo calare a perpendicolo, sarà bastante di far montare un peso di libbre cento sopra un piano inclinato tanto, che la sua lunghezza sia decupla della sua elevazione, per le cose dichiarate di sopra, e che tanta forza ci vuole in alzare a perpendicolo dieci libbre di peso, che nell’alzarne cento sopra un piano di lunghezza decupla alla sua perpendicolare elevazione: e però se l’impeto che acquista il cadente per qualche spazio a per- pendicolo, si applichi a sollevare un altro a sé eguale in resistenza, e’ lo solleverà per altrettanto spazio; ma eguale è alla resistenza del cadente di dieci libbre a perpendicolo quella dell’ascendente di cento libbre sopra il piano di lunghezza decuplo alla sua perpendicolare elevazione: adunque, caschi il peso di dieci libbre per qualsisia spazio perpendicolare, l’impeto suo acquistato, ed applicato al peso di cento libbre, lo caccerà per altrettanto spazio sopra il piano inclinato, al quale spazio risponde l’altezza perpendicolare grande quanto è la decima parte di esso spazio inclinato. E già si è concluso di sopra che la forza potente a cacciare un peso sopra un piano inclinato è bastante a cacciarlo anche nella perpendicolare che ri- sponde all’elevazione di esso piano inclinato, la qual per- pendicolare, nel presente caso, è la decima parte dello spazio passato sull’inclinata, il quale è eguale allo spazio della caduta del primo peso di dieci libbre; adunque è manifesto che la caduta del peso di dieci libbre fatta nella perpendicolare è bastante a sollevare il peso di cento libbre pur nella perpendicolare, ma solo per lo spazio della decima parte della scesa del cadente di dieci DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 445 libbre. Ma quella forza che può alzare un peso di cento libbre è eguale alla forza colla quale il medesimo peso delle cento libbre calca in gi, e questa era la potente a cacciare il palo, postavi sopra e premendo: ecco dunque esplicato, come la caduta di dieci libbre di peso è potente a cacciare una resistenza equivalente a quella che ha il peso di cento libbre per esser sollevato, ma la cacciata non sarà più che per la decima parte della scesa del per- cuziente. E se noi porremo, la resistenza del palo esser raddoppiata o triplicata, sicché vi bisogni, per superarla, la pressura di dugento o trecento libbre di peso morto, replicando simil discorso troveremo, l’impeto delle dieci libbre cadenti a perpendicolo esser potente a cacciare, siccome la prima, la seconda e la terza volta il palo, e come nella prima la decima parte della sua scesa, cosi nella seconda volta la ventesima, e nella terza la trente- sima parte della sua scesa. E cosî, moltiplicando la resi- stenza in infinito, sempre la medesima percossa la potrà superare, ma col cacciare il resistente sempre per minore e minore spazio con alterna proporzione: onde pare che noi ragionevolmente possiamo asserire, la forza della per- cossa essere infinita. Ma ben conviene che altresi consi- deriamo anche per un altro verso, la forza del premente senza percossa essere essa ancora infinita: imperocché quando ella supera la resistenza del palo, lo cacceràa non per quello spazio solo che lo averà cacciato la percossa, ma seguiterà di cacciarlo in infinito. SAGR. Io veramente scorgo, il progresso di V.S. cam- minare molto dirittamente all’investigazione della vera causa del presente problema: ma perché mi pare che la percossa possa essere creata in tante e tante maniere, ed applicata a tante varietà di resistenze, credo esser neces- sario andarne esplicando almeno alcune, l’intelligenza delle quali potrebbe aprirci la mente all'intelligenza di tutte. 446 GALILEO GALILEI SAL. V. S. dice benissimo, ed io di già mi era appa- recchiato ad apportarne qualche caso. Per uno de? quali diremo, che alle volte può accadere che l'operazione del percuziente si faccia palese non sopra il percosso, ma nello stesso percuziente: e cosi, dando sopra una ferma incudine un colpo con un martello di piombo, l’effetto caderà nel martello, il quale si ammaccherà, e non nel- l’incudine, che non si abbasserà: e non dissimile a questo effetto è quello del mazzuolo degli scarpellini, il quale, essendo di ferro non temperato e però tenero, nel lungo percuotere sopra lo scarpello di acciaio di dura tempera non ammacca esso scarpello, ma bene incava e dilacera se medesimo. Altra volta in altro modo si rifletterà l’ef- fetto pure nel percuziente; siccome non di rado si vede, che volendosi continuare di cacciare un chiodo in un legno durissimo, il martello ribalza indietro senza punto cacciare innanzi il chiodo, ed in questo caso si dice: il colpo non è attaccato. Non dissimile è il balzo che sopra un duro e fermo pavimento fa il pallone gonfio, ed ogn’altro corpo di materia talmente disposta, che ben cede alla percossa, ma ritorna, come facendo arco, nella sua prima figura: ed un tal ribalzamento accade quando non solamente quello che percuote cede e poi ritorna, ma quando ciò accade in quello sopra di che si percuote; ed in tal maniera risalta una palla, ancorché di materia du- rissima e nulla cedente, cadendo sopra la cartapecora ben tesa del tamburo. Scorgesi anco, e con maggiore mara- viglia, l’effetto che nasce quando allo spignere senza per- cossa sì aggiugne una percossa, facendo un composto di amendue; e cosi vediamo nelli strettoi da panni o da olio e simili, quando col semplice spignere di quattro o sei uomini si è fatta calare la vite quanto potevano, col ri- tirare un passo indietro la stanga e velocemente urtando con essa, moveranno ancora più e più la vite, e si ridur- ranno a tal segno che l'urto, colla forza di quei quattro o DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 447 sei, farà quello che non farebbero dodici o venti col solo spignere: nel qual caso si ricerca, la stanga esser molto grossa e di legno assai duro, sicché poco o nulla si pieghi, perché cedendo questa, l’urto si spegnerebbe nel torcerla. In ogni mobile che debba esser mosso violentemente, pare che sieno due spezie distinte di resistenza: l’una, che riguarda quella resistenza interna per la qual noi di- ciamo, pit difficilmente alzarsi un grave di mille libbre che uno di cento; l’altra, che ha rispetto allo spazio per lo quale si ha da fare il moto; e cosi maggior forza ricerca una pietra ad esser gettata lontano cento passi, che cin- quanta, etc. A queste due diverse resistenze rispondono proporzionatamente li due diversi motori, l'uno de’ quali muove premendo senza percuotere, l’altro opera percuo- tendo. Il motore che opera senza percossa, non muove se non una resistenza minore, benché insensibilmente, della sua virti o gravità premente; ma la moverà bene per ispazio infinito, accompagnandola sempre colla sua stessa forza: e quello che muove percuotendo, muove qualsi- voglia resistenza, benché immensa, ma per limitato in- tervallo: onde io stimo vere queste due proposizioni, il percuziente muovere infinita resistenza per finito e limi- tato intervallo, il premente muover finita e limitata resi- stenza per infinito intervallo; sicché al percuziente sia proporzionabile l’intervallo, e non la resistenza, ma al premente la resistenza, e non l’intervallo. Le quali cose mi fanno dubitare che il quesito del Sig. Sagredo sia inesplica- bile, come quello che cerchi di agguagliar cose non proporzionabili, ché tali credo io che sieno l’azioni della percossa e quelle della pressione: siccome, nel caso particolare, qualunque im- mensa resistenza che sia nel cuneo B À, sarà 448 GALILEO GALILEI mossa da qualunque percuziente C, ma per limitato in- tervallo, come tra i punti B, A: ma dal premente D non qualunque resistenza sia nel cuneo BA sar spinta, ma una limitata e non maggiore del peso D; ma questa non sarà spinta per lo limitato intervallo tra i punti B, A, ma in infinito, essendo sempre eguale la resistenza nel medesimo mobile A B, come si dee supporre, non si fa- cendo menzione in contrario nella proposta. Il momento di un grave nell’atto della percossa altro non è che un composto ed aggregato di infiniti momenti, ciascuno di essi eguale al solo momento, o interno e na- turale di se medesimo (che è quello della propria gravità assoluta, che eternamente egli esercita posando sopra qua- lunque resistente), o estrinseco e violento, quale è quello della forza movente. Tali momenti nel tempo della mossa del grave si vanno accumulando di instante in instante con eguale additamento e conservando in esso, nel modo appunto che si va accrescendo la velocità di un grave ca- dente: ché siccome negl’infiniti instanti di un tempo, benché minimo, si va sempre passando da un grave per nuovi ed eguali gradi di velocità, con ritener sempre gli acquistati nel tempo precorso, cosîf anche nel mobile si vanno conservando di instante in instante e componen- dosi quei momenti, o naturali o violenti, conferitigli o dalla natura o dall’arte, etc. La forza della percossa è di infinito momento, tutta- volta che ella si applichi in un momento ed in uno instante dal grave percuziente sopra materia non cedente; come si dimostrerà. Il cedere di una materia percossa da un grave mosso con qualsivoglia velocità, non si può fare in uno instante, perché altrimenti si darebbe il moto instantaneo per uno IL SAGGIATORE Nel quale Conbilancia efquifita e giufta fi ponderanolecofe contenute nella LIBRA ASTRONOMICA E'FILO SOFICA], DI LOTARIO: SARSI SIGENSANO Scritto in forma di lettera, | CAINUVIE Meno ceG, Uons. 4) | VIRGINIO-:CESARINI Acc°Linceo M°di Camera diN'S- Dal J 10° GALILEO - GALILEI AcLinceo Nobile Fiorentino Filotofo eMaternatico Prim ario del i Ser”"°Gran Duca diTofcana. z E È NIE Pet TPASTCRTIA FRONTESPIZIO DEL “SAGGIATORE ” (Firenze, R. Biblioteca Nazionale) " DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 449 spazio quanto, il che si prova impossibile. Se dunque si fa in tempo la cedenza nel luogo della percossa, in tempo ancora si farà l'applicazione di quei momenti acquistati nel moto dal percuziente; il qual tempo è bastante ad estinguere ed a smorzare in parte quell’aggregato de’ so- praddetti momenti, i quali se in uno instante di tempo si esercitassero contro il resistente (il che seguirebbe quando le materie si del percosso come del percuziente non cedes- sero né meno un punto), assolutamente farebbero effetto ed operazione assai maggiore, in muoverlo e superarlo, che applicati in tempo benché brevissimo: dico effetto maggiore, perché pure qualche effetto faranno eglino contro il percosso, quantunque minima si sia la percossa e grandissima la cedenza; ma sar4 forse impercettibile tale effetto a’ nostri sensi, con tutto che realmente vi sia, il che a suo luogo dimostreremo. Ma pure ciò manifesta- mente si scorge dall’esperienza: poiché, se con un ben piccolo martello si anderà, con percosse uniformi, incon- trando la testa di una grandissima trave che sia a giacere in terra, dopo molte e molte percosse si vedrà finalmente essersi mossa la trave per qualche spazio percettibile, segno evidentissimo che ogni percossa operò separata- mente, per la sua parte, nello spignere la trave; poiché se la prima percossa non fusse a parte di tale effetto, tutte le altre susseguenti, come in luogo di prime, niente affatto opererebbero, la qual cosa è contraria all’espe- rienza, al senso ed alla dimostrazione che si apporterà, etc. La forza della percossa è di infinito momento, perché non vi è resistenza, benché grandissima, che non venga superata da forza di percossa minimissima. Colui che serra le porte di bronzo di S. Giovanni, in- vano tenterebbe di serrarle con una sola e semplice spinta; ma con impulso continuato va imprimendo in quel corpo 29. - G. Galilei, Opere - II 450 GALILEO GALILEI mobile gravissimo forza tale, che quando arriva a per- cuotere ed urtare nella soglia, fa tremare tutta la chiesa. Da questo si veda come si imprima ne’ mobili, e pit ne’ più gravi, ed in essi si moltiplichi e conservi, la forza che con qualche tempo gli si va comunicando, etc. Simile effetto si vede in una grossa campana, che non con una sola tirata di corda, né quattro né sei, si mette in moto gagliardo ed impetuoso, ma con molte e molte, le quali a lungo reiterate, le ultime vanno aggiugnendo forza sopra quella acquistata dalle prime e precedenti strappate: e quanto più grossa e grave sara la campana, tanto maggiore forza ed impeto acquisterà, essendogli comunicato in più lungo tempo e da maggior numero di strappate che non si ricerca ad una piccola campana, che ben presto si mette in impeto, ma presto ancora le si toglie, non essendosi ella imbevuta (per cosî dire) di tanta forza quanto la più grossa. Il simile accade ne’ navigli ancora, i quali non alle prime vogate de’ remi o a i primi impulsi del vento si mettono in furioso corso, ma dalle continue vogate e dalla continua impressione di forza che fa il vento nelle vele acquistano impeto grandissimo, atto a fracassare gl’istessi vascelli, mentre, da quello portati, dessero d'urto in uno scoglio. L'arco dolce, ma grande, d’una balestra farà talvolta maggior passata d’un altro assai più duro, ma di minor tratta, poiché quello, accompagnando per più tempo la palla, gli va continuamente imprimendo la forza, e questo tosto l’abbandona. SOPRA LE DEFINIZIONI DELLE PROPORZIONI D’EUCLIDE. PRINCIPIO DI GIORNATA AGGIUNTA ‘AI DISCORSI E DIMOSTRAZIONI MATEMATICHE INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE. [GIORNATA QUINTA] INTERLOCUTORI SALVIATI, SAGREDO e SIMPLICIO. SAL. Grandissima è la consolazione ch'io sento nel vedere,. dopo l’interposizione di qualch’'anno, rinnovata in questo giorno la nostra solita adunanza. So che l’in- gegno vivace del Sig. Sagredo è tale che non sa stare in ozio: però mi persuado che egli non avrà mancato di fare, nel tempo della nostra lontananza, qualche refles- sione sopra le dottrine del moto, le quali furon lette nell'ultima giornata de’ nostri passati colloqui. Io, che dalla virtuosa conversazione di V. S., ed anco del nostro Sig. Simplicio, 6 sempre raccolto frutti di non volgare erudizione, la prego a voler proporre qualche nuova con- siderazione sopra le cose del nostro Autore gié lette da noi: cosî daremo principio a gli usati discorsi, per passar questa giornata nell’occupazione di virtuoso trattenimento. SAGR. Non nego a V. S. che in questi anni mi sieno passati per la fantasia vari pensieri sopra le novità di- mostrate da quel buon Vecchio intorno alla sua scienza del: moto, sottoposta. e. ridotta da lui alle dimostrazioni della geometria. Ed ora, poiché ella cosf comanda, proc- 452 GALILEO GALILEI curerò di rammentarmi qualche cosa, e darò a lei occa- sione di beneficare il mio ’ntelletto co’ suoi dotti ragio- namenti. Per cominciar dunque per ordine ‘dal principio del trattato de’ moti, proporrrò a V. S. uno scrupolo mio an- tico, rinnovatomi nel considerare la dimostrazione che l'Autore apporta nella sua prima proposizione del moto equabile, la quale procede (come molte altre degli antichi e moderni scrittori) per via degli ugualmente multiplici. Questa è una certa ambiguità che io 6 sempre avuta nella mente intorno alla quinta, o come altri vogliono sesta, difinizione del quinto libro d’Euclide. Stimo mia somma prosperità d’aver potuto incontrare occasione di conferir questo dubbio con V. S., del quale spero dover restar to- talmente liberato. SIMPL. Anzi che io ancora riconoscerò questo nuovo abboccamento con le SS. VV. per benefizio singolare della fortuna, se mi succederà di poter ricever qualche luce intorno a questo punto accennato dal Sig. Sagredo. Non ebbi mai il pit duro ostacolo di questo in quella poca di geometria che io studiai gia nelle scuole da giovanetto; però ella simmagini quanto sia per dovermi esser caro, se dopo tanto tempo sentirò intorno a questo particolare qualche cosa di mia soddisfazione. SAGR. Dico dunque, che avendo sentito, nel dimostrar la prima proposizione dell'Autore intorno al moto equabile, adoprarsi gli ugualmente multiplici conforme alla quinta, ovvero sesta, difinizione del V libro d’Euclide, ed avendo io un poco di dubbio già antiquato intorno a questa difi- nizione, non restai con quella chiarezza che io avrei de- siderato nella predetta proposizione. Ora mi sarebbe pur caro il poter intender bene quel primo principio, per poter poi con altrettanta evidenza restar capace delle cose che seguono intorno alla dottrina del moto. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 453 SAL. Proccurerò di soddisfare al desiderio di V. S., con addomesticare in qualche altra maniera quella difi- nizione d Euclide e spianar la strada, per quanto mi sarà possibile, all'introduzione delle proporzionalità. In tanto sappia pure di aver avuto per compagni in questa am- biguità uomini di gran valore, i quali per lungo tempo sono stati con la medesima poca soddisfazione con la quale V. S. mi dice di ritrovarsi fino a questo giorno. Io poi confesso che per qualche anno dopo aver istu- diato il V libro d'Euclide, restai involto con la mente nella stessa caligine. Superai finalmente la difficultà, quando, nello studiare le maravigliose Spirali d’Archi- mede, incontrai nel bel principio del libro una dimostra- zione simile alla predetta del nostro Autore. Quell’occa- sione mi fece andar pensando, se per fortuna ci fosse altra strada più agevole, per la quale si potesse arrivare al medesimo fine ed acquistare per me, ed anco per altri, qualche precisa cognizione nella materia delle propor- zioni: però applicai allora l'animo con qualche attenzione a questo proposito, ed esporrò adesso quanto fu da me speculato in quell’opportunità, sottoponendo ogni mio progresso al purgatissimo giudizio delle SS. VV. Suppongasi primieramente (come le suppose anco Euclide, mentre le difini) che le grandezze proporzionali si trovino: cioè, che date in qualunque modo tre gran- dezze, quella proporzione, o quel rispetto o quella rela- zione di quantità, che 4 la prima verso la seconda, la stessa possa averla una terza verso una quarta. Dico poi, che per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali la quale produca nell’animo del lettore qualche concetto aggiustato alla natura di esse grandezze proporzionali, dovremmo prendere una delle loro passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche. Cosi fece Euclide stesso in molt’altri 454 aL GALILEO GALTLEI luoghi. Sovvengavi che egli non disse, il cerchio essere una figura piana, dentro la quale segandosi due linee rette, il rettangolo sotto le parti dell'una sia sempre uguale al rettangolo sotto le parti dell’altra; ovvero, dentro la quale tutti i quadrilateri abbiano gli angoli opposti uguali a due retti. Quand’anche cosî avesse detto, sarebbero state buone difinizioni: ma mentre egli sapeva un’altra pas- sione del cerchio, più intelligibile della precedente e più facile :da formarsene concetto, chi non s'accorge che egli fece assai meglio a mettere avanti quella più. chiara e più evidente come difinizione, per cavar poi da essa quel- l’altre più recondite e dimostrarle come conclusioni? SAGR. Per certo che'cosî è: ed io credo che rari sa- ranno gl'ingegni i quali totalmente s'acquetino a questa difinizione, se io con Euclide dirò così: «Allora quattro grandezze sono proporzionali, quando gli ugualmente multiplici della prima e della terza, presi secondo qualunque multiplicità, si accorderanno sempre nel superare, mancare o pareggiare gli ugualmente mul- tiplici della seconda e della quarta. E chi è quello d’ingegno tanto felice, il quale abbia certezza che allora quando le quattro grandezze sono pro- porzionali, gli ugualmente multiplici s'accordino sempre? ovvero chi sa che quegli ugualmente multiplici non s'ac- cordino sempre anco ‘quando le grandezze non sieno pro- porzionali? Già Euclide nelle precedenti difinizioni aveva detto, la proporzione tra due grandezze essere un tal ri- spetto o relazione tra di loro, per quanto si appartiene alla quantità. Ora, avendo il lettore concepito già nell’in- telletto che cosa sia la proporzione fra due grandezze, sarà difficil cosa che egli possa intendere che quel rispetto o relazione che è fra la prima e la seconda grandezza, allora sia simile al rispetto o relazione che si trova fra la terza e la quarta grandezza, quando quegli ugualmente multiplici della prima e della terza s'accordan sempre DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 455 nella maniera predetta con gli ugualmente multiplici della seconda e della quarta, nell’esser sempre maggiori, o minori, o uguali. SAL. Comunque ciò sia, parmi questo d’Euclide più tosto un teorema da dimostrarsi, che una difinizione da premettersi. Però, avend’io "ncontrato tanti ingegni i quali ànno arrenato in questo luogo, mi sforzerò di secondare con la difinizione delle proporzioni il concetto universale degli uomini anche ineruditi nella geometria, e procederò in questo modo. Allora noi diremo quattro grandezze esser fra loro proporzionali, cioè aver la prima alla seconda la stessa proporzione che 4 la terza alla quarta, quando la prima sara eguale alla seconda e la terza ancora sara eguale alla quarta; ovvero quando la prima sarà tante volte multiplice della seconda, quante volte precisamente la terza è multiplice della quarta. Troverà dubbio alcuno il Sig. Simplicio nell’intender questo? SIMPL. Certo che no. SAL. Ma perché non sempre accaderà che fra le quattro grandezze si trovi per appunto la predetta egua- lità ovvero multiplicità precisa, procederemo più oltre, e domanderò al Sig. Simplicio: Intendete voi che le quattro grandezze allora sieno proporzionali, quando la prima contenga, per esempio, tre volte e mezzo la seconda, ed anco la terza contenga tre volte e mezzo la quarta? SIMPL. Intendo benissimo fin qui, ed ammetto che le quattro grandezze sieno proporzionali non solo nel caso esemplificato da V. S., ma ancora secondo qualsivoglia altra denominazione di multiplicità, o superparziente, o superparticolare. SAL. Per raccoglier dunque ora in breve e con mag- giore universalità tutto quello che si è detto ed esempli- ficato fin qui, diremo che: 456 GALILEO GALILEI Allora noi intendiamo quattro grandezze esser pro- porzionali fra loro, quando l’eccesso della prima sopra la seconda (qualunque egli sia) sarà simile all'eccesso della terza sopra la quarta. SIMPL. Fin qui io non avrei difficultà: ma mi pare che V. S. in questa maniera non apporti la difinizione delle grandezze proporzionali se non quando le antece- denti saranno maggiori delle loro conseguenti, poiché ella suppone che la prima ecceda la seconda e che anco la terza ecceda similmente la quarta. Ma ora interrogo io: come dovrò governarmi quando le antecedenti sieno mi- nori delle loro conseguenti? SAL. Rispondo, che quando V. S. avrà le quattro grandezze in tal modo che la prima sia minor della se- conda e la terza minor della quarta, allora sar la se- conda maggior della prima e la quarta maggior della terza: però V. S. le consideri con quest'ordine inverso, e simmagini che la seconda sia prima e la quarta sia terza. Cosi avrà le antecedenti maggiori delle conseguenti, e non avrà bisogno di cercare allora difinizione diversa dalla gia apportata da noi. SAGR. Cosi è per appunto. Ma séguiti V. S. per grazia col presupposto già fatto, di considerare sempre le ante- cedenti maggiori delle loro conseguenti, il che mi pare che faciliti assai a lei il discorso ed a noi l’intelligenza. SAL. Stabilita questa per difinizione, soggiugnerò anco in qual altro modo s’intendano quattro grandezze esser fra loro proporzionali; ed è questo. Quando la prima per avere alla seconda la medesima proporzione che la terza alla quarta non è punto né maggiore né minore di quello che ella dovrebbe essere, allora s'intende aver la prima alla seconda la medesima proporzione che & la terza alla quarta. Con questa occasione difinirei ancora la propor- zione maggiore, e direi cosi: DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 457 Ma quando la prima grandezza sarà alquanto più grande di quel che ella dovrebbe essere per avere alla seconda la medesima proporzione che à la terza alla quarta, allora voglio che convenghiamo di dire che la prima abbia maggior proporzione alla seconda, di quella che à la terza alla quarta. SIMPL. Bene: ma quando la prima fosse minore di quel che ella dovrebbe esser per avere alla seconda quella medesima proporzione che & la terza alla quarta? SAL. Mentre la prima sia minor di quel che si ricer- cherebbe per aver alla seconda quella medesima propor- zione che 4 la terza alla quarta, sarà segno evidente che la terza è maggior del giusto per aver alla quarta quella tal proporzione che 4 la prima alla seconda: però in questo caso ancora V. S. si contenti di concepir l'ordine in altro modo, e s'immagini che quelle grandezze che erano terza e quarta diventino prima e seconda, e quel- l'altre che erano prima e seconda V. S. le riponga ne’ luoghi della terza e della quarta. SAGR. Fin ora intendo benissimo il concetto di V. S. e l’introduzione con la quale ella dé principio alla spe- culazione delle proporzionali. Parmi ora che ella si sia messa in obbligo di adempire una delle due cose: cioè, o di dimostrare con questi suoi principî tutto il quinto d’Euclide, ovvero di dedurre da queste due difinizioni, poste da V. S., quell’altre due che Euclide mette per quinta e per settima fra le difinizioni, sopra le quali poi egli fonda tutta la macchina del medesimo quinto libro. Se V. S. dimostrerà queste come conclusioni, non mi re- sterà più che desiderare intorno a questa materia. SAL. Questa per appunto è l’intenzion mia: poiché quando si comprenda con evidenza, che date quattro grandezze proporzionali conforme alla medesima difini- zione, gli ugualmente multiplici della prima e della terza s'accordano eternamente per necessità in pareggiare 0 30. - G. Galilei, Opere - II. 458 GALILEO GALILEI mancare o eccedere gli ugualmente multiplici della se- conda e quarta, allora senz’altra scorta si può entrare nel quinto libro d’Euclide e si possono ’ntender con evidenza 1 teoremi delle grandezze proporzionali. Cosî ancora, se con la posta difinizione della proporzion maggiore dimo- strerò che in qualche caso, presi gli ugualmente multiplici della prima e della terza ed anco della seconda e della quarta, quel della prima ecceda quel della seconda, ma quel della terza non ecceda quel della quarta, si potrà con questa dimostrazione scorrere gli altri teoremi delle grandezze sproporzionali, poiché questa nostra conclu- sione sara per appunto la difinizione della quale, come per principio, si serve Fuclide stesso. SIMP. Quando io restassi persuaso di queste due pas- sioni degli ugualmente multiplici, cioè che, mentre le quattro grandezze son proporzionali, quegli eternamente s accordano nel pareggiare o eccedere o mancare, e che, quando le quattro grandezze non son proporzionali, quegli in qualche caso discordano, io per me non richie- derei altra luce per intender con chiarezza tutto ’1 quinto degli Elementi geometrici. SAL. Ora ditemi, Sig. Simplicio: se noi supporremo che le quattro grandezze A, B, AB. C.D. C, D, sieno proporzionali, cioè che la prima A alla se- conda B abbia la stessa proporzione che la terza C £ verso la quarta B, intendete voi che anco due delle prime verso la seconda avranno la medesima proporzione che due delle terze verso la quarta? SIMPL. Io l’intendo assai bene: imperciocché mentre una prima alla seconda & la medesima proporzione che una terza alla quarta, non saprei immaginarmi per qual ragione due delle prime alla seconda debbano aver pro- porzion diversa da quella che Anno due delle terze alla quarta. i DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 459 SAL. Adunque, mentre V. S. intende questo, inten- derà ancora che quattro, o dieci, o cento, delle prime ad una seconda avranno la stessa proporzione che énno quattro, o dieci, o cento, delle terze ad una quarta. SIMPL. Certo che si; e purché i numeri delle multi- plicità sieno uguali, facilmente apprendo che la prima, presa due volte o dieci o cento, avra la stessa proporzione verso la seconda, che 4 la terza, presa anch’essa due volte o dieci o cento, verso la quarta. Sarebbe ben difficile per- suadermi il contrario. SAL. Non è dunque ardua cosa il capire che il mul- tiplice della prima abbia la stessa proporzione alla se- conda, che a l’ugualmente multiplice della terza alla quarta, cioè che la prima, multiplicata quante volte ci pare, abbia alla seconda quella proporzione stessa che 4 la terza, multiplicata altrettante volte, verso la quarta. Ora tutto quello che io 6 esemplificato fin qui con mul- tiplicare le grandezze antecedenti, ma non già le con- seguenti, immaginatevi che sia detto anco intorno al multiplicare le conseguenti solamente, senza punto alte- rare l’antecedenti, e ditemi: credete voi che date quattro grandezze proporzionali, la prima a due delle seconde abbia proporzion diversa da quella che & la terza a due delle quarte? SIMPL. Credo assolutamente di no; anzi quando una prima abbia ad una seconda la medesima propor- zione che una terza & verso la quarta, intendo assai bene che quella stessa prima a due, o quattro, o dieci, delle seconde, avrà quella medesima proporzione che & la stessa terza verso due, o quattro, o dieci, delle quarte. SAL. Ammettendo dunque voi questo, confessate di restar appagato e d’intender con facilità, che date quattro grandezze proporzionali A, B, C, D, e multiplicate egual- mente la prima e la terza, quella proporzione che a il multiplice E della prima A alla seconda B, la stessa an- 460 GALILEO GALILEI cora abbia precisamente l’ugualmente multiplice F della terza C alla quarta D. Immaginatevi dunque che queste sieno le nostre quattro grandezze proporzionali, E, B, F, D, cioè il multiplice E della 7 prima sia prima, la se- LB vano conda stessa B sia seconda, E as il multiplice poi F della E TOS, terza sia terza, e la quarta D sia quarta. V. S. mi & anco detto di capire, che multiplicandosi egualmente le conseguenti B, D, cioè la seconda e la quarta, senza al- terar punto le antecedenti, la medesima proporzione avrà la prima al multiplicato della seconda, che la terza al multiplicato della quarta. Ma queste quattro gran- dezze saranno per appunto E, F, ugualmente multiplici della prima e della terza, e G, H, egualmente multiplici della seconda e della quarta. SAGR. Confesso che di ciò resto interamente appa- gato; ed ora intendo benissimo la necessità per la quale gli ugualmente multiplici delle quattro grandezze pro- porzionali eternamente s’accordano nell’essere o maggiori o minori o eguali, etc. Poiché, mentre presi gli ugualmente multiplici della prima e della terza e gli ugualmente perdi multiplici della seconda e della quarta, V. S. mi dimostra | che il multiplice della prima al multiplice della seconda 4 la medesima proporzione che il multiplice della terza 4 verso il multiplice della quarta, scorgo manifestamente che quando il multiplice della prima sia maggiore del multiplice della seconda, allora il multiplice della terza dovrà necessariamente (per servar la proporzione) esser maggiore del multiplice della quarta; quando poi sia mi- nore, ovvero uguale, anche il multiplice della terza dovrà esser minore, ovvero uguale, al multiplice della quarta. . SIMPL. Io ancora non sento in ciò repugnanza veruna. Resto bene con desiderio d’intendere, come (supposte le DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 461 quattro grandezze sproporzionali) sia vero che gli ugual- mente multiplici non servino sempre quella concordanza, nell’esser maggiori o minori o uguali. SAL. Io in questo ancora proccurerò che V. S. abbia compiuta soddisfazione. Pongansi le quattro grandezze date A B, C, D, E, e sia la prima AB alquanto maggiore di quello che ella do- vrebbe essere per avere alla seconda C quella medesima proporzione che & la terza D alla quarta E: mostrerò, che Santa i: presi in certa particolar ma- Bafosmpoicb Dod niera gli ugualmente multi- Essa plici della prima e della ter- mb li za, e presi altri ugualmente 00/3 da ao o multiplici della seconda e SS PTT TOGNI. LO SORR RISE AO quarta, quello della prima si troverà maggiore di quello della seconda, ma quello della terza non sarà altrimenti maggiore di quello della quarta, anzi lo dimostrerò esser minore. Intendasi dunque esser levato dalla prima grandezza A B quell’eccesso il quale la faceva maggiore di quanto ella dovrebbe essere acciò fosse precisamente proporzio- . nale, e sia tale eccesso l’F B: resteranno ora dunque le quattro grandezze proporzionali, cioè la rimanente A F alla C avrà la medesima proporzione che 4 la D alla E. Multiplichisi F B tante volte, ch’ella sia maggior della C, e sia questo multiplice il segnato HI; prendasi poi HL altrettante volte multiplice della A F, e la M della D, quante volte per appunto l’HI sarà stata presa mul- tiplice della F B. Stante questo, non è dubbio alcuno che tante volte sarà multiplice la composta LI della com- posta A B, quante volte PV HI della F B, ovvero la M della D, è multiplice. Prendasi ora la N multiplice della C con tal legge, che la stessa N sia prossimamente maggiore della L H; 462 GALILEO GALILEI ed in ultimo, quanto sarà multiplice la N della C, altret- tanto pongasi la O multiplice della E. Ora, essendo la multiplice N prossimamente maggiore della L H, se noi dalla N intenderemo esser levata una delle grandezze sue componenti (che sarà eguale alla C), resterà il residuo non maggiore della L H. Se dunque alla stessa N renderemo la grandezza eguale alla C (che in- tendemmo esser levata), ed alla LH, che è non minore di detto residuo, aggiugneremo la HI, che pure è maggiore dell'aggiunta alla N, sarà tutta la LI maggior della N. Ecco dunque un caso nel quale il multiplice della prima supera il multiplice della seconda. Ma essendo le quattro grandezze A F, C, D, E fatte proporzionali da noi, ed essendosi presi gli ugualmente multiplici L H ed M della prima e della terza ed N ed O della seconda e della quarta, saranno essi (per le cose già stabilite di sopra) sempre concordi nell’esser maggiori o minori 0 uguali; però, essendo il multiplice L H della prima gran- dezza, minore del multiplice N della seconda, per la nostra construzione sarà anco il multiplice M della terza, minore necessariamente del multiplice O della quarta. Si è per tanto provato, che mentre la prima grandezza sarà alquanto maggiore di quello che ella dovrebbe essere per avere alla seconda la stessa proporzione che a la terza alla quarta, allora sara possibile di prendere in qualche modo gli ugualmente multiplici della prima e della terza ed altri ugualmente multiplici della seconda e della quarta, e dimostrare che il multiplice della prima eccede il multiplice della seconda, ma il multiplice della terza non eccede quel della quarta. SAGR. Molto bene 6 inteso quanto V. S. a dimostrato fin qui. Resta ora che ella da queste dimostrate premesse deduca come necessarie conclusioni le due controverse difinizioni d’Euclide; il che spero gli sarà facile, avendo di gia dimostrati due teoremi conversi di quelle. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 463 SAL. Facili per appunto riusciranno; e per dimostrare la 52 difinizione io procederò cosi. Se delle quattro grandezze A, B, C, D, gli ugualmente multiplici della prima e terza, presi secondo qualunque multiplicità, sempre si accorde- ranno nel pareggiare o mancare ovvero eccedere gli ugualmente o: i multiplici della seconda e della Ba) D quarta respettivamente, io dico che le quattro grandezze son fra di loro proporzionali. Imperciocché sieno (se è possibile) non proporzionali: adunque una delle antecedenti sara maggior di quello che ella dovrebbe essere per avere alla sua conseguente la stessa proporzione che & l’altra antecedente alla sua con- seguente. Sia, per esempio, la segnata A; adunque, per le cose già dimostrate, pigliandosi gli ugualmente multiplici della A e della C in una tal maniera, e pigliandosi gli ugualmente multiplici delle B, D, nel modo che si è in- segnato si mostrerà la multiplice di A maggior della mul- tiplice di B: ma la multiplice di C non sarà altrimenti maggiore, ma minore, della multiplice di D: che è contro al supposto fatto da noi. Per dimostrar la settima difinizione dirò cosî. Sieno le quattro grandezze A, B, C, D, e suppongasi che presi in qualche particolar maniera gli ugualmente multiplici delle due antecedenti, prima e terza, e gli ugualmente multiplici delle due conseguenti, seconda e quarta, sup- pongasi, dico, che si trovi un caso, nel quale il multiplice di A sia maggior del multiplice di B, ma il multiplice di C non sia maggior del multiplice di D: io dico che la A alla B avrà maggior proporzione che la C alla D, cioè che la A sarà alquanto maggiore di quel ch’ella dovrebbe essere per avere alla B la stessa proporzione che é& la. C.alla D. Se è possibile, non sia A maggior del giusto: sarà 464 GALILEO GALILEI dunque precisamente proporzionale, ovvero minor del giusto per esser proporzionale. Quanto al primo, se ella fosse precisamente aggiustata e proporzionale, sarebbero, per le cose già provate, gli ugualmente multiplici della prima e della terza, presi in qualunque modo, sempre concordi nel pareggiare o mancare o eccedere gli ugual- mente multiplici della seconda e della quarta: il che è contro alla supposizione. Se poi la prima fosse minor del giusto per esser proporzionale, questo è segno che la terza sarebbe maggiore del suo dovere per avere alla quarta quella proporzione che & la prima alla seconda. Allora io direi che si levasse dalla terza quell’eccesso che la fa esser maggior del giusto, e però la rimanente reste- rebbe poi per appunto proporzionale. Ora, considerando quei multiplici particolari supposti da principio, è mani- festo che essendo il multiplice della prima maggior del multiplice della seconda, anco il multiplice della terza, cioè di quella rimanente, sarà maggior del multiplice della quarta; adunque, se in cambio di pigliar il multiplice di quella rimanente ripiglieremo l’egualmente multiplice di tutta la terza intera, questo sarà maggior che non era il multiplice di quella rimanente, e però sarà questo stesso molto maggiore di quel della quarta: il che è contro la supposizione. SAGR. Resto soddisfattissimo di questa dilucidazione fattami da V. S. in materia nella quale io n'avevo già lungo tempo bisogno; né saprei esprimere quale in me sia maggiore, o il gusto di questa cognizione nuovamente acquistata, o il rammarico di non averla io proccurata col chiederla a V. S. fin dal principio de’ nostri primi’ abboccamenti, tanto più avendo io inteso che ella la con- feriva a diversi amici, a’ quali per la vicinanza era lecito di frequentar la sua villa. Ma seguitiamo, di grazia, i discorsi, quando però il Sig. Simplicio non abbia che re- plicare intorno alla materia fin qui considerata. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 465 SIMPL. Io non saprei che soggiugnere, anzi resto in- teramente appagato del discorso, e capace delle dimo- strazioni sentite. SAL. Posti questi fondamenti, si potrebbe compen- diare in parte e riordinare tutto il quinto d’Euclide, ma ciò sarebbe una digressione troppo lunga e troppo lon- tana dal nostro principale intento; oltre che io so che le SS. VV. averanno veduto di simili compendî stampati da altri autori. Ora, essendosi considerate fin qui, a riquisizione delle SS. VV., le difinizioni quinta e settima del quinto libro, spero che esse concederanno volentieri a me il poter proporre adesso un'antica mia osservazione sovvenutami sopra un’altra difinizione d’Euclide medesimo. Il sog- getto non sarà diverso dall'incominciato e non parrà alieno dal nostro proposito, essendo intorno alla pro- porzion composta, la quale vien maneggiata spesse volte dal nostro autore ne’ suoi libri. Trovasi fra le difinizioni del sesto libro d’Euclide la quinta della proporzion composta, la quale dice in questo modo: Allora una proporzione si dice comporsi di pit proporzioni, quando le quantità di dette proporzioni mul- tiplicate insieme avranno prodotto qualche proporzione. Osservo poi che né il medesimo Euclide, né alcun altro autore antico, si serve della stessa difinizione nel modo nel quale ell’è stata posta nel libro; onde ne se- guono due inconvenienti, cioè al lettore difficultà d’intel- ligenza, ed allo scrittore nota di superfluità. SAGR. Questo è verissimo; ma non mi par probabile che la suprema accuratezza d’Euclide abbia fra’ suoi libri posta questa difinizione inconsideratamente ed in vano. Però non sarei affatto fuor di sospetto che ella vi fosse stata aggiunta da altri, o almeno alterata di tal sorte, che ella oggidi non si riconosca più, mentre dagli autori si pone in opera nel dimostrare i teoremi. 466 GALILEO GALILEI SIMPL. Che gli altri autori non se ne servano, io lo crederò alle SS. VV., non avendovi fatto molto studio: mi dispiacerebbe bene se da Euclide stesso, il quale viene stimato da voi altri per tanto puntuale nelle sue scrit- ture, fosse stata posta indarno. Ma qui bisogna poi ch'io confessi come l'intelletto mio, il quale non si è mai più che mediocremente inoltrato nella matematica, 4 incon- trato difficultà intorno a questa difinizione, forse non minore che nelle gia spianate dal Sig. Salviati. Mi aiutai un tempo fa con legger lunghissimi comenti scritti sopra queste materie, ma, per dire il vero, non conobbi giammai che mi si sgombrassero quelle tenebre che mi tenevano offuscato l'intelletto. Però, se V. S. avesse qualche parti- colar considerazione che mi facilitasse questo ancora, l’assicuro che mi farebbe un favore molto segnalato. SAL. Forse ella si presuppone che questa sia materia di profonde speculazioni, e pure troverà che non consiste in altro che in un semplicissimo avvertimento. Simmagini V. S. le due grandezze A, B dello stesso genere; avrà la grandezza A alla B una tal proporzione; e dopo concepisca esser posta fra B di loro un’altra grandezza C, pur A bia dello stesso genere: si dice che [Aa] quella tal proporzione che & la - grandezza A alla B viene ad esser composta delle due proporzioni intermedie, cioè di quella che & la A alla C e di quella che 4 la C alla B. Questo è per appunto il senso secondo ’1 quale Euclide si serve della predetta difinizione. SIMPL. È vero che Euclide intende in questo modo la proporzione composta, ma però non intend’io come la grandezza A alla B abbia proporzion composta delle due proporzioni, cioè della A alla C e della C alla B. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 467 SAL. Ora ditemi, Sig. Simplicio: intendete voi che la A alla B abbia qualche proporzione, qualunque ella sia? SIMPL. Essendo esse del medesimo genere, Signor si. SAL. E che quella proporzione sia immutabile, e non possa mai essere altra o diversa da quella che ell’è? SIMPL. Intendo questo ancora. SAL. Vi soggiungo ora io, che nello stesso modo per appunto l’A alla C 4 una proporzione immutabile, e cosi anco la C alla B. La proporzione poi, che è fra le due estreme A e B, si chiama esser composta delle due pro- porzioni che mediano fra esse estreme, cioè di quella che 4 la A alla Ce di quella che a la C alla B. Aggiungo di più, che se V. S. fra queste grandezze A e B s'immaginerà che sia frapposta non una gran- dezza sola, ma più d'una, come ella vede in questi segni A, C, D, B, s'intenderà pure, la proporzione . ACD.B della A alla B esser composta di tutte le pro- i adioc porzioni le quali sono intermedie fra di esse, cioè delle proporzioni che inno la A alla C, la C alla DelaD alla B; e cosi se più fussero le grandezze, sempre la prima all'ultima & proporzion composta di tutte quelle propor- zioni le quali mediano fra di esse. Avvertisco ora in quest'occasione, che quando le pro- porzioni componenti sieno uguali fra di loro, o per dir meglio sieno le stesse, allora la prima all'ultima avrà, come di sopra aviamo detto, una tal proporzione com- posta di tutte le proporzioni intermedie; ma perché quelle proporzioni intermedie sono tutte uguali, potremo espri- mere il medesimo nostro senso con dire, che la proporzione della prima all'ultima 4 una proporzione tanto multiplice della proporzione che 4 la prima alla seconda, quante per appunto saranno la proporzioni che si frappongono fra la prima e l'ultima. Come, per esempio, se fossero tre ter- mini, e che la medesima proporzione fosse fra la prima e la seconda che è fra la seconda e la terza, allora sarebbe 468 GALILEO GALILEI vero che la prima alla terza avrebbe proporzion composta delle due proporzioni le quali sono fra la prima e la se- conda e fra la seconda e la terza; ma perché queste due proporzioni si suppongono uguali, cioè le stesse, potrà dirsi che la proporzione della prima alla terza è dupli- cata della proporzione che d la prima alla seconda. Cosi, quando le grandezze fossero quattro, si potrebbe dire che la proporzione della prima alla quarta è composta di quelle tre proporzioni intermedie, ed ancora che è tripli- cata della proporzione della prima alla seconda, venendo composta tal proporzione, che 4 la prima alla quarta, della proporzione della prima alla seconda tre volte presa, etc. i Ma qui finalmente non vanno contemplazioni né di- mostrazioni, imperciocché è una semplice imposizione di nome. Quando a V. S. non piacesse il vocabolo di com- posta, chiamiamola incomposta, o impastata, o confusa, o in qualunque modo più aggrada a V. S.; solo accordia- moci in questo, che quando poi avremo tre grandezze dello stesso genere, ed io nominerò la proporzione incom- posta, o impastata, o confusa, vorrò intendere la propor- zione che anno l’estreme di quelle grandezze, e non altro. SAGR. Tutto questo intendo benissimo; anzi 6 più d'una volta osservato l’artifizio d'Euclide nella proposi- zione dove ei dimostra che i paralellogrammi equiangoli anno la proporzione composta delle proporzioni de’ lati. Egli si trova in quel caso aver le due proporzioni com- ponenti in quattro termini, che sono i quattro lati de’ paralellogrammi: però comanda che quelle due propor- zioni si mettano in tre termini solamente, sicché una di quelle proporzioni sia fra ’l primo termine e ’1 secondo, l’altra sia fra ’l secondo e ‘1 terzo; nella dimostrazione poi non fa altro se non che e’ dimostra che l’un paralello- grammo all’altro è come ’1 primo termine al terzo, cioè & la proporzione composta di due proporzioni, di quella DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 469 che 4 il primo termine al secondo e dell’altra che à il se- condo al terzo, le quali sono quelle due proporzioni che prima egli aveva disgiunte ne’ quattro lati de’ paralel- logrammi. SAL. V. S. discorre benissimo. Ora intesa e stabilita la difinizione della proporzione composta in questo modo (la quale non consiste in altro fuori che nell’accordarsi che sorta di roba noi intendiamo sotto quel nome), si può dimostrare la proposizion ventitrè del sesto libro d’Euclide come la dimostra egli stesso, perché quivi ei non suppone la difinizione nel modo nel quale ell’è di- vulgata, ma ben sî nel modo detto sopra da noi. Dopo la nominata proposizion 23 io soggiugnerei, come corollario di essa, la divulgata difinizione quinta del sesto libro della proporzion composta, tramutandola però in un teorema. Pongansi due proporzioni, una delle quali sia ne ter- mini A, B, l’altra ne’ termini C, D. Dice la difinizione vulgata, che la proporzione composta di queste due pro- porzioni si avrà se noi multiplicheremo fra di loro le quantità di esse proporzioni. lo concorro col Sig. Sim- plicio nel credere che questa sia una proposta difficile da capirsi e bisognosa di prova; però con poca fatica noi la dimostreremo cosi. | Se li quattro termini delle due proporzioni non fos- sero in linee, ma in altre grandezze, immaginiamoci che e’ sieno posti in linee rette. Fac- ciasi poi delle due antecedenti EL, A, C un rettangolo, siccome del- o ea Da le due conseguenti B, D un altro i rettangolo: è chiaro, per la 25 B del sesto d’Euclide, che il ret- VI tangolo fatto dalle A, C, al ret- a D tangolo dalle B, D, avrà quella proporzione che è composta delle due proporzioni A verso B e C verso D, le quali son quelle due che ponemmo da 470 GALILEO GALILEI principio a fine di ritrovare qual fosse la proporzione che risultava dalla composizione di esse. Essendo dunque la proporzione composta delle proporzioni A verso B e C verso D quella che 4 il rettangolo A C al rettangolo BD, per la suddetta proposizion 23 del sesto, io domando al Sig. Simplicio come abbiamo noi fatto per ritrovare questi due termini, ne’ quali consiste la proporzione che si cercava da noi? SIMPL. lo non credo che si sia fatt’altro, se non formar due rettangoli con quelle quattro linee poste da principio; uno, cioè, con le antecedenti A, C, e l’altro con le conseguenti B, D. SAL. Ma la formazione de’ rettangoli nelle linee della geometria corrisponde per appunto alla multiplicazione de’ numeri nell’arimmetica, come sa ogni matematico anche principiante; e le cose che noi abbiamo multipli- cate sono state le linee A, C e le linee B, D, cioè i ter- mini omologhi delle poste proporzioni. Ecco dunque come, multiplicando insieme le quantità o le valute delle date proporzioni semplici, si produce la quantità o la valuta della proporzione la quale poi si chiama composta di quelle. FRAMMENTI ATTENENTI AI DISCORSI E DIMOSTRAZIONI MATEMATICHE INTORNO A DUE NUOVE SCIENZE. Essendo per varii emergenti, ed in particolare per la morte dell'Imperatore, tagliato il disegno d’intitolare la mia opera a Sua Maestà, ho fatto pensiero che l’'Illustris- simo Sig. Conte di Novailles, tanto mio antico e benigno padrone, occorrendo, dica che, nel passar da queste parti e nell’abboccamento che ebbe meco, io gli consegnassi queste opere, perché le tenesse appresso di sé e ne la- sciasse copia in qualche libreria famosa, acciò non se ne perdesse del tutto la memoria. Mi figuro poi che, in qualche modo a me incognito, ne sia pervenuta copia in mano a gli Elzevirii, i quali l’abbino stampata sponta- neamente, ma, come cosa mia, mi chiegghino adesso la dedicatoria e l’intitolazione. Alla qual richiesta io ri- sponderei, significandoli come mi è giunto nuovo ed ina- spettato il sentire che, senza alcuna mia saputa, sieno stampate opere mie; ed insieme risolverei di far comparir un’altra lettera, scritta da me al Sig. Conte di Noailles, molto dubbia circa il rallegrarmi o contristarmi che, senza esserne io consapevole, queste mie opere eschino alla stampa, avendo qualche giusta cagione di temere che i miei vigilantissimi nimici siano per procurarmene qualche disgusto, e che però, sendo questo proceduto da troppo affetto del Sig. Conte verso di me, che a lui si conveniva il comportarne le pene: sf che il desiderio mio era che l’opera fusse dedicata alla sua protezzione. 472 GALILEO GALILEI Se sia un solido sopra l’orizonte e questo si deva al- zare, è cosa chiara, che se piglieremo una lieva che abbia il suo sostegno, ch’a volerlo equilibrare, bisognerà, vo- lendo prima sollevarlo, mettere dall’altra parte della lieva potenza tale, che abbia al peso assoluto di detto solido la medesima proporzione che hanno tra loro le parti di detta lieva, ma contrariamente prese. Ma se ci contente- remo d’alzarne una parte, e che il rimanente si posi in terra, in questo caso, mentre si comincia ad alzarne una parte, sempre va scemando il peso sopra la lieva e va crescendo in terra: però si dimostrerà che detto peso alla potenza che deve equilibrarlo, in qualsivoglia sito che sarà detto solido, abbi proporzione composta di quella che hanno tra di loro le parti della lieva, cioè quella ch'è dal fulcimento verso la potenza a quella ch'è dal fulci- mento verso il solido, e di quella ch’ha la linea parallela all’orizonte, compresa tra la perpendicolare che casca dove tocca la lieva nel solido e dove tocca il solido in terra, a quella ch'è compresa tra la perpendicolare che casca a detta linea dal centro della gravità di detto solido e dove tocca detto solido la detta linea orizontale. Sia il solido A, il quale sia equilibrato dalla lieva BD sostenuta nel punto C, e che posi in terra nel punto G: dico che il peso assoluto di detto solido, in qualsivogli sito, ha alla potenza posta in B una proporzione composta di quella che ha la BC alla CD e di quella di EG alla GF. Facciasi come la EG alla G F, cosi C D ad un’altra, che sia H; e tirisi IF dal centro della gravità del solido, perpendicolare alla GE orizon- tale. Perché dunque la potenza che sostiene il solido A nel punto D alla potenza che sostiene il medesimo nel DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 473 punto G ha la proporzione che ha la linea GI alla ID, sendo detto solido sostenuto nelli due punti D, G, sarà, componendo tutte a due le potenze, cioè il peso assoluto del solido A, ch'è l’istesso, alla potenza D come E G alla GF, cioè come C D alla H: ma la potenza di D a quella di B è come BC alla CD: adunque, ex aquali in pro- porzion perturbata, il peso A alla potenza B ha la pro- porzione di BC alla H, che è composta di quella che ha la BC alla CD e di quella di CD alla H, cioè EG alla GF: che è quello etc. Per voler poi trovare la quantità, multiplichisi insieme le dua antecedenti, cioè la BC per la EG e la CD per la GF: e cosî sarà nota che potenza ci bisogni in qual- sivoglia sito. Ponderum in libra suspensorum momenta habent ra- tionem compositam ex ratione ipsorum ponderum et ex ratione distantiarum. Pendeant pondera de, f ex distantiis a b, bc: dico, momentum ponderis d e ad momentum ponderis f habere rationem compositam ex rationibus ponderis de ad pondus f et distantie ab ad distantiam bc. Ut enim ab ad bc, ita fiat pondus f ad pondus do: cum ergo pondera f et do habeant rationem distantiarum ab, be permutatam, erit momentum ponderis f sequale momento ponde- ris de. Cum igi- tur sint 3 pon- dera utcumque ed, f et do, erit ratio ponderis ed ad do com- posita ex rationibus ed ad f et f ad do: ut autem pondus ed ad pondus do, ita momentum e d ad momentum do; pendent enim ex eodem puncto: igitur, cum momentum 474. AVGATIDEO. \GALOLEI do sit equale momento f, ratio momenti ed ad momentum f erit composita ex rationibus ponderis ed ad pondus f et ponderis f ad pondus do. Factum est autem pondus f ad pondus do ut distantia ab ad distantiam bc: ergo patet, momentum ponderis ed ad momentum ponderis f habere rationem compositam ex rationibus ponderum ed, f et distantiarum ab, bc. Quod si suspendatur ex puncto s, facta distantia bs equali distantize bc, pondus #.sequale ponderi f, erit eius momentum momento f saequale; et similiter ponderum e d et t momenta habebunt rationem compositam ex ponde- ribus e d, t et ex distantiis a b, bs. Sit modo cylindrus e gt, respondens libre abcd, utcumque sectum in s g: dico, momentum totius cylindri pendentis ex c ad momentum partis e g pendentis ex b esse ut [ ]dca ad [_]dba. Fx demonstratis enim, momentum ponderis e gt ad momentum ponderis e g habet rationem compositam ex pondere egt ad pondus eg et distantie cd ad distantiam db: pondus autem egt ad pondus eg est ut linea ac ad ab: ergo momentum ponderis e gf ad momentum ponderis e g habet rationem compositam ex cd ad db et ex ca ad ab, que est [_Jdca ad [i]dba, a b G d e g # Sit parabola cba parallelogrammo cp inscripta: dico, parallelogrammum parabola esse sexquialterum; hoc est, esse triplum reliqui spacii a p db extra parabolam. Si enim non sit, aut erit maius aut minus. Sit, primo, malus: excessus autem quo spacium pc maius est quam triplum spacii a pb, vocetur x; divisoque parallelogrammo continue in spacia equalia per lineas ipsis ac, p bd paral- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 475 lelas. deveniemus ad spacia, quorum unum ipso x erit minus, quale sit o db, et per puncta ubi reliquee parallele lineam parabole secant, ducantur aequidistantes ipsi a p, donec figura queaedam spacio relicto extra parabolam cir- cumscribatur, constans ex parallelogrammis ag,ke,lf,mh,ni,ob, que figura spacium apbextra parabolam minori quantitate supe- rabit quam sit x, cum superet idem quantitate adhuc minori parallelo- grammo o b. Ergo idem parallelogrammum c p maius erit quam tri- plum dicta figure cir- i cumscripte: quod est ag n fr | impossibile. Nam est illa minus quam triplum: nam cum da ad az sit ut [ ]de ad []zg: ut autem da ad az, ita parallelogrammum d k, seu ke, ad parallelogrammum kz; ergo ut [ ]zg ad [ ]de, idest ak ad al, ita parallelogrammum a g ad paral- lelogrammum Ke. Similiter ostendemus, reliqua paralle- logramma lf, mh, ni, ob esse inter se ut [| linearum ak, al am, an, ao, ap, sese eequaliter excedentium et quarum excessus minime a k est eequalis. Cum itaque sint huiusmodi spacia ut [] linearum sese eaequaliter ex- cedentium, quarum excessus minime est equalis; sintque alia, totidem numero, magnitudine vero unumquodque maximo 0 b aequalia, parallelogrammum nempe c p com- ponentia; constat, haec ad spacia sese sequaliter exceden- tium linearum minora esse quam tripla. Dico preterea, non esse minus parallelogrammum c p quam triplum ad idem spacium a pb. Si enim quis dicat 476 GALILEO GALILEI esse minus, sit defectus x, et figura similiter inscribatur, constans ex parallelogrammis kg, lr, ms, nt, 00, que sunt ut [_ΰ linearum sese aequaliter excedentium ete., que deficiat a dicto spacio minori quantitate quam sit x, cum deficiat per minorem quam sit o b, que erit adhuc maior quam 3° pars parallelogrammi c p; quod pariter est fal- sum, cum sit minor. Passi la catenella per i punti f, c, e, dato lo SCOpo z, tira tanto la catena, che passi per z, e troverai la distanza sc e l'angolo della elevazione etc. dimostrasi che sf come è impossibile tirar la © catena in retto, così essere impossibile che °l proietto vadia mai per dritto se non nella perpendicolare in su, come anco la catena a piombo si stende in retto. La b S la Si come la para- bola del proietto è descritta da 2 moti, orizontale e per- pendicolare, cosî la catenella risulta da 2 forze: orizontale, da chi la tira nell’estremità, e perpendicolare deorsum, da proprio peso. Il grave in g preme con manco forza che in s, secondo la proporzione del []fgc al ]fse. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 477 Distantia, per quam mobile motu recto naturaliter mo- | vetur, perpendiculus, seu perpendicularis linea, dicatur. Horizontalis linea, seu planum horizontale, appello lineam rectam, seu planum, cui perpendiculus ad rectos angulos incidit. Que vero cum linea horizontali ineequales angulos constituunt, linea seu plana inclinata dicantur. Contempletur quod, quemadmodum gravia omnia su- per orizonte quiescunt, licet maxima vel minima, ita in lineis inclinatis eadem velocitate moventur, quemadmo- dum est in ipso quoque perpendiculo; quod bonum erit demonstrare, dicendo quod, si gravius velocius, sequeretur quod gravius tardius, iunctis gravibus ineequalibus, etc. Movebuntur autem eadem celeritate non solum gravia inequalia et homogenea, sed etiam eterogenea, ut lignum et plumbum. Cum enim antea osten- sum fuerit, magna et parva homo- genea eequaliter moveri, dicas: Sit b © sphera lignea et a plumbea, adeo Aes 5) magna, ut, cum in medio habeat ca- vitatem pro b, sit tamen gravior quam spheera solida lignea ipsi a eequalis, ita ut per adversa- rium velocius moveatur quam b: ergo si in cavitate i po- natur b, tardius movebitur a quam cum erat levior; quod est absurdum. Si fuerint quotlibet spacia, et alia illis multitudine paria, quee bina sumpta eandem habeant rationem, et per ipsa duo moveantur mobilia, ita ut in binis quibusque spaciis sibi respondentibus lationes sint equales et equa- biles, erunt ut omnia antecedentia spatia ad omnia con- sequentia, ita tempora lationum omnium antecedentium ad tempora lationum omnium consequentium spaciorum. 478 GALILEO GALILEI Sint a b, bc, cd spacia quotcumque, et alia multitu- dine 2equalia e f, fg, gh; et sit ut ab ad ef, ita bc ad fgetcdad gh: duo autem mobilia eodem motu et equa- ‘ bili ferantur per duo spacia a b, e f, et tempora lationum sint ik, no: kl vero et o p sint tempora lationum qua- î Vai l m “gna ento rlfc eco, 1 a b c d =. ee-+—-eeeeeee mie CIO MESERO RIN e ig g h rumcumque aliarum eequalium et aequabilium per bc, f &; tempora vero l m, p q sint aliarum lationum aequalium inter se et sequabilium per cd, g h: dico, ut totum spa- cium ad ad totum spacium e h, ita esse tempus totum im ad tempus nq. Cum enim motus per duo spacia a b, e f sint aequales et sequabiles, erit, ex precedenti, ut spacium a b ad e f, ita tempus ik ad no; et similiter demonstrabitur, ut bc ad f g, ita kl ad op, et ut cd ad gh, ita Im ad pq: et quia est ut a dad e f, ita bc ad fg et cd ad gh, erit ut ik ad no, ita kl ad op et Im ad pq. Cumque rursus sit ut ab ad ef, ita bc ad fget ced ad gh, erit ut unum ab ad unum e f, ita omnia ad ad omnia e h; et similiter concludetur, ut unum ik ad unum no, ita esse omnia im ad omnia n q: est autem ut unum a b ad unum e f, ita ik ad no: ergo ut totum spacium a d ad totum spacium e h; ita tempus im ad tempus ng: quod erat ostendendum. Io suppongo (e forse potrò dimostrarlo) che il grave cadente naturalmente vada continuamente accrescendo la sua velocità secondo che accresce la distanza dal termine DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 479 onde si partf: come, v. g., partendosi il grave dal punto a e cadendo per la linea a b, suppongo che il grado di ve- locità nel punto d sia tanto maggiore che il grado di ve- locità in c, quanto la distanza da è maggiore della c a, e cost il grado di velocità in e esser al grado di velocità in d come ca a da, e cosî in ogni punto della linea a b trovarsi con gradi di velocità proporzionali alle distanze de i medesimi punti dal termine a. Questo principio mi par molto naturale, e che risponda a tutte le esperienze che veggiamo negli strumenti e machine che operano per- cotendo, dove il percuziente fa tanto maggiore effetto, quanto da più grande altezza casca: e supposto questo principio, dimostrerò il resto. Faccia la linea a k qualunque angolo con la a f, e per li punti c, d, e, f siano tirate le parallele c g, dh, ei, f k: e perché le linee f k, ei, dh, c g sono tra di loro come le fa, ea, da, ca, © adunque le velocità ne i punti f, e, d, c sono come le linee fk, ei, dh, cg&. € Vanno dunque continuatamente cre- scendo i gradi di velocità in tutti i punti della linea af secondo l’incre- mento delle parallele tirate da tutti i medesimi punti. In oltre, perché la ve- e locità con la quale il mobile è venuto da a in d è composta di tutti i gradi di velocità auti in tutti i punti della linea a d, e la velocità con che ha pas- d sata la linea ac è composta di tutti i gradi di velocità che ha auti in tutti i punti della linea a c, adunque la velocità con che ha passata la linea ad, alla velocità con che ha passata la linea a c, ha quella proporzione che hanno tutte le linee parallele tirate da tutti i punti della linea ad sino alla ah, a tutte le pa- 480 GALILEO GALILEI rallele tirate da tutti i punti della linea ac sino alla a g; e questa proporzione è quella che ha il triangolo a d h al triangolo a c g, ciò è il[ ]Jadal[_]ac. Adunque la velocità con che si è passata la linea ad, alla velocità con che si è passata la linea a c, ha doppia proporzione di quella che ha da a ca. E perché la velocità alla velocità ha con- traria proporzione di quella che ha il tempo al tempo (imperò che il medesimo è crescere la velocità che scie- mare il tempo), adunque il tempo del moto in ad al tempo del moto in ac ha subduplicata proporzione di quella che ha la distanza a d alla distanza a c. Le distanze dunque dal principio del moto sono come i quadrati de i tempi, e, dividendo, gli spazii passati in tempi eguali sono come i numeri impari ab unitate: che risponde a quello che ho sempre detto e con esperienze osservato; e cost tutti 1 veri si rispondono. E se queste cose son vere, io dimostro che la velocità nel moto violento va decrescendo con la medesima pro- porzione con la quale, nella medesima linea retta, cresce nel moto naturale. Imperò che sia il principio del moto violento il punto b, ed il fine il termine a. E perché il proietto non passa il termine a, adunque l’impeto che ha auto in b fu tanto, quanto poteva cacciarlo sino al termine a; e l'impeto che il medesimo proietto ha in f è tanto, quanto può cacciarlo al medesimo termine a; e sendo il medesimo proietto in e, d, c, si trova congiunto con impeti potenti a spingerlo al medesimo termine a, né più né meno: adunque l’impeto va giustamente calando secondo che sciema la distanza del mobile dal termine a. Ma se- condo la medesima proporzione delle distanze dal termine a va crescendo la velocità quando il medesimo grave ca- derà dal punto a, come di sopra si è supposto e confron- tato con le altre prime nostre osservazioni e dimostrazioni: adunque è manifesto quello che volevamo provare. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 481 Dato tempore per ab, de, queritur tempus @ per cb. Si tempus per a db esset a db, tempus per ac esset a f, media inter ba, ac, et f b esset tem- o pus per cb: sed tempus per ab non est ab, sed de: È fac igitur ut ab ad f b, ita de ad eo, et erit eo tempus per c b. Igitur primum cape mediam inter ba, ac, nempe af, et ut tota ab ad excessum b f, itade adeo, et habebis o e tempus per c db. b mi Sit ab tempus per ab, et posita cd «quali eidem a b, queeratur tempus per cd. Sit a e media inter ca, a db, et af media inter da, a b: et quia a db est tempus per a b, erit ae tempus per ac: et quia af est media inter da, ab, erit af tempus per totam ad: fuit autem ae tempus per ac: ergo e f est tempus per c d. SIbta! 988 CIUNIS DICO ac 18 ad 26 ave"i2 a 144], OOPS Mirandum. Numquid motus per perpendiculum ad velocior sit quam per inclinationem ab? Videtur esse; nam eequalia spacia citius conficiuntur per a d quam per ab: attamen videtur etiam non 7 esse; nam, ducta orizontali b c, tempus per a b ad tempus per ac est ut a db ad ac; ergo eadem momenta velocitatis per ab et per ac: est enim una eademque velocitas illa que, tem- F = poribus ineequalibus, spacia transit insequalia, si eandem quam tempora rationem habentia. 31. - G. Galilei, Opere - II. 482 GALILEO GALILEI Momenta gravitatis eiusdem mobilis super plano in- clinato et in perpendiculo permutatim respondent longi- tudini et elevationi eiusdem plani. Sit'ad orizontem ab planum inclinatum ca, in quo sumatur quodcumque punctum c, et de- missa perpendicularis ad orizon- tem c b sit plani ca altitudo seu elevatio: dico, momentum gravi- tatis mobilis d super plano c a ad totale suum momentum in perpendiculo c bd esse ut alti- tudo c b ad eiusdem plani longitudinem c a. Id autem in mecanicis probatum est. a b Momenta gravitatis eiusdem mobilis super diversas planorum inclinationes habent inter se permutatim ean- dem rationem, quam eorumdem planorum longitudines, dum eidem elevationi respondeant. Sint diverse planorum inclinationes ab, ac, que eidem elevationi ad respondeant: dico, momentum gra- vitatis eiusdem mobilis super a db ad momentum gravitatis super ac ean- dem habere rationem, quam longi- tudo ac habet ad longitudinem a b. Ex precedenti, enim, momentum gra- vitatis super ab ad totale momentum in perpendiculo a d est ut ad ad a b: totale vero momentum per ad ad momentum per ac est ut ca ad ad: ergo, ex sequali in analogia perturbata, momentum per ab ad momentum per ac erit ut longitudo ca ad longitudinem ab. Quod erat demonstrandum. a Cc d Cum in planis inclinatis decrescat impetus mobilis, prout inclinatio minus participat de directione, et, quod DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 483 consequens est, plus detrahat de gravitate mobili, con- sideretur num in mediis gravioribus, detrahentibus de gravitate mobilis, decrescat pariter impetus pro ratione gravitatis; ita ut in medio detrahente, v. g., dimidium gravitatis, impetus sit idem atque in inclinatione similiter detrahente gravitatis dimidium. Sit ad orizontem ab perpendicularis bc et inclinata bd, in qua sumatur be, et ex e ad bd perpendicularis agatur ef, ipsi bc occurrens in f: de- monstrandum sit, tempus per be aequari tempori per b f. Ducatur ex e perpendicularis ad ab, quee sit e g: et quia impetus per bd ad impetum per bc est ut eg ad be (ut infra demonstratur); ut autem eg ad be, ita be ad bd f, ob similitudinem triangu- lorum ge b, bef; ergo ut bf spacium ad spacium be, ita impetus per bf ad impetum per be: ergo eodem tempore fiet motus per bf et per be. Advertas cur cadentia ex a sint semper una in locis sibi responden- tibus, ut 0, s, ita ut {aos sit equalis angulo bas. Sit gd erecta ad orizontem, df vero inclinata: dico, eodem tempore fieri motum ex g in d et ex f in d. Momentum enim super fd est idem ac super contingente in e, que ipsi fd esset parallela; 484 GALILEO GALILEI ergo momentum super fd ad totale momentum erit ut ca ad ab, idest ae: verum ut ca ad ae, ita idad da et dupla fd ad duplam dg; ergo momentum super fd ad totale momentum, scilicet per g d, est ut fd ad gd: ergo eodem tempore fiet motus per fd et gd. Sit planum orizzontis secundum lineam abc, ad quam sint duo plana inclinata secundum lineas d b, da: dico, idem mobile tardius moveri per da quam per db se- cundum rationem longitudinis da ad longitudinem d b. Frigatur enim ex b perpendicularis ad orizontem, qua sit b e, ex d vero ipsi db d perpendicularis d e, occur- rens b e in e, et circa bde triangulum circulus describatur, qui tanget ac in puncto b, ex € quo ipsi a d parallela ducatur b f, et connettatur f d. Patet, tarditatem per f b esse consi- milem tarditati per d a; quia vero tempore eodem movetur mobile per db et f db, patet, velocitates per d b ad veloci- tates per f d esse ut db ad fb, ita ut semper iisdem temporibus duo mobilia, ex punctis d, f venientia, linearum db, fb partes integris lineis d b, fb proportione respondentes peregerint. Cum vero angulus b f d in portione angulo d db a ad tangentem sit equalis, angulus vero db f alterno bda, sequiangula erunt triangula bf d, abd, et ut bd ad bf, ita ad ad db: ergo ut a d ad d b, ita velocitas per d b ad velocitatem per da, et ex opposito, tarditas per da ad tarditatem per db. Si hoc sumatur, reliqua demonstrari possent. Ponatur igitur, augeri vel imminui motus velocitatem secundum proportionem qua augentur vel minuuntur gravitatis mo- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 485 menta; et cum constet, eiusdem mobilis momenta gravi- tatis super plano d b ad momenta super plano da esse ut longitudo d a ad longitudinem d b, idcirco velocitatem per d b ad velocitatem per da esse ut ad ad db. Infra orizontem ab ex eodem puncto c dua rectae sequales utcumque inclinentur c d, ce, et ex terminis d, e ad orizontem perpendiculares agantur d a, e b, et linee cd in puncto d constituatur <cdf ‘bce equalis: dico, ut da ad be ita esse dc ad c f. a c acari Ducatur perpendi- cularis cg: et quia cdf sequatur angulo bce, et rectus g recto b, erit ut de.adicg, ita ce ad eb: est autem cd ipsi & ce equalis: ergo cg sequatur be. Et cum angulus cdf angulo bce sit saequalis, et <fcd communis, reliquus ad duos rectos d f c reliquo . dca equabitur, et anguli ad a et g sunt recti; ergo Aade | A°cgf est simile: quare ut ad ad dc, ita cg ad cf, et, permutando, ut ad ad c g, hoc est ad be, ita dc ad c f: quod erat probandum. Cum autem impetus per cd ad impetum per c f sit ut perpendiculus ad ad perpendiculum be, constat, motus per cd et cf eodem tempore absolvi. Itaque di- stantise quae in diversis inclinationibus eodem tempore conficiuntur, determinantur per lineam quee (ut facit d f) lineis inclinatis occurrit secundum angulos aequales illis quos inclinate ad orizontem constituunt, permutatim sumptos. Postea quam ostensum fuerit, tempora per ab, ac esse sequalia, demonstrabitur, tempus per ad ad tempus 486 GALILEO GALILEI per ae esse ut da ad mediam inter da, a e. Nam tempus gi iper da ad tempus per ac est ut 5 da ad ac lineam; tempus autem € per ac, idest per ab, ad tempus ae est ut linea ba ad ae, hoc est Cc d utsaadad: ergo, ex gequali in analogia perturbata, tempus per ad ad tempus per ae est ut linea sa ad lineam ac. Cumque ac, ex demonstratis, sit media inter sa, ab, et ut sa ad ab, itada ad ae, ergo tempus per ad ad tempus per a e est ut da ad mediam inter da, ae: quod erat probandum. (0)) Momenta velocitatum cadentis ex subblimi sunt inter se ut radices distantiarum peractarum, nempe in subdu- plicata ratione illarum. Si in linea naturalis descensus a principio lationis su- mantur due distantie inequales, momenta velocitatis cum quibus mobile permeat illas distantias sunt inter se in duplicata proportione ip- a sarum distantiarum. Sit linea naturalis descensus a b, in qua ex principio lationis a sumantur due di- stantie ac, ad: dico, momenta velocitatis cum quibus mobile permeat ad, ad mo- menta velocitatis cum quibus permeat ac, esse in duplicata proportione distantiarum È ad, ac. Ponatur linea a e ad a b quemlibet angulum continens... d Sint ad orizontem db quotcumque linea ex eadem altitudine a demisse ab, ac, ad, et sumpto quolibet DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 487 puncto g, per ipsum orizonti parallela sit gfe, sitque media inter b a, a g ipsa ar, et per r altera parallela rt: constat, lineas a t, av esse medias inter ca, af et da, ae. Dico, quod si assumatur a db esse tempus quo mobile cadit ex a in b, tempus r d esse illud quo conficitur g b, tc vero esse tempus ipsius c f, et vd ipsius e d. Id autem constat: nam, cum ar sit media inter ba, ag, sitque b a tempus casus totius a b, tempus ar erit tempus casus per a g; ergo reliquum tem- poris rb erit tempus casus per gb post a g; et idem di- cetur de aliis temporibus fc, nd et lineis fc, ed. Patet insuper, tempora casuum per gb, fc, ed esse ut lineas gb, fc, ed; non tamen a magnitudinibus ipsarum linea- rum g b, fc, ed esse determinandas eorumdem temporum quantitates, si temporis mensura ponatur ab, in quo tempore conficiatur linea ab, sed desumendas esse a lineis r b, tc, vd. a linea ab ad ac, tempus ba ad ac, ut tempus per a db ad tempus per a g, ita linea a bd ad lineam ar; ergo, dividendo, ut tempus per b c ad tempus per a g, ita linea br ad rg, ut tempus da ad tempus ab, ita linea da ad lineam ab. Sit ac perpendicularis ad orizontem c d e, ponatur- que inclinata bd, fiatque motus ex a per abc et per a bd: dico, tempus per bc post casum ab ad tempus per b d post eumdem casum a b esse ut linea bc ad bd. 488 GALILEO GALILEI Ducatur a f parallela dc et protrahatur d b ad f; erit iam tempus casus per fb d ad tempus casus per abc ut fd linea ad lineam ac: est autem tempus casus per fb ad tempus casus per ab ut linea fb ad lineam ab: ergo tempus casus reliquee bc post ab ad tempus casus re- liquae bd d post f b erit ut reliqua dc ad reliquam b d. Sed tempus casus per b d post f b est idem cum tempore per bd post ab, cum af orizonti aequidistans sit; ergo patet propositum. Colligitur autem ex hoc, quod tempora casuum per bc et db d, sive fiat principium motus ex termino b, sive pree- cedat motus, ex eadem tamen altitudine, eandem inter se servant rationem, nempe eam quee est linea bc ad bd. Tempora casuum in planis quorum eadem sit altitudo, camdem inter se servant rationem, sive illis idem impetus preecedat, sive ex quiete incipiant. Sint plana a db, ac, quorum eadem altitudo; extenso autem ba utcumque in d, fiat casus ex d per ambo ac, a b: dico, tempus per ac ad tempus per a b esse in eadem ratione ac si prin- £ cipium casus foret in a. Sit enim ip- sarum bd, da media df, et ducta parallela ex f ipsi b c, qua sit f g, erit ge media inter ce, ea. Facto igitur principio lationis ex d, tempora ca- suum per ac, a Db erunt inter se ut a g, a f: quod si casus incipiat ex a, erunt tempora per ac, a b inter se ut ac, a b linee: ergo patet propositum. d c db DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 489 Assumo, eam esse cadentis mobilis per lineam al ac- celerationem, ut pro ratione spacii peracti crescat velo- citas ita, ut velocitas in c ad velocitatem in b sit ut spacium ca ad spacium ba, etc. Cum autem heec ita se habeant, ponatur a x cum al angulum continens, sumptisque partibus ab, bc, cd, de etc. sequalibus, protrahantur bm, cn, do, ep etc. Si itaque cadentis per al veloci- tates in b, c, d, e locis se habent ut distantie a b, ac, ad, ae etc., ergo se quoque habebunt ut linea bm, cn, do, e p. Quia vero velocitas augetur consequenter in omnibus punctis linese a e, et non tantum in adno- tatis b, c, d, ergo velocitates illa omnes sese respicient ut linea quae ab omnibus dictis puncetis linea ae ipsis b m, cn, do aequidistanter producuntur. Iste autem infinite sunt, et constituunt triangulum ae p: ergo velocitates in omnibus punctis linee ab ad velocitates in omnibus punctis linee ac ita se habent ut triangulus ab m ad triangulum acn, et sic de reliquis, hoc est in duplicata proportione linearum a b, ac. Quia vero pro ratione incrementi accelerationis tem- pora quibus motus ipsi fiunt debent imminui, ergo tempus quo mobile permeat a b ad tempus quo permeat ac erit ut ab linea ad eam que inter a db, ac media proportio- nalis existit. ® la, re DD _ Rsa Factus sit motus ex a in b naturaliter acceleratus: dico, quod si velocitas in omnibus punctis ab fuisset 32. - G. Galilei, Opere - II. 490 GALILEO GALILEI eadem ac reperitur in puncto b, duplo citius fuisset pe- ractum spacium a b; quia velocitates omnes in singulis punctis ab linea, ad totidem velocitates quarum una- queeque esset equalis velocitati b c, eam habent rationem quam triangulus abc ad rectangulum abcd. Sequitur ex hoc, quod si ad ori- zontem cd fuerit planum ba elevatum, sitque bc dupla ad ba, mobile ex a in b, et successive ex b in c, temporibus eequalibus esse perventurum: nam post- quam est in b, per reliquam bc uniformi velocitate et eadem movetur, qua in ip- somet termino b post casum ab. Patet rursus, totum tempus per abe ad tempus per a b esse sesquialterum. Si post casum per aliquod planum inclinatum sequatur motus per planum orizontis, erit tempus casus per planum inclinatum ad tempus motus per quamlibet lineam ori- zontis ut dupla longitudo plani inclinati ad lineam ac- ceptam orizontis. Sit linea orizontis c b, planum inclina- tum ab, et post ca- sum per a b sequatur motus per orizontem, in quo sumatur qua- libet linea bd: dico, € 1) d tempus casus per a b ad tempus motus per bd esse ut dupla ab ad bd. Sumpta enim bc ipsius a b dupla, constat ex preedemon- stratis, tempus casus per ab aequari tempori motus per bc: sed tempus motus per be ad tempus motus per bd est ut linea c b ad lineam bd: ergo tempus motus per a db ad tempus motus per bd est ut dupla ab linea ad lineam bd. (07 DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 491 Tempus casus per planum inclinatum ad tempus casus per lineam suee altitudinis est ut eiusdem plani longitudo ad longitudinem sua altitudinis. Sit planum inclinatum ba d ad lineam orizontis a c, sitque linea altitudinis perpendicu- laris bc: dico,. tempus casus quo mobile movetur per b a ad tempus in quo cadit per bc esse ut ba ad bc. Frigatur per- pendicularis ad orizontem ex a, quee sit ad, cui occurrat in d perpendicularis ad a b ducta ex b, que sit bd, et circa triangulum abd circulus describatur: et quia da, be ambee sunt ad orizontem perpendiculares, constat, tempus casus per d a ad tempus casus per b c esse ut media inter da et bc ad ipsam bc. Tempus autem casus per da eequatur tempori casus per ba: media vero inter da et bc est ipsa ba: ergo patet propositum. COROLLARIUM. Ex hoc sequitur, casuum tempora per plana inclinata quorum eadem sit altitudo, esse inter se ut eorumdem planorum longitudines. Si enim fuerit aliud a planum inclinatum b e, tempus casus per ba c d b ad tempus casus per bc est ut ba linea ad bc: tempus vero per bc ad tempus casus per b e ut bc ad be: ergo, ex aequali, patet propositum. 492 GALILEO GALILEI Si ex eodem puncto orizontis ducantur perpendiculus et planum inclinatum, et in plano inclinato sumatur quodlibet punctum, a quo ipsi plano perpendicularis linea usque ad perpendiculum protrahatur, lationes in parte perpendiculi inter orizontem et occursum perpendicularis intercepta, et in parte plani inclinati inter eandem per- pendicularem et orizontem intercepta, eodem tempore absolventur. Sint ex eodem puncto c orizontis a b perpendiculus cd et planum inclinatum ce, et in ce sumpto quolibet puncto f, ex eo ad ec perpendicularis agatur f g, occur- rens perpendiculo in puncto g: dico, lationes per c g et per c f eodem tempore confici. | Demittatur ex eodem puncto f perpendicularis ad orizontem fh, que erit perpendiculo cd parallela, et angulus h fc coalterno f c g aequalis, a h e__5 et rectus chf recto cfg: quare aqui- angula erunt triangula c hf, c f g, et ut hf ad fc, ita fc ad c g. Ut autem £ hf, fc, ita momentum gravitatis mo- bilis in plano c e ad totale suum mo- g mentum in perpendiculo c d. Habet d igitur distantia cf ad distantiam c g eandem rationem quam gravitatis momentum super plano ce ad totale momentum per perpendiculum c g: quare eodem tempore conficientur lationes per cf et c £. Velocitates mobilium quee inaequali momento incipiunt motum, sunt semper inter se in eadem proportione ac si sequabili motu progrederentur: ut, verbi gratia, mobile per a c incipit motum cum momento ad momentum per ad ut da ad ac; si equabili motu pro- -£ ld a DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 493 grederetur, tempus per ac ad tempus per ad esset ut ac ad ad, quod in accelerato dubito quidem; et ideo demonstra... | Aliter sic: Tempus per ac ad tempus per ab, ex preecedentibus, est ut linea ac ad lineam ab; sed d etiam ad tempus a d habet eam- dem rationem, cum a b sit media inter ac, ad; ergo tempora ad, ab erunt aequalia. c ,) 494 GALILEO GALILEI Spatia motus accelerati ex quiete et spatia motuum seequabilium ad motus acceleratos consequentia, et tem- poribus iisdem confecta, eandem inter se retinent ratio- nem: sunt enim haec spatia dupla illorum. Tempora vero et gradus ve- locitatum acquisitarum eandem inter se habent rationem: haec tamen ratio subdupla est rationis spatiorum dic- torum. Spatia motus accelerati ab, ac et motuum #eequabilium consequentium be, cd eandem cum illis habent rationem: sunt enim dupla illorum. Tempora per ab, ac sunt inter se ut gradus velocitatis in b et in c: ratio vero hsec subdupla est rationis ba , adac velbeadecd. a € to) Si tempus per a b est a b, posita cd sequali a b, tempus per cd erit e c d, et per totam c b erit c e. b Si in perpendiculo et in plano inclinato, quorum eadem sit altitudo, feratur idem mobile, tempora latio- num erunt inter se ut plani inclinati et perpendiculi longitudines. Sint ad planum orizontis cb perpendiculus ab et planum inclinatum ac, quorum eadem sit altitudo, nempe ipsa perpendicularis a b, et per ipsa descendat idem mo- bile: dico, tempus lationis per a b ad tempus lationis per ac esse ut longitudo a b ad longitudinem ac. Cum enim assumptum sit, in naturali descensu velo- citatis momenta eadem semper reperiri in punctis equa- liter ab orizonte distantibus iuxta perpendiculares di- stantias, constat quod, producta linea orizontali a m, que ipsi bc erit parallela, sumptisque in perpendiculo a b DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 495 quotcumque punctis e, g, i, l, et per ipsa ductis parallelis orizonti ed, gf, ih, 1k, erit mobilis per ab momentum seu gradus velocitatis in puncto e idem cum gradu velocitatis lati per ac in puncto d, cum punctorum e, d eadem sit distantia perpendicularis ab orizonte a m; et similiter concludetur, in punctis f, g idem esse velocitatis mo- mentum, et rursus in punctis h, i, et k, letec, b. Sunt igitur in linea ab quasi innumera quedam spa- ciola, quibus multitudine quidem equalia, et bina sumpta secundum eandem rationem respondentia, alia signantur in ac per lineas innumeras parallelas ex punctis linese ab ad lineam ac extensas (intercepta enim spacia a d, df,fh,etc. ad spacia ae, e g, gi, etc. respondent singula singulis secundum rationem ac ad a db); suntque in sin- gulis binis sibi respondentibus iidem velocitatis gradus. Ergo, ex precedenti, tempora omnia simul sumpta lationum omnium per ab, ad tempora omnia similiter accepta lationum omnium per ac, eandem habebunt ra- tionem quam spacia omnia linee ab ad spacia omnia linee ac; hoc autem idem est, ac tempus casus per a b ad tempus casus per ac esse ut linea ab ad ac: quod erat demonstrandum. Tempora lationum per diversas lineas inclinatas, qua- rum eadem sit altitudo perpendicularis, sunt inter se ut earumdem linearum longitudines. o Sint ad orizontem bd diversa pla- na inclinata a b, ac, quorum eadem sit altitudo ad perpendicularis: dico, tempus casus per a db ad tempus ca- sus per ac esse ut ab longitudo ad longitudinem ac. 496 GALILEO GALILEI Ex antecedenti enim, tempus casus per a b ad tempus casus per perpendiculum ad est ut ab linea ad lineam a d, et, per eandem, ut ad linea ad ipsam ac, ita tempus casus per ad ad tempus casus per ac: ergo, ex eequali, ut longitudo a b ad longitudinem ac, ita tempus casus per ab ad tempus casus ac: quod erat probandum. LEMMA. Sint tres linee utcumque a, d, e, et inter a, d media proportionalis sit b; inter a, e media proportio- nalis sit c; inter e, d tandem media sit g: dico, ut c ad b, ita esse £ ad d. Quia enim b est media | | inter a, d, erit quadratum b sequale rectangulo ad; si- d militer quadratum c aequale rectangulo ae; igitur, ut rec- tangulum ae ad rectangu- g lum ad, ita quadratum c ad quadratum b. Ut autem rec- tangulum ae ad rectangu- lum ad, ita linea e ad d; ut vero linea e ad lineam d, ita quadratum g ad quadratum d; ergo, ut quadratum c ad quadratum b, ita quadratum g ad quadratum d, et ut c ad b, ita g ad d. Ge -- - A QdQr--------- Sint plana aqualia a b, c Db inequaliter inclinata, et altitudo inclinationis plani a b sit be, ipsius vero be sit b d: dico, tempus casus super b a ad tempus casus per bc esse ut media proportionalis inter d b, be ad ipsam be. Accipiatur fb ipsis c b, ab aqualis, et ipsarum b f, bd media sit b s; ipsarum vero f b, be media sit br: et quia tempus casus bf ad tempus casus bd est ut sb ad b d, tempus vero casus b d ad tempus casus bc ut bd ad bc, ergo, ex aequali, tempus casus bf ad tempus casus be DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 497 ut sb ad bc, et, convertendo, tempus casus bc ad tempus casus bf ut bc ad bs. Similiter b autem demonstrabitur, ut tempus casus b f ad tempus casus b a, ita linea r db ad ba vel bc; ergo, ex eequali in analogia perturbata, ut & € tempus casus b c ad tempus casus | ba, ita rb ad sb, et, conversim, n p ut tempus casus ba ad tempus È casus bc, ita sb ad br. Ex lem- f mate vero antecedenti, ut sb ad br, ita media inter db, be ad ipsam be: quare patet propositum. Aliter, absque lemmate: Sit bi media inter bd, be, et is parallela ad dc: et quia ut tempus per ba ad tempus per be, ita linea ba ad lineam be; ut autem tempus be ad tempus b d, ita linea be ad db i; ut autem tempus bd ad tempus bc, ita linea bd ad bc, hoc est b i ad b s; ergo, ex aequali, e Ut tempus per ba ad tempus per bc, S i ita linea ab, seu cb, ad bs, hoc est db ad bi, seu ib ad be: quod erat Cc d probandum. RA b Tempora lationum in planis aequalibus, sed inaequaliter inclinatis, sunt inter se in subdupla ratione elevationum ipsorum planorum permutatim assumpta. Sint plana quecumque inclinata a b, ac, et perpendiculus ae, cui ad rectos angulos b g, et sit inter c a, ad media a f: dico, tempus per ab ad tempus per ac esse ut ba ad af. Nam tempus per a b ad tempus per ad est ut ab ad ad: tempus vero per ad ad 498 GALILEO GALILEI tempus per ac est ut ad ad a f: ergo, ex aequali, tempus per ab ad tempus per ac est ut ab ad af: quod erat ostendendum. Tempo per ac al tempo per a b è come 10 a 8. [lac_-400— 4 [Jab— 64-16 ee 3 64 pa 4 uri RA) a ibi) FI a, 657120 202 1600 1024/00 00d.rA aniano 7 Grtn Daf ATI ba 805 SPARATE: 12800 10240 Ratio temporum lationum super planis, quorum di- verse sint inclinationes et longitudines, nec non eleva- tiones inaequales, componitur ex ratione longitudinum ipsorum et ex subdupla ratione elevationum eorumdem permutatim accepta. In duobus planis quomodocumque inclinatis tempora casuum habent ipsorum planorum proportionem subdu- plicatam. tempora a assenti ad- 4- 6 È d ab - 10 — 15 S è Gi148: ri48 PORRE e tempus per ac ad tempus per a b habet rationem compo- sitam ex ca, ab et da ad as. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 499 longitudines tempora SIC 220 ab- 12 - 18 aes 9-09 ad- 4- 6 ratio temporis ac ad tempus ab componitur ex ratione ac ad ab et altitudinis ad ad me- diam inter altitudines ad, ae, qua ratio est eadem cum ratione ba ad ac. Quadratum enim ab ad[ l'ac est utadadae, nempe ut[_]fad ad [_]fae: sed ratio composita ex ca ad ab et ex ab ad ca estratio aqualitatis: ergo patet propositum. Si in circulo ad orizontem erecto a puneto sublimi quotcumque ducantur linee rectae usque ad circumferen- tiam, per quas cadant gravia quotcumque, omnia tempo- ribus eequalibus ad terminos suos pervenient. Sit enim circumferentia ad orizontem erecta abc, punctum sublime a, a quo linee quoteumque ad circum- ferentiam usque protrahantur a c, a b, et per ipsas cadant mobilia: dico, temporibus eequalibus ea perventura esse ad terminos c, b. Sit enim ac per centrum ducta, cui ex @ b perpendicularis sit b d: patet, a b mediam ES esse proportionalem inter ca, ad; quare, d È ex demonstratis, tempus quo mobile ex a cadit in c ad tempus casus ex a in d est ut linea ba ad ad. Verum, similiter, ex demonstratis, tempus casus ex a in b ad f (A tempus casus ex a in d est ut ba ad ad: ergo tempora casuum ab, ac erunt eequalia, cum eandem ad idem tempus casus a d habeant 500 e Si GALILEO GALILEI rationem. Et similiter de reliquis omnibus motibus de- monstrabitur ergo patet propositum. Ex his colligitur, gravia eodem tempore pertransire plana inzequalia et ineequaliter inclinata, dum, quam proportionem habet longitudo maioris plani ad longitu- dinem alterius, eandem duplicatam habeat perpendicu- laris maioris plani ad perpendicularem minoris.:. Cum enim [ ]Jae sit sequale [_]caf, [) vero ba []cad; [ ]verocafad[_]cad.est ut fa ad ad; ergofa ad ad est ut [ ]ea ad [ ]b a: ratio igitur perpendicularis f a ad perpendicularem da dupla est rationis e a ad a b. n Postea quam ostensum fuerit, / tempora per ab, ac esse equalia, demonstrabitur, tempus per ad ad tempus per ae esse ut da ad me- diam inter d a, ae. Nam tempus per da ad tempus per ac est ut da ad ac lineam: tempus autem per ac, id est per a b, ad tempus a e est ut linea baadae, hoc est ut sa ad ad: ergo, ex eequali in analogia perturbata, tempus per ad ad tempus per ae est ut linea sa ad lineam ac. Cumque ac, ex demonstratis, sit media inter sa, ab, et ut sa ad ab ita da ad ae, ergo tempus per ad ad tempus per ae est ut da ad mediam inter da, ae: quod erat probandum. Si in semicirculo... que cum per- pendiculo non habeat terminum communem, motus per illam citius absolvitur quam per diametrum perpendicularem. Si enim bb fuerit perpendiculus, ducta queelibet linea c a in semicir- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 501 culo non terminetur ‘ad b: patet quod, si connectatur linea c b, erit ca ipsa cb brevior et minus inclinata; ex quo patet propositum. Si in circulo, cuius diameter sit ad perpendiculum, du- catur linea que a diametro secetur, motus per ipsam tar- dius absolvetur quam per diametrum perpendicularem. In precedenti enim figura sit linea queelibet; et quia ipsa erit longior quam c b et magis inclinata, propositum fit manifestum. Ex puncto c horizontalis linee cx duo plana utcum- que inflectantur c d, c e, que secentur recta quadam d f, ita ut anguli cd f, dfc angulis xce, lcd permutatim sumptis sint eequales: dico, tempora descen- suum per cd, cf esse seequalia (fient autem anguli permutatim ®- quales, si unus angu- lorum, verbigratia c d f, equalis fiat angulo xce ad ... aliam partem posito, reliquus c fd reliquo d cl aequalis erit: nam, cum tres anguli trianguli d cf sequales sint tribus led, dc f, fcx, utpote duobus rectis sequales, si dematur communis def, erunt duo cd f, dfc duobus xce, lcd aequales, ac propterea, cum fecerimus angulum cdf angulo xce equalem, habebimus quoque angulum cfd sequalem angulo Lc d). Ponatur... dan Cc 2, Sit ac perpendicularis ad horizontem cde, pona- turque inclinata bd, fiatque motus ex a per abc et per abd: dico, tempus per bc, post casum ab, ad tempus per b d, post eumdem casum ab, esse ut linea be ad bd. Ducatur af parallela dc, et protrahatur db ad f; 502 GALILEO GALILEI erit iam tempus casus per fbd ad tempus casus per abc ut fd linea ad lineam ac: est autem tempus casus per fb ad tempus casus per ab ut linea fb ad lineam ab: ergo tempus casus relique be post a db ad tempus casus reliqua bd post f b erit ut re- liqua bc ad reliquam bd. Sed tempus casus per bd post f db est idem cum tempore per bd post a b, cum af sit horizonti equidistans: ergo patet propositum. Colligitur autem ex hoc, quod tempora casuum per bc et bd, sive fiat principium motus ex termino b, sive preecedat motus, ex eadem tamen altitudine, eamdem inter se servant rationem, nempe eam que est linea be ad bd. Fiat motus per abc et per duas abd, sitque ra media inter c a, a b, et ipsi dc parallela ducatur r s: : dico iam, tempus per a bc ad tem- f pus per abd esse ut linea ac ad ar cum sd. Si enim pro- trahatur d db usque ad occur- sum cum a f, orizonti dc pa- rallela, erit fs media inter d f, fb; et ut ca ad ar, ita tempus per ca ad tempus per a b; ita ut, si ponatur ac tempus per ac, erit ar tempus per ab, et rc tempus per bc; et similiter d sd demonstrabitur esse tempus per bd post casum ex f, vel ex a: ex quo patet, tempus per totam ac ad tempus per duas a bd esse ut ar cum rcad ar cum sd. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 503 e Dato perpendiculo a b et inflexa eb g, cui perpen- dicularis sit bc, oportet semicirculum per e descri- bere, ita ut excessus me- die inter e g, g bd, quae est gc seu gd, super gb una cum perpendiculo b f, sec- to a perpendiculari g f, sint sequales medie inter e b, b g, nempe be. Sit factum. Si cb aequatur dbf, posita communi bg, 2 cb, bg erunt equales duabus d g, b f, idest c g, b f. Si excessus o d aequatur di, [_]pdo, idest []da, ad [_]ndi, idest ad [ ]de, erit ut linea pdaddn;[ ]autem da ad [ ]de est ut [ ]abad[_]bc; ergo faciendum est ut pdadndsitut[ ]ab ad { ]bc; pd autem componitur ex duabus mediis d f, f a, et nd constat ex duabus e ad, ut2dfaadduasdae sint ut [lab ad [ ]bc. Si ea cum ag equantur af, excessus da super ae est e- qualis excessui d f super f a, et fa, ad eequantur fd, ea. Ut tempus per eab sit sequale tempori per ab, fa- ciendum est ut ea cum ag sint sequales a f. 504 GALILEO GALILEI Sint plana ab, ac, quorum eadem sit elevatio a d, longius tamen sit ac: dico, motum versus inferiores partes plani ac velociorem esse quam per ab. Accipiatur ec sequale a db, et utcaadae, ita sit ea ad af: intelligatur a b esse tempus per ab: erit ac tempus per a c, et a e erit tem- pus per af, ec vero tempus per reliquum f c: est autem f c maius quam a b, et conficitur tempore equali. Fiat latio per plana inflexa a b, bc, et invenienda sit ratio temporis casus per a b ad tempus casus per bc post casum a b. Ducatur horizon ae, cui cb producta occurrat in e, et ipsarum ce, e b media sit ed: dico, tempus per ab ad tempus per bc esse ut ab ad bd. Tempus enim per ab ad tempus per e bd est ut ab ad eb: tempus vero per e b ad tempus per be est ut eb ad bd: ergo tempus per ab ad tempus per bc est ut a db ad bd: quod etc. a Sit f g orizon, et ex sublimi a fiat motus per abf, et protracta ab usque ad d, sit media inter da, a bd ipsa ac, et orizonti aequidistans sit ce: dico, tempus per ab ad tempus per bf esse ut ab ad be. Nam tempus per ab ad tempus per bd est ut ab ad bc: tempus vero per b d post a bd ad tempus per b f post a b est ut bd ad bf, idest bc ad be: ergo, ex equali, tempus per ab ad tempus per bf est ut ab ad be. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 505 ...ut tempus per e ag sit idem cum tempore per ag, posito quod tempus per ag sit ag, tempus per al erit al, et fg erit tempus per d g, et excessus g f super f a, ng erit tempus per a g post da, et ia, media inter la, ae, erit tempus per e a. Oportet igitur facere ut ai cum ng sint sequales a g: hoc erit cum excessus media fa super | mediam ai sit aqualis excessui gf super ag, secta go sequali g a. Sit factum: et sit tempus per eac ex e idem cum tempore per ac ex quiete in a. Sit ea tempus per e a; erit fa tempus per fa, et per totam fc erit f À, seu fi, et per reliquam ac ex f erit ai: per ambas igitur eac erit tempus eai, quod debet esse sequale tempori per ac ex A era quiete in a. Et quia fa est Xx tempus per f a, tempus per ac WAN ex quiete in a erit ah, media 7) 9 nempe inter fa, ac: faciendum itaque est ut ah sit eequalis utrisque eai, nempe protrahen- de sunt ba, ca, ita ut (ducta b » orizontali fe) ea cum excessu media inter c f, fa super fa (quod sit a i) sint aeequales medie inter ac, a f, nempe ipsi ah. Quod si ponatur, ca esse tempus per ca, erit ba tempus per ab, et ag per e a; et posita fi equali ac, erit fi tempus per fi, et fo tempus per totam fc; et oi, media inter if, f a 506 GALILEO GALILEI (est enim f a aequalis ic), erit tempus per fa, et pf (excessus media o f super mediam 0 i) erit tempus per ac ex f. Faciendum itaque est ut pf cum a g sint aequales ipsi ac. Pro inveniendo tempore minimo in quo conficiantur qab, attende numquid, posita ad «quali ab, faciendum forte sit ut ad cum dec ad cd, ita ba ad aq. Fiat ut ca ad ab, ita ab ad bn, et ut na cum abiad.ab, ita ca adax; erit a x queesitum. Ponatur ao @equalis a x; oportet, or esse me- diam inter cr, ra, et utco ad o a, ita esse cr ad ro, et[ ]coad[ ]oautcrad ra, seu db x ad xa: sed ut b'x‘adxa,itadl|boa ad []xa, seu.ao: ergo [co debet sequari [_]T bx a, et co esse mediam inter b x, x a. Dato perpendiculo et plano ad eum inclinato, partem in perpendiculo reperire, que conficiatur tempore eodem ac planum post ipsam. Fiat ut ca ad ab, ita ab ad bn, et utna cum ab ad ab, ita ca ad ae, et ut nb ad ba, seuba ad ac, ita ea ad ar, et ab r ducatur ad b a productam perpendicularis rx: dico, ax esse quod queeritur. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 507 Quia enim ut na cum ab ad ab, ita est ca ad ae, erit, dividendo, ut na ad ab, ita ce ad ea; et quia ut nb ad ba, ita ea ad ar, componendo erit ut na ad a db, idest ce ad ea, ita er ad ra, et omnia antecedentia ad omnia consequentia, cr ad r e. Sunt igi- tur cr, er, ar continue propor- tionales. Rursus, quia ut ba ad ac, ita ea ad ar; ut autem ba ad ac, ita xa ad ar; ergo utraque ea, ax ad ar eandem habent rationem: sunt ergo eequales. Modo si intelligamus, tempus per ra esse ut ra, tempus per rcerit r e, media inter cr, ra, et ae erit tempus per ac post ra: verum tempus per xa est.x a, dum ra est tempus per ra: ostensum autem est, xa esse sequalem ae: ergo Sensi est quod facere oportebat. Fiat ut ba cum dupla ac ad ac, ita ca ad ae, et ut ba cum ac ad ac, ita ea ad ar, et ab r ducatur per- pendicularis r x: et quia ut b a cum dupla ac ad ac, ita ca ad ae, dividendo erit ut ba cum ac ad ac, ita ce ad ea. Et quia ut ba ad ac ita ea ad ar, erit, componendo, ut ba cum ac ad ac, ita er ad ra: sed ut ba cum ac ad ac, ita est ce ad e a: ergo ut ce ad ea, ita er ad ra, et ambo antecedentia ad ambo consequentia, nempe cr ad re. Sunt itaque cr, re, ra proportionales. Amplius, quia ut ba ad ac, ita positum est ea ad ar; et propter similitudinem triangulorum, ut ba ad ac, ita x a ad ar: ergo ut ea ad ar, ita xa ad ar: sunt itaque ea, xa eequales. 508 GALILEO GALILEI Data a c, queeritur a e. Posita bf sequali a b, fiat utbdaddf (idest ut ca ad cab) ita fd ad d g (idest ita ca b ad aliam d g); erit etiam ut db ad df, ita bf ad f g (idest ut ca ad cab, ita ba, seu b f, ad f g): heec autem gf cum fb conficitur eodem tempore ac a b: quare si fiat ut gb ad ba, itaca adae,erit ae quod queeritur. Fiat utca ad cab, ita bfadfg,etut gb ad ba, ita ca ad ae: habebimus bg, que peragitur tem- pore a b post a db. [Fiat ut ca ad cab, ita ab ad aliam gf, cui addatur a b; et fiat postea ut gb ad ba, ita ca ad ae,eterit ae queesitum. Posita cs eequali ab, fiat ut ca ad as, ita ba adan, et ut ba cumanad ab, I ita ca ad ae. Vel fiat ut ca ad ab, ita ab ad bn, et ut | ab cum an ad ab, itaca adae. Invenienda est in ac pars aequalis ipsi a b, quae con- ficiatur eodem tempore quo ipsa a b. Esset problema | pulcrum, in ac par- tem ipsi a db equa- lem signare, que conficiatur ex quie- te in a tempore ®- quali tempori per ab ex quiete in a. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 509 MST be- 40 bd- 53 dec- 93 DIGITA ZI, af - 42'/, PRC bg - 464, fg ad- 46°/, bl- 84‘, Dum tempus per a b sit 25, per d b est 53, et per dc erit media inter b d, dc, nempe de, qua est 70'/,; be vero, quee est 17 ‘/,, erit tempus per bc. Cum autem dba, 25, sit tempus per a b, posita in perpendiculo b f aequali be, cuius partis perpendiculi erit tota a f tempus? Sume ipsarum ba, af 3°" proportionalem ag, que est 71‘/,,. Pro invenienda igitur b g, sumenda est de media inter bd, dc; postea faciendum est, ut b a ad duplam a b cum be, ita be ad bg, seu, permutando, ut ab ad be, ita dupla ba cum be ad bg; et erit bg quod queeritur. Facilius et clarius: Dato perpendiculo a b et plano ad ipsum inflexo bc, oportet in perpendiculo partem infra reperire, que cum ab conficiatur tempore eodem, ac bc cum eadem ba. Ducta horizontali a d, extendatur c b in d, et sit d e media bdc, cui ponatur eequalis bf; et ba, af 3° sit a g: erit bg quod queeritur. Posito enim d bd tempore per d b, erit ab tempus per a b: et de sit media b dc; erit be tempus bc post db, idest post ab: sed eadem be, idest bf, est tempus b g post ab: ergo... Si ex puncto b sumantur bc, bi, que conficiantur tempore eodem, dico, ex quolibet puncto sublimi, ut a, 510 GALILEO GALILEI citius confici a bc quam a bl; sed si ponatur b s aequalis bc, citius abs quam abc. Potest tamen sumi a adeo altum, ut ex eo citius conficiatur bc cum eo quam alia maior quam b s, licet minimum quid. Esse autem b f semper maiorem quam b e, sic prosa Quia [ _]lbe equatur [_]c bd, est autem lb maior c b, ergo bd maior ba: media autem inter c dd est aequalis medie lb a: ergo, dempta ba a media lba: reliqua bf erit maior reliqua b e, residuum media c b d, dempta bd. Adverte melius quid sequatur si medie non sint mi- nores ipsis d b [sic]. Dubito de paralogismo. ab- 77 ae - 19 ag 38 //, eg- 21‘, ed- 67 d'e'-138 d.f' 504 PL [_"Dbae superat [bea [ea;([_]Pede superat Ll"ced[Ped:sed[_]bea equatur[_] ced: excessus ergo [_]' cde, idest []' fd, super [_]bae, seu (ag, est idem cum excessu [ ]'ed super []° a e. []] vero ed superat | ]Jea [ ad; ergo []fd superat []ga [ad. Sed quadratum quoque dg superat quadratum ga []'ad: ergo [| ]gd aequatur [ } d f, et linea d g linee df, et an- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 511 gulus d gf angulo d f g: ergo angulus f maior angulo f g e, et latus e g latere e f. Probatum est, tempus perpendiculi sub e post a per totam e b longius esse tempore per e c, idest partem per- pendiculi qua conficitur tempore eodem cum e c, minorem esse quam ed, maiorem tamen quam ec: probandum restat, quanta vero sit. Determinatur, posita en sequali ef et sumpta 3° proportionali post e a, a n, que 3° pro- bandum restat quanto sit (dempta ae) maior quam ec. Erit bl media mb, be, et el media me b; et quia ne eequatur hl, erit hb excessus n e super dl: ve- rum h b est etiam excessus ne super nba, cum sit excessus be super ba: ergo 2nb,ba equantur bl. ab longa 4; bc8; tempus per ab 4; ergo abc longi- tudo 12 conficitur in tempore 8. d Sit d b 9; erit eius tempus 6, et ex d conficietur d b 9 cum bce 18 tempore 12, nempe 27 in tempore 12. Sed si b e confici- tur (cum sit 18) tem- pore 6, bc conficietur tempore 2 °/, et tota dbc in tempore 8”: conficiuntur | ergo citius abc quam dbc. Sit b d 8; conficietur tempore radicis 32, idest 5‘/,, et erit be16, et dbc conficietur tempore 8 ‘/,. 512 GALILEO GALILEI Cum ab sit dimidia bc, et sit cadem a b tempus per a b, erit tota bc tempus per ambas a be. Accipiatur b e, et sit bo media inter e b, ba, et erit ob tempus per eb et per duplam ipsius bd. Quod si db confici- tur tempore bo, c b quo tempore conficietur? fiat igitur ut db ad bo, ita cb ad aliam, qua sit, vgr., bn, et ostendatur, 2°° ob, bn maiores esse ipsa bc, et habebitur intentum. Redacta est res ad hoc lemma: sit e b utcumque secta in a, et inter e b, ba media sit bo, et utebad ba, ita sit ob ad bn; dico, e b, bo, ba, bn esse continue propor- tionales. Quia enim ut eb ad bo, ita bo ad ba, ratio eb ad € __0__o_r__h ba, erit dupla rationis o b ad ba: et quia ut ed ad ba, ita ob ad bn, est autem ratio be ad ba dupla rationis o bd ad ba, erit quoque ratio o db ad b n dupla rationis bo ad da. Verum ipsa ratio o b ad bn componitur ex rationibus ob ad ba et ab ad bn: ergo ratio ab ad bn est eadem cum ratione o db ad ba: ergo patet propositum. Dato quolibet plano non ascendente, perpendiculum ei adiungere, quod conficiatur eodem tempore ac ipsum planum datum post casum in perpendiculo. Constat autem, quod si datum planum fuerit orizontale, perpen- diculum additum erit plani dimidium; si vero datum fuerit perpendiculare, adiunctum perpendiculum erit pars 3°. De horizontali demonstratum iam est, tempus quo talia 2 spatia conficiuntur esse omnium brevissimum. Sit datum planum, primo, perpendiculare ab, cui oporteat addere partem, que ex quiete conficiatur tem- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE DIO pore eodem ac perpendiculum ab post ipsam additum. Si tempus ca debet esse aequale tempori a b, ergo totum tempus c db erit duplum temporis c a: sed tempus per bc ad tempus per ca _C € est ut media inter b c, c a: ergo media A inter bc ca debet esse dupla ac. 1% Posito igitur quod c d sit media inter d 1 bc, ca, cum sit ut be ad cd, ita dc ad ca, erit etiam ita bd ad da; ergo bd debet esse dupla da. Posita ergo bd dupla da et dc dupla ca, idest ò b ac eequali ad, factum erit etc. Modo non sit a b perpendicularis, sed inclinata: constat similiter, tempus per c a b futurum esse duplum temporis per ca, seu per a db post ca. Sit linea orizontis ac, perpendiculum vero bd, et in ac accipiatur quodecumque punctum c: dico, quod si mo- bile debet ex c ad lineam perpendiculi naturaliter per unicam lineam rectam moveri, ad eam perveniet tempore brevissimo si veniat per ce, quee lineam be, ipsi bc sequalem, adsumit. Centro enim b, intervallo b e, circulus de- scribatur, ductisque cf et c g ut- cumque, patebit, motum per ce citius absolvi quam per cf aut cg. Si enim ducatur tangens circulum ic k, et ipsi cf parallela el K, erit le brevior quam cf: sed tempus per ce eaquatur tempori per le. Similiter, ducta ehi ipsi cg pa- | rallela et saequali, constat, c g lon- giorem esse he: at tempus per c e eequatur tempori per he. Ergo patet propositum. 33. - G. Galilei, Opere - II. 514 GALILEO GALILEI . Si ex aliquo puncto in orizontali sumpto descendat perpendiculum, ex alio vero puncto eiusdem orizontis ducendum sit usque ad perpendiculum planum per quod brevissimo tempore mobile descendat, tale planum erit illud quod de perpendiculo abscindit partem equalem distantie puncti accepti in orizonte a primo puncto per- pendiculi. Sit ad orizontem a b linea cd utcumque inclinata, et in ipso orizonte quodlibet punctum notatum a: oportet in linea cd punctum invenire, a quo in linea recta usque ad a protracta brevissimo tempore fiat motus. Erigatur ex a perpendicularis ad ori- Cc zontem ac, et ex eodem de- mittatur perpendicularis ad cd, que sit ae, et angulus a cae bifariam secetur per fa: dico, ex omnibus lineis quae a puncto a ad lineam cd pro- trahuntur, f a esse illam per quam motus brevissimo tem- tempore absolvitur. Ducatur a b enim f g ipsi ea parallela; erit Zgfa £° alterno fae equalis: sed Zfae ipsi fa g equatur, cum totus cae sit bifariam sectus: ergo g af, gf a eequales erunt, quare et latera gf, ga. Si itaque, centro g, intervallo g f, cir- culus describatur, tanget ambas lineas c d, a b in punctis f, a, eritque casus per fa brevioris temporis quam per rectas quascumque alias ex. a ad quaeccumque puncta linee c d productas. Si linea recta supra orizontalem fuerit utcumque in- clinata, planum a dato puncto in orizontali usque ad in- clinatam extensum, in quo descensus fit tempore omnium brevissimo, est illud quod bifariam dividit angulum con- Ù DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 515 tenctum a duabus perpendicularibus a dato puncto ex- tensis, una ad orizontalem lineam, altera ad inclinatam. Si duo circuli se intus tangant, et linea recta inte- riorem circulum contingat et alterum secet, tres linee a contactu circulorum ad tria puncta tangentis et secantis linee producta angulos duos aequales continebunt. Assumpta preesenti figura, protrahatur ad usque ad h et iungatur h f, secans gc in i: et quia anguli in centris e, f sunt aequales, cum similibus circumferentiis sectis a linea a d h insistant, erit li- nea fih ipsi ed parallela. Cumque ed sit perpendi- cularis ad g&c, ipsa quoque fih ex centro f ad lineam cg perpendicularis erit, et, quod consequens est, arcum ghc bifariam dividet, et an- gulus ga h angulo hac erit eequalis, etc. Motuum qui a dato puncto usque ad datam lineam per rectas lineas conficiuntur, ille brevissimo tempore absolvitur, qui in recta fit abscindens de data linea partem sequalem ei parti linee orizontalis, quee per datum pun- ctum usque ad datam lineam producitur, qua inter datum punctum et occur- sum intercipitur. Sit datum pun- ctum a et linea quecumque bdc, et per a orizonti equidistans ab, d quee lineze d b in b De occurrat, et inter- db a 516 . GALILEO GALILEI cepte ab ponatur 2equalis bd: dico, motum per ad absolvi tempore breviori, quam per quamcumque aliam lineam ex puncto a ad quodcumque punctum linee bdc productam. Ducatur ad b a perpendicularis a c, et ex d ad ipsam bc perpendicularis de, occurrens ac in e: et quia in /\ sequicruri ab d anguli ba d, bda sunt aequales, ergo re- liqui ad rectos, nempe e a d, ed a, aequales pariter erunt, et linea e a equalis ipsi e d. Si itaque, centro e, intervallo e a, circulus describatur, transibit per d, ubi lineam bde tanget: quare linee omnes que supra vel infra a d usque ad lineam bc producentur, ultra circumferentiam circuli extendentur. Ex quo patet propositum. Dato perpendiculo et plano ad ipsum inclinato, quorum eadem sit altitudo idemque terminus sublimis, punctum in perpendiculo supra terminum communem reperire, ex quo si demittatur grave, quod postea conver- tatur per planum inclinatum, ipsum planum inclinatum conficiat eodem tempore, quo ipsum perpendiculum ex quiete conficeret. h Sint perpendiculus et planum inclinatum, quorum eadem sit al- titudo, a b, ac: opor- tet, in perpendiculo ba producto ex a, punctum invenire, ex quo demissum mobile conficiat spacium ac eodem tempore, quo conficit perpendicu- lum ab ex quiete in a. Ponatur dc e ad angulos rectos ad ac, et secetur c d eequalis a b, et iungatur a d, que maior erit ipsa dc, et ns) 7 DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 512 angulus adc maior angulo cad (est enim ca maior quam cd, seu ab): fiat angulus dae aqualis angulo ade, et ad ipsam ae perpendicularis sit ef, plano inclinato et extenso occurrens in f, et utraque ai, ag ponatur ipsi c f equalis, et per g horizonti sequidistans gh: dico, hf esse punctum quod queeritur. Intelligatur enim tempus casus per per- pendiculum a b esse a b; erit tempus per a c ex a ipsa a c: cumque in triangulo rectangulo a ef ab angulo recto e perpendicularis ad basim af sit acta ec, erit a e media inter f a, ac, et ce media inter ac, c f, hoc est inter c a, al; et cum ipsius ac tempus ex a sit ac, erit ae tempus totius a f, et e c tempus ipsius a i. Quia vero in triangulo sequicruri aed latus ae est equale lateri e d, erit e d tempus per af: et est ec tempus per ai: ergo cd, hoc est a b, erit tempus per if ex quiete in a; quod idem est ac si dicamus, ab esse tempus per ac ex g, seu ex h: quod erat demonstrandum. Reperiatur altitudo n ex qua n conficiantur nab et ab sola tem- pore eodem: manifestum est quod ex omnibus punctis inter n, a tempus per ambas lineas est brevius: queeratur num tempus brevissimum sit in medio linea È na. Videtur respondere. ; CEGESROÙ ip dose oa: ea — 30 oli RR) ed — 42 OTO) de — 92 PAIA A) media df — 62 ‘/, ab — 100 ut ea ad ai, ita ei ad il; et ut ed ad d f, ita cf ad fe. 518 . GALILEO GALILEI Probandum est, li ad ie maiorem habere rationem quam cf ad fe. Est autem Li ad ie ut ia ad ae; cf autem ad fe ut fdadde: probare igitur debes, ia ad a e maiorem habere rationem quam f d ad d e, et, dividendo, i e ad e a maiorem habere rationem quam fe ad e d. Hoc autem manifestum est: nam eadem maiorem habet rationem ad minorem. Componi- tur ergo demonstratio sic. Quia ea minor est e d, ie ad e a maio- rem rationem habet quam fe ad ed, et, componendo, ia ad ae maiorem rationem habet quam fd ad de: verum ut ia ad ae, ita est li ad ie; ut autem fd ad de, ita cf ad fe: ergo li ad ie maiorem rationem habet quam cf ad fe, et, componendo, le ad ei maiorem habet rationem quam ce ad ef: sunt autem e f, ei equales: ergo le maior est quam ce. In plano inclinato assumpta in eb parte maiori quam ec et minori quam e b, punctum sublime reperire, ex quo cadens tempore eequali conficiat ec et el. Quod autem oporteat, assumptam in eb maiorem esse quam ec, de- claratur sic. Ducatur es sequalis ec et sumptis mediis sae,cde, ai, d f, non esset... equalis e f, ut est necessa- rium: nam, si id esset, foret quoque s i equalis c f; et cum sit utcfadfe,itafdaddeetiaadae, esset, dividendo, fe ad ed utie... fc ad ea, et esset ea eequalis e d, quod est falsum. Quod autem oporteat, assumptam minorem esse quam be, sic ostenditur. Nam si fe equatur ei, anguli ef i, eif erunt a@equales, et <fid maior £° f, et latus fd maius latere di, et []"fd maius [ l"iad, et a d DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 519 [ ]cde maius [ Jbae cum [fad, et ced cum [led maius [ bea cum [ ]'"'ead, et demptis tribus [l'ead,[_]ced maius [_] bea, quod est falsum, cum angulus c sit rectus. Data igitur el maiori es et minori e db, queeratur e a, ex qua cadens temporibus eaqualibus conficiat a ec et ael, sive ec et el post ae: quod erit dum ef, ei sint eequales, positis a i, df mediis lae, cde. Attende. Quo vicinius fuerit /, s, eo punctum a remo- tius esse oportet, et quo vicinius fuerit /, db, eo a propius... contingit puncto e; adeo ut, posito / in s, distantia a e est infinita, et posito / in b, a recidit in e. Insuper, dum | sit in s, puncta f, i sunt in medio linearum ec, e s; dum vero I sit in b, puncta f, i sunt in e. Duplici aggressione possum progredi. Prima: Si ac sit tempus per ac, erit bi tempus per x a, et ab tempus per ab, et bs tempus per r b, et tem- pus per ab post ra erit excessus bs super sa, cui oportet ostendere eequari al; ut verum est. Secunda: Si xa sit tempus per x a, erit ar tempus per ra, et as tempus per ab ex quiete in a, et rs tempus per totam r b, et excessus r s super r a (puta a 0) erit tempus per a b . post ra. Ostendendum ergo est, xa cum ao eequari as, ut verum est: quia ut b a ad ar, ita ca ad ax, idestna ad as; erit etiam bn ad sr ut ba ad ar. Restat osten- dendum, bn ad r t esse quoque ut b a ad ar. Ponatur bv sequalis b a: iam erit ut bo ad vs, ita st ad tr. 520 GALILEO GALILEI Si fuerint 4 linee, quarum prima et 2° simul sumpta sint equales 3° et 4° simul sumptis, sint autem prima et 2° minus inter se differentes quam 3° et 4°, [_] prima et 2° superat [_] 3® e 4% [_]° contento ad excessu 10 8 12 6 5% super primam in excessu prime super 4°". Si fiat ut eb ad ebec, ita ebc ad aliam bs, erit excessus huius super ebc ad bc ut ebc ad eb. Fiat igitur ut e bc ad eb, ita alia ad be (hoc autem fit ducta per- pendiculari c n; erit enim nbe ad bc utcbe ad be), que alia cbr cum bc est ea que conficitur eodem tempore post bc ac ipsa bc: quare si fiat ut heec alia cum bc ad bc, ita cb ad ab, erit ab queesitum. Productis lateribus a bd, ac versus d, e, et erectis per- pendicularibus c g, b f, ponatur an aequalis ac, et ut a db ad bn, ita fiat al ad lc, et ipsi al secetur eequalis ai, ipsarumque ac, ib tertia proportionalis sit ce; et dia- metro a e semicirculus ducatur, secans c g in g, ductaque per e parallela e d, occurrenti ab protracte in d, alter semicirculus describatur, secans perpendicularem b f in f, et iungatur f a: constat iam, ut a db ad bd, ita esse ac ad ce, et mediam bd f ad mediam c g ut ab ad ac, et insuper ib esse sequalem c g. Cumque fd maior sit c g, ponatur bs ipsi c g equalis: et quia ut ba ad ac, seu a n, ita f bd ad c g, seu b s, erit ut ab ad bn, hoc est al ad lc, ita bf ad fs, et[_] sub fb, lc erit equale [_] sub al, fs, seu sub ai, fs. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 521 [_}° sequalia sunt, unum, quod continetur ab bf et ab excessu ac super a h, qui sit /c; alterum est quod conti- netur ab a h, vel ai, vel al, et ab excessu f b super bi, vel super c g: ergo ut aladlc,ita bf ad fs, nempe media bf ad excessum sui super mediam c g. Sed f b ad c g est ut ab ad ac: posita igitur an eequali ac, erit ut ab ad bn, ita aladlc. Totum opus tale videtur esse. Sece- tur an eequalis ac, et ut ab ad bn, ita fiat al ad lc, et ponatur ai aequalis al,etutacadib,itafiatibadce: eritce linea queasita, nempe pars superior perpendiculi, ex qua mobile conficiet ipsam cum ab tempore eodem ac solam a b. d € Si haequatur ai, et hf,fb, et[]fa[]°fb a, demptis DI'°fh, ha, fb, ia,[_] bis sub f h, ha eequabitur [_] bis sub ai, ibet[ ]ib. AM 2 fahf equantur duabus aib, fb, ac: est f enim [_]abi eequale [_]° fb, ac, cum sit ut ac ad c g, seu bi, ita ab ad b f: I oportet igitur ut excessus SLA [l'ahf super [_ l'aib, seu a h, i b, sit equalis ex- cessui [_]'fb, ac super [_}°fha. Fxcessus autem [_]'ahf 34. - G. Galilei, Opere - II. 522 GALILEO GALILEI super | _Jaib, seu ah, cg, est {_] contentum a ge et ab excessu fh, seu fb, super cg et ab ipsa ge. Excessus vero [ l'acbf super [_]Jahf est aequalis [_]° contento ab excessu ac super a h, seu a i, et ab ipsa f h. Si igitur po- natur al eequalis ai, iste excessus erit [_]fAh, lc, cui debet esse aequalis alter excessus [_]ahf super [_]aib, nempe (posita bo aequali fb) [_]aio. [ ] linea aequalis duabus h a f superat | ]Jahf [_]J° ex linea e- quali tribus fhaf et ex excessu duarum haf super hf, quod in nostro casu debet esse ae: fa- ciendum itaque est, quod |[_] trium fhaf in ea cum [ hf sint eequalia [ | ex linea eequali duabus haf; seu dicas, facien- dum esse ut tria [ _} trium late- rum trianguli haf in ae cum duobus [_]'° ha, af sint equalia [N ex haf tanquam e una linea. Faciendum est ut | ]fa ad []fe sit ut due fha ad duas fae. | Tempus per a db, a b; tempus per be ex a, bd f, posita d f media inter e d, d b; ergo tempora per a e b erunt a b f. Ponatur media inter e b, b d ipsa b h; erit b h tempus be ex b: oportet igitur facere ut bh sit equalis duabus a bf, hoc est ut a db sit aequalis ipsi f h. Factum sit ut tempus per 2 abe sit aequale tempori per solam be. Divisa de bifariam, semicirculus descri- batur, et ducatur perpendicularis bn, et iungatur d n: erit d n media inter e d, d b, et b n inter e b d. Et existente ab tempore per ab, et db per db, secetur d f equalis DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 585 dn: erit bf tempus per be post d b, seu a b: unde tem- pus per 2 abe erit abf: tempus vero per be ex b erit b n, cum sit media inter db, be: ergo bn «quatur duabus a bd f. Posita communi bd, erunt 3 d b, b f, ba, hoc est 2 dn, ba, eequales duabus nb, bd; et ablatis equa- libus db, dr et bs, ba, reliqua rn relique ns erit equalis. []b g equatur Bibi pa et 206 bfg: pro[ bf sume [UpFA fa? erits|aib'g sequale duobus [__|] DFAE] hf g, idest [_]hgf cum | }fg: id autem idem est ac si dicas, [ ]b g esse aequale 2 Raoiglo VE |eshiet 2[]fg. Ex[Jbg deme 2[_]bfg et1[]gf; remanet [ ]bf equale 2[_]egf minus 1[]gf, quod est [_]h fg sequale |_]° b f. Posito a b esse tempus per a b, erit e b tempus per e db, et tempus per futuram b x ex quiete in bd erit media inter e b, b x; et ideo erigitur perpendicularis bo, ut in ea no- tetur media. Tempus vero per totam e bx futurum est media inter x e, e db, qua erit eo, cuius excessus super eb erit tempus per bx post e db, qui excessus cum ba (tempora scilicet per ab x) debent eaquari media bo. 524 GALILEO GALILEI Cum autem hoc fuerit (nempe excessum medieze o e, seu en, super e db una cum ab, dico nba, esse aequales ipsi b 0), posita communi b e, erunt 2 ne, idest o e, a b, equales duabus o b, be: auferantur o s, b a, equales duabus o b, bf; reliqua f e (qua datur) erit equalis reliqua es. Redactum ergo est opus, ut, cen- tro e, intervallo e f, circulo descripto, a centro e educatur li- nea occurrens bo, ita ut pars extra circu- lum, qualis est so, sit equalis o b. Dum autem hoc fuerit, perpendicularis ex s ad so occurret b f, ut in h, et erit saequalis hb, et tanget circulum, eritque eius | ] equale [_]p f: cumque date sint p f, f b, oportet ita dividere fb, ut [_]phf sit equale []h db; quod erit dum ph ad hb sit ut bh ad hf, et, componendo, ut pb ad bh, ita bf ad f h, et, permutando, ut pb ad bf, ita bh ad hf. Dantur autem pb, b f: ergo dabitur b h. Duc igitur a puncto h tangentem hs, et per s, eso, etc. Fac ut dupla eb ad bf, sic bf ad fh; seu ut eb ad bf, sic bf ad aliam, di cuius dimidium erit f h. Fac ut bx ad xf, ita fb ad bh, et habebis punctum À. ZA Inveniendum sit tempus quo confi- ciuntur 2 acb in ratione ad tempus quo conficitur sola ab. Fiat abg £ rectus, et semicirculus a b g describatur, Ss et protrahatur ac ad s, et connectantur e: g gs, bs... DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 525 Dicimus, tempus quo mobile permeat lineas db, bce brevius esse tempore quo permeat solam be. Sit ae sequalis bc: si itaque fuerint motus initia puncta a, b, eodem tempore peragentur linee be et ae. Sit tempus quo conficitur a e, vel bc, ipsum mn, et quam rationem habet a e ad mediam inter a e, ac, hanc habeat nm ad nx; erit nx tempus totius ac: quam vero ratio- nem habet ca ad me- diam inter ca, ab, hanc habeat tempus ina d@inir-Nerit'rn tempus ipsius ab, rx vero ipsius bc post ab (quam xr oportet minorem esse ipsa mn). Ostendatur, citius transiri bc post ab quam fc post d f. Sit d s tempus quo peragitur tota dc, vel bc, et quam rationem habet media inter c d, d f ad d f, hanc habeat tempus sd ad dr; constat, tempus ipsius fc esse rs: quia vero tempus ipsius bc, seu a e, est idem ds, fiat ut ea ad mediam inter e a et totam ac, ita sd ad dt, eritque dt tempus totius ac. Quod si rursus fiat ut tota ca ad mediam inter c a, a b, ita td ad dv, erit vt tempus ipsius bc post ab: hoc autem ostendendum est esse minus ipso rs. Nota. Sit in circumferentia utcumque ducta do, et iungatur c 0: dico, citius moveri ex d in 0 quam ex o in c. Ostensum enim est, eequali tempore moveri ex o in c, atque ex d in c; verum ex d ino patet celerius fieri motum quam ex d in c. 526 GALILEO GALILEI Accipiatur me- dia inter rc, bi, cui | equalis ponatur do: erit reliqua co | eadem que inveni- | tur per mediam in- ter cd, df, que est eadem do. Considera, momentum in singulis circumferentiae qua- | drantis punctis imminui pro ratione accessus puncti per- | pendicularis, ut t, ad centrum. | Ut bc ad cd, sic cd... Momentum super plano dc ad totale momentum est i ut linea tr ad rd, ducta 1 b equidistante c d. Queeritur ratio co ad cv. [ ]edfaquatur[_]rc,ds;[ _]acb aequatur[[/]re n: ergo [_]”cdfad[_]acb est ut diameter d s ad diame- trum nc: ut autem c n ad ds, ita cd ad d f, ob similitu- dinem portionum cbec et d f: ut autem cd ad df, ita Deo ad Dof. _—r—@-* ——_——m@@P@—mT6ccs@—m nr DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 527 Ostende, co maio- e SB g pe d rem esse c D. 2 Ostende ... (77 | Sit ut od, dc, ca, av, je tasrdrdsptd,;:dg: 7) Sit do media inter b cd, df; av media inter ca, ab; ck media inter ac, cb; et accipiatur utcumque d s. Ut cd ad do, ita sd ad dr, seu ut bc ad cd, seu ut dc ad ca. Fiat ut bc ad ck, ita sd ad dt; ut autem va ad ab, ita td ad dg. Probetur, st minorem esse quam sr. Quia enim ut sd ad dr, ita cd ad do, per conver- sionem rationis et convertendo, ut r s ad s d, ita o c ad c d; ut autem sd ad dt, ita c d, hoc est Kc, ad c a: et quia est uttdaddg,ita ca ad av, per conversionem rationis erit quoque ut dt ad tg, ita ac ad cv: ergo, ex eequali, ut rs ad gt, ita oc ad cv. Ostenditur autem, per lemmata, co maior quam cv; ergo tempus rs maius est tempore gt: est autem rs tempus quo peragitur fc post d f, gt vero tempus quo peragitur bc post a db: ergo patet pro- positum. Quia ut ac ad cs, ita sc ad ce et as ad se, ergo ut ac ad ce, idest pb ad be, ita[ ]as ad [ |se: est autem ut v db ad be, ita[ ]obad|[ ] bi: ergo ut[ Jasad[_Jse, ita[ Jobad[_]bi, et ut... 528 GALILEO GALILEI Tempus gq p 219 ‘/, gr 120 Ta rarer TSI le Scania È Tempus per b g post d b qt 183‘/, p tp 50 Tempus per dec 120 per dbc 113°/, Sit q p tempus per ac, et ut ac ad cd, ita fiat pq ad gr: erit gr tempus per dc seu per bc. Sit ut cd ad do, ita rq ad qs: erit qs tempus per d f, et sr tempus per fc post d f. Fiat rursus ut ca ad av, ita tempus pq ad qti: erit qt tempus per a b, t p vero tempus per bc post a b. Cum semidiameter sit 100000, quadrantis circumfe- 1571453 157042 ferentia quadrantis ; seu si semidiameter sit 1000, circum- Piso CONE: i mise agri [ |] sit 1000000, rentia est i quadrans erit 785250. Tempus quo conficeretur circumferentia quadrantis, si esset recta et ad perpendiculum, 1255331. Tempus per ac ad tempus per 2 aec est ut 1000 ad 937 ‘/, fere; tempus per ec ad tempus per 2 e g c, ut 1000 ad 866 ‘/;; tempus per 8 c ad duas suas, ut 1000 ad 733 °/,. i DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 529 ad longa puncta 180; sit tempus casus per ipsam m! 180, et per ambas adc m! 270. a c longa puncta 254 3,5; tempus casus per illam m! 254 5/5. a e longa puncta 158; tempus casus per illam mi! 164. ec longa puncta 138; tempus casus per eam post a c m! 75, et per ambas aec mi! 259. af recta 70/2; tempus i 113 1/0; 0, EL Delli fe recta 70!/2; + 11614) tempus casus post af 48 i: 5 afegc eg recta 70 ‘5/2; tempus 39 }) et per ambas sgcgreciatd0,t/2 0. n 36 egc 75 et per ambas Considera num tempus per ac ad tempus per duas aec sit ut radix radicis linee quae a centro b super ac cadit perpendiculariter, ad radicem radicis perpendicu- laris ex eodem centro super ae. Tempus per 2 egc ex quiete in e est 66326; deberet autem esse 71757, si casus per egc ad tempus per e© haberet eandem rationem quam casus È per aec ad casum per ac: movetur ergo citius per egc quam per aec. Et ex quiete in 8 tempus per duas8cad tempus per solam 8 c est ut 14378 ad 19598: longe igitur adhuc citius move- tur quam per diego. GALILEO GALILEI < OSO ad longa . . . 100000 tempus casus . 100000 dc dale ie 141422; 141422 è e DOOR 70536; 91017 xqec tota MA2/01315* 201515 De. 7605356; 41576 av \rectane . © 39017 tempus casus 63045 FT 46022: 74408 ef zx tota: 85039 (CMPUS. e eno 101129 ef recta 39017 Tlempustiz io.a rat 20721 erhalten abe 127228 ; lémpus sud asd 151500 VAI (e . 166245 ; 172957 ego set 39017; 21657 UTO NO MT, 472242 ; 4915653 Cia NA apt 2D0-t5 205 CE GN N 39017; 19896 O ANA EA 82843; 50404 LARIO 58579; 91018 CASINA 414292 ; tempus casus 64360 PIA VOLI 100000 foot iui are 141422 fetali er: ESITO 41422; 20711 media inter a d, # e 84090 tempus per fe . . 84090 Î per ambas a e c | tempus 132593 media inter d a, fs 61861 tempus per sf . . 61861 per ambas af e 89766 per ambas 4 131319; tempus per vg 96118 per ambas egc 415553 per 3 alekc 135475 | DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 531 a2 19604: 72 longa 19508; tempus 44168 I TREE: 2x 20386; tempus .... per ambas 2x 20386; 46156 > , 2f 62873 f2x 59990; 64644 (0 19604; 18488 per 4 a2f5e | 89605 075 19604; 14372 fix 43392; 70144 Ito LA Mis fx. 62996; f3e 26732 | tempus . . . . 84516 | e 3 19604; 12360 linea 39 55552 | tempus 745536 MN esx 91475; 108783 3 x 71871; 96423 4e 6 151072; 143743 CO 111468; 132558 e4 19604; 11185 E4 1 195993; 203906 | per ambas | de a 3147 tempus 91185 per 8 a2f3e4g8c 131078 4 176389; 193439 | “#8,21052 3 per 4 e4g8c 84 19604; 10467 Sie 8g 338035; 341316 ge 3518431; 331287 na 8g 19604; 10029 tempus 99030 | c87 1019979; 1019979 | per ambas gSc 19821 87 1000375; 1010187 cs 19604; 9792 532 GALILEO GALILEI Queeritur in ac pars a- qualis a b, que conficiatur tempore aequali tempori per ab. Ponatur ad aqualis a b, et circa ac semicirculus de- scribatur, et ponatur a f ®- qualis dimidia dc, et ab f demittatur perpendicularis fe, et eg ponatur aequalis ab: dico, eg ex quiete in a confici eodem tempore ac a b, media proportionalis inter ca, a g... Queeritur versus c pars que conficiatur eodem tem- pore ac ad. Sit tempus per ac, ac; tempus per ad erit ae: po- natur c f aequalis a e, et ipsarum c a, a f 3° proportionalis sit ag: dico, gc esse quod queae- ritur. Cum enim tempus per totam ac sit ac, tempus per agerit a f, media inter c a, a g, et reliqua fc erit tempus per gc: est autem fc posita equa- lis ae: ergo patet. In qualibet latione spacium quod conficitur versus finem eodem tempore ac spatium versus principium, est medium proportionale inter totum lationis spatium et ipsum spatium versus principium. Secta ca utcumque in d, pars vero c d bifariam in i, dico quod si fiat ut tota ac ad ce, ita id ad dg, erit ut ca ad'ai, ita ia adla:g. Si totum ca ad totum ai est ut ablatum ia ad abla- tum a g, erit reliquum ci ad reliquum i g, idest reliquum DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 533 di ad reliquum ig, ut totum ca ad ai, seu ia ad ag, et, per conversionem rationis, ut ac ad ci, ita id ad dg, seu ci ad dg, idest ad ae: sed ita factum est. Componitur ita- i gd Sara que: quia ci ad ae, idest id .ad dg, est ut ac ad ci, erit, per conversionem rationis, ut ca ad ai, ita di ad ig, seu ci ad ig; cum itaque sit ut totum ca ad totum ai, ita ablatum c i ad ablatum a ig, erit etiam reliquum ia ad reliquum a g ut totum ca ad totum ai: quod erat ostendendum. Faciendum ut ai ad ig, ita ig ad gd. Ponatur ic sequalis id, et fiat ut ac ad ci, ita id ad dg: derit, per conversionem rationis, ut ca ad ai, ita di g adig,seuciad ig: et cum ut totum ca ad totum ai, ita ablatum ci ad ablatum ig, erit reliquum ia ad reliquum ag ut ablatum ci, seu di, ad ig, et, ..le.. per conversionem rationis, ut a i ad i g, ita id ad dg. 534 GALILEO GALILEI Particolari privilegii dell’artiglieria sopra gli altri strumenti mecanici. Della sua forza, ed onde proceda. Se operi con maggior forza in una certa distanza o da vicino. Se la palla vadia per linea retta, non sendo tirata a perpendicolo. Che linea descriva la palla nel suo moto. La causa ed il tempo dello stornare il pezzo. Impedimenti che rendono il pezo difettoso ed il tiro incerto. Del metterle a cavallo e scavalcarle. Della fabrica del colibro. Dell’esamine circa la bontà e giustezza del pezzo. Se quanto più è lungo il pezzo, più tira lontano, e perché. A quale elevazione tiri più da lontano, e perché. Che nel tornare la palla ingit nel perpendicolo, torna con le medesime forze e velocità con che andò in su. Diverse palle artifiziate e lanterne, e lor uso. Prima proposizione. Che ’1 proietto descrive la pa- rabola. 2° Prova, il moto composto di 2 equabili, orizontale e perpendicolare, essere in potenza eguale ad amendue. 3. Considera il moto composto di 2, orizontale equabile e perpendicolare accelerato. 4. Mostro come si debba determinar l’impeto del proietto in tutti i punti della parabola. 5. Trovare, nell’asse prolungato della data parabola, il punto sublime dal quale il cadente descrive la para- bola. Segue il corollario, che la metà dell’ampiezza è media tra l'altezza e la sublimità della parabola. Si ag- DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 535 giugne l’altro corollario, che è, le amplitudini delle pa- rabole essere eguali quando le loro altezze e sublimità alternatamente sono eguali. 6. Data la sublimità e l’altezza, trovar l'ampiezza della parabola. 7. Nel descriver parabole di ampiezze eguali, minor impeto si ricerca in quella la cui ampiezza è doppia del- l'altezza, che in qual si voglia altra. Segue per corollario, nelle parabole descritte dal medesimo impeto l’amplitu- dine massima esser di quella che nasce dall’elevazione dell'angolo semiretto. 8. Le ampiezze de i tiri cacciati con l’istesso impeto e per angoli egualmente mancanti o eccedenti l’angolo se- miretto, sono eguali. 9. Le ampiezze sono eguali delle parabole, le altezze e sublimità delle quali si rispondono contrariamente. 10. I momenti delie parabole d’eguali ampiezze son fra loro come i momenti delle altezze perpendicolari dalle quali si generano esse parabole. 11. Il momento di qualsivoglia semiparabola è eguale al momento del cadente per la perpendicolare composta dell'altezza e sublimità della semiparabola. 12. Dato l’impeto e l’ampiezza, trovar l’altezza della parabola. Notabile per i proietti nel determinare quanto de- tragga la propension naturale in giù al moto preterna- turale della proiezzione. Si impetus violentus disponatur secundum numeros pares, descensus naturalis demit dimidium, ut constat in exemplis D, F, E, B, C, A: verum si dispositio sit secundum numeros impares, naturalis descensus demit minus quam dimidium iuxta numerum partium dispositarum, ut patet 536 GALILEO GALILEI in exemplis G, H, I, L. In G enim partes disposite iuxta impetum violentum non retardatum sunt 3, nempe 5, 10, 15; ex quibus in prima demitur 1, et relinqui- tur 4; dempto ex 2°4, relinqui- tur 6; dempto ex 3°, nempe ex 15, 9, relinqui- tur idem nu- merus 6, qui deficit a dimi- dio 15 per 3, qui est nume- rus partium 5, 10, 15. In exem- plo H numerus partium est 4, subtractiones motus natura- lis sunt 6, 4, 2, quee conficiunt 12, cuius du- plum deficit a 28 per 4. In exemplo I sub- tractiones 8, 6, 4,2 exibent 20, cuius duplum deficit a 45 per 5, qui similiter est numerus partium etc. In L pariter ap- paret, subtractiones, nempe 156, duplicatas deficere per 15 (qui est numerus partium motus violenti) a 5325, etc. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 537 Sit ut ba ad ad, itadaadac, et sit be gradus velo- citatis in b, et ut ba ad ad, ita sit be ad cf; erit cf gradus velocitatis in c. Cum itaque sit ut caadad,itacfad be, erit etiam ut[ ]ca 7 suli dita Ple. 'ad' [Nb'e: ut''autem [ea ad []ad, ita ca ad ab; ut igitur ca È ò ad ab, ita[jcfad[ ]be:suntergo puncta 4, d e, f in parabola. Con un grado d’impeto fa 2 miglia all'ora; con 4 gradi d’impeto farà 8 miglia in un'ora, e 16 in due ore. Determinetur ergo impetus in singulis punctis para- bole bec ex potentia momenti acquisiti per descensum ab, quod semper servatur idem et determinat impetum orizontalem, et ex potentia alte- rius momenti acquisiti in descensu perpendiculari. Ut, v. g., in e erit impetus determinatus a linea po- tente a b et media inter d b, b f, que sit b g. Parabola bd describitur ab G elevatione ab cum altitudine bc. Ponatur, a b esse tempus et im- e petum casus a b, sitque d e tan- gens parabolam: erit eb aequalis bc: cumque bf sit subdupla 9 b amplitudinis cd, erit quoque media inter sublimitatem ab | et altitudinem bc, eritque tem- dd c pus casus et impetus per bc in c. Iuncta igitur a f, erit mensura TOO in d cadentis per abd. Attende numquid tempus et impetus per a b cum parabola bd est idem cum tempore et ARGUI per inclinatam ad. 538 GADILLBOIGACIDEI Tutta ac 140, e tanto sia il tempo e l’impeto in c, il quale impeto è di passare 280 nel tempo 140. ab 80; sarà il suo tempo la media tra ac, a b, cioè tra 140 e 80, che è 105: e però nell’orizontale b g la ve- locità sarà di passare, nel tempo 105 di a b, 160, che è il doppio di a b. Ma il tempo di be, dalla quiete in b, è la media tra ac 140 e bc 60, che è 91; adunque diremo: In questo tempo 91, quanto si passerà di b g, della quale nel tempo di a b, che è 105, se ne passa 160? Per la re- gola se ne passerà 158, e torna bene, ché tanta è cd. Sia ab 80, tempo ed impeto in b, che nella bg, in tempo 80, passerà 160. Il tempo di bc sarà la media tra be 60 e ab 80, che sarà 69. In questo tempo 69, quanto si passerà in b g, dove in 80 di tempo si passa 160? Si passa 158, e torna bene. ab 60, tempo ed impeto; bc 30; sarà suo tempo ed impeto la media tra 60 e 30, che è 42 ‘/,; adunque tutto ’l tempo di abd è 102‘/,. L'ampiezza cd è doppia della media tra ab, bc: è dunque 84?/,. Ma tutta ac è 90, e cd 84°/;; adunque ad sarà 1253, ed il tempo di tutta ad sarà quanto la media tra da, a g, che torna 100 e più, e mostra star bene. Impetus in db ex a sit 100, sitque bc ipsi dba sequalis; erit impetus in d per ab d 142 proxime, et distantia c d 200. Impetus in f erit 125, distantia vero fi 150: deberet autem esse 176 fere, ut servaretur ratio impetus in d ad suam distantiam dc. Impetus in h fere 160, distantia eius h k 250. * Sit parabola a bc cuius amplitudo c d dupla sit al- titudinis da et illa tangat ec in puncto c; erit a e sequalis ad; et cadens ex e conversum in a describit parabolam abc. Sumatur in parabola quodlibet punetum bd; con- templandum est quomodo pro describenda parabola a b. —FT_T_Try_onii DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 539 Ex a reperiatur punctum e ex quo decidat proiectum. Tangat b gf ipsam in b, et ducatur orizontalis bh; erit a h sequalis a f. Dico mo- do punctum e reperiri, quia ut af ada g ita est ga ad ae; quod sic pro- batur: ut da ad ag, ita 2pla da ad 2plam ag, nempe dc ad hb, et ut []da ad []ag, ita[]dec ad C]hb, et ita est linea daadah,seueaadaf. Constat igitur quod si datse parabole a b, inve- niendus sit punctus sublimis e ex quo cadens conficiat parabolam ab; posita af equali a h et ducta f gb que parabolam tanget in b, sumpta 3° proportionalis ipsarum fa, ag, dabit ae ex qua cadens etc.; quod erat faciendum. Melius. Sit parabola ab cuius amplitudo bh et axis perpendicularis h e, in quo invenienda sit altitudo ex qua cadens parabolam describat. Ponatur a f sequalis a h, et connectatur fb secans 4 orizontalem ag in g et tangens parabolam in b. € Sitque ipsarum fa, a g 3° d proportionalis a e; dico e b esse punctum queesitum; Eri si enim intelligamus e a esse mensuram temporis casus ex e in a et impe- tus acquisiti in a erit a g. Scritta. (Media nempe inter e a, af) tempus et impetus venientis ex f in a seu ex a in h; sed impetus in a cadentis ex e tempore e a cum impetu acquisito in a, I 540 GALILEO GALILEI 2) conficit in orizontali motu equabili duplam ea, ergo etiam eodem impetu in tempore a g conficiet duplam g a, nempe bh, et in perpendiculari motu ex quiete eodem Der oo ya Rot a CA eno s8 Alt pelli; Log qua DE n fi Di ia ai. i A a © pedi. gt x ; LIO def ela Ù senienti ec tina aal. A ra. inte. J cdi nio pepati ni rali lc pose dirne FL LIAI Stige pe a pete pae popenlizica 4 9 dernier Di ne 06 5 SA: CIRge VELIA ATA tempore g a conficit a h; ergo eodem tempore conficiuntur amplitudo hb et altitudo ah: describitur ergo parabola ab ex casu ex e, quod queerebatur. Tangat parabolam os; demonstrandum ut ob ad b ù ita esse ib ad ba, ita ut media sit bi inter ab, bo. ab 41 momentum in g 82 momentum in f 63. * DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 541 Datz parabole elevationem invenire, ex qua deci- dens mobile parabolam datam describat. Sit data parabola bf, cuius altitudo bi, amplitudo vero if; ducta orizontali bl, accipiatur in perpendiculo be sequalis b i, et connectatur e | f, quae parabolam tanget in f et orizontalem secabit in l; fiat ut eb ad bl, ita lb ad ba: dico, ab esse elevatio- nem, ex qua decidens mobile, in b conversum, describet para- bolam b f. Si enim intelligatur, tempus casus per e b esse ipsum e b, et idem e b esse momentum celeri- tatis in db, erit bl tempus et momentum in b cadentis ex a: cadens igitur ex a in b, con- versum in orizonte, tempore b / transibit duplam ba; ergo in eodem motu, tempore e b, transibit duplam bl: est enim ut tempus e bd ad tempus db, ita dupla bl ad duplam ba. Dupla vero b | est ipsa f i: ergo tempore be a cadenti ex a conficietur orizontalis if: sed eodem tempore e b con- ficitur perpendicularis bi ex quiete in b: ergo cadens ex a, conversus in b, eodem tempore conficit orizontalem i f et perpendicularem bi ex quiete in b: describet ergo parabolam b f. Constat, dimidiam basim esse mediam proportionalem inter altitudinem parabola et elevationem supra para- bolam, ex qua cadens illam designat. Data amplitudine et altitudine semiparabole, sublimi- tatem reperire. Id statim colligitur ex eo quod dimidia amplitudo mediat inter altitudinem et sublimitatem; ergo, diviso [_]° 542 GALILEO GALILEI dimidie amplitudinis per altitudinem, habebimus subli- mitatem queesitam. Altitudines semiparabolarum, quarum eadem est amplitudo, sequantur dimidiae tangenti arcum suarum elevationum. Cadens ex a in c, conversus, describit parabolam c d; sì vero momentum velocitatis in c duplum foret, descri- beret parabolam c e, cuius e g dupla esset ad g d: impetus enim duplus in c permeat in orizonte duplum spacium tempore eodem. Sed ut acquiratur in c momentum du- plum; necesse est, casum fieri ex quadrupla altitudine, nempe.ex c b. Pariter, cx altitudine quadrupla ad cb describetur parabola c f, cuius amplitudo gf dupla est ad ge. Verum mobile in d videtur supra impetum in c ad- dere impetum acquisitum per parabolam cd, quod re- spondet altitudini c g. Mobile vero in e idem momentum addit supra impetum quem habuit in c, qui erat duplus ad impetum alterius mobilis; ergo impetus mobilis in e videtur esse sexquialterus ad impetum mobilis in d. Si- militer invenietur, impetum in f ad impetum in e esse utaDitadp3. In elevatione igitur e a si proiectum habuerit impetum sexquialterum ad impetum in d, proiecti secundum ele- vationem da proiicientur se- cundum parabolas e c, dc intra easdem parallelas, sed distantia e g dupla erit ad d g. Impetus in c cadentis ex a sit 100; cadentis ex b erit 200: impetus in d erit 200; impetus in e erit 300. Cadentis in a ex h impetus in a erit 141; conversi vero per parabolam ae impetus in e erit duplicatus, nempe 282. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 543 Constat igitur, maiorem esse impetum venientis per pa- rabolam ce in e, quam venientis per parabolam ae. Et si proiectum ex e, secundum elevationem eh, habet impetum ut 282, conficiet parabolam e a; secundum ele- vationem vero ea conficiet proiectum parabolam ec, si habuerit impetum ut 300. Ergo in elevatione semirecti e h ab eadem vi longius eiaculatur, quam in elevatione e a, que minor est semirecto. Impetus in f est 500, venientis per parabolam c f; ve- nientis vero per parabolam ’ f, impetus in f est 400. Ex quo patet etiam, longius eiaculari ab eadem vi per ele- vationem semirecti, quam per minorem. Impetus in c ex s erit 50; in r erit 150. Impetus vero in £ ex c est fere 70‘/,; conversi per pa- rabolam tr in r erit 141, minor nempe quam venientis ex s per c in r, qui fuit 150. Unde constat, quod in eleva- tione semirecti r t ab eadem vi longior fit proiectio, quam per elevationem rc. Sit ce dupla ad ea, et fc tangat parabolam ac: sit adhuc h d sequalis c e et maior quam dupla ad d g, et k h tangat parabolam gh, et ut kg ad gi, ita sit ig ad gl; erit l initium casus per parabolam g h: et sit gx media inter a e, g d; gs vero media inter i g, g l: demonstrandum est, sx maiorem esse quam f b. []fb equatur [ ]'°fa, ab, f idest est duplum [_]' gi; et[]sx equatur [| ]° sg, gx: ostende ergo [_}-sg, gx, vel[]"" s x, esse plus quam dupla [_]' ig. a [}® gx eequatur [_]igd; ut dg ad gx, ita gx ad gi: ergo ut dgad gi, ita[]dgad[]gx; ut c È autem d g, seu k g, ad gi, ita i g ad gl. Quia ut [ ]xg ad [ jgi, ita ig ad gl; ut autem 7 el GALILEO GALILEI ig ad gl, ita[ ]ig ad [ ] media inter ig, gÎ, que sit gs; ergo utbixstad' |eioita Ma ned [ ]Jgs. Est autem xg minor quam gi (quia et dg minor est quam gi): ergo | ]ig minor est [_] me- dia. Sed cum 3 [_]' x g, gi et me- dia sint proportionalia, erunt extrema plus quam dupla [_]' g i. * Sit parabola b d cuius amplitudo dc sit 2pla ad al- titudinem cb. Examinandum ipsam describi a minori impetu quam reliquae omnes quarum eadem sit ampli- tudo, alia vero altitudo. Esto enim parabola gd quam tangat hd et fiat ut hg ad gk ita kg ad gl; erit ex antedemonstratis altitudo lg ex qua cadens describet parabolam gd. Ponatur a b esse mensuram temporis et impetus: erit igitur a e mo- mentum lati ex a per parabolam bd in d. Inter a db et gl media sit gm, erit gm tempus et momentum in g ca- dentis ex l. Sit rursus inter bc, c g media gn qua erit momenti velocitatis et temporis mensura cadentis ex £ in c: cum assumptum sit bc seu ba esse tempus et momentum per bc, si igi- tur iungatur mn erit mn impetus proiecti per pa- rabolam gd in d. Esse autem mn maio- rem quam ae sic probatur: quia enim gn posita est media inter bc, c g, est autem bc aequalis be hoc est k g (est enim unaqua- que subdupla d c), erit ut DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 545 cgadgnitangadgk,et ut cg seu hg ad gk, ita Ding ad []gk; ut autem hg ad gK ita facta est kg ad gl; ergo ut [ ]ng ad [Jgkitakgad gl. Sed ut ks ad gl ita /[-kigladilo gm; media enim est gm inter k g, gl, ergo3[ ng, kg, gm sunt proportionalia, et 2 extrema ng, gm idest mn maius quam duplum [l'Kkg, cuius [ "ae duplum est; ergo [ ]|mn maius est [ ae et linea mn maior linea ea. * toehla Id o do aL Bh 4 alerdrc ds ceomrddi «Ann Bageza, sang que. F AI Ar quer cagfi rt am. PRA SE PUBS Lo Lit Ge BAG cine l'ap Lane LE jm> vi pr e Cin € b; vai seria ca leo grida so DIA ANA mac ipfts e pig rnegio frgra lg Di g pis Po bea Agi Dd 3°. A. dd 5 è datervinit’ È WOSAA, A ne Ki PA lidi slo dle VAGA T39-d wgl té (gl oltigudipit Aisuraso. PAIS I IA AI | aa jo A a iAgm. si Sd 19, Ag £ a paio Ft raggi; È, Gil ag — m-RA. nelle È DB. ‘af. ed isa ma. mar Ansa ca. 35. - G. Galilei, Opere - II. 546 GALILEO GALILEI Sia l'angolo ade gradi 45: è manifesto che dalla su- blimità a b nascerà la parabola, la cui altezza bc. Posto l'angolo e d c gradi 55, si cerca la parabola alla elevazione di gradi 55, la cui sublimità e altezza siano eguali alla a c. Con falsa posizione cerca se di tal parabola fusse l’asse nella ec, con la tangente e d, e però dividendo la ec in mezo in f, onde l'altezza di tal parabola sia fc e la sublimità f a: il che allora sarebbe quando la metà del- l'ampiezza c d si trovasse esser me- e dia proporzionale tra la cf e la fa. Ma tra ef (cioè fc) ed fa media una minore della metà di cd, essendo che la metà di c d è media tra cb e ba: trova dunque quale è la sublimità tra la quale e la fc b sia media la meta dell’ampiezza cd, cioè la c b, e trovata che sia, pongasegli eguale la fo, ed arassi la sublimità of descrivere la pa- d STAMI rabola, la cui altezza sia fc ed ampiezza c d. È dunque tal parabola maggiore della cercata, secondo che la o c è maggiore della a c; ma ben gli è simile, sendo toccata dalla e d. Convien dunque descriverne altra si- mile, diminuendo la sua sublimità e ampiezza secondo la proporzione di c a a co. Facciasi dunque come o c a ca, cosi cd a cn. Si cerca l'ampiezza nd. Data la tangente c e mediante l'angolo retto edc, di- vidasi in mezo in f, e delle f c, c s sia 3° proporzionale f 0, che sara la sublimità della parabola fd; congiugni c f con f o, facendo o c; facciasi poi come oc a ca così cd a dn, ed aremo l'ampiezza cercata, cioè della parabola la cui sublimità e altezza sono eguali alla ac, e per conse- guenza nascono da impeti eguali de’ proietti cacciati dal punto d. DO DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 547 SIMPL. Che la palla ricacciata in su descriva la me- desima sx, mi par duro. SAGR. Ma se non vi par duro che, descrivendo la pa- rabola intera y x s, possa ride- scriver la sxy, non vedete che di necessità fa la sx? S Sit A rectangulum abc, latera habens aqualia ac, cb. Fiant £ aequales d ba, abe, et divisa ec bifariam in f, et ducta f g parallela c b, fiat ut e ff ad f g, ita gf ad f l: dico quod, si tota dc bifariam secetur in h, ducta hi parallela bc, erit ut dh ad hi, ita ih ad hl. Quia enim angulus cab equatur angulo c ba, et dba angulo abe, et angulus ceb duobus eab, abe est sequalis, ergo cbe ipsi cbd equabitur, et triangulus ecb triangulo deb erit si- milis, et illis quoque et inter se similes sunt egf, dih. Sed quia est ut ef ad ig, ita gf ad fl, erit triangulus a g f ipsi e g f similis, et ipsi quoque di h. (0) * In 3ang.° rectang.° bed fiat ang. d sequalis ang." c be, et iungatur e b; erunt ergo 2 3ang. deb, ebc si- milia. Dividatur tota dc bifariam in h et parallela hi sit ipsi cb; dividatur pariter ec bifariam in f, et ducatur fg parallela bc, et fiat utdh ad hi ita hi ad hlet iun- gatur li; erit Sang." lih simile 3ang.° d hi, et ob id si- mile quoque ipsi e f g; sed hi est aequalis gf (utriusque enim dupla est bc), ergo reliqua latera hl, fe equalia erunt; quare tertia proportionalis ipsarum /h, hi nempe hd, erit saequalis 3° proportionali ipsarum ef, fg; sed 3° proportionalis ipsarum /h, hi est hd, dimidia 548 GALILEO GALILEI nempe totius dc, ergo 3° proportionalis ipsarum e f, f g sequabitur dimidie cd, nempe ipsi ch. Sed ch est d sequalis fl, cum cf sit eequalis hl, et fh com- munis, ergo 3° proportionalis ipsarum e f, fc erit fl terminata in puncto /, ubi terminatur 3° proportionalis ipsarum d h, hi. Ex hoc de- monstrabitur proiectorum em elevationes a se- — mirecta per an- gulos aequales factorum ampli- tudines parabo- larum esse 2e- quales. * Tabula altitudinum semiparabolarum infra elevatio- nem gr. 45, quarum impetus est semper idem, nempe su- blimitas cum altitudine 10000. Sit impetus datus semper idem, nem- pe bd, ex altitudine et sublimitate com- posita linea db 10000; et quia dimidia amplitudo, nempe b f, mediat inter alti- tudinem et sublimitatem, intelligatur d b divisa ita, ut [_] partium sit aequale [_} fb. Quod si d db divisa sit bifariam in À ® DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 549 e, erit | |be sequale [_] partium ipsius d b et [] ae; si ergo a [ ]be dematur [_]f db (seu dicas [_] illi sequale, a partibus contentum) remanebit [_]ea, cuius radix, dempta ex eb, relinquet ba altitudinem quessitam. Amplitudo autem be iam calculata est ad singulos gradus elevationis. Per trovar l’altezze delle parabole. Dal [ } della metà dell’impeto (che è l’altezza con la sublimità della parabola) cava il [_} della meta dell’am- piezza della semiparabola: e la radice del rimanente, aggiunta alla meta dell’impeto, darà l’altezza cercata, quando l’elevazione è più di gradi 45. Per la presente ta- vola che si fabrica, la metà dell’impeto è sempre 5000. Ma se l’elevazione sarà meno di gradi 45, la detta radice del rimanente si de’ sottrar dalla metà dell’impeto, ed il restante è l’altezza cercata. ad elevationem gr. 22 proiectio in plano absumit am- plitudinem ut 4 ad 3, nempe sexquitertia ‘altitudinis. Altitudines semiparabolarum, quarum eadem sit am- plitudo, reperire. Id autem absolvitur per dimidiam tangentem arcum elevationis date semiparabole. Inventa, ex dictis, altitudine, sublimitates singularum semiparabolarum, quarum eadem sit amplitudo, facile reperies. Nam, cum dimidia amplitudo mediet inter al- titudinem et sublimitatem, diviso [| _] media amplitudinis per altitudinem, habebimus sublimitatem, quae postea, addita altitudini, exibet impetum. Fabricemus ergo tabulam sublimitatum, sitque semper dimidia amplitudo semiparabole 5000, eius [_] semper idem 25000000; elevatio sit gr. 1, tangens ipsius 174//,, qualium tangens gr. 45 est 10000; tangens gr. 1, 174'/,; ‘eius dimidium, 87%: per hunc numerum divide [] 25000000. 550 GALILEO GALILEI Amplitudines semiparabolarum Altitudines semiparabolarum ab eodem ab eodem impeltu descriptarum, impetu descriptarum» amplitudinibus congruentes DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 551 Amplitudines semiparabolarum Altitudines semiparabolarum ab eodem ab eodem impetu descriptarum, impetu descriptarum amplitudinibus congruentes 346 [sic] 347 [sic] 348 [sic] 552 GALILEO GALILEI Tabula altitudinum semiparabolarum infra elevationem gr. 45, quarum impetus sit idem etc. altitudo gr. altitudo 125 128 131 136 139 143 147 148 154 157 157 161 161 167 165 172 169 | | DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 553 Sublimitates parabolarum eiusdem amplitudinis partium 10000 i Er. gr. gr. gr. "1° | 574712 2% | 21440 || 49 | 8692 78 | 3057 2 | 285714 288998 | 96 | 90500 || 50 | 8390 || 74 | 2867 3 | 190839 95875 | o7 | 19631 || 51 | 8099 || 75 | 2679 se A&T0T |A Hd 4 | 146182... | 28 | 18485 | 52| 7818 || 76) 2493 5| 114416 29 | 18037 || 58 | 7535 || 77 | 2308 6 | 96762 30 | 17319 || 54| 7265. || 78 | 2195 | 7| 81433 31-| 16625 || 55 | 7002 || 79 | 1943 | 8 | 71995 39 | 16005 || 56 | 6744 || so | 1763 | 9 | 63131 33 .| 15399 || 57 | G4o4- || s1 | 1583 10 | 56753 34 | 14819 || 58 | 628 || 82 | 1405 11 | BI440 35 | 14253 || 59 | 6000 | 83 | 19243 12 | 47036 36 | 13762 || 60 | se14 || s4 | 1051 13 | 43327 870) 19968 (|U6l | 5549. | 85 | 874 14 | 40770 38 | 12800 || 62 | 5317 || s6| 699 15 | 37341 39 | 12348 || 63 | 5095 || s7| 52 16 | 34867 40 | 11916 | 64 | 4877 || 88| 349 |az| 39701 41 | 11504 || 65 | 4es4a || 89 | 174 18 | 80788 42 | 11106 || 66 | 4452 19 | 29085 43 | 10767 || 67 | 4245 i |20| o7472 44 | 10856 || 68 | 4040 i 1 926055 45 | 10000 || 69 | 3838 29 | DATA 46 | 9658 |l 70 | 3776 23 | 99551 47 | 93% || 71 | 3448 U | 9262 48 | 904 || 72 | 3249 | 36. - G. Galilei, Opere - II. 554 Elevationes gr. O 90 sn] OS di a 0 N = pa _ a o ai A " a a SIUSI OULI tte Got e a_i o 090 LO) © GALILEO GALILEI Tabula continens altitudines et sublimitates semiparabolarum quarum amplitudo sit eadem, partium scilicet 10000, ad singulos gradus elevationis calculata Altitudines 87 175 262 349 437 4/a 525 1/2 614 702 1/, 792 881 1/2 972 | 1063 1154 1246 1339 1434: 1529 162 17922 Sublimitates 286533 142450 95802 71531 57142 47573 40716 35587 31565 28367 25720 23518 21701 20056 18663 17405 16355 15389 14529 13736 Elevationes 8T. Altitudines Sublimitates DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 555 Elevationes gr. Altitudines 4546 4502 4662 4828 5000 5177 5362 5059 5752 5959 6174 6399 6635 6882 7141 7413 7699 8002 8322 8660 9020 9403 9813 Sublimitates 3752 5053 5362 5177 3000 4828 4662 4502 4345 4195 4048 3906 3765 3632 3500 3372 3234 3123 3004 2887 2771 2658 2547 Elevationes gr. 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75 76 77 78 di) 80 81 Altitudines 11230 11779 12575 13025 13237 14521 15388 16354 17437 18660 20054 21657 23523 25723 28356 31569 35977 40722 47572 57150 71503 95405 143181 286499 Sublimitates 556 GALILEO GALILEI Il numero de’ cubi ne’ quali uno si risolve, è il numero cubo delle parti che [son] nel lato del cubo che si risolve: come, per esempio, diviso il lato del cubo in tre o quattro parti, i cubi che da esse parti si faranno, saranno 27 o 64; ed avendo ogni cubo sei quadrati in superficie, mul- tiplicando 27 per 6 e 64 pur per 6, averemo i numeri de i quadrati che sono superficie de i detti cubi. Tutte le superficie de i piccoli cubi risoluti, prese insieme, alla superficie del cubo grande risoluto hanno la medesima proporzione che il numero delle parti del lato. che si sega all'uno: e cosî tutte le superficie de i 27 cubi alla super- ficie del primo massimo cubo saranno triple, e tutte le superficie delli 64 cubetti, prese insieme, saranno qua- druple della superficie dell’intero gran cubo, essendo che il lato di questo fu diviso in tre parti per cavarne li 27 cubi, ed in 4 per cavarne li cubi 64. Il numero de i cubi che restano sepolti nel gran cubo si trova essere il numero cubo delle parti nelle quali si divide il lato del gran cubo, trattone dua; onde nascendo i 27 cubi dalla divisione in 3, tratto da questo numero 3, 2, resta uno, ed un solo sarà il cubo che rimane incluso e sepolto tra li 27. Otto saranno i cubi sepolti tra li 64 na- scenti dalla divisione del primo gran lato in 4; imperò che, tratto dal 4, 2, resta 2, il cui cubo è otto: e cosî di tutti gli altri, etc. SAGR. Sia sostenuta nel punto C la libra di braccia di- seguali, A C maggiore, CB mi- nore: cercasi la cagione onde avvenga che, posti nell’estre- mità due pesi eguali A, B, la libra non resti in quiete ed equilibrio, ma inclini dalla parte del braccio maggiore, trasferendosi come in EF. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 557 La ragione che comunemente se ne assegna è perché la velocità del peso A, nello scendere, sarebbe maggiore della velocità del peso B, per essere la distanza C A mag- giore della C B; onde il mobile A, quanto al peso, eguale al B, lo supera quanto al momento della velocità, e però gli prevale, e scende sollevando l’altro. Dubitasi circa il valore di tal ragione, la quale pare che non abbi forza di concludere: perché è ben vero che il momento di un grave si accresce, congiunto con velocità, sopra il mo- mento di un grave eguale che sia costituito in quiete; ma che, posti amendue in quiete, cioè dove non sia pur moto, non che velocità maggiore di un’altra, quella maggio- ranza che non è, ma ancora ha da essere, possa produrre un effetto presente, ha qualche durezza nel potersi ap- prendere, ed io veramente ci sento difficultà notabile. SAL. V. S. ha molto ben ragione da dubitare; ed io ancora non restando ben sodisfatto di simile discorso, trovai di quietarmi per un altro verso molto semplice e speditivo, senza suppor niente altro che la prima e co- munissima nozione, cioè che le cose gravi vanno all’in gii in tutte le maniere che gli viene permesso. Quando nella libra AB voi ponete due pesi eguali, se voi la lascerete andare liberamente, ella se ne calerà al centro delle cose gravi, mantenendo sempre il centro della sua gravità (che è il punto di mezzo D) nella retta che da esso va al centro universale; ma se voi a cotal moto opporrete un intoppo sotto il centro D, il moto si fermerà, restando la libra con i suoi pesi in equilibrio; ma se l’intoppo si met- tera fuor del centro D, come sarebbe il C, tal intoppo non fermerà la bilancia, ma devierà il centro D dalla perpendicolare per la quale camminava, e lo far scen- dere per l'arco DO. Insomma la libra con i due pesi è un corpo ed un grave solo, il cui centro della gravità è il punto D, e questo solo corpo grave scenderà quanto potrà, e la sua scesa è regolata dal centro di gravità suo 558 GALILEO GALILEI proprio: quando voi gli supponete il sostegno, il centro D cala in O, e cosi quel che scende è tutto il corpo ag- gregato e composto della libra e suoi pesi. La risposta, dunque, propria alla interrogazione perché inclina la libra etc., è perché, come quella che è una mole sola, scende e si avvicina quanto può al centro comune di tutti i gravi. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 559 De i moti fatti in tempi eguali gli spazii stanno come le velocità; de i fatti con velocità eguale gli spazii stanno come i tempi; de’ fatti in spazii eguali le velocità rispon- dono contrariamente a i tempi. Posta la parte A E eguale alla A B, il tempo per AB al tempo per AC sta come AB ad AC, cioè come AF ad AC: ma come il tempo per AC al tempo per AE, cosi la media tra le AC, AF alla A E: adunque come il tempo per A B E al tempo per AE, cosi la A B, cioè la AF, alla detta media. Ma [come] la velocità per AC alla velocità per A E, cosî la medesima media alla AE: adunque la velocità per AB (che è la medesima che la velocità per A C) alla velocità per A E sta come quella media alla A E. Adunque è manifesto che i tempi per le eguali A B, AF rispondono contrariamente alle velocità per le medesime: il che bisognava dimostrare. SS ..surto su l’ancore, si dessero le vele al vento e si sar- passe: dove la forza del vento non subitamente imprime la massima velocità alla nave, ma successivamente e con tempo, avvenga che nel principio la trovò immota, e poi e di mano in mano opera sopra il mobile continuamente affetto di maggiore velocità. Né doviamo porre alcuna differenza tra gl’impulsi dati per intervalli e quello che vien conferito con forza continuata, perché si come tra gl’impulsi interrotti nessuna varietà si deve considerare se talvolta in 10 minuti di tempo si dieno 20 vogate o 30 o 100 o 1000, cosî né anche può cader alcuna alterazione tra quelli e l'impulso continuato, non sendo questo altro che una frequentissima moltitudine di spinte, cioè di in- finite, dentro all’istesso tempo. Non basta dunque che il mobile il mezzo e la facoltà sieno sempre l’istesse, a fare 560 GALILEO GALILEI l'introduzione di una tanta celerità; ma vi vuole, parten- dosi il mobile dalla quiete, una successione di tempo. In simil guisa penso io che proceda il negozio ne i mobili naturali, partendosi dalla quiete, dove da qualche impedimento erano ritenuti: perché, il mezzo sia sempre l’istesso, l’istesso il mobile e l’istessa la gravità movente, tutta via essa gravità su ‘1 principio opera sopra un mo- bile non abituato di moto alcuno, ma poi successivamente va operando sopra mobile affetto di velocità; onde, ope- rando essa virti nel modo istesso, muove più, perché ac- cresce moto sopra mobile che ella ritrova in moto. Che i gravi descendenti dalla medesima sublimità sopra l’orizonte per linee rette in qualsivoglia modo in- clinate, si trovino, giunti che sieno all’orizonte, aver ac- quistato eguali gradi di velocità (proposizione sin qui da me supposta, e solo con esperienze e probabili discorsi con- fermata), potremo nel seguente modo dimostrativamente provare; pigliando come effetto notissimo, le velocità del- l’istesso mobile esser diverse sopra diverse inclinazioni di piani, e la massima esser per la linea perpendicolarmente sopra l’orizonte elevata, e per l’altre inclinate diminuirsi tal velocità secondo che dal perpendicolo si discostano, cioè più obliquamente s’inclinano: dal che si scorge che l’impeto, il talento, o vogliam dire il momento o energia, del discendere, nel mobile vien diminuita dal soggetto piano, sopra il quale egli si appoggia e discende. E per meglio dichiararmi, inten- dasi la linea AB, perpendicolar- mente eretta sopra l'orizzonte A C; pongasi poi la medesima in diverse inclinazioni verso l'orizzonte piegata, come in AD, AF, AF, etc.: dico che è assai manifesto che l’impeto mas- simo e totale del grave per discen- B DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 561 dere è nella perpendicolare B A, dove non è resistenza o impedimento di piano: minore di questo totale è nella DA, e minore ancora nella E A; e successivamente an- darsi diminuendo nella F A, e finalmente esser del tutto estinto nella orizontale C A, dove il mobile non ha per se stesso inclinazione alcuna, né men resistenza, all’esser Mosso. Appresa questa mutazione d’impeto, mi fa mestieri di ritrovare e dimostrare con qual proporzione ella si faccia, con tutto che in altro luogo io abbia ciò dimostrato e di- versamente. Per esempio, del piano inclinato A F tirisi la sua elevazione sopra l’orizonte, cioè la linea perpendico- lare F C, per la quale l’impeto ed il momento del discen- dere di un grave è il massimo: cercasi qual proporzione abbia adesso tal impeto massimo all’impeto del medesimo grave per l’inclinata FA. È manifesto, tanto essere per l'appunto l’impeto del suo discendere, quanta è la resistenza o forzi minima che basti per vietargli la scesa e fermarlo: mi voglio servir, per tal misura, della gravità d’un altro mobile. Intendasi, sopra il piano FA posare il mobile G, il quale venga ri- tenuto col filo che, cavalcando sopra F e pendendo a perpendicolo, abbia attaccato un peso H, il quale, gra- vando a piombo, proibisca al grave G lo scender per l’in- clinata F A, cioè sieno tali mobili in istato d’equilibrio. Or, riducendosi alla memoria quello che si dimostra in tutti i casi de movimenti meccanici, cioè che la velocità del moto d’un mobile men grave compensa, con reciproca proporzione della gravità, la minor velocità d'altro mo- bile più grave, che è quanto a dire che gli spazi passati da essi nell’istesso tempo abbiano reciproca proporzione delle lor gravità; consideriamo che lo spazio della scesa o salita a perpendicolo del grave H, quando mai si muo- vesse, è ben eguale a tutta la salita 0 scesa del mobile G per l’inclinata A F, ma non già alla salita o scesa a per- 562 GALILEO GALILEI pendicolo, nella quale esso mobile esercita la sua resi- stenza. Il che è manifesto. Imperocché considerando, nel triangolo A F C il moto, v. g., da A in F esser composto del traversale orizontale A C e del perpendicolare C F; ed essendo che, quanto all’orizzontale, niuna sia la resi- stenza del mobile; resta, la resistenza esser solamente rispetto alla perpendicolare C F. Mentre dunque il mo- bile G, muovendosi, per esempio, da A in F, resiste solo, nel salire, lo spazio perpendicolare CF, ma che l’altro grave H scende a perpendicolo quanto è tutto lo spazio FA, possiamo ragionevolmente affermare, le velocità e gli spazi passati nel medesimo tempo da tali mobili dover risponder reciprocamente alle loro gravità; e basterà, per impedir la scesa del peso H, che il grave G sia tanto più grave di quello H, quanto l’inclinata A F è maggiore della perpendicolare F C. E perché siamo convenuti, che tanto sia l’impeto, l'energia o 1 momento [...] al moto del mo- bile, quanto è la forza o resistenza minima che basta a fermarlo, concludiamo, l’impeto per l’inclinata all’impeto massimo per la perpendicolare stare com’essa perpendi- colare, cioè come l'elevazione della medesima inclinata, alla lunghezza dell’inclinata. Stabilito ciò, e posto che il mobile grave, partendosi dalla quiete e naturalmente scendendo, vada con eguali aggiunte in tempi uguali accrescendo la sua velocità, come vien da me definito il moto accelerato nel mio Libro; onde, come quivi io dimostro, gli spazi passati sono in duplicata proporzione de’ tempi, ed in conseguenza de i gradi di velocità, la quale, come si è detto, cresce con la proporzione del tempo; dimostreremo la nostra conclu- sione, cioè i gradi di velocità nell’orizonte esser eguali, quelli però acquistati dal mobile che dalla quiete si parta da qualunque altezza, e per quali si sieno inclinazioni pervenga all’orizzonte. DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 563 E qui devesi avvertire, che posto che in quali si vo- glino inclinazioni il mobile dalla partita dalla quiete vada crescendo la velocità con la proporzione del tempo, e in conseguenza la quantità dell’impeto; quali furono gl’im- peti nella prima mossa, tali saranno i gradi delle velo- cità guadagnati nello stesso tempo, poi che e questi e quelli crescono con la medesima proporzione nel mede- simo tempo. Ora sia il piano inclinato F A, la sua elevazione sopra l’orizonte la perpendicolare F C, e l’orizontale C A; e prendasi nell’inclinata FA la FG, terza proporzionale dopo AF, FC: e perché l’impeto per la perpendicolare FC all’impeto per l’inclinata FA sta come FA ad FC, i medesimi impeti staranno come le F C, FG. Il mobile, dunque, nell’istesso tempo che passasse uno spazio [...] eguale all’F G nell’inclinata F A, ed il grado di velocità in C al grado di ve- G locità in G averebbe la medesima proporzione della F C alla FG. Ma il grado di velocità in A al A. grado inG ha la medesima pro- porzione che la AF alla FC, cioè che la FC alla FG; adunque i gradi in A ed in C al grado in G anno la medesima proporzione, e però son fra loro eguali: che è quel che doveva dimostrarsi. 564 GALILEO GALILEI Il mobile nel descrivere la parabola, benché angustis- sima, non passa per la quiete nel termine altissimo, ma si bene nel muoversi per la perpendicolare, cioè ritor- nando per la medesima retta in git: e se Aristotele avesse detto che nel moto reflesso si passa per la quiete, ave- rebbe detto bene. Cercare di assegnare la ragione onde avvenga che la palla tirata in su col moschetto, incontrando dieci o 12 braccia lontano un petto a botta, lo sfonda, sopra il quale cadendo ella dall’altezza dove il moschetto la caccerebbe, percotendo nel ritorno in giù sopra il medesimo petto, assai minore effetto vi farebbe, e forse appena l’ammac- cherebbe un poco. SIMPL. Di grazia, prima che passar più avanti, fa- temi restar capace in qual modo si verifichi quel converso che l'Autore suppone come chiaro e indubitato: dico che, venendo il proietto da alto a basso descrivendo la semi- parabola, cacciato per il converso da basso ad alto, ci debba ritornare per la medesima linea, ricalcando preci- samente le medesime vestigie, non avendo, per ciò fare, altro regolatore che la direzzione della semplice linea retta toccante la gia disegnata semiparabola; nella cui delineazione, fatta dall’alto al basso, l’impeto trasversale orizontale mi quieta nello ammettere la molta curvazione nella sommità, ma non so intendere né discernere come l'impulso fatto da basso per una retta tangente possa re- stituire un impeto trasversale atto a regolare quella me- desima curvità. SAL. V. S., Sig. Simplicio, nel nominare la retta tan- gente, lasciate una condizione, cioè tangente ed inclinata; la qual inclinazione è bastante a fare che il proietto in tempi eguali si accosti orizontalmente per spazii eguali DIALOGHI DELLE NUOVE SCIENZE 565 all'asse della parabola, come forse pit a basso intende- remo. i SAGR. Ma intanto, per ora, ditemi, Sig. Simplicio: credete voi che la linea descritta da un proietto da basso ad alto secondo qualche inclinazione sia veramente un’in- tera linea parabolica? e che niente importi che la proiez- zione si faccia da levante verso ponente, o per l’opposito? SIMPL. Credolo, purché la elevazione sia la medesima e che la forza del proiciente sia l’istessa. SAGR. Come voi ammettete questo, fatto che si sia un tiro da qualsivoglia parte, che cosa vi ha da mettere in dubbio che la semiparabola da basso ad alto del se- condo tiro, che si faccia in contrario del primo, non sia la medesima che la seconda semiparabola del primo tiro, si che il proietto ritorni per la medesima strada? Quando ciò non fusse, né anco la parabola intera del secondo tiro sarebbe simile a quella del primo. SIMPL. Già intendo e mi quieto; però seguiamo. THEOREMA, PROPOSITIO VIII. Amplitudines orizontales parabolarum, etc. Quando V. S., Sig. Sagredo, mi fece intermetter la let- tura, pensai che ella si ritrovasse involta in una vera- mente strana fantasia, la quale a me ed all'Autore stesso ha dato assai che pensare; ed io per me mi trovo sempre più irresoluto, e quello che mi confonde e perturba è questo. | 83 VE sn meo | se avaro do sitio ni «abitstiri de & ‘ala ac artrob ‘stona Hi | bo nelle ti pasa bola, e Avila nio ato) ib tanalasd van Baal sbr'ertutorg srt aniricobe nonitasiiatioi 10m “ala sistagntortzizsnoinaniloai psolsaphatatosali ai LIO si Sil firocoari stresiiroro-se Issitodin acri L: #atisoggo! 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DAL SIGNOR GALTLEOMGATDBERI ACCADEMICO LINCEO NOBILE FIORENTINO ) FILOSOFO E MATEMATICO PRIMARIO DEL SERENISSIMO GRAN DUCA DI TOSCANA di ig PONI ta id Nilla 3° 4 DIR di; È Md ta, VI bi Da ra i È ti si È; è - Z UnA 0, IC ( RE ILE al ib hi LAI : i È i fi DA y SORER Hate ia Do D \ i 6 si VI #- A05TI î IO LENOAI vida Resti ace i ur È DAR Due c o VA TUAUO JAM Mr Reno. - Pio AYAUlo 4 ATI2(U0a8 AI SuzIta) node STURA TO 200) di OVARTANOI e "E a i i ASIA Lai, AMITOROLIT.A ADIMOKO ATA A0 I2.HAR OIRATOL Co OMARMEDIE © SIR | i PRATT IO AMMOT Vil OTTIAD® 00 DICMOM OMIZZIONIRAVAR dA care Ri AIAAZIO OMIDAIV a OTIMLI O9IMICANDA ©“ 1° N M IG'ARAMAN TA dee HOMo918 Dt: | | OMDULI 1 OOMACAIDA. : 0 li * , OWiTrazonI tinion * 20 OLAA MIAO! \ITAMATAM 3.01080 SA ire +3 UA 1201 Ita; ADI MAND: Quay se DICE sal e A ea i del, "a aa) fue: ALLA SANTITÀ DI N. S. PAPA URBANO OTTAVO. In questo universal giubilo delle buone lettere, anzi dell’istessa virtà, mentre la Città tutta, e spezialmente la Santa Sede, più che mai risplende per esservi la Santità Vostra da celeste e divina disposizione collocata, e non vi è mente alcuna che non s’accenda a lodevoli studi ed a degne operazioni per venerare, imitando, essempio si eminente, vegniamo noi a comparirle davanti, carichi d'infiniti oblighi per li benefizii sempre dalla sua benigna mano ricevuti, e pieni di contento e d’allegrezza per ve- dere in cosi sublime seggio un tanto Padrone essaltato. Portiamo, per saggio della nostra divozione e per tributo della nostra vera servitù, il Saggiatore del nostro Galilei, del Fiorentino scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo. Questo contiene investigazioni di quegli splendori celesti, che maggior maraviglia so- ‘ gliono apportare. Lo dedichiamo e doniamo alla Santità Vostra, come a quella c'ha l’anima di veri ornamenti e splendori ripiena, e c'ha ad altissime imprese l’eroica mente rivolta; desiderando che questo ragionamento d’inu- sitate faci del cielo sia a lei segno di quel più vivo ed ar- dente affetto che è in noi, di servire e di meritare la grazia 572 GALILEO GALILEI di Vostra Santità. Ai cui piedi intanto umilmente inchi- nandoci, la supplichiamo a mantener favoriti i nostri studi co’ cortesi raggi e vigoroso calore della sua beni- gnissima protezzione. Di Roma, li 20 di Ottobre 1623. Della Santità Vostra Umilissimi ed Obligatissimi Servi GLi AccapemMIicI LINCEI. IL'SAGGIATORE DEL SIGNOR GALILEO GALILEI ACCADEMICO LINCEO, FILOSOFO E MATEMATICO PRIMARIO DEL SERENISSIMO GRAN DUCA DI TOSCANA, SCRITTO IN FORMA DI LERDCERAÀ ALL’ILLUSTRISSIMO E REVERENDISSIMO SIG. pon VIRGINIO CESARINI ACCADEMICO LINCEO, MASTRO DI CAMERA DI N. S. Io non ho mai potuto intendere, Illustrissimo Signore, onde sia nato che tutto quello che de’ miei studi, per ag- gradire o servire altrui, m'è convenuto metter in publico, abbia incontrato in molti una certa animosità in detrarre, defraudare e vilipendere quel poco di pregio che, se non per l’opera, almeno per l’intenzion mia m'’era creduto di meritare. Non prima fu veduto alle stampe il mio Nunzio Sidereo, dove si dimostrarono tanti nuovi e meravigliosi discoprimenti nel cielo, che pur doveano esser grati agli amatori della vera filosofia, che tosto si sollevaron per mille bande insidiatori di quelle lodi dovute a cosî fatti ritrovamenti: né mancaron di quelli che, solo per con- tradir a’ miei detti, non si curarono di recar in dubbio quanto fu veduto a lor piacimento ‘e riveduto più volte da gli occhi loro. Imposemi il Serenissimo Gran Duca Cosimo II, di gloriosa memoria, mio Signore, ch'io scri- vessi il mio parere delle cagioni del galleggiare o affon- darsi le cose nell'acqua; e, per sodisfar a cosî fatto comandamento, avendo disteso in carta quanto m’era 574 GALILEO GALILEI sovvenuto oltre alla dottrina d’Archimede, che per av- ventura è quanto di vero in effetto circa si fatta materia poteva dirsi, eccoti subito piene tutte le stamperie d'’in- vettive contro del mio Discorso; né avendo punto riguardo che quanto da me fu prodotto fusse confermato e con- cluso con geometriche dimostrazioni, contradissero al mio parere, né s'avvidero (tanto ebbe forza la passione) che ‘1 contradire alla geometria è un negare scopertamente la verità. Le Lettere delle Macchie Solari e da quanti e per quante guise fur combattute? e quella materia che do- verebbe dar tanto campo d’aprir gl’intelletti ad ammira- bili speculazioni, da molti, o non creduta o poco stimata, del tutto è stata vilipesa e derisa; da altri, per non volere acconsentire a’ miei concetti, sono state prodotte contro di me ridicole ed impossibili opinioni; ed alcuni, costretti e convinti dalle mie ragioni, Anno cercato spogliarmi di quella gloria ch'era pur mia, e, dissimulando d’aver ve- duto gli scritti miei, tentarono dopo di me. farsi primieri inventori di meraviglie cosi stupende. Tacerò d’alcuni miei privati discorsi, dimostrazioni e sentenze, molte di esse da me non publicate alle stampe, tutte state mala- mente impugnate o disprezzate come da nulla; non man- cando anco queste d’essersi talora abbattute in alcuni che con bella destrezza si sieno ingegnati di farsi con esse onore, come inventate da i loro ingegni. Io potrei di tali usurpatori nominar non pochi; ma voglio ora passarli sotto silenzio, avvenga che de’ primi furti men grave castigo prender si soglia che de i susse- guenti. Ma non voglio già più lungamente tacere il furto secondo, che con troppa audacia mi ha voluto fare quel- l’istesso che già molti anni sono mi fece l’altro, d’appro- priarsi l'invenzione del mio compasso geometrico, ancor ch'io molti anni innanzi l'avessi a gran numero di Signori mostrato e conferito, e finalmente fatto publico colle stampe: e siami per questa volta perdonato se, contro IL SAGGIATORE 575 alla mia natura, contro al costume ed intenzion mia, forse troppo acerbamente mi risento ed esclamo col& dove per molti anni ho taciuto. Io parlo di Simon Mario Guntzehusano, che fu quello che gia in Padova, dove al- lora io mi trovava, traportò in lingua latina l’uso del detto mio compasso, ed attribuendoselo lo fece ad un suo discepolo sotto suo nome stampare, e subito, forse per fuggir il castigo, se n’andò alla patria sua, lasciando il suo scolare, come si dice, nelle peste; contro ii quale mi fu forza, in assenza di Simon Mario, proceder nella ma- niera ch'è manifesto nella Difesa ch’allora feci e publicai. Questo istesso, quattro anni dopo la publicazione del mio Nunzio Sidereo, avvezzo a volersi ornar dell’altrui fatiche, non si è arrossito nel farsi autore delle cose da me ritrovate ed in quell’opera publicate; e stampando sotto titolo di Mundus Iovialis etc., ha temerariamente affermato, sé aver avanti di me osservati i pianeti Me- dicei, che si girano intorno a Giove. Ma perché di rado accade che la verité si lasci sopprimer dalla bugia, ecco ch'egli medesimo nell’istessa sua opera, per sua inavver- tenza e poca intelligenza, mi dà campo di poterlo con- vincere con testimoni irrefragabili e manifestamente far palese il suo fallo, mostrando ch'egli non solamente non osservò le dette stelle avanti di me, ma non le vide né anco sicuramente due anni dopo: e dico di pit, che molto probabilmente si può affermare ch’ei non l’ha osservate gia mai. E ben ch'io da molti luoghi del suo libro cavar potessi evidentissime prove di quanto dico, riserbando l'altre ad altra occasione, voglio, per non diffondermi so- verchiamente e distrarmi dalla mia principale intenzione, produrre un luogo solo. Scrive Simon Mario nella seconda parte del suo Mondo Gioviale, alla considerazione del sesto fenomeno, d’aver con diligenza osservato, come i quattro pianeti Gioviali non mai si trovano nella linea retta parallela all’eclittica 576 GALILEO GALILEI se non quando sono nelle massime digressioni da Giove; ma che quando son fuori di queste, sempre declinano con notabil differenza da detta linea; declinano, dico, da quella sempre verso settentrione quando sono nelle parti ‘inferiori de’ lor cerchi, ed all’opposito piegano sempre verso austro quando sono nelle parti superiori: e per salvar cotal apparenza, statuisce i lor cerchi inclinati dal piano dell’eclittica verso austro nelle parti superiori, e verso borea nell’inferiori. Or questa sua dottrina è piena di fallacie, le quali apertamente mostrano e testificano la sua fraude. E prima, non è vero che i quattro cerchi delle Medicee inclinino dal piano dell'eclittica; anzi sono eglino ad esso sempre equidistanti. Secondo, non è vero che le mede- sime stelle non sieno mai tra di loro puntualmente per linea retta se non quando si ritrovano costituite nelle massime digressioni da Giove; anzi talora accade ch'esse in qualunque distanza, e massima e mediocre e minima, si veggono per linea esquisitamente retta, ed incontran- dosi insieme, ancor che sieno di movimenti contrarii e vicinissime a Giove, si congiungono puntualmente, si che due appariscono una sola. E finalmente, è falso che quando declinano dal piano dell’eclittica, pieghino sempre verso austro quando sono nelle metà superiori de i lor cerchi, e verso borea quando sono nell’inferiori; anzi in alcuni tempi solamente fanno lor declinazioni in cotal guisa, ed in altri tempi declinano al contrario, cioè verso borea quando sono ne’ mezi cerchi superiori, e verso austro nel- l’inferiori. Ma Simon Mario, per non aver né inteso né osservato questo negozio, ha inavvertentemente scoperto il suo fallo. Ora il fatto sta cosi. Sono ji quattro cerchi de i pianeti Medicei sempre paralleli al piano dell’eclittica; e perché noi siamo nel- l’istesso piano collocati, accade che qualunque volta Giove non averà latitudine, ma si trovera esso ancora sotto [OIELLO ” y CORFIEESDED=<( Ì 7 \ i DI . Î î Ù ì Ì } \ Ù i IL SAGGIATORE 572 l’eclittica, i movimenti d'esse stelle ci si mostreranno fatti per una stessa linea retta, e le lor congiunzioni fatte in qualsivoglia luogo saranno sempre corporali, cioè senza veruna declinazione. Ma quando il medesimo Giove si troverà fuori del pian dell’eclittica, accaderà che se la sua latitudine sara da esso piano verso settentrione, re- stando pure i quattro cerchi delle Medicee paralleli al- l’eclittica, le parti loro superiori a noi, che sempre siamo nel piano dell'eclittica, si rappresenteranno piegar verso austro rispetto all’inferiori, che ci si mostreranno pit bo- reali; ed all'incontro, quando la latitudine di Giove sarà australe, le parti superiori de i medesimi cerchietti ci si mostreranno più settentrionali dell’inferiori; si che le de- clinazioni delle stelle si vedranno fare il contrario quando Giove ha latitudine boreale, di quello che faranno quando Giove sarà australe; cioè nel primo caso si vedranno de- clinar verso austro quando saranno nelle metà superiori de’ lor cerchi, e verso borea nelle inferiori; ma nell’altro caso declineranno per l’opposito, cioè verso borea nelle metà superiori, e verso austro nelle inferiori; e tali decli- nazioni saranno maggiori e minori, secondo che la latitu- dine di Giove sarà maggiore o minore. Ora, scrivendo Simon Mario d’aver osservato come le dette quattro stelle sempre declinano verso austro quando sono nelle metà superiori de’ lor cerchi; adunque tali sue osservazioni furon fatte in tempo che Giove aveva latitudine boreale: ma quando io feci le mie prime osservazioni Giove era australe, e tale stette per lungo tempo, né si fece boreale, si che le latitudini delle quattro stelle potessero mostrarsi come scrive Simone, se non più di due anni dopo: adunque, se pur egli gia mai le vide ed osservò, ciò non fu se non due anni dopo di me. Eccolo dunque gia dalle sue stesse deposizioni con- vinto di bugia d’avere avanti di me fatte cotali osser- vazioni. Ma io di più aggiungo e dico, che molto pit 37. - G. Galilei, Opere - II. 578 GALILEO GALILEI probabilmente si può credere ch'egli già mai non le fa- cesse: già ch'egli afferma non l'avere osservate né vedute disposte tra di loro in linea retta isquisitamente se non mentre si ritrovano nelle massime distanze da Giove; e pure la verità è che quattro mesi interi, cioè da mezo Febraio a mezo Giugno del 1611, nel qual tempo la lati- tudine di Giove fu pochissima o nulla, la disposizione di esse quattro stelle fu sempre per linea retta in tutte le loro posizioni. E notisi, appresso, la sagacità colla quale egli vuole mostrarsi anteriore a me. Io scrissi nel mio Nunzio Sidereo d'aver fatta la mia prima osservazione alli 7 di Gennaio dell’anno 1610, seguitando poi l’altre nelle seguenti notti: vien Simon Mario, ed appropriandosi l’istesse mie osservazioni, stampa nel titolo del suo libro, ed anco per entro l’opera, aver fatto le sue osservazioni fino dell’anno 1609, onde altri possa far concetto della sua anteriorità: tuttavia la più antica osservazione ch'ei produca poi per fatta da sé, è la seconda fatta da me; ma la pronunzia per fatta nell’anno 1609, e tace di far cauto il lettore come, essendo egli separato dalla Chiesa nostra, né avendo accettata l’emendazion Gregoriana, il giorno 7 di Gennaio del 1610 di noi Cattolici è l’istesso che il di 28 di Decembre del 1609 di loro eretici. É questa è tutta la precedenza delle sue finte osservazioni. Si at- tribuisce anco falsamente l'invenzione de’ loro movimenti periodici, da me con lunghe vigilie e gravissime fatiche ritrovati, e manifestati nelle mie Lettere Solari, ed anco nel trattato che publicai delle cose che stanno sopra l’acqua, veduto dal detto Simone, come si raccoglie chia- ramente dal suo libro, di dove indubitabilmente egli ha . cavato tali movimenti. Ma in troppo lunga digressione, fuori di quello che forse richiedeva la presente opportunità, mi trovo d’es- sermi lasciato trascorrere. Però, ritornando su "1 nostro cominciato discorso, seguirò di dire che, per tante chia- IL SAGGIATORE 5729 rissime prove non mi restando pit luogo alcuno da du- bitare d’un mal affetto ed ostinato volere contro dell’opere mie, aveva meco stesso deliberato di starmene cheto af- fatto, per ovviare in me medesimo alla cagion di quei dispiaceri sentiti nell’esser bersaglio a si frequenti mor- dacità, e togliere altrui materia d’essercitare si biasmevol talento. È ben vero che non mi sarebbe mancata occasione di metter fuori altre mie opere, forse non meno inopinate nelle filosofiche scuole e di non minor conseguenza nella natural filosofia delle publicate fin ora: ma le dette ca- gioni anno potuto tanto, che solo mi son contentato del parere e del giudicio d’alcuni gentil’ uomini, miei reali e sincerissimi amici, co quali communicando e discorrendo de i miei pensieri, ho goduto di quel diletto che ne reca il poter conferire quel che di mano in mano ne sommi- nistra l'ingegno, scansando nel medesimo tempo la ri- novazion di quelle punture per avanti da me sentite con tanta noia. Anno ben questi Signori, amici miei, mo- strando in non piccola parte d’applaudere a i miei con- cetti, procurato con varie ragioni di ritirarmi da cosi fatto proponimento. E primieramente &nno cercato per- suadermi ch'io dovessi poco apprezzare queste tanto per- tinaci contradizzioni, quasi che in effetto, tutte in fine ritornando contro de i lor autori, rendesser più viva e più bella la mia ragione; e desser chiaro argomento che non vulgari fussero i miei componimenti, allegandomi una commune sentenza, che la vulgarità e la mediocrità, come poco o non punto considerate, son lasciate da banda, e solamente colà si rivolgono gli umani intelletti ove si scopre la meraviglia e l’eccesso, il quale poi nelle menti mal temperate fa nascer tosto l’invidia, e appresso, con essa, la maldicenza. E ben che tali e somiglianti ragioni, addottemi dall'autorità di questi Signori, fusser vicine al distogliermi dal mio risoluto pensiero del non più scrivere, nulladimeno prevalse il mio desiderio di viver 580 GALILEO GALILEI quieto senza tante contese; e cosî stabilito nel mio pro- posito, mi credetti in questa maniera d'aver ammutite tutte le lingue, che Anno finora mostrato tanta vaghezza di contrastarmi. Ma vano m'è riuscito questo disegno, né co "1 tacer ho potuto ovviare a questa mia così ostinata influenza, dell’aver a esserci sempre chi voglia scrivermi contro e prender rissa con esso meco. Non m'è giovato lo starmi senza parlare, ché questi, tanto vogliolosi di travagliarmi, son ricorsi a far mie l'altrui scritture; e su quelle avendomi mosso fiera lite, si sono indotti a far cosa che, a mio credere, non suol mai seguire senza dar chiaro indizio d'animo appassio- nato fuor di ragione. E perché non dee aver potuto il Sie. Mario Guiducci, per convenienza e carico di suo officio, discorrer nella sua Academia e poi publicare il suo Discorso delle Comete, senza che Lottario Sarsi, persona del tutto incognita, abbia per questo a voltarsi contro di me, e, senza rispetto alcuno di tal gentil uomo, farmi autore di quel Discorso, nel quale non ho altra parte che la stima e l'onore da esso fattomi nel concor- rere col mio parere, da lui sentito ne’ sopradetti ragio- namenti avuti con que’ Signori, amici miei, co’ quali il Sie. Guiducci si compiacque spesso di ritrovarsi? È quando pure tutto quel Discorso delle Comete fusse stato opera di mia mano (ché, dovunque sarà conosciuto il Sig. Mario, ciò non potrà mai cadere in pensiero), che termine sarebbe stato questo del Sarsi, mentre io mo- strassi cosi voler essere sconosciuto, scoprirmi la faccia e smascherarmi con tanto ardire? Per la qual cosa, tro- vandomi astretto da questo inaspettato e tanto insolito modo di trattare, vengo a romper la mia già stabilita ri- soluzione di non mi far più vedere in publico coi miei scritti; e procurando giusta mia possa che almeno sco- nosciuta non resti la disconvenienza di questo fatto, spero IL SAGGIATORE 581 d'aver a fare uscir voglia ad alcuno di molestare (come si dice) il mastino che dorme, e voler briga con chi si tace. E ben ch'io m'avvisi che questo nome, non mai più sentito nel mondo, di Lotario Sarsi serva per maschera di chi che sia che voglia starsene sconosciuto, non mi starò, come ha fatto esso Sarsi, a imbrigar in altro per voler levar questa maschera, non mi parendo né azzione punto imitabile, né che possa in alcuna cosa porgere aiuto o favore alla mia scrittura. Anzi mi do ad inten- dere che ’l trattar seco come con persona incognita sia per dar campo a far più chiara la mia ragione, e por- germi agevolezza ond’io spieghi pifi libero il mio con- cetto. Perché io ho considerato che molte volte coloro che vanno in maschera, o son persone vili che sotto quell’abito voglion farsi stimar signori e gentiluomini, e in tal ma- niera per qualche lor fine valersi di quella onorevolezza che porta seco la nobiltà; o talora son gentiluomini che deponendo, cosî sconosciuti, il rispettoso decoro richiesto a lor grado, si fanno lecito, come si costuma in molte città d'Italia, di poter d’ogni cosa parlare liberamente con ognuno, prendendosi insieme altrettanto diletto che ognuno, sia chi si voglia, possa con essi motteggiare e contender senza rispetto. E di questi secondi credendo io che debba esser quegli che si cuopre con questa maschera di Lottario Sarsi (ché quando fusse de’ primi, in poco gusto gli tornerebbe d’aver voluto cosi spacciarla per la maggiore), mi credo ancora che, si come cosi sconosciuto egli si è indotto a dir cosa contro di me che a viso aperto se ne sarebbe forse astenuto, cosî non gli debba dovere esser grave che, valendomi del privilegio conceduto contro le maschere, possa trattar seco liberamente: né mi sia né da lui né da altri per esser pesata ogni parola ch'io per avventura dicessi più libera ch’ei non vorrebbe. Ed ho voluto, Illustrissimo Signore, ch’ella sia prima d'ogn’altro lo spettator di questa mia replica; imper- 582 GALILEO GALILEI ciocché, come intendentissima e, per le sue qualità nobi- lissime, spogliata d'animo parziale, giustamente sarà per apprender la causa mia, né lascerà di reprimer l’audacia di quelli che, mancando d’ignoranza ma non d'affetto ap- passionato (ché de gli altri poco debbo curare), volessero appo del vulgo, che non intende, malamente stravolger la mia ragione. E ben che fusse mia intenzione, quando prima lessi la scrittura del Sarsi, di comprendere in una semplice lettera inviata a V. S. Ilustrissima le risposte, tuttavia, nel venire al fatto, mi sono in maniera molti- plicate tra le mani le cose degne d'esser notate che in essa scrittura si contengono, che di lungo intervallo m'è stato forza passar i termini d'una lettera. Ho nondimeno mantenuta l’istessa risoluzione di parlar con V. S. Ilu- strissima ed a lei scrivere, qualunque si sia poi riuscita la forma di questa mia risposta; la quale ho voluta inti- tolare col nome di SAGGIATORE, trattenendomi dentro la medesima metafora presa dal Sarsi. Ma perché m'è paruto che, nel ponderare egli le proposizioni del Sig. Gui- ducci, si sia servito d'una stadera un poco troppo grossa, io ho voluto servirmi d'una bilancia da saggiatori, che sono cosî esatte che tirano a meno d’un sessantesimo di grano: e con questa usando ogni diligenza possibile, non tralasciando proposizione alcuna prodotta da quello, farò di tutte i loro saggi; i quali anderò per numero distin- guendo e notando, acciò, se mai fussero dal Sarsi veduti e gli venisse volonta di rispondere, ei possa tanto più age- volmente farlo, senza lasciare indietro cosa veruna. Ma venendo ormai alle particolari considerazioni, non sarà per avventura se non bene (acciò che niente ri- manga senza’ esser ponderato) dir qualche cosa intorno all’inscrizzion dell’opera, la quale il Sig. Lottario Sarsi intitola LIBRA ASTRONOMICA E FILOSOFICA; rende poi nell’epigramma, ch’ei soggiunge, la ragion che lo mosse a cosi nominarla, la qual è che l’istessa cometa, col IL SAGGIATORE 583 nascere e comparir nel segno della Libra, volle misterio- samente accennargli ch’ei dovesse librar con giusta lance e ponderar le cose contenute nel trattato delle comete publicato dal Sig. Mario Guiducci. Dove io noto come il Sarsi comincia, tanto presto che più non era possibile, a tramutar con gran confidenza le cose (stile mantenuto poi in tutta la sua scrittura) per accommodarle alla sua intenzione. Gli era caduto in pensiero questo scherzo sopra la corrispondenza della sua Libra colla Libra ce- leste, e perché gli pareva che argutamente venisse la sua metafora favoreggiata dall’apparizion della cometa, quando ella fusse comparita in Libra, liberamente dice quella in tal luogo esser nata: non curando di contradire alla verità, ed anco in certo modo a sé medesimo, contra- dicendo al suo proprio Maestro, il quale nella sua Di- sputazione, alla fac. 7, conclude cosi: Verum quacunque tandem ex his prima cometa lux fuerit, illi semper Scorpius patria est; e dodici versi pit a basso: Fuerift hoc sane, cum in Scorpio, hoc est in Martis pracipua domo, natus sit; e poco di sotto: Ego, quo ad me attinet, patriam eius inquiro, quam Scorpium fuisse affirmo, cunctis etiam assentientibus. Adunque molto più pro- porzionatamente, ed anco pit veridicamente, se riguar- deremo la sua scrittura stessa, l’avrebbe egli potuta intitolare L’ASTRONOMICO E FILOSOFICO SCOR- PIONE, costellazione dal nostro sovran poeta Dante chiamata figura del freddo animale Che colla coda percuote la gente; e veramente non vi mancano punture contro di me, e tanto più gravi di quelle degli scorpioni, quanto questi, «come amici dell’uomo, non feriscono se prima non ven- gono offesi e provocati, e quello morde me che mai né pur col pensiero non lo molestai. Ma mia ventura, che so l'antidoto e rimedio presentaneo a cotali punture! In- 584 GALILEO GALILEI fragnerò dunque e stropiccerò l’istesso scorpione sopra le ferite, onde il veleno risorbito dal proprio cadavero lasci me libero e sano. i 1. Or vegniamo al trattato, e sia il primo saggio in- torno ad alcune parole del proemio, cioè da Unus, quod sciam, fino a Doluimus. Il qual proemio sarà però da noi qui registrato intero, per total compitezza del testo latino, al quale non vogliamo che manchi pur un iota. EXAMEN PRIMUM FORUM QUZ DISPUTATIONI NOSTRA A GALILZAEO OBIECTA FUERUNT. Tribus in calo facibus insolenti lumine, anno supe- riore, fulsentibus, nemo hebeti adeo ingenio ac plumbeis oculis fuit, qui utramque in illas aciem non intenderit aliquando, miratusque non sit insueti fulgoris eo tempore feracitatem. Sed quoniam est vulgus, ut sciendi avidissi- mum, ita ad rerum causas investigandas minus aptum, ab iis propterea sibi tantarum rerum scientiam, iure peluti suo, exposcebat, ad quos cali mundique totius contemplatio maxime pertineret. Philosophorum igitur astronomorumque Academias consulendas illico censuit. Quid igitur nostra haec Gregoriana, que, et disciplinarum et Academicorum multitudine nobilis, se inter cateras designari omnium oculis, se maxime consuli, ab se re- sponsa expectari, facile intelligebat? Committere enim- pero non potuit, ne in re, quamquam dubia, suo saltem muneri et postulantium votis utcumque satisfaceret. Pra- stitere hoc ii, quibus ex munere id oneris incumbebat; nec male, si summorum etiam capitum suffragium spectes. Unus, quod sciam, Disputationem nostram, et quidem paulo acrius, improbavit Galilaus. i IL SAGGIATORE 585 Nelle quali ultime parole, cioè Unus, quod sciam, egli afferma che noi agramente abbiamo tassata la’ Dispu- tazion del suo Maestro. Al che io non veggo per ora che occorra risponder cosa alcuna, avvenga che il suo detto è assolutamente falso; poi che, per diligenza usata in cercar nella scrittura del Sig. Mario il luogo (già ch'egli nol cita), non l’ho saputo ritrovare. Ma intorno a questo avremo pit a basso altre occasioni di parlare. 2. Seguita appresso (e sia il secondo saggio): Do- luimus primum, quod magni nominis viro hac displice- rent; deinde consolationis loco fuit, ab eodem Aristotelem ipsum, Tychonem, aliosque, non multo mitius hac in di- sputatione habitos: ut sane non alia iis texenda forent apologia, quibus communis cum summis ingeniis causa satis, vel ipsis silentibus, apud aquos astimatores pro se ipsa peroraret. Qui dice, aver da principio sentito dolore che quel Discorso mi sia dispiaciuto, ma soggiunge essergli stato poi in luogo di consolazione il veder l’istesso Aristotile, Ticone ed altri esser con simile asprezza tassati; onde non erano di mestieri altre difese a quelli che nell’ac- cuse fussero a parte con ingegni eminentissimi, la causa stessa de’ quali, anco nel lor silenzio, appresso giusti giu- dici assai da per se stessa parlava e si difendeva. Dalle quali parole mi par di raccorre che, per giudicio del Sarsi, di quelli che intraprendono a impugnar autori d’'ingegno eminentissimo si debba far cosî poca stima, che né anco metta conto che alcuno si ponga alla difesa de gli oppugnati, la sola autorità de’ quali basta a man- tener loro il credito appresso gl’intendenti. E qui voglio che V. S. Illustrissima noti come il Sarsi, qual se ne sia la causa, o elezzione o inavvertenza, aggrava non poco la reputazion del P. Grassi suo precettore, principale scopo del quale nel suo Problema fu d’impugnar l’opinion d’Aristotile intorno alle comete, come nella sua scrittura 38. - G. Galilei, Opere - II. 586 GALILEO GALILEI apertamente si vede e l’istesso Sarsi replica e conferma in questa, alla fac. 7; di modo che se i contradittori a gli uomini grandissimi devono esser trapassati, il P. Grassi doveva esser un di questi. Tuttavia noi non solamente non l'abbiamo trapassato, ma ne abbiamo fatto la mede- sima stima che de gl’ingegni eminentissimi, accoppian- dolo con quelli; sî che in cotal particolare altrettanto viene egli da noi essaltato, quanto dal suo discepolo ab- bassato. Io non veggo che il Sarsi possa per sua scusa addurre altro, se non che il suo senso sia stato che degli oppositori a gl’ingegni eminentissimi si devono ben lasciar da banda i volgari, ma all'incontro pregiar quegli ch’essi ancora sono eminentissimi, tra i quali egli abbia inteso di riporre il suo Maestro, e noi altri tra i popolari, onde per cotal rispetto quello che al Maestro suo si conveniva fare, a noi sia stato di biasimo. 3. Segue appresso (e sia il terzo saggio): Sed quando sapientissimis etiam viris opere pretium visum est ut esset saltem aliquis, qui Galilei disputationem, tum in iis quibus aliena oppugnat, tum etiam in iis quibus sua promit, paulo diligentius expenderet; utrumque mihi paucis agendum statui. Il senso di queste parole, continuato con quello delle precedenti, mi par ch'importi questo: che de’ contradit- tori a gl'ingegni eminentissimi non si debba, come già si è detto, far conto, ma trapassargli sotto silenzio, e se pur si dovesse lor rispondere, si dia il carico a persone più tosto basse, ch’altrimenti; e che però nel nostro caso sia paruto a uomini sapientissimi che sia ben fatto che non l’istesso P. Grassi o altro d’egual reputazione, ma che saltem aliquis rispondesse al Galilei. E sin qui io non dico né replico altro, ma, conoscendo e confessando la mia bassezza, inclino il capo alla sentenza d’uomini tali. Ben mi maraviglio non poco che il Sarsi di proprio moto si abbia eletto d’esser quel saltem aliquis ch’abbracci e IL SAGGIATORE 587 si sbracci a tale impresa che, per giudicio d’uomini sa- pientissimi e suo, non doveva esser deferita in altri che in qualche soggetto assai basso, né so ben intendere come, essendo naturale instinto d'ognuno l’attribuire a se stesso più tosto pit che manco del merito, ora il Sarsi avvilisca tanto la sua condizione, che s'induca a spacciarsi per un saltem aliquis. Questo inverisimile mi ha tenuto un pezzo sospeso, e finalmente m'ha fatto verisimilmente credere ch'in queste sue parole possa esser un poco d’error di stampa, e che dov'è stampato ut esset saltem aliquis qui Galilei disputationem diligentius expenderet, si debba leggere ut esset qui saltem aliqua in Galilei disputatione paulo diligentius expenderet: la qual lettura io tanto re- puto esser la vera e legittima, quanto ella puntualmente si assesta a tutto "1 resto del trattato, e l’altra mal s'aggiusta alla stima ch'io pur voglio credere che il Sarsi faccia di se stesso. Vedràa dunque V. S. Illustrissima, nell’andar meco essaminando la sua scrittura, quanto sia vero questo ch'io dico, cioè ch'egli delle cose scritte dal Sig. Mario ha so- lamente essaminato aliqua, anzi pure saltem aliqua, cioè alcune minuzie di poco rilievo alla principale intenzione, trapassando sotto silenzio le conclusioni e le ragioni prin- cipali: il che ha egli fatto perché conosceva in coscienza di non poter non le lodare e confessar vere, che sarebbe poi stato contro alla sua intenzione, che fu solamente di dannare ed impugnare, com'’egli stesso scrive alla fac. 42 con queste parole: Atque hac de Galilei sententia, in lis quae cometam immediate spectant, dicta sint. Plura enim dici vetat ipsemet, qui, in bene longa disputatione, quid sentiret paucis admodum atque involutis verbis exposuit, nobisque plura in illum afferendi locum pra- clusit. Qui enim refelleremus qua ipse nec protulit, neque nos divinare potuimus? Nelle quali parole, oltre al ve- dersi la già detta intenzion di confutar solamente, io noto due altre cose: l’una è, ch’ei simula di non aver intese 588 GALILEO GALILEI molte cose per essere (dic’egli) state scritte oscuramente, che vengon a esser quelle nelle quali non ha trovato at- tacco per la contradizzione; l’altra, ch'egli dice non aver potuto confutar le cose ch'io non ho profferite né egli ha potute indovinare: tuttavia V. S. Illustrissima vedrà come la verità è che la maggior parte delle cose ch'ei prende a confutare sono delle non profferite da noi, ma indovinate o vogliam dire immaginate da esso. 4. Rem quamplurimis pergratam me facturum spe- rans, quibus Galilei factum nullo nomine probari potuit: quod tamen in hac disputatione ita prastabo, ut absti- nendum mihi ab iis verbis perpetuo duxerim, quae exa- sperati magis atque iracundi animi, quam scienti@, indicia sunt. Hunc ego respondendi modum aliis, si qui volent, facile concedam. Agite igitur, quando ille etiam per internuncios atque interpretes rem agi iubet, ut propterea non ipse per se, sed per Consulem Academia Marium sui secreta animi omnibus exposuerit, liceat etiam nunc mihi, non quidem Consuli, sed tamen mathematicarum disciplinarum stu- dioso, ca que ex Horatio Grassio Magistro meo de nu- perrimis eiusdem Galilei inventis audierim, non uni tantum Academia, sed reliquis etiam omnibus qui latine norunt, exponere. Neque hic miretur Marius, Consule se pratermisso, cum Galileo rem transigi. Primum, enim, Galileus ipse, in litteris ad amicos Romam datis, satis aperte disputationem illam ingenii sui fotum fuisse pro- fitetur; deinde, cum idem Marius peringenue fateatur, non sua se inventa, sed qua Galilao veluti dictante ex- cepisset, summa fide protulisse, patietur, arbitror, non inique, cum Dictatore potius me de iisdem, quam cum Consule, interim disputare. In tutto questo restante del proemio io noto prima- mente, come il Sarsi pretende d’aver fatto cosa grata a molti colla sua impugnazione: e questo forse può essergli IL SAGGIATORE 589 accaduto con alcuni che non abbiano per avventura letta la scrittura del Sig. Mario, ma se ne sieno stati all’infor- mazion sua; la quale venendo fatta privatamente e (come si dice) a quattr’occhi, quanto e quanto sarà ella stata lontana dalle cose scritte, poi che in questa publica e stampata ei non s’'astiene d’apportar in campo moltissime cose come scritte dal Sig. Mario, le quali non furon mai né nella sua scrittura né pur nella nostra imaginazione? Soggiunge poi, volersi astenere da quelle parole che danno indizio piti tosto d'animo innasprito ed adirato, che di scienza: il che quanto egli abbia osservato, vedremo nel progresso. Ma per ora noto la sua confessione, d’es- sere internamente innasprito ed in collera, perché quando ei non fusse tale, il trattar di questo volersi astenere sa- rebbe stato non dirò a sproposito, ma superfluo, perché dove non è abito o disposizione, l'astinenza non ha luogo. A quello ch'egli scrive appresso, di voler come terza persona riferir quelle cose ch’egli ha intese dal P. Orazio Grassi, suo precettore, intorno agli ultimi miei trovati, io assolutamente non credo tal cosa, e tengo per fermo che il detto Padre non abbia mai né dette né pensate né ve- dute scritte dal Sarsi tali fantasie, troppo lontane per ogni rispetto dalle dottrine che si apprendono nel Col- legio dove il P. Grassi è professore, come spero di far chiaramente conoscere. E già, senza punto allontanarmi di qui, chi sarebbe quello che, avendo pur qualche no- tizia della prudenza di quei Padri, si potesse indurre a credere che alcuno di essi avesse scritto e publicato, ch'io in lettere private, scritte a Roma ad amici, aperta- mente mi fussi fatto autore della scrittura del Sig Mario? cosa che non è vera; e quando vera fusse stata, il publi- carla non poteva non dar qualche indizio d’aver piacere di sparger qualche seme onde tra stretti amici potesse nascer alcun'ombra di diffidenza. E quali termini sono il 590 GALILEO GALILEI prendersi libertà di stampar gli altrui detti privati? Ma è bene che V. S. Illustrissima sia informata della verità di questo fatto. Per tutto il tempo che si vide la cometa, io mi ritrovai in letto indisposto, dove, sendo frequentemente visitato da amici, cadde più volte ragionamento delle comete, onde m’occorse dire alcuno de’ miei pensieri, che rende- vano piena di dubbi la dottrina datane sin qui. Tra gli altri amici vi fu pia volte il Sig. Mario, e significommi un giorno aver pensiero di parlar nell’Academia delle comete, nel qual luogo, quando cosi mi fusse piaciuto, egli avrebbe portate, tra le cose ch'egli aveva raccolte da altri autori e quelle che da per sé aveva immaginate, anco quelle che aveva intese da me, gia ch'io non ero in istato di potere scrivere: la qual cortese offerta io reputai a mia ventura, e non pur l’accettai, ma ne lo ringraziai e me gli confessai obligato. In tanto e di Roma e d'altri luoghi, da altri amici e padroni che forse non sapevano della mia indisposizione, mi veniva con instanza pur do- mandato se in tal materia avevo alcuna cosa da dire: a’ quali io rispondevo, non aver altro che qualche dubita- zione, la quale anco non potevo, rispetto all’infermità, mettere in carta: ma che bene speravo che potesse essere che in breve vedessero tali miei pensieri e dubbi inseriti in un discorso d’un gentiluomo amico mio, il quale per onorarmi aveva preso fatica di raccorgli ed inserirgli in una sua scrittura. Questo è quanto è uscito da me, il che è anco in pit luoghi stato scritto dal medesimo Sig. Mario; si che non occorreva che il Sarsi, con aggiungere a vero, introducesse mie lettere, né mettesse il Sig. Mario a si piccola parte della sua scrittura (nella quale egli ve l'ha molto maggior di me), che lo spacciasse per copista. Or, poi che cosi gli è piaciuto, e cosî segua; ed intanto il Sig. Mario, in ricompensa dell’onor fattomi, accetti la di- fesa della sua scrittura. IL SAGGIATORE 591 5. E ritornando al trattato, rilegga V. S. Illustrissima l'infrascritte parole: Dolet igitur, primo, se in Disputa- tione nostra male habitum, cum de tubo optico ageremus nullum cometa incrementum afferente, ex quo deduce- remus eundem a nobis quam longissime distare. Ait enim, multo ante palam affirmasse se, hoc argumentum nullius momenti esse. Sed affirmarit licet: nunquid eius illico ad Magistrum meum pronunciata referrent venti? Licet enim summorum virorum dicta plerunque fama divulget, huius tamen dicti (quid faciat?) ne syllaba quidem ad nos pervenit. Et quanquam dissimulavit, novit id tamen multorum etiam testimonio, novit benevolentissimum in se Magistri mei animum, et qua privatis in sermonibus, qua publicis in disputationibus, effusum plane in laudes ipsius. Illud certe negare non potest, neminem ab illo unquam proprio nomine compellatum, neque se verbis ullis speciatim designatum. Si qua tamen ipsius animum pulsaret dubitatio, meminisse etiam poterat, perhonorifice olim se hoc in Romano Collegio ab eiusdem Mathema- ticis acceptum, et cum de Mediceis sideribus tuboque optico, illo audiente et (qua fuit modestia) ad laudes suas erubescente, publice est disputatum, et cum postea ab alio, codem loco atque frequentia, de iis que aquis insi- dent disserente, perpetuo Galilaeus acroamate celebratus est. Quid ergo causa fuerit nescimus, cur ei, contra, adeo viluerit huius Romani Collegii dignitas, ut ciusdem Ma- gistros et logica imperitos diceret, et nostras de cometis positiones futilibus ac falsis innixas rationibus, non ti- mide pronunciaret. Sopra i quali particolari scritti io primieramente dico di non m'’esser mai lamentato d’essere stato maltrattato nel Discorso del P. Grassi, nel quale son sicuro che S. R. non applicò mai il pensiero alla persona mia per offen- dermi; e quando pure, dato e non concesso, io avessi avuta opinione che il P. Grassi nel tassar quelli che fa- 592 GALILEO GALILEI cevan poca stima dell'argomento preso dal poco ricrescer la cometa, avesse voluto comprender me ancora, non però creda il Sarsi che questo mi fusse stato causa di disgusto e di querimonia. Sarebbe forse ciò accaduto quando la mia opinion fusse stata falsa, e per tale scoperta e pu- blicata: ma sendo il detto mio verissimo, e l’altro falso, la moltitudine de’ contradittori, e massime di tanto valore quanto è il P. Grassi, poteva più tosto accrescermi il gusto che il dolore, atteso che più diletta il restar vitto- rioso di prode e numeroso essercito, che di pochi e debili inimici. E perché degli avvisi che da molte parti d'Europa andavano (come scrive il Sarsi) al suo Maestro, alcuni nel passar di qua lasciavano ancora a noi sentire come generalmente tutti i più celebri astronomi facevano gran fondamento sopra cotale argomento, né mancavano anco ne’ nostri contorni e nella città stessa uomini della me- desima opinione, io al primo motto, che di ciò intesi, molto chiaramente mi lasciai intendere che stimavo questo argomento vanissimo, di che molti si burlavano, e tanto più, quando in favor loro apparve l'autorevole attesta- zione e confermazione del Matematico del Collegio Ro- mano: il che non negherò che mi fusse cagione d'un poco di travaglio, atteso che trovandomi posto in necessità di difendere il mio detto da tanti altri contradittori, i quali, per esser stati fatti forti da un tanto aiuto, più imperio- samente mi si levavano contro, non vedevo modo di poter contradire a quelli senza comprendervi anco il P. Grassi. Fu adunque non mia elezzione, ma accidente necessario, ben che fortuito, che indirizzò la mia impugnazione anco in quella parte dov'io meno avrei voluto. Ma che io pre- tendessi mai (come soggiunge il Sarsi) che tal mio parere dovesse esser repentinamente portato da’ venti sino a Roma, come suole accadere delle sentenze degli uomini celebri e grandi, eccede veramente d’assai i termini della mia ambizione. Bene è vero che la lettura della Libra IL SAGGIATORE 593 m'ha fatto pur anco alquanto maravigliare, che tal mio detto non penetrasse a gli orecchi del Sarsi. E non è egli degno di meraviglia, che cose le quali io già mai non dissi, né pur pensai, delle quali gran numero è registrato nel suo Discorso, gli sieno state riportate, e che d'’altre dette da me mille volte non gliene sia pur giunta una sillaba? Ma forse i venti, che conducono le nuvole, le chi- mere e i mostri che in essi tumultuariamente si vanno figurando, non inno poi forza di portar le cose sode e pesanti. Dalle parole che seguono mi par comprendere che il Sarsi m’attribuisca a gran mancamento il non aver con altrettanta cortesia contracambiata l’onorevolezza fattami da’ Padri del Collegio in lezzioni publiche fatte sopra i miei scoprimenti celesti e sopra i miei pensieri delle cose che stanno su l’acqua. E qual cosa doveva io fare? Mi ri- sponde il Sarsi: Laudare e approvar il Discorso del P. Grassi. Ma, Sig. Sarsi, gia che le cose tra voi e me s'anno a bilanciare e, come si dice, trattar mercantilmente, io vi dimando, se quei Reverendi Padri stimarono per vere le cose mie, o pur l’ebber per false. Se le conobbero vere e come tali le lodarono, con troppo grand’usura ridoman- dereste ora il prestato, quando voleste che io avessi con pari lode a essaltar le cose conosciute da me per false. Ma se le reputaron vane e pur l’essaltarono, posso ben ringraziarli del buono affetto; ma assai più grato mi sarebbe stato che m’avessero levato d’errore e mostra- tami la verità, stimando io assai pit l’utile delle vere correzzioni, che la pompa delle vane ostentazioni: e perché l’istesso credo di tutti i buoni filosofi, però né per l’uno né per l’altro capo mi sentivo in obligo. Mi direte forse ch'io dovevo tacere. A questo rispondo, primamente, che troppo strettamente ci eravamo posti in obligo, il Sig. Mario ed io, avanti la publicazion della scrittura del P. Grassi, di lasciar vedere i nostri pensieri; si che il 594 GALILEO GALILEI tacere poi sarebbe stato un tirarsi addosso un disprezzo e quasi derision generale. Ma pit soggiungo, che mi sarei anco sforzato, e forse l’avrei impetrato, che il Sig. Gui- ducci non publicasse il suo Discorso, quando in esso fusse stato cosa pregiudiciale alla degnità di quel famo- sissimo Collegio o d’alcun suo professore; ma quando l'opinioni impugnate da noi sono state tutte d’altri prima che del Matematico professore del Collegio, non veggo perché il solo avergli S. R. prestato l’assenso avesse a metter noi in obligo di dissimulare ed ascondere il vero per favoreggiare e mantenere vivo uno errore. La nota, dunque, di poco intendente di logica cade sopra Ticone ed altri che Anno commesso l’equivoco in quell’argo- mento; il quale equivoco si è da noi scoperto non per no- tare o biasimare alcuno, ma solo per cavare altrui d’errore e per manifestare il vero: e tale azzione non so che mai possa esser ragionevolmente biasimata. Non ha, dunque, il Sarsi causa di dire che sia appresso di me avvilita la degnità del Collegio Romano. Ma bene, all’incontro, quando la voce del Sarsi uscisse di quel Collegio, avrei io occasion di dubitare che la dottrina e la reputazion mia, non solo di presente ma forse in ogni tempo, sia stata in assai vile stima, poi che in questa Libra niuno de’ miei pensieri viene approvato, né ci si legge altro che contradizzioni accuse e biasimi, ed oltre a quel ch'è scritto (se si deve prestar credenza al grido) uno aperto vanto di poter annichilar tutte le cose mie. Ma sî come io non credo questo, né che alcuno di questi pensieri abbia stanza in quel Collegio, cosî mi vo immaginando che il Sarsi abbia dalla sua filosofia il poter. egualmente lodare e biasimare, confermare e ributtar, le medesime dottrine, secondo che la benevolenza o la stizza lo tra- porta: e fammi in questo luogo sovvenir d’un lettor di filosofia a mio tempo nello Studio di Padova, il quale es- sendo, come talvolta accade, in collera con un suo con- IL SAGGIATORE 595 corrente, disse che quando quello non avesse mutato modi, avria sotto mano mandato a spiar l’opinioni tenute da lui nelle sue lezzioni, e che in sua vendetta avrebbe sempre sostenute le contrarie. 6. Or legga V. S. Illustrissima: Sed ne tempus que- relis frustra teramus, principio, illud non video, quam iure Magistro meo obiiciat ac veluti vitio vertat, quod nimirum in Tychonis verba iurasse eiusdemque vana machinamenta omni ex parte secutus vi- deatur. Quamquam enim hoc plane falsum est, cum, prater argumentandi modos ac rationes quibus cometa locus inquireretur, nihil aliud in Disputatione nostra re- periat in quo Tychonem, ut expressa verba testantur, sectatus sit; interna vero ipsius animi sensa, astrologus licet Lynceus, ne optico quidem suo telescopio intro- spexerilt; age tamen, detur, Tychoni illum adheesisse. Quantum tandem istud est crimen? Quem potius seque- retur? Ptolemaeum? cuius sectatorum iugulis Mars, pro- pior iam factus, gladio exerto imminet? Copernicum? at qui pius est revocabit omnes ab illo potius, et damnatam nuper hypothesim damnabit pariter ac reiiciet. Unus igitur ex omnibus Tycho supererat, quem nobis ignotas inter astrorum vias ducem adscisceremus. Cur igitur Ma- gistro meo ipse succenseat, qui illum non aspernatur? Frustra hic Senecam invocat Galilaus, frustra hic luget nostri temporis calamitatem, quod vera ac certa mundanarum partium dispositio non teneatur, frustra saculi huius deplorat infortunium, si nil habeat quo hanc ipsam aetatem, hoc saltem nomine eius suffragio miseram, fortunet magis. Da quanto il Sarsi scrive in questo luogo, mi par di comprendere ch'ei non abbia con debita attenzione letto non solo il Discorso del Sig. Mario, ma né anco quello del P. Grassi, poi che e dell’uno e dell’altro adduce pro- posizioni che in quelli non si ritrovano. Ben è vero che 596 GALILEO GALILEI per aprirsi la strada a poter riuscire a toccarmi non so che di Copernico, egli avrebbe avuto bisogno che le vi fussero state scritte; onde, in difetto, l’ha volute supplir del suo. E prima, non si trova nella scrittura del Sig. Mario . buttato, come si dice, in occhio, né attribuito a manca- mento al P. Grassi l'aver giurato fedeltà a Ticone e se- guitate in tutto e per tutto le sue vane machinazioni. Ecco i luoghi citati dal Sarsi. Alla fac. 18: « Appresso verrò al Professor di Matematica del Collegio Romano, il quale in una sua scrittura ultimamente publicata pare che sottoscriva ad ogni detto d’esso Ticone, aggiungen- dovi anco qualche nuova ragione a confermazion del- l’istesso parere ». L’altro luogo a fac. 38: « Il Matematico del Collegio Romano ha parimente per quest’ultima co- meta ricevuto la medesima ipotesi; e a cosî affermare, oltre a quel poco che n'è scritto dall’Autore, che con- suona colla posizion di Ticone, m’induce ancora il ve- dere in tutto il rimanente dell’opera quanto ei concordi coll’altre Ticoniche immaginazioni ». Or vegga V. S. Il- lustrissima se qui s’attribuisce cosa veruna a vizio e mancamento. Di più, è ben chiarissimo che non si trat- tando in tutta l’opera d'altro che de gli accidenti atte- nenti alle comete, de’ quali Ticone ha scritto si gran volume, il dire che il Matematico del Collegio concorda coll’altre immaginazioni di Ticone, non s'estende ad altre posizioni ch'a quelle ch'appartengono alle comete; sî che il chiamar ora in paragon di Ticone, Tolomeo e Coper- nico, i quali non trattaron mai d’ipotesi attenenti a co- mete, non veggo che ci abbia luogo opportuno. Quello poi che dice il Sarsi, che nella scrittura del suo Maestro non vi si trova altro, in che egli abbia se- guito Ticone, fuor che le dimostrazioni per ritrovare il luogo della cometa, sia detto con sua pace, non è vero; anzi nessuna cosa vi è meno, che simile dimostrazione. IL SAGGIATORE , 592 Tolga Iddio che il P. Grassi avesse in ciò imitato Ticone, né si fusse accorto, quanto nel modo d’investigar la di- stanza della cometa per l’osservazioni fatte in due luoghi differenti in Terra, si mostri bisognoso della notizia de’ primi elementi delle matematiche. Ed acciocché V. S. Il- lustrissima vegga ch'io non parlo cosî senza fondamento, ripigli la dimostrazion ch'egli comincia alla fac. 123 del Trattato della Cometa del 1577, ch'è nell’ultima parte de’ suoi Proginnasmi: nella quale volendo egli provare com'ella non fusse inferiore alla Luna per la conferenza dell’osservazioni fatte da sé in Uraniburg e da Tadeo Agecio in Praga, prima, tirata la subtesa AB all’arco dell’orbe terrestre che media tra i detti due luoghi, e traguardando dal punto A la stella fissa posta in D, suppone l'angolo DAB esser k retto; il che è molto lontano dal para dì. possibile, perché, sendo la linea AB asa corda d’un arco minor di gradi 6 (come Ticon medesimo afferma) bisogna, acciò che il detto angolo sia retto, che la fissa D sia lontana dal zenit di A meno di gradi 3; cosa ch'è tanto falsa, quanto che la sua minima distanza è pit di gradi 48, es- sendo, per detto dell’istesso Ticone, la declinazion della fissa D, ch'è l'Aquila o vogliamo dire l’Avvoltoio, di gradi 7.52 verso borea, e la latitudine di Uraniburg gradi 55.54. In oltre egli scrive, la medesima stella fissa da i due luoghi A e B vedersi nel medesimo luogo dell’ottava sfera, perché la Terra tutta, non che la piccola parte A B, non ha sen- sibil proporzione coll’immensità d’essa ottava sfera. Ma perdonimi Ticone: la grandezza e piccolezza della Terra non ha che fare in questo caso, perché il vedersi da ogni sua parte la medesima stella nell’istesso luogo deriva dal- l'essere ella realmente nell’ottava sfera, e non da altro: 598 GALILEO GALILEI in quel modo a punto che i caratteri che sono sopra questo foglio, gia mai rispetto al medesimo foglio non muteranno apparenza di sito, per qualunque grandis- sima mutazion di luogo che faccia l’occhio di V. S. Illu- strissima che gli riguarda: ma ben uno oggetto posto tra l’écchio e la carta, al movimento della testa varierà l’ap- parente sito rispetto a’ caratteri, si che il medesimo ca- rattere ora se gli vedra dalla destra, ora dalla sinistra, ora più alto, ed ora più basso; ed in cotal guisa mutano apparente luogo i pianeti nell’orbe stellato, veduti da differenti parti della Terra, perché da quello sono lonta- nissimi; e quello che in questo caso opera la piccolezza della Terra, è che, facendo i più lontani da noi minor varietà d'aspetto, ed i più vicini maggiore, finalmente per uno lontanissimo la grandezza della Terra non basti a far tal varietà sensibile. Quello poi che soggiunge ac- cadere conforme alle leggi de gli archi e delle corde, vegga V. S. Illustrissima quant’ei sia da tali leggi lon- tano, anzi pure da’ primi elementi di geometria. Egli dice, le due rette A D, BD esser perpendicolari alla A B: il che è impossibile, perché la sola retta che viene dal ver- tice è perpendicolare sopra la tangente e le sue parallele, e queste non vengono altramente dal vertice, né l'A B è tangente o ad essa parallela. In oltre, ei le domanda pa- rallele, e appresso dice che le si vanno a congiungere nel centro: dove, oltre alla contradizzione dell’esser parallele e concorrenti, vi è che, prolungate, passano lontanissime dal centro. E finalmente conclude, che venendo dal centro alla circonferenza sopra i termini dell’A B, elle sono per- pendicolari: il che è tanto impossibile, quanto che delle linee tirate dal centro a tutti i punti della corda A B, sola quella che cade nel punto di mezo gli è perpendi- colare, e quelle che cascano ne gli estremi termini sono più di tutte l’altre inclinate ed oblique. Vegga dunque V. S. Illustrissima a quali e quante essorbitanze avrebbe IL SAGGIATORE 599 il Sarsi fatto prestar l’assenso dal suo Maestro, quando vero fusse ciò ch’in questo proposito ha scritto, cioè che quello abbia seguitate le ragioni e modi di dimostrar di Ticone nel ricercar il luogo della cometa. Vegga di più il medesimo Sarsi quant'io meglio di lui, senza adoperar astrologia né telescopio, abbia penetrato, non dirò i sensi interni dell'animo suo, perché per ispiar questi io non ho né occhi né anco orecchi, ma i sensi della sua scrittura, i quali son pur tanto chiari e manifesti, che bisogno non ci è de gli occhi lincei, gentilmente introdotti dal Sarsi, credo per ischerzare un poco sopra la nostra Academia. E perché e V. S. Ilustrissima ed altri Principi e Signori grandi son meco a parte nello scherzo, io, per la dottrina di sopra insegnatami dal Sarsi, non curando molto i suoi motti, me la passerò sotto l’ombra loro, 0, per meglio dire, illustrerò l'ombra mia col loro splendore. Ma tornando al proposito, vegga com'’egli di nuovo vuol pure ch'io abbia reputato gran mancamento nel P. Grassi l’aver egli aderito alla dottrina di Ticone, e risen- titamente domanda: Chi ei doveva seguitare? forse To- lomeo, la cui dottrina dalle nuove osservazioni in Marte è scoperta per falsa? forse il Copernico, dal quale pit presto si deve rivocar ognuno, mercé dell’ipotesi ultima- mente dannata? Dove io noto più cose: e prima, replico ch'è falsissimo ch'io abbia mai biasimato il seguitar Ti- cone, ancor che con ragione avessi potuto farlo, come pur finalmente dovré restar manifesto a i suoi aderenti per l’Antiticone del Sig. Cavalier Chiaramonte; si che quanto qui scrive il Sarsi, è molto lontano dal proposito; e molto più fuor del caso s’introducono Tolomeo e Copernico, de’ quali non si trova che scrivessero mai parola attenente a distanze, grandezze, movimenti e teoriche di comete, delle quali sole, e non d’altro, si è trattato, e con altrettanta occasione vi si potevano accoppiare Sofocle, e Bartolo, o Livio. Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma cre- 600 GALILEO GALILEI denza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi al- l’opinioni di qualche celebre autore, si che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Sig. Sarsi, la cosa non istà cosi. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non simpara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza 1 quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr'uomo (lascio stare ch'egli, facendo così tutti, e se stesso an- cora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel Sig. Mario), e che nelle contemplazioni de’ moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ra- gione ei s'elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine: cosa ch'io non veggo che Ticone abbia fatta, se gia al Sarsi non basta l’aver negati gli altri due e pro- messone un altro, se ben poi non esseguito. Né meno del- l'aver convinto gli altri due di falsità, vorrei che alcuno lo riconoscesse da Ticone: perché, quanto a quello di To- lomeo, né Ticone né altri astronomi né il Copernico stesso potevano apertamente convincerlo, avvenga che la prin- cipal ragione, presa da i movimenti di Marte e di Venere, aveva sempre il senso in contrario; al quale dimostran- dosi il disco di Venere nelle due congiunzioni e separa- IL SAGGIATORE 601 zioni dal Sole pochissimo differente in grandezza da se stesso, e quel di Marte perigeo a pena 3 o 4 volte mag- giore che quando è apogeo, già mai non sl sarebbe per- suaso dimostrarsi veramente quello 40 e questo 60 volte maggiore nell’uno che nell’altro stato, come bisognava che fusse quando le conversioni loro fussero state intorno al Sole, secondo il sistema Copernicano; tuttavia ciò esser vero e manifesto al senso, ho dimostrato io, e fattolo con perfetto telescopio toccar con mano a chiunque l’ha vo- luto vedere. Quanto poi all’ipotesi Copernicana, quando per beneficio di noi Cattolici da più sovrana sapienza non fussimo stati tolti d’errore ed illuminata la nostra cecità, non credo che tal grazia e beneficio si fusse potuto ottenere dalle ragioni ed esperienze poste da Ticone. Es- sendo, dunque, sicuramente falsi li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Sarsi riprendermi se con Seneca desidero la vera costituzion dell'universo. È ben che la domanda sia grande e da me molto bramata, non però tra ramarichi e lagrime deploro, come scrive il Sarsi, la miseria e calamità di questo secolo, né pur si trova minimo vestigio di tali lamenti in tutta la scrittura del Sig. Mario; ma il Sarsi, bisognoso d’adombrare e dar appoggio a qualche suo pensiero ch'ei desiderava di spie- gare, lo va da se stesso preparando, e somministrandosi quegli attacchi che da altri non gli sono stati porti. È quando pur io deplorassi questo nostro infortunio, 10 non veggo quanto acconciamente possa dire il Sarsi, in- darno essere sparse le mie querele, non avendo io poi modo né facoltà di tor via tal miseria, perché a me pare che appunto per questo avrei causa di querelarmi, ed all'incontro le querimonie allora non ci avrebbon luogo, quando io potessi tor via l'infortunio. 7. Ma legga ormai V. S. Illustrissima. Et quoniam hoc loco atque hoc ad disputationem ingressu confutanda ea mihi sunt qua minoris ponderis videntur, illud ab homine 602 GALILEO GALILEI perhumano, qualem illum omnes norunt, expectassem profecto nunquam, ut, vel ipso Catone severior, lepores quosdam ac sales, apposite a nobis inter dicendum usur- patos, fastidiose adeo aversaretur, ut irrideret potius, ac diceret naturam poéticis non delectari. At ego, proh, quantum ab hac opinione distabam! naturam poétriam ad hanc usque diem existimavi. Illa certe vix unquam poma fructusque ullos parit, quorum flores, veluti ludi- bunda, non premittat. Galileum vero quis unquam adeo durum existimasset, ut a severioribus negotiis festiva aliqua eorum condimenta longe ableganda censeret? Hoc enim Stoici potius est, quam Academici. Attamen iure is quidem nos arguat, si gravissimas queestiones iocis ac salibus eludere, potius quam explicare, tentaremus; at vero, rationum inter gravissimarum pondera, lepide ali- quando ac salse iocari quis vetat? Vetat enimvero Aca- demicus. Non paremus. Et si illi nostra haec urbanitas non sapit? Plures habemus, non minus eruditos, quos delectat. Neque enim hic fuit sensus virorum, et genere et doctrina clarissimorum, qui nostre disputationi inter- fuere, quibus sapienter omnino factum visum est, ut cometes, triste infaustumque vulgo portentum, placido aliquo verborum lenimento tractaretur, ac prope mitiga- retur. Sed hac levia sunt, inquis. Ita est; ac proinde le- viter diluenda. Da quanto qui è scritto in poche parole sbrigandomi, dico che né il Sig. Mario né io siamo cosi austeri, che gli scherzi e le soavità poetiche ci abbiano a far nausea: di che ci sieno testimoni l’altre vaghezze interserite molto leggiadramente dal P. Grassi nella sua scrittura, delle quali il Sig. Mario non ha pur mosso parola per tassarle; anzi con gran gusto si son letti i natali, la cuna, le abita- zioni, i funerali della cometa, e l’essersi accesa per far lume all’abboccamento e cena del Sole e di Mercurio; né pur ci ha dato fastidio che i lumi fussero accesi 20 giorni IL SAGGIATORE 603 dopo cena, né meno il sapere che dov'è il Sole, le candele son superflue ed inutili, e ch’egli non cena, ma desina solamente, cioè mangia di giorno, e non di notte, la quale stagione gli è del tutto ignota: tutte queste cose senza veruno scrupolo si sono trapassate, perché, dette in cotal guisa, non ci anno lasciato nulla da desiderare nella ve- rità del concetto sotto cotali scherzi contenuto, il quale, per esser per sé noto e manifesto, non avea bisogno d'altra più profonda dimostrazione. Ma che in una questione massima e difficilissima, qual è il volermi persuadere trovarsi realmente, e fuor di burle, in natura un parti- colare orbe celeste per le comete, mentre che Ticone non si può sviluppar nell’esplicazion della difformità del moto apparente di essa cometa, la mente mia debba quietarsi e restar appagata d’un fioretto poetico, al quale non suc- cede poi frutto veruno, questo è quello che il Sig. Mario rifiuta, e con ragione e con verità dice che la natura non si diletta di poesie: proposizion verissima, ben che il Sarsi mostri di non la credere, e finga di non conoscer o la na- tura o la poesia, e di non sapere che alla poesia sono in maniera necessarie le favole e finzioni, che senza quelle non può essere; le quali bugie son poi tanto abborrite dalla natura, che non meno impossibil cosa è il ritrovar- vene pur una, che il trovar tenebre nella luce. Ma tempo è ormai che vegniamo a cose di momento maggiore; però legga V. S. Illustrissima quel che segue. 8. Venio nunc ad graviora. Tribus potissimum ar- gumentis cometa locum indagandum censuit Magister meus: primum quidem, per parallaxis observationes; deinde, ex incessu eiusdem ac motu; denique, ex iis qua tubo optico in illo observarentur. Conatur Galileus sin- gulis abrogare fidem, eaque suis momentis privare. Cum enim ostendissemus, cometam, ex variis diversorum lo- corum observationibus ,parvcam admodum passum esse aspecltus diversitatem, ac propterea supra Lunam sta- 604 GALILEO GALILEI tuendum, ait ille, argumentum ex parallaxi desumptum nihil habere ponderis, nisi prius statuatur, sint ne illa qua observantur vera unoque loco consistentia, an vero in speciem apparentia ac vaga. Recte is quidem; sed non erat his opus. Quid enim, si statutum iam id haberetur? Certe, cum certamen nobis prasertim esset cum Peripa- teticis, quorum sententia quamplurimos etiam nunc secta- tores recenset, frustra ex apparentium numero cometas exclusissemus, cum nullius nostrum animum pulsaret hac dubitatio. Sane Galileus ipse, dum adversus Aristotelem disputat, non acriori ac validiori utitur argumento, quam ex parallaxi desumpto. Cur igitur, simili atque eadem prorsus in caussa, nobis eodem uti libere non liceret? Per conoscer quanto sia il momento delle cose qui scritte, basterà restringere in brevità quello che dice il Sig. Mario e questo che gli viene opposto. Scrisse il Sig. Mario in generale: « Quelli che per via della para- lasse voglion determinar circa ’1 luogo della cometa, anno bisogno di stabilir prima, lei esser cosa fissa e reale, e non un'apparenza vaga, atteso che la ragion della pa- ralasse conclude ben negli oggetti reali, ma non negli apparenti », com’egli essemplifica in molti particolari; aggiunge poi, la mancanza di paralasse rendere incom- patibili le due proposizioni d’Aristotile, che sono, che la cometa sia un incendio, ch'è cosa tanto reale, e sia in aria molto vicina alla Terra. Qui si leva su il Sarsi, e dice: « Tutto sta bene, ma è fuor del caso nostro, perché noi disputiamo contro Aristotile, e vana sarebbe stata la fatica in provar che la cometa non fusse una apparenza, poi che noi convegniamo con lui in tenerla cosa reale, e come di cosa reale il nostro argomento, preso dalla pa- ralasse, conclude; anzi (soggiunge egli) l'avversario stesso non si serve d'argomento più valido contro Aristotile; e se ei se ne serve, perché nell’istessa causa non ce ne pos- siamo liberamente servir noi ancora? ». Or qui io non so IL SAGGIATORE 605 quel che il Sarsi pretenda, né in qual cosa ei pensa d’im- pugnare il Sig. Mario, poi che ambedue dicono le mede- sime cose, cioè che la ragione della paralasse non vale nelle pure apparenze, ma val ben ne gli oggetti reali, ed in conseguenza val contro Aristotile, mentr'ei vuole che la cometa sia cosa reale. Qui, se si debbe dire il vero con pace del Sarsi, non si può dir altro se non ch'egli, co ’1 palliare il detto del Sig. Mario, ha voluto abbarbagliar la vista al lettore, sf che gli resti concetto che il Sig. Mario abbia parlato a sproposito; perché a voler che l’obbiez- zioni del Sarsi avessero vigore, bisognerebbe che, dove il Sig. Mario, parlando in generale a tutto il mondo, dice: «A chi vuol che l'argomento della paralasse militi nella cometa, convien che provi prima, quella esser cosa reale ». bisognerebbe, dico, che avesse detto: «Se il P. Grassi vuole che l'argomento della paralasse militi contro Ari- stotile, che tiene la cometa esser cosa reale, e non appa- rente, bisogna che prima provi che la cometa sia cosa reale, e non apparente»; e così il detto del Sig. Mario sarebbe veramente, quale il Sarsi lo vorrebbe far appa- rire, un grandissimo sproposito. Ma il Sig. Mario non ha mai né scritte né pensate queste sciocchezze. 9. Sed confutanda etiam fuerint Anaxagora, Pytha- goraeorum atque Hippocratis opiniones. Nemo tamen ex lis, cometam vanum omni ex parte oculorum ludibrium affirmarat. Anaxagoras enim stellarum verissimarum con- geriem esse dixit; cum Aeschylo Hippocrates nihil a Pythagorzis dissentit: Aristoteles profecto, cum eorundem Pythagoraorum sententiam exposuisset, qua dicerent co- metam unum esse errantium siderum, tardissime ad nos accedens ac citissime fugiens, subdit: « Similiter autem his et qui sub Hippocrate Chio et discipulo eius Aeschylo enunciaverunt; sed comam non ex se ipso aiunt habere, sed errantem, propter locum, aliquando accipere, refracto nostro visu ab humore attracto ab ipso ad Solem >». Ga- 606 GALILEO GALILEI lileus vero, in ipso sua disputationis exordio, dum eorumdem placita recenset, asserit dixisse illos, cometam stellam quandam fuisse, qua, Terris aliquando propior facta, quosdam ab eadem ad se vapores extraheret, e quibus sibi, non caput, sed comam decenter aptaret. Minus igitur, ut hoc obiter dicam, ad rem facit, dum postea ex his iisdem locis probat, Pythagoraos etiam existimasse cometam ex refractione luminis extitisse; illi enim nihil in cometis vanum, prater barbam, existimarunt. Intel- ligit ergo, nulli horum visum unquam fuisse, cometam, sì de eiusdem capite loquamur, inane quiddam ac mere apparens dicendum. Quare, cum hac in re, ad hoc usque tempus, convenirent omnes, quid erat causa, cur facem hanc lucidissimam larvis illis ac fictis colorum ludibriis spoliaremus, ab eaque crimen illud averteremus, quod ei nullus hominum, quorum habenda foret ratio, obiecisset? Cardanus enim ac Telesius, ex quibus aliquid ad hanc rem desumpsisse videtur Galilaeus, sterilem atque infe- licem philosophiam nacti, nulla ab ea prole beati, libros posteris, non liberos, reliquerunt. Nobis igitur ac Tychoni satis sit, apud eos non perperam disputasse, apud quos nunquam vani ac fallacis spectri cometes incurrit suspi- cionem; hoc est, ipso Galilaeo teste, apud omnium, quot- quot adhuc fuerunt, philosophorum Academias. Quod si quis modo inventus est, qui haec phaenomena inter mere apparentia reponenda diserte docuerit, ostendam huic ego suo loco, ni fallor, quam longe cometa ab iride, areis et coronis, moribus ac motibus distent, quibusque argu- mentis conficiatur, cometem, si comam excluseris, non ad Solis imperium nutumque, quod apparentibus omnibus commune est, agi, sed liberum moveri protinus ac cir- cumferri quo sua illum natura impulerit traxeritque. Qui volendo anco in universale mostrar, la dubitazion promossa dal Sig. Mario esser vana e superflua, dice, niuno autore antico o moderno, degno d’esser avuto in IL SAGGIATORE 602 considerazione, aver mai stimato la cometa potere esser una semplice apparenza, e che per ciò al suo Maestro, il quale solo con questi disputava e di questi soli aspi- rava alla vittoria, niun mestier faceva di rimuoverla dal numero de’ puri simulacri. Al che io rispondendo, dico primieramente che il Sarsi ancora con simil ragione po- teva lasciare stare il Sig. Mario e me, poi che siam fuori del numero di quegli antichi e moderni contro i quali il suo Maestro disputava, ed abbiamo avuta intenzione di parlar solamente con quelli (sieno antichi o moderni) che cercano con ogni studio d’investigar qualche verità in natura, lasciando in tutto e per tutto ne’ lor panni quegli che solo per ostentazione in strepitose contese aspirano ad esser con pomposo applauso popolare giudicati non ritrovatori di cose vere, ma solamente superiori a gli altri; né doveva mettersi con tanta ansiet& per atterrar cosa che né a sé né al suo Maestro era di pregiudicio. Doveva secondariamente considerare, che molto più è scusabile uno a chi in alcuna professione non cade in mente qualche particolare attenente a quella, e massime quando né anco a mille altri, che abbiano professato il medesimo, è sovvenuto, che quegli a cui venga in mente, e presti l'assenso a cosa che sia vana ed inutile in quel- l'affare; ond’ei poteva e doveva pit tosto confessare che al suo Maestro, com’anco a nessun de’ suoi antecessori, non era passato per la mente il concetto che la cometa potesse essere una apparenza, che sforzarsi per dichiarar vana la considerazion sovvenuta a noi: perché quello, oltre che passava senza niuna offesa del suo Maestro, dava indizio d’una ingenua libertà, e questo, non potendo seguire senza offesa della mia reputazione (quando gli fusse sortito l'intento), dé piti tosto segno d'animo alte- rato da qualche passione. Il Sig. Mario, con isperanza di far cosa grata e profittevole agli studiosi del Vero, pro- pose con ogni modestia, che per l'avvenire fusse bene 608 GALILEO GALILEI considerare l'essenza della cometa, e s'ella potesse esser cosa non reale, ma solo apparente, e non biasimò il P. Grassi né altri, che per l’addietro non l’avesser fatto. Il Sarsi si leva su, e con mente alterata cerca di provare, la dubitazione essere stata fuor di proposito, ed esser di più manifestamente falsa; tuttavia per trovarsi, come si dice, in utrumque paratus, in ogni evento ch’ella appa- risse pur degna di qualche considerazione, per ispo- gliarmi di quella lode che arrecar mi potesse, la predica per cosa vecchia del Cardano e del Telesio, ma disprez- zata dal suo Maestro come fantasia di filosofi deboli e di niun seguito; ed in tanto dissimula, e non sente con quanta poca pietà egli spoglia e denuda coloro di tutta la reputazione, per ricoprire un piccolissimo neo di quella del suo Maestro. Se voi, Sarsi, vi fate scolare di quei ve- nerandi Padri nella natural filosofia, non vi fate già nella morale, perché non vi sarà creduto. Quello che abbiano scritto il Cardano e ’1 Telesio, io non l'ho veduto, ma per altri riscontri, che vedremo appresso, posso facilmente conghietturare che il Sarsi non abbia ben penetrato il senso loro. In tanto non posso mancare, per avvertimento suo e per difesa di quelli, di mostrar quanto improbabil- mente ei conclude la loro poca scienza della filosofia dal piccol numero de’ suoi seguaci. Forse crede il Sarsi, che de’ buoni filosofi se ne trovino le squadre intere dentro ogni ricinto di mura? Io, Sig. Sarsi, credo che volino come l’aquile, e non come gli storni. È ben vero che quelle, perché son rare, poco si veggono e meno si sen- tono, e questi, che volano a stormi, dovunque si posano, empiendo il ciel di strida e di rumori, metton sozzopra il mondo. Ma pur fussero i veri filosofi come l’aquile, ‘e non più tosto come la fenice. Sig Sarsi, infinita è la turba de gli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi IL SAGGIATORE 609 quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. Sf che, per dir quel ch’io voglio inferire, trattando della scienza che per via di dimostra- zione e di discorso umano si può da gli uomini conse- guire, io tengo per fermo che quanto pit essa participerà di perfezzione, tanto minor numero di conclusioni pro- metterà d’insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà, ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sara il numero de’ suoi seguaci: ma, per l’opposito, la magnificenza de’ titoli, la grandezza e numerosità delle promesse, attraendo la natural curiosità de gli uomini e tenendogli perpetuamente ravvolti in fallacie e chimere, senza mai far loro gustar l’acutezza d’una sola dimostra- zione, onde il gusto risvegliato abbia a conoscer l’insipi- dezza de’ suoi cibi consueti, ne terrà numero infinito oc- cupato; e gran ventura sara d’alcuno che, scorto da straordinario lume naturale, si saprà torre da i tenebrosi e confusi laberinti ne i quali si sarebbe coll’universale andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque dell’opinioni d’alcuno in materia di filosofia dal numero de i seguaci, lo tengo poco sicuro. Ma ben ch'io stimi, piccolissimo poter esser il numero de i seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali anno pochi seguaci; imperocché io in- tendo molto bene, potersi da alcuno tenere opinioni tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate. Ora, da qual de’ due fonti derivi la scarsità de’ seguaci de’ due autori nominati dal Sarsi per infecondi e derelitti, io non lo so, né ho fatto studio tale nell’opere loro, che mi potesse bastar per giudicarle. Ma tornando alla materia, dico che troppo tardi mi par che il Sarsi voglia persuaderci che il suo Maestro, non perché non gli cadesse in mente, ma perché disprezzò come cosa vanissima il concetto che la cometa potess’es- 39. - G. Galilei, Opere - II. 610 GALILEO GALILEI sere un puro simulacro, e che in questi non milita l’ar- gomento della paralasse, non ne fece menzione: tarda, dico, è cotale scusa, perché quand’egli scrisse nel suo Problema: Statuo, rem quamcunque inter firmamentum et Terram constitutam, si diversis e locis spectetur, di- persis etiam firmamenti partibus responsuram, chiara- mente si dimostrò, non gli esser venuto in mente l’iride e l'alone, i parelii ed altre reflessioni, che a tal legge non soggiacciono, le quali ei doveva nominare ed eccettuare, e massime ch'egli stesso, lasciando Aristotile, inclina all’opi- nione del Kepplero, che la cometa possa essere una re- flessione. Ma seguendo più avanti, mi par di vedere che il Sarsi faccia gran differenza dal capo della cometa alla sua barba o chioma, e che quanto alla chioma possa esser veramente ch’ella sia un'illusione della nostra vista e una apparenza, e che tale l'abbiano stimata ancora quei Pittagorici nominati da Aristotile; ma quanto al capo stima che sia necessariamente cosa reale, e che niuno l'abbia mai creduto altrimenti. Or qui vorrei io una bene specificata distinzione tra quello che il Sarsi intende per reale e quello ch'egli stima apparente, e qual cosa sia quella che fa esser reale quello ch'è reale, e apparente quello ch'è apparente: perché, s'egli chiama il capo reale per esser in una sostanza e materia reale, io dico che anco la chioma è tale; si che chi levasse via quei vapori ne quali si fa la reflession della vista nostra al Sole, sa- rebbe tolta parimente la chioma, come al tor via delle nuvole si toglie l’iride e l'alone: e s’ei domanda la chioma finta perché senza la reflession della vista al Sole ella non sarebbe, io dico che anco del capo seguirebbe l’istesso; si che tanto la chioma quanto il capo non son altro che reflession di raggi in una materia, qualun- qu'ella si sia; e che in quanto reflessioni sono pure ap- parenze, in quanto alla materia son cosa reale. E se il Sarsi ammette che alla mutazion di luogo del riguardante IL SAGGIATORE 611 faccia o possa far mutazion di luogo la generazion della chioma nella materia, io dico che del capo ancora può nel medesimo modo seguir l’istesso; e non credo che quei filosofi antichi stimassero altrimenti, perché, se, v. g., avessero creduto il capo esser realmente una stella per se stessa, lucida e consistente, e solo la chioma apparente, avrebber detto che quando per l’obliquità della sfera non si fa la refrazzion della nostra vista al Sole, non si vede più la chioma, ma sf ben la stella, ch'è capo della cometa; il che non dissero, ma dissero che in tutto non si vedeva cometa: segno evidente, la generazion d’am- bedue esser l’istessa. Ma detto o non detto che ciò sia da gli antichi, vien messo in considerazione adesso dal Sig. Mario con assai sensate ragioni di dubitare, le quali devono esser ponderate, come pure fa ancora l’istesso Sarsi; e noi a suo luogo anderemo considerando quanto egli ne scrive. 10. Intanto segua V. S. Illustrissima di leggere: Fadem prorsus ralione respondendum mihi est ad ea qua argu- mento ex motu desumpto obiiciuntur. Nos enim ex eo, quod loca cometa singulis diebus respondentia in plano, ad modum horologii, descripta in una recta linea reperi- rentur, motum illum in circulo maximo fuisse necessario inferebamus: obiicit autem Galilaeus, «non deduci id necessario; quia, si incessus cometa revera in linea recta fuisset, sic etiam loca ipsius, ad modum horologii de- scripta, lineam rectam constituissent; non tamen fuisset motus hic in circulo maximo ». Sed quamvis verissimum sit, motum etiam per lineam rectam reprasentari de- buisse rectum; cum tamen adversus eos lis esset, qui vel de comete motu circulari nihil ambigerent, vel quibus rectus hic motus nunquam venisset in mentem, hoc est contra Anaxagoram, Pythagoraos, Hippocratem et Ari- stotelem, atque illud tantum quareretur, an cometes, qui in orbem agi credebatur, maiores an potius minores lu- 612 GALILEO GALILEI straret orbes; non inepte, sed prorsus necessario, ex motu in linea recta apparente inferebatur circulus ex motu descriptus maximus fuisse: nemo enim adhuc motum hunc rectum et perpendicularem invexerat. Quamvis enim Keplerus ante Galileum, in appendicula de motu cometarum, per lineas rectas eundem motum explicare contendat, ille tamen nihilominus vidit, in quales sese difficultates indueret: quare neque ad Terram perpen- dicularem esse voluit motum hunc, sed transversum; neque 2equalem, sed in principio ac fine remissiorem, ce- lerrimum in medio; eumque praterea fulciendum Terra ipsius motu circulari existimavit, ut omnia cometarum phonomena explicaret; qua nobis catholicis nulla ra- tione permittuntur. Ego igitur opinionem illam, quam pie ac sancte tueri non liceret, pro nulla habendam du- xeram. Quod si postea, paucis mutatis, motum hunc rectum cometis tribuendum putavit Galilaeus, id quam non recte preestiterit inferius singillatim mihi ostenden- dum erit. Intelligat interim, nihil nos contra logica pra- cepta peccasse, dum ex motu in linea recta apparente orbis maximi partem eodem descriptam fuisse deduxi- mus. Quid enim opus fuerat motum illum rectum et perpendicularem excludere, quem in cometis nusquam reperiri constabat? Aveva il Sig. Guiducci, con quell’onestissimo fine d’agevolar la strada agli studiosi del vero, messo in con- siderazione l'equivoco che prendevano quegli che, dal- l’apparir la cometa mossa per linea retta, argumentavano il movimento suo esser per cerchio massimo, avvertendogli che, se bene era vero che il moto per cerchio massimo sempre appariva retto, non era però necessariamente vero il converso, cioè che il moto che apparisse retto fusse per cerchio massimo, come venivano ad aver supposto quegli che dall’apparente moto retto inferivano, la cometa muo- versi per cerchio massimo: tra i quali era stato il P. IL SAGGIATORE 613 Grassi, il quale, forse quietandosi nell’autorità di Ticone, che prima aveva equivocato, trapassò quello che forse non avrebbe passato quando non avesse avuto tal precursore; il che rende assai scusabile appresso di me il piccolo er- rore del Padre, il quale credo anco che dell’avvertimento del Sig. Mario abbia fatto capitale e tenutogliene buon grado. Vien ora il Sarsi, e continuando nel suo già im- presso affetto, s'ingegna di far apparir l’avvertimento innavvertenza e poca considerazione, credendo in cotal guisa salvar il suo Maestro: ma a me pare che ne segua contrario effetto (quando però il Padre prestasse il suo assenso alle scuse e difese del Sarsi), e che per ischivare nn error solo, incorrerebbe in molti. E prima, seguitando il Sarsi di reputar vano e su- perfluo l’avvertir quelle cose che né esso né altri ha av- vertite, dice che, disputando il suo Maestro con Aristotile e con Pittagorici, che mai non avevano introdotto per le comete movimento retto, fuor del caso sarebbe stato ch’avesse tentato di rimuoverlo. Ma se noi ben conside- reremo, questa scusa non solleva punto il Padre: perché non avendo mai li medesimi avversari introdotto per le comete il moto per cerchi minori, altrettanto resta su- perfluo il dimostrar ch’elle si muovano per cerchi mas- simi. Bisogna dunque al Sarsi, o trovar che quegli antichi abbiano scritto, le comete muoversi per cerchi minori, 0 confessare che il suo Maestro sia del pari stato superfluo nel considerare il moto per cerchio massimo, ‘come sa- rebbe stato nel considerare il retto. Anzi (e sia per la seconda instanza), stando pur nella regola del Sarsi, assai maggior mancamento è stato il lasciar senza considerazione il moto retto, poi che pur v'era il Kepplero che attribuito l’aveva alle comete, ed il medesimo Sarsi lo nomina. Né mi pare che la scusa ch'egli adduce sia del tutto sofficiente, cioè che per tirarsi tale opinion del Kepplero in conseguenza la mo- 614 GALILEO GALILEI bilità della Terra, proposizione la quale piamente e san- tamente non si può tenere, egli per ciò la reputava per niente; perché questo doveva pit tosto essergli stimolo a distruggerla e manifestarla per impossibile: e forse non è mal fatto il dimostrar anco con ragioni naturali, quando ciò si possa, la falsità di quelle proposizioni che son di- chiarate repugnanti alle Scritture Sacre. Terzo, resta ancor manchevole la scusa del Sarsi, perché non solamente il moto veramente retto apparisce per linea retta, ma qualunque altro, tuttavolta che sia fatto nel medesimo piano nel quale è l’occhio del riguar- dante; il che fu pure accennato dal Sig. Mario: si che bisognerà al Sarsi trovar modo di persuaderci che né anco alcuno altro movimento, fuor del circolare, sia mai caduto in mente ad alcuno potersi assegnare alle comete; il che non so quanto acconciamente gli potesse succedere; perché, quando niuno altro l’avesse detto, l’ha pure egli stesso scritto pochi versi di sotto, quando, per difesa della digression dal Sole di pit di 90 gradi, ei da luogo al moto non circolare, ed ammette quello per linea ovata, anzi pur, bisognando, per qualsivoglia linea irregolare ancora. È dunque necessario, o che l’istesso movimento sia or circolare or ovale or del tutto irregolare, secondo il bisogno del Sarsi, o ch’ei confessi la difesa pel suo Maestro esser difettosa. Quarto, ma che sarà quando io ammetta, il moto della cometa esser, non solo per commune opinione, ma vera- mente e necessariamente, circolare? Stimerà forse il Sarsi, esser perciò dal suo Maestro o da altri, dall’apparir quello per retta linea, concludentemente dimostrato esser per cerchio massimo? So che il Sarsi ha sin ora creduto di si, e si è ingannato, ed io lo trarrei d’errore, quando credessi di non gli dispiacere; e per ciò fare l’interrogherei, quali nella sfera ei domanda cerchi massimi. So che mi rispon- derebbe, quelli che passando per lo centro di quella (ch'è IL SAGGIATORE 615 anco il centro della Terra), la dividono in due parti uguali. Io gli soggiungerei: Adunque i cerchi descritti da Venere, da Mercurio e da’ pianeti Medicei non sono al- trimenti cerchi massimi, anzi piccolissimi, avendo questi per lor centro Giove, e quelli il Sole; tuttavia se s'osser- vera quali si mostrino i movimenti loro, gli troveremo apparir per linee rette; il che avviene per esser l’occhio nostro nel medesimo piano nel quale son anco i cerchi descritti dalle nominate stelle. Concludiamo per tanto che dall’apparirci un moto retto altro non si può conclu- dere salvo che l’esser fatto, non per la circonferenza d’un cerchio massimo pit che per quella d’un minore, ma so- lamente esser fatto nel piano che passa per l’occhio, cioè nel piano d’un cerchio massimo: e che in se stesso quel moto può esser fatto per linea circolare, ed anco per qual si voglia altra quanto si voglia irregolare, ché sempre apparirà retto; e che però, non essendo le due proposi- zioni già da noi essaminate convertibili, il prender l’una per l’altra è un equivocare, ch'è poi peccare in logica. Se io credessi che il Sarsi non fusse per volermene male, vorrei che noi gli conferissimo un’altra simil fal- lacia, la quale veggo ch'è da grandissimi uomini trapas- sata, e forse l’istesso Sarsi non vi ha fatto reflessione; ma non vorrei fargli dispiacere col mostrargli di non l’aver lo ancora, con tanti altri più perspicaci di me, trascorsa. Ma sia come si voglia, la voglio conferire a V. S. Illu- strissima. È stato con arguta osservazion notato, che l'estremità della coda, il capo delle comete ed il centro del disco del Sole si scorgono sempre secondo la mede- sima linea retta; dal che si è preso gagliarda conghiet- tura, detta coda essere una distesa refrazzione del lume solare, diametralmente opposta al Sole: ned è, per quanto io sappia, sin qui caduto in considerazione ad alcuno, come il mostrarcisi il Sole e tutto il tratto della cometa in linea retta non concluda che necessariamente la linea 616 GALILEO GALILEI retta tirata per l’estremità della coda e pel capo della cometa vada, prolungata, a terminar nel Sole. Per ap- parir tre o più termini in linea retta, basta che sieno collocati nel medesimo piano che l’occhio: e cosi per es- sempio, Marte o la Luna talora si vederanno in mezo direttamente tra due stelle fisse, ma non perciò la linea retta che congiungesse le due stelle passerebbe per Marte o per la Luna, Dall’apparir, dunque, la coda della co- meta direttamente opposta al Sole, altro non si può ne- cessariamente concludere, che l’esser nel medesimo piano coll’occhio. Or sia, nel quinto luogo, notata certa, dirò così, in- costanza nelle parole verso il fine delle lette da V. S. Illustrissima e da me essaminate; dove il Sarsi si prende assunto di voler pit a basso mostrare quanto malamente io, cioè il Sig. Mario, abbia attribuito alla cometa il moto retto, e poi, tre versi più a basso, dice non esser bisogno alcuno d’escluder questo moto retto, il qual era certo e manifesto già mai non ritrovarsi nelle comete. Ma se l'impossibilità di questo moto è certa e manifesta, a che proposito mettersi a volerla escludere? ed in qual modo è ella certa e manifesta, se, per detto del Sarsi, nessuno l’ha pur mai non solamente confutata, ma né anco con- siderata? Al Kepplero solo, dic’egli, è tal moto venuto in considerazione. Ma il Kepplero non lo confuta, anzi l’in- troduce per possibile e vero. Parmi che ’1 Sarsi, senten- dosi di non poter far altro, cerchi d’avviluppare il lettore: ma io cercherò di disfare i viluppi. 11. Sed dum illud preeterea hoc loco nobis obiicit: « Si cometes circa Solem ageretur, cum integro quadrante ab eodem Sole recesserit, futurum aliquando ut ad Terram usque descenderet >», non venit illi in mentem fortasse, non uno modo circa Solem cometam agi potuisse. Quid enim, si circulus, quo vehebatur, eccentricus Soli fuisset, et maiori sui parte aut supra Solem existente, aut ad IL SAGGIATORE 617 septentrionem vergente? Quid, si motus circularis non fuisset, sed ellipticus, et quidem summa imaque parte compressus, longe vero ex porrectus in latera? Quid, si ne ellipticus quidem, sed omnino irregularis, cum preesertim, ex ipsius Galilei systemate, nullo plane impedimento cometis, quocunque liberet, moveri licuerit? Ut sane propterea timendum non esset, ne cometarum lucem Tellus aut Tartarus e propinquo visurus um- quam foret. Qui, primieramente, se io ammetto l’accusa che mi da il Sarsi di poco considerato, mentre non mi siano ve- nuti in mente i diversi moti ch’attribuir si possono alla cometa, non so com'egli potrà scolpare dalla medesima nota il suo Maestro, il quale non considerò il potersi ella muover di moto retto; e s’egli scusa il suo Maestro col dire che tal considerazione sarebbe stata superflua, non sendo stato da niun altro autore introdotto tal movimento, non veggo di meritar d'essere accusato io, ma si ben nel- l’istesso modo debbo essere scusato, non si trovando autor nessuno ch’abbia introdotti questi moti stranieri ch’ora nomina il Sarsi. In oltre, Sig. Sarsi, toccava al vostro Maestro, e non a me, a pensare a questi movimenti per li quali si potesse render convenevol ragione delle di- gressioni cosi grandi della cometa; e se alcuno ve n'è accommodato a tal bisogno, doveva nominarlo e quel solo accettare, e non lasciarlo sotto silenzio e introdurre con Ticone il semplice circolare intorno al Sole, inettis- simo a salvar cotale apparenza, e voler poi che non esso ma noi avessimo commesso fallo, in non indovinare ch’ei potesse internamente aver dato ricetto a pensieri diver- sissimi da quello ch’aveva scritto. Di più, il Sig. Mario «non ha mai detto che non sia in natura modo alcuno di salvar la digressione d’una quarta (anzi se tal digressione è stata, ben chiara cosa è che ci è anco il modo com’ella è stata); ma ha detto: Nell'ipotesi ricevuta dal Padre 40. - G. Galilei, Opere - II. 618 GALILEO GALILEI non si può far tal digressione senza che la cometa tocchi la Terra, e anco la penetri. Vana, dunque, è sin qui la scusa del Sarsi. Ma fors’ei pretende ch'ogni leggiera scusa si debba ammettere per lo suo Maestro, ma che per me ogni più gagliarda resti invalida; e se questo è, io volen- tieri mi quieto, e liberamente gliel concedo. ; E vengo, nel secondo luogo, a produrre altra scusa per me (vestito della persona del Sig. Mario); e con in- genuità confessando, non m’esser venuti in mente i mo- vimenti per eccentrici o per linee ovali o per altre irregolari, dico ciò essere accaduto perch’'io non soglio dar orecchio a’ concetti che non Anno che fare in quel proposito di che si tratta. E che vuol fare il Sarsi del moto intorno al Sole in una figura ovale, per far digredir la cometa una quarta? cred'egli forse che, coll’allungar per un verso e stringer per l’altro tal figura, gli possa succedere l'intento? certo no, quando anco ei l’allungasse in infinito. E la medesima impossibilità cade nell’eccen- trico che sia per la minor parte sotto il Sole. E per in- telligenza del Sarsi, V. S. Illustrissima potrà una volta, incontrandolo, proporgli due tali linee rette AB, CD, delle quali la CD sia perpendicolare Cc all’A B, e dirgli che supponendo la retta DC esser quella che va dall’oc- chio al Sole, quella per la quale si ha da vedere la cometa digredita 90 gradi, bisogna che di necessità sia A D Bla DA o vero DB, essendo commune- mente conceduto, il moto apparente della cometa esser nel piano d'un cerchio massimo: lo preghi poi, che per nostro ammaestramento egli de- scriva l’eccentrico o l'ovato nominati da lui, per li quali movendosi la cometa possa abbassarsi tanto ch’ella venga veduta per la linea A D B, perché io confesso di non lo saper fare. E sin qui vengono esclusi due de’ pro- IL SAGGIATORE 619 posti modi: ci resta l’altro eccentrico col centro declinante a destra o a sinistra della linea D C, e la linea irregolare. Quanto all’eccentrico, è vero che non è del tutto im pos- sibile a disegnarsi in carta in maniera che causi la cer- cata digressione; ma dico bene al Salsi che s'ei si metterà a delinear il Sole cogli orbi di Mercurio e di Venere at- torno, e di più la Terra circondata dall’orbe della Luna, come di necessità convien fare l’uno e l’altro, e poi si porrà a volervi ingarbare un tale eccentrico per la co- meta, credo certo che se gli rappresenteranno tali essor- bitanze e mostruosità, che quando bene con tale scusa ei potesse sollevare il suo Maestro, si spaventerebbe a farlo. Quanto poi alle linee irregolari, non è dubbio nessuno che non solamente questa, ma qualsivoglia altra appa- renza si può salvare: ma voglio avvertire il Sarsi che l’introdur tal linea non pur non gioverebbe alla causa del suo Maestro, ma più gravemente gli pregiudicherebbe, e questo non solamente perch’ei non l’ha nominata mai, anzi accettò la linea circolare regolarissima, per cosi dire, sopra ogn'altra, ma perché maggior leggerezza sarebbe stata il proporla; il che potrebbe intendere il Sarsi me- desimo, tuttavolta ch’ei considerasse che cosa importi linea irregolare. Chiamansi linee regolari quelle che, avendo la loro descrizzione una, ferma e determinata, si possono definire, e di loro dimostrare gli accidenti e pro- prietà: e cosi la spirale è regolare, e si definisce nascer da due moti uniformi, l'un retto e l’altro circolare: cosi l’ellittica, nascendo dalla sezzion del cono e del ci- lindro, etc. Ma le linee irregolari son quelle che, non avendo determinazion veruna, sono infinite e casuali, e perciò indefinibili, né di esse si può, in conseguenza, di- mostrar proprietà alcuna, né in somma saperne nulla. Si che il voler dire « Il tale accidente accade mercé di una linea irregolare » è il medesimo che dire « Io non so perché ei s'accaggia »; e l’introduzzione di tal linea non 620 GALILEO GALILEI è punto migliore delle simpatie, antipatie, proprietà oc- culte, influenze ed altri termini usati da alcuni filosofi per maschera della vera risposta, che sarebbe «Io non lo so >», risposta tanto più tollerabile dell’altre, quant'una candida sincerità è pit bella d'un’ingannevol doppiezza. Fu dunque molto pit avveduto il P. Grassi a non propor cotali linee irregolari come bastanti a soddisfare al que- sito, che il suo scolare a nominarle. È ben vero, s'io devo liberamente dire il mio parere, che io credo che il Sarsi medesimo abbia benissimo ed internamente compresa l’inefficacia delle sue risposte, e che poco fondamento ci abbia fatto sopra; il che con- shietturo io dall’essersene con gran brevità spedito, ancor che il punto fusse principalissimo nella materia che si tratta, e le difficoltà promosse dal Sig. Mario gravis- sime: ed egli di se medesimo mi è buon testimonio mentre, alla fac. 16, parlando di certo argomento usato dal suo Maestro, scrive: Caterum, quanti hoc argumentum apud nos esset, satis arbitror ex eo poterat intelligi, quod paucis adeo ac plane ieiune propositum fuerit, cum prius reliqua duo longe accuratius ac fusius fuissent explicata. E con qual brevità e quanto sobriamente egli abbia tocco questo, veggasi, oltre all’altre cose, dal non aver pur fatte le figure degli eccentrici e dell’ellissi in- trodotte per salvare il tutto; dove che più a basso incon- treremo un mar di disegni inseriti in un lungo discorso, per riprovar poi una esperienza che in ultimo non reca pure un minimo ristoro alla principale intenzione che si ha in quel luogo. Ma, senz'andar più lontano, entri pur V. S. Illustrissima in un oceano di distinzioni, sillogismi ed altri termini logicali, e troverà esser fatta dal Sarsi stima grandissima di cosa che, liberamente parlando, io stimo assai meno della lana caprina. 12. Sed quando Magistro meo logica imperitiam Ga- lileus obiecit, patiatur experiri nos, quam exacte eiusdem IL SAGGIATORE 621 ipse facultatis leges servaverit: neque hoc multis; uno enim aut altero exemplo contenti erimus. Dixeramus, stellas tubo inspectas minimum, ad sen- sum, incrementum suscepisse. « Sed cum stella, inquiit ille, quamplurima, qua perspicacissimos quosque oculos fugiunt, per tubum conspiciantur, non insensibile, sed infinitum potius, incrementum ab illo accepisse dicende erunt; nihil enim atque aliquid infinito plane distant intervallo ». Ex eo igitur, quod aliquid videatur cum prius non videretur, infert Galileus obiecti incrementum infinitum, incrementum, inquam, apparens saltem, quan- fitalis. At ego, neque infinitum, neque incrementum qui- dem ullum, inferri posse existimo. Et primo quidem, quamquam verum sit, inter hoc quod est videri, et hoc quod est non videri, distantiam esse infinitam, una sal- tem ex parte, atque hac duo proportionem illam habere quam nihil atque aliquid, hoc est proportionem prorsus nullam; cum tamen id quod non erat, esse incipit, cre- scere aut augeri non dicitur, quod augmentum omne aliquid semper ante supponat, neque mundum, cum primum a Deo creatus est, infinite auctum dicimus, cum nihil antea prefuisset: est enim augeri, fieri aliquid maius, cum prius esset minus. Quare ex eo, quod aliquid prius non videretur, videatur autem postea, inferri non potest, ne in ratione quidem visibilis, augmentum infi- nitum. Sed hoc interim nihil moror; vocetur augmentum transitus de non esse ad esse: ulterius pergo. Ipse tamen, cum ex eo quod stella, antea non visa, per tubum in- specta fuerint, intulit a tubo illas infinitum incrementum accepisse, meminisse debuerat, affirmasse se alibi tubum eundem in eadem proportione augere omnia. Si ergo stellas, quas nudis oculis videmus, auget in certa ac de- terminata proportione, puta in centupla, illas etiam mi- nimas, que oculos fugiunt, cum in aspectum profert, in 622 GALILEO GALILEI eadem proportione augebit: non igitur infinitum erit illa- rum incrementum, hoc enim nullam admittit proportionem. Secundo, ad hoc, ut inter visibile et non visibile inter- cedat augmentum infinitum in apparenti quantitate, id enim significat vox incrementi ab illo usurpata, necesse est ostendere inter quantitatem visam et non visam di- stantiam esse infinitam in ratione quanti; alioquin nun- quam inferetur hoc augmentum infinitum. Si quis enim ita argumentetur: « Cum quid transit de non visibili ad visibile, augetur infinite; sed stella transeunt de non visibili ad visibile; ergo augentur infinite >», distinguenda erit maior: augentur infinite in ratione visibilis, esto; augentur in ratione quanti, negatur. Sic enim etiam con- sequens eadem distinctione solvetur: augentur in ratione visibilis, non autem in ratione quanti. Ex quibus apparet, terminum incrementi non eodem modo sumi in maiori propositione atque in consequentia; in illa siquidem pro incremento visibilitatis accipitur, in hac vero pro aug- mento quantitatis: hoc autem quam logica legibus con- sentaneum sit, videat Galilaus. Tertio, aio ne ullum quidem augmentum inde inferri posse. Logicorum enim lex est, quotiescumque effectus aliguis a pluribus causis haberi potest, male ex effectu ipso unam tantum illarum inferri: v. g., cum calor haberi possit ab igne, a motu, a Sole, aliisque causis, male quis inferet, Hic calor est, ergo ab igne. Cum ergo hoc, quod est videri aliquid cum prius non videretur, a multis etiam causis pendere possit, non poterit ex illa visibili- tate una tantum illarum causarum deduci. Posse autem hunc effectum a pluribus causis haberi, apertissimum esse arbitror: manente enim, primum, obiecto ipso im- mutato, si vel potentia visiva augeatur in se ipsa, vel impedimentum aliquod auferatur, si adsit, vel instru- mento aliquo, qualia sunt specilla, cadem potentia fortior evadat, vel certe, immutata potentia, obiectum ipsum aut IL SAGGIATORE 625 illuminetur clarius aut propius accedat ad visum aut eius denique moles excrescat; unum ex his satis erit ad eumdem effectum producendum. Cum ergo infertur, ex eo quod stelle videantur, cum prius laterent, infinitum illas augmentum accepisse, ad losicorum normam id minus recte colligitur, quod alia causa omissa sint ex quibus idem effectus haberi poterat. Sane nihil est quod tubo hoc incrementum tribuat Galileus; si enim vel clausos tantum oculos semel aperiat, augeri omnia infi- nite ®que vere pronunciabit, cum prius non viderentur, modo videantur. Quod si dicat, sibi de iis tantum lo- quendum fuisse, quae a tubo haberi possent, cum solum hic de tubo ageretur, potuisse proinde se alias causas omittere; respondeo, ne id quidem ad rectam argumen- tationem satis esse: tubus enim ipse non uno tantum modo ea, qua sine illo non videntur, in conspectum pro- fert; primo quidem, obiecta sub maiori angulo ad oculum ferendo, ex quo fit ut maiora videantur; secundo, radios ac species in unum cogendo, ex quo fit ut efficacius agant: horum autem alterum satis est ad hoc, ut vi- deantur ea qua prius aspectum fugiebant. Non licuit ergo ex hoc effectu alteram tantum illarum causarum inferre. Quarto, ne id quidem logicorum legibus congruil, stellas, si per tubum non augentur, ab codem, singulari sane eiusdem prerogativa instrumenti, illuminari. Ex quibus videtur Galileus duobus his membris adaquate specillorum effecta partiri, quasi diceret: Specillum vel stellas auget, vel easdem illuminat; non auget, ergo illu- minat. Lex tamen alia logicorum est, in divisione membra omnia dividentia includi debere: sed in hac Galilai di- visione neque omnia specilli effecta includuntur, neque ea quae numerantur eius propria sunt; illuminatio enim, ut ipse quidem existimat, tubi effectus esse non potest; et specierum aut radiorum coactio, quae proprie a spe- cillis habetur, ab eodem omittitur: vitiosa igitur fuit 624 GALILEO GALILEI eiusdem divisio. Nec plura hic addo: pauca autem hac quae uno ferme loco forte inter legendum offendi, adno- tare volui, aliis interim omissis, ut intelligat, disputa- tionem suam ea culpa non vacare, quam ipse in aliis reprahendit. Sed quid (libet enim hoc loco rem Galileo adhuc inauditam non omittere), quid, inquam, si quam ipse prerogativam tubo suo tribuere non audet, illam ego eidem tribuendam esse ostendero? Tubus, inquit, vel obiecta auget, vel certe, occulta quadam atque inaudita vi, cadem scilicet illuminat. Ita est: tubus luminosa omnia magis illuminat. Hoc si ostendero, na ego ma- gnam me apud Galileum initurum gratiam spero; dum tubum, cuius amplificatione merito gloriatur, hac etiam inaudita prarogativa donavero. Age igitur, tubo eodem ideo augeri dicimus obiecta, quia haec ab eo ad oculum feruntur maiori angulo, quam cum sine tubo conspi- ciuntur; quaecumque autem sub maiori angulo conspi- ciuntur, ea maiora videntur, ex opticis: sed tubus idem luminosorum species et dispersos radios dum cogit et ad unum fere punctum colligit, conum visivum, seu pira- midem luminosam qua obiecta lucida spectantur, longe lucidiorem efficit, et proinde luminosa obiecta splendidiore piramide ad oculum vehit: ergo pari ratione dicetur tubus stellas illuminare, sicuti easdem augere dicitur. Quemadmodum enim angulus maior vel minor, sub quo res conspicitur, rem maiorem minoremve ostendit, ita pi- ramis magis minusve luminosa, per quam corpus lumi- nosum aspicitur, idem obiectum lucidum magis aut minus monstrabit. Fieri autem lucidiorem piramidem opticam ex radiorum coactione, satis manifeste et experientia et ratio ipsa ostendunt. Haec siquidem docet, lumen idem, quo minori comprachenditur spatio, eo magis illuminare locum in quo est; at radii in unum coacti lumen idem minori spatio claudunt; ergo et hoc idem magis illumi- IL SAGGIATORE 625 nant. Experientia vero idem probabitur, si lentem vi- tream Soli exponamus; videbimus enim in radiis ad unum punctum coactis, non solum ligna comburi et plumbum liquescere, sed oculos eo lumine, utpote cla- rissimo, pene excecari. Quare assero, tam vere dici stellas tubo illuminari, quam easdem eodem tubo augeri. Bene igitur est ac perbeate tubo huic nostro, quando stellas ipsas ac Solem, clarissima lumina, illustrare etiam clarius per me iam potest. Qui, come vede V. S. Illustrissima, in contracambio dell’equivoco nel quale il P. Grassi era, come il Sig. Gui- ducci avverte, incorso, seguendo l’orme di Ticone e d’altri, vuole il Sarsi mostrare, me aver altrettanto, o più, errato in logica; mentre che per mostrare, l’augumento del te- lescopio esser nelle stelle fisse quale negli altri oggetti, e non insensibile o nullo, come aveva scritto il Padre, si argumentò in cotal forma: Molte stelle del tutto invisibili a qualsivoglia vista libera si rendon visibilissime col te- lescopio; adunque tale augumento si doverebbe pit tosto chiamare infinito che nullo. Qui insorge il Sarsi, e con lunghissime contese fa forza di dichiararmi pessimo lo- gico, per aver chiamato tale ingrandimento infinito: alle quali tutte, perché ormai sento grandissima nausea da quelle altercazioni nelle quali io altresi nella mia fan- ciullezza, mentr’ero ancor sotto il pedante, con diletto m'ingolfavo, risponderò breve e semplicemente, parermi che il Sarsi apertamente si mostri quale egli tenta di mostrar me, cioè poco intendente di logica, mentr'ei piglia per assoluto quello ch'è detto in relazione. Mai non si è detto, l'accrescimento nelle stelle fisse esser in- finito; ma avendo scritto il Padre, quello esser nullo, ed il Sig. Mario avvertitolo, ciò non esser vero, poi che mol- tissime stelle di totalmente invisibli si rendono visibi- lissime, soggiunse, tale accrescimento doversi pit tosto chiamare infinito che nullo. È chi è cosî semplice che 626 GALILEO GALILEI non intenda che chiamandosi il guadagno di mille, sopra cento di capitale, grande, e non nullo, il medesimo sopra diece, grandissimo, e non nullo, e non intenda, dico, che l'acquisto di mille sopra il niente più tosto si deva chia- mare infinito che nullo? Ma quando il Sig. Mario ha parlato dell’accrescimento assoluto, sa pur il Sarsi, ed in molti luoghi l’ha scritto, ch'egli ha detto, esser come di tutti gli altri oggetti veduti coll’istesso strumento; sî che quando in questo luogo ei vuol tassar il Sig. Mario di poca memoria, dicendo ch’ei si doveva pur ricordare d'avere altra volta detto che il medesimo strumento ac- cresceva tutti gli oggetti nella medesima proporzione, l'accusa è vana. Anzi, quando anco senz’altra relazione il Sig. Mario l'avesse chiamato infinito, non avrei creduto che si fusse per trovar alcuno cosî cavilloso, che vi si fusse attaccato, essendo un modo di parlare tutto il giorno usitato il porre il termine d’infinito in luogo del gran- dissimo. Largo campo avrà il Sarsi di mostrarsr maggior logico di tutti gli scrittori del mondo, ne i quali io l’assi- curo ch'ei troverà la parola infinito presa delle diece volte le nove in vece di grande o grandissimo. Ma più, Sig. Sarsi, se il Savio si lever4 contro di voi e dirà: Stultorum infi- nitus est numerus, qual partito sarà il vostro? vorrete voi forse ingaggiarla seco, e sostener la sua proposizione esser falsa, provando, anco coll’autorità dell’istessa Scrit- tura, che il mondo non è eterno, e che, essendo stato creato in tempo, non possono essere né essere stati uomini infiniti, e che, non regnando la stoltizia se non tra gli uomini, non può accadere che quel detto sia mai vero, quando ben tutti gli uomini presenti e passati ed anco, dirò, i futuri fussero sciocchi, essendo impossibile che gl'individui umani, quando anco la durazion del mondo fusse per essere eterna, sieno già mai infiniti? Ma ritornando alla materia, che diremo dell’altra fallacia con tanta sottigliezza scoperta dal Sarsi, nel IL SAGGIATORE 627 chiamar noi accrescimento quello d’un oggetto che d’in- visibile si fa, col telescopio, visibile? il quale, dic’egli, non si può chiamare accrescimento, perché l’accresci- mento suppone prima qualche quantità, e l’accrescersi non è altro che di minore farsi maggiore. A questo vera- mente io non saprei che altro dirmi, per iscusa del Sig. Mario, se non ch'egli se n’andò alla buona, come si : dice; e credendo che la facoltà del telescopio colla quale ei ci rappresenta quelli oggetti i quali senz’esso non iscorgevamo, fusse la medesima che quella colla quale anco i veduti avanti ci rappresenta maggiori assai, e sentendo che questa communemente si chiamava uno ac- crescimento della specie o dell'oggetto visibile, si lasciò traportare a chiamare quella ancora nell'istesso modo; la quale, come ora ci insegna il Sarsi, si doveva chiamar non accrescimento, ma transito dal non essere all’essere. Si che quando, v. g., l’occhiale ci fa da una gran lonta- nanza legger quella scrittura della quale senz’esso noi non veggiamo se non i caratteri maiuscoli, per parlar logicamente si deve dire che l’occhiale ingrandisce le maiuscole, ma quanto alle minuscole fa lor far transito dal non essere all'essere. Ma se non si può senza errore usar la parola accrescimento dove non si supponga prima alcuna cosa in atto, che debba riceverlo, forse che la pa- rola transito o trapasso non verrà troppo più veridica- mente usurpata dal Sarsi dove non sieno due termini, cioè quello donde si parte e l’altro dove si trapassa. Ma chi sa che il Sig. Mario non avesse ed abbia opinione che degli oggetti, ancor che lontanissimi, le specie pure ar- rivino a noi, ma sotto angoli cosî acuti che restino al senso nostro impercettibili e come nulle, ancor ch’elle ve- ramente sieno qualche cosa (perché, sio devo dire il mio parere, stimo che quando veramente elle fusser niente, non basterebbon tutti gli occhiali del mondo a farle di- ventar qualche cosa); sî che le specie altresi delle stelle 628 GALILEO GALILEI invisibili sieno, non meno che quelle delle visibili, diffuse per l'universo, e che in conseguenza si possa anco di quelle, con buona grazia del Sarsi e senza error di logica, predicar l'accrescimento? Ma perché vo io mettendo in dubbio cosa della quale io ho necessaria e sensata prova? Quel fulgore ascitizio delle stelle non è realmente intorno alle stelle, ma è nel nostro occhio; sî che dalla stella vien la sola sua specie, nuda e terminatissima. Sappiamo di sicuro ch'una nubilosa non è altro che uno aggregato di molte stelle minute, invisibili a noi; con tutto ciò non ci resta invisibile quel campo che da loro è occupato, ma si dimostra in aspetto d'una piazzetta biancheggiante, la qual deriva dal congiungimento de’ fulgori di che cia- scheduna stellina s'inghirlanda: ma perché questi irrag- giamenti non sono se non nell'occhio nostro, è necessario che ciascheduna specie di esse stelline sia realmente e distintamente nell'occhio. Di qui si cava un'altra dot- trina, cioè che le nubilose, ed anco tutta la Via Lattea, in cielo non son niente, ma sono una pura affezzione del- l’occhio nostro; si che per quelli che fussero di vista così acuta che potesser distinguer quelle minutissime stelle, le nubilose e la Via Lattea non sarebbono in cielo. Queste, come conclusioni non dette da altri sin ora, credo che non sarebbono ammesse dal Sarsi, e ch’egli pur vorrebbe che il Sig. Mario avesse peccato nel chiamare aceresci- mento quello che appresso di lui si deve dir transito dal non essere all’essere. Ma sia come si voglia; io ho licenza dal Sig. Mario (per non ingaggiar nuove liti) di conceder tutta la vittoria al Sarsi di questo duello, e di quello an- cora che segue appresso, dove il Sarsi si contenta che la scoperta delle fisse invisibili si possa chiamare accresci- mento infinito in ragion di visibile, ma non già in ragion. di quanto: tutto questo se gli conceda, pur che ei conceda a noi che e le invisibili e le visibili, crescano pure in ragion di quel che piace al Sarsi, crescono finalmente in modo IL SAGGIATORE 629 che rendon totalmente falso il detto del suo Maestro, che scrisse ch’elle non crescevano punto in veruna maniera; sopra il qual detto era fondato il terzo delle ragioni, colle quali egli aveva intrapreso a provar la primaria intenzione del suo trattato, cioè il luogo della cometa. Ma che risponderem noi ad un altro errore, pure in logica, che il Sarsi ci attribuisce? Sentiamolo, e poi pren- deremo quel partito che ci parrà più opportuno. Non contento il Sarsi d'aver mostrato come il pit volte già nominato scoprimento delle fisse invisibili non si deve chiamare accrescimento infinito, passa a provar che il dire ch’ei proceda dal telescopio è grave errore in logica, le cui leggi vogliono che quando un effetto può derivare da più cause, malamente da quello se n'inferisca una sola: e che il vedersi quello che prima non si vedeva sia un degli effetti che posson depender da più cause, oltre a quella del telescopio, chiaramente lo mostra il Sarsi no- minandole ad una ad una; le quali tutte era necessario rimuovere, e mostrar com'elle non erano a parte nell’atto del farci vedere col telescopio le stelle invisibili. Sî che il Sig. Mario, per fuggir l'imputazione del Sarsi, doveva mostrare che l’accostarsi il telescopio all’occhio non era, prima, uno accrescere in se stessa e per se stessa la virtù visiva (che pur è una causa per la quale, senz'altro aiuto, si può veder quel che prima non si poteva); secondo, do- veva mostrar che la medesima applicazione non era un tor via le nuvole, gli alberi, i tetti o altri impedimenti di mezo; terzo, ch’ei non era un servirsi d'un paio d’oc- chiali da naso ordinarii (e vo, come V. S. Ilustrissima vede, numerando le cause poste dal medesimo Sarsi, senz'alterar nulla); quarto, che questo non è un illuminar l'oggetto più chiaramente; quinto, che questo non è un far venir le stelle in Terra o salir noi in cielo, onde l’in- tervallo traposto si diminuisca; sesto, ch'ei non è un farle rigonfiare, onde, ingrandite, divengano più visibili; set- 630 GALILEO GALILEI timo, che questo non è finalmente un aprir gli occhi chiusi: azzioni tutte, ciascheduna delle quali (ed in par- ticolar l’ultima) è bastante a farci vedere quel che prima non vedevamo. Sig. Sarsi, io non so che dirvi, se non che voi discorrete benissimo; solo dispiacemi che queste im- putazioni cascano tutte addosso al vostro Maestro, senza toccar punto il Sig. Mario o me. Io vi domando se alcune di queste cause, da voi prodotte come potenti a farci veder quello che senza lor non si vederebbe, come, v. g., l’avvicinarlo, l’interpor vapori o cristalli ete., vi dimando, dico, se alcuna di queste cause può produr l’effetto del- l’ingrandir gli oggetti visibili, si come lo produce il tele- scopio ancora. Io credo pure che voi risponderete di si. Ed io vi soggiungerò che questo è un aperto accusare di cattivo logico il vostro Maestro, il quale, parlando in generale a tutto il mondo, riconobbe l'ingrandimento della Luna e di tutti gli altri oggetti dal solo telescopio, senza l’esclusion di niuna dell’altre cause, come per vostra opinione sarebbe stato in obligo di fare; il quale obligo non cade poi punto nel Sig. Mario, avvenga che, par- lando solo col vostro Maestro, e non più a tutto il mondo, e volendo mostrar falso quello ch'egli aveva pronunziato dell'effetto di tale strumento, lo considerò (né era in obligo di considerarlo altrimenti) nel modo che l'aveva considerato il suo avversario. Anzi la vostra nota di cat- tivo logico cade tanto più gravemente sopra il vostro Maestro, quanto ch'egli in altra occasione importantis- sima trasgredi la legge: dico nell’inferir dall'apparenza del moto retto la circolazione per cerchio massimo, po- tendo esser del medesimo effetto causa il movimento realmente retto e qualunque altro moto fatto nell’istesso piano dove fusse l'occhio, delle quali tre cagioni potevano con gran ragione dubitare anco gli uomini molto sensati; anzi l’istesso vostro Maestro, per vostro detto, non ricusò d’accettare il moto per linea ovale o anco irregolare. Ma IL SAGGIATORE 631 il dubitare se alcuna delle vostre sette cause poste di sopra potesse aver luogo nell’apparizion delle stelle in- visibili, mentre che col telescopio si rimirano, se io devo parlar liberamente, non credo che potesse cadere in mente se non a persone costituite nel sommo ed altissimo grado di semplicità. Nella quale schiera io non però intendo, Illustrissimo Signore, di porre il Sarsi; perché, se ben egli è quello che si è lasciato traportare a far questa passata, tuttavia si vede ch'ei non ha parlato, come si dice, ex corde: poi che in ultimo quasi quasi si accommoda a concedere che, non si trattando d'altro che del telescopio, si potessero lasciar da banda l’altre cause: ‘tuttavia, perché il con- ceder poi questo apertamente, si tirava in conseguenza la nullità della sua già fatta accusa e del concetto, per quella impresso forse in alcuno de’ lettori, d’esser io cat- tivo logico, per ovviare a tutto questo soggiunge che né anco tal cosa basta ad una retta argumentazione: e la ragion è, perché il telescopio non in un modo solo fa veder quel che non si vedeva, ma in due: il primo è col portar gli oggetti a gli occhi sotto angolo maggiore, per lo che maggiori appariscono; l’altro, con l’unire i raggi e le specie, onde più efficacemente operano: e perché l'uno di questi basta per far apparire quel che non si scorgeva, non si deve da questo effetto inferire una sola di quelle cause. Queste sono le sue precise parole, delle quali io non direi di saper penetrar l’intimo senso, av- venga che egli stia troppo su ‘1 generale, dove mi par che fusse stato di mestieri dichiararsi pit specificata- mente, potendo la sua proposizione esser intesa in pit modi; de i quali quello ch'è per avventura il primo a rappresentarsi alla mente, contiene in sé una manifesta contradizzione. Imperocché il portar gli oggetti sotto maggior angolo, onde maggiori appariscano, si rappre- senta effetto contrario al ristringer insieme i raggi e le 632 GALILEO GALILEI specie; perché, essendo i raggi quelli che conducono le specie, par che non ben si capisca come, nel condurle, si ristringano insieme ed in un tempo formino angolo mag- giore; imperò che, concorrendo insieme linee a formare un angolo, par che, nel ristringersi, l'angolo debba pit tosto inacutirsi che farsi maggiore. E se pure il Sarsi aveva in fantasia qualch’altro modo per lo quale potes- sero i raggi, coll’unirsi, formare angolo maggiore (il che io non niego poter per avventura ritrovarsi), doveva di- chiararlo e distinguerlo dall’altro, per non lasciare il lettore tra i dubbi e gli equivoci. Ma posto per ora che sieno tali due modi d’operare nell’uso del telescopio, io vorrei sapere se ei lavora sempre con ambedue insieme, o pur talvolta coll’uno e altra volta coll’altro separata- mente, si che quando ei si serve dell’ingrandimento del- l'angolo, lasci stare il ristringimento de’ raggi, e quando ristringe i raggi, ritenga l’angolo nella sua primiera quan- tità. S'egli opera sempre con ambedue questi mezi, gran semplicità è quella del Sarsi mentre accusa il Sig. Mario per non avere accettato e nominato l'uno ed escluso l’altro; ma s’egli opera con un solo, pure ha errato il Sarsi a non lo nominare, escludendo l’altro, e mostrar che quando noi guardiamo, v. g., la Luna, che ricresce assaissimo, ei lavora coll’ingrandimento dell’angolo, ma quando si guardano le stelle, non s’ingrandisce l'angolo, ma solamente s'uniscono i raggi. Io, per quanto posso con verità deporre, nelle infinite o, per meglio dire, mol- tissime volte che ho guardato con tale strumento, non ho mai conosciuta diversità alcuna nel suo operare, e però credo ch'egli operi sempre nell’istessa maniera, e credo che il Sarsi creda l’istesso; e come questo sia, bisogna che le due operazioni, dell’ingrandir l'angolo e ristringer i raggi, concorrano sempre insieme: la qual cosa rende poi in tutto e per tutto fuori del caso l'opposizione del Sarsi; perch'è ben vero che quando da un effetto il quale IL SAGGIATORE 633 può depender da più cause separatamente, altri ne in- ferisce una particolare, commette errore; ma quando le cause sieno tra di loro inseparabili, si che necessaria- mente concorrano sempre tutte, se ne può ad arbitrio inferir qual più ne piace, perché qualunque volta sia presente l’effetto, necessariamente vi è anco quella causa. E così, per darne un essempio, chi dicesse « Il tale ha acceso il fuoco, adunque si è servito dello specchio ustorio >, errerebbe, potendo derivar l’accendimento dal batter un ferro, dall’esca e fucile, dalla confricazion di due legni, e da altre cause; ma chi dicesse « Io ho sentito batter il fuoco al vicino >, e soggiungesse « Adunque egli ha della pietra focaia », senza ragione sarebbe ripreso da chi gli opponesse che, concorrendo a tale operazione, oltre alla pietra, il fucile, l’esca e ’1 solfanello ancora, non si poteva con buona logica inferir la pietra risoluta- mente. E cosi, se l'ingrandimento dell'angolo e l’union de’ raggi concorron sempre nell’operazioni del telescopio, delle quali una è il far veder l’invisibile, perché da questo effetto non si può inferire quale delle due cause pit ne piace? Io credo di penetrare in parte la mente del Sarsi, il quale, sio non m'inganno, vorrebbe che il lettore cre- desse quello ch’egli stesso assolutamente non crede, cioè ch’il veder le stelle, che prima erano invisibili, derivasse non dall’ingrandimento dell’angolo, ma dall'unione de’ raggi; si che, non perché la specie di quelle divenisse maggiore, ma perché i raggi fussero fortificati, si facesser visibili; ma non si è voluto apertamente scoprire, perché troppo gli sono addosso l’altre ragioni del Sig. Mario taciute da esso, ed in particolare quella del vedersi gl’intervalli tra stella e stella ampiati colla medesima proporzione che gli oggetti quaggiù bassi; i quali inter- valli non dovrian ricrescer punto se niente ricrescessono le stelle, essendo loro cosi distanti da noi come quelle. Ma per finirla, io son certo che quando il Sarsi volesse 634 GALILEO GALILEI venire a dichiararsi com’egli intenda queste due opera- zioni del telescopio, dico del ristringere i raggi e dell’in- grandir il loro angolo, e’ manifesterebbe che non solamente si fanno sempre ambedue insieme, si che già mai non accaggia unire i raggi senza ingrandir l'angolo, ma ch'elle sono una cosa medesima; e quando egli avesse altra opi- nione, bisogna ch’ei mostri che ’1 telescopio alcune volte unisca i raggi senza ingrandir l’angolo, e che ciò faccia egli a punto quando si guardano le stelle fisse; cosa ch'egli non mostrerà in eterno, perch’'è una vanissima chimera o, per dirla pit chiara, una falsità. Io non credeva, Signor mio Illustrissimo, dover con- sumar tante parole in queste leggerezze; ma già che si è fatto il più, facciasi ancora il meno. E quanto all'altra censura di trasgression dalle leggi logicali, mentre nella division degli effetti del telescopio il Sig. Mario ne pose uno che non vi è, e ne trapassò uno che vi si doveva porre, quando disse «< Il telescopio rende visibili le stelle o col- l’ingrandir la loro specie o coll’illuminarle >, in vece di dire « coll’ingrandirle o coll’unir le specie e i raggi», come vorrebbe il Sarsi che si dovesse dire; io rispondo che il Sig. Mario non ebbe mai intenzion di far divisione di quello ch'è una cosa sola, quale egli, ed io ancora, sti- miamo esser l'operazione del telescopio nel rappresen- tarci gli oggetti: e quando ei disse « Se il telescopio non ci rende visibili le stelle coll’ingrandirle, bisogna che con qualche inaudita maniera le illumini >, non introdusse l'illuminazione come effetto creduto, ma come manifesto impossibile lo contrappose all’altro, acciò la di lui verità restasse più certa; e questo è un modo di parlare usita- tissimo, come quando si dicesse « Se gli inimici non anno scalata la rocca, bisogna che vi sian piovuti dal cielo ». Se il Sarsi adesso crede di poter con lode impugnare questi modi di parlare, se gli apre un’altra porta, oltre a quella di sopra dell'infinito, da trionfare in duello di IL SAGGIATORE 635 logica sopra tutti gli scrittori del mondo; ma avvertisca, nel voler mostrarsi gran logico, di non apparer maggior sofista. Mi par di veder V. S. Illustrissima sogghignare; ma che vuol ella? Il Sarsi era entrato in umore di scri- vere in contradizzione alla scrittura del Sig. Mario: gli è stato forza attaccarsi, come noi sogliamo dire, alle funi del cielo. Io per me non solamente lo scuso, ma lo lodo, e parmi ch'egli abbia fatto l'impossibile. Ma tornando alla materia, gia è manifesto che il Sig. Mario non ha posto l’illuminare com’effetto creduto del telescopio. Ma che più? l’istesso Sarsi confessa ch’ei l’ha messo come impossibile. Non è adunque membro della divisione, anzi, come ho detto, non ci è né meno divisione. Circa poi all'unione delle specie e de’ raggi, ricordata dal Sarsi come membro trapassato dal Sig. Mario nella divisione, sarebbe bene che il Sarsi specificasse come questa è una seconda operazion diversa dall’altra, perché noi sin qui l'abbiamo intesa per una stessa cosa; e quando saremo assicurati ch’elle sieno due differenti e diverse opera- zioni, allora intenderemo d’avere errato; ma l’error non sara di logica nel mal dividere, ma di prospettiva nel non aver ben penetrati tutti gli effetti dello strumento. Quanto alla chiusa, dove il Sarsi dice di non voler per adesso stare a registrare altri errori che questi pochi incontrati cosi casualmente in un luogo solo, lasciando da banda gli altri, io, prima, ringrazio il Sarsi del pietoso affetto verso di noi; poi mi rallegro col Sig. Mario, il quale può star sicuro di non aver commesso in tutto il trattato un minimo mancamento in logica; perché, se bene par che il Sarsi accenni che ve ne sieno moltissimi altri, tuttavia crederò almeno che questi, notati e manifestati da lui, sieno stati eletti per li maggiori; il momento de i quali lascio ora che sia da lei giudicato, ed in conseguenza la qualità degli altri. 636 GALILEO GALILEI Vengo finalmente a considerar l’ultima parte, nella quale il Sarsi, per farmi un segnalato favore, vuol nobi- litare il telescopio con una ammirabil condizione e fa- coltà d’'illuminar gli oggetti che per esso rimiriamo, non meno ch’ei ce gl’ingrandisca. Ma prima ch'io passi più avanti, voglio rendergli grazie del suo cortese affetto, perché dubito che l’effetto sia per obligarmi assai poco dopo che avremo considerata la forza della dimostrazione portata per prova del suo intento: della quale, perché mi par che l’autore nello spiegarla si vada, non so perché, ravvolgendo e più volte replicando le medesime propo- sizioni, cercherò di trarne la sostanza, la qual mi par che sia questa. Il telescopio rappresenta gli oggetti maggiori, perché gli porta sotto maggiore angolo che quando son veduti senza lo strumento. Il medesimo, ristringendo quasi a un punto le specie de’ corpi luminosi ed i raggi sparsi, rende il cono visivo, o vogliamo dire la piramide luminosa, per la quale si veggono gli oggetti, di gran lunga più lucida; e però gli oggetti splendidi di pari ci si rappresentano ingranditi e di maggior luce illustrati. Che poi la pira- mide ottica si renda più lucida per lo ristringimento de i raggi, lo prova con ragione e con esperienza. Imperò che la ragione ci insegna che il lume raccolto in minore spazio lo debba illuminar più; e l’esperienza ci mostra che posta una lente cristallina al Sole, nel punto del concorso de’ raggi non solo s'abbrucia il legno, ma si li- quefà il piombo e si accieca la vista: perloché di nuovo conclude, che con altrettanta verità si può dire che il telescopio illumina le stelle, con quanta si dice ch’ei le accresce. In ricompensa della cortesia e del buono animo che "1 Sarsi ha avuto d’essaltare e maggiormente nobilitare questo ammirabile strumento, io non gli posso dar altro, per ora, che un totale assenso a tutte le proposizioni ed IL SAGGIATORE 637 esperienze sopradette. Ma mi duol bene oltre modo che l'essere esse vere gli è di maggior pregiudicio che se fusser false; poi che la principal conclusione che per esse doveva essere dimostrata è falsissima, né credo che ci sia verso di poter sostenere che gravemente non pecchi in logica quegli che da proposizioni vere deduce una conclusion falsa. È vero che il telescopio ingrandisce gli oggetti col portargli sotto maggior angolo; verissima è la prova che n'arrecano i prospettivi; non è men vero che i raggi della piramide luminosa maggiormente uniti la rendono pit lucida, ed in conseguenza gli oggetti per essa veduti; vera è la ragione che n’assegna il Sarsi, cioè perché il medesimo lume, ridotto in minore spazio, l’illu- mina più; e finalmente verissima è l’esperienza della lente, che coll’unione de’ raggi solari abbrucia ed ac- cieca: ma è poi falsissimo che gli oggetti luminosi ci si rappresentino col telescopio pit lucidi che senza, anzi è vero che li veggiamo assai pit oscuri; e se il Sarsi nel riguardar, v. g., la Luna col telescopio, avesse una volta aperto l’altr'occhio, e con esso libero riguardato pur l'istessa Luna, avrebbe potuto fare il paragone senza niuna fatica tra lo splendor della gran Luna vista con lo strumento, e quello della piccola, vista coll’occhio libero; il che osservato, avrebbe sicuramente scritto, la luce della veduta liberamente mostrarsi di gran lunga maggiore che quella dell’altra. Chiarissima è adunque la falsità della conclusione: resta ora che mostriamo la fallacia nel de- durla da premesse vere. E qui mi pare che al Sarsi sia accaduto quello che accaderebbe ad un mercante che, nel riveder sopra i suoi libri lo stato suo, leggesse solamente le facce dell’avere, e che cosî si persuadesse di star bene ed esser ricco; la qual conclusione sarebbe vera quando all’in- contro non vi fussero le facce del dare. È vero, Sig. Sarsi, che la lente, cioè il vetro convesso, unisce i raggi, e perciò moltiplica il lume e favorisce la vostra conclusione; ma 638 GALILEO GALILEI dove lasciate voi il vetro concavo, che nel telescopio è la contrafaccia della lente, e la più importante, perch'è quello appresso del quale si tiene l'occhio, e per lo quale passano gli ultimi raggi, ed è finalmente l’ultimo bilancio e saldo delle partite? Se la lente convessa unisce i raggi, non sapete voi che il vetro concavo gli dilata e forma il cono inverso? Se voi aveste provato a ricevere i raggi passati per ambedue i vetri del telescopio, come avete osservato quelli che si rifrangono in una lente sola, avreste veduto che dove questi s'uniscono in un punto, quelli si vanno più e più dilatando in infinito, o, per dir meglio, per ispazio grandissimo: la quale esperienza molto chiaramente si vede nel ricever sopra una carta l’immagine del Sole, come quando si disegnano le sue macchie; sopra la qual carta, secondo ch’ella più e più si discosta dall’estremità del telescopio, maggiore e maggior cerchio vi viene stampato dal cono de’ raggi, e quanto si fa tal cerchio maggiore, tanto è men luminoso in com- parazione del resto del foglio tocco da’ raggi liberi del Sole. E quando questa ed ogn’altra esperienza vi fusse stata occulta, mi resta pur tuttavia duro a credere che voi non abbiate alcuna volta sentito dir questo, ch'è ve- rissimo, cioè che i vetri concavi, quanto più mostrano l'oggetto grande, tanto pit lo mostrano oscuro. Come dunque mandate voi di pari nel telescopio l’illuminar coll’ingrandire? Sig. Sarsi, rimanetevi dal voler cercar d’essaltar questo strumento con queste vostre nuove fa- coltà si ammirande, se non volete porlo in ultimo di- spregio appresso quelli che sin qui l’anno avuto in poca stima. Ed avvertite che io in questo conto vi ho passata come cosa vera una partita ch'è falsa, cioè che la luce ingagliardita mediante l’union de’ raggi, renda l'oggetto veduto più luminoso. Sarebbe vero questo, quando tal luce andasse a trovar l'oggetto; ma ella vien verso l’occhio, il che produce poi contrario effetto: imperò che, oltre al- IL SAGGIATORE 639 l’offender la vista, rende il mezo più luminoso, ed il mezo più luminoso fa apparir (come credo che voi sap- piate) gli oggetti più oscuri; ché per questa sola cagione le stelle pit risplendenti si mostrano quanto pit Varia della notte divien tenebrosa, e nello schiarirsi l’aria si mostrano più fosche. Queste cose, come vede V. S. Illu- strissima, son tanto manifeste, che non mi lasciano cre- dere che al Sarsi possano essere state incognite, ma ch'egli più tosto per mostrar la vivezza del suo ingegno si sia messo a dimostrare un paradosso, che perch’egli cosf in- ternamente credesse. Ed in questa opinione mi conferma l'ultima sua conclusione, dove, per mostrar (cred’io) ch'egli ha parlato per ischerzo, serra con quelle parole: « Af- fermo dunque, con tanta verità dirsi che il telescopio illumina le stelle, con quanta si dice che il medesimo le ingrandisce ». V. S. Illustrissima sa poi che ed egli ed il suo Maestro fnno sempre detto, e dicono ancora, ch'ei non l’ingrandisce punto; la qual conclusione si sforza il Sarsi di sostenere ancora, come vedremo, nelle cose che seguono qui appresso. 15. Legga dunque V. S. Illustrissima: Ad tertium ar- gumentum propero, quod iisdem mihi verbis hoc loco referendum arbitror; ut nimirum omnes intelligant, quid illud tandem fuerit, quo se vehementer adeo offensum profitetur Galilaeus. Sic enim se habet: «Illud, tertio loco, hoc idem persuadet: quod cometa, tubo optico in- spectus, vix ullum passus est incrementum; longa tamen experientia compertum est utque opticis rationibus com- probatum, quacunque hoc instrumento conspiciuntur, maiora videri quam nudis oculis inspecta compareant, ea tamen lege, ut minus ac minus sentiant ex illo incre- mentum, quo magis ab oculo remota fuerint; ex quo fit ut stella fixae, a nobis omnium remotissima, nullam sen- sibilem ab illo recipiant magnitudinem. Cum ergo parum admodum augeri visus sit cometa, multo a nobis remotior 640 GALILEO GALILEI quam Luna dicendus erit, cum hac tubo inspecta longe maior appareat. Scio hoc argumentum parvi apud ali- quos fuisse momenti: sed hi fortasse parum optica prin- cipia perpendunt, ex quibus necesse est huic eidem maximam inesse vim ad hoc quod agimus persuaden- dum». Hic ego pramittere, primum, habeo, quorsum huiusmodi argumentum Disputationi nostra intextum fuerit: non enim velim maiori id apud alios in pretio haberi, quam apud nos; neque ii sumus qui emptoribus fucum faciamus, sed tanti merces nostras vendimus quanti valent. Cum igitur ad Magistrum meum ex multis Europa partibus illustrium astronomorum observationes perfer- rentur, nemo illorum tunc fuit, qui illud etiam postremo loco non adderet, cometam a se longiori specillo obser- patum vix ullum incrementum suscepisse, ex qua obser- vatione deducerent, illum saltem supra Lunam statuen- dum; cumque hoc etiam, ut catera, variis hominum inter frequentium coetus sermonibus agitaretur, non defuere qui palam ac libere assererent, nullam huic argumento fidem habendam, tubum hunc larvas oculis ingerere ac pariis animum deludere imaginibus, quare, sicuti ne ea quidem quae cominus aspicimus sincera ac sine ludifica- tionibus ostendit, ita illum multo minus ea qua longe a nobis remota sunt, non nisi larvata atque deformia mon- straturum. Ut ergo et amicorum observationibus aliquid dedisse videremur, ac simul eorum inscitiam, quibus in- strumentum hoc nullo erat in precio, publice redargue- remus, hoc argumentum tertio loco apponendum, ac postrema ea verba, quibus offensum se dicit Galilaus, addenda, existimavimus, de homine bene potius nos hinc meritos, quam male, sperantes, dum tubum hunc, quamvis non foetum, alumnum certe pisius, ab invidorum calum- niis tueremur. Caterum, quanti hoc argumentum apud nos esset, satis arbitror ex eo poterat intelligi, IHLHOUV NI OHLLIVIN NYS IT OINHANOO THA Y «OTIHIOIO » THA VNVIUONVA ID'SAGGIABORE 641 quod paucis adeo ac plane ieiune propositum fuerit, cum prius reliqua duo longe accuratius ac fusius fuisseni ex pli- cata. Neque Galileum hac ipsa latuerunt, si quod res est fateri velit. Cum enim rescissemus, eo illum argumento graviter commotum, quod existimaret se unum iis verbis peti, curavit Magister meus illi per amicos significari, nihil unquam minus se cogitasse, quam ut eum verbo vel scripto laederet; cumque iis, a quibus hac acceperat, Galil®eus pacatum iam atque eorum diclis acquiescentem animum ostendisselt, maluit tamen postea, quantum in se fuit, ami- cum quam diclum perdere. Intorno alle cose qui scritte mi si fa da considerar, nel primo luogo, qual possa esser la cagione per la quale il Sarsi abbia scritto ch'io grandemente mi sia lamentato del P. Grassi, avvenga che nel trattato del Sig. Mario non vi è pur ombra di mie querele, né io gia mai con alcuno, né anco con me stesso, mi son doluto, né meno ho conosciuto d'aver cagion di dolermi; e gran semplicità mi parrebbe di chi si dolesse che uomini di gran nome fusser contrari alle sue opinioni, quantunque volta egli avesse modi facili ed evidenti da poterle dimostrar vere, quali son sicuro d'aver io: tal che a me non si rappresenta altra cagione, se non che ‘l Sarsi sotto questa finzione ha voluto ascon- dere, non so già perché, suoi interni motivi che l'Anno spinto a volerla pigliar meco; del che ho ben sentito qualche fastidio, perché pit volentieri avrei impiegato questo tempo in qualch'altro studio più di mio gusto. Che il P. Grassi non avesse intenzione d’offender me nel tassar di poco intelligenti quelli che disprezzavano l’ar- gomento preso dal poco ingrandimento della cometa per lo telescopio, lo voglio creder al Sarsi; ma se io per me stesso m'ero gia dichiarato essere in quel numero, ben mi doveva esser tollerato ch'io producessi mie ragioni e difendessi la causa mia, e tanto più quanto ella era giusta e vera. Voglio ancora ammettere al Sarsi che ’1 41. - G. Galilei, Opere - II. 642 GALILEO GALILEI suo Maestro con buona intenzione si mettesse a sostenere quell’opinione, credendo di conservare ed accrescere la reputazione ed il pregio del telescopio contro alle ca- lunnie di quelli che lo predicavano per fraudolente e per ingannator della vista, e cosi cercavano di spogliarlo de’ suoi ammirabili pregi: ma in questo fatto, quanto l’in- tenzion del Padre mi par lodevole e buona, tanto l’elez- zione e la qualità delle difese mi si rappresenta cattiva e dannosa, mentr’ei vuole contro all’imposture de’ maligni fare scudo agli effetti veri del telescopio coll’attribuir- gliene de’ manifestamente falsi. Questo non mi par buon luogo topico per persuader la nobiltà di tale strumento. Per tanto piaccia al Sarsi di scusarmi se io non vengo, con quella larghezza che forse gli par che convenisse, a chiamarmi e confessarmi obligato per li nuovi pregi ed onori arrecati a questo strumento. E con qual ragione pretend’egli che in me si debba accrescer l’obligo e l’af- fezzione verso di loro per li vani e falsi attributi, men- tr'eglino, perché io col dir cose vere gli traggo d’errore, mi pronunzian la perdita della loro amicizia? Segue appresso, e, non so quanto opportunamente, sinduce a chiamare il telescopio mio allievo, ma a sco- prire insieme come non è altrimenti mio figliuolo. Che fate, Sig. Sarsi? Mentre voi sete su ’1 maneggio d’interes- sarmi in oblighi grandi per li beneficii fatti a questo ch'io reputavo mio figliuolo, mi venite dicendo che non è altro ch’un allievo? Che rettorica è la vostra? Avrei più tosto creduto che in tale occasione voi aveste avuto a cercar di farmelo creder figliuolo, quando ben voi foste stato sicuro che non fusse. Qual parte io abbia nel ritrova- mento di questo strumento, e s'io lo possa ragionevol- mente nominar mio parto, l’ho gran tempo fa manifestato nel mio Avviso Sidereo, scrivendo come in Vinezia, dove allora mi ritrovavo, giunsero nuove che al Sig. Conte Maurizio era stato presentato da un Olandese un oc- IL SAGGIATORE 645 chiale, col quale le cose lontane si vedevano cosi perfet- tamente come se fussero state molto vicine; né più fu aggiunto. Su questa relazione io tornai a Padova, dove allora stanziavo, e mi posi a pensar sopra tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno lo ritrovai, ed il giorno seguente fabbricai lo strumento, e ne diedi conto a Vinezia a i medesimi amici co’ quali il giorno prece- dente ero stato. a ragionamento sopra questa materia. M'applicai poi subito a fabbricarne un altro più per- fetto, il quale sei giorni dopo condussi a Vinezia, dove con gran meraviglia fu veduto quasi da tutti i principali gentiluomini di quella republica, ma con mia grandis- sima fatica, per più d'un mese continuo. Finalmente, per consiglio d’alcun mio affezzionato padrone, lo presentai al Principe in pieno Collegio, dal quale quanto ei fusse stimato e ricevuto con ammirazione, testificano le lettere ducali, che ancora sono appresso di me, contenenti la magnificenza di quel Serenissimo Principe in ricondurmi, ‘per ricompensa della presentata invenzione, e confer- marmi in vita nella mia lettura nello Studio di Padova, con dupplicato stipendio di quello che avevo per addietro, ch'era poi più che triplicato di quello di qualsivoglia altro mio antecessore. Questi atti, Sig. Sarsi, non son se- guiti in un bosco o in un diserto: son seguiti in Vinezia, dove se voi allora foste stato, non m’avreste spacciato cosi per semplice balio: ma vive ancora, per la Dio grazia, la maggior parte di quei Signori, benissimo con- sapevoli del tutto, da’ quali potrete esser meglio informato. Ma forse alcuno mi potrebbe dire, che di non piccolo aiuto è al ritrovamento e risoluzion d’alcun problema l'esser prima in qualche modo reso consapevole della ve- rità della conclusione, e sicuro di non cercar l’impossi- bile, e che perciò l'avviso e la certezza che l’occhiale era di già stato fatto mi fusse d'aiuto tale, che per av- ventura senza quello non l’avrei ritrovato. A questo io 644 GALILEO GALILEI rispondo distinguendo, e dico che l’aiuto recatomi dal- l’avviso svegliò la volontà ad applicarvi il pensiero, che senza quello può esser ch'io mai non v'avessi pensato; ma che, oltre a questo, tale avviso possa agevolar l’in- venzione, io non lo credo: e dico di più, che il ritrovar la risoluzion d'un problema segnato e nominato, è opera di maggiore ingegno assai che ‘1 ritrovarne uno non pen- sato né nominato, perché in questo può aver grandissima parte il caso, ma quello è tutto opera del discorso. E già noi siamo certi che l’Olandese, primo inventor del tele- scopio, era un semplice maestro d’occhiali ordinari, il quale casualmente, maneggiando vetri di più sorti, si abbatté a guardare nell’istesso tempo per due, l’uno con- vesso e l’altro concavo, posti in diverse lontananze dal- l'occhio, ed in questo modo vide ed osservò l’effetto che ne seguiva, e ritrovò lo strumento: ma io, mosso dall’av- viso detto, ritrovai il medesimo per via di discorso; e perché il discorso fu anco assai facile, io lo voglio ma- nifestare a V. S. Illustrissima, acciò, raccontandolo dove ne cadesse il proposito, ella possa render, colla sua fa- cilità, pia creduli quelli che, col Sarsi, volessero dimi- nuirmi quella lode, qualunqu’ella si sia, che mi si perviene. Fu dunque tale il mio discorso. Questo artificio o costa d’un vetro solo, o di più d’uno. D’un solo non può essere, perché la sua figura o è convessa, cioè piti grossa nel mezo che verso gli estremi, o è concava, cioè più sottile nel mezo, o è compresa tra superficie parallele: ma questa non altera punto gli oggetti visibili col cre- scergli o diminuirgli; la concava gli diminuisce, e la con- vessa gli accresce bene, ma gli mostra assai indistinti ed abbagliati; adunque un vetro solo non basta per produr l’effetto. Passando poi a due, e sapendo che ’1 vetro di superficie parallele non altera niente, come si è detto, conclusi che l’effetto non poteva né anco seguir dall’ac- coppiamento di questo con alcuno degli altri due. Onde IL SAGGIATORE 645 mì ristrinsi a volere esperimentare quello che facesse la composizion degli altri due, cioè del convesso e del con- cavo, e vidi come questa mi dava l’intento: e tale fu il progresso del mio ritrovamento, nel quale di niuno aiuto mi fu la concepita opinione della verità della conclusione. Ma se il Sarsi o altri stimano che la certezza della conclu- sione arrechi grand’aiuto al ritrovare il modo del ridurla all'effetto, leggano l’istorie, ché ritroveranno essere stata fatta da Archita una colomba che volava, da Archimede uno specchio che ardeva in grandissime distanze ed altre macchine ammirabili, da altri essere stati accesi lumi perpetui, e cento altre conclusioni stupende; intorno alle quali discorrendo, potranno, con poca fatica e loro gran- dissimo onore ed utile, ritrovarne la costruzzione, o al- meno, quando ciò lor non succeda, ne caveranno un altro beneficio, che sarà il chiarirsi meglio, che l’agevolezze che sì promettevano da quella precognizione della verità del- l'effetto, era assai meno di quel che credevano. Ma ritorno a quel che segue scrivendo il Sarsi, dove destreggiando, per non si ridurre a dire che l'argomento preso dal minimo ingrandimento degli oggetti remotissimi non val nulla, perch’è falso, dice che di quello non n’anno mai fatta molta stima; il che manifesta egli dall’averlo il suo Maestro scritto con assai brevità, dove che gli altri due argomenti si veggono distesi ed amplificati senza ri- sparmio di parole. Al che io rispondo che non dalla mol- titudine, ma dall’efficacia, delle parole si deve argumentar la stima che altri fa delle cose dette: e, come ogn’un sa, vi sono delle dimostrazioni che per lor natura non pos- sono esser senza lunghezza spiegate, ed altre nelle quali la lunghezza sarebbe del tutto superflua e tediosa; e qui, se si deve aver riguardo alle parole, l'argomento è por- tato con quante bastavano alla sua spiegatura chiara e perfetta. Ma, oltre a questo, lo scrivere lo stesso P. Grassi esser in tal argomento, come necessariamente si raccoglie 646 GALILEO GALILEI da’ principii ottici, forza grandissima per provar l'in- tento, ci da pur troppo chiaro indizio della stima ch'egli almeno ha voluto mostrar di farne: la qual voglio ben credere al Sarsi che internamente sia stata pochissima, ed a questo mi persuade non la brevità dello spiegarlo, ma altra assai pifi forte conghiettura; e questa è, che mentre il Padre fa sembiante di dimostrare il luogo della cometa dover essere lontanissimo, avvenga che nel rice- vere dal telescopio insensibile augumento ella imita pun- tualmente le lontanissime stelle fisse, quando poi accanto accanto ei passa a pi specifica limitazione d’esso luogo, ei la colloca sotto ad oggetti che ricevono dal medesimo telescopio grandissimo accrescimento; dico sotto il Sole, che pur ricresce in superficie quelle medesime centi- naia e migliaia di volte, che il medesimo Padre ed il Sarsi stesso sanno. Ma il Sarsi non ha penetrato l’artificio grande del suo Maestro, col quale nell’istesso tempo ha voluto cortesemente applaudere a gli amici suoi né ha voluto amareggiar loro il gusto che sentivano per l’in- venzion del nuovo argomento, ed a’ pit intendenti e meno appassionati ha in tanto voluto, come si dice, sotto mano mostrarsi accorto ed intelligente, imitando quel genero- sissimo atto di quel gran signore, che gettò il flussi a monte per non interrompere il giubilo nel quale vedeva galleggiare il giovinetto principe suo avversario, per la vittoria d'un gran resto promessagli dal cinquantacinque gia scoperto e gittato in tavola. Ma il Sig. Mario, con maniera un poco pit severa, ha voluto a carte spiegate dire il suo concetto e mostrar la falsità e nullità di quel- l'argomento, regolandosi da altro fine, ch'è stato di voler più tosto. medicare i difetti e tor via gli errori con qualche passione degl’'infermi, che fomentargli e fargli maggiori per non gli disgustare. A quello che il Sarsi scrive in ultimo, che il suo Maestro non avesse avuto pensiero di offender me nel. IL SAGGIATORE 647 tassar quelli che si burlavan dell’argomento, non occorre ch'io replichi altro, perché già ho detto che lo credo e che mai non ho creduto in contrario. Ma voglio che il Sarsi creda che né io ancora, nel dimostrar falso l’argo- mento, non ho avuta intenzion d’offender il suo Maestro, ma ben di giovare a chiunque era in quello errore; né so bene intendere con quale occasione m’abbia in questo luogo a toccare col motto del volere, per non perdere un bel detto, perdere un amico: né so vedere quale arguzia sia nel dir « Questo argumento non è vero >», sî che debba esser preso per detto arguto. 14. Or segua V. S. Illustrissima il leggere: Sed rem ipsam nunc enucleatius discutiamus. Aio, nihil in hoc argumento a veritate alienum reperiri. Nam asserimus, primum, obiecta tubo optico visa, quo propinquiora fue- rint, eo augeri magis, minus vero quo remotiora. Nihil verius. Galileus negat. Quid, si fateatur? Quaro enim ex illo, cum tubum illum suum et quidem optimum in manus acceperit, si forte rem intra cubiculi aut aula spatia inclusam intueri voluerit, an non is longissime producendus sit? Ita est, ait. Si vero rem longe dissitam e fenestra eodem instrumento spectare libuerit, con- trahendum illico dicet, atque ab immani illa longitudine breviorem redigendum in formam. Quod si productionis huius contractionisque caussam queesiero, ad naturam utique instrumenti recurrendum erit; cuius ea conditio est, ut ad propinquiora intuenda, ex optica principiis, produci, ad remotiora vero spectanda contrahi, postulet. Cum ergo ex productione et contractione tubi, ut ait ipse, necessario oriafur maius minusve obiectorum incre- mentum, licebit iam mihi ex his argumentum huius- modi conficere: Quacumque non aliter quam productiore tubo spectari postulant, necessario augentur magis, et quacumque non aliter quam contractiore tubo spectari postulant, necessario augentur minus; sed pro- 648 GALILEO GALILEI pinqua omnia non aliter quam productiore tubo, longe vero remota non aliter quam contractiore tubo, spectari postulant: ergo propinqua omnia necessario augentur magis, longe vero remota necessario augentur minus. In quo argumento si maior minorque propositio vera com- probetur, nec negabitur, arbitror, quod ex illis necessario consequitur. Primam vero propositionem ipse ultro ad- miltit: altera etiam certissima est; et quidem in iis quae citra dimidium milliare spectaniur, nulla apud illum probatione indiget; quod si ea qua ulterius deinde ex- currunt, eadem spectari solent tubi longitudine, id fit non quia revera magis semper ac magis contrahendus ille non sit, sed quia maior isthac contractio adeo exiguis includitur terminis, ut non multum intersit si omittatur, ac proinde ut plurimum negligatur. Si tamen rei naturam specltemus atque ex rigore geometrico loquendum sit, semper maior hac contractio requiretur: eadem plane ratione ac si quis diceret, visibile quodecumque quo magis ab oculo removetur, minori semper ac minori spectari angulo, qua proposilio verissima est; nihilominus, cum res oculo obiecta ad cerlam pervenerit distantiam, in qua angulum visivum efficiat valde exiguum, quamvis postea multo adhuc intervallo fiat remotior, non minuitur sen- sibiliter idem angulus; et tamen demonstrari potest, illum semper minorem ac minorem futurum. Ita, quamvis ultra maximam quandam distantiam obiectorum vix varientur anguli incidentia specierum ad tubi specilla (perinde enim tunc est, ac si omnes radii perpendiculariter inci- derent), et consequenter neque varianda sensibiliter sit instrumenti longitudo, verissima tamen adhuc censenda est ca proposilio que asserit, naturam specilli eam esse, ut, quo remotiora fuerint obiecta, eo magis ad ea spectanda contrahi postulet, et propterea minus eadem augeat quam propinqua: et si severe, ut aiebam, loquendum sit, af- firmo stellas breviori specillo spectandas quam Lunam. IL SAGGIATORE 649 Qui, com’ella vede, si apparecchia il Sarsi con mirabil franchezza a volere in virti d’acuti sillogismi mantenere, niuna cosa esser più vera della più volte profferita pro- posizione, cioè che gli oggetti veduti col telescopio tanto ricrescon più quanto son più vicini, e tanto meno quanto son più lontani; ed è tanta la sua confidenza, che quasi si promette ch'io sia per confessarla, ben che di presente io la neghi. Ma io fo un augurio e pronostico molto dif- ferente, e credo ch'egli si sia, nel tesser questa tela, per ritrovare in maniera inviluppato, più di quello ch'ei pensa ora che egli è su l’ordirla, che in ultimo da per se stesso sia per confessarsi convinto; convinto, dico, a chi con qualche attenzione considererà le cose nelle quali egli anderà a terminare, che facilmente saranno le me- desime ad unguem che le scritte dal Sig. Mario, ma or- pellate in maniera e cosi spezzatamente intarsiate tra varii ornamenti e rabeschi di parole, o vero riportate in iscorcio in qualche angolo, che forse alla prima scorsa possano, a chi meno fissamente le consideri, parer qual- ch'altra cosa da quello che realmente sono in pianta. In tanto, per non lo tor d’animo, gli soggiungo, che come questo ch’ei tenta sia vero, non solo l'argomento che in questa proposizione s'appoggia, del quale il suo Maestro e gli altri astronomi amici suoi si son serviti per ritrovare il luogo della cometa, è il pit ingegnoso e con- cludente d'ogn’altro, ma di più dico che questo effetto del telescopio avanza in eccellenza di gran lunga tutti gli altri, mediante le gran conseguenze ch’ei si tira dietro; e resto estremamente meravigliato, né so restar capace come possa esser, che, conoscendolo vero, abbia il Sarsi poco fa detto di sé e del suo Maestro d’averne fatto assai minore stima che degli altri due, presi l’uno dal moto circolare e l’altro dalla piccolezza della paralasse, li quali, sia detto con pace loro, non son degni d’esser servidori di questo. Signore, se questa cosa è vera, ecco spianata 42. - G. Galilei, Opere - II. 650 GALILEO GALILEI al Sarsi la strada ad invenzioni ammirande, tentate da moltissimi né mai trovate da alcuno; ecco non solo mi- surata in una sola stazione qualsivoglia lontananza in Terra, ma senza errore alcuno stabilite le distanze de’ corpi celesti. Perché, osservato che sia una volta sola che, v. g., un cerchio lontano un miglio ci si dimostri, veduto col telescopio, di diametro trenta volte maggiore che col- l'occhio libero, subito che vedremo l’altezza d’una torre ricrescer, per essempio, diece volte, saremo sicuri quella esser lontana tre miglia; e ricrescendo il diametro della Luna come dir tre volte pit di quel che ce lo mostra l'occhio libero, potremo dire, quella esser lontana dieci miglia, ed il Sole quindici, se il suo diametro ricrescerà due volte solamente; o pure, se con qualche telescopio eccellente noi vedessimo la Luna ricrescere in diametro, v. g., dieci volte, la qual è lontana più di cento mila miglia, come bene scrive il P. Grassi, la palla della cu- pola dalla distanza di un miglio ricrescerà in diametro più d’un milion di volte. Or io, per aiutare quanto posso un'impresa cosi stupenda, anderò promovendo alcuni dubbietti che mi nascono nel progresso del Sarsi, i quali V. S. Illustrissima, se cosi le piacerà, potra con qualche occasione mostrar a lui, acciò, col torgli via, possa tanto più perfettamente stabilire il tutto. Volendo dunque il Sarsi persuadermi che le stelle fisse non ricevono sensibile accrescimento dal telescopio, comincia dagli oggetti che sono in camera, e mi do- manda se per vedergli col telescopio, e' mi bisogna al- lungarlo assaissimo; ed io gli rispondo che si: passa a gli oggetti fuori della finestra in gran lontananza, e mi dice che per veder questi bisogna scorciar assai lo strumento; ed io l’affermo, e gli concedo, appresso, ciò derivar, com’esso scrive, dalla natura dello strumento, che per veder gli oggetti vicinissimi richiede assai maggior lun- ghezza di canna, e minor per li più lontani; ed oltre a IL SAGGIATORE 651 ciò confesso che la canna più lunga mostra gli oggetti maggiori che la più breve; e finalmente gli concedo per ora tutto il sillogismo, la cui conclusione è che in uni- versale gli oggetti vicini s'accrescon più, e i molto lontani meno, cioè (adattandola a i nominati particolari) che le stelle fisse, che sono oggetti lontani, ricrescon meno che le cose poste in camera o dentro al palazzo, tra i quali termini mi pare che il Sarsi comprenda le cose ch'ei chiama vicine, non avendo nominatamente discostato in maggior lontananza il termine loro. Ma il detto sin qui non mi par che soddisfaccia a gran lunga al bisogno del Sarsi. Imperocché domando io adesso a lui, s'ei ripone la Luna nella classe degli oggetti vicini, o pure in quella de’ lontani. Se la mette tra i lontani, di lei si concluderà il medesimo che delle stelle fisse, cioè il poco ingran- dirsi (ch'è poi di diretto contrario all’intenzion del suo Maestro, il quale, per costituir la cometa sopra la Luna. ha bisogno che la Luna sia di quegli oggetti che assai singrandiscono; e però anco scrisse ch’ella in effetto as- saissimo ricresceva, e pochissimo la cometa); ma s’egli la mette tra i vicini, che son quelli che ricrescono assai, io gli risponderò ch'ei non doveva da principio ristrin- gere i termini delle cose vicine dentro alle mura della casa, ma doveva ampliargli almeno sino al ciel della Luna. Or sieno ampliati sin l&, e torni il Sarsi alle sue prime interrogazioni, e mi dimandi se per veder col te- lescopio gli oggetti vicini, cioè che non sono oltre all’orbe della Luna, e' mi bisogna allungar assaissimo il telescopio. Io gli risponderò di no; ed ecco spezzato l’arco, e finito il saettar de’ sillogismi. Per tanto, se noi torneremo a considerar meglio questo argomento, lo troveremo esser difettoso, ed esser preso come assoluto quello che non si può intendere senza re- lazione, o vero come terminato quello ch'è indeterminato, ed in somma essere stata fatta una divisione diminuta 652 GALILEO GALILEI (che si chiamano errori in logica), mentre il Sarsi, senza assegnar termine e confine tra la vicinanza e lontananza, ha divisi gli oggetti visibili in lontani ed in vicini, er- rando in quel medesimo modo ch’errerebbe quel che di- cesse: « Le cose del mondo o son grandi o son piccole », nella qual proposizione non è verità né falsità, e cosi anco non è nel dire: « Gli oggetti o son vicini o son lon- tani >»; dalla quale indeterminazione nasce che le mede- sime cose si potranno chiamar vicinissime e lontanissime, grandissime e piccolissime, e le più vicine lontane, e le più lontane vicine, e le più grandi piccole, e le più pic- cole grandi, e si potra dire: « Questa è una collinetta piccolissima », e « Questo è un grandissimo diamante »; quel corriero chiama brevissimo il viaggio da Roma a Napoli, mentre che quella gentildonna si duole che la chiesa è troppo lontana dalla casa sua. Doveva dunque, sio non m'inganno, per fuggir questi equivochi, fare il Sarsi la sua divisione almeno in tre membri, dicendo: « Degli oggetti visibili altri son vicini, altri lontani, ed altri posti in mediocre distanza », la qual restava come confine tra i vicini ed i lontani; né anco qui si doveva fermare, ma di pit doveva soggiungere una precisa de- terminazione alla distanza d’esso confine, dicendo, v. g.: «To chiamo distanza mediocre quella d’una lega; grande, quella ch'è più d’una lega; piccola, quella ch'è meno »: né so ben capire perch’egli non l’abbia fatto, se non che forse scorgeva più il suo conto e più se lo prometteva dal potere accortamente prestigiare con equivochi tra le persone semplici, che dal saldamente concludere tra i più intelligenti; ed è veramente un gran vantaggio aver la carta dipinta da tutte due le bande, e poter, per essempio, dire: « Le stelle fisse, perché son lontane, ri- crescon pochissimo; ma la Luna, assai, perch'è vicina >, ed altra volta, quando venisse il bisogno, dire: « Gli og- getti di camera, essendo vicini, crescono assaissimo; ma IL SAGGIATORE 655 la Luna, poco, perch'è lontanissima ». E questo sia il primo dubbio. Secondo, già il P. Grassi pose in un sol capo la ca- gione del ricrescere or piti ed or meno gli oggetti veduti col telescopio, e questo fu la minore o la maggiore lon- tananza d’essi oggetti, né pur toccò una sillaba dell’al- lungare o abbreviare lo strumento; e di questo, dice ora il Sarsi, nessuna cosa esser più vera: tuttavia, quando ei si ristringe al dimostrarlo, non gli basta più la breve e gran lontananza dell'oggetto, ma gli bisogna aggiun- gervi la maggiore e la minor lunghezza del telescopio, e construire il sillogismo in cotal forma: La vicinanza del- l'oggetto è causa d’allungare il telescopio; ma tal allun- gamento è causa di ricrescimento maggiore; adunque la vicinanza dell’oggetto è causa di ricrescimento maggiore. Qui mi pare che il Sarsi, in cambio di sollevare il suo Maestro, l’aggravi maggiormente, facendolo equivocare dal per accidens al per se; in quel modo ch’errerebbe quegli che volesse metter l’avarizia tra le regole de sa- nitate tuenda, e dicesse: L’avarizia è causa di viver sobriamente, la sobrietà è causa di sanità, adunque l’ava- rizia mantien sano: dove l’avarizia è un'occasione, o vero un'assai remota causa per accidens alla sanità, la quale segue fuor della primaria intenzion dell’avaro, in quanto avaro, il fine del qual è il risparmio solamente. E questo ch'io dico è tanto vero, quanto con altrettanta conse- guenza io proverò, l’avarizia esser causa di malattia, perché l’avaro, per risparmiare il suo, va frequentemente a i conviti degli amici e de’ parenti, e la frequenza de’ conviti causa diverse malattie; adunque l’avarizia è causa d'ammalarsi: da i quali discorsi si scorge finalmente che l’avarizia, come avarizia, non ha che far niente colla sanità, come anco la propinquità dell'oggetto col suo maggior ricrescimento; e la causa per la quale nel rimirar gli oggetti propinqui s’allunga lo strumento, è per ri- 654 GALILEO GALILEI muover la confusione nella quale esso oggetto ci si di- mostra adombrato, la qual si toglie coll’allungamento; ma perché poi all’allungamento ne conséguita un maggior ricrescimento, ma fuor della primaria intenzione, che fu di chiarificare, e non d’ingrandir, l’oggetto, quindi è che la propinquità non si può chiamare altro che un’occa- sione, 0 vero una remotissima causa per accidens, del maggior ricrescimento. Terzo, se è vero che quella, e non altra, si debba propriamente stimar causa, la qual posta segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove; solo l'allungamento del telescopio si potrà dir causa del maggior ricrescimento: avvenga che, sia pur l'oggetto in qualsivoglia lontananza, ad ogni minimo allungamento ne séguita manifesto in- grandimento; ma all’incontro, tuttavolta che lo strumento si riterrà nella medesima lunghezza, avvicinisi pur quanto si voglia l'oggetto, quando anco dalla lontananza di cento mila passi si riducesse a quella di cinquanta so- lamente, non però il ricrescimento sopra l’apparenza dell'occhio libero si fara punto maggiore in questo sito che in quello. Ma bene è vero, che avvicinandolo a pic- colissime distanze, come di quattro passi, di due, d'uno, d’un mezo, la specie dell'oggetto più e più sempre s'in- torbida ed offusca, sî che, per vederlo distinto e chiaro, convien più e più allungar il telescopio, al qual allunga- mento ne conséguita poi il maggior e maggior ricresci- mento: ed avvenga che tal ricrescimento dependa solo dall’allungamento, e non dall’avvicinamento, da quello, e non da questo, si deve regolare; e perché nelle lonta- nanze oltre a mezo miglio non fa di mestieri, per veder gli oggetti chiari e distinti, di muover punto lo strumento, niuna mutazione cade ne’ loro ingrandimenti, ma tutti si fanno colla medesima proporzione; si che se la super- ficie, v. g., d'una palla, veduta col telescopio, in distanza di mezo miglio ricresce mille volte, mille volte ancora, e IL SAGGIATORE 655 niente meno, ricrescerà il disco della Luna, tanto ricre- scera quel di Giove, e finalmente tanto quel d’una stella fissa. Né accade qui che il Sarsi la voglia star a smi- nuzzolare e rivedere a tutto rigor di geometria, perché, quando ei l’avrà tirata e ridotta in atomi e presosi anco tutti i vantaggi, il guadagno suo non arriverà a quello di colui che con diligenza s'andava informando per qual porta della città s'usciva per andar per la più breve in India; ed in fine gli converrà confessare (come anco in parte pare ch'ei faccia nel fine del periodo letto da V. S. Illustrissima) che trattando con ogni severità il telescopio, si debba tener manco d’un capello più corto nel riguardar le stelle fisse, che nel mirar la Luna. Ma da tutta questa severità che ne risulterà poi in ultimo, che sia di solle- vamento al Sarsi? Nulla assolutamente; perché non ne raccorrà altro se non che, ricrescendo, v. g., la Luna mille volte, le stelle fisse ricrescano novecento novantanove: mentre che per difesa sua e del suo Maestro bisognerebbe ch'elle non crescessero né anco due volte, perché il ricre- scimento del doppio non è cosa impercettibile, ed eglino dicono le fisse non ricrescer sensibilmente. Io so che il Sarsi ha intese benissimo queste cose, anco nella lettura del Sig. Mario; ma vuol, per quanto ei può, mantener vivo il suo Maestro a quint’essenza di sillogismi sottilissimamente distillati (e siami lecito dir cosi, perché di qui a poco ei chiamerà troppo minute al- cune cose del Sig. Mario, che sono assai piti corpulente di queste sue). Ma per finire ormai i miei dubbi, m’ac- cade dir qualche cosa intorno all’essempio portato dal Sarsi, preso da gli oggetti veduti naturalmente: de’ quali dice che quanto piti s'allontanano dall’occhio, sempre si veggono sotto minor angolo; nientedimeno, quando si è arrivato a certa distanza, nella quale l’angolo si faccia assai piccolo, per molto poi che si allontani più l’oggetto, l'angolo però non si diminuisce sensibilmente; tuttavia, 656 GALILEO GALILEI dic'egli, si può dimostrare ch’ei si fa minore. Ma se il senso di questo essempio è quale mi si rappresenta, e qual anco convien che sia se ha da quadrar bene al con- cetto essemplificato, io son di parere molto diverso da questo del Sarsi. Imperocché a me pare ch'in sostanza ei voglia che l’angolo visuale, nell’allontanarsi l'oggetto, si vada ben continuamente diminuendo, ma sempre succes- sivamente con minor proporzione, si che oltre a una gran lontananza, per molto che l’oggetto si discosti ancora, poco più si diminuisca l’angolo: ma io son di contrario parere, e dico che la diminuzione dell'angolo si va fa- cendo sempre con maggior proporzion, quanto più l’og- getto s'allontana. E per più facilmente dichiararmi, noto primieramente, che il voler determinar le grandezze ap- parenti degli oggetti visibili colle quantità degli angoli sotto i quali quelle ci si rappresentano, è ben fatto nel trattar di parti di alcuna circonferenza di cerchio nel centro del quale sia collocato l’occhio; ma trattandosi di tutti gli altri oggetti, è errore: imperocché l’apparenti grandezze, non dagli angoli visuali, ma dalle corde degli archi suttesi a detti angoli si deono determinare; e queste tali apparenti quantità si vanno sempre diminuendo pun- tualissimamente con proporzion contraria di quella delle lontananze; sf che il diametro, v. g., d'un cerchio, veduto in distanza di cento braccia, mi si rappresenta giusto la metà di quello che m’apparrebbe dalla distanza di braccia cinquanta, e veduto in distanza di mille braccia mi parrà doppio che se sara lontano dumila, e cosi sempre in tutte le lontananze; né mai accaderà ch'egli per qualsivoglia grandissima distanza m’apparisca cosi piccolo, ch'ei non mi paia ancora la metà da dupplicata lontananza. Ma se noi pur vorremo determinar l’appa- renti grandezze dalla quantità degli angoli, come fa il Sarsi, il fatto seguirà ancora più disfavorevole per lui; perché tali angoli non diminuiranno già colla propor- IL SAGGIATORE 657 zione colla quale le lontananze crescono, ma con minore. Ma quel che contraria al detto del Sarsi è che, parago- nati gli angoli fra di loro, con maggior proporzione si vanno diminuendo nelle maggiori distanze che nelle mi- nori; si che, se, v. g., l'angolo d'un oggetto posto in distanza di cinquanta braccia, all'angolo del medesimo oggetto posto in distanza di braccia cento, è, per es- sempio, come cento a sessanta, l'angolo del medesimo oggetto in distanza di mille all'angolo in distanza di du- mila sarà, v. g., come cento a cinquant’otto, e quello in distanza di quattromila a quello in distanza d’ottomila sarà come cento a cinquantacinque, e quel della distanza di 10000 a quel di ventimila sarà come cento a cin- quantadue, e sempre la diminuzion dell’angolo s’anderà facendo in maggiore e maggior proporzione, senza però ridursi mai a farsi colla medesima delle lontananze per- mutatamente prese. Tal che, sio non prendo errore, quello che scrive il Sarsi, che l'angolo visuale, ridotto per gran lontananze a molta acutezza, non continua di diminuirsi per altri immensi allontanamenti con si gran proporzione come faceva nelle minori distanze, è tanto falso, quanto che tal diminuzione vien sempre fatta in maggior proporzione. 15. Legga ora V. S. Illustrissima: Sed dicet is, hoc non esse, saltem, eodem uti instrumento, ac proinde, si de eodem loquamur specillo, falsam esse positionem illa: quamquam enim eadem sint vitra, idem etiam tubus, si tamen hic idem modo productior, modo vero fuerit contractior, non idem semper erit instrumentum. Apage haec tam minuta. Si quis igitur cum amico colloquens leni sono verba formaverit, ut scilicet e propinquo exau- diatur; mox alium conspicatus e longinquo, contentissima illum voce inclamarit; alio atque alio illum uti gutture atque ore dixeris, quod hac vocis instrumenta illic con- trahi, hic dilatari atque extendi necesse sit? Nos vero 658 GALILEO GALILEI cum tubicines as illud recuroum ac replicatum adducta reductaque dextra ad graviorem quidem sonum produ- centes, ad acutiorem vero contrahentes, intuemur, num propterea alia atque alia uti tuba existimamus? Qui, com’ella vede, il Sarsi introduce me, come ormai convinto dalla forza de’ suoi sillogismi, a ricorrere per mio scampo a qualunque debolissimo attacco, ed a dire, quando pur vero sia che le stelle fisse non ricevano ac- crescimento come gli oggetti vicini, che questo saltem non è servirsi del medesimo strumento, poi che negli oggetti propinqui si deve allungare; e mi soggiunge, con un Apage, ch'io ricorro a cose troppo minute. Ma, Sig. Sarsi, io non ho bisogno di ricorrere al saltem ed alle minuzie. Necessità ne avete avuta voi sin qui, e più l’averete nel progresso. Voi avete avuto bisogno di dire che saltem nelle sottilissime idee geometriche le fisse ri- chieggono abbreviazione del telescopio pit che la Luna, dal che poi ne seguiva, come di sopra ho notato, che ri- crescendo la Luna mille volte, le fisse ricrescerebbono novecento novantanove, mentre che per mantenimento del vostro detto avevate di bisogno ch’elle non ricrescessero né anco una meza volta. Questo, Sig. Sarsi, è un ridursi al saltem, e un far come quella serpe che, lacerata e pesta, non le sendo rimasti più spiriti fuor che nell’estre- mita della coda, quella va pur tuttavia divincolando, per dare a credere a’ viandanti d’essere ancor sana e ga- gliarda. Ed il dire che il telescopio allungato è un altro strumento da quel ch’era avanti, è, nel proposito di che si parla, cosa essenzialissima, e tanto vera quanto veris- sima; né il Sarsi avrebbe stimato altrimenti, se nel darne giudicio non avesse equivocato dalla materia alla forma o figura, che dir la vogliamo: il che si può facilmente di- chiarare anco senza uscir del suo medesimo essempio. Io domando al Sarsi, onde avvenga che le canne del- l'organo non suonan tutte all'unisono, ma altre rendono IL SAGGIATORE 659 il tuono più grave ed altre meno? Dirà egli forse, ciò derivare perch’elle sieno di materie diverse? certo no, essendo tutte di piombo: ma suonano diverse note perché sono di diverse grandezze, e quanto alla materia, ella non ha parte alcuna nella forma del suono: perché si faran canne, altre di legno, altre di stagno, altre di piombo, altre d’argento ed altre di carta, e soneran tutte l’unisono; il che avverrà quando le loro lunghezze e lar- ghezze sieno eguali: ed all’incontro coll’istessa materia in numero, cioè colle medesime quattro libre di piombo, figurandolo or in maggiore or in minor vaso, ne formerò diverse note: si che, per quanto appartiene al produr suono, diversi sono gli strumenti che anno diversa gran- dezza, e non quelli che inno diversa materia. Ora, se di- sfacendo una canna se ne rigettera del medesimo piombo un’altra più lunga, ed in conseguenza di tuono più grave, sarà il Sarsi renitente a dir che questa sia una canna diversa dalla prima? voglio creder di no. Ma se altri tro- vasse modo di formar la seconda più lunga senza disfar la prima, non sarebbe l’istesso? certo si. Ma il modo sarà col farla di due pezzi e ch’uno entri nell’altro, perché cosi si potra allungare e scorciare, ed in somma farla all’arbitrio nostro divenir canne diverse, per quello che si ricerca al formar diverse note; e tale è la struttura del trombone. Le corde dell’arpe, ben che sieno tutte della medesima materia, rendon suoni differenti, perché sono di diverse lunghezze: ma quel che fanno molte di queste, lo fa una sola nel liuto, mentre che col tasteggiare si cava il suono ora da tutta ora da una parte, ch'è l’istesso che allungarla e scorciarla, ed in somma trasmutarla, per quanto appartiene alla produzzion del suono, in corde differenti: e l’istesso si può dire della canna della gola, la qual, col variar lunghezza e larghezza, accommodan- dosi a formar varie voci, può senza errore dirsi ch'’ella diventi canne diverse. Cosî, e non altrimenti (perché il 660 GALILEO GALILEI maggiore o minor ricrescimento non consiste nella ma- teria del telescopio, ma nella figura, si che il più lungo mostra maggiore), quando, ritenendo l’istessa materia, si muterà l'intervallo tra vetro e vetro, si verranno a co- stituire strumenti diversi. 16. Or sentiamo l’altro sillogismo che forma il Sarsi: Sed videat Galileus, quam non contentiose agam: aliud sit instrumenium tubus nunc productior, nunc contrac- tior; iterum, paucis mutatis, idem argumentum confi- ciam. Quacumque diberso instrumento spectari postulant, diversum etiam ex instrumento capiunt incrementum; sed propinqua et remota diverso instrumento spectari postulant; diversum igitur propinqua et remota ex in- strumento capient incrementum. Maior iterum ac minor ipsius est; eiusdem sit et consequentia necesse est. Quibus rebus expositis, satis docuisse videor, nihil nos hactenus a veritate, neque a Galilaeo quidem, alienum pronunciasse, cum diximus, hoc instrumento minus remota augeri quam propinqua, cum, natura etiam sua, ad illa spectanda contrahi, ad hac vero produci, postulet: dici tamen non inepte poterit, idem quidem esse instrumentum, diverso tamen modo usurpalum. Il quale argomento io concedo tutto, ma non veggo ch’ei concluda niente in disfavor del Sig. Mario, né in favor della causa del Sarsi; al quale di niun profitto è che gli oggetti vicinissimi veduti con un telescopio lungo ricrescono più che i lontani veduti con un corto, ch'è la conclusion del sillogismo, ma molto diversa dall’obligo intrapreso dal Sarsi. Il qual è di provar due punti prin- cipali: l'uno è che gli oggetti sino alla Luna, e non quei soli che sono nella camera, ricrescano assaissimo; ma le stelle fisse, non poco manco, ma insensibilmente, vedute queste e quelli coll’istesso strumento: l’altro, che la di- versità di tali ricrescimenti proceda dalla diversità delle lontananze d’essi oggetti, e che a quelle proporzionata- IL SAGGIATORE 661 mente risponda: le quali cose egli non proverà mai in eterno, perché son false. Ma della nullità del presente sillogismo, per quanto appartiene alla materia di che si tratta, siacene testimonio che io su le sue medesime pe- date procederò a dimostrar concludentemente il contrario. Gli oggetti che ricercano d’esser riguardati col medesimo strumento, ricevono da quello il medesimo ricrescimento; ma tutti gli oggetti, da un quarto di miglio in l& sino alla lontananza di mille milioni, ricercano d’esser riguardati col medesimo strumento; adunque tutti questi ricevono il medesimo ricrescimento. Non concluda per tanto il Sarsi di non avere scritto cosa aliena né dal vero né da me; perché di me almanco l’assicuro ch’egli sin qui ha concluso cosa contraria all’intenzion mia. Nell’ultima chiusa di questo periodo, dov’egli dice che il telescopio or lungo or corto si può chiamar il medesimo strumento, ma diversamente usurpato, vi è, s'io non m'inganno, un poco di equivoco; anzi parmi che il ne- gozio . proceda tutto all’opposito, cioè che lo strumento sia diverso, e l’usurpamento o vero applicazione sia la medesima a capello. Chiamasi il medesimo strumento esser diversamente usurpato, quando, senza punto alte- rarlo, si applica ad usi differenti: e cosî l'ancora fu la medesima, ma diversamente usurpata dal piloto per dar fondo, e da Orlando per prender balene. Ma nel caso nostro accade tutto l’opposito: imperocché l’uso del tele- scopio è sempre il medesimo, perché sempre s’'applica a riguardar oggetti visibili; ma lo strumento è ben diver- sificato, mutandosi in esso cosa essenzialissima, qual è l'intervallo da vetro a vetro. È adunque manifesto l’equi- voco del Sarsi. 17. Ma seguitiamo più avanti: At dicet: verissima haec quidem esse, si summo geometria iure res agatur; quod tamen in re nostra locum non habet, et cum saltem ad Lunam et stellas intuendas nullo longitudinis discri- 662 GALILEO GALILEI mine specillum adhiberi soleat, nihil hic etiam ponderis habituram esse maiorem minoremve distantiam ad maius minusve obiecti incrementum inferendum; quare si stella minus augeri videantur quam Luna, ex alio deducendam huius phoenomeni rationem, non ex obiecti remotione. Ita sit; et nisi aliunde etiam habeat tubus hic, stellas minus augere quam Lunam, minus fortasse ponderis ar- sumento insit. Dum tamen illud praterea huic instru- mento tribuitur, ut luminosa omnia larga illa radiatione, qua veluti coronantur, expoliet, ex quo fit ut, licet stella idem fortasse re ipsa capiant ex illo incrementum quod Luna, minus tamen augeri videantur (cum diversum plane sit id, quod tubo conspicitur, ab eo quod nudis prius oculis videbatur: hi siquidem nudi et stellam et circumfusum fulgorem spectabant; tubo vero adhibito, solum stella corpusculum intuendum obiicitur), verissi- mum etiam est, iis omnibus qua ad opticam spectant consideratis, stellas hoc instrumento, quoad aspectum saltem, minus accipere incrementi quam Lunam, immo etiam aliquando, si oculis credas, nulla ratione augeri, ac, si Deo placet, etiam minui: quod nec ipse Galilaeus negat. Mirari proinde desinat, quod stellas insensibi- liter per tubum augeri dixerimus: neque enim hic huius aspectus causam querebamus, sed aspectum ipsum. Qui noti primieramente V. S. Hlustrissima come la mia predizzione, fatta di sopra al numero 14, comincia a verificarsi. LA animosamente s'esibi il Sarsi a mantener, niuna cosa esser più vera del ricrescer gli oggetti veduti col telescopio tanto più quanto più son vicini, e tanto meno quanto pit lontani: onde le stelle fisse, come lon- tanissime, non ricrescesser sensibilmente; ma la Luna, assaissimo, come vicina. Or qui mi pare che si cominci a vedere una gran ritirata ed una confession manifesta: prima, che la diversità delle lontananze degli oggetti non sia più la vera causa de’ diversi ingrandimenti, ma che IL SAGGIATORE 663 bisogni ricorrere all’allungamento e scorciamento del te- lescopio; cosa non detta, né pure accennata, né forse pensata, da loro avanti l’avvertimento del Sig. Mario: secondo, che né anco questo abbia luogo nel presente caso, atteso che niuna mutazione si faccia nello stru- mento, si che, cessando questo rifugio ancora, l'argomento che sopra ciò si fondava resti invalido totalmente. Veggo, nel terzo luogo, ricorrere a cagioni lontanissime dalle portate da principio per vere e sole, e dire che il poco ricrescimento apparente nelle fisse non dependa più né da gran lontananza d’esse né da brevità di strumento, ma che è un'illusione dell’occhio nostro, il quale libero vede le stelle con un grandissimo irraggiamento non reale e che però ci sembrano grandi, ma collo strumento si vede il nudo corpo della stella, il quale, ben che ringran- dito come tutti gli altri oggetti, non però par tale, pa- ragonato colle medesime stelle vedute liberamente, in relazion delle quali l'accrescimento par piccolissimo: dal che ei conclude che almeno quanto all’apparenza le stelle fisse pur mostrano di ricrescer pochissimo, perloché io non mi devo maravigliare ch’eglino ciò abbiano detto, poi ch'ei non ricercavano la causa di tale aspetto, ma so- lamente l'aspetto istesso. Ma, Sig. Sarsi, perdonatemi: voi, mentre cercate di rimuovermi la meraviglia, non pur non me la levate, ma con altre nuove cagioni me la mol- tiplicate assai. E prima, io non poco mi meraviglio nel vedervi portar questo precedente discorso con maniera dottrinale, quasi che voi lo vogliate insegnare a me, mentre l’avete di parola in parola imparato voi dal Sig. Mario; e di più sog- giungete ch'io non nego queste cose, credo con intenzione che nel lettore resti concetto ch'io medesimo avessi in mano la risoluzione della difficoltà, ma che io non l’avessi saputa conoscere né prevalermene. Meravigliomi, seconda- riamente, che voi diciate che il vostro Maestro non andò 664 GALILEO GALILEI ricercando la cagione dell’insensibil ricrescimento delle stelle fisse, ma solo l’istesso effetto dell’insensibilmente ricrescere, ancor ch'egli più d'una volta replichi esser di ciò la cagione l'immensa lontananza. Ma quello che, nel terzo luogo, m’accresce la meraviglia a cento doppi è che voi non v'accorgiate che, quando ciò vero fusse, voi figu- rereste, a gran torto, il vostro Maestro privo ancora di quella communissima logica naturale, in virti della quale ogni persona, per idiota ch’ella sia, discorre e conclude direttamente le sue intenzioni. E per farvi toccar con mano la verità di quanto io dico, rimovete la conside- razion della causa ed introducete il solo effetto (già che voi affermate che il vostro Maestro non ricercò la causa, ma il solo effetto), e poi discorrendo dite: « Le stelle fisse ricrescono insensibilmente; ma la cometa essa ancora ri- cresce insensibilmente »; adunque, Sig. Sarsi, che ne con- cluderete? Rispondete: « Nulla », se volete rispondere manco male che sia possibile: perché se voi pretenderete di poterne inferire una conseguenza, ed io pretenderò con altrettanta connessione poterne inferir mille; e se vi parrà di poter dire: « Adunque la cometa è lontanissima, perché anco le fisse sono lontanissime », ed io con non minor ragione dirò: « Adunque la cometa è incorruttibile, perché le fisse sono incorruttibili >, ed appresso dirò: « Adunque la cometa scintilla, perché le fisse scintillano >», e con non minor ragione potrò dire: « Adunque la co- meta risplende di propria luce, perché cosi fanno le fisse »>: e sio farò di queste conseguenze, voi vi riderete di me come d'un logico senza dramma di logica, ed avrete mille ragioni, e poi cortesemente m'’avvertirete ch'io da quelle premesse non posso inferir altro per la cometa se non quei particolari accidenti che anno necessaria, anzi necessariissima connessione coll’insensibil ricrescimento delle stelle fisse; e perché questo ricrescimento non de- pende né ha connession veruna coll’incorruttibilità, né IL SAGGIATORE 665 colla scintillazione, né coll’esser lucido da per sé, però niuna di queste conclusioni si può concludere della co- meta: e chi di la vorrà inferir, la cometa esser lonta- nissima, bisogna che di necessità abbia prima ben bene stabilito, l’insensibil ricrescimento delle stelle dependere, come da causa necessarissima, dalla gran lontananza, perché altrimenti non si sarebbe potuto servir del suo converso, cioè che quegli oggetti che insensibilmente ri- crescono, sieno di necessità lontanissimi. Or vedete quali errori in logica voi immeritamente addossate al vostro Maestro: dico immeritamente, perché son vostri, e non suoi. 18. Or legga V. S. Illustrissima sin al fine di questo primo essame: At videat hoc loco Galilaus, quam non insipienter ex his atque aliis in Sidereo Nuncio ab illo traditis inferamus, cometam supra Lunam statuendum. Ait ipse, celestia inter lumina alia quidem nativa ac propria fulgere luce, quo in numero Solem ac stellas quas fixas dicimus collocat; alia vero, nullo a natura splendore donata, lumen omne a Sole mutuari, qualia sex reliqui planeta haberi solent. Observavit preeterea, stellas maxime inane illud lucis non sua@ coronamentum adamasse, ac veluti comam alere consuevisse; planetas vero, Lunam preesertim, Iovem atque Saturnum, nullo fere huiusmodi fulgore vestiri; Martem tamen, Venerem atque Mercurium, quamvis nullo et ipsi generis splen- dore sint pradili, e Solis propinquitate tantum haurire luminis, ut, stellis quodammodo pares, earumdem et scin- tillationem et circumfusos radios imitentur. Cum ergo cometa, vel Galileo auctore, lumen non a natura in- ditum habeat, sed Soli acceptum referat, nosque illum tanquam temporarium planetam existimaremus, cum ca- teris non postrema nota viris, de eo etiam similiter philosophandum erat atque de Luna caterisque erran- tibus: quorum cum ea sit conditio, ut, quo minus a Sole distant, eo splendeant ardentius, fulgoreque maiore ve- 666 GALILEO GALILEI stiti (quod inde consequitur) tubo inspecti minus augeri videantur, dum cometa ex hoc eodem instrumento idem fere quod Mercurius caperet incrementum, an non valde probabiliter inferre inde potuimus, cometam eumdem non plus admodum circumfusi illius luminis admisisse quam Mercurium, nec proinde longiori multo a Sole dis- situm intervallo; contra vero, cum minus augeretur quam Luna, maiori circumfusum lumine, ac Soli viciniorem statuendum? Ex quibus iure dixisse nos intelligit, cum parum admodum augeri visus sit cometa, multo a nobis remotiorem quam Lunam dicendum esse. Et sane, cum nobis ex parallaxi observata, ex cursu etiam cometa de- coro ac plane sidereo, satis iam de eius loco constaret; cum praterea cumdem tubus pari pene incremento ac ‘Mercurium afficeret, contrarium certe nulla ratione sua- deret; licuit hinc etiam non minimam momenti ac pon- deris appendiculam in nostram derivare sententiam. Quamquam enim sciremus ex multis posse ista pendere, ex ea tamen ipsa quam lucidum hoc corpus in omnibus suis phocnomenis cum reliquis calestibus corporibus ser- varet analogiam, satis magnum a tubo nos accepisse be- neficium tunc putavimus, quod sententiam nostram, alio- rum iam argumentorum pondere firmatam, suo etiam suffragio ipse vehementius confirmaret. Quod autem religuum est argumento additum, ea vi- delicet verba: « Scio hoc argumentum apud aliquos parvi fuisse momenti, etc. >» diserte ingenueque supra memora- vimus, quorsum hac addita fuerint; adoersus eos nimirum qui, huic instrumento fidem elevantes, opticarum disci- plinarum plane ignari, fallax illud ac nulla dignum fide predicarent. Intelligit igitur, ni fallor, Galilaus, quam immerito nostram de tubo sententiam oppugnarit, quam veritati, immo et suis etiam placitis, nulla in re adoersam agnoscil: agnoscere etiam ante polerat, si pacato magis illam animo aspexisset. Qui igitur nobis in mentem ve- IL SAGGIATORE 667 niret unquam, fore aliquando, ut minus hac illi grata ac- ciderent, qua prorsus ipsius esse censeremus? Sed quando haec pro nostra sententia satis esse arbitror, ad ipsius Galilei placita expendenda gradum faciamus. Qui primieramente, com’ella vede, aviamo un argo- mento rappezzato, come si dice, su ’1 vecchio, di diversi fragmenti di proposizioni, per provar pure, il luogo della cometa essere stato tra la Luna ed il Sole: il qual di- scorso il Sig. Mario ed io gli possiamo, senza pregiudicio alcuno, conceder tutto, non avendo noi mai affermato cosa veruna attenente al sito della cometa, né negato ch’ella possa essere sopra la Luna, ma solamente si è detto che le dimostrazioni portate sin qui dagli autori non mancano di dubitazioni; per le quali rimuovere di niuno aiuto è che ora il Sarsi venga con altra nuova di- mostrazione, quando bene ella fusse necessaria e conclu- dente, a provar la conclusione esser vera, avvenga che anco intorno a conclusioni vere si può falsamente argu- mentare e commetter paralogismi e fallacie. Tuttavia, per lo desiderio ch'io tengo che le cose recondite vengano in luce e si guadagnino conclusioni vere, anderò movendo alcune considerazioni intorno ad esso discorso: e per più chiara intelligenza lo ristringerò prima nella maggior brevità ch'io possa. Dic'egli dunque, aver dal mio Nunzio Sidereo, le stelle fisse, come quelle che risplendono di propria luce, irrag- giarsi molto di quel fulgore non reale, ma solo apparente; ma i pianeti, come privi di luce propria, non far cosî, e massime la Luna, Giove e Saturno, ma dimostrarsi quasi nudi di tale splendore; ma Venere, Mercurio e Marte, benché privi di luce propria, irraggiarsi nondimeno assai per la vicinità del Sole, dal quale più vivamente vengon tocchi. Dice di più, che la cometa, di mio parere, riceve il suo lume dal Sole, e poi soggiunge, sé, con altri autori di nome, aver reputata la cometa come un pianeta per a 668 GALILEO GALILEI tempo, e che però di lei si possa filosofare come degli altri pianeti: de’ quali essendo che i più vicini al Sole più sirraggiano, ed in conseguenza meno ricrescono ve- duti col telescopio, ed avvenga che la cometa ricresceva poco più di Mercurio ed assai meno che la Luna, molto ragionevolmente si poteva concluder, lei esser non molto più lontana dal Sole che Mercurio, ma assai più vicina a quello che la Luna. Questo è il discorso, il quale calza cosi bene, e cosi aggiustatamente s’assesta, al bisogno del Sarsi, come se la conclusione fusse fatta prima de’ prin- cipii e de’ mezi, si che non quella da questi, ma questi da quella dependessero, e fussero non dalla larghezza della natura, ma dalla puntualità di sottilissima arte stati preparati per lei. Ma veggiamo quanto siano concludenti. E prima, che io abbia scritto nel Nunzio Sidereo che Giove e Saturno non s'irraggino quasi niente, ma che Marte, Venere e Mercurio si coronino grandemente de’ raggi, è del tutto falso; perché la Luna solamente ho se- questrata dal resto di tutte le stelle, tanto fisse quanto erranti. Secondariamente, non so se per far che la cometa sia un quasi pianeta, e che, come tale, se gli convengano le proprietà degli altri pianeti, basti che il Sarsi, il suo Maestro ed altri autori l'abbiano stimata e nominata per tale: che se la stima e la voce loro avesser possanza di porre in essere le cose da essi stimate e nominate, io gli supplicherei a farmi grazia di stimar e nominar oro molti ferramenti vecchi che mi ritrovo avere in casa. Ma lasciando i nomi da parte, qual condizione induce questi tali a reputar la cometa quasi un pianeta per a tempo? forse il risplendere come i pianeti? ma qual nuvola, qual fumo, qual legno, qual muraglia, qual montagna, tocca dal Sole, non risplende altrettanto? Non ha veduto il Sarsi nel Nunzio Sidereo dimostrato, lo stesso globo ter- restre risplender piî che la Luna? Ma che dico io del IL SAGGIATORE 669 risplender la cometa come un pianeta? Io, in quanto a me, non ho per impossibile che la sua luce possa esser tanto debole, e la sua sostanza tanto tenue e rara, che quando alcuno se gli potesse avvicinare assai, la perdesse del tutto di vista; come accade d’alcuni fuochi ch’escono dalla Terra, i quali solamente di notte e da lontano si veggono, ma da vicino si perdono; in quel modo che le nu- vole lontane si veggono terminatissime, che poi da presso mostrano un poco di adombramento di nebbia talmente interminato, che altri quasi, nell’entrarvi dentro, non di- stingue il suo termine, né lo sa separar dall’aria sua con- tigua. E quelle proiezzioni de’ raggi solari tra le rotture delle nuvole, tanto simili alle comete, quando mai son elle vedute, se non da quelli che da loro son lontani? Convien forse la cometa co’ pianeti per ragion di moto? E qual cosa separata dalla parte elementare, ch’ubidisce allo stato terrestre, non si moverà al moto diurno col resto dell'universo? Ma se si parla dell'altro moto traversale, questo non ha che far col movimento de’ pianeti, non es- sendo né per quel verso, né regolato, né forse pur circo- lare. Ma, lasciati gli accidenti, crederà forse alcuno, la sostanza o materia della cometa aver convenienza con quella de’ pianeti? Questa si può credere esser solidis- sima, ché cosi ne persuade in particolare e quasi sensata- mente la Luna, ed in universale la figura terminatissima ed immutabile di tutti i pianeti; dove, per l’opposito, quella della cometa in pochi giorni si può credere che si dissolva; e la sua figura, non circolarmente terminata, ma confusa ed indistinta, ci dé segno, la sua sostanza esser cosa più tenue e più rara che la nebbia o il fumo: si che in somma ella si possa più tosto chiamare un pianeta di- pinto, che reale. Terzo, io non so quanto perfettamente ei possa aver paragonato l'irraggiamento ed il ricrescimento della co- meta con quel di Mercurio, il quale, avvenga che raris- 6270 GALILEO GALILEI sime volte dia occasion d'essere osservato, in tutto il tempo che apparve la cometa, sicuramente non la dette egli mai, né poté esser veduto, ritrovandosi sempre assai vicino al Sole; si che io credo di poter senza scrupolo creder, che il Sarsi non facesse altrimenti questo para- gone, difficile anco per altro e mal sicuro a potersi fare, ma ch'e’ lo dica, perché, quando cosî fussi, servirebbe meglio alla sua causa. E del non essere egli venuto a questa esperienza me ne dà anco indizio questo, che nel riferir l’osservazioni fatte in Mercurio e nella Luna, colle quali paragona quelle della cometa, mi par ch'ei si con- fonda alquanto: atteso che, per voler concludere, la co- «meta esser più lontana dal Sole che Mercurio, aveva bisogno dire ch’ella s'irraggiava meno di lui, e veduta col telescopio ricresceva più di lui; tuttavia gli è venuto scritto a rovescio, cioè ch’ella non s'irraggiava assai più di Mercurio, e ch’ella riceveva quasi il medesimo ricre- scimento, ch'è quanto a dire ch’ella s'irraggiava più, e ricresceva manco, di Mercurio: paragonandola poi colla Luna, scrive l’istesso (ben ch'egli dica di scrivere il con- trario), cioè ch’ella ricresceva meno che la Luna, e s'ir- raggiava più: tuttavia poi, nel concludere, dalla identità di premesse ne deduce contrarie conclusioni, cioè che la cometa è più vicina al Sole che la Luna, ma più remota che Mercurio. E finalmente, professando il Sarsi d'esser molto esatto logico, non so perché nella division de’ corpi luminosi che s'irraggiano più o meno, e che in conseguenza, veduti col telescopio, ricevono ingrandimento minore o maggiore, ei non abbia registrati i nostri lumi elementari; avvenga che le candele, le fiaccole ardenti vedute in qualche di- stanza, e qualunque sassetto, legnuzzo o altro piccolo cor- picello, insin le foglie dell’erbe e le stille della rugiada percosse dal Sole, risplendono, e da certe vedute s'irrag- giano al pari di qualunque più folgorante stella, e viste IL SAGGIATORE 671 col telescopio osservano nell’ingrandimento l’istesso tenore che le stelle: perloché cessa del tutto quell’aiuto di costa ch'altri si era promesso dal telescopio, per condur la co- meta in cielo e rimuoverla dalla sfera elementare. Cessi pertanto ancora il Sarsi dal pensiero di poter sollevare il suo Maestro, e sia certo che per voler sostenere un errore è forza di commetterne cento, e, quel ch'è peggio, restar in ultimo a piedi. Vorrei anco pregarlo ch’ei ces- sasse di replicar, com’egli pur fa nel fine di questa parte, che queste sue sieno mie dottrine, perch’io né scrissi mai tali cose, né le dissi, né le pensai. E tanto basti intorno al primo essame. 19. Ora passiamo al secondo. EXAMEN SECUNDUM QUO GALILZI OPINIO DE SUBSTANTIA ET MOTU COMETARUM EXPENDITUR. AN COMETES DE GENERE SIT APPARENTIUM IMAGINUM. QUASTIOLE Quamvis ad hanc usque diem nemo cometam omni ex parte inania inter spectra numerandum dixerit, ex quo fieret ut necesse non haberemus illum ab hoc inanitatis crimine liberare, quia tamen Galilwus aliam inire viam explicandi cometa satius sapientiusque duxit, par est in novo hoc illius invento diligentius expendendo commorari. Duo sunt qua ille excogitavit: alterum substantiam, alterum vero motum cometa spectat. Quod ad prius attinet, ait lumen hoc ex eorum genere esse, qua, per alterius luminis refractionem ostentata verius quam facta, umbra potius luminosorum corporum quam luminosa corpora dicenda videntur; qualia sunt irides, corone, parelia, aliaque hoc genus multa. Quod vero spectat 672 GALILEO GALILEI ad posterius, affirmat, motum cometarum rectum semper fuisse ac Terra superficiei perpendicularem: quibus in medium prolatis, aliorum facile sententias se labefacturum existimavit. Nos, quantum hisce opinionibus tribuendum sit, paucis in prasentia ac sine ullo verborum fuco (quando satis sibi ornata est, vel nuda, veritas) vi- deamus: et quamquam perdifficile est duo hac dicta complecti singillatim, cum adeo inter se connexa sint ut alterum ab altero pendere ac mutuam sibi adiumenti picem rependere videantur, curabimus tamen ne quid iactura lectoribus hinc existat. Quare contra primum Galilai dictum affirmo, cometam inane lucis fismentum, spectantium oculis illudens, non fuisse: quod nullo alio egere argumento apud eum exi- stimo, qui vel semel cometam ipsum tum nudis oculis tum oplico tubo inspexerit. Satis enim vel ex ipso aspectu sese huius natura luminis prodebat, ut ex verissimorum collatione luminum iudicare facile quivis posset, fictumne esset an verum quod cerneret. Sane Tycho, dum Thaddei Hagecii observaliones examinat, haec ex eiusdem epistola profert: « Corpus cometa iis diebus magnitudine lovis ac Veneris stellam adaquasse, et luce nitida ac splendore eximio eoque eleganti et venusto praditum fuisse, et pu- riorem eius substantiam apparuisse quam ut pure ele- mentaribus materiis quadraret, sed potius caelestibus illis corporibus analogam extilisse ». Quibus postea haec Tycho subdit: « Atque in hoc sane rectissime sensit Thaddaus, et vel inde etiam non obscure concludere potuisset, mi- nime elementarem fuisse hunc cometam ». Di sopra il Sarsi s andò figurando arbitrariamente i principii ed i mezi accommodati alle conclusioni ch'egli intendeva di dimostrare; adesso mi par ch’ei si vada figurando conclusioni, per oppugnarle come pensieri del Sig. Mario e mici, molto diverse, o almeno molto diver- samente prese, da quello che nel Discorso del Sig. Mario IL SAGGIATORE 673 son portate. Imperocché, che la cometa sia senz'altro un simulacro vano ed una semplice apparenza, non è mai risolutamente stato affermato, ma solo messo in dubbio e promosso alla considerazion de’ filosofi con quelle ragioni e conghietture che par che possano persuadere che cosi possa essere. Ecco le parole del Sig. Mario in questo pro- posito: « Jo non dico risolutamente che la cometa si faccia in tal modo, ma dico bene che, come di questo, cosi son dubbio degli altri modi assegnati dagli altri autori; i quali se pretenderanno d’indubitatamente stabilir lor pa- rere, saranno in obligo di mostrar questa e tutte l'altre posizioni vane e fallaci». Con simil diversità porta il Sarsi che noi con risolutezza abbiamo affermato, il moto della cometa dover necessariamente esser retto e perpen- dicolare alla superficie terrestre: cosa che non si è pro- posta in cotal forma, ma solo s'è messo in considerazione come questo più semplicemente, e più conforme all’ap- parenze, soddisfaceva alle mutazioni osservate in essa cometa; e tal pensiero vien tanto temperatamente pro- posto dal Sig. Mario, che nell'ultimo dice queste parole: « Però a noi conviene contentarci di quel poco che pos- siamo conghietturar cosi tra l'ombre >». Ma il Sarsi ha voluto rappresentar queste opinioni tanto più ferma- mente esser da me state credute, quanto egli si è imma- ginato di poterle con più efficaci mezi annichilare; il che se gli sarà venuto fatto, io gliene terrò obligo, perché per l'avvenire avrò a pensare a una opinion di manco, qualunque volta mi venga in pensiero di filosofar sopra tal materia. In tanto, perché mi pare che pur ancora resti qualche poco di vivo nelle conghietture del Sig. Mario, anderò facendo alcuna considerazione intorno al mo- mento delle opposizioni del Sarsi. Il quale, venendo con gran risolutezza ad oppugnar la prima conclusione, dice che a chi avesse pur una sola volta rimirata la cometa, di nissun altro argomento gli 43. - G. Galilei, Opere - II. 674 GALILEO GALILEI sarebbe stato di mestieri per conoscer la natura di cotal lume; il quale, paragonato cogli altri lumi verissimi, pur troppo apertamente mostrava sé esser vero, e non finto. Si che, come vede V. S. Illustrissima, il Sarsi confida tanto nel senso della vista, che stima impossibil cosa restar ingannato, tuttavolta che si possa far parallelo tra un oggetto finto ed un reale. Io confesso di non aver la fa- coltà distintiva tanto perfetta, ma d’esser come quella scimia che crede fermamente veder nello specchio un’altra bertuccia, né prima conosce il suo errore, che quattro 0 sei volte non sia corsa dietro allo specchio per prenderla: tanto se le rappresenta quel simulacro vivo e vero. É supposto che quegli che il Sarsi vede nello specchio non sieno uomini veri e reali, ma vani simulacri, come quelli che ci veggiamo noi altri, grande curiosità avrei di sa- pere, quali sieno quelle visuali differenze per le quali tanto speditamente distingue il vero dal finto. Io, quanto a me, mi sono mille volte ritrovato in qualche stanza a finestre serrate, e per qualche piccol foro veduto un poco di reflession di Sole fatta da un altro muro opposto, e giudicatola, quanto alla vista, una stella non men lucida della Canicola e di Venere. E caminando in campagna contro al Sole, in quante migliaia di pagliuzze, di sassetti, un poco lisci o bagnati, si vedrà la reflession del Sole in aspetto di stelle splendentissime? Sputi solamente in terra il Sarsi, ché senz'altro, dal luogo dove va la reflession del raggio solare, vedrà l’aspetto d'una stella naturalissima. In oltre, qual corpo posto in gran lontananza, venendo tocco dal Sole, non apparirà una stella, massime se sarà tanto alto che si possa veder di notte, come si veggon l’altre stelle? E chi distinguerebbe la Luna, veduta di giorno, da una nuvola tocca dal Sole, se non fusse la di- versità della figura e dell’apparente grandezza? Niuno sicuramente. E finalmente, se la semplice apparenza deve determinar dell’essenza, bisogna che il Sarsi conceda che . IL SAGGIATORE 675 i Soli, le Lune e le stelle, vedute nell'acqua ferma e negli specchi, sien veri Soli, vere Lune e vere stelle. Cangi pure il Sarsi, quanto a questa parte, opinione, né creda col citare autorità di Ticone, di Taddeo Agecio o d'altri molti, di megliorar la condizion sua, se non in quanto l'avere avuto uomini tali per compagni rende pit scusa- bile il suo errore. 20. Segua V. S. Illustrissima di leggere. Quia tamen toto eo tempore quo noster hic fulsit, Galileus, ut audio, lecto affixus ex morbo decubuit, neque ei unquam for- tasse per valetudinem licuit corpus illud pellucidum oculis intueri, aliis propterea cum illo agendum esse du- ximus argumentis. Ait igitur ipse, vaporem saepe fumidum ex aliqua Terra parte in altum supra Lunam etiam ac Solem attolli, et simul atque extra umbrosum Terra conum progressus Solis lumen aspexerit, ex illius veluti luce concipere et cometam parere; motum autem sive ascensum vaporis huiusmodi, non vagum in- certumque, sed rectum nullamque deflectentem in partem, existere. Sic ille: at nos harum positionum pondus ad nostram trutinam referamus. Principio, materiam hanc fumidam et vaporosam per ‘eos forte dies ascendisse constat e Terra, cum, vehemen- tissimis borea flatibus toto late celo dominantibus, di- spergi facile ac disiici potuisset; ut mirum profecto sit, impune adeo tenuissimis levissimisque corpusculis licuisse inter savientis aquilonis iras constantissimo gressu, qua coperant via, in altum ferri, cum ne gravissima quidem pondera tunc aéri semel commissa eiusdem vim atque impetum superare possent. Ego vero adeo pugnare inter se existimo duo haec, vaporem levissimum ascendere, et recta ascendere, ut inter instabiles saltem aéris huius vi- cissitudines fieri id posse vix credam. Illud etiam adde, auctore Galileo, ne a sublimioribus quidem illis plane- tarum regionibus abesse concretiones’ ac rarefactiones 676 GALILEO GALILEI huiusmodi corporum fumidorum, ac proinde nec motus illos vagos incertosque, quibus eadem ferri necesse est. Che vapori fumidi da qualche parte della Terra sor- montino sopra la Luna, ed anco sopra il Sole, e che usciti fuori del cono dell’ombra terrestre sieno dal raggio solare ingravidati e quindi partoriscano la cometa, non è mai stato scritto dal Sig. Mario né detto da me, ben che il Sarsi me l’attribuisca. Quello che ha scritto il Sig. Mario è, che non ha per impossibile che tal volta possano ele- varsi dalla Terra essalazioni ed altre cose tali, ma tanto più sottili del consueto, che ascendano anco sopra la Luna, e possano esser materia per formar la cometa; e che talora si facciano sublimazioni fuor del consueto della materia de’ crepuscoli, l’essemplifica per quella bo- reale aurora; ma non dice già che quella sia in numero la medesima materia delle comete, la qual è necessario che sia assai più rara e sottile che i vapori crepuscolini e che quella materia della detta aurora boreale, atteso che la cometa risplende meno assai dell'aurora; si che se la cometa si distendesse, v. g., lungo l’oriente nel candor dell'alba, mentre il Sole non fusse lontano dall’orizonte più di sei o vero otto gradi, ella senza dubbio non si di- scernerebbe, per esser manco lucida del campo suo am- biente. E coll’istessa, non risolutezza, ma probabilità si è attribuito il moto retto in su alla medesima materia. È questo sia detto non per ritirarci, per paura che ci fac- ciano l’oppugnazioni del Sarsi, ma solo perché si vegga che noi non ci allontaniamo dal nostro costume, ch'è di non affermar per certe se non le cose che noi sappiamo indubitatamente, ché cosi c'insegna la nostra filosofia e le nostre matematiche. Or, posto che noi abbiamo detto come c'impone il Sarsi, sentiamo ed essaminiamo le sue opposizioni È la sua prima instanza fondata sopra l’impossibilità del salir vapori per linea retta verso il cielo mentre im- IL SAGGIATORE 677 petuoso aquilone di traverso spinge l’aria e ciò che per entro lei si ritrova; e tale si senti egli per molti giorni appresso all’apparir della cometa. L’instanza veramente è ingegnosa; ma ‘le vien tolto assai di forza da alcuni avvisi sicuri, per li quali s'ebbe che in quei giorni né in Persia né in China fu perturbazione alcuna di venti: ed io crederò che d’una di quelle regioni si elevasse la ma- teria della cometa, se il Sarsi non mi prova ch'ella si movesse non di la, ma di Roma, dov'egli senti l’impeto boreale. Ma quando ben anco il vapore si fusse partito d'Italia, chi sa ch’ei non si mettesse in viaggio avanti i giorni ventosi, de i quali ne fusser passati poi molti avanti il suo arrivo all’orbe cometario, lontano dalla Terra, per relazion del Maestro del Sarsi, 470.000 miglia in circa: ché pure a far tanto viaggio ci vuol del tempo, e non poco, perché l’ascender de’ vapori, per quel che si vede qui vicini a Terra, non arriva alla velocità del volo degli uccelli a gran pezzo, si che non basterebbe il tempo di quattro anni a far tanto viaggio. Ma dato anco che tali vapori sì movessero in tempo ventoso, egli, che presta intera fede a gl’istorici ed a’ poeti ancora, non dovrà ne- gare che la commozion de’ venti non ascenda pit di due o tre miglia in alto, già che vi son monti la cima de’ quali trascende la region ventosa; sf che il piti che possa concludere sara che dentro a tale spazio vadano i vapori non perpendicolarmente, ma trasversalmente fluttuando: ma fuor di tale spazio cessa l’impedimento che dal camin retto gli disvia. 21. Séguiti ora V. S. Ilustrissima. (fum argumentum). Sed demus, licuisse per ventos halitibus hisce coeptum semel cursum tenere, eoque contendere ubi Solis radios et directos excipere ac repercussos remittere ad nos possent. Cur ibi demum, cum se totis totum plane exci- piuni Phobum, parte sui tantum minima eumdem nobis ostendunt? Sane, vel ipso Galileo teste, cum 678 GALILEO GALILEI per cestivos dies non absimilis vapor, ad septemtrionem forte solito altius provectus, Soli se spectandum obiecerit, tunc enimvero, clarissimo perfusus lumine, candidissimum omni se ex parte exhibet, atque, ut eius verbis utar, bo- realem nobis, nocturnis etiam in tenebris, auroram refert; nec mutuati splendoris adeo se avarum prabet, ut, cum toto hauserit Solem sinu, vix una illum e rimula ad nos relabi patiatur. Vidi egomet, non per astivum tantum tempus, sed Ianuario mense, quatuor post Solis occasum horis, quod admirabilius est, vertici fere imminentem, candido ac fulgenti habitu, nubeculam adeo raram, ut ne minimas quidem stellas velaret; at illa etiam, quae a Sole acceperat lucis dona, largo apertoque sinu liberalissime undique profundebat. Nubes denique omnes (si quam tamen ille cum cometarum materia affinitatem servanti), si dense adeo fuerint atque opaca ut Solis radios libere non transmittant, ea saltem parte qua Solem respiciunt, eumdem ad nos reciproca liberalitate reflectunt; at si rara ac tenues sint, easque facile lux omni ex parte per- vadat, nulla se parte tenebricosas ostendunt, sed clarissimo undique perfusas lumine spectandas offerunt. Si igitur cometa non ex alia elucet materia quam ex vaporibus huiusmodi fumidis, non in unum veluti globum coactis, sed, ut ipse ait, satis amplum cei spatium occupantibus omnique ex parte Solis luce fulgentibus, quid tandem cause est, cur ex angusto tantum brevique orbiculo spectantibus semper affulgeat, neque reliqua vaporis eiusdem partes, pari a Sole lumine illusirata, unquam compareant? Neque facile id iridis exemplo solvitur, in cuius productione idem contingit, ut videlicet ex una tantum nubis parte ad oculum relabatur, cum tamen in toto spatio a Sole illustrato eadem colorum diversitas eiusdem lumine procreetur. Illa enim, et si qua alia huius- modi sunt, roridam potius humentemque requirunt ma- teriam et iam in aquam abeuntem; hac siquidem materia IL SAGGIATORE 679 tunc solum cum in aquam solvitur, levium ac politorum corporum perspicuorumque naturam imitata, ca tantum ex parte qua anguli reflexionum refractionumque, ad id requisiti, fiunt, lumen remittit, ut experimur in speculis, aquis ac pilis cristallinis. Si qui vero halitus rariores ac sicciores extiterint, hi neque laevem habent superficiem, ut specula, neque multam radiorum refractionem efficiunt. Cum igitur ad reflexiones corporis lavitas, ad refractiones vero cum perspicuo densitas, requiratur (quae omnia nunquam in meteorologicis impressionibus habentur, nisi cum earum materia aqua multum habuerit, ut non Ari- stoteles modo, sed opticae etiam magistri omnes docue- runt, ac ratio ipsa efficacius persuadet), hinc necessario sequitur, huiusmodi halitus graviores natura sua futuros, ac proinde minus aplos qui supra Lunam etiam ac Solem ascendant, cum vel Galileus ipse fateatur, tenues valde ac leves esse eos debere, qui co usque evolant. Non ergo ex vapore illo fumido ac raro, et nullius revera ponderis, revibrari ad nos poterit fulgidum illud lucis simulacrum; vapor vero aqueus, ut pote gravis, in altum ferri nulla ratione poterit. Parmi d'aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali. che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più riso- lutamente voglia discorrerne; e che, all'incontro, la mol- titudine delle cose conosciute ed intese renda pit lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità. Nacque gia in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d'uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità straordi- naria; e per suo trastullo allevandosi diversi uccelli, gu- stava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti diversi, e tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua senti un delicato suono, né potendosi immaginar 680 GALILEO GALILEI che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per pren- derlo: e venuto nella strada, trovò un pastorello, che sof- fiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a quelle d'un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che se non s'abbatteva a passar colui, egli non avrebbe mai im- parato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di po- tere incontrar qualche altra avventura. Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, senti risonarvi dentro una simil voce; e per certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch'ei teneva nella man destra, segando alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le ditf, e senz'altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi participa dell'ingegno e della cu- riosità che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto inopinati, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potes- sero essere in natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato, e s'accorse che il suono era uscito dagli arpioni e dalle bandelle nell’aprir la porta? Un'altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un'osteria, e credendo d’aver a veder uno che coll’ar- chetto toccasse leggiermente le corde d’un violino, vide uno che fregando il polpastrello d'un dito sopra l'orlo d'un bicchiero, ne cavava soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano IL SAGGIATORE 681 voci interrotte, ma col velocissimo batter dell’ali rende- vano un suono perpetuo, quanto crebbe in esso lo stu- pore, tanto si scemò l'opinione ch'egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l’esperienze già vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli, gia che non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili cosi dolci e sonori. Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro che, so- spesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono; quando, dico, ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi pit che mai rinvolto nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago pit a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sî che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che do- mandato come si generavano i suoni, generosamente ri- spondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili. Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inesco- gitabili da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità; onde se io non saperò precisamente 44. - G. Galilei, Opere - II, 682 GALILEO GALILEI determinar la maniera della produzzion della cometa, non mi dovrà esser negata la scusa, e tanto più quant'io non mi son mai arrogato di poter ciò fare, conoscendo potere essere ch’ella si faccia in alcun modo lontano da ogni nostra immaginazione; e la difficoltà dell'intendere come si formi il canto della cicala, mentr'ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa. Fermandomi dunque su la prima in- tenzione del Sig. Mario e mia, ch'è di promuover quelle dubitazioni che ci è paruto che rendano incerte l’opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna considerazione di nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia cosa che possa in alcun modo arrecar qualche lume ed age- volar la strada al ritrovamento del vero, anderò segui- tando di considerar l’opposizioni fatteci dal Sarsi, per le quali i nostri pensieri gli sono paruti improbabili. Procedendo egli adunque avanti e concedendoci che, quando pur non fusse conteso a i vapori, o altra materia atta al formar la cometa, il sollevarsi da Terra ed ascen- dere in parti altissime, dove direttamente potesse ricevere i raggi solari e reflettergli a noi, muove difficoltà in qual modo, venendo illuminata tutta, da una sola sua parti- cella venga poi fatta a noi la reflessione, e non faccia come quei vapori che ci rappresentano quella intempe- stiva aurora boreale, i quali, si come tutti s'illuminano, tutti ancora luminosi ci si dimostrano; ed appresso sog- giunge, aver veduto verso la meza notte cosa più mera- vigliosa, cioè una nuvoletta verso il vertice, la quale, si come tutta era illuminata, cosi da ogni sua parte libera- lissimamente ci rimandava lo splendore; e le nuvole tutte (segu’egli), se saranno dense ed opache, ci rendono il lume del Sole da tutta quella parte che da esso ven- gono vedute; ma se saranno rare, sf che il lume le pe- netri, ci si mostrano tutte lucide, ed in niuna parte tenebrose; se dunque la cometa non si forma in altra IL SAGGIATORE 685 materia che in simili vapori fumidi largamente distesi, come dice il Sig. Mario, e non raccolti in figura sferica, essendo da ogni lor parte tocchi dal Sole, per qual ca- gione da un sol piccolo globetto, e non dal resto, benché egualmente illuminato, ci vien fatta la reflessione? Ancor che le soluzioni di queste instanze sieno a pien distese nel Discorso del Sig. Mario, nientedimeno l’anderò qui replicando e disponendole a’ luoghi loro, coll’aggiunta di qualch’altra considerazione, secondo che l’opposizioni di passo in passo mi faranno sovvenire. E prima, non dovrebbe aver difficoltà veruna il Sarsi nel conceder che da un luogo particolare solamente di tutta la materia sublimata per la cometa si possa far la reflessione del lume del Sole alla vista d’un particolare, benché tutta sia egualmente illuminata; avvenga che noi ne abbiamo mille simili esperienze in favore, per una che paia essere in contrario, e facilmente di quelle prodotte dal Sarsi come contrarianti a tal posizione ne troveremo la maggior parte esser favorevoli. Già non è dubbio, che di qualsivoglia specchio piano esposto al Sole tutta la superficie è da quello illuminata; il simile è di qualsi- voglia stagno, lago, fiume, mare, ed in somma d'ogni su- perficie tersa e liscia, di qualunque corpo ella si sia: nulladimeno all'occhio d’un particolare non si fa la re- flession del raggio solare se non da un luogo partico- lare d’essa superficie, il qual luogo si va mutando alla mutazion dell'occhio riguardante. L’esterna superficie di sottili ma per grande spazio distese nuvole, è tutta egual- mente illuminata dal Sole; tuttavia l’alone ed i parelii non si mostrano ad un occhio particolare se non in un luogo solo, e questo parimente al movimento dell’occhio va mutando sito in essa nuvola. Dice il Sarsi: « Quella sottil materia sublimata che rende talvolta quella boreale aurora, si vede pur, qual ella è in fatto, illuminata tutta». Ma io domando al 684 GALILEO GALILEI Sarsi, onde egli abbia questa certezza. Ed egli non mi può rispondere altro, se non che ei non vede parte alcuna che non sia illuminata, si com'ei vede il resto della su- perficie degli specchi, dell’acque, de’ marmi, oltr’a quella particella che ci rende la reflession viva del raggio so- lare. Sf, ma io l’avvertisco che quando la materia fusse in colore simile al resto dell'ambiente, o vero fusse tra- sparente, ei non distinguerebbe altro che quel solo splen- dido raggio reflesso, come accade talvolta che la superficie del mare non si distingue dall'aria, e pur si vede l’im- magine reflessa del Sole; e cosî, posto un sottil vetro in qualche lontananza, ci potrà mostrar di sé quella sola particella in cui si fa la reflessione di qualche lume, ri- manendo il resto invisibile per la sua trasparenza. Questo del Sarsi è simil all’error di coloro che dicono che nessun delinquente deve mai confidarsi che il suo delitto sia per restare occulto, né s'accorgono dell’incompatibilità ch'è tra 1 restar occulto e l’essere scoperto, e che senz'altro chi volesse tener due registri, uno de’ delitti che restano occulti, e l’altro di quelli che si manifestano, in quel degli occulti non ci verrebbe mai registrato e notato cosa ve- runa. Vengo dunque a dir, che senza repugnanza alcuna posso credere che la materia di quella boreale aurora si distenda in ispazio grandissimo e sia tutta egualmente illuminata dal Sole; ma perché a me non si scopre e fa visibile se non quella parte onde vien all'occhio mio la refrazzione, restando tutto il rimanente invisibile, però mi par di vedere il tutto. Ma che più? De’ vapori crepu- scolini, che circondano tutta la Terra, non è egli sempre egualmente illuminato uno emisferio da’ raggi solari? Certo si; tuttavia quella parte che direttamente s’inter- pone tra ’1 Sole e noi, ci si mostra più luminosa assai delle parti pifi lontane: e questa, come l'altre ancora, è una pura apparenza ed illusion dell'occhio nostro, av- venga che, siamo noi in qualsivoglia luogo, sempre veg- Rees | IL SAGGIATORE 685 giamo il corpo solare come centro d’un cerchio luminoso, ma che di grado in grado va perdendo di splendore se- condo ch'è più remoto da esso centro a destra o a sinistra; ma ad altri più verso borea quella parte che a me è più chiara apparisce più fosca, e più lucida quella che a me sì rappresentava più oscura; si che noi possiamo dire d'avere un perpetuo e grande alone intorno al Sole, figu- rato nella convessa superficie che termina la sfera vapo- rosa, il quale alone, nel modo stesso dell’altro che talora si forma in una sottil nuvola, si va mutando di luogo secondo la mutazion del riguardante. Quanto alla nuvo- letta che ’l Sarsi afferma aver veduta tutta lucida nella profonda notte, lo potrei parimente interrogare, qual certezza egli abbia ch’ella non fusse maggior di quella ch’ei vedeva, e massime dicendo egli ch’ella era in modo trasparente, che non celava le stelle fisse, ancor che mi- nime, perloché niuno indizio gli poteva rimanere onde potesse assicurarsi, quella non distendersi invisibilmente, come trasparentissima, molto e molto oltre a’ termini della parte lucida veduta: e però resta dubbio se essa ancora fusse una dell’apparenze, la quale alla mutazion di luogo dell’occhîo, come l’altre, s’andasse mutando. Oltre che non repugna ch’ella potesse apparir luminosa tutta, ed esser nondimeno una illusione, il che accade- rebbe quand’ella non fusse maggior di quello spazio che viene occupato dall'immagine del Sole, in quel modo che se, vedendo il simulacro del Sole occupar, v. g., in uno specchio tanto spazio quant'è un’ugna, noi tagliassimo via il rimanente, ché non ha dubbio alcuno che questo piccolo specchietto potrà apparirci lucido tutto. Ma di più ancora, quando lo specchietto fusse minore del simu- lacro, allora non solamente si potrebbe vedere illumi- nato tutto, ma il simulacro in lui non ad ogni movimento dell'occhio apparirebbe esso ancora muoversi, com’ei fa nello specchio grande; anzi, per essere egli incapace di 686 GALILEO GALILEI tutta l’immagine del Sole, seguirebbe che, movendosi l'occhio, vederebbe la reflession fatta or da una ed or da un’altra parte del disco solare; e cosi l'immagine par- rebbe immobile, sin che venendo l'occhio verso la parte dove non si dirizza la reflessione, ella del tutto si perde- rebbe. Assaissimo, dunque, importa il considerar la gran- dezza e qualità della superficie nella quale si fa la reflessione; perché, secondo che la superficie sarà men tersa, l’immagine del medesimo oggetto vi si rappresen- terà maggiore e maggiore, si che talvolta, avanti che l’immagine trapassi tutto lo specchio, molto spazio con- verrà che cammini l'occhio, ed essa immagine apparirà fissa, se ben realmente sar4 mobile. E per meglio dichiararmi in un punto importantis- simo e che forse, non dirò al Sarsi, ma a qualunqu’altro sopraggiungerà pensier nuovo, si figuri V. S. Illustrissima d'esser lungo la marina in tempo ch'ella sia tranquillis- sima, ed il Sole già declinante verso l’occaso: vederà nella superficie del mare ch'è intorno al verticale che passa per lo disco solare, il reflesso del Sole lucidissimo, ma non allargato per molto spazio; anzi, se, come ho detto, l’acqua sarà quietissima, vederà la pura immagine del disco solare, terminata come in uno specchio. Co- minci poi un leggier venticello a increspare la superficie dell’acqua: comincerà nell’istesso tempo a veder V. S. Il- lustrissima il simulacro del Sole rompersi in molte parti, ma allargarsi e diffondersi in maggiore spazio; e benché, mentre ella fosse vicina, potrebbe distinguer l’un dal- l’altro de i pezzi del simulacro rotto, tuttavia da maggior lontananza non vederebbe tal separazione, si per l’an- gustia degl’intervalli tra pezzo e pezzo, si pel gran fulgor delle parti splendenti, che insieme s'anderebbono mesco- lando e facendo l’istesso che molti fuochi tra sé vicini, che di lontano appariscono un solo. Cresca in onde mag- giori e maggiori l’increspamento: sempre per intervalli IL SAGGIATORE 6827 più e più larghi si distenderà la moltitudine degli specchi, da’ quali, secondo le diverse inclinazioni dell’onde, si re- fletterà verso l'occhio l’immagine del Sole spezzata. Ma recandosi in distanze maggiori e maggiori, e per poter meglio scoprire il mare montando sopra colline o altre eminenze, un solo e continuato parrà il campo lucido: ed io mi sono incontrato a veder da una montagna al- tissima e lontana dal mar di Livorno sessanta miglia, in tempo sereno ma ventoso, un'ora in circa avanti il tra- montar del Sole, una striscia lucidissima diffusa a destra ed a sinistra del Sole, la quale in lunghezza occupava molte decine e forse ancor qualche centinaio di miglia, la quale però era una medesima reflessione, come l’altre, della luce del Sole. Ora s'immagini il Sarsi che della su- perficie del mare, ritenendo il medesimo increspamento, se ne fusse rimosso verso gli estremi gran parte, e la- sciatone solamente verso il mezo, cioè incontro al Sole, una lunghezza di due o tre miglia: questa sicuramente si sarebbe veduta tutta illuminata, ed anco non mobile ad ogni mutazion che il riguardante avesse fatto a questa o a quella mano, se non dopo essersi mosso forse per qualche miglio, ché allora comincerebbe a perdersi la parte sinistra del simulacro, s'egli caminasse alla destra, e l’imagine splendida si verrebbe restringendo, sin che, fatta sottilissima, del tutto svanirebbe. Ma non perciò resta che il simulacro non sia mobile al moto del riguar- dante, anzi, pur vedendolo tutto, tutto lo vederemmo ancor muovere, attalché il suo mezo risponderebbe sempre alla drittura del Sole, il quale ad altri ed altri che nel medesimo momento lo rimirano, risponde ad altri e ad altri punti dell’orizonte. Io non voglio tacere a V. S. Illustrissima in questo luogo quello che mi è sovvenuto per la soluzion d’un pro- blema marinaresco. Conoscono talora i marinari esperti il vento che da qualche parte del mare dopo non molto 688 GALILEO GALILEI intervallo è per sopragiunger loro, e di questo dicono esser argomento sicuro il veder l’aria, verso quella parte, più chiara di quel che per consueto dovrebbe essere. Or pensi V. S. Illustrissima se ciò potesse derivare dall’esser di gia in quella parte il vento in campo, e commosse l’onde, dalle quali nascendo, come da specchi moltipli- cati a molti doppi e diffusi per grande spazio, la reflession del Sole assai maggiore che se ’1 mare vi fusse in bo- naccia, possa da questa nuova luce esser maggiormente illuminata quella parte dell’aria vaporosa per la quale tal reflession si diffonde, la qual, come sublime, renda ancora qualche reflesso di lume agli occhi de’ marinari, a’ quali, per esser bassi, non poteva venir la primaria reflession di quella parte di mare di già increspato da’ venti e lontana per avventura, da loro, venti o trenta o più miglia; e che questo sia il lor vedere o prevedere il vento da lontano. Ma seguitando il nostro primo concetto, dico che non in tutte le materie, o vogliamo dire in tutte le superficie, stampano i raggi solari l’immagine del Sole della mede- sima grandezza; ma-in alcune (e queste sono le piane e lisce come uno specchio) ci si mostra il disco solare terminato ed eguale al vero, nelle convesse pur lisce ci apparisce minore, e nelle concave talor minore, talor maggiore, ed anco talvolta eguale, secondo le diverse distanze tra lo specchio e l’oggetto e l'occhio. Ma se la superficie sarà non eguale, ma sinuosa e piena d’eminenze e cavità, e come se dicessimo composta di gran moltitu- dine di piccoli specchietti locati in varie inclinazioni, in mille e mille modi esposte all’occhio, allora l’istessa im- magine del Sole da mille e mille parti, ed in mille e mille pezzi divisa, verrà all'occhio nostro, i quali per grande ispazio s'allargheranno, stampando in essa super- ficie un ampio aggregato di moltissime piazzette lucide, la frequenza delle quali fara che da lontano apparirà un —_— —t_ au rr TtTddA@a o = Wi TIRES __——__——_——_—-—--—»—>-—»220R0£@1xAÀA+yF/'!t. — ilw.i!..__r_r_Adtr.rr-u&bhororb&_loioo IL SAGGIATORE 689 sol campo sparso di luce continuata, più gagliarda e viva nel mezo che verso gli estremi, dov'ella va languendo, e finalmente sfumando svanisce, quando per l’obliquità del- l'occhio ad essa superficie i raggi visivi non trovano più onde reflettersi verso il Sole. Questo gran simulacro è esso ancora mobile al movimento dell'occhio, pur che oltre a i suoi termini si vada continuando la superficie dove si fanno le reflessioni: ma se la quantità della ma- teria occuperà piccolo spazio, e minore assai di quello del simulacro intero, potrà accadere che, restando la ma- teria fissa e movendosi l’occhio, ella continui ad apparer lucida, sin che pervenuto l'occhio a quel termine dal quale, per l’obliquità de’ raggi incidenti sopra essa ma- teria, le reflessioni non si dirizzano più verso il Sole, la luce svanisce e si perde. Ora io dico al Sarsi che quando ei vede una nuvola sospesa in aria, terminata e tutta lucida, la quale resta ancor tale benché l'occhio per qualche spazio si vada mutando di luogo, non perciò si tenga sicuro, quella illuminazione esser cosa più reale di quella dell’alone, de’ parelii, dell’iride e della reflession nella superficie del mare; perché io gli dico che la sua consistenza ed apparente stabilità può dependere dalla piccolezza della nuvola, la quale non è capace di rice- vere tutta la grandezza del simulacro del Sole; il qual simulacro, rispetto alla posizion delle parti della super- ficie di essa nuvola, s'allargherebbe, quando non gli man- casse la materia, per ispazio molte e molte volte maggiore della nuvola, ed allora quando si vedesse intero e che oltre di lui avanzasse altro campo di nubi, dico che al movimento dell'occhio esso ancora cosi intero s'ande- rebbe movendo. Argomento necessario ci sia di ciò il veder noi spessissime volte, nel nascere o nel tramontar del Sole, molte nuvolette sospese vicino all’orizonte, delle quali quelle che son vicine all'incontro del Sole si mostrano splendentissime e quasi di finissimo oro, del- 690 GALILEO GALILEI l’altre laterali le men remote dal mezo lucide esse ancora più delle più lontane, le quali di grado in grado ci si vanno dimostrando men chiare, si che finalmente delle molto remote lo splendore è quasi nullo: dico nullo a noi, ma a chi fusse in tal sito che queste restassero in- terposte tra l'occhio suo e ’1 luogo dell’occaso del Sole, lucidissime se gli mostrerebbono, ed oscure le nostre più risplendenti. Intenda dunque il Sarsi, che quando le nubi non fussero spezzate, ma una lunghissima distesa e con- tinuata, accaderebbe che a ciaschedun riguardante la parte sua di mezo apparisse lucidissima, e le laterali di grado in grado, secondo la lontananza dal suo mezo, men chiare, si che dove a me comparisce il colmo dello splen- dore, ad altri è il fine ed ultimo termine. Ma qui potrebbe dir alcuno che, gia che quel pezzo di nube riman fisso, ed il lume in esso non si vede andar movendo alla mutazione di luogo del riguardante, questo basta a far che la paralasse operi nel determinar della sua altezza, e che però, potendo accader l’istesso della cometa, l’uso della paralasse resti atto al bisogno di chi cerchi dimostrare il suo luogo. A questo si risponde che ciò sarebbe vero quando si fusse prima dimostrato che la cometa fusse non un intero simulacro del Sole, ma un pezzo solamente, si che la materia in cui si forma la cometa fusse non solamente illuminata tutta, ma che ‘’l simulacro del Sole eccedesse dalle bande, in modo ch'ei fusse bastante ad illuminar campo assai maggiore, quando vi fusse materia disposta alla reflession del lume; il che non solamente non s'è dimostrato, ma si può molto ra- gionevolmente creder l’opposito, cioè che la cometa sia un simulacro intero, e non mutilato e tronco, che cosî ne persuade la sua figura regolata e con bella simmetria disegnata. E di qui si può trar facile ed accommodata risposta all’instanza che fa il Sarsi, mentre mi do- manda come possa essere che, figurandosi, per detto del —_— Ei __ IL SAGGIATORE 691 Sig. Mario, la cometa in una materia distesa per grande spazio in alto, ella non s'illumini tutta, ma ci rimandi solo da un piccolo cerchietto la reflessione, senza che l’altre parti, pur viste dal Sole, compariscano già mai. Imperò che io farò la medesima interrogazione ad esso o al suo Maestro, il quale non volendo che la cometa sia un incendio, ma inclinando a credere (sio non erro) ch’almeno la sua coda sia una refrazzione de’ raggi so- lari, io gli domanderò s'ei credono che la materia nella quale si fa tal refrazzione sia tagliata appunto alla misura d’essa chioma, o pur che di qua e di là e d’ogn'intorno ve n’avanzi; e se ve n’avanza (come credo che sarà ri- sposto), perché non si vede, essendo tocca dal Sole? Qui non si può dire che la refrazzione si faccia nella sostanza dell'etere, la quale, come diafanissima, non è potente a ciò dare, né meno in altra materia, la quale, quando fusse atta a rifrangere, sarebbe ancor atta a reflettere i raggi solari. In oltre, io non so con qual ragione chiami ora un piccolo cerchietto il capo della cometa, il quale con sottili calcoli il suo Maestro ha ritrovato contenere 87127 miglia quadre, che forse nessuria nuvola arriva a tanta grandezza. Segue il Sarsi, ed ad imitazion di colui che per un pezzo ebbe opinion che ’1 suono non si potesse produrre se non in un modo solo, dice non esser possibile che la cometa si generi per reflessione in quei vapori fumidi, e che l’essempio dell’iride non agevola la difficoltà, se ben essa veramente è una illusion della vista: imperocché la procreazion dell’iride e d’altre simili cose ricercano una materia umida e che già si vada risolvendo in acqua, la quale allora solamente, imitando la natura de’ corpi lisci e tersi, reflette il lume da quella parte dove si fanno gli angoli della reflessione e della refrazzione, che a tale ef- fetto si ricercano, come accade negli specchi, nell'acqua e nelle palle di cristallo; ma in altri rari e secchi, non 692 GALILEO GALILEI avendo la superficie liscia come gli specchi, non si fa molta refrazzione: ricercandosi, dunque, per questi effetti una materia acquosa, ed in conseguenza grave assai ed inabile a salir sopra la Luna ed il Sole, dove non possono salire (anco per mio parere) se non essalazioni leggeris- sime, adunque la cometa non può esser prodotta da tali vapori fumidi. Risposta Sofficiente a tutto questo discorso sarebbe il dire come il Sig. Mario non si è mai ristretto a dir qual sia la materia precisa nella quale si forma la cometa, né s’ella sia umida né fumosa né secca né liscia, e so ch'egli non si arrossirà a dire di non la sapere; ma vedendo come in vapori, in nuvole rare e non acquose, ed in quelle che già si risolvono in minute gocciole, nel- l’acque stagnanti, negli specchi ed altre materie, si figu- rano per reflessi e refrazzioni molto varie illusioni di simulacri diversi, ha stimato di non essere impossibile che in natura sia ancora una materia proporzionata a renderci un altro simulacro diverso dagli altri, e che questo sia la cometa. Tal risposta, dico, è adeguatissima all’instanza, quando anco ciascuna parte d’essa instanza fusse vera: tuttavia il desiderio (com’altre volte ho detto) d’agevolar, per quanto m'è conceduto, la strada all’inve- stigazion di qualche vero, m’induce a far alcuna conside- razione sopra certi particolari contenuti in esso discorso. E prima, è vero che in uno effluvio di minutissime stille d’acqua si fa l’illusion dell’iride, ma non credo già che, pel converso, simile illusione non possa farsi senza tale effluvio. Il prisma triangolare cristallino, appressato a gli occhi, ci rappresenta tutti gli oggetti tinti de’ colori dell’iride; molte volte si vede l’iride in nubi asciutte, e senza che pioggia veruna discenda in terra. Non si veg- gono le medesime illusioni di colori diversi nelle piume di molti uccelli, mentre il Sole in varie maniere le fe- risce? Ma che più? Direi al Sarsi cosa forse nuova, se cosa nuova se gli potesse dire. Prenda egli qualsivoglia IL SAGGIATORE © 693 materia, o sia pietra o sia legno o sia metallo, e tenendola al Sole, attentissimamente la rimiri, ch'egli vi vederà tutti i colori compartiti in minutissime particelle; e s'ei si servirà, per riguardargli, d'un telescopio accommodato per veder gli oggetti vicinissimi, assai più distintamente vederà quant’'io dico, senza verun bisogno che quei corpi si risolvano in rugiada o in vapori umidi. In oltre, quelle i nuvolette che ne’ crepuscoli si mostrano lucidissime, e ci fanno una reflession del lume del Sole tanto viva che quasi ci abbaglia, sono delle più rare asciutte e sterili che sieno in aria, e quelle che sono umide, quanto più ‘son pregne d’acqua, tanto più si dimostrano oscure. L’alone e i parelii si fanno senza piogge e senza umido nelle piî rare ed asciutte nuvole, o più tosto caligini, che sieno in aria. Secondo, è vero che le superficie terse e ben lisce, come quelle degli specchi, ci rendono una gagliarda re- flession del lume del Sole, e tale ch'appena la possiamo rimirar senza offesa; ma è anco vero che da superficie non tanto terse si fa la reflessione, ma men potente, se- condo che la pulitezza sarà minore. Vegga ora V. S. Il- lustrissima, se lo splendore della cometa è di quegli ch’'abbagliano la vista, o pur di quegli che per la lor debolezza non offendon punto; e da questo giudichi, se per produrlo sia necessaria una superficie somigliante a quella d’uno specchio, o pure basti un'assai men tersa. Io vorrei mostrar al Sarsi un modo di rappresentare una reflession simile assai alla cometa. Prenda V. S. Ilustris- sima una boccia di vetro ben .netta, ed avendo una can- dela accesa, non molto lontana dal vaso, vederà nella sua superficie un'immagine piccolina d’esso lume, molto chiara e terminata: presa poi colla punta del dito una minima quantità di qualsivoglia materia che abbia un poco di untuosità, si che s'attacchi al vetro, vada, quanto più sottilmente può, ungendo in quella parte dove si 694 GALILEO GALILEI vede l’immagine del lume, sî che la superficie venga ad appannarsi un poco; subito vedera la detta immagine. offuscarsi: volga poi il vaso, sf che l’immagine esca del- l’untuosità e si fermi al contatto di essa, e poi dia una fregata sola per diritto col dito sopra detta parte un- tuosa; ché subito vederà derivare un raggio dritto ad imitazion della chioma della cometa, e questo raggio ta- glierà in traverso ed ad angoli retti il fregamento ch'’ella aver fatto col dito, sî che s’ella tornerà a fregar per un altro verso il detto raggio, si dirizzerà in altra parte: e questo avviene perché, avendo noi la pelle de’ polpa- strelli delle dita non liscia, ma segnata d’alcune linee tortuose ad uso del tatto per sentir le minime differenze delle cose tangibili, nel muovere il dito sopra detta su- perficie untuosa, lascia alcuni solchi sottilissimi, ne i colmi de’ quali si fanno le reflessioni del lume, ch'es- sendo molte ed ordinatamente disposte, rappresentano poi una striscia lucida; in capo della quale se si farà, col muovere il vaso, venir quella prima immagine fatta nella parte non unta, si vederà il capo della chioma più lucido, e la chioma poi alquanto meno risplendente: ed il medesimo effetto si vederà, se in vece d’ungere il vetro sappannerà coll’alitarvi sopra. Io prego V. S. Il- lustrissima che se mai le venisse accennato questo scherzo al Sarsi, se gli protesti per me largamente e specificata- mente, ch'io non intendo perciò affermar che in cielo vi sia una gran caraffa e chi col dito la vada ungendo, e cosi si faccia la cometa; ma ch'io arreco questo caso e che altri ne potrei arrecare e che forse molti altri ce ne sono in natura, inescogitabili a noi, come argomenti della sua ricchezza in modi differenti tra di loro per produrre i suoi effetti. Terzo, che la reflessione e refrazzione non si possa far da materie ed impressioni meteorologiche se non quando contengono in sé molt'acqua, perché allora sola- IL SAGGIATORE 695 mente sono di superficie lisce e terse, condizioni neces- sarie per produr tal effetto, dico non esser talmente vero, che non possa esser anco altrimenti. E quanto alla ne- cessità della pulitezza, io dico che anco senza quella si fara la reflession dell'immagine unita e distinta: dico cosi, perché la rotta e confusa si fa da tutte le superficie, quanto si voglia scabrose ed ineguali; che però quell’im- magine d'un panno colorato che distintissima si scorge in uno specchio oppostogli, confusa e rotta si vede nel muro, dal quale certo adombramento del color di esso panno ci vien solamente ripercosso. Ma se V. S. Illu- strissima piglierà una pietra o una riga di legno, non tanto liscia che ci renda direttamente l’immagini, e quella sesporrà obliquamente all’occhio, come se volesse co- noscer sella è piana e diritta, vederà distintamente sopra d’essa l’immagini de gli oggetti che fussero acco- stati all’altro capo della riga, cosi distinte che tenendovi un libro scritto, potrà commodamente leggerlo. Ma di più, sella si costituirà coll’occhio vicino all’estremità di qualche muraglia diritta ed assai lunga, prima ve- derà un perpetuo corso d’essalazioni verso il cielo, e massime quando il parete sia percorso dal Sole, per le quali tutti gli oggetti opposti appariscono tremare; dipoi, se farà che alcun dall’altro capo del muro se le vada pian piano accostando, vederà, quando le sarà assai vi- cino, uscirgli incontro l’immagine sua reflessa da quei vapori ascendenti, non punto umidi né gravi, anzi ari- dissimi e leggieri. Ma che pit? Non è ancor giunto al Sarsi il rumore che si fa, in particolare da Ticone, delle refrazzioni che si fanno nell’essalazioni e vapori che cir- condano la Terra, ancor che l’aria sia serenissima, asciut- tissima e lontanissima dalle piogge e da ogni umidità? Né mi citi, com’egli fa, l'autorità d’Aristotile e di tutti i maestri di perspettiva; perch’egli non farà altro che di- chiararmi più cauto osservatore di loro, cosa, per mio 696 GALILEO GALILEI credere, diametralmente contraria alla sua intenzione. È tanto basti in risposta al primo argomento del Sarsi: e vegniamo al secondo. 22. (2um argumentum). Quod si forte quis nihilo- minus affirmare audeat, nihil prohibere quominus vapor aqueus ac densus vi aliqua altius provehatur ab eoque refractio haec atque reflexio cometa proveniat (nullum enim aliud huic effugium patere videtur, cum longa experientia compertum sit, quo rariora corpora fuerint magisque perspicua, minus ea illuminari, saltem quoad aspectum, magis vero quo densiora et cum plus opacitatis habuerint; cum ergo cometa ingenti adeo luce fulgeret, ut stellas etiam prima magnitudinis ac planetas ipsos splendore superaret, densior eius materia atque aliqua ex. parte opacior dicenda erit: trabem enim eodem tem- pore, quod eius summa esset raritas, albicantem potius quam splendentem, nullisque radiis micantem, vidimus); verum, si densus adeo fuit vapor hic fumidus, ut lumen tam illustre atque ingens ad nos retorqueret, atque, ut Galileo placet, si satis amplam cali partem occupavit, qui tandem factum est ut stella, qua per hunc su- biectum vaporem intermicabant, nullam insolitam pate- rentur refractionem, neque minores maioresve quam antea comparerent? Certe, cum eodem tempore stella- rum cometam undique circumsistentium distantias inter se quam exactissime metiremur, nihil illas a Ty- chonicis distantiis discrepare invenimus; variari tamen stellarum magnitudines earumque distantias inter se ex interpositione vaporum huiusmodi, et experientia nos docuit, et Vitello et Halazen scriptis consignarunt. Aut igitur dicendum est, vapores hosce tenues adeo ac raros fuisse, ut. astrorum lumini nihil officerent (qui tamen cometa per refractionem luminis producendo minus apti probati iam sunt), vel, quod longe verius sit, fuisse nullos. IL SAGGIATORE 697 Molte cose son da considerarsi in questo argomento, le quali mi pare che lo snervano assai. E prima, né il Sig. Mario né io abbiamo mai ardito di dire, che vapori aquei e densi sieno stato attratti in alto a produr la cometa; onde tutta l’instanza che sopra l'impossibilità di questa posizione s'appoggia, cade e svanisce. Secondo, che i corpi meno e meno s'illuminino, quanto all'apparenza, secondo ch’ei sono più rari e perspicui, e più e pi quanto più densi, come dice il Sarsi aver per lunghe esperienze osservato, l'ho per falsissimo; e questo mi persuade un'esperienza sola, ch'è il vedere egualmente illuminata una nuvola come s’ella fusse una montagna di marmi, e pur la materia della nuvola è alquanto più rara e perspicua di quella delle montagne: onde io non veggo qual necessità abbia il Sarsi di far la materia della cometa pit densa e pit opaca di quella de’ pianeti (che cosi mi par ch’ei dica, se bene ho capita la con- struzzion delle sue parole), e tanto più, quanto io non ho per chiaro ch’ella fusse più splendida delle stelle della prima grandezza e de’ pianeti. Ma quando ben ella fusse stata tale, a che proposito introdur questa tanta densità di materia, se noi veggiamo i vapori crepuscolini risplendere assai più delle stelle e di lei? oltre a quelle nuvolette d’oro, lucide cento volte pit. Terzo, che posto che un fumido e denso vapore fusse stato quello in cui la cometa si produsse, ei ne dovesse seguir notabile discrepanza negli intervalli presi da stella a stella, come ch’ei dovessero, per causa della refrazzione per entro esso vapore, discordar da’ misurati da Ticone, e che, per l’opposito, niuna diversità vi fusse da loro os- servata nel misurargli con ogni somma esattezza; io, se devo dire il vero, ci scorgo due cose le quali grandemente mi dispiacciono. L’una è, ch'io non veggo modo di poter prestar fede al detto del Sarsi senza negarla a quel del 698 GALILEO GALILEI suo Maestro: atteso che l’uno dice d'aver loro con somma esattezza misurate le distanze tra le stelle, e l’altro inge- nuamente si scusa di non avere avuto il commodo di far tali osservazioni coll’esquisitezza che sarebbe stata di bi- sogno, per mancamento di strumenti grandi ed esatti come quelli di Ticone; per lo che si contenta anco che altri non faccia gran capitale delle sue. instrumentali osservazioni. L'altra è, ch'io non trovo via di poter dire a V. S. Illustrissima con quella modestia e riservo ch'io desidero, com'io dubito che il Sig. Sarsi non intenda per- fettamente che cosa sieno queste refrazzioni, e come e quando elle si facciano e producano loro effetti. Però ella, che lo saper4 fare colla sua infinita gentilezza, gli dica una volta, come i raggi che nel venir dall'oggetto all'occhio segano ad angoli retti la superficie di quel diafano in cui si deve far la refrazzione, non si rifran- gono altrimenti, onde la refrazzione ;non è nulla: e però le stelle verso il vertice, come quelle che mandano a noi i raggi loro perpendicolari alla superficie sferica de i vapori che circondano la Terra, non patiscono refraz- zione; ma le medesime, secondo che più e pit declinano verso l’orizonte, ed in conseguenza più e più obliqua- mente segano co’ raggi loro la detta superficie, più e più gli rifrangono, e con fallacia maggiore ci mostrano il sito loro. L’avvertisca poi, che per essere il termine di questa materia non molto alto, onde la sfera vaporosa non è molto maggiore del globo terrestre, nella cui su- perficie siamo noi, l'incidenza de’ raggi che vengono da’ punti vicini all’orizonte è molto obliqua: la qual obli- quit si farebbe sempre minore, quanto pit la superficie de’ vapori si sublimasse in alto; si che, quando ella s'ele- vasse tanto che nella sua lontananza comprendesse molti semidiametri della Terra, i raggi che da qualsivoglia punto del cielo venissero a noi, pochissimo obliqua- mente potrebbon segar la detta superficie, ma sarebbon IL SAGGIATORE 699 come se tendessero al centro della sfera, ch'è quanto a dire che fussero perpendicolari alla sua superficie. Ora, . perché il Sarsi colloca la cometa alta assai più che la Luna, ne’ vapori che in tanta altezza fussero distesi, niuna sensibile refrazzione far si dovrebbe, ed in conse- guenza niuna sensibile apparenza di diversità di sito nelle stelle fisse. Non occorre dunque che ’1 Sarsi assot- tigli altrimenti cotali vapori per iscusar la mancanza di refrazzione, e molto meno che per tal rispetto gli ri- muova del tutto. In questo medesimo errore sono incorsi alcuni, mentre si sono persuasi di poter mostrare, la so- stanza celeste non differir dalla prossima elementare, né potersi dare quella moltiplicità d’orbi, avvenga che, quando ciò fusse, gran diversità caderebbe negli appa- renti luoghi delle stelle mediante le refrazzioni fatte in tanti diafani differenti: il qual discorso è vano, perché la grandezza di essi orbi, quando ben tutti fussero diafani tra loro diversissimi, non permetterebbe alcuna refraz- zione agli occhi nostri, come riposti nell’istesso centro di essi orbi. 25. Or passiamo al terzo argomento. (3um argumen- tum). Asserit praterea Galileus, comete materiam non differre a materia illorum corpusculorum quae circa Solem certa conversione moventur, ac vulgo solares ma- culae nominantur. Non abnuo; quin illud etiam addo, eo tempore quo visus est cometa nullam per mensem inte- grum in Sole maculam inspectam, perque raro postea in eodem sordes huiusmodi observatas; ut non immerito poetarum aliquis hinc arripere occasionem ludendi possit, per eos forte dies Solem solito diligentius os lucidissi- mum aqua proluisse, cuius per calum dispersis lotura reliquiis cometam ipse conformaverit, miratusque sit po- stea clarius multo sordes suas fulgere quam stellas. Sed quid ego etiam nunc poéticas consector nugas? Ad me redeo. Sit ergo eadem cometa et solarium, ut ita loquar, 200 GALILEO GALILEI oariolarum materia: cum igitur hac, cometam paritura, recto ac perpendiculari sursum semper feratur motu, quid illud postea est quod eam circa Solem in orbem: agit, cogitque perpetuo, dum Solis vultum maculis illis deturpat, eamdem in partem per lineas ecliptica paral- lelas circumvolvi? Si enim levium natura est sursum tantummodo ferri, quid ergo vapor unus atque idem modo recta sursum agitur, modo in orbem certis adeo legibus rotatur? Ac si forte quis dixerit, hunc quidem vi sua summa semper rectissimo cursu petere, at, ubi propius ad Solem accesserit, eius nutibus obsequentem eo moveri, quo regia domini virtus annuerit, mirabor profecto dum reliqua corpora, cadem materia constantia, avide adeo Solem complectuntur, unum cometam, proxi- mum Soli naium, illud votis omnibus optasse, ut a Sole abesset quam longissime, maluisseque gelidos inter Trio- nes obscuro loco extingui, quam, cum posset, Solis inter radios Soli ipsi, obiectu corporis sui, tenebras offundere. Sed hac physica potius sunt quam mathematica. Séguita il Sarsi, come altra volta di sopra notai, d’andarsi formando conclusioni di suo arbitrio ed attri- buirle al Sig. Mario ed a me, per confutarle ed in questa guisa farci autori d’opinioni assurde e false. Il Sig. Mario per essemplificare come non è impossibile che materie tenui e sottili si sollevino assai da Terra, disse di quella boreale aurora; ma il Sarsi volse ch’egli intendesse anco, questa medesima esser la materia della cometa. Quindi a poco, non contento di questo, avendo egli stesso opi- nione che la reflession del lume non si potesse fare in altre impressioni meteorologiche fuor che nell’umide ed acquose, attribui al Sig. Mario ed a me che noi fussimo quelli che affermassimo che vapori acquosi e gravi sa- lissero in cielo a formar la cometa. Ora vuol che noi abbiamo affermato, la materia della cometa esser la me- desima che quella delle macchie solari, nominate. sola- IL SAGGIATORE 201 mente dal Sig. Mario per dichiarar com’egli stima che per entro la sostanza celeste si possano muovere, gene- rare e dissolvere alcune materie, ma non mai per af- fermar, di queste prodursi la cometa. Di qui comprenda meglio V. S. Illustrissima come la protestazion, ch'io feci di sopra, del non dire che la cometa si figurasse in un grandissimo caraffone unto, non fu ridicola né fuor di proposito. Io non ho mai affermato, la cometa e le macchie solari esser dell’istessa materia; ma mi fo intender ben ora, che quando io non temessi d’incontrar più gagliarde opposi- zioni che le prodotte in questo luogo dal Sarsi, io non mi spaventerei punto ad affermarlo ed a poterlo anco so- stenere. Egli mette una gran repugnanza nel potere essere ch'una materia sottile vada rettamente verso il corpo so- lare, e che, quivi giunta, sia poi portata in giro: ma perché non perdona egli questo assunto al Sig. Mario, ed ad Aristotile si ed a tutta la sua setta, i quali fanno ascendere il fuoco rettamente sino all’orbe lunare, e quivi poi cangiare il suo moto retto in circolare? E come fa il Sarsi a sostenere per impossibil cosa, che un legno caschi da alto perpendicolarmente in un fiume rapido, e che giunto nell'acqua cominci subito ad esser portato in giro intorno all’orbe terrestre? Pit valida sarebbe veramente l’altra instanza mossa da lui, cioè com’esser possa che, bramando tutte l’altre materie consorti della cometa d'andare avidamente ad abbracciare il Sole, ella sola l'abbia fuggito, ritirandosi verso settentrione. Questa dif- ficoltà, com'io dico, stringerebbe, se egli medesimo non l'avesse poco di sopra sciolta, quando, nel far che Apollo si lavi il viso e poi getti via la lavatura, della quale si generi la cometa, e non ci avesse dichiarato di tenere opinione che la materia delle macchie si parta dal Sole, e non vi concorra. 702 GALILEO GALILEI 24. Sentiamo ora il quarto argomento. (4um argumen- tum). Venio nunc ad opticas rationes, quibus longe pro- batur efficacius, cometam nunquam vanum spectrum fuisse, neque larvatum unquam nocturnas inter tenebras ambulasse; sed uno se omnibus loco unum eumdemque, vultu quo semper fuit, spectandum prabuisse. Qua- cunque enim ea sunt qua per refracltionem luminis appareant verius quam sint, ut iris, corona aliaque huiusmodi, ea semper lege producuntur, ut luminosum corpus, ex cuius existunt lumine, quocunque illud sese converterit, sequaci obsequentique motu consequantur. Ita iris IHL, qua, Sole existente H in horizonte A, verticem sui semi- circuli habet in H, si Sol intelli- gatur elevari ex A usque ad D, I A descendet ipsa ex opposita parte, et verticem sui arcus H ad hori- zontem inclinabit; et quo altius Sol K elevabitur, co magis iridis vertex H deprimetur: ex quo patet, camdem semper in partem iridem mopveri, in quam Sol ipse fertur. Idem observari potest in areis, coronis et pareliis: haec siquidem omnia, cum lumino- sum, a quo fiunt, certo inter- vallo coronent, ad illius etiam motum in eamdem semper partem feruntur. Idem etiam apertissime deprehenditur in imagine luminosa quam Sol, ad occasum flectens, in super- ficie maris ac fluminum for- mare solet: hac enim, quo magis a nobis Sol removetur, eo etiam abscedit magis, donec, illo occumbente, evanescat. Sit enim superficies maris visa BI, insensibiliter a plana superficie differens; IL SAGGIATORE 203 sit oculus in litore positus in A, Sol primum in F; ducantur ad D radii F D, D A, facientes angulos A DB, FDE in- cidentia et reflexionis a@quales in D; videbitur ergo lumen Solis in D. Descendat iam idem Sol Di G, atque, eadem ratione qua prius, ducantur a Sole G atque ab oculo A dua linea, facientes cum recta BE angulos incidentia et reflexio- nis aequales: ha coincident in puncto E, et non alio, ut est manifestum; lumen ergo Solis apparebit in E: et propter eamdem causam, Sole magis adhuc depresso in H, lumen apparebit in I. Contrarium vero accidit quotiescumque idem lumen a Sole oriente in aquis producitur: tunc enim sicuti Sol magis ad verticem nostrum accedit, ita et lumen specianti fit propius: prius enim, v. g., apparebit in I, secundo in E, tertio in D. Ex quibus quilibet intelligat, in eam semper partem isthac apparentia moveri, in quam luminosa ipsa, a quibus producuntur, feruntur. Cum ergo ex Solis lumine cometa sine controversia produ- catur, Solis etiam motum sequi debuit; quod si non pra- stitit, inter apparentia lumina numerandus non erit. Aio igitur, in cometa nihil unquam tale observatum fuisse. Cum enim primo quo visus est die, hoc est 29 Novembris, Sol in gradu Sagittarii 6, m. 43 reperiretur, atque ad Capricornum etiam tunc tenderet, necessario singulis se- quentibus diebus usque ad 22 Decembris in quocumque verticali depressior fieri debuit; et si motus hic atten- datur, Sol ab aquatore magis et magis in austrum mo- vebatur; quare si de genere refractorum luminum aut repercussorum fuit cometa, in austrum etiam ferri debuit: a quo tamen motu tantum abfuit, ut in septentrionem potius tendere voluerit; ut fortasse vel ex hoc suam Ga- lileo testaretur libertatem, doceretque nihil se amplius 704 GALILEO GALILEI a Sole habuisse, quam homines habeant in eiusdem Solis luce ambulantes et, quo sua illos libido impulerit, libere contendentes. Quod si quis forte hoc loco aliam aliquam reflexionis refractionisve regulam a superioribus diversam invexerit, quam cometis tribuendam, nescio qua occulta prerogativa, existimet; illud saltem statuendum est, ut, quam semel admiserit motus regulam, servet postea exacte. Sit igitur, quando hoc aliquis vult, ut. libet. Fuerit cometarum, non Solis motu moveri, sed contrario; ut proinde dum hic in austrum tenderet, illi in septen- trionem aufugerent: debuerant ergo iidem illi, Sole ad sep- tentrionem redeunte, in austrum contra, propter eamdem rationem, moveri. Cum ergo a die 22 Decembris, hoc est a solstitio brumali, in septentrionem iterum Sol regrede- retur, debuit noster cometa in austrum contra, unde di- scesserat, remeare: hic tamen constantissime eundem semper motus tenorem in septentrionem servavit: ex quo satis constare potest, nullam cum Solis motu cognationem habuisse incessum cometa, cum, sive in hanc sive in illam partem moveretur Sol, eadem ille, qua primum coperat, semita progrederetur. Qual sia stato il momento de’ passati tre argomenti, si è veduto sin qui; il quale credo che anco l’istesso Sarsi non abbia reputato molto, per esser discorsi fisici, onde egli stesso nomina e stima i seguenti, presi dalle dimo- strazioni ottiche, di gran lunga più concludenti e più efficaci de’ passati: indizio manifesto di non aver avuto l’intera sua soddisfazzione in quei progressi naturali. Ma avvertisca bene al caso suo, e consideri che per uno che voglia persuader cosa, se non falsa, almeno assai dub- biosa, di gran vantaggio è il potersi servire d'argomenti probabili, di conghietture, d’essempi, di verisimili ed anco di sofismi, fortificandosi appresso e ben trinceran- dosi con testi chiari, con autorità d’altri filosofi, di na- turalisti, di rettorici e d’istorici: ma quel ridursi alla { It] PIA VAFIREA VICINI EREER ITAVIATIA LE LLRILILLII ISIN TARE MAI ietiin L'A PALLI ALLO pririrziizii ij IU iii GIUSEPPE CALENDI: GALILEO GALILEI DALLA “VITA E COMMERCIO LETTERARIO DI G. GALILEI ” DI G. B. CLEMENTE DE’ NELLI IL SAGGIATORE 705 severità di geometriche dimostrazioni è troppo pericoloso cimento per chi non le sa ben maneggiare; imperocché, si come ex parte rei non si dà mezo tra il vero e ’l falso, cosî nelle dimostrazioni necessarie o indubitabilmente si conclude o inescusabilmente si paralogiza, senza lasciarsi campo di poter con limitazioni, con distinzioni, con istor- cimenti di parole o con altre girandole sostenersi più in piede, ima è forza in brevi parole ed al primo assalto restare o Cesare o niente. Questa geometrica strettezza fara ch'io con brevità e con minor tedio di V. S. Illu- strissima mi potrò dalle seguenti prove distrigare; le quali io chiamerò ottiche o geometriche più per secondare il Sarsi, che perché io ci ritrovi dentro, dalle figure in poi, molta prospettiva o geometria. È, come V. S. Illustrissima vede, l’intenzion del Sarsi, in questo quarto argomento, di concludere che la cometa non sia del genere de’ simulacri solamente apparenti, cagionati da reflessione e da refrazzione de’ raggi solari, per la relazione ch’ella osserva e ritiene verso il Sole, diversa da quella ch’osservano e ritengon quelle che noi sappiamo certo esser pure apparenze, quali sono l’iride, l'alone, i parelii, le reflessioni del mare: le quali tutte, dic'egli, al movimento del Sole si vanno esse ancora mo- vendo, con tenor tale che la mutazion loro è sempre verso la medesima parte che quella del Sole; ma nella cometa è accaduto il contrario; adunque ella non è un'il- lusione. Qui, ancorché assai competente risposta fusse il dire che non si vede necessità veruna per la quale la cometa debba seguitar lo stile dell’iride o dell’alone o dell’altre nominate illusioni, poi che ella è differente dal- . l’iride, dall’alone e dall’altre; tuttavia io voglio conceder qualche cosa di più dell’obligo, purché il Sarsi nel resto non voglia aver più privilegio di me, si che alcun modo d’argomentare che per lui dovesse esser concludente, per me poi avesse da esser reputato inutile. Per tanto io do- 45. - G. Galilei, Opere - II. 706 GALILEO GALILEI mando al Sarsi, s'ei reputa l'argomento preso dalla con- trarietà dello stile osservato dalla cometa e da i puri simulacri, in contrariar quella, ed in secondar questi, il moto del Sole, sia necessariamente concludente o no? S'ei risponde di no, già tutto il suo progresso è vano, né io più vi aggiungo parola: ma se ei risponde di si, giusta cosa sarà che altrettanto vaglia per me, per concluder che la cometa sia un'illusione, il dimostrar io ch'ella os- servi lo stile d’alcun vano simulacro, in quel che appar- tiene al secondare o contrariare al moto del Sole. Ma per trovare tal simulacro non occorre né anco che io mi parta da uno prodotto dall’istesso Sarsi per opportunissimo a manifestamente farci conoscere, il progresso della cometa esser contrario a quello d’esso simulacro; il quale però a me pare non contrario, ma il medesimo a capello. Prenda dunque V. S. Ilustrissima la sua terza figura, nella quale ei fa parallelo della cometa con la reflession del Sole fatta nella superficie del mare; dove, quando il Sole sia in H, il suo simulacro vien veduto dall’occhio A secondo la linea AT; e quando il Sole sarà in G, si vedrà il simulacro per la linea A E; ed essendo in F, il simulacro apparirà nella linea A D. Resta ora che veggiamo, mentre che il Sole ci apparisce essersi mosso in cielo per l'arco HGF, per qual verso ci apparisca essersi mosso pari- mente il suo simulacro rispetto al cielo, dove il Sarsi osservò il moto della co- meta e del Sole: per lo che bisogna con- tinuar l'arco FGHLMN, e prolungar le linee AI, AE, AD in L, M, N, e poi dire: Quando il Sol era in H, il suo simulacro si vedeva per la linea AI, che in cielo risponde nel punto L; e quando il Sole venne in G, il suo simulacro si vedeva per la linea A E, ed appariva in M: e finalmente, giunto il Sole in F, il suo simulacro IL SAGGIATORE 202 apparse in N. Adunque, movendosi il Sole da H verso F, il suo simulacro apparisce muoversi da L in N: ma questo, Sig. Sarsi, è apparir muoversi al contrario del Sole, e non pel medesimo verso, come avete creduto o più tosto voluto dare a creder voi. Io, Illustrissimo Signore, dico cosi, perché non mi posso persuadere com’egli avesse avuto a equivocare in cosa tanto manifesta. Oltre che si vede anco, che nel di- chiararsi usa certe maniere di dire assai improprie e non consuete, solo per accommodare al suo bisogno quello ch'accommodar non vi si può, perché non è nulla: v. g., ei vede che passando il Sole da H in G, e da G in F, la sua immagine viene da I in È, e da E in D, il qual pro- gresso IE D è un vero e realissimo avvicinarsi e muoversi verso l'occhio A; e perché il bisogno del Sarsi è di poter dir che l’immagine ed il Sole si muovano pel medesimo verso, ei si risolve liberamente a dire che ’1 moto del Sole per l'arco HGF sia un avvicinarsi al punto A, e che l'andar verso il vertice sia il medesimo che andar verso il centro. È, di più, forza ch’ei dissimuli di non s’ac- corgere d'un altro più grave assurdo, che gli verrebbe addosso quand’ei volesse sostenere che il simulacro se- condasse il movimento dell’oggetto reale; perché, quando questo fusse, bisognerebbe di necessità che parimente, pel converso, l'oggetto secondasse il simulacro; dal che vegga V. S. Illustrissima quel che ne seguirebbe. Tirisi dal termine del diametro O la linea retta O R, cadente fuor del cerchio e colla BO contenente qualsivoglia an- golo, e si prolunghino sino ad essa le DF, E G, IH ne i punti R, Q, P: è manifesto che quando l’oggetto reale si fusse mosso per la linea PQ R, il simulacro sarebbe ve- nuto per la IE D, e perché questo è uno avvicinarsi e muoversi verso l'occhio A, e quel che fa il simulacro lo fa ancora (per detto del Sarsi) l’oggetto, adunque l’og- getto, movendosi dal termine P in R, si è venuto avvici- 708 GALILEO GALILEI nando al punto A; ma egli si è discostato; ecco, dunque, l’assurdo manifesto. Notisi di pit, che quanto il Sarsi va considerando in questo luogo accader tra l'oggetto reale e la sua immagine, è preso come se la materia in cui si deve formare il simulacro resti sempre immobile, e solo si muova l’oggetto; ché quando s’intendesse muoversi detta materia ancora, altre ed altre conseguenze ne se- suirebbono circa l’apparenze del simulacro: e però da quel che aggiunge il Sarsi, del non esser ritornata in- dietro la cometa al ritorno del Sole, non se ne inferirà mai nulla, se prima non si determina dello stato o del movimento della materia in cui la cometa si produsse. 25. Passo al quinto argomento. (5um argumentum). Preterea, si de apparentium simulacrorum numero co- meta fuit, debuit ad certum ac determinatum angulum spectari; quod in iride, area, corona aliisque huiusmodi accidit: meminisse autem hoc loco debet Galilaeus, se af- firmasse satis amplum cali spatium huiusmodi vaporibus occupatum: quod si ita est, aio circularem vel circuli segmentum apparere cometam debuisse. Sic enim argu- mentari libet. Quacumque sub uno certo ac determinato angulo conspiciuntur, ibi videntur ubi certus ille ac de- terminatus angulus constituitur; sed pluribus in locis, in circulari linea positis, determinatus hic et certus co- mete angulus constituitur; ergo pluribus in locis, in linea circulari dispositis, cometa videbitur. Maior certis- sima est, neque ullius probationis indigens. Minorem sic probo. Sit Sol infra horizontem in I, locus vaporis fumidi circa A, cometa vero ipse se se, v. g., spectandum ostendat in A, posito oculo in D; occupet autem vapor idem et alias partes circa A constitutas, quod Galilaeus ultro con- cedit. Intelligatur iam ducta linea recta per centrum Solis I et per centrum visus D; ex punctis vero I et D ad locum comete A concurrant radii I A, DA, consti- tuentes triangulum TAD: erit ergo angulus TAD ille IL SAGGIATORE 709 certus et determinatus sub quo ad nos cometa species remittitur. Concipiamus iam circa axem I D H triangulum IAD moveri; tunc vertex illius A describet segmentum circuli, in quo semper radii Solis, I A directus et A D reflexus, angu- lum eundem I A D efficient: cum autem in hac verticis A circum- ductione multa ab illo circum- fusi vaporis partes attingantur, in iis omnibus fiet determinatus ille ac certus angulus, ad quem cometa necessario consequitur: in toto ergo circuli segmento BA C, quod vaporem attingit, cometa compa- rebit; eadem prorsus ratione, qua in roridis nubibus irides et coronas fieri contingit aut circulares aut circulorum segmenta. Cum ergo nihil tale in cometa observatum fuerit, non erit proinde in apparentium simulacrorum numero collocandus, cum nulla in re hic illis se similem prabeat. Séguita, anzi pur cresce, in me la meraviglia nata dal veder quanto frequentemente il Sarsi vada dissimu- lando di vedere le cose ch'egli ha dinanzi agli occhi, con speranza forse che la sua dissimulazione abbia negli altri a partorire non una simulata, ma una vera cecità. Fi vuole nel presente suo argomento provar che quando la cometa fusse una nuda apparenza, ella dovrebbe dimo- strarsi in figura di cerchio o di parte di cerchio, perché cosi avviene dell’iride, dell’alone, della corona e dell’altre varie immagini: il che non so com’ei possa affermare, sendosi cento volte ricordata la reflession nel mare del- l'immagine solare, e quelle proiezzioni dall’aperture delle nuvole, le quali compariscono strisce dritte e similissime alla cometa. Ma forse eî si persuade che senz'altre av- vertenze la dimostrazione ottica, ch’ei n’arreca, concluda nella cometa necessariamente la sua intenzione; del che 210 GALILEO GALILEI però io grandemente dubito, e parmi, sio non m'inganno, che "1 suo progresso sia mutilo, e che gli manchi una parte principalissima del dato (che sarebbe gran difetto in logica); e questa è la disposizion locale, in relazione all'occhio, della superficie di quella materia nella quale si ha a far la reflessione, la qual disposizione non vien messa in considerazion dal Sarsi: di che non saperei addur pit modesta scusa, che il non l'avere egli avver- tito; ché quando ei l’avesse conosciuto, ma dissimulato per mantenere il lettore nell’ignoranza, mi parrebbe man- camento assai pit grave. La considerazion poi di cotal disposizione opera il tutto: imperocché la dimostrazion del Sarsi non concluderà mai, se non quando la super- ficie del vapore intorno al punto A della sua figura sarà opposta all'occhio D direttamente, sî che l’asse IDH caschi perpendicolarmente sopra il piano nel quale essa superficie si distendesse; perché allora, nel girare il trian- golo I DA intorno all’asse I H, il punto A anderebbe ter- minando continuamente in essa superficie e descrivendovi una circonferenza di cerchio: ché quando la superficie detta fusse esposta all'occhio obliquamente, l’angolo A non la toccherebbe se non in un sol punto, e nel girar del triangolo il medesimo angolo A o penetrerebbe oltre ad essa superficie, o non v'arriverebbe. Ed in somma, a voler che la cometa apparisse circolare, bisognerebbe che la superficie dov'ella si genera fusse piana ed esposta di- rettamente alla linea che passa per li centri dell'occhio e del Sole; la qual constituzione non può mai accadere se non nella diametrale opposizione o vero nella linear con- giunzione de’ vapori e del Sole: e però l’iride si vede sempre opposta, l'alone o la corona sempre congiunti al Sole, onde appariscono circolari; ma delle comete non so che se ne sien mai vedute né ih opposizione né in con- giunzione al Sole. Se al Sarsi, nello scrivere la sua di- mostrazione, fusse una volta passato per la fantasia di IL SAGGIATORE 711 chiamar quella materia ch’ei si figura intorno al punto A, non vapori, ma acqua del mare, ei si sarebbe accorto che ‘1 suo argomento avrebbe nel modo stesso e col- l’istesse parole concluso che la reflessione nel mare di necessità si deve distender per linea circolare; dal che poi mercé del senso, che mostra il contrario, avrebbe sco- perta la fallacia del suo sillogismo. 26. Or sentiamo l’argomento sesto. (6um argumentum). Sed placet ex ipsius etiam Galilei verbis hoc idem con- firmare. Ait enim ipse, quod etiam fortasse verissimum est, spectra huiusmodi et vana simulacra eam in paral- laxi legem servare, quam servat luminosum illud corpus a quo proveniunt; ita, si qua illorum Lune effecta fuerint, haec parem cum Luna parallaxim pati; qua vero a Sole fiunt, eamdem cum Sole aspectus diversitatem sortiri. Praterea, dum adversus Aristotelem disputat et argu- mentum ex parallaxi ductum assumit, haec habet: « De- nique cometam ignem esse, ac sublunarem asserere, omnino impossibile est; cum obstet parallaxis exiguitas, tot insignium astronomorum solertissima inquisitione ob- servata ». Ex quibus ita rem conficio. Auctore Galilao, quacumque mere apparentia a Sole producuntur, illam eamdem patiuntur parallaxim quam patitur Sol; sed cometa non passus est eamdem parallaxim quam Sol patitur: ergo cometa non est apparens quid a Sole pro- ductum. Si quis autem de minori huius argumenti pro- positione ambigat, Tychonis observationes cum observa- tionibus aliorum conferat, dum agunt de cometa anni 1577: ipse certe Tycho ex* suis observationibus illud tandem deducit, demonstratam nimirum distantiam co- meta a centro Terra die 13 Novembris fuisse semidiame- trorum eiusdem Terra 211 tantum, cum Sol ab eodem centro ponatur distare semidiametris saltem 1150, Luna vero semidiametris 60. De hoc vero nostro, si quis eas observationes inter se contulerit quas in Disputatione ab 712 GALILEO GALILEI uno ex Patribus habita edidit in lucem Magister meus, satis illi inde constabit huius propositionis veritas; nam fere semper longe maiorem cometa parallaxim inveniet, quam Solis. Neque observationes huiusmodi Galilaeo su- specta esse nunc possunt, cum easdem summorum astro- nomorum opera exquisitissime ad astronomia calculos castigatas testatus sit. Che il Sig. Mario ed io abbiamo mai scritto o detto che i simulacri prodotti dal Sole ritengano la medesima paralasse che quello (come il Sarsi in questo luogo af- ferma per fondamento del suo sillogismo), è del tutto falso; anzi il Sig. Mario, dopo aver nominati e considerati molti di tali simulacri, soggiugne cosî: « E avvenga che de’ sopranominati simulacri in alcuni la paralasse sia nulla, ed in altri operi molto diversamente da quello ch'ella fa negli oggetti reali». Non si trova nella scrit- tura del Sig. Mario ch'egli affermi, la paralasse esser l’istessa che quella del Sole o della Luna, se non nel- l'alone; negli altri, ed anco nell’istessa iride, vien posta diversa. Falsa dunque è la prima proposizion del sillo- gismo. Or veggiamo quanto sia vera la seconda e quanto concludente, posto anco che la paralasse di tutti i simu- lacri vani dovesse essere eguale a quella del Sole. Vuole il Sarsi, e coll’autorità di Ticone e con quella del suo Maestro, provare (e cosi è in obligo di fare) che la paralasse osservata nelle comete sia maggiore di quella del Sole: ma si astiene poi di produrre l’osservazioni par- ticolari di Ticone e di molti altri astronomi di nome, fatte circa la paralasse della cometa; e ciò fa egli perché il lettore non vegga come quelle sono tra di loro differen- tissime. E qualunque elle si sieno, o sono giuste, o sono errate: se giuste, si che a loro si debba prestare intera fede, bisogna necessariamente concludere, o che la me- desima cometa fusse nell’istesso tempo e sotto il Sole e sopra ed anco nel firmamento, o vero che, per non essere IL SAGGIATORE 713 ella un oggetto fisso e reale, ma vago e vano, non sog- giace alle leggi de i fissi e reali: ma se tali osservazioni sono errate, mancano d'autorità, né per esse si può de- terminar cosa veruna; e l’istesso Ticone tra tante diver- sità andò eleggendo, come se fussero pit certe, quelle che più servivano alla sua determinazione fatta innanzi, di voler assegnar luogo alla cometa tra il Sole e Venere. Quanto poi all’altre osservazioni prodotte dal suo Maestro, sono tanto fra sé differenti, ch'egli medesimo le deter- mina inette a potere stabilire il luogo della cometa, di- cendo quelle esser state fatte con istrumenti non esatti e senza la necessaria considerazion dell’ore e della re- frazzione e d’altre circostanze; per lo che egli stesso non obliga altrui a prestargli molta fede, ma si riduce ad una sola osservazione, la quale, non ricercando strumento alcuno, ma potendo colla semplice vista farsi esattissi- mamente, egli l’antepone a tutte l’altre: e questa fu la puntual congiunzione del capo della cometa con una stella fissa, la qual congiunzione fu vista nel medesimo tempo da luoghi tra di sé molto distanti. Ma, Sig. Sarsi, se cost è seguito, questo è del tutto contrario al bisogno vostro, poi che di qui si raccoglie, la paralasse essere stata nulla, mentre che voi producete questa autorità per confermar la vostra proposizione, che dice tal paralasse esser mag- giore che quella del Sole. Or vedete come gli stessi autori chiamati da voi testificano contro alla causa vostra. A quello poi che voi dite, che noi stessi abbiamo con- fessato, l’osservazioni degli astronomi grandi essere state fatte esattissimamente, vi rispondo che se voi meglio consi- dererete il dove e ’1 quando sono state chiamate tali, com- prenderete che esatte si potevano dire quando elle fussero state anco assai più differenti tra di loro di quello che state sono. Furon chiamate esatte e sufficienti a confutar l'opinione di Aristotile, mentr’egli voleva che la cometa fusse oggetto reale e vicinissimo alla Terra. E non sapete 46. - G. Galilei, Opere - II. 714 GALILEO GALILEI che il vostro Maestro stesso dimostra che il solo intervallo tra Roma ed Anversa in un oggetto reale che fusse anco sopra la suprema region dell’aria, può cagionar paralasse maggiore di 50, di 60, di 100 ed anco di 140 gradi? E se questo è, non si potranno elleno chiamar osservazioni esatte e potenti quelle che, essendo tutte minori d’un grado solo, differiscono tra di loro di pochi minuti? 27. Or legga V. S. Illustrissima l’ultimo argumento. (Zum argumentum). Denique neque illud omittendum, quod vel unum, homini veritatis potius investigande quam altercandi cupido, satis id quod agimus persuadere possit. Experimur enim quotidie, ea omnia quibus certa ac sta- bilis species non est, sed vana colorum ac lucis imagine hominum illudunt oculis, angustissimis vita spatiis finiri, brevissimo etiam temporis intervallo varias sese in formas mutare; modo extingui, modo iterum accendi; nunc pal- lescere, nunc ardentiori luce micare; partes illorum nunc interrumpi, nunc iterum coalescere; nunquam denique eadem diu specie apparere: qua omnia si cum cometa stabili motu aspectuque conferantur, ostendent quanta demum inter illum atque huiusmodi vanas imagines mo- rum ac natura discordia sit. Quare si nihil plane reperias in quo se illis cometa similem probet, cur non potius nullam cum iisdem natura affinitatem aut cognationem habere dixeris? Dixerunt enimoero philosophorum anti- quissimi atque oplimi, dixerunt recentiorum eruditissimi; unus nunc Galilaes illis repugnat; at Galilaco, nisi fallor, repugnare veritas videtur. Il qual argomento egli stima tanto, che gli par ch’esso solo possa esser bastante a persuader l'intento suo: tut- tavia io non ci scorgo efficacia che mi persuada, mentr'io considero che, nel produr questi vani simulacri, v'inter- viene il Sole com'’efficiente, e le nuvole e vapori o altre cose come materia; e perché l’efficiente è perpetuo, quando non mancasse dalla materia, e l’iride e l'alone IL SAGGIATORE 215 ed i parelii e tutte l’altre apparenze sarebbono perpetue: la breve, dunque, o lunga durazione dalla stabilità e po- sizion della materia si deve attendere. Or qual ragione ci dissuade, poter esser sopra le regioni elementari al- cuna materia di più lunga durazione delle nubi, della caligine, della pioggia cadente in minute stille, o d’altre materie elementari, si che la reflessione o refrazzion del Sole fatta in quelle ci si mostri più lungamente dell’iride, de’ parelii, dell’alone? Ma senza partirsi da’ nostri ele- menti, l'aurora, ch'è una refrazzion de’ raggi solari nella region vaporosa, e le reflessioni nella superficie del mare non son elleno apparenze perpetue, si che se il riguar- dante, il Sole, i vapori e la superficie del mare stessero sempre nella medesima disposizione, perpetuamente si vederebbe l'aurora e la striscia splendida nell'acqua? In oltre, dalla minore o maggior durazione poco concluden- temente s'inferisce un’essenzial differenza; anzi delle co- mete stesse, senza cercar altre materie, se ne son vedute alcune durare 90 e più giorni, ed altre dissolversi il quarto ed anco il terzo. E perché si è osservato, le pit diuturne mostrarsi, anco nel lor primo apparire, assai maggiori dell’altre, chi sa che non ve ne sieno, ed anco frequentemente, di quelle che durino non solamente pochi giorni, ma anco non molte ore, ma che per la lor picco- lezza non vengano facilmente osservate? E per conclu- derla, che nel luogo dove si formano le comete vi sia materia atta nata a conservarsi più della nuvola e della caligine elementare, l’istesse comete ce n’assicurano, pro- ducendosi di materia o in materia non celeste ed eterna, né anco che necessariamente in brevissimi tempi si dis- solva, sf che il dubbio resta ancora, se quello che si pro- duce in detta materia sia una pura e semplice reflession di lume, ed in conseguenza uno apparente simulacro, o pure se sia altra cosa fissa e reale. E per tanto niuna cosa conclude l'argomento del Sig. Sarsi, né concluderà, 716 GALILEO GALILEI s'egli prima non dimostra che la materia cometaria non sia atta a reflettere o rifrangere il lume solare, perché, quanto all’esser atta a durar molti giorni, la durazion delle medesime comete ce ne rende pit che certi. 28. Or passiamo alla seconda questione di questo se- condo essame. i AN COMETA ASPECTUS PER MOTUM RECTUM ET AD TERRAM PERPENDICULAREM EXPLICARI POSSIT. QUESTIO II. (1fum argumentum). Venio nunc ad motum: quem rectum fuisse Galileus asserit, ego tamen diserte nego. Ea primum ratio hoc mihi persuadet ut faciam, quam ipse solvere vel nescire se vel non audere, ingenue pro- fitetur: illa enim ratio adeo aperta est, adeoque ad hunc motum dissuadendum efficax, ut, cum forte id maxime vellet, dissimulare tamen eam non potuerit. « Si enim (verba eius sunt) solus hic motus cometa tri- buatur, explicari non potest, qui factum sit ut non ad verticem solum magis ac magis accesserit, sed ulterius ad polum usque pervenerit: quare vel praclarum hoc in- ventum abiiciendum, quod sane haud sciam, vel motus alius addendus, quod non ausim ». Ubi mirandum sane est, hominem apertum ac minime meticulosum repentino adeo timore corripi, ut conceptum sermonem proferre non audeat. Ego vero non is sum, qui divinare norim. E qui, prima ch'io proceda più avanti, non posso far ch'io non mi risenta alquanto col Sarsi della non punto meritata imputazione ch'egli m’attribuisce di dissimula- tore, essendo cotal nota lontanissima dalla profession mia, la qual è di liberamente confessare, come sempre ho fatto, di ritrovarmi abbagliato e quasi del tutto cieco nel pe- netrare i secreti di natura, ma ben d’esser desiderosissimo IL SAGGIATORE 717 di conseguir qualche piccola cognizione d’alcuno di essi, alla quale intenzione niun’altra cosa è piti contraria che la finzione o dissimulazione. Il Sig. Mario nella sua scrit- tura mai non ha finto cosa alcuna, né ha avuto di me- stieri di fingerla, poi che, quanto egli di nuovo ha proposto, l'ha portato sempre dubitativamente e conghiet- turalmente, né ha cercato di fare ad altri tener per certo e sicuro quello ch'egli ed io per dubbio, ed al più per probabile, abbiamo arrecato ed esposto alla considerazion de’ più intelligenti di noi, per trarne, co ’1 loro aiuto, o la confermazione di alcuna conclusion vera, o la totale esclusion delle false. Ma se la scrittura del Sig. Mario è schietta e sincera, ben altrettanto è piena di simulazioni la vostra, Sig. Lottario; poi che, per farvi strada alle oppugnazioni, delle 10 volte le 9 fingete di non intendere quel che ha scritto il Sig. Mario, e dandogli sensi molto lontani dall’intenzion di quello, e spesso aggiungendovi o levandone, preparate ad arbitrio vostro la materia, onde il lettore, prestando fede a quanto voi producete poi in contrario, resti in concetto che noi abbiamo scritte gran semplicità, e che voi acutamente l’avete scoperte e ributtate: il che sin qui si è da me osservato, e nel re- stante s'osserverà non meno. Ma venendo al fatto, qual cagione vi muove a seri- vere che noi abbiamo sommamente voluto, ma non po- tuto dissimulare che movendosi la cometa di semplice moto retto, fusse necessario ch’ella andasse sempre verso il vertice, né da quello declinasse gi& mai? Chi ha fatto avvertito voi di tal conseguenza, altri che l’istesso Sig. Mario che la scrive? la quale al sicuro a voi avrebbe egli potuto dissimulare, e voi, per vostra benignità, ave- reste dissimulata la sua dissimulazione. Ma che pia? Voi stesso due soli versi di sopra scrivete che io ingenua- mente ho confessato di non sapere o non ardir di sciorre cotal ragione da me prodotta, ed accanto accanto sog- 718 GALILEO GALILEI giungete ch'io massimamente avrei voluto dissimularla: e qual contradizzion è questa, che uno ingenuamente porti e scriva e stampi una proposizione, e sia il primo a portarla e scriverla e stamparla, e che voi poi di- ciate, lui aver grandemente desiderato di dissimularla ed asconderla? Veramente, Sig. Lottario, voi siete molto bi- sognoso che nel lettore sia una gran semplicità ed una piccola avvertenza. Or veggiamo se in questo detto, dove nulla si trova di nostra simulazione, ve ne fusse per sorte di quella del Sarsi. E certo in poche parole ve n'è più d'una. É prima, per aprirsi il campo a dichiararmi per tanto ignorante geometra che non abbia capito quelle conseguenze che per lor dimostrazione non ricercano maggiore scienza che di alcune poche e tritissime proposizioni del primo libro degli Elementi, egli mi fa dir quello che già mai non s'è detto né scritto; e mentre noi diciamo, che se la cometa si movesse di moto retto, ci apparirebbe muoversi verso il vertice e zenit, esso vuole che noi abbiamo detto ch'ella, movendosi, dovesse arrivare al vertice e zenit. Qui bi- sogna che il Sarsi confessi, o di non avere inteso quel che vuol dir muoversi verso un luogo, o d'aver voluto con finzione e simulazione attribuirci una falsità. Il primo non credo che possa essere, perché cosi verrebbe anco a stimare che il dir navigare verso il polo e tirar una pietra verso il cielo importasse che la nave arrivasse al polo e la pietra in cielo: adunque resta ch'egli, dissimulando d’intender il vero scritto da noi, ci attribuisca il falso per poter poi attribuirci le non meritate note. Di più, non sinceramente riferisce egli le presenti parole del Sig. Mario anco in un altro particolare; poi che dove quello dice, che o bisogna rimuovere il moto retto attri- buito alla cometa, o vero, ritenendolo, aggiungere qualche altra cagione dell’apparente deviazione, il Sarsi di suo arbitrio muta le parole qualche altra cagione in qual- IL SAGGIATORE 719 ch'altro moto, per poter poi, fuor d'ogni mia intenzione, tirarmi nel moto della Terra, e qui scriver varie girandole e vanità. Conclude finalmente il Sarsi, non esser di quelli che sanno indovinare; e pure assai frequentemente si getta al voler penetrare gl’interni sensi altrui. 29. Or segua V. S. Illustrissima. Quaro igitur, an motus hic alius, quo belle explicare omnia posset nec eum proferre audet, vapori huic cometico tribuendus sit, an alii cuipiam, ad cuius postea motum moveri, in spe- ciem tantum, videatur cometa. Non primum, arbitror; hoc enim esset motum illum rectum et perpendicularem destruere: siquidem, si vapor ex Terra, @quatori, v. g., subiecta, motu perpendiculari sursum ascendat, et motu alio idem ipse in sepltentrionem feratur, motus hic se- cundus necessario priorem destruet. Quod si nihilominus ad septentrionem moveri, saltem in speciem, videatur, ad alterius alicuius corporis motum id consequi dicendum erit. Certe dum Galilaus ait, cum motum qui addendus esset, causam tantummodo futurum apparentis deviationis cometa, satis aperte innuit, motum hunc in alio quam in vapore cometico ponendum esse, cum illum apparenter solum ad septentrionem moveri velit. Quod si ita est, non video cuiusnam corporis hic futurus sit motus. Cum enim nulli Galileo sint calestes Ptolemai orbes, nihilque, ex eiusdem Galilei systemate, in calo solidi inveniatur, non igitur ad motum eorum orbium, quos nusquam re- periri existimat, cometam moveri putabit. Sed audio hic mihi nescio quem tacite ac timide in aurem insusurrantem Terra motum. Apage dissonum ve- ritati ac piis auribus asperum verbum. Ne, tu caute id submissa insusurrasti voce. Sed si ita res se haberet, con- clamata esset Galilei opinio, quae non alii quam huic falso inniteretur fundamento. Si enim Terra non mo- veatur, motus hic rectus cum observationibus. cometa non congruit; sed Terram certum est, apud C'atholicos, 720 GALILEO GALILEI non moveri; erit ergo aque certum, motum hunc rectum cum observationibus cometicis minime concordare, ac propterea ineptum ad rem nostram iudicandum. Neque id ego unquam Galileo in mentem venisse existimo, quem pium semper ac religiosum novi. Qui, com'ella vede, si va il Sarsi affaticando per mostrar, niun altro moto che si attribuisca o all’istessa cometa o ad altro corpo mondano, poter esser atto a mantenere il movimento per linea retta introdotto dal Sig. Mario ed a supplire insieme all’apparente deviazion dal vertice: il qual discorso è tutto superfluo e vano, atteso che né il Sig. Mario né io abbiamo mai scritto, la cagion di tal deviazione depender da qualch’'altro moto, né di Terra né di cieli né d’altro corpo. Il Sarsi di suo capriccio l’ha introdotto; egli stesso si risponda, né pre- tenda d’obligar altri a sostener quello che non ha detto, né scritto, né forse pensato, anco per confessione del- l’istesso Sarsi, il quale apertamente afferma di non creder che mai mi sia caduto in mente d’introdurre il movimento della Terra per salvar tal deviazione, avendomi egli co- nosciuto sempre per persona pia e religiosa. Ma s'è cosi, a che proposito l’avete voi nominato, ed a qual fine cer- cato di mostrarlo inetto a cotal bisogno? Ma è bene che passiamo avanti. 30. Segua, dunque, V. S. Illustrissima di leggere. Ve- rum, ni fallor, non quilibet cometa motus Galileum torsit, coégitque aliquid aliud praterea excogitare quod proferre vel nesciat vel non audeat; sed is tantum, quo ultra nostrum verticem, seu zenith, propius ad polum accessit. Si igitur ultra verticem cometa progressus non fuisset, nil erat quod de hoc alio motu cogitaret. Hoc enim ipsemet verbis illis innuere videtur, quibus ait, « si nullus alius ponatur motus quam rectus ac perpendicu- laris, tunc ad nostrum tantum verticem recta cometam ascensurum, non tamen progressurum ulterius >. (2um IL SAGGIATORE 221 argumentum). Demus igitur, nullum unquam cometam verticem nostrum pratergressum: aio tamen, ne sic qui- dem eius cursum explicari posse motu hoc recto. Sit enim Terra globus ABC, locus ex quo vapor ascendit sit B, oculus vero spectantis in À, visusque sit primum cometa, v. g., in E, et locus eidem respondens in calo sit G; intelligatur moveri cometa sursum in linea BO per partes aquales EF, FM, MO: affirmo, quantumvis vapor ille per lineam DO ascen- dat, etiam in omni eeternitate nunquam ad verticem nostrum, ne apparenter quidem, perven- turum. Ducatur enim linea AR ipsi BO parallela: nunquam tantus erit cometa motus appa- rens, quantus est arcus G R, et nunquam radius visualis coin- cidet cum linea AR. Cum enim semper radius visivus concur- rere debeat cum recta BO, in qua apparet cometa, cumque radius A R._ sit linea BO parallelus, non poterit cum illa unquam concurrere, ex definitione parallelarum: ergo nunquam radius per quem cometa videtur, poteril ad R_ pervenire; et, consequenter, motus apparens cometa non solum non perveniet ad nostrum verticem S, sed neque ad punctum R, quod longissime adhuc a vertice distat. Apparebit enim primo in G, secundo in F, tertio in I, deinde in L, etc.; sed nunquam perveniet ad R. Torna il Sarsi, come V. S. Ilustrissima vede, ad al- terar la scrittura del Sig. Mario, volendo pure ch'egli abbia scritto, che il moto perpendicolare alla Terra do- vesse condur finalmente la cometa al punto verticale; il che non si trova nel suo libro, ma sî bene che tal moto sarebbe verso il vertice: e ciò fa, per mio parere, il Sarsi 722 GALILEO GALILEI per pigliare occasione di portarci questa geometrica di- mostrazione, fabbricata sopra fondamenti non più pro- fondi della sola intelligenza della diffinizione delle linee parallele; dalla quale azzione alcuno potrebbe dedurre forse una conseguenza non molto insigne pel Sarsi. Im- perocché o egli stima questa sua conclusione e dimostra- zione per cosa ingegnosa e da persone non vulgari, o vero per una cosuccia da essere anco ritrovata da’ fan- ciulli: s'egli la stima per cosa puerile, poteva ben esser sicuro che né il Sig. Mario ned io siamo costituiti in si infelice stato di cognizione, che per mancamento di cotal notizia avessimo ad incorrere in errore; ma se ei l’ha per cosa sottile e di momento, io non saperei come non far giudicio ch’ei fusse povero affatto e bisognoso di ritornar sotto la disciplina del Maestro. È vero, dunque, che il moto perpendicolare alla superficie terrestre non arriva mai al vertice (eccetto però che quello che si parte dal- l’istesso luogo del riguardante, il che forse il Sarsi non ha osservato), ma è anco vero che noi non abbiamo detto mai ch'ei v'arrivi. 31. (Zum argumentum). Praterea, quoniam, ut (Ga- lileus ipse fatetur, cometa motus in principio velocior visus est, et paulatim postea remitti, videndum est, in qua proportione haec motus remissio procedere debeat in hac linea recta. Certe, si Galilai figuram expendamus, quando cometa fuerit in E, apparebit in G; cum vero, paria percurrens spatia EF, FM, MO, motum suum apparentem in punctis F, I, L ostendet, videbitur motus eius decrescere decrementis maximis; nam arcus FI nix est medietas ipsius GF, et IL ipsius FI, atque ita de reliquis: debuit ergo cometa moitus apparens in eadem proportione decrescere. Sciendum autem est, motum co- meta obseroatum non in hac proportione decrevisse, immo primis diebus adeo exiguum ipsius decrementum fuisse, ut non facile animadverteretur. Cum enim in suo IL SAGGIATORE 725 exordio tres circiter gradus quotidie percurreret, diebus iam 20 elapsis vix quicquam de illa priori contentione remisisse visus est. Immo, si in iudicium advocentur co- meta duo Tychonici annorum 1577 et 1585, ex ipsorum motibus apertissime colligemus, quam longe abfuerint ab immani hoc decremento. Si quis iam ex me queerrat, quantus tandem futurus sit cometa motus per lineam hanc rectam ascendentis, respondeo: si cometa tunc pri- mum appareat, cum vapor ex quo producitur non longe abest a Luna, quod valde probabile est, et praterea po- namus locum, ex quo in Terra globo fumus ille ascendilt, distare a nobis gradibus 60, respondeo, inquam, appa- rentem cometa motum toto durationis sue tempore non absoluturum gradum unum et minuta 31. Sit enim Terra globus A BC, Luna concavum GF H, distans a centro D Terra semidiametris 33, ex Ptolemao; Tycho enim duplam fere ponit distantiam, quod magis e re mea foret; sitque A locus ex quo spectatur cometa, B vero locus ex quo vapor ascendit. Dico, cum visus fuerit cometa in E, fu-. A turum angulum DEA gradus 1, minuta 31; ac proinde, si du- catur AF parallela ipsi DE, erit etiam angulus F AE gradus 1, minuta 31, cum sit alternus ipsi DALE inter easdem parallelas; dua ergo linea AE, AF intercipient in firmamento arcum gradus 1, minuta 31. Sed ad lineam AF, parallelam ipsi DE, nun- quam perveniet cometa, ut probavimus superius: ergo nunquam absolvet motum gradus 1, minuta 31. Quod autem angulus D E A futurus sit in concavo Luna gradus 1, minuta 31, probatur. Quia, cum cognitus sit, ex sup- positione, angulus E D A graduum 60 in triangulo A DE, G D 724 GALILEO GALILEI et praterea latus A D unius Terra semidiametri, et latus DE semidiametrorum 33; si fiat, ut 34, aggregatum duo- rum laterum AD, DE, ad 32, differentiam eorumdem laterum, ita 173205, tangens dimidii summa reliquorum duorum angulorum, hoc est tangens anguli graduum 60, ad quartum numerum, invenietur 163016, tangens anguli graduum 58, minutorum 29: qui, detracti ex gradibus 60, hoc est ex dimidio duorum reliquorum angulorum, relin- quent angulum DEA quasitum gradus 1, minutorum 31, ex regulis trigonometricis. Io credetti dalla precedente dimostrazion del Sarsi, ch'ei potesse essere ch’egli avesse veduto, e forse inteso, il primo libro degli Elementi della geometria; ma quello ch'egli scrive qui mi mette in gran dubbio s’egli abbia prattica veruna sopra le cose matematiche, poi che dalla figura delineata di sua fantasia da se medesimo, ei vuol ritrarre qual sia la proporzion della diminuzion dell’ap- parente velocità del moto attribuito dal Sig. Mario alla cometa: dove, prima, egli dimostra di non avere osservato che in tutti i libri de’ matematici niun riguardo si ha già mai delle figure, tutta volta che vi è la scrittura che parla; e che in astronomia, in particolare, si tratterebbe poco meno che dell’impossibile a voler mantenere nelle figure le proporzioni che realmente hanno tra di loro i moti, le distanze e le grandezze degli orbi celesti, le quali proporzioni senza verun pregiudicio della dottrina si al- terano si fattamente, che quel cerchio o quell’angolo che dovrebbe esser mille volte maggiore d’un altro, non si fa né anco due o ver tre. Si veda anco il secondo errore del Sarsi, ch'è ch’ei simmagina che ’1 medesimo movimento debba apparir fatto colle stesse apparenti inegualità da tutti i luoghi ond’ei venga osservato ed in tutte le di- stanze o altezze dove il mobile si ritrovi: tuttavia la verità è, che segnati nel moto retto perpendicolarmente IL SAGGIATORE 725 ascendente molti spazii eguali, i movimenti apparenti, v. g., di quattro parti vicine a Terra importeranno mu- tazioni in cielo tra di sé molto più disuguali che quelli di quattro altre parti assai lontane; si che finalmente in gran lontananza la disugualità che nelle parti basse era grandissima, nell’altre restera insensibile. Cosi parimente in altra proporzione appariranno fatti i medesimi ritar- damenti se il riguardante sarà vicino al principio della linea del moto, che s’egli ne saréa lontano. Tuttavia il Sarsi, perché nella figura (pag. 721) trova che gli archi GF, FI, IL, che sono i moti apparenti, decrescono gran- demente ed assai più che non si scorse nel movimento della cometa, si è persuaso che simil moto in conto niuno possa a quella adattarsi; né ha avvertito come cotali decrementi possano apparir meno e meno disuguali, se- condo che l’altezza del mobile sarà posta maggiore. Egli pur sa che nelle figure né si osserva, né importa nulla il non osservar, le debite proporzioni; della qual notizia egli medesimo ce ne rende certi nella sua seguente figura, (pag. 723), nella quale prova l'angolo DEA esser sola- mente un grado e mezo, se bene in disegno è più di gradi 15, ed il semidiametro del concavo lunare DE ap- pena è triplo del semidiametro terrestre DB, il qual tuttavia egli nomina 33 volte maggiore; si che questo solo era bastante a fargli conoscere quanto grande sia la semplicità di chi volesse raccor la mente d’un geo- metra dal misurar colle seste le sue figure. Concludendo dunque dico, Sig. Lottario, che può star benissimo in un istesso moto retto ed uniforme un’apparente diminuzione e grande e mezana e piccola e minima ed insensibile ancora; e se voi vorrete provare che niuna di queste corrisponda al moto della cometa, bisognerà che facciate altra fattura che misurar le dipinture; e v’'assicuro che scrivendo voi cose tali, non v’acquisterete l'applauso 726 GALILEO GALILEI d'altri, che di chi, non intendendo né il Sig. Mario né voi, ripon la vittoria nel più loquace e ch'è l’ultimo a parlare. Ma sentiamo, Illustrissimo Signore, quello che in ul- timo il Sarsi produce. Esso, per mio credere, vuol da questo ch’ei soggiunge, ch'è la piccolezza del moto ap- parente, provare, il gia più volte nominato moto retto non competere in verun modo alla cometa (e dico di creder così, e non d’esserne sicuro, poi che l’istesso autore, doppo sue dimostrazioni e calcoli, non raccoglie conclu- sione alcuna): e per ciò fare egli suppone, la cometa nel suo primo apparire esser stata lontana dalla superficie della Terra 352 semidiametri terrestri, e che il riguardante sia situato 60 gradi lontano dal punto della superficie della l'erra che perpendicolarmente risponde sotto alla linea del moto d’essa cometa; e fatte tali due supposizioni, dimostra la quantità del moto apparente potere appena arrivare in cielo a un grado e mezo; e qui finisce, senza applicare il detto a proposito alcuno o raccorne altra conclusione. Ma già che il Sarsi non l’ha fatto, ne rac- corrò io due delle conclusioni: la prima sara quella che l’istesso Sarsi vorrebbe che il semplice lettore n’inferisse da per se stesso, e l’altra quella che per vera conseguenza, e non per inavvertenza di persone semplici, si raccoglie. Ecco la prima: Dunque, o lettore, nel cui orecchio ancora risuona quello che di sopra è stato scritto, cioè che il moto apparente della nostra cometa valicò in cielo molte e molte decine di gradi, fa’ tu ora concetto e tieni per sicuro che il moto retto del Sig. Mario in veruna ma- niera se gli assesta, per lo quale a gran fatica si può valicare un sol grado e mezo. E questa è la conseguenza de’ semplici. Ma chi avera fior di logica naturale, con- giungendo le premesse del Sarsi colla conclusione da quelle dependente, formerà cotal sillogismo: Posto che ri IL SAGGIATORE 207 la cometa nel suo apparire fusse stata alta 32 semidia- metri terrestri, e che il riguardante fusse gradi 60 lontano dalla linea del suo moto, la quantità del suo moto appa- rente non poteva eccedere un grado e mezo; ma egli ec- cedette molte decine di gradi; (venga ora la conseguenza vera) adunque nel tempo delle prime osservazioni la nostra cometa non era in altezza da Terra di 32 semidia- metri, e l’osservator lontano 60 gradi dalla linea del moto di quella. Il che liberamente si conceda al Sarsi, essendo una conclusione che distrugge i suoi medesimi assunti: ben che per un altro rispetto ancora il suo sillogismo resti imperfetto, né punto vaglia contro al Sig. Mario, il qual gia apertamente ha scritto che un semplice moto retto non può bastare a soddisfare all’apparente mutazion della cometa, ma vi bisogna aggiunger qualch’altra ca- gione della sua deviazione; la qual condizione, tralasciata dal Sarsi, snerva del tutto ogni sua illazione. Ma noto, di più, un altro non piccolo errore in logica in questo suo discorso. Vuole il Sarsi, dalla gran mu- tazion di luogo che fece la cometa provar che ’1 moto retto del Sig. Mario non gli poteva competere, perché la mutazione che segue a cotal moto è piccola: e perché la verità è che a questo moto retto ne possono seguir mu- tazioni piccole, mediocri ed anco grandissime, secondo che il mobile sarà più alto o più basso, ed il riguardante più lontano o meno dalla linea d’esso moto, il Sarsi, senza domandar all'avversario in qual altezza e in qual lontananza ei ponga il mobile e ’l riguardante, ripone l'uno e l’altro in luoghi accommodati al suo bisogno e sconci per quel dell'avversario, e dice: Pongasi che la cometa nel principio fusse alta 32 semidiametri, e l’os- servatore lontano 60 gradi. Ma, Sig. Lottario mio, se l'avversario dira ch’ella non era tanto lontana a molte migliaia di miglia, e l'osservatore parimente assai più 728 GALILEO GALILEI vicino, che farete voi del vostro sillogismo? che ne con- cluderete? niente. Bisognava che noi, e non voi, avessimo attribuito alla cometa ed all’osservatore cotali distanze, ed allora ci avreste colle nostre proprie armi trafitti; o se pur volevate trafiggerci colle vostre, dovevate prima necessariamente provare, tali essere state in fatto le lon- tananze (il che non avete fatto), e non arbitrariamente fingervele, ed elegger delle più pregiudiciali alla causa dell'avversario. Questo particolare solo mi fa inclinare un poco a credere che possa esser vero quello che sin qui non ho creduto già mai, cioè che possiate essere stato scolare di quello di chi voi vi fate, avvenga ch'egli ancora caschi, sio non m'inganno, nell’istessa fallacia, mentre vuol dimostrar falsa l’opinion d'’Aristotile e d'altri ch’anno stimato la cometa esser cosa elementare e dentro alla regione elementare aver sua residenza: a i quali egli oppone, come grandissimo inconveniente, la smisurata mole ch’ella dovrebbe avere, e quanto incredibil cosa sarebbe che dalla Terra potesse. esserle somministrato pabulo e nutrimento; per dimostrarla poi una smisura- tissima machina, la costituisce, senza licenza degli av- versari, nella pifi sublime parte della sfera elementare, cioè nell’istessa concavità dell’orbe lunare, e di quivi, dall’apparirci ella quale la veggiamo, va calcolando la sua mole dover esser poco manco di cinquecento milioni di miglia cubiche (e noti il lettore che lo spazio d'un sol miglio cubo è tanto grande, che capirebbe più d'un milion di navi, che forse tante non se ne trovano al mondo), machina veramente troppo sconcia e disonesta, e di troppo grande spesa al genere umano, che di quaggit le avesse a mandar la pietanza per cibarsi e nutrirsi. Ma Aristotile e i suoi aderenti risponderanno: « Padre mio, noi diciamo che la cometa è elementare, e che può esser ch’ella sia lontana dalla terra 50 o 60 IL SAGGIATORE 729 miglia e forse manco, e non cento ventun mila settecento e quattro, come, solamente di vostra semplice autorità, la fate voi; e per tanto il corpo suo non viene ad esser a mille miglia grande quanto voi credete, né insaziabile o impasturabile »; e qui poi non ci è altro da fare per l’oppugnatore se non istringersi nelle spalle e tacere. Quando si ha da convincer l’avversario, bisogna affron- tarlo colle sue pit favorevoli, e non colle più pregiu- diciali, asserzioni; altrimenti se gli lascia sempre da ritirarsi in franchigia, lasciando l’inimico come attonito . ed insensato, e qual restò Ruggiero allo sparir d’Angelica. 32. Or sentiamo quel che segue: e legga V. S. Illustris- sima questo quarto argomento. (4fum argumentum). Iam vero quamvis Terra non moveatur, neque tutum homini pio sit id asserere, si quis tamen scire ex me cupiat, an per motum Terra possit hic cometa cursus per rectam lineam explicari, respondeo: si nullus alius in Terra motus concipiatur prater cum quem Copernicus exco- gitavit, ne sic quidem motu hoc recto salvari cometa phanomena. Quamvis enim per motum Copernici an- nuum Sol, ex ipsius sententia, videatur ab @aquatore modo in austrum modo in septentrionem flectere (quem tamen ipse immobilem existimat), quilibet tamen horum motuum integro semestri completur, et brevi illo spatio dierum 40, quo ferme cometa comparuit, parum admodum Sol moveri visus est, hoc est per gradus tres, neque multo maior, ex hoc Terra motu, videri potuit cometa appa- rens deviatio; cui etiam si addatur totus ille motus qui ex incessu illo recto apparenter oriretur, nunquam motum cometa observatum exaquabit. Qui egli vuol mostrare che né anco ponendosi il moto della Terra, quale dal Copernico fu assegnato, si po- trebbe esplicare e sostenere questo moto per linea retta e quella deviazion del vertice; perché, se bene al moto 730 GALILEO GALILEI della Terra ne conséguita l'apparente declinazione del Sole ora verso austro ora verso borea, tuttavia nello spazio di 40 giorni, ne i quali si osservò la cometa, tal de- clinazione non importò più di gradi 3, né molto maggior di tanto poteva apparir quella della cometa; si che, con- giunta questa con quel solo grado e mezo che poteva importar l’altra dependente dal proprio moto retto, tut- tavia noi rimagniamo assai lontani da quel moto gran- dissimo che in lei si vide. Qui, non avendo noi affermato . né detto che di tal deviazione apparente ne sia cagione movimento alcuno di qualch'altro corpo, e men di tutti del corpo terrestre, il quale l’istesso Sarsi confessa di sapere che noi reputiamo falso, chiaramente apparisce ch'egli l’ha introdotto di suo capriccio per farsi adito a crescere il suo volume; per lo che niuno obligo cade in noi di risposta per mantenimento di quello che non ab- biamo prodotto. Non però voglio restar di dire, ch'io for- temente dubito che il Sarsi non abbia ancora formatasi perfetta idea de’ moti attribuiti alla Terra, né delle varie e moltiplici apparenze che da quelli negli altri corpi mondani scorger si dovrebbono; gia che io veggo ch'egli senza niuna differenza di positura, o sotto o fuori del- l’eclittica, o dentro o fuori dell’orbe magno, o di meri- dionale o settentrionale, o di vicino o lontano da essa Terra, stima che qual deviazione apparisce nel corpo so- lare, collocato nel centro di essa eclittica, debba ancor la medesima, o pochissimo differente, scorgersi in ogn’altro visibile oggetto, in qualsivoglia luogo del mondo collo- cato; cosa ch'è remotissima dal vero, e non repugna che, mediante la differente postura, quella mutazione che nel Sole apparisce tre gradi, in altro oggetto possa apparire 10, 20, 30. Ed in conclusione, se il movimento attribuito alla Terra, il quale io, come persona pia e cattolica, re- puto falsissimo e nullo; saccommoda al render ragione di IL SAGGIATORE 231 tante e si diverse apparenze le quali s’'osservano ne’ corpi celesti; io non m’assicurerò ch'egli, cosi falso, non possa anco ingannevolmente rispondere all’apparenze delle comete, se il Sarsi non discende a più distinte con- siderazioni di quelle che sin qui ha prodotte. 33. Legga ora V. S. Illustrissima il quinto argomento. (5um argumentum). Atque hac quidem, si omnium, quot- quot adhuc fuerunt, cometarum motus aque certus ac regularis fuisset: at si alios etiam in quasstionem vocemus, quorum motus longe diversus ab his fuit, multo clarius ex illis constabit, possit ne cometis motus hic rectus preescribi. Adi igitur Cardanum; haec apud illum, ex Pontano, leges: « Cometes tenui capite comaque admo- dum brevi a nobis conspectus est, qui mox, mira magni- tudinis factus, ab ortu in septentrionem coepit deflectere, nunc citato motu nunc remisso; et quoad Mars Satur- nusque regrederentur, ipse aversus, coma progrediente, ferebatur, donec ad Arctos pervenit; unde, cum primum Saturnus et Mars recto cursu pergere cacperunt, in oc- casum iter flexit tanta celeritate, ut die uno 30 gradus emensus sit; atque ubi ad Arietem et Taurum commeavit, videri desiit ». Praterea apud eumdem, ex Regiomon- tano, haec habes: « Idibus Ianuariis anno Domini 1475 visus est nobis cometa sub Libra cum stellis Virginis, cuius caput tardi erat motus donec propinquum esset Spice; nunc incedebat per crura Bootis versus eius sini- stram, a qua discedendo, die uno naturali, portionem cir- culi magni graduum 40 descripsit, ubi, cum esset in medio Cancri, maxime distabat ab orbe signorum gradibus 67; et tunc per duos polos zodiaci et a@quinoctialis ibat, usque ad intermedia pedum Cephai, deinde per pectus C'as- siopeiae super Andromeda ventrem; post, gradiendo per longitudinem Piscis septentrionalis, ubi valde remitte- batur motus eius, propinquabat zodiaco, etc.». Quare 232 GALILEO GALILEI in principio ac fine tardissimi fuit motus, in medio vero celerrimi, quod motui isti per lineam rectam apertissime repugnat; hic enim semper in principio velocior est, postea sensim remittitur; cui tamen adhuc apertius obstat prior cometa Pontani, in principio tardus, in fine velo- cissimus. Audi illum in Meteoris ita concinentem: Nam memini quondam, Icario de sidere lapsum Squalentem praferre comam, tardoque meatu Flectere sub gelidum borea penetrabilis orbem; Hinc rursum praferre caput, cursuque secundo Vertere in occasum, ac laxis insistere habenis; Donec Agenorei sensit fera cornua Tauri. In his duobus porro cometis difficilius multo motus ille rectus explicari potest; cum hi, brevissimo temporis spatio, integrum semicirculum maximum motu suo per- currerint, cui motui explicando perexiguo futurus est adiumento quicumque Terra motus. Neque hoc loco ca- talogum cometarum variorumque illorum motuum texere mei est instituti: si quis vero eos adeat qui de his egerunt, multa inveniet qua cum motu hoc recto stare nulla ra- tione possunt. Satis igitur superque de cometa substantia ac motu dictum. Qui col produrre il Sarsi altre varie mutazioni fatte in altre comete e descritte da altri autori, pensa pur di confermare il suo detto. Ma quello che ho scritto di sopra risponde ancora a questo, né altro ci bisogna, se prima, lasciando il Sarsi le troppo larghe generalità, non viene alle particolari considerazioni de’ particolari stati d’esse comete, quanto all’essere alte, basse, australi o boreali, ed apparse ne’ tempi de’ solstizi o degli equinozzi; con- dizioni tralasciate da esso, e necessarissime in cotali de- cisioni, com'egli stesso potrà conoscere qualunque volta con maggiore attenzione si ridurrà a questa speculazione. 34. Passo ora all'ultima questione del presente esame: IL SAGGIATORE 233 AN CAUDA CURVITAS EX REFRACTIONE ORIRI POSSIT. QUZASTIO III Reliqua nunc est comete coma seu barba, vel, si mavis, cauda, qua sua illa curviltate non parum astro- nomis negotii facessit: in qua tamen explicanda trium- phare plane sibi videtur Galileus. Verum illud primum hoc loco ei suggerere habeo, nihil esse quod novum hunc modum comarum explicandarum sibi adscribat; nihil ipsum sua hac in disputatione protulisse, quod Keplerus multo ante non viderit, et scriptis planissime consignarit: nam dum rationes inquirit, cur cometarum cauda curva aliquando videantur, ait id non ex parallaxi oriri, quod alio etiam loco probat, neque ex refractione, multa in hanc sententiam afferens; ubi tandem ait, hoc phano- menon inter natura arcana relinguendum. Hoc igitur pramissum volui, quandoquidem ipse ait, se vidisse ne- minem qui hac de re scripserit, prater Tychonem. Hoc uno inter se differunt Keplerus et Galilaus, quod hic iis rationibus assentitur, quas non tanti ponderis ille existi- mavit, ac propterea sub iudice litem relinquendam statuit. Troppo veramente si dimostra il Sarsi desideroso di spogliarmi, anzi del tutto denudarmi, d’ogni ben che lieve ornamento di gloria: e qui, non contento di scoprire, la ragion prodotta per mia dal Sig. Mario, onde avvenga che la chioma della cometa talora ci apparisca piegarsi in arco, esser falsa e non concludente, aggiunge, in quella non esser da me arrecato niente di nuovo, ma il tutto molto innanzi essere stato scritto e publicato, e poi come falso rifiutato, da Giovanni Kepplero; tal che nell’animo del lettore, qualunque volta egli si fermasse sopra la re- lazion del Sarsi, io resterei in concetto non solo d’invo- lator delle cose altrui, ma di ladruccio dappoco, che 734 GALILEO GALILEI andasse raggranellando sino alle cose rifiutate. Ma chi sa che anco forse la piccolezza del furto non mi renda più colpevole, nel concetto del Sarsi, che s'îo con mag- giore animo mi fussi applicato a prede maggiori? e se per avventura io, in cambio di rubacchiar qualche cosa- rella, mi fussi con maggior generosità messo alla cerca di libri non cosi noti in queste parti, ed incontratone alcuno di qualche bravo autore avessi tentato di soppri- mere il suo nome ed attribuire a me tutta l’opera intera, forse cotal impresa gli saria paruta altrettanto eroica e grande, quanto l’altra pusillanima ed abietta. Ma io non son di tanto cuore, e liberamente confesso la mia co- dardia. Ma s'io son poveretto e d’ardire e di forze, sono almanco da bene, né voglio, Sig. Lottario, immeritamente restar con questo fregio su ’1 viso, ma voglio liberamente scrivere e palesare il vostro mancamento, e non pene- trando io da quale affetto possa esser nato, lascerò che voi stesso lo specifichiate poi nella vostra scusa. Volse già Ticone assegnar la causa di cotale appa- rente curvità, riducendola ad alcune proposizioni dimo- strate da Vitellione; ma il Sig. Mario mostrò che quello non aveva comprese le cose scritta da quell’autore, le quali sono remotissime dal servire al proposito di tal piegatura. Soggiunse l’istesso Sig. Mario quella che a sé ed a me era paruta la vera causa e dimostrativa ragione: si leva su il Sarsi, e volendo confutarla e, di più, mani- festarla cosa del Kepplero, cade con Ticone nell’istessa fossa, e si dichiara non avere inteso niente di quello che scrivono il Kepplero ed il Sig. Mario, o almeno dissimula l’intender l’uno e l’altro, e vuole che ambedue scrivano l’istessa cosa, mentre scrivono cose differentissime. Il Kepplero vuol render ragione della curvità come ch’essa chioma sia realmente, e non in apparenza solamente, curva; il Sig. Mario la suppone realmente diritta, e cerca la causa della piegatura apparente. Il Kepplero la riduce IL SAGGIATORE 235 ad una diversità di refrazzioni de’ raggi stessi solari, fatte nell’istessa materia celeste in cui si forma l’istessa chioma, la qual materia, in quella parte solamente che serve alla produzzion della chioma, in altri ed altri gradi di vicinità all’istessa stella sia pit e più densa, si che, facendo altre ed altre refrazzioni, dal composto final- mente di tutte ne risulti una total refrazzione distesa non direttamente, ma in arco; il Sig. Mario introduce una refrazzione fatta non da’ raggi del Sole, ma dalla spezie dell’istessa cometa, non nella materia celeste aderente al capo di quella, ma nella sfera vaporosa che circonda la Terra: si che l'efficiente, la materia, il luogo ed il modo di queste produzzioni sono diversissimi, né Anno altra communicanza tra di loro questi due autori, che questa sola parola refrazzione. Ecco le parole precise del Kep- plero: Non refractio potest esse causa inflexionis huius, ni nescio quod monstri confingamus, materiam atheream certis gradibus propinquitatis ad hoc sydus magis ma- gisque crassam, nec nisi ex una sola parte in quam caudam vergit. Ah, Sig. Lottario, è possibile che voi vi siate lasciato trasportar tant’oltre dal desiderio d’oscurare il mio nome, qual egli si sia in materia di scienze, che non solo non abbiate avuto riguardo alla reputazion mia, ma né anco a quella di tanti amici vostri? a’ quali con fallacie e simulazioni avete cercato di far credere la vostra dottrina ferma e sincera e con tal mezo avete fatto acquisto del loro applauso e delle lor lodi, che adesso, se mai accaderà ch’essi veggano questa mia scrit- tura e per essa comprendano quante volte ed in quante maniere voi gli avete voluti trattar da troppo semplici, ei si terranno scherniti da voi, e la stima e la grazia vostra negli animi loro muterà stato e condizione. Diffe- rentissima è dunque la ragione prodotta e rifiutata poi dal Kepplero; il quale, come persona conosciuta da me sempre per non men libera e sincera che intelligente e 236 GALILEO GALILEI dotta, son sicuro che ei confesserebbe, il nostro detto es- sere in tutto diverso dal suo, e che come il suo meritò il rifiuto, questo merita l'assenso, perché è vero e dimostra- tivo, ben che il Sarsi singegni di confutarlo. 35. Ma sentiamo la forza delle sue confutazioni. (fum argumentum). Sed videamus iam, an ex refractione, quod Galileus asserit, huius cauda curvitas oriri potuerit. Neque enim eas leges illa servasse videtur, quas eidem ipse preescribit; ut nimirum quoties ad horizontem incli- naretur eidemque fere incederet parallela ac plures ver- ticales intersecaret, tunc solum curvaretur, ubi vero ad verticem nostrum spectaret, illico dirigeretur: nam vix tribus quatuorve diebus suam illam primam curvitatem servavit, idque sive horizonti proxima sive ab eodem remota; postea vero declinare quidem visa est ab ea linea que per cometa caput a Sole recta duceretur, sed nullam curvitatem pra se tulit, cum tamen sapissime ductus ille cauda ad horizontem inclinatus compareret. At si ita se res haberet ut Galilaeus asserit, longe rectior videri debuisset in ipso exortu, quam cum altius eleva- retur. Sepissime enim ita ab horizonte ascendit, ut tota in eodem fere verticali existeret; in ascensu vero ipso fiebat ad horizontem inclinatior, et plures verticales in- tersecabat; ut ex globo ipso cognoscere quivis potest, si observet, exempli gratia, in globo aliquo caelesti locum cometa et ductum cauda respondentem diei 20 Decem- bris. Transibat enim tunc coma inter duas postremas stellas cauda Ursa Maioris, ipsum vero comete caput distabat ab Arcturo gradibus 25, minutis 54, a Corona pero gradibus 24, minutis 25. Si igitur locus cometa in globo inveniatur et ductus cauda describatur, in ipsa globi circumvolutione apparebit cauda, ab horizonte emergens, in uno fere verticali; mox, altius provecta, fiet ferme horizonti parallela: et tamen hac ne in hac quidem positione curvitatem ullam ostendit. IL SAGGIATORE CIR Troppo inefficace maniera di confutare una dimo- strazion di prospettiva necessariamente concludente è questa del Sarsi, mentr’egli vuole che altri la posponga a sue relazioni, le quali possono essere alterate e fran- camente accommodate al suo bisogno; e perdonimi il Sarsi se io ho tal sospetto, poi ch'egli stesso dé tanto frequentemente occasione di sospender la credenza delle cose ch’ei produce. E qual fede si deve prestare alle re- lazioni d'uno circa cose già passate e che niente di loro più si ritrova né vede, mentre il medesimo, parlando di cose permanenti, presenti, publiche e stampate, non s astiene di riferirne delle dieci le nove alterate diversi- ficate ed in somma trasformate in senso contrario? lo torno a dire che la dimostrazione scritta dal Sig. Mario è pura, geometrica, perfetta e necessaria; questa doveva il Sarsi procurar prima d'intendere perfettamente, e poi, non gli parendo concludente, mostrar la sua fallacia o nella falsità degli assunti o nel progresso della dimostra- zione: del che egli non ha fatto niente o pochissimo. La nostra dimostrazione prova che l'oggetto veduto, essendo disteso per linea retta e costituito fuori della sfera va- porosa, vicino ed inclinato all’orizonte, necessariamente si dimostra incurvato all'occhio posto lontano dal centro di essa sfera vaporosa; ma se quello sarà eretto all’ori- zonte o molto sopra quello elevato, del tutto diritto o insensibilmente incurvato ci si rappresenterà. La pre- sente cometa per quei primi giorni che si vide bassa ed inclinata, si vide anco incurvata; fatta poi sublime, restò diritta, e tale si mantenne, perchè sempre s'andò dimo- strando in grande elevazione: la cometa del 77, la qual io continuamente vidi, perché sempre si mantenne bassa e molto inclinata, sempre si vide incurvata notabilmente: altre minori, che io ho viste altissime, sempre sono state dirittissime: si che l’effetto si troverà conformarsi colla 47. - G. Galilei, Opere - II. 758 GALILEO GALILEI conclusione dimostrata, qualunque volta d’esso si abbiano veridiche relazioni. Ma sentiamo quanto il Sarsi oppone alla nostra dimostrazione, e di quanto momento siano le sue instanze. 36. (2um argumentum). Praterea non video, qui fieri possit ut adeo secure asseveret Galileus, vaporosam re- gionem ipsi Terra spharice circumfundi; cum tamen ipse huiusmodi vapores altius alicubi elevari quam alibi, constantissime doceat, dum suam de motu recto sententiam astruere nititur. Immo vero cometas ipsos non aliunde quam ex his ipsis vaporibus, Terra umbrosum conum preetergressis, formatos dictitat. Quid ergo, si hic, vapor a Terra superficie tribus absit pas- suum millibus, ibi vero ultra mille leucas protendatur, an sic etiam sphere figuram servabit vaporosa isthaec regio? Certe qui ad hanc diem sphara rudimenta tra- diderunt, ii mediam aéris partem, que maxime vaporibus constat (si quam tamen illa certam figuram servat), spharoidalem potius seu ovalem esse, quam rotundam, docent, cum in iis partibus, qua polis subiectae sunt, vapores minus a Sole solvantur, eleventurque proinde altius, quam in iis qua @quinoctiali circulo et torrida zona subiacent, ubi a calore finitimi Solis facillime dis- solvuntur. Si ergo vaporosa hac regio spherica non est, nec aequis ubique intervallis a Terra removetur, neque aequalem in omnibus partibus crassitiem et densitatem servat, cauda curvitas ex eiusdem regionis rotunditate, que nusquam est, existere nunquam poterit. Atque hac de Galilei sententia, in iis quae cometam immediate spectant, dicta sint. Plura enim dici vetat ipsemet, qui, in bene longa disputatione, quid sentiret paucis admodum atque involutis verbis expo- suit, nobisque plura in illum afferendi locum preeclusit. Qui enim refelleremus qua ipse nec protulit, IL SAGGIATORE 239 neque nos divinare potuimus? Ad reliqua nunc ac- cedamus. Alla dimostrazione, come V. S. Illustrissima vede, viene opposto dal Sarsi l’essere ella fabbricata sopra un fondamento falso, cioè che la superficie della region va- porosa sia sferica, la quale egli in diverse maniere prova essere altrimenti. E prima, egli dice che noi stessi con- stantissimamente affermiamo, tali vapori elevarsi pit in un luogo che in un altro. Ma tal proposizione non si trova altrimenti nel libro del Sig. Mario: v'è ben, che ir alcun tempo è accaduto che alcuni vapori si innalzino più del consueto, ma ciò di rado e per brevissimo tempo; onde, per tal rispetto, il dire che la figura della region vapo- rosa non sia rotonda, è detto arbitrario del Sarsi. Il qual soggiunge, appresso, l’altra falsità, cioè che noi abbiam detto che la cometa si formi di quelli stessi vapori che, sormontando il cono dell'ombra, formano quella boreale aurora; cosa che non si trova nel libro del Sig. Mario. Aggiunge nel terzo luogo e dice: « Se cotal vapore in un luogo s'elevasse tre miglia, ed in un altro mille leghe, domin'se anco in questo modo riterrebbe la figura sfe- rica? ». Signor no, Sig. Sarsi, e chi dicesse tal cosa sarebbe, per mio avviso, un gran balordo; ma io non trovo niuno che l'abbia mai né detta, né, credo, pur sognata. Nomi- nate voi l’autore. A quello ch’ei mette nel quarto luogo, cioè che quelli che insegnano i primi abbozzamenti della sfera, insegnano la figura di tal region vaporosa esser più tosto ovale che rotonda, rispondo che il Sarsi non si «meravigli s'egli ha saputa questa cosa, ed io no; perché la verità è che io non ho imparato astronomia da questi maestri delle prime bozze, ma da Tolomeo, il quale non mi sovviene che scriva questa conclusione. Ma finalmente, quando fosse vero e certo, cotal figura essere ovale, e non rotonda, che ne cavereste, Sig. Lottario? niente altro 240 GALILEO GALILEI se non che la chioma della cometa non fusse piegata in arco di cerchio, ma di linea ovale; la qual cosa, senza un minimo pregiudicio della nostra intenzione e del nostro metodo per dimostrar la causa di tale apparente curva- tura, io vi posso concedere, ma non già quello che ne vorreste dedur voi, mentre concludete cosî: « Se dunque questa region vaporosa non è sferica, né per tutto egual- mente lontana dalla Terra, né in tutte le parti egual- mente grossa (proposizione replicata tre volte con diverse parole, per ispaventare i sempliciotti), la curvità della chioma non può derivar da cotal rotondità, la quale non è al mondo ». Non ne segue, dico, in buona logica questa conclusione, ma il piti che ne possa seguire è che tal cur- vità non è parte di cerchio, ma di linea ovale: e questo sarebbe il vostro infelice e miserabil guadagno, quando voi poteste aver per sicurissimo, la region vaporosa es- sere ovata, e non isferica. Se poi in fatto tal piegatura sia in figura d'arco di cerchio, o d’ellisse, o di linea parabolica, o iperbolica, o spirale, o altre, non credo ch’alcuno possa in verun modo determinare, essendo le differenze di cotali inclinazioni, in un arco di due o tre gradi al più, del tutto impercettibili. Mi restano da considerare l’ultime parole, dalle quali vo raccogliendo misticamente varie conseguenze e varii sensi interni del Sarsi. E prima, assai apertamente si comprende ch'egli si messe intorno alla scrittura del Sig. Mario non con animo indifferente circa il notarla 0 lodarla, ma con ferma risoluzione di tassarla ed impu- gnarla (come notai anco da principio); che però si scusa di non le aver fatto più numerose opposizioni, dicendo: «E come potevio confutare le cose ch’ei non ha proffe- rite e ch'io non ho potute indovinare? >, se ben la verità è tutta all’opposito, cioè ch’ei non ha impugnato altre cose, per lo pia, che le non profferite dal Sig. Mario e IL SAGGIATORE 241 ch’egli sè messo per indovinarle. Dice insieme, che il Sig. Mario ha scritto con parole oscure ed inviluppate, e che in una ben lunga disputazione non si comprende qual sia stato il suo senso. A questo gli rispondo che il Sig. Mario ha avuta diversa intenzione da quella del Maestro del Sarsi. Questo, come si raccoglie dal prin- cipio della scrittura del Sarsi, scrisse al vulgo, e per in- segnargli con suoi responsi quello che per se stesso non avrebbe potuto penetrare; ma il Sig. Mario scrisse a i più dotti di noi, e non per insegnare, ma per imparare, e però sempre dubitativamente propose, e non mai ma- gistralmente determinò, ma si rimise alle determinazioni de’ più intelligenti: e se la nostra scrittura pareva cosi oscura al Sarsi, doveva, prima che censurarla, farsela dichiarare, e non mettersi a contradire a quello ch’ei non intendeva, con pericolo di restarne a bocca rotta. Ma s'io devo dir liberamente il mio parere, non credo veramente che il Sarsi trapassi senza impugnare la maggior parte delle cose scritte dal Sig. Mario perch’ei non l’abbia be- nissimo capite, ma si bene perché, per l’opposito, elle sien troppo apertamente chiare e vere, e ch'egli abbia stimato miglior consiglio il dire di non l’intendere, che contro a suo gusto prestar loro applauso e lode. Vengo ora al terzo essame, dove il Sarsi in quattro proposizioni, spezzatamente cavate di più di 100 che ne sono nel Discorso del Sig. Mario, si sforza di farci ap- parire poco intelligenti: l’altre tutte, assai pit principali di queste, le chiude egli sotto silenzio, e queste, o con aggiungervi o con levarne o con torcerle in altro senso da quello in che son profferite, le va accommodando al suo dente. 37. Vegga ora V. S. Illustrissima. 742 GALILEO GALILEI EXAMEN TERTIUM QUARUMDAM GALILZAI PROPOSITIONUM SEORSIM CONSIDERATARUM. PRIMA PROPOSITIO. AÈR ET EYHALATIO AD MOTUM CZLI MOVERI NON POSSUNT. Antequam ad nonnullas Galilei propositiones accu- ratius expendendas, quod nunc molior, accedam, illud testatum omnibus velim, nihil hic minus velle me quam pro Aristotelis placitis decertare: sint ne vera an falsa magni illius viri dicta, nil moror in preesentia; illud unum interim ago, ut ostendam, admotas a Galileo ma- chinas minus firmas ac validas fuisse, ictus irritos ceci- disse, atque, ut apertissime dicam, pracipuas propositiones quibus, veluti fundamentis, universa disputationis ipsius moles innititur, nonnullam fortasse veritatis speciem pra- seferre, illas vero si quis diligentius introspexerit, falsas, ut arbitror, deprehensurum. Dum igitur in Aristotelis sententiam refutare conatur, illud inter catera habet, ad cali lunaris motum circum- ferri aérem non posse; ex quo postea consequitur, neque per hunc motum accendi, quod inde deducebat Aristo- teles. « Cum enim, inquit Galilaeus, calestibus corporibus figura perfectissima debeatur, dicendum erit, concanvam huius cali superficiem spharicam esse ac politam, nul- lamque admittere asperitatem: politis autem lavi- busque corporibus neque aér neque ignis adhere- scit; quare hac neque ad motum illorum movebuntur >. Qua omnia probat argumento ab experientia ducto. « Si enim, inquit, circa suum centrum circumagatur vas ali- quod hemispharicum, politum ac nullius asperitatis, in- clusus aér ad eius motum non movebitur; quod persuadet IL SAGGIATORE 743 accensa candela interna superficiei vasis proxime admota, cuius flamma nullam in partem ad vasis motum se se convertet; at si aér ad motum pvasis rapereiur, secum etiam flammam illam traheret ». Hactenus Galilaus. In his porro quaedam reperias quae tamquam certa assu- muntur, et certa non sunt; alia vero quae etiam pro certis habentur, et falsa comprobantur. (fum argumentum). Primum enim, dictum illud quo asserit, concavo lunari spharicam et politam figuram deberi, si quis negarit, qua via quave ratione contrarium evincet? Nam si lavitas atque rotunditas ceelestibus cor- poribus debetur, ideo debetur maxime, ne eorumdem motus impediatur. Si enim superficies secundum quas sese contingunt orbes illi, asperitatem aliquam admit- terent, asperitas hac procul dubio remoraretur eorum motum. Praterea, extima summi cali superficies ideo rotunditatem requirit, ex Aristotele, ne si forte angulis constet, ad eius motum vacuum existat. Haec autem omnia nullam prorsus vim habent in re nostra. Si enim concava hac lunaris cali superficies nec rotunda nec laevis sit, sed aspera et tuberosa, nihil absurdi conse- quitur, cum eius motui obsistere non possit corpus. illi proximum, sive aér sive ignis sit, neque vacuum ullum sequatur, succedente semper uno corpore in alterius lo- cum. Praterea, si hac asperitas admittatur, longe melius servatur corporum omnium mobilium nexus: sic enim ad motum cali moventur superiora elementa, ex quo- rum motu multa gigni, multa destrui, quotidie videmus. Verum, dum Galilaus nobilissimis corporibus rotundam figuram deberi asserit, numquid homines, calo longe no- biliores, idcirco teretes atque rotundos optabit? Quos tamen quadratos, ex sapientum oraculis, malumus. Di- xerim igitur potius, eam cuique figuram tribuendam, qua ad eiusdem finem consequendum sit aptissima. Ex quo non immerito aliquis sic inferat: Cum ergo Luna con- 744 GALILEO GALILEI cavum inferiora haec sublimioribus illis orbibus nectere quodammodo ac colligare debeat, asperum potius ac tenax, quam politum ac lave, fabricandum fuit. Qui, senza passar più oltre, si ritrovano le solite arti del Sarsi. E prima, non si trova nella scrittura del Sig. Mario che noi abbiamo detto mai che a i corpi lisci e puliti né l’aria né il fuoco aderiscano e s’attacchino: il Sarsi ci impone questo falso di suo capriccio, per farsi strada a poter dir, poco di sotto, di certa piastra di vetro. Di pit, finge il Sarsi di non s’accorgere che il dir noi che 1 concavo della Luna sia di superficie perfettis- simamente sferica tersa e pulita, non è perché tale sia la nostra opinione, ma perché cosî vuole Aristotile ed i suoi seguaci, contro al quale noi argomentiamo ad hominem: e fingendo di trovar nel libro del Sig. Mario quello che non v'è, simula di non vedere quello che pit volte e molto apertamente v'è scritto, cioè che noi non ammet- tiamo quella sin qui ricevuta moltiplicità d’orbi solidi, ma che stimiamo diffondersi per gl’'immensi campi del- l'universo una sottilissima sostanza eterea, per la quale i corpi solidi mondani vadano con lor proprii movimenti vagando. Ma che dico? pur ora mi sovviene ch’egli aveva ciò veduto e notato di sopra, a car. 34, dov'egli scrive: Cum enim nulli Galileo sint calestes Ptolemai orbes, nihilque, ex eiusdem Galilai systemate, in colo solidi inveniatur. Qui, Sig. Sarsi, non potete voi mai nasconder di non avere internamente compreso, che il dir noi che il concavo lunare è perfettamente sferico e liscio, sia detto non perché tale lo crediamo, ma perché tale lo stimò Aristotile, contro al quale ad hominem noi dispu- tiamo; perché se voi creduto aveste, ciò essere stato detto di propria nostra sentenza, non ci avereste mai perdo- nata una tanta contradizzione, di negare in tutto le di- stinzioni degli orbi e la solidità, e poi ammettere l'una e l’altra: errore di molto maggior considerazione, che tutte ——— IL SAGGIATORE 745 l'altre vostre note prese insieme. Vanissimo, dunque, è tutto il restante del vostro progresso, dove voi v'andate ingegnando di provare, il concavo lunare dover più tosto esser sinuoso ed aspro, che liscio e terso: è, dico, vano, né m'obliga a veruna risposta. Tuttavia voglio che (come dice il gran Poeta) Tra noi per gentilezza si contenda, e considerar quanta sia l’energia delle vostre prove. Voi dite, Sig. Sarsi: « Se alcuno negasse che la con- cava superficie lunare sia liscia e tersa, in qual modo o con qual ragione si proverebbe in contrario? ». Soggiun- gete poi, come per prova prodotta dall’avversario, un discorso fabbricato a vostro modo e di facile disciogli- mento. Ma se l’avversario vi rispondesse, e dicesse: « Sig. Lottario, posto che gli orbi celesti sieno di materia solida e distinta da quella che dentro al concavo lunare è contenuta, vi dico asseverantemente, doversi di neces- sità dire, tal superficie concava esser pulita e tersa più di qualsivoglia specchio: imperocché quando ella fusse sinuosa, le refrazzioni delle specie visibili delle stelle, nel venire a noi, farebbono continuamente un'infinità di stravaganze, come accade a punto nel riguardar noi gli oggetti esterni per una finestra vetriata, nella quale sieno vetri altri spianati e puliti, ed altri non lavorati; ché, o perché gli oggetti si muovano, o perché noi mo- viamo la vista, le specie loro mentre passano per li vetri ben lisci niuna alterazione ricevono, né quanto al sito né quanto alla figura, ma nel passar per li vetri non lavorati non si può dir quali e quanto stravaganti sieno le muta- zioni; e cosi appunto quando il concavo lunare fosse sinuoso, mirabil cosa sarebbe il veder con quante tra- sformazioni di figure, di movimenti e di situazioni le stelle erranti e fisse di momento in momento ci si mo- strerebbono, secondo che or per una or per un’altra parte 48. - G. Galilei. Opere - II. 746 GALILEO GALILEI del sottoposto orbe lunare passassero a noi le loro specie; ma niuna cotal difformità si scorge; adunque il concavo è tersissimo >»; a questo che direte, Sig. Sarsi? Bisogna che v’affatichiate in persuader che tal discorso non vi giunga nuovo, e che l'avete trapassato come superfluo, e finalmente che non sia mio, ma d’altri, e già dismesso come rancido e muffo, e ch’in ultimo l’atterriate. Sia, dunque, questa la mia ragione per provare, il concavo lunare esser liscio, e non sinuoso. Sentiamo ora quella che producete voi per prova del contrario, e ricordiamoci che noi siamo in contesa degli elementi superiori, se sieno rapiti in giro dal moto celeste o no (ché tal è il vostro titolo della conclusione che voi impugnate, cioè: Aér et exhalatio ad motum celi moveri non possunt), e ch'io ho detto di no, perché il concavo lunare è liscio, e questo ho provato per l’uniformità delle refrazzioni. Voi, pro- vando il contrario, scrivete così: « Se si pone il concavo sinuoso, molto meglio si conserva la connession di tutti i corpi mobili, perché cosî al moto del cielo si muovono gli elementi superiori ». Ma, Sig. Lottario, questo è quel- l'errore che i logici chiamorno petizion di principio, mentre che voi pigliate per conceduto quello ch’è in que- stione e ch'io di gia nego, cioè che gli elementi superiori si muovano. Noi abbiam quattro conclusioni, due mie e due vostre. Le mie sono: « Il concavo è liscio >, e questa è la prima; la seconda è: « Però gli elementi non son rapiti >». Che il concavo sia liscio, lo provo per le refraz- zioni delle stelle, e concludo benissimo. Le vostre sono, prima: « Il concavo è aspro »; seconda: « Però rapisce gli elementi ». Provate poi che il concavo sia aspro perché cosi, al moto di quello, vengon rapiti gli elementi, e la- sciate l'avversario nel medesimo stato di prima, senza niun vostro guadagno, il qual né pit né meno persisterà in dire che il concavo non è aspro né rapisce gli ele- menti. Bisognava dunque, per isfuggire il circolo, che voi IL SAGGIATORE 247 aveste provata l’una delle due conclusioni per altro mezo. Né mi diciate, avere a bastanza provata l’inegualità di superficie mentre dite che cosi meglio si collegano le cose inferiori colle superiori, perché per connetterle basta il semplice toccamento, e voi stesso più a basso ammettete l’istessa aderenza ed unione quando bene il concavo sia liscio, e non aspro, tal che frivolissima resterebbe cotal prova. Né di più forza sarebbe l’altra, quando per av- ventura voi pretendeste d’aver provato il ratto degli ele- menti superiori perché per cotal moto si fanno quaggit le generazioni e le corruzzioni, e forse perché per esso viene spinto a basso il fuoco e l’aria superiore, che son pur fantasie fondate appunto in aria; e tardi ci riscal- deremmo se avessimo aspettare l'espulsione del fuoco verso la Terra e massime che voi stesso adesso adesso direte ch’ei fa forza all'in su, e che però spinge, e, spin- gendo, aggrava in certo modo e più saldamente aderisce alla celeste superficie: pensieri e discorsi appunto fan- ciulleschi, che or vogliono ed or rifiutano le medesime cose, secondo che la sua puerile inconstanza loro detta. 38. Ma sentiamo con quali altri mezi nel seguente se- condo argomento e’ provi l’istessa conclusione. (2um argumentum). Sed quid ego adversus Galileum argu- menta aliunde conquiro, quando ea ipse mihi abunde suppeditat? Nihil apud illum verius, quam Lunam non asperam modo esse, sed, alterius Telluris in modum, Alpes suas, Olympum, Caucasum suum habere, in valles deprimi, in campos latissimos extendi, Luna certe montes in Luna desiderari non posse. An non celeste corpus ac nobilissimum est Luna? Numquid non longe nobilius quam calum ipsum, quo veluti curru vehitur, quod ve- luti domum inhabitat? Cur igitur Luna tornata non est, sed aspera ac tuberosa? Stelle ipsa an non, Galileo teste, figura varia atque angulari constant? Quid autem inter sublimes substantias nobilius? Addo etiam, ne Solem 748 GALILEO GALILEI quidem, si aspeclui credas, hanc adeo nobilem figuram sortitum; dum in illo faculae quadam conspiciuntur re- liquis longe partibus clariores, qua vel asperum, vel non a2eque undique lumine perfusum, eumdem ostendunt. Quare si nihil hac Galilei ratio persuadet, licetque in concavo lunari asperitatem admittere, nemo, arbitror, negabit, ad eius motum ferri exhalationes atque aérem posse. Asperitatem autem hanc admittendam non esse, non facile probabit Galilaus. Illud hoc loco omittendum non est, quod in Epistola 3 ad Marcum Velserum ipse habet, hoc est, solares maculas fumidos vapores esse, ad motum solaris corporis circumductos. Vel igitur solare corpus politum est ac lave, et non poterit huiusmodi vapores circumferre: vel asperum est et tuberosum, atque ita nobilissimum inter callestia corpora neque spharicum est nec politum. Praterea, in Epistola 2 ad eumdem Marcum ait: « Solem circa suum centrum ad ambientis motum rotari; corpus autem ambiens ipso ‘etiam aére longe tenuius esse debet >». Quare, si corpus solare so- lidum ad motum circumfusi corporis rarissimi et tenuis- simi movetur, non video cur postea calum ipsum solidum motu suo secum rapere non possit corpus inclusum quampis tenuissimum, quale est sphara elementaris. E prima che più avanti io proceda, torno a replicare al Sarsi, che non son io che voglia che il cielo, come corpo nobilissimo, abbia ancora figura nobilissima, qual è la sferica perfetta, ma l’istesso Aristotile, contro al quale si argomenta dal Sig. Mario ad hominem: ed io, quanto a me, non avendo mai lette le croniche e le nobiltà par- ticolari delle figure, non so quali di esse sieno più o men nobili, più o men perfette; ma credo che tutte sieno an- tiche e nobili a un modo, o, per dir meglio, che quanto a loro non sieno né nobili e perfette, né ignobili ed im- perfette, se non in quanto per murare credo che le quadre sien più perfette che le sferiche, ma per ruzzolare o IL SAGGIATORE 749 condurre i carri stimo più perfette le tonde che le trian- golari. Ma tornando al Sarsi, egli dice che da me gli vengon abbondantemente somministrati argomenti per provar l’asprezza della concava superficie del cielo, perché io stesso voglio che la Luna e gli altri pianeti (corpi pur essi ancor celesti ed assai pit dell’istesso cielo nobili e perfetti) sieno di superficie montuosa, aspra ed ineguale; e se questo è, perché non si deve dire tale ine- gualità ritrovarsi ancora nella figura celeste? Qui può l'istesso Sarsi metter per risposta quello ch’ei risponde- rebbe ad uno che gli volesse provare che il mare dovrebbe esser tutto pieno di lische e di squamme, perché tali sono le balene, i tonni e gli altri pesci che l’abitano. All’interrogazione, ch'egli mi fa, per qual cagione la Luna non è liscia e tersa, io gli rispondo che la Luna e gli altri pianeti tutti, che, essendo per se stessi tenebrosi, risplendono solamente per l'illuminazione del Sole, fu ne- cessario che fussero di superficie scabrosa, perché, quando fussero di superficie liscia e tersa come uno specchio, niuna reflession di lume arriverebbe a noi, essi ci reste- rebbon del tutto invisibili, ed in conseguenza del tutto nulle resterebbon l’azzioni loro verso la Terra e scambie- volmente tra di loro, ed in somma, essendo ciascheduno anco per se stesso come nulla, per gli altri sarebbon del tutto come se non fussero al mondo. All’incontro poi, quasi altrettanto disordine seguirebbe quando i cieli fus- sero d'una sostanza solida e terminata da una superficie non perfettissimamente pulita e tersa: imperocché (come di sopra ho pur detto), mediante le refrazzioni continua- mente perturbate in cotal sinuosa superficie, né i movi- menti de i pianeti, né le lor figure, né le proiezzioni de’ lor raggi verso noi, ed in conseguenza gli aspetti loro, altrimenti che confusissimi e disregolati non si ritrove- rebbono. Eccovi, Sig. Sarsi, un’efficace ragione in risposta del vostro quesito; in premio della quale cancellate di 250 GALILEO GALILEI grazia dalla vostra scrittura quelle parole dove voi dite che io ho scritto in molti luoghi che le stelle son di figure varie e angolari, ché sapete bene in coscienza che questa è una bugia e ch'io non ho mai scritta cotal proposizione; ed il pit che voi potete avere inteso o letto, è che le stelle fisse sono di lume cosi vivo e folgorante, che il lor piccolo corpicello non si può scorgere distinto e circolato tra cosi splendenti raggi. Quanto poi a quello che il Sarsi scrive nel fine, del Sole e delle fumosità che in esso si generano e dissolvono e del suo ambiente, io non ho mai risolutamente parlato se questo al moto di quello o pur quello al moto di questo si raggirino, perché non lo so, e potrebbe essere anco che né l’ambiente né il corpo solare fusser rapiti, ma che d'ambedue fusse egualmente naturale quella con- versione, per la quale son ben sicuro, perché lo veggo. ch’esse macchie si raggirano in quattro settimane in circa. Ma quando di ciò s’avesse anco perfetta scienza, non veggo quale utilità ne arrecasse alla presente contesa, dove solamente ad hominem ed argumentando ex suppo- sitione, e fatte anco supposizioni sicuramente false, in materie diversissime dal Sole e suo ambiente, si cerca se il concavo lunare, duro e liscio, che tale non è al mondo, girandosi (che pur è un’altra falsità), rapisce seco il fuoco, che forse anch'esso non v'è. Aggiungasi l’altra dis- similitudine grandissima, la quale il Sarsi dice di non saper vedere, anzi la stima una identità, e che egual- mente e coll’istessa naturalezza e facilità possa esser ch’un corpo fluido contenuto dentro la concavità d'un solido sferico, il quale si volga in giro, venga da quello rapito, come se il contenuto fusse una sfera solida e l’am- biente un liquido; ch'è quasi l’istesso che se altri cre- desse, che si come al moto del fiume vien portata e rapita la nave, cosi al moto della nave dovesse esser ra- pita l’acqua di uno stagno, il che è falsissimo: perché, IL SAGGIATORE 251 prima, quanto all’esperienza, noi veggiamo la nave, ed anco mille navi che riempissero tutto il fiume, esser mosse al moto di quello, ma all’incontro il corso d’una nave spinta da qualsivoglia velocità non vien seguito da una minima particella d’acqua: la ragion poi di questo non dovrebbe esser molto recondita; imperocché non si può far forza alla superficie della nave, che non si faccia si- milmente a tutta la macchina, le cui parti, essendo solide, cioè saldamente attaccate insieme, non si possono sepa- rare o distrarre, si che alcune cedano all’impeto del- l'ambiente esterno, e l’altre no; il che non avvien cosi dell’acqua o di altro fluido, le cui parti, non avendo in sé tenacità o aderenza appena sensibile, facilissimamente sì separano e distraggono, si che quel sol velo sottilissimo d'acqua che tocca il corpo della nave vien per avventura forzato ad ubidire al moto di quella, ma l’altre parti pit remote, abbandonando le pit propinque, e queste le con- tigue, in piccolissima lontananza dalla superficie si libe- rano del tutto dalla sua forza ed imperio. Aggiungesi a questo, che l’impeto e la mobilità impressa, assai più lun- gamente e gagliardamente si conserva ne i corpi solidi e gravi, che ne i fluidi e leggieri: e cosî veggiamo in un gran peso pendente da una corda, per molte ore conser- varsi l’impeto e moto communicatogli una volta sola; ed all'incontro, sia quanto si voglia agitata l’aria rinchiusa in una stanza, non prima cessa l’impeto di quel che la commoveva, ch'ella totalmente si quieta, né ritien punto l'agitazione. Quando, dunque, l’ambiente e movente è liquido, e fa forza in un contenuto solido, corpulento e grave, va imprimendo la mobilità in un soggetto atto nato a ritenerla e conservarla lungo tempo; per lo che il secondo impulso sopravenente trova il moto impresso di gia dal primo, il terzo impulso trova l’impeto conferito dal primo e dal secondo, il quarto sopragiunge alle ope- razioni del primo, secondo e terzo, e cosî di mano in 252 GALILEO GALILEI mano, onde il moto nel mobile vien non pur conservato, ma augumentato ancora: ma quando il mobile sia liquido, sottile e leggiero ed in conseguenza impotente a conser- vare il movimento impresso, e che tanto è quello che simprime quanto quello che si perde, il volergli imprimer velocità è opera vana, qual sarebbe il volere empier il crivello delle Belide, che tanto versa quanto vi si rin- fonde. Or eccovi, Sig. Lottario, mostrato somma diversità ritrovarsi tra queste due operazioni, che a voi parevano una cosa medesima. 39. Passiamo ora al terzo argomento. (Jum argumen- tum). Sed demus (Galilaeo, orbis huius interiorem super- ficiem tornatam ac lavem esse: nego, laevibus corporibus aérem non adharescere. Lamina certe vitrea B aqua imposita, quamvis lavissima sit, non minus quam si foret alterius asperioris materia natabit, adharensque illi aér aquam A C, circa vitrum per vim sese attollentem, continebit, ne diffluat et laminam obruat. Cur igitur inde non abscedit aér, dum descendentis aqua pon- dere e vitrea lamina truditur, sed heeret illi mordicus, nec, I nisi maiori vi pulsus, loco cedit? Praterea, si quis, lapi- deam forte tabulam politissimam nactus, corpus aliud grave aque politum eidem imposuerit, postea vero su- biectam tabulam huc illuc trahat, impositum @que corpus quo voluerit trahet; et tamen si pondus quo corpus illud tabula innititur auferas, id huic non adherebit. Tota igitur ratio qua ad tabula motum corpus etiam impositum moveri cogit, ex illa compressione oritur, qua grave illud tabulam subiectam premit. Iam, sicuti ex eo quod al- terum horum corporum ab altero premitur, ad eius motum hoc etiam moveri necesse est, ita assero, concavum Luna quodammodo premi ab aére sive exhalationibus inclusis, si quando eas rarefieri contigerit, quod semper contingit: dum enim rarefiunt, prioris loci angustiis contemptis, IL SAGGIATORE 255 ampliori extenduntur spatio, atque ambientium corpo- rum, ac proinde ceeli ipsius, partes omnes, si qua obstent rarefactioni, quantum in ipsis est, premunt; ac propterea non mirum, si ex compressione adhasio aliqua conse- quatur, qua duo hac corpora veluti connectat et colliget, ita ut ad ecumdem postea motum utrumque moveatur. Continua il Sarsi in questa sua fantasia, di voler pur ch'io abbia detto che l’aria non aderisca a i corpi lisci e tersi: cosa che non si trova scritta né da me né dal Sig. Mario..In oltre, io non ben capisco che cosa intenda egli per questa sua aderenza. S'egli intende una copula che resista al separarsi del tutto e spiccarsi l’una dal- l’altra superficie, sî che più non si tocchino, io dico tal aderenza esservi, ed esservi grandissima, sî che la su- perficie, v. g., dell’acqua non si staccherà da quella d'una falda di rame o di altra materia se non con un'immensa violenza, né in questo caso importa se tal superficie sia o non sia pulita e liscia, e basta solo un esquisito contatto; il qual tien tanto saldamente uniti i corpi, che forse le parti de’ corpi solidi e duri non Anno altro glutine di questo, che le tenga attaccate insieme: ma questa ade- renza non serve punto al bisogno del Sarsi. Ma s’egli in- tende una congiunzion tale, che le due superficie, dico quella del solido e quella dell’umido, non possano, né anco strisciandosi insieme, muoversi l’una contro all’altra, che sarebbe secondo il bisogno suo, dico cotale aderenza non vessere non solo tra un solido e un liquido, ma né anco tra due solidi: e cosi vederemo in due marmi ben piani e lisci la prima aderenza esser tanta, che alzandone uno, l’altro lo segue, ma la seconda esser cosi debole, che se le superficie toccantisi non saranno ben bene equidi- stanti all’orizonte, ma un sol capello inclinate, subito il marmo inferiore sdruccioler4 verso la parte inclinata; ed in somma al muover l’una superficie sopra l’altra non si troverà resistenza, ben che grandissima si senta nel vo- 254 GALILEO GALILEI lerle staccare e separare. E cosi il toccamento dell’acqua colla barca ben che facesse grandissima resistenza a chi volesse staccare e separar l’una dall’altra superficie, non- dimeno minima è la resistenza che si sente nel muoversi l'una superficie sopra l’altra, fregandosi insieme; e come di sopra ho detto ancora, la nave mossa velocissimamente non conduce seco altro che quel velo d’acqua che la tocca, anzi forse di questo ancora si va ella continua- mente spogliando e rivestendone altro ed altro successi- vamente: e so che il Sarsi mi concederà, che ponendosi in mare una nave bagnata con vino o con inchiostro, ella non averà a pena solcate l’onde per mezo miglio, che non gli restera pit vestigio del primo licore che la circondava; il che si può creder con gran ragione che accaggia parimente dell’acqua che la tocca, cioè che con- tinuamente si vada mutando: e senz'altro, il sevo con che ella si spalma, ancor che assai tenacemente vi sia attac- cato, pure in breve tempo vien portato via dall’acqua che nel suo corso le va strisciando sopra; il che non av- verrebbe se l’acqua che tocca la nave restasse l’istessa continuamente senza mutarsi. Quanto alla piastra di vetro che resta a galla tra gli arginetti dell’acqua, io dico che detti arginetti non si so- stengono perché l’aderenza dell’aria colla piastra non lasci scorrer l’acqua sopra la piastra; perché se questo fusse, dovrebbe seguir l’istesso quando si ponesse nel- l’acqua la medesima falda alquanto umida, ché non è credibile che l’aria aderisca meno a una superficie umida che a una asciutta; tuttavia noi veggiamo che quando la piastra è umida, non si formano argini, ma subito scorre l'acqua. Del sostenersi, dunque, detti argini altra ne è la cagione che l’aderenza dell’aria alla superficie d’essa falda: e noi veggiamo frequentissimamente gran pezzi d'acqua sostenersi in particolare sopra le foglie de i ca- voli e d’altre erbe ancora, in figure colme e rilevate, in IL SAGGIATORE 255 maggiore altezza assai che quella degli arginetti che cir- condano la falda notante. All’ultima prova, dov'ei vuole che il premere o ag- gravare, senz'altra aderenza, sia mezo bastante a far ch’un corpo segua l’altro, com’egli essemplifica di due tavole di pietra ben liscie poste l’una sopra l’altra, delle quali la superiore e premente segue il moto dell’inferiore che venga tirata verso qualche parte, io concedo l’espe- rienza, ma non veggo ch'ella abbia che far nel caso nostro: pritna, perché noi trattiamo d’un corpo liquido e sottile, le cui parti non A4nno tal connessione insieme, che al moto d’una si debba muovere il tutto, come accade in un corpo solido; secondariamente, il Sarsi troppo langui- damente prova che ’1 fuoco, l’aria e l’essalazioni conte- nute dentro al concavo lunare facciano impeto e gravino sopra la superficie d’esso concavo, mentr’egli introduce, come causa di questa compressione, una continua rare- fazzion d’esse sostanze, le quali dilatandosi, e perciò ri- cercando sempre spazii maggiori, fanno forza contro al lor contenente e cosi vengono in certo modo ad attaccar- segli, si che poi seguono il movimento suo. Languidissimo veramente è cotal discorso, perché dove il Sarsi risoluta- mente afferma che le sostanze contenute si vanno conti- nuamente rarefacendo e dilatando, l'avversario con non minor ragione (dico non minore, perché il Sarsi non ne adduce niuna) dirà ch’elle si vanno continuamente con- densando e ristringendo. Ma dato anco ch’elle si vadano pur continuamente rarefacendo e che per tale rarefazzione nasca l'attaccamento al concavo e finalmente il rapimento, si può credere che cento e mille anni fa, quando la ra- refazzione non era a gran segno al termine d’oggidi (ché cosi bisogna in dottrina del Sarsi), il rapimento non ci fusse, mancando la causa del farsi. Anzi niuna ragione mi può ritenere ch'io non dica al Sarsi che questa sua rarefazzione, che continuamente si va facendo, non è an- 756 GALILEO GALILEI cora giunta a grado di far violenza e premer sopra il concavo della Luna, ma che ben potrebbe giungervi tra due o tre anni; al qual tempo io concedo che la sfera degli elementi superiori comincerà a muoversi, ma in tanto conceda esso a me che sino al di d’oggi non si sia mossa. lo non vorrei che il Sarsi, se per avventura sen- tisse queste ed altre simili risposte veramente ridicole, si mettesse a ridere, poi ch'egli è che ne da occasione di produrle tali col lasciarsi scappar dalla mente, e poi dalla penna, che alcune sostanze materiali si vadano ra- refacendo e dilatando in perpetuo. Ma io voglio aiutare il medesimo Sarsi ed insegnarli un punto nella causa sua, dicendogli che questa rarefazzione eterna e pressione contro al concavo della Luna è superflua, tuttavolta ch'ei possa mostrar che l’aria vien rapita dal catino, sopra il quale ella non preme e non grava punto, essendo egli posto nella medesima region dell’aria. 40. (4um argumentum). Sed videamus nunc quam verum sit experimentum illud, cui maxime Galilei sen- tentia innititur. < Si catinum, inquit, circa centrum axemque suum movealur, aér inclusus minime sequax, sed restitans, nulla sui parte circumagetur ». Audieram iam olim a nonnullis, qui Galileo familiariter usi fuerant, idem illum affirmare solitum de aqua eodem catino con- tenta; videlicet, ne illam quidem ad vasis motum circum- ferri. Argumento erat, quia si consistenti in eo aqua leve aliquod corpus et natans, festucam scilicet aliquam aut calamum, imposuisses, superficiei catini proximum, mox, cum vas ipsum circumduceretur, eodem calamus semper loco perstabat. Ex quibus aliisque experimentis, scio aliquos ingenium Galilzei commendasse plurimum, qui ex rebus levissimis, atque ob oculos positis, facilitate mirabili in rerum difficillimarum cognitionem homines manuduceret. Neque ego in universum hanc ei laudem imminutam volo: quod autem ad rem prasentem attinet, IL SAGGIATORE 257 utrumque experimentum (parcat mihi vera narranti Ga- lilaeus) falsum omnino comperi. Nempe ille semel aut iterum, credo, catinum circum- ducebat; sic enim nullus percipitur aqua motus: ai si ulterius movere pergat, tunc enimvero intelliget, movea- tur ne aqua ad catini motum, an vero resistat. Calamus enim aut palea eidem aqua imposita, si non multum a catini superficie abfuerint, citissime circumferentur, nec, licet catinum quie- verit, ille moveri desinent, sed aquam cum insidentibus corporibus, ex im- petu concepto, per longum tempus, tardiori tamen semper vertigine, circu- magi comperies. Verum, ne quisquam incuriose nos ac negligenter id exper- tos existimet, hemispharicum vas | ex orichalco, affabre torno excavatum, ac- cepimus; torno item curavimus duci axem CE catino ipsi iunctum, ita ut per eius centrum, in modum spharici axis, transiret, si produceretur; pedem autem construximus firmum ac sta- bilem, ne facile vasis motu agitaretur, atque axem per foramen È traductum, et fulcimento ima ex parte inni- xum, perpendiculariter erectum statuimus: sic enim, manu axe in gyrum acto, catinum etiam eodem motu ferri ne- cesse erat. Verum non aqua solum ad vasis motum fertur, sed aér ipse, ex quo maxime exemplum desumit Galilaus. Docet id flamma candela, proxime superficiei vasis ad- mota, quae in eamdem partem, in quam vas fertur, exigua sui corporis declinatione deflectit. Docet id longe clarius serico filo tenuissimo suspensa e papyro lamella A, cuius latus alterum proximum sit interiori vasis superficiei. Si enim tunc moveatur in unam partem catillum, in eamdem quoque sese papyrus convertet; et si ilerum in oppositam 258 GALILEO GALILEI partem vas reciproca revolutione volvatur, in eamdem cum adharente aére etiam papyrum secum trahet. Id porro a me non securius dici quam verius, testes habeo nec paucos nec vulgares: Patres primum Romani Collegii quamplurimos; ex aliis vero quotquot ex Ma- gistro meo cognoscere id voluerunt; voluerunt autem multi. Quos inter ille mihi silendus non est, cuius, non genere magis quam eruditione singulari, clarissimum nomen sat mihi meisque rebus luminis afferre ac dictis facere fidem possit; Virginium Casarinum loquor, qui admiratus enimvero est, rem ad hanc diem inter multos constantissime pro certa habitam, falsitatis unquam argui potuisse; et tamen vidit factum, fieri quod posse nega- bant plerique. Atque haec quidem ab experientia certa sunt; que tamen experientia si absit, doceat hac quoque ratio ipsa. Cum enim aér atque aqua de genere humidorum sint, quorum peculiare est corporibus adharescere, etiam po- litis et levibus, fieri nunquam poterit ut vasis superficiei non adhareant: quod si hoc adheesionis vinculum admit- tatur, motum etiam eorumdem humidorum admitti ne- cesse est. Primum enim pars illa qua vas contingit, ad vasis ductum movebitur, quippe quae adharet vasi; deinde pars haec mota aliam sibi harentem trahet; se- cunda hac, tertiam: cumque motus hic fiat veluti in spiram, non mirum si ad unam aut alteram catini cir- cumductionem aqua motus non percipiatur, cum prima huius spiralis partes valde propinqua sint ipsi superficiei vasis, ac proinde motus ad reliquas interiores partes dif- fusus adhuc non sit, cum ha aliquam patiantur rarefac- tionem, et propterea non illico trahentis motum sequantur. Neque miretur quisquam, in hisce nostris ex perimentis exiguum adeo aéris motum esse, aqua vero maximum. Cum enim aér facilius et concrescat et rarescat quam aqua, ideo, quamquam ad motum vasis aér eidem adha- IL SAGGIATORE 259 rens facillime moveatur, non tamen alium aérem sibi proximum eadem facilitate trahit, cum hic a reliquis aéris consistentis partibus maiori vi contineatur, et exigua sui vel concretione vel rarefac- tione vim trahentis aéris eludere ad breve aliquod tempus possit. Si quis tamen apertius experiri cupiat, an corpus sphericum in orbem actum aérem secum trahat, hic globum A, v. g., suis innixum polis B et C, manu- brio DD circumducat, appensa charta ex E filo tenuissimo, ita ut ipsum fere globum contingat: dum enim sphara in unam ro- tatur partem, in eamdem charta F ab aére commoto fertur, si prasertim globus satis amplus fuerit, et celerrime circumductus. Neque tamen ex eo, quod tum in catino tum in sphera parvum adeo aéris motum experiamur, recte quis inferat, in concavo Luna eumdem motum fore perexiguum: ratio enim cur in sphara A et catino I circumductis non magnus aéeris motus existat, ea inter cateras est, quia cum catinum et sphera intra va, ca ALII at aérem posita sint tota, dum eorum motu movendus est aér ada circumfusus, semper minus est id E|_ {D B quod movet quam quod movetur. eng) Si enim, v. g., ad motum sphara A superficies ipsius BC movere debeat sibi adherentem aérem, circulo DD expressum, cum hic maior sit quam circulus BC, maius a minori movendum erit; atque idem accidet dum circulus D trahere secum debet circulum E. At vero in 760 GALILEO GALILEI concavo Luna, opposito plane modo se res habet, cum semper maius sit id quod movet quam quod movetur. Si enim sit Luna concavum circulus E, atque hic movere debeat circulum D, D vero circulum B C, semper movens moto maius est, et propterea facilior motus. Hoc autem quamquam apud me nullum plane reli- querat dubitationi locum, libuit tamen modum aliquem excogitare, quo aérem catino circumfusum, ab eo qui catino clauditur separarem, sperans haud dubium fore, ut ar idem, qui segnius antea ferebatur quam aqua, pari postea celeritate in gyrum ex catini circumductione raperetur. Quare laminam perspicuam, ne aspectum im- pediret, e lapide Moscovitico, quem vulgo talcum dicimus, orificio catini amplitudine parem, quam opportune catino ipsi postea imponerem, paravi, in eiusdem parte media trium ferme digitorum foramine relicto,: quod tamen longe minus esse poterat; filum deinde areum E F accepi, diametro catini aliquanto brevius, quod media parte | compressum ac perforatum, traducto per foramen 1 filo IG, ex G suspendi ad. libra modum, adiecique extremis E, F alas duas papyraceas; mox additis detractisque ex utraque parte pon- deribus, in agquilibrio filum areum EF statui, ita ut fulcimentum 1 sub catini centro consisteret, ala vero quarta saltem digiti parte ab eiusdem superficie dista- rent. Tunc vase circumacto animadverti, post alteram evolutionem alas ac libram totam in gyrum moveri, et primo quidem lente, deinde citatiori motu, qui tamen nondum motum aqua aquabat: quare superimposui laminam AB perspicuam, quam paraveram, ita ut aér catino contentus a reliquo separaretur, vel solo foramine C eidem necteretur. Tunc enimvero ad vasis motum ferri citius visa est libra F, ac brevi celeriter adeo agi IL SAGGIATORE 261 coepit, ut catini ipsius motum, quampis velocissimum, assequeretur: ut hinc videas, quotiescumque movens moto maius fuerit, tunc longe faciliorem motum futurum; im- posito enim vasi operculo AB, tunc superficies in- terior catini et operculi simul, ad cuius motum movendus est aér, maior est aére proxime mo- vendo; est enim superficies illa continens, aér pero contentus. Idem denique expertus sum, eventu pari, in sphara vitrea A, quantum fieri potuit, exactissima, summa tantum parte C perforata ad laminam I inducendam. Eadem enim sphara axi BD imposita, axeque ipso circumacto, non sphera solum A, sed et lamina | suspensa, quamvis multum ab interiore su- perficie sphara distaret, celerrime moveri visa est. Atque ita nulli aut industria aut labori parcendum duxi, ut quamplurimis idem expe- rimentis quam diligentissime com- probarem. Hac porro postrema experimenta videre iidem illi qui superius a me commemorati sunt; ut necesse non habeam, eosdem iterum testari. Illud etiam adnotandum duxi, astivo nos tempore haec omnia expertos fuisse, quo, ut calidior, ita siccior aér existit, magisque proinde ad ignis naturam accedit; quem omnium elementorum minime aptum adhaesioni existimat Galilaus. Ex quibus omnibus illud saltem colligere licet, tum ad catini motum et aérem et aquam moveri, tum laevibus etiam corporibus atrem adheerescere atque ad eorum motum agi; qua constanter adeo perne- gavit Galilaus. Entra ora il Sarsi nel copiosissimo apparato d’espe- rienze per confermare il suo detto e riprovare il nostro: 762 GALILEO GALILEI le quali, perché furon fatte alla presenza di V. S. Hlu- strissima, io me ne rimetto a lei, come quello che pit tosto devo aspettarne il suo giudicio che interporvi il mio. Però, se le piacerà, potrà rilegger quel che resta sino alla fine della proposizione; dov'io le anderò sola- mente toccando alcuni particolari sopra varie cosette cosi alla spezzata. E prima, questo che il Sarsi cerca d’attribuirmi nel primo ingresso delle sue esperienze, è falsissimo, cioè ch'io abbia detto che l’acqua contenuta nel catino -resti, non men che l’aria, immobile al movimento in giro di esso vaso. Non però mi meraviglio che l’abbia scritto, perché ad uno che continuamente va riferendo in sensi contrari le cose scritte e stampate da altri, si può bene ammettere ch'egli alteri quelle ch’ei dice d’aver sola- mente sentite dire; ma non mi par già che resti del tutto dentro a’ termini della buona creanza il pubblicar colle stampe ciò ch'altri sente dire del prossimo, e tanto più quando, o per non l'avere inteso bene o pur di propria elezzione, ei si rapporta molto diverso da quello che fu detto, come di presente accade di questo. Tocca a me, Sig. Sarsi, e non a voi o ad altri, lo stampar le cose mie e farle pubbliche al mondo: e perché, quando (come pur talora accade) alcuno nel corso del ragionar dicesse qualche vanità, deve esser chi subito la registri e stampi, privandolo del beneficio del tempo e del potervi pensar sopra meglio, e da per se stesso emendare il suo errore e mutare opinione, ed in somma fare a suo talento del suo cervello e della sua penna? Quello che può aver sentito dire il Sarsi, ma, per quanto veggo, non ben capito, è certa esperienza ch'io mostrai ad alcuni letterati costi in Roma, e forse fu in camera di V. S. Illustrissima stessa; parte in dichiarazione e parte in confutazione d’un terzo moto attribuito dal Copernico alla Terra. Pareva a molti cosa molto improbabile, e che ‘perturbasse tutto il. si- IL SAGGIATORE 765 stema Copernicano, il terzo moto annuo ch'egli assegna al globo terrestre intorno al proprio centro, al contrario di tutti gli altri movimenti celesti, i quali col figurarsi fatti tutti, tanto quelli delli eccentrici quanto quelli delli epicicli, ed il diurno e l’annuo d’essa Terra, nell’orbe magno da ponente verso levante, questo solo dovesse nel- l’istessa Terra esser fatto da oriente verso occidente, contro agli altri due propri e contro agli altri tutti di tutti i pianeti. Io solevo levar questa difficoltà col mo- strare che tal accidente non solo non era improbabile, ma conforme alla natura e quasi necessario; e che qual- sivoglia corpo collocato e sostenuto liberamente in un mezo tenue e liquido, se sarà portato per la circonferenza di un gran cerchio, acquisterà spontaneamente una con- versione in se medesimo, al contrario dell’altro gran mo- vimento: il qual effetto si vedeva pigliando noi in mano un vaso pien di acqua e mettendo in esso una palla no- tante; perché, stendendo noi il braccio e girando sopra i nostri piedi, subito veggiamo la detta palla girare in se stessa al contrario e finir la sua conversione nell’istesso tempo che noi finiamo la nostra: onde cessar doveva la meraviglia, anzi meravigliarsi quando altrimenti acca- desse, se essendo la Terra un corpo pensile e sospeso in un mezo liquido e sottile, ed in esso portata per la circonferenza d’un gran cerchio nello spazio d'un anno, ella non avesse di sua natura e liberamente acquistata una conversione parimente annua in se medesima al contrario dell’altra. E tanto dicevo per rimuover l’im- probabilità attribuita al sistema del Copernico: al che soggiungevo poi, che chi meglio considerava, conosceva che falsamente veniva da esso Copernico attribuito un terzo moto alla Terra, il quale non è altramente un muo- versi, ma un non si muovere ed una quiete; perch'è ben vero che a quello che tiene il vaso apparisce muoversi, e rispetto a sé e rispetto al vaso, e girare in se stessa la 764 GALILEO GALILEI palla posta in acqua; ma la medesima palla paragonata colle mura della stanza e colle cose esterne, non gira al- trimenti né muta inclinazione, ma qualunque suo punto che da principio riguardava verso un termine esterno segnato nel muro o in altro luogo più lontano, sempre riguarda verso lo stesso. E questo è quanto da me fu detto: cosa, come V. S. Illustrissima vede, molto diversa dalla riferita dal Sarsi. Questa esperienza, e forse qual- ch’altra, poté dare occasione a chi piti volte si trovò pre- sente a’ nostri discorsi di dir di me quello che in questo luogo riferisce il Sarsi, cioè che per certo mio natural talento solevo alcuna volta con cose minime, facili e pa- tenti, esplicarne altre assai difficili e recondite; la qual lode il Sarsi non mi nega in tutto, ma, come si vede, in parte m'ammette: la qual concessione io devo riconoscere dalla sua cortesia più che da una interna e verace con- cessione, perché, per quanto io posso comprendere, egli non è di quelli che cosî di leggiero si lascino persuadere dalle mie facilità, poi ch'egli stesso, reputando che la scrittura del Sig. Mario sia mia cosa, dice nel fine del precedente essame, quella esser stata scritta con parole molto oscure, e tali ch'egli non ha potuto indovinare il senso. Già, come ho detto, quanto all’esperienze me ne ri- metto a V. S. Illustrissima, che le ha vedute, e solo, incontro a tutte, ne replicherò una scritta di già dal Sig. Mario nella sua lettera, dopo che averò fatto un poco di considerazione sopra certa ragione che il Sarsi accoppia coll’esperienze: la qual ragione io veramente pagherei gran cosa che fusse stata taciuta, per reputazion sua e del suo Maestro ancora, quando vero fusse ch'egli fusse discepolo di chi egli si fa. Oimè, Sig. Sarsi, e quali essorbitanze scrivete voi? Se non v'è qualche grand’error di stampa, le vostre parole son queste: Hinc ideas, quo- tiescunque movens moto maius fuerit, tunc longe faci- IL SAGGIATORE 265 liorem motum futurum: imposito enim vasi operculo A B, tunc superficies interior catini et operculi simul, ad cuius motum movendus est aér, maior est aére proxime mo- vendo; est enim superficies illa continens, aér vero con- tentus. Or rispondetemi in grazia, Sig. Sarsi: questa superficie del catino e del suo coperchio con chi la para- gonate voi, colla superficie dell’aria contenuta o pur col- l’istessa aria, cioè col corpo aereo? Se colla superficie, è falso che quella sia maggior di questa; anzi pur sono el- leno egualissime, ché cosî v’'insegnerà l'assioma euclidiano, cioè che Qua mutuo congruunt, sunt aequalia. Ma se voi intendete di paragonar la superficie contenente coll’istessa aria, come veramente suonan le vostre parole, fate due errori troppo smisurati: prima, col paragonare insieme due quantità di diversi generi, e però incomparabili, ché cosi vuole una diffinizion d'Euclide: Ratio est duarum magnitudinum eiusdem generis; e non sapete voi che chi dice « Questa superficie è maggior di quel corpo >» erra non men di quel che dicesse « La settimana è maggior d'una torre >» o « L'oro è più grave della nota cefautte »? L'altro errore è, che quando mai si potesse far paragone tra una superficie ed un solido, il negozio sarebbe tutto all’opposito di quello che scrivete voi, perché non la su- perficie sarebbe maggior del solido, ma il solido più di cento milioni di volte maggior di lei. Sig. Sarsi, non vi lasciate persuadere simili chimere, né anco la general proposizione che ’l contenente sia maggior del contenuto, quando bene ambedue si prendessero di quantità com- parabili fra di loro; altrimenti bisognerà che voi crediate che, d'una balla di lana, il guscio o invoglio sia maggior della lana che vi è dentro, perché questa è contenuta e quello è il contenente; e perché sono della medesima materia, bisognerà anco che il sacco pesi più, essendo maggiore. Io fortemente dubito che voi abbiate preso con qualche equivocazione un pronunciato che è verissimo 766 GALILEO GALILEI quando vien preso al suo diritto senso, il qual è che il contenente è maggior del ‘contenuto, tutta volta che per contenente si prenda il contenente col contenuto insieme: e così un quadrato descritto intorno a un cerchio è maggior di esso cerchio, pigliando tutto il quadrato; ma se voi vorrete prender solo quello che avanza del quadrato, detrattone il cerchio, questo non è altrimenti maggiore, ma minore assai d’esso cerchio, ancor ch’ei lo circondi e racchiuda. Aimè, e non m’accorgo del fuggir dell’ore? e vo logorando il mio tempo intorno a queste puerizie? Orsd, contro a tutte l’esperienze del Sarsi potrà V. S. Illustrissima fare accommodare il catino converti- bile sopra il suo asse; e per certificarsi quello che segua dell’aria contenutavi dentro, mentre quello velocemente va in giro, pigli due candelette accese, ed una n’attacchi dentro all’istesso vaso, un dito o due lontana dalla su- perficie, e l’altra ritenga in mano, pur dentro al vaso, in simil lontananza dalla medesima superficie; faccia poi con velocità girar il vaso: ché se in alcun tempo l’aria anderà parimente con quello in volta, senza alcun dubbio, movendosi il vaso l’aria contenuta e la candeletta attac- cata, tutto colla medesima velocità, la fiammella d’essa candela non si piegher4 punto, ma resterà come se il tutto fusse fermo (ché cosî a punto avviene quando un corre con una lanterna, entrovi racchiuso un lume acceso, il quale non si spegne, né pur si piega, avvenga che l’aria ambiente va con la medesima prestezza; il qual effetto anco più apertamente si vede nella nave che velocissi- mamente camini, nella quale i lumi posti sotto coverta non fanno movimento alcuno, ma restano nel medesimo stato che quando il navilio sta fermo); ma l’altra can- deletta ferma darà segno della circolazion dell’aria, che ferendo in lei la farà piegare: ma se l’evento sarà al contrario, cioè se l’aria non seguirà il moto del vaso, la candela ferma manterrà la sua fiammella diritta e quieta, IL SAGGIATORE 767 e l'altra, portata dall’impeto del vaso, urtando nell’aria quieta si piegherà. Ora, nell’esperienze vedute da me è accaduto sempre che la fiammella ferma è restata accesa e diritta, ma l’altra, attaccata al vaso, si è sempre gran- dissimamente piegata e molte volte spenta: ed il mede- simo di sicuro vederà anco V. S. Illustrissima ed ogn'altro che voglia farne prova. Giudichi ora quello che si deve dire che faccia l’aria. Dall’esperienze del Sarsi il più che se ne possa ca- vare è, ch'una sottilissima falda d’aria, alla grossezza di un quarto di dito, contigua alla concavità del vaso. venga portata in giro; e questa basta a mostrar tutti gli effetti scritti da lui, e di questo ne può esser bastante cagione l’asprezza della superficie o qualche poco di ca- vità o prominenza più in un luogo che in un altro. Ma finalmente, quando il concavo della Luna portasse seco un dito di profondità dell’essalazioni contenute, che ne vuol fare il Sarsi? E non creda che se il catino ne porta, v. gr., un mezo dito, che un vaso maggiore ne abbia a portar più; perché io credo più tosto ch’ei ne porterebbe manco: e cosi anco non credo che la somma velocità colla quale detto concavo lunare passa tutto il cerchio, diciamo in 24 ore, abbia a far pit assai; anzi io mi voglio prendere ardir di dire, che mi par quasi vedere per nebbia ch’ei non farebbe più, ma pit tosto manco, di quello che si faccia un catino che pure in ore 24 desse una rivoluzione sola. Ma pongasi pure e concedasi al Sarsi che ‘1 concavo lunare rapisca quanto si è detto del- l'essalazion contenuta: che sarà poi? e che ne seguirà in disfavor della principal causa che tratta il Sig. Mario? sarà forse vero che per questo moto si abbia ad accender la materia della cometa? o pur sar vero ch’ella non si accendera né movendosi né non si movendo? Cosi cred’io: perché se il tutto sta fermo, non s’ecciterà l'incendio, per lo quale Aristotile ricerca il moto; ma se il tutto 268 GALILEO GALILEI si muove, non vi sarà l’attrizione e lo stropicciamento, senza il quale non si desta il calore, non che l'incendio. Or ecco, e dal Sarsi e da me, fatto un gran dispendio di parole in cercar se la solida concavità dell’orbe lunare, che non è al mondo, movendosi in giro, la qual già mai non s'è mossa, rapisce seco l'elemento del fuoco, che non sappiamo se vi sia, e per esso l’essalazioni, le quali perciò s'accendano e dien fuoco alla materia della cometa, che non sappiamo se sia in quel luogo e siamo certi che non è robba ch'abbruci. E qui mi fa il Sarsi sovvenire del detto di quell’argutissimo Poeta: Per la spada d’Orlando, che non anno E forse non son anco per avere, Queste mazzate da ciechi si danno. Ma è tempo che vegniamo alla seconda proposizione; anzi pure, prima che vi passiamo, già che il Sarsi replica nel fine di questa ch'io abbia constantemente negato che l’acqua si muova al moto del vaso e che l’aria e gli altri corpi tenui aderiscano a’ corpi lisci, replichiamo noi an- cora ch’ei non dice la verità, perché mai né il Sig. Mario ned io abbiamo detta o scritta alcuna di queste cose, ma bene il Sarsi, non trovando dove attaccarsi, si va fabbri- cando gli uncini da per se stesso. 41. Passi ora V. S. Illustrissima alla seconda propo- sizione. SECUNDA PROPOSITIO. MOTUS NON EST CAUSA CALORIS, SED ATTRITIO, QUA CORPORIS ATTRITI PARTES DEPERDUNTUR. AER NEQUE ATTERI NEQUE INCENDI POTEST. Ait Aristoteles, motum causam esse caloris; quam propositionem omnes ita explicant, non quasi motui tri- buendus sit calor, ut effectus proprius et per se (hic enim est acquisitio loci), sed quia, cum per localem Digsse che antiji, eh art I GL, cd dl A a ‘Les rdr VERI AIA ne bartari) Seri - L700 A epr 4 ‘rag. infic fremmase cen pane Lentrrdo rg ai AA, | CE e del Ga Copie Epto dl 56, VI foi. Grue niulibe € voro: DALLA CANZONE PER LE STELLE MEDICEE (Firenze, R. Biblioteca Nazionale) IL SAGGIATORE 269 motum corpora atterantur, ex attritione autem calor excitetur, mediate saltem motus caloris causa dicitur: neque est quod hac in re Aristotelem reprehendat Gali- leus, cum nihil ipse adhuc afferat ab eiusdem dictis alienum. Dum vero ait praterea, non quamcumque at- tritionem satis esse ad calorem producendum, sed illud etiam potissimum requiri, ut partes attritorum corporum aliqua per attritionem deperdantur; hic plane totus suus est, nec quicquam ab alio mutuatur. Cur autem hac par- tium consumptio ad calorem producendum requiritur? An quod ad eumdem calorem concipiendum rarescere corpora necesse sit, in omni vero rarefactione comminui eadem corpora videantur ac minutissimae quaque par- ticulae evolent? At rarefieri corpora possunt, nulla facta partium separatione ac proinde neque consumptione. An ideo haec comminutio requiritur, ut prius particula illa, utpote calori concipiendo magis apta, calefiant, ha vero postea reliquo corpori calorem tribuant? Nequaquam: licet enim particula illa, quo minutiores fuerint, magis calori concipiendo apta sint, ex quo fit ut saepe ex at- tritione ferri excussus pulvisculus in ignem abeat, illa tamen, cum statim evolent aut decidant, non poterunt reliquo corpori, cui non adharent, calorem tribuere. Vuole il Sarsi nel primo ingresso di questa disputa concordare il Sig. Mario ed Aristotile, e mostrar che am- bedue gn pronunziato l’istessa conclusione, mentre l’uno dice che "1 moto è causa di calore, e l’altro, che non il moto, ma lo stropicciamento gagliardo di due corpi duri; e perché la proposizione del Sig. Mario è vera, né ha bi- sogno di chiose, il Sarsi interpreta l’altra con dire, che se bene il moto, come moto, non è cagione del caldo, ma l’attrizione, nulladimeno, non si facendo tale attrizione senza moto, possiamo dire che almanco secondariamente il moto sia causa. Ma se tale fu la sua intenzione, perché non disse Aristotile l’attrizione? io non so vedere perché, 49. - G. Galilei, Opere - II. 270 GALILEO GALILEI potendo uno dir bene assolutamente con una semplicis- sima e propriissima parola, ei debba servirsi d’una im- propria e bisognosa di limitazioni ed in somma d'esser finalmente trasportata in un’altra molto diversa. In oltre, posto che tale fusse il senso d’Aristotile, egli però è dif- ferente da quello del Sig. Mario; perché ad Aristotile basta qualunque (confricazione di corpi, ben che tenui e sottili, e fino dell’aria stessa; ma il Sig. Mario ricerca due corpi solidi, e stima che il volere assottigliare e tritar l’aria sia maggior perdimento di tempo che quello di chi vuole (com'è in proverbio) pestar l’acqua nel mortaio. Io non son fuor d'opinione che possa esser che la proposi- zione sia verissima, presa anco nel semplicissimo senso delle parole: e forse potrebbe esser ch’ella uscisse da qualche buona scuola antica, ma che Aristotile, non avendo ben penetrata la mente di quegli antichi che la profferirono, ne traesse poi un sentimento falso: e forse non è questa sola proposizione vera in se stessa, ma ap- presa in sentimento non vero nella filosofia peripatetica. Ma di questo ne toccherò qualche cosa più a basso. Ora seguitiamo il Sarsi, il quale vuole, contro al detto del Sig. Mario, che senza verun consumamento de’ corpi che si stropicciano sin che si riscaldino, si possa eccitare il calore; il che va provando prima con discorso, poi con esperienze. Ma quanto al discorso, io posso sbrigarmi in una parola sola da tutte le sue instanze; poi che, facendo egli alcune interrogazioni al Sig. Mario, egli stesso ri- sponde per quello, e poi confuta le risposte; tal che se io dirò che il Sig. Mario non risponderà in quella guisa, bisogna che il Sarsi si quieti. E veramente, quanto alla prima risposta, io non credo che il Sig. Mario dicesse che, per riscaldarsi, bisogni prima che i corpi si rarefacciano, e che rarefacendosi si sminuzzolino, e che le parti pit sottili volino via, come scrive il Sarsi: dalla qual risposta mi par di compren- IL SAGGIATORE 221 dere ch’ei discordi dalla mente del Sig. Mario, e che, convenendo in questa azzione considerare il corpo che ha da produrre il calore e quello che l'ha da ricevere, il Sarsi stimi che il Sig. Mario ricerchi la diminuzione e consumamento di parti nel corpo che ha da ricevere il calore; ma io credo ch'ei voglia che quello che l’ha da produrre sia quello che si diminuisce, si che in somma non il ricevere, ma il conferir calore, sia quel che fa la diminuzione nel conferente. Come poi si possano rarefare i corpi senza alcuna separazion di parti, e come cammini questo negozio della rarefazzione e condensazione, del quale mi par che con molta confidenza parli il Sarsi, l’averei ben volentieri veduto più distintamente dichia- rato, essendo, appresso di me, una delle pit recondite e difficili questioni della natura. È manifesto ancora che il Sig. Mario non averebbe data la seconda risposta, cioè che tal consumamento di parti sia necessario acciò che prima si riscaldino queste parti più minute, come più atte per la lor sottigliezza a riscaldarsi, e da esse poi venga riscaldato il resto del corpo; perché cosi la diminuzione toccherebbe pure al corpo che ha da esser riscaldato, ed il Sig. Mario la dà a quello che ha da riscaldare. Devesi però avvertire che bene spesso accade, essere uno istesso corpo quello che produce il calore e quello che lo riceve: e cosi martel- landosi sopra un chiodo, le parti sue, nel soffregarsi violentemente, eccitano il calore, e l’istesso chiodo è quello che si riscalda. Ma quello che ho voluto sin qui dire è, che il consumamento di parti depende dall’atto del produrre il calore, e non da quello del riceverlo, come per avventura più distintamente mi dichiarerò più di sotto. In tanto sentiamo l’esperienze onde il Sarsi pensa d'aver palesato, potersi con l’attrizione produr ca- lore senza consumamento alcuno. 272 GALILEO GALILEI 42. Sed quando ab experientia exempla petere libet, quid si, nulla partium deperditione, ex motu corpus aliquod calefiat? Ego certe cum «ris frustulum, omni prius extersa rubigine ac situ, ne quis forte pulvisculus adhereret, ad argentarii libram perexiguam exactissi- mamque ponderibus minutissimis expendissem (cum etiam quingentesimas duodecimas unius uncia partes haberem), ac pondus dilisentissime observassem, validissimis mallei ictibus aes idem in laminam extendi: id vero inter ictus et mallei verbera bis terque adeo incaluit, ut manibus attrectari non posset. Cum igitur iam toties incaluisset, experiri libuit eadem libra iisdemque ponderibus, num aliquod ponderis dispendium iacturamque passum fuisset; et tamen iisdem plane momentis constare comperi: in- caluit igitur per attritionem ces illud, nullo partium sua- rum detrimento; quod Galilaeus negat. Audieram etiam aliguid simile librorum compactoribus evenire, cum pli- catas illas chartarum moles malleo diutissime ac vali- dissime tundunt: expertus enim est illorum non nemo, eodem postea illas fuisse pondere quo fuerant prius, incalescere tamen easdem inter ictus maxime, ac pene comburi. Quod si quis forte hoc loco asserat, deperdi quidem partes, sed adeo minutas ut sub libra, quamvis exiguae, examen non cadant, quaeram ego ex illo, unde norit partes esse deperditas: neque enim video, quonam alio id modo aptius ac diligentius inquiram. Deinde vero, si adeo exigua est hac partium iactura ut sensu percipi nequeat, cur tantum caloris excitavit? Praterea, dum ferrum lima expolitur, calefit quidem, minus tamen aut certe non plus quam cum malleo validissime tunditur; et tamen maior longe partium deperditio ex limatura quam ex contusione existit. Che il Sarsi con isquisita bilancia non abbia ritrovato diminuzion di peso in un pezzetto di rame battuto e ri- scaldato pit volte, glielo voglio credere; ma non già che IL SAGGIATORE 223 per questo egli non si sia diminuito, essendo che può benissimo accadere, quello esser diminuito tanto poco, che a qualsivoglia bilancia resti cosa impercettibile. FE prima, io domando al Sarsi, se pesato un bottone d’ar- gento, e poi doratolo e tornato a pesarlo, ei crede che l’ac- crescimento fusse notabile e sensibile. Bisogna dir di no, perché noi veggiamo l’oro ridursi a tanta sottigliezza, che anco nell’aria quietissima si trattiene e lentissimamente cala a basso; e con tali foglie può dorarsi alcun metallo. In oltre, questo medesimo bottone verrà adoperato due o tre mesi, avanti che la doratura sia consumata; e pur consumandosi finalmente, chiara cosa è che ogni giorno, anzi ogn'ora, sandava diminuendo. Di più, pigli una palla d’ambra, muschio ed altre materie odorate: io dico che portandola addosso alcuno quindici giorni, empirà d'odore mille stanze e mille strade, ed in somma ogni luogo dov’egli capiterà, né questo si farà senza diminu- zione di quella materia, senza la quale indubitatamente non anderà l’odore; pure, tornandosi in capo a tal tempo a ripesarla, non si troverà sensibil diminuzione. Ecco, dunque, trovate al Sarsi diminuzioni insensibili di peso, fatte per lo consumamento di mesi continui, ch'è altro tempo che un ottavo d’ora, che dovette durare il suo martellare sopra il pezzetto di rame. E tanto è pit esqui- sita una bilancia da saggiatori, ch'una stadera filosofica! Aggiungendo di pit, che può molto bene essere che la materia che, attenuata, produce il caldo, sia ancora assai più sottile della sostanza odorifera, attento che questa si racchiude in vetri e metalli, per li quali essa non tra- spira, ma non già quella del calore, che trapassa per tutti i corpi. Ma qui muove il Sarsi un’instanza, e dice: Se il ci- mento della bilancia non basta a mostrarci un cosi pic- colo consumamento, come potete voi averlo conosciuto? L’obiezzione è assai ingegnosa, ma non però tanto ch'un 224 GALILEO GALILEI poco di logica naturale non avesse avuto a mostrarne la soluzione: ed eccone il progresso. Dei corpi, Sig. Sarsi, che si stropicciano insieme, alcuni sono che assoluta- mente e sicuramente non si consumano punto, altri che grandemente e molto sensibilmente si consumano, ed altri che si consumano bene, ma insensibilmente. Di quelli che stropicciandosi non si consumano punto, quali sarebbon due specchi benissimo lisci, il senso ci mostra che non si riscaldano; di quelli che si consumano notabilmente, come un ferro nel limarsi, siamo sicuri che si riscaldano; adunque di quelli che noi siamo dubbi se nel fregarsi si consumino o no, se troveremo pel senso che si riscaldino, dobbiamo dire e credere che si consumino ancora, e solo si potrà dire che non si consumino quelli che né anco si riscaldano. A quanto sin qui ho detto, voglio, prima ch'io vada più avanti, aggiungere, per ammaestramento del Sarsi, come il dire: « Questo corpo alla bilancia non è calato di peso, adunque di lui non si è consumata parte alcuna » è discorso assai fallace, potendo esser che se ne sia con- sumato e che il peso non solo non sia diminuito, ma anco tal volta cresciuto; il che accaderà sempre che quello che si consuma e rimuove, sia men grave in specie del. mezo nel quale si pesa: e cosî, per essempio, può acca- dere ch’un pezzo di legno, per avere in sé molti nodi e per esser vicino alle radici, messo nell’acqua cali al fondo e, Vv. g., vi pesi quattr'once, e che limandone via, non del nocchioruto né della radice, ma della parte più rara e che per se stessa è men grave in ispecie dell’acqua, si che in parte sosteneva tutta la mole, può esser, dico, che il rimanente pesi più che prima nel medesimo mezo; e così parimente può essere che nel limarsi o nel fregarsi in- sieme due ferri o due sassi o due legni, si separi da loro qualche particella di materia men grave dell’aria, la quale, quando sola si rimovesse, lascerebbe quel corpo NI IL SAGGIATORE 223 più grave che prima. E che quanto io dico sia detto con qualche probabilità, e non per una semplice fuga e ri- tirata, lasciando la fatica all’avversario di riprovarla, faccia V. S. Illustrissima diligente osservazione nel romper vetri o pietre o qualunque altre materie; ché ella in cia- scheduno spezzamento ne vederà uscire un fumo mani- festissimamente apparente, il quale per aria se ne ascende in alto: argomento necessario dell’essere egli più leggieri di lei. Questo osservai io prima nel vetro, mentre con una chiave o altro ferro l’andavo scantonando e ton- dando, dove, oltre a i molti pezzetti che saltano via in diverse grandezze, ma tutti cascano in terra, si vede un fumo sottile ascendente sempre; ed il medesimo si vede accadere nel frangere in simil modo qualsivoglia pietra; e di più, oltre a quello che ci manifesta la vista, l’odorato ci da argomento ed indizio molto chiaro che per avven- tura si partono, oltre al detto fumo, altre parti pit sottili, e perciò invisibili, sulfuree e bituminose, le quali per tale odore che si arrecano si fanno manifeste. Or vegga il Sarsi quanto il suo filosofare è superfi- ciale e poco si profonda oltre alla scorza. Né si persuada di poter venir con risposte di limitazioni, di distinzioni, di per accidens, di per se, di mediate, di primario, di secondario o d’altre chiacchiere, ch’io l’assicuro che in vece di sostenere un errore ne commetterà cento pit gravi, e produrrà in campo sempre vanità maggiori: maggiori, dico, anco di questa che mi resta da conside- rare nel fin della presente particola; dov'egli, prima, si meraviglia come possa esser che, sendo quel che si con- suma cosa impercettibile alla bilancia, possa nondimeno produr tanto calore; dapoi soggiunge che d’un ferro che si lima, gran parte se ne consuma, e assaissimo maggiore che quando ei si batte col martello, nulladimeno non più si scalda limando che battendolo. Vanissimo è questo di- scorso, mentre altri vuole col peso misurare la quantità 776 GALILEO GALILEI di cosa che non ha peso alcuno, anzi è leggierissima e nell'aria velocemente sormonta; e quando pure quello che si converte in materia calda, mentre si fa una ga- gliarda confricazione, fusse parte dell’istesso corpo so- lido, non doveràa alcuno maravigliarsi che piccolissima quantità di quello possa rarefarsi ed istendersi in spazio grandissimo, s'ei considererà in quanta gran mole di ma- teria ardente e calda si risolve un piccol legno, della quale la fiamma visibile è la minor parte, restando di gran lunga maggiore l’insensibile alla vista, ma ben sensibile al tatto. Quanto poi all’altro punto, averebbe qualche apparenza l’instanza, se il Sig. Mario avesse mai detto che tutto quel ferro che si consuma, limando, doventasse materia calorifica, perché cosî parrebbe ra- gionevol cosa che molto più scaldasse il ferro consumato colla lima che il percosso col martello: ma non è la li- matura quella che scalda, ma altra sostanza incompara- bilmente più sottile. 45. Ma seguitiamo innanzi. Ego igitur multum con- ferre arbitror, ad maiorem minoremve calefactionem corporum attritorum, qualitates eorumdem, sint ne vi- delicet illa calidiora an frigidiora, remque hanc ex multis aliis pendere, de quibus statuere adeo facile non sit. Nam si ferulas duas, corpora levissima ac rarissima, mutua aut alterius ligni confricatione attriveris, ignem brevi concipient: non idem in lignis aliis accidit, durioribus ac densioribus, quamvis eadem diutius ac vehementius atteri consumique contingat. Seneca certe, « Facilius, inquit, attritu calidorum ignis existit >; ex quo fieri ait, ut aestale plurima fiant fulmina, quia plurimum calidi est. Pra- terea, ferreus pulvis in flammam coniectus exardescit, non vero quicumque alius pulvis e marmore. Quare si in acre plurimum exhalationum calidarum fuerit, eum- demque ex vehementi aliquo motu atteri contigerit, non video cur calefieri atque etiam incendi non possit: tune IL SAGGIATORE 272 enim, cum rarus sit ac siccus muliumque admixtum ca- lidi habeat, ad ignem concipiendum aptissimus est. Qui, dove pare che il Sarsi si apparecchi per pro- durre con dottrina più salda migliore esplicazione delle difficoltà che si trattano, non veggo né che venga appor- tato molto di nuovo, né di gran pregiudicio alle cose del Sig. Mario. Imperocché il dire che molto conferisce al maggiore o minor riscaldamento de’ corpi che si stro- picciano insieme, l’essere essi di qualità calda o fredda, e che anco da molte altre cose non cosi ben manifeste depende questo negozio, lo credo io pur troppo; ma non mi par già di farci acquisto veruno, per esser, di questo che mi vien detto, la seconda parte troppo recondita, e la prima troppo manifesta e notoria, atteso che in so- stanza non mi dice altro se non che più si scaldano quei corpi che son più caldi o più disposti allo scaldarsi, e meno quelli che son più freddi. Cosî parimente quello che segue appresso, che per la confricazione alcuni legni, cioè i più leggieri e rari, saccendano più facilmente che altri più duri e densi, ancor che questi più gagliarda- mente e più lungo tempo s’arruotino insieme, lo credo pa- rimente, ma ciò non veggo che faccia contro al Sig. Mario, che mai non ha detto in contrario; e non è adesso ch'io sapevo che più presto s'infiammava un pennecchio di stoppa in un fuoco ben che lentissimo, che un pezzo di ferro nella fucina ben ardente. A quello ch’ei soggiunge, e fortifica col testimonio di Seneca, cioè che la state sia per aria maggior copia d’es- salazioni secche, e che perciò si facciano molti fulmini, io ci presto l'assenso; ma dubito bene circa ’1 modo del- l’accendersi cotali essalazioni insieme coll’aria, e se ciò avvenga per l’attrizione cagionata per alcun movimento. Io reputerei vero quanto viene scritto dal Sarsi, se prima egli m'avesse accertato, non essere in natura altri modi 50. - G. Galilei, Opere - II. 278 GALILEO GALILEI di suscitar l'incendio fuori che questi due, cioè o col toccar la materia combustibile con un fuoco già attual- mente ardente, come quando con un moccolo acceso s’ac- cende una torcia, o vero con l’attrizion di due corpi non ardenti: ma perché altri modi ci sono, come per la re- flessione de’ raggi solari in uno specchio concavo, o per la refrazzion de medesimi in una palla di cristallo o d'acqua, ed anco s'è veduto talvolta infiammarsi per le strade, mediante l'eccessivo caldo, le paglie ed altri corpi sottili, e questo farsi senza alcuna commozione o agita- zione, anzi solamente quando l’aria è quietissima, e che per avventura s’ella fusse agitata e spirasse vento, l’in- cendio non ne seguirebbe; perché, dico, ci sono questi altri modi, perché non poss'io stimar che ve ne possa esser qualche altro diverso da questi, per lo quale l’essa- lazioni per aria e tra le nubi si accendano? E perché debbo io attribuire ciò ad un veemente movimento, se io veggo, prima, che senza l’arrotamento de’ corpi solidi, quali non si trovano tra le nuvole, non si suscita l’in- cendio, ed oltre a ciò niuna commozione si scorge in aria o nelle nuvole quando è maggior la frequenza de’ lampi e de’ fulmini? To stimo che il dir questo non abbia in sé più di verità, che quando i medesimi filosofi attribuiscono il gran romor de’ tuoni allo stracciamento delle nuvole. o all’urtarsi insieme l’una contro l’altra; tuttavia nello splendor de’ maggiori baleni, e quando si produce il tuono, non si scorge nelle nuvole pure un minimo movi- mento o mutazion di figura, il quale ad un tanto squar- ciamento doverebbe esser grandissimo. Lascio stare che i medesimi filosofi, quando tratteranno poi del suono, vor- ranno nella sua produzzione la percussione de’ corpi duri, e diranno che perciò la lana né la stoppa nel per- cuotersi non fanno strepito; ma poi, quando n’averanno bisogno, la nebbia e le nuvole percuotendosi renderanno IL SAGGIATORE 229 il massimo di tutti i rumori. Trattabile e benigna filosofia, che cosi piacevolmente e con tanta agevolezza si accom- moda alle nostre voglie ed alle nostre necessità! 44. Or passiamo avanti a essaminar l’esperienze della freccia tirata coll’arco e della palla di piombo tirata colle scaglie, infocate e strutte per aria, confermate col- l'autorità d’Aristotile, di molti gran poeti, d’altri filosofi ed istorici. Quamvis autem exemplum Aristotelis de sa- gitta, cuius ferrum motu incaluit, Galilaeus irrideat atque eludere tentet, non tamen id potesi: neque enim Aristo- teles unus id asserit, sed innumeri pene magni nominis viri huiusmodi exempla (earum procul dubio rerum, quas ipsi aut spectassent, aut a spectatoribus accepissent) prodiderunt. Vult hic Galilaus, aliquos nunc proferam e plurimis qui hoc non vere minus quam eleganter affir- mant? Ordiar a poétis, iis contentus quorum auctoritas, quia rerum naturalium cognitione perbene instructi sunt, in rebus gravissimis afferri ac magni fieri solet. Et sane Ovidius, non poétice solum sed mathematicorum etiam ac philosophia peritus, non sagittas modo, sed plumbeas glandes, fundis Balearicis excussas, in cursu sape exar- sisse testatur. In libris enim Metamorphoseon hac habet: Non secus exarsit, quam cum Balearica plumbum Funda iacit: volat illud et incandescit eundo, Et, quos non habuit, sub nubibus invenit ignes. Paria his habet Lucanus, ingenio doctrinaque clarissimus: Inde faces et saxa volant, spatioque solute Aéris et calido liquefactae pondere glandes. Quid Lucretius, non minor et ipse philosophus quam poeta? nonne pluribus in locis idem testatur? RR ROTA DIRT I REFTTE plumbea vero Glans etiam longo cursu volvenda liquescit; 780 GALILEO GALILEI et alibi: Non alia longe ratione, ac plumbea sape Fervida fit glans in cursu, cum multa rigoris Corpora demittens ignem concepit in auris. Idem innuit Statius, dum ait: . arsuras ceeli per inania glandes. Quid de Virgilio, poétarum maximo? non ne bis hoc ipsum disertissime affirmat? Dum enim ludos Troianorum de- scribit, de Aceste ita loquitur: Namque volans liquidis in nubibus arsit arundo, Signavitque viam flammis, tenuesque recessit Consumpta in ventos; alio vero loco, de Mezentio sic: Stridentem fundam, positis Mezentius armis, Ipse ter adducta circum caput egit habena, Et media adversi liquefacto tempora plumbo Diffidit, et multa porrectum extendit arena. Posse vero corpus durius alterius mollioris attritione consumi, probat aqua, diuturna distillatione du- rissimos etiam lapides excavans, atque allisa sco- pulis unda, quae eosdem comminuunt et mire lavigant; ventorum etiam vi corrodi turrium ac domorum angulos experimur. Si quando igitur aér ipse concrescat magno- que impetu feratur, duriora etiam atteret corpora, atque ipse ab iis vicissim atteretur. Sibilus certe, qui in agita- tione funda exauditur, addensati aéris argumentum est; quod fortasse voluit Statius cum dixit, aétrem funda gyris inclusum distringi: . et flex@ Balearicus actor habene, Quo suspensa trahens libraret vulnera tortu, Inclusum:quoties distringeret aéra gyro. IL SAGGIATORE 781 Idem etiam probat grando, qua quo altiori e loco decidit, eo minutior ac rotundior cadit; idem pluvia gutte, maiores cum ex humiliori loco, minores cum ex altiori cadunt, cum in aére et comminuantur et atterantur. Che io o "1 Sig. Mario ci siamo risi e burlati dell’espe- rienza prodotta da Aristotile, è falsissimo, non essendo nel libro del Sig. Mario pur minima parola di derisione, né scritto altro se non che noi non crediamo ch’una freccia fredda, tirata coll’arco, s'infuochi; anzi crediamo che, tirandola infocata, pit presto si raffredderebbe che tenendola ferma: e questo non è schernire, ma dir sem- plicemente il suo concetto. A quello poi ch’ei soggiunge, non esserci succeduto il convincer cotale esperienza, perché non Aristotile solo, ma moltissimi altri gran- d'uomini nno creduto e scritto il medesimo, rispondo che se è vero che per convincere il detto d’Aristotile bisogni far che quei molti altri non l’abbian creduto né scritto, né io né ’l Sig. Mario né tutto il mondo insieme lo convinceranno già mai, perché mai non si farà che quei che l’anno scritto e creduto non l’abbian creduto e scritto: ma dico bene, parermi cosa assai nuova che, di quel che sta in fatto, altri voglia anteporre l’attestazioni d'uomini a ciò che ne mostra l’esperienza. L’addur tanti testimoni, Sig. Sarsi, non serve a niente, perché noi non abbiamo mai negato che molti abbiano scritto e creduto tal cosa, ma sf bene abbiamo detto tal cosa esser falsa; e quanto all’autorità, tanto opera la vostra sola quanto di cento insieme, nel far che l’effetto sia vero o non vero. Voi contrastate coll’autorità di molti poeti all’esperienze che noi produciamo. Io vi rispondo e dico, che se quei poeti fussero presenti alle nostre esperienze, muterebbono Opinione, e senza veruna repugnanza direbbono d’avere scritto iperbolicamente o confesserebbono d’essersi ingan- nati. Ma già che non è possibile d’aver presenti i poeti, i quali dico che cederebbono alle nostre esperienze, ma 782 GALILEO GALILEI ben abbiamo alle mani arcieri e scagliatori, provate voi se, coll’addur loro queste tante autorità, vi succede d’av- valorargli in guisa, che le frecce ed i piombi tirati da loro s'abbrucino e liquefacciano per aria; e cosi vi chia- rirete quanta sia la forza dell’umane autorità sopra gli effetti della natura, sorda ed inessorabile a i nostri vani desiderii. Voi mi direte che non ci sono più gli Acesti e Mezenzii o lor simili Paladini valenti: ed io mi contento che, non con un semplice arco a mano, ma con un robu- stissimo arco d'acciaio d'un balestrone caricato con mar- tinelli e leve, che a piegarlo a mano non basterebbe la forza di trenta Mezenzii, voi tiriate una freccia o dieci o cento; e se mai accade che, non dirò che ’1 ferro d’al- cuna s'infuochi o ’1 suo fusto s'abbruci, ma che le sue penne solamente rimangano abbronzate, io voglio aver perduta la lite, ed anco la grazia vostra, da me grande- mente stimata. Orsi, Sig. Sarsi, io non vi voglio più tener sospeso: non m'abbiate per tanto ritroso che io non voglia cedere all’autorità ed al testimonio di tanti poeti ammirabili, e ch'io non voglia credere che tal volta sia accaduto l’abbruciamento delle frecce e la fusione de’ metalli; ma dico bene, di cotali meraviglie la causa essere stata molto diversa da quella che i filosofi n'Anno voluta addurre, mentre la riducono ad attrizzioni d’arie ed es- salazioni e simili chimere, che son tutte vanità. Volete voi saperne la vera cagione? Sentite il Poeta a niun altro inferiore, nell’incontro di Ruggiero con Mandricardo e nel fracassamento delle lor lance: I tronchi sino al ciel ne sono ascesi; Scrive Turpin, verace in questo loco, Che due o tre giî ne tornaro accesi, Ch’eran saliti alla sfera del foco. E forse che il grand’Ariosto non leva ogni causa di du- bitar di cotal verità, mentr'ei la fortifica coll’attestazione IL SAGGIATORE 783 di Turpino? il quale ognun sa quanto sia veridico e quanto bisogni credergli. Ma lasciamo i poeti nella lor vera sentenza, e tor- niamo a quelli che riducono la causa all’attrizion del- l’aria: la quale opinione io reputo falsa; e considero quello che producete voi, volendo mostrare come i corpi duris- simi per l’attrizione d’altri pit molli possano consumarsi, e dite, ciò apertamente scorgersi nell'acqua e nel vento ancora, rodendo e consumando questo i cantoni delle sal- dissime torri, e quella, con una continua distillazione e frequente picchiare, scavando i marmi e i durissimi scogli. Tutto questo vi concedo io, perch’è verissimo; e più v'aggiungo che non dubito punto che le frecce e le palle, non solo di piombo, ma di pietra e di ferro ancora, cacciate fuor d’una artiglieria si consumano, nel ferir l’aria con quella somma celerità, pit che gli scogli o le muraglie nelle percosse dell’acqua e del vento; e dico, che se per fare una notabile corrosione o scortecciamento negli scogli e nelle torri ci vuole il ferir di ducento o trecento anni dell’acqua e del vento, nel roder le frecce e le palle d’artiglieria basterebbe ch’elle durassero ad andar per aria due o tre mesi soli: ma il tempo di due o tre battute di polso solamerte non intendo gi& come possa fare effetto notabile. Oltre che mi restano due altre difficoltà nell’applicar questa vostra, veramente in- gegnosa, considerazione al proposito vostro: l’una è, che noi parliamo di liquefare e struggere per via di calore, e non di consumare per via di percosse; l’altra è, che nel caso vostro voi avete bisogno che non il corpo solido, ma il corpo molle e sottile, sia quello che si stritoli ed as- sottigli, cioè l’aria, ch'è quella che s'ha poi ad accendere: ora l’esperienze addotte da voi provano che i sassi, e non l’aria o l’acqua, ricevon l’attrizione; e veramente io credo che l’aria e l’acqua, picchino pure se sanno picchiare, non però si assottiglieranno mai più che prima. Per tanto 784 GALILEO GALILEI io concludo, poco aiuto e sollevamento per la. causa vostra derivar da queste cose, come anco da quel ch’ag- giungete della gragnuola e delle gocciole dell’acqua: delle quali io vi concedo che nel cader da alto si vadano rappiccolendo; ve lo concedo, dico, non perch’io non non creda che possa esser vero anco tutto l’opposito di quel che dite voi, ma perché non veggo che né nell’uno né nell’altro modo abbia che far col proposito di che si tratta. Che la frombola poi co’ suoi fischi e scoppi sia argomento d’aria condensata nella sua agitazione, la la- scerò esser quel che piace a voi; ma avvertite che sarà una contradizzione a voi medesimo e un disastro alla vostra causa: imperocché sin qui avete sempre detto che per l'agitazione e commozione gagliarda si fa l’attrizione, rarefazzione e finalmente l’accendimento nell’aria, ed ora, per render ragione del sibilo della scaglia, o vero per trovare il senso delle parole assai offuscate di Stazio, vo- lete la condensazione; si che quella medesima commo- zione che, per servire allo struggere ed abbruciare, rarefà l’aria, per servizio de’ frombolatori e di Stazio la con- densa. Ma passiamo a sentire i testimoni degl’istorici. 45. Sed ne poétarum testimonium, vel eo ipso poéta nomine, suspectum alicui videatur (quamquam eosdem ex communi saltem omnium sensu locutos scimus), ad alios venio magna etiam auctoritatis ac fidei viros. Suidas igitur in Historicis, verbo! neoidwotvvtes, haec narrat: « Ba- bylonii iniecta in fundas ona in orbem circumagentes, rudis et venatorii victus non ignari, sed iis rationibus quas solitudo postulat exercitati, etiam crudum ovum impetu illo coxerunt >». Hac ille. Iam vero si quis tan- tarum causas rerum inquirat, audiat Senecam philoso- phum, quando hic inter cateros Galileo probatur, de his philosophice disputantem. Ille enim, ex sententia, primum, Posidonii, « In ipso aére, inquit, quidquid atte- nuatur, simul siccatur et calet»; ex sua vero sententia, IL SAGGIATORE 785 «Non est, inquit, assiduus spiritus cursus, sed quoties fortius ipsa iactatione se accendit, fugiendi impetum capit ». Sed longe hac apertius alibi, ubi fulminis causas inquirens, « Id evenit, inquit, ubi in ignem extenuatus in nubibus aér vertitur, nec vires quibus longius prosiliat invenit >» (audiat iam qua sequuntur Galilaus, sibique dicta existimet): « non miraris, puto, si aéra aut motus extenuat, aut extenuatio incendit; sic liquescit excussa glans funda, et attritu aéris velut igne distillat ». Nescio sane, an diserte magis aut clarius dici unquam id posset. Sive igitur poétarum optimis, sive philosophis credas, vides, quicumque hac de re dubitas, atteri posse per motum aérem, atque ita incalescere, ut vel plumbum eius calore liquescat. Nam quis hic existimet, viros virorum florem eruditissimorum, cum de iis loquerentur quorum in re militari quotidianus erat etiam tunc usus, egregie adeo atque impudenter mentiri voluisse? Equidem non is sum, qui sapientibus hanc notam inuram. Io non posso non ritornare a meravigliarmi, che pur il Sarsi voglia persistere a provarmi per via di testimonii quello ch'io posso ad ogn’ora veder per via d’esperienze. S'essaminano i testimonii nelle cose dubbie, passate e non permanenti, e non in quelle che sono in fatto e presenti; e cosi è necessario che il giudice cerchi per via di testi- monii sapere se è vero che ier notte Pietro ferisse Gio- vanni, e non se Giovanni sia ferito, potendo vederlo tuttavia e farne il visu reperto. Ma più dico che anco nelle conclusioni delle quali non si potesse venire in co- gnizione se non per via di discorso, poca più stima farei dell’attestazioni di molti che di quella di pochi, essendo sicuro che il numero di quelli che nelle cose difficili di- scorron bene, è minore assai che di quei che discorron male. Se il discorrere circa un problema difficile fusse come il portar pesi, dove molti cavalli porteranno più sacca di grano che un caval solo, io acconsentirei che i 786 GALILEO GALILEI molti discorsi facesser più che un solo; ma il discorrere è come il correre, e non come il portare, ed un caval barbero solo correrà pit che cento frisoni. Però quando il Sarsi vien con tanta moltitudine d’autori, non mi par che fortifichi punto la sua conclusione, anzi che nobiliti la causa del Sig. Mario e mia, mostrando che noi abbiamo discorso meglio che molti uomini di gran credito. Se il Sarsi vuole ch'io creda a Suida che i Babilonii cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò; ma dirò bene, la cagione di tal effetto esser lontanissima da quella che gli viene attribuita, e per trovar la vera io discorrerò così: « Se a noi non succede un effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d’esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia la vera causa: ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini ro- busti che le girino, e pur non si cuocono, anzi, se fusser calde, si raffreddano più presto; e perché non ci manca altro che l’esser di Babilonia, adunque l’esser Babiloni è causa dell’indurirsi l’uova, e non l’attrizion dell’aria », ch'è quello ch'io volevo provare. È possibile che il Sarsi nel correr la posta non abbia osservato quanta freschezza gli apporti alla faccia quella continua mutazion d’aria? e se pur l'ha sentito, vorrà egli creder più le cose di dumila anni fa, succedute in Babilonia e riferite da altri, che le presenti e ch'egli in se stesso prova? Io prego V. S. Illustrissima a farli una volta veder di meza state ghiacciare il vino per via d'una veloce agitazione, senza la quale egli non ghiaccerebbe altrimenti. Quali poi pos- sano esser le ragioni che Seneca ed altri arrecano di questo effetto, ch'è falso, lo lascio giudicare a lei. All’invito che mi fa il Sarsi ad ascoltare attentamente quello che conclude Seneca, e ch'egli poi mi domanda se si poteva dir cosa pit chiaramente e pit sottilmente, IL SAGGIATORE 787 io gli presto tutto il mio assenso, e confermo che non si poteva né più sottilmente né più apertamente dire una bugia. Ma non vorrei già ch’ei mi mettesse, com’ei cerca di fare, per termine di buona creanza in necessità di credere quel ch'io reputo falso, si che negandolo io venga quasi a dar una mentita a uomini che sono il fior de’ letterati e, quel ch'è più pericoloso, a soldati valorosi; perch'io penso ch’eglino credesser di dire il vero, e cosi la lor bugia non è disonorata: e mentre il Sarsi dice, non volere esser di quelli che facciano un tal affronto ad uomini sapienti, di contradire e non credere a i lor detti, ed io dico, non voler esser di quelli cosî sconoscenti ed ingrati verso la natura e Dio, che avendomi dato sensi e discorso, io voglia pospor sî gran doni alle fallacie d’un uomo, ed alla cieca e balordamente creder ciò ch'io sento dire, e far serva la libertà del mio intelletto a chi può cosi bene errare come me. 46. Sed quid adversus haec afferre possit Galilaus, non dissimulabo: dicat enim fortasse, nullam unquam fuisse fundarum aut arcuum vim tantam, qua sclopeti aut muralis tormenti impulsum @quare potuerit; quod si plumbea glandes hisce tormentis excussa non lique- scunt, addito etiam pulveris incendio, quo vel uno lique- scere deberent, iure suspicari nos posse, poétarum fuisse commenta illa liquefacti plumbi atque exustarum exem- pla sagittarum. Sed si hac facile obiiciat Galilaeus, non que tamen facile eadem probarit. Quin potius scio, explosas maioribus bombardis plumbeas pilas in aére liquescere aliquando. Certe Homerus Turtura, ut nuper- rimus ita diligentissimus rerum Gallicarum scriptor, ait, ingentem aliquando tormentariorum globorum vim inu- tilem monibus diruendis fuisse, quod, cum illi exigui prius forent atque ex ferro, superinducto plumbo maiores effecti fuissent: « cum enim, inquit, in muros explode- rentur, plumbo in aére liquescente, solus interior globulus 788 GALILEO GALILEI ex ferro, instar nuclei, abiecto cortice, murum pertin- gebat ». Praterea, audivi ipse ex iis qui viderant, pro- batissima fidei viris, cum dicerent, globulum plumbeum rotundum sclopeto explosum, cum brachio forte alterius inheesisset, ex eodem postea extractum fuisse non rotun- dum, sed oblongum et vere glandis figuram referentem: quod quotidianis etiam exemplis comprobatur, dum irrito saepe ictu glandes plumbea sclopetis excuss@, inter hostium vestes implicita, figura non amplius qua fuerant, sed compressa ac laciniosae atque etiam frusta- tim comminuta reperiuntur. Quod argumento est, illas, ex calore concepto rariores effectas, invalido percussisse ictu. Continua pure il Sarsi nel cominciato stile, di voler provar coll’altrui relazioni quello che sta in fatto e che ogn’ora si può vedere per l’esperienza; e come per auto- rizar gli antichi arcieri e frombolatori ha trovato uomini per altro insigni, cosî, per render credibile il medesimo effetto di liquefarsi le moderne palle d’archibuso e d’ar- tiglieria, ha ritrovato un moderno istorico non men degno di fede né di minore autorità di qualunque altro antico. Ma perché non punto deroga di fede né di dignità al- l’istorico l’arrecare d’un effetto naturale vero una ragione non vera, essendo che all’istorico appartiene il solo ef- fetto, ma la ragione è officio del filosofo; però, credendo io al Sig. Omero Tortora che le palle d’artiglieria, per essere state incamiciate di piombo, facesser poco effetto nel batter la muraglia nemica, piglierò ardire di negargli la ragione ch'egli, ricevendola dalla commune filosofia, n'adduce; con isperanza che l’istesso istorico, si come sin qui ha creduto quello che ha trovato scritto da tanti altri uomini grandi, l'autorità de’ quali è stata bastante ad acquistar fede ad ogni lor detto, cosî, sentendo le mie ragioni, sia per cangiare opinione, o almeno per venire in pensiero di voler vedere coll’esperienza qual sia la verità. Credo dunque al Sig. Tortora, che le palle di IL SAGGIATORE 789 ferro covertate di piombo nella batteria di Corbel fa- cesser poco effetto, e che di loro si ritrovasser l'anime di ferro spogliate di piombo; e questo è tutto quello ch’ap- partiene all’istorico: ma non credo già l’altra parte filo- sofica, cioè che il piombo si liquefacesse, e che perciò si trovasser nude le palle di ferro; ma credo che giungendo con quello estremo impeto che dal cannone veniva cac- ciata la palla sopra la muraglia, la coverta di piombo in quella parte che rimaneva compressa tra ’1 muro esterno e l’interior palla di ferro si ammaccasse e sbranasse, e che l’istesso 0 poco meno facesse anco l’altra parte del piombo opposta, schiacciandosi sopra il ferro, e che tutto il piombo, dilaniato e trasfigurato, saltasse in diverse bande, il quale poi, imbrattato da calcinacci e perciò simile ad altri fragmenti della ruina, malagevolmente si ritrovasse, e forse anco per avventura non fusse con quella diligenza ricercato, che richiederebbe la curiosità di chi volesse venire in cognizione s'ei si fusse strutto o pur dilacerato; e cosi servendo il piombo quasi come ri- paro e guanciale alla palla di ferro, onde ella minor per- cossa dava e riceveva, con ingrata ricompensa ne restava egli in guisa dilacerato e guasto, che né il cadavero an- cora si ritrovava tra i morti. E perché io intendo che il Sig. Omero si ritrova costi in Roma, se mai accadesse che s'incontrasse con V. S. Illustrissima, la prego a leg- gergli questo poco che ho scritto e quel resto che scriverò appresso in questo proposito; imperocché grandissima stima farei del guadagnarmi l’assenso di persona meri- tamente pregiata assai all’età nostra. Dico dunque, che se noi considereremo in quanto tempo va la palla dal cannone alla muraglia, e quello che dentro a tal tempo deve operare per far la fusione del piombo, gran meraviglia sarà ch’altri voglia persistere in opinione che pur tal effetto segua. Il tempo è assai meno d’una battuta. di polso, dentro al quale si ha da 290 GALILEO GALILEI fare l’attrizione dell’aria, si ha poi d’accendere, ed in ultimo si deve liquefare il piombo; ma se noi metteremo - la medesima palla di piombo nel mezo d’una fornace ardente, ei non si struggerà né anco in venti battute: re- stera ora al Sarsi di persuader altrui, che l’aria attrita e accesa sia uno ardore incomparabilmente maggiore di quel d'una fornace. Di pit, ci mostra l’esperienza come una palla di cera tirata coll’archibuso passa una tavola, ch'è argomento ch’ella non si strugga per aria: bisognerà dunque che il medesimo Sarsi renda ragione, perché si liquefaccia il piombo, ma non la cera. Di più, se il piombo si liquefà, sicuramente, arrivando sopra un cor- saletto, poca botta potrà fare; onde gran meraviglia mi resta che questi moschettieri non abbiano ancor pensato di far le palle di ferro, acciò non cosî facilmente si struggano; ma tirano pur con palle di piombo, alle quali poche piastre di ferro sono che resistano, ed in quelle che reggono si trova una ben profonda ammaccatura e la palla schiacciata, ma non già liquefatta. Negli uccelli ammazzati con le migliaruole si ritrovano i grani di piombo dell’istessa figura per l'appunto: toccherà al Sarsi a render ragione come si liquefacciano i pezzi di piombo di quindici o venti libre l’uno, ma non quelli che ne va trentamila alla libra. Che tutto il giorno si trovino tra i vestimenti de’ nemici le palle diversificate di figura, crederò che alcune si sieno schiacciate nell’armadura, e tali rimaste tra i panni; altre possono avere urtato per iscancio in una celata e perciò allungatesi, e, giungendo stracche ne’ panni di un altro, restatevi senza offenderlo: ed in somma possono in una scaramuccia accadere mille accidenti, dico senza liquefazione; la quale quando fusse, bisognerebbe che il piombo, disperdendosi in più minute stille che non fa l’acqua (come sa il Sarsi), da luoghi al- tissimi, e però con gran velocità, cadendo, si perdesse del tutto, si che niente d’esso si ritrovasse. Lascio star di IL SAGGIATORE 791 dire che la freccia e la palla accompagnate dall’aria ar- dente doverebbono, la notte in particolare, mostrar nel lor viaggio una strada risplendente, come quella d’un razo, giusto nella maniera che scrive Virgilio della freccia di Aceste, che segnò il suo cammino colle fiamme; tut- tavia tal effetto non si vede se non poeticamente, ben che gli altri accidenti notturni, come di baleni, di stelle di- scorrenti, per gran lume si facciano molto cospicuamente vedere. 47. At id quotidie accidere non videmus. Nempe, neque auctores a nobis citati affirmarunt, quoties Balea- ricus fundibularius plumbum funda proiiceret, solitum illud ex motu liquescere, sed tantum accidisse id non semel, atque ideo insolitam rem pene miraculo fuisse: nos etiam supra diximus, ad ignem ex attritu aéris exci- tandum multam exhalationum copiam in eodem aéère requiri, quod calidiora facilius ignescant. Sic enim vi- demus in coometeriis per sestatem accidere non raro, ul ad alicuius hominis adventum aut ad lenissimi favonii eventilationem agitatus aèr ille, siccis et calidis halitibus infectus, in flammam statim abeat. Quanam porro hic corporum duriorum attritio reperitur? Ft tamen ex motu atque attritione levissima aér ille ignescit. Atque hoc voluit Aristoteles, cum dixit: « Cum autem fertur et movetur hoc modo, quacumque contigerit bene temperata existens, sape ignitur »: quo textu satis aperte significat, haec non contingere nisi in iis circumstantiis quas superius enumeravimus. Quare, si quando is aéris status fuerit ut huiusmodi exhalationibus abunde ferveat, aio plumbeos orbes, fundis etiam validissime excussos, suo motu aérem accensuros, atque ab eodem incenso incendendos vicissim fore; non esse proinde, cur Galileus ad experimenta confugiat, cum non nostro hac arbitratu, sed casu, evenire asseramus; perdifficile autem est casum, cum volueris, accersere. Quod si quis forte 792 GALILEO GALILEI dixerit, glandes tormentis bellicis explosas, non ex attritu aéris, sed ex igne vehementissimo quo excutiuntur, ac- cendi; quamquam haud ita facile mihi persuadeam, in- gentem plumbi vim ab co igne liquescere quem brevissimo temporis momento vix attigerit, satis hoc loco habeo ostendisse, nullum ab his exemplis Galileo patere effu- gium ad poétarum et philosophorum testimonia evadenda. Questo liquefarsi le palle di piombo, che quattro versi di sopra disse il Sarsi che si conferma con esempli coti- diani, adesso dice accader cosi di rado, che, come cosa insolita, vien reputato quasi un miracolo. Or questa gran ritirata ci assicura pur di vantaggio ch’ei si conosce molto bisognoso di schermi e di fughe; il qual bisogno va egli confermando colla propria incostanza, di voler or questa cosa ed or quella: ora dice che per accender l’aria basta l'agitazione d'un piccol venticello, ed anco il solo arrivo d'un uomo vivo sopra un cimiterio di morti; altra volta (come ha detto di sopra, e replica nel fine di questa pro- posizione) vorrà un moto veemente, una copia grande d’essalazioni, una grande attenuazione di materia, e se altra cosa è che conferisca a questa fattura; ed a que- st’ultimo riquisito sottoscrivo pit che a tutti gli altri, si- curissimo che non solo questi accendimenti, ma qualunque altro più meraviglioso e recondito effetto di natura segue quando vi son quei requisiti che si convengono. Vorrei ben sapere a che proposito mi domandi il Sarsi, dopo aver detto delle fiamme che sopra i cimiteri s'accendono per lo semplice arrivo d’un uomo o per un lento venti- cello, mi domandi, dico, dove sia qui l’attrizion de’ corpi duri? Io ho ben detto che l’attrizion potente ad eccitare il fuoco è sola quella che vien fatta da’ corpi solidi; ora non so qual logica insegni al Sarsi a ritrar da questo detto ch'io voglia che, qualunque si sia l’accendimento, non si possa cagionar da altro che da cotale attrizione. Replico dunque al Sarsi che l'incendio si può suscitare in molti IL SAGGIATORE d93 modi, tra i quali uno è l’attrizione e stropicciamento ga- gliardo di due corpi duri; e perché tale attrizione non si può far da’ corpi sottili e fluidi, però dico che le comete e baleni, le saette, le stelle discorrenti, ed ora aggiugnia- moci le fiamme de’ cimiteri, non s'accendono per attrizione né d'aria né di venti né d’esalazioni, anzi che ciasche- duno di questi abbruciamenti si fa il più delle volte nelle maggiori tranquillità d’aria e quando il vento è del tutto fermo. Voi forse mi direte: Qual dunque è la causa di queste incensioni? Vi risponderò, per non entrare in nuove liti, che non la so, ma che so bene che né l’acqua né l’aria si tritano né si accendono né s’'abbruciano già mai, non essendo materie né tritabili né combustibili: e se dando fuoco ad un sol fil di paglia, a un capello di stoppa, non resta l’abbruciamento sin che tutta la stoppa e tutta la paglia, se ben fusse cento milioni di carra, non è abbruciata; anzi, se dato fuoco ad un piccol legno abbrucerebbe tutta la casa e la città intera e tutte le legna del mondo che fusser contigue alle prime ardenti, se non si corresse prestamente a i ripari, chi riterrebbe mai che l’aria, cosî sottile e di parti tutte aderenti senza separazione, quando se n’accendesse una particella, non ardesse anco il tutto? Riducesi finalmente il Sarsi a dire con Aristotile che se mai accaderà che l’aria sia abondantemente ripiena di tali essalazioni ben temperate, e con altri riquisiti detti, allora si liquefanno le palle di piombo, e non solamente quelle dell’artiglierie e degli archibusi, ma le tirate colle fionde ancora. Dunque tale bisogna che fusse lo stato del- l’aria al tempo che i Babilonii cocevan l’uova; tale fu, con gran ventura degli assediati, mentre si batteva la città di Corbel; ed allora che tale si ritrova, si può alle- gramente andar contro all’archibusate: ma perché l’af- frontare una tal costituzione è cosa di ventura e che non accade cosi spesso, però dice il Sarsi che non si deve 794 GALILEO GALILEI ricorrere all'esperienze, attento che questi miracoli non si fanno ad arbitrio nostro, ma del caso, ch'è poi diffici- lissimo a incontrarsi. Tanto che, Sig. Sarsi, quando bene l'esperienze fatte mille e mille volte, in tutte le stagioni dell’anno ed in qualsivoglia luogo, non riscontrassero mai co 1 detto di quei poeti filosofi ed istorici, questo non importa niente, ma dobbiamo credere alle lor parole, e non a gli occhi nostri. Ma se io vi troverò una costituzion d’aria con tutti quei requisiti che voi dite che si ricercano, e che ad ogni modo non ci cuocano l’uova né si strug- gano le palle di piombo, che direte voi allora, Sig. Sarsi? Ma aimè! io fo troppo grande oblazione, e sempre vi ri- marrà la ritirata con dire che vi manca qualche requisito necessario. Troppo avvedutamente vi recaste voi in un posto sicuro, quando diceste esser di bisogno per l’effetto un moto violento, gran copia d’essalazioni, una materia bene attenuata et si quid aliud ad idem conducit: quel si quid aliud è quel che mi sbigottisce, ed è per voi un’ancora sacra, un asilo, una franchigia troppo sicura. Io avevo fatto conto di sospender la causa e soprassedere sin che venisse qualche cometa, immaginandomi che in quel tempo della sua durazione Aristotile e voi foste per con- cedermi che l’aria, si come si trovava ben disposta per l’abbruciamento di quella, cosî si ritrovasse anco per la liquefazzione del piombo e per cuocer l’uova, parendomi che voi aveste per ambedue gli effetti ricercato la mede- sima disposizione; ed allora volevo che noi mettessimo mano alle fionde, all’uova, agli archi, ai moschetti ed al- l’artiglierie, e ci chiarissimo in fatto della verità di questo negozio; anzi pure che, senz’aspettar comete, il tempo dovrebbe essere opportuno di meza state, e quando l’aria lampeggia e fulmina, venendo a tutti questi ardori as- segnata l’istessa causa: ma dubito che quando ben voi non vedeste in cotali tempi liquefarsi le palle, né pur cuocersi l’uova, non però cedereste, ma direste mancarci IL SAGGIATORE cda quel si quid aliud ad idem conducens. Se voi mi direte che cosa sia questo si quid aliud, io mi sforzerò di pro- vederlo; quanto che no, lascerò correr la sentenza, la qual credo senz'altro che sarà contro di voi, se non in tutto e per tutto, almanco in questa parte, che mentre che noi andiamo ricercando la causa naturale d'un ef- fetto, voi vi riducete a voler ch'io m'appaghi d'una ch'è tanto rara, che voi stesso la nominate finalmente e la ri- ponete tra i miracoli. Ora, sî come né per girar di fionde né per tirar d’archi né d’archibusi né d’artiglierie noi non veggiamo mai farsi gli effetti più volte nominati, o pur, se gig mai è accaduto un tale accidente, è stato cosi di rado che dobbiamo tenerlo come miracolo, e come tale più tosto crederlo all’altrui relazione che cercar di ve- derlo per prova; perché, dico, stanti queste cose cosi, non vi dovete voi contentar di conceder che veramente per uno ordinario le comete non si accendono per un’at- trizione d’aria, e contentarvi ancora di passar come cosa di miracolo se pur alcuno vi concederàa che tal una si sia, una volta in mill’anni, accesa per quella attrizione ben corredata di tutte quelle circostanze che voi ricercate? Quanto all’instanza che il Sarsi si promuove e risolve, cioè che alcuno forse potrebbe dire che non per attrizion d’aria, ma pel fuoco veemente che le caccia, si struggono le palle d’archibuso e d'artiglieria; io, primieramente, non sarò di quelli che oppongano in cotal guisa, perché dico ch’elle non si struggono né in quello né in modo veruno: quanto poi alla risposta dell’instanza, non so perché il Sarsi non abbia arrecata quella ch'è propriis- sima e chiara, dicendo che le palle e le frecce cacciate colla fionda e coll’arco, dove non è fuoco, mostrano la nullità dell’instanza apertamente. Questa pare a me che fusse risposta assai più diretta che la portata dal Sarsi, cioè che ’1 tempo nel quale la palla va col fuoco, gli par troppo breve per liquefare un gran pezzo di piombo: il 296 GALILEO GALILEI che è vero, ma vero è ancora che assai più breve è l’altro tempo ch’ella spende nel suo viaggio, per liquefarlo con l’attrizion dell’aria. All’ultima conclusione ch’ei ne raccoglie, non so che rispondere, perché non intendo punto ciò ch'ei si voglia dire mentr'ei dice, bastargli aver mostrato ch'io, per questi essempi, non ho ritirata alcuna per isfuggire i te- stimonii de’ poeti e ‘de’ filosofi; i quali testimonii essendo scritti e stampati in mille libri, io non ho mai cercato di sfuggirli, e ben mi parrebbe privo di discorso affatto chi tentasse una tale impresa. Ho ben detto che l’attestazioni son false, e tali mi par che siano tuttavia. 48. Sed obiicit praterea: Quamvis admittatur, ex motu accendi exhalationes aliquando posse, nescire ta- men se intelligere, qui fiat ut statim atque ignem conceperint, non consumantur, sicuti in fulmi- nibus, stellis cadentibus aliisque huiusmodi fieri quotidie videmus. Ego vero satis id intelligi posse existimo, si quis, ex iis quos hominum ars atque industria invenit ignibus, similiter de sublimioribus illis a natura succensis philosophetur. Duplicis enim natura nostri hi sunt: sicci alii ac rari nulloque heerentes glutine, qui, ut ignem con- ceperint, claro largoque fulgore, subito incremento, at caduco brevique incendio, nullis pene reliquiis, confla- grare solent; alii tenaciori materia compacti ac piceo liquore conflati, in longum tempus duraturi, flamma diuturniore nocturnas nobis tenebras illustrant. Quidni igitur in supremis illis regionibus simile aliquid con- tingat? Vel enim materia levis adeo rara et sicca est, ut nullo humidi vinculo colligetur; atque haec subito cele- rique fulgore, in suo veluti exortu interitura, succenditur: vel certe viscida est et glutinosa; qua, si quo casu ac- cendatur, non ad interitum illico properet, sed suo plane succo diutius vivat, ac longiore atate, suspicientibus un- dique mortalibus, ex alto resplendeat. Satis igitur hinc IL SAGGIATORE 7902 apparet, qui possit fieri ut ignes in summo aére succensi non illico extinguantur aliquando, sed diutius ardeant: apparet etiam, actrem succendi posse, si ea preesertim adsint qua calori ex attritu excitando plurimum con- ferunt, vehemens videlicet motus, exhalationum copia, materia attenuatio, et si quid aliud ad idem conducit. Legga or V. S. Illustrissima quel che resta fino al fine di questa proposizione; nel qual proposito poco mi resta che dire, avendone detto assai di sopra. Per tanto met- terò solo in considerazione, come il Sarsi, per mantenere che l'incendio della cometa possa durare mesi e mesi, ancor che gli altri che si fanno in aria, come baleni, fulmini, stelle discorrenti e simili, sieno momentanei, as- segna due sorti di materie combustibili: altre leggieri, rare, secche e senz'alcun collegamento d'umidità; altre viscose, glutinose, e in consequenza con qualche umidità collegate: delle prime vuol che si facciano gli abbrucia- menti momentanei; delle seconde, gl’incendii diuturni, quali sono le comete. Ma qui mi si rappresenta una assai manifesta repugnanza e contradizzione: perché, se cosi fusse, dovrebbono i baleni e i fulmini, come quelli che si fanno di materia rara e leggiera, farsi nelle parti al- tissime, e le comete, come accese in materia più glutinosa, corpulenta, ed in consequenza più grave, nelle parti più basse; tuttavia accade il contrario, perché i baleni ed i fulmini non si fanno alti da terra né anco un terzo di miglio, si come ci assicura il piccolo intervallo di tempo che resta tra il veder noi il baleno e ’] sentire il tuono, quando ci tuona sopra il vertice; ma che le comete sieno indubitabilmente senza comparazione più alte, quando altro non ce lo manifestasse a bastanza, l'abbiamo dal lor movimento diurno da oriente in occidente, simile a quello delle stelle. E tanto basti aver considerato intorno a queste esperienze. 798 GALILEO GALILEI Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V. S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione « Il moto è causa di calore », mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’im- maginazione per se stessa non v'arriverebbe gia mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, si che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sf come gli abbiamo imposti nomi partico- lari e differenti da quelli de gli altri primi e reali acci- denti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. Io credo che con qualche essempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. lo vo movendo una mano ora IL SAGGIATORE 799 sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azzione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch'è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, v. g., sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra af- fezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome parti- colare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sf che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Un poco di carta o una penna, leg- giermente fregata sopra qualsivoglia parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione, ch'è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso, e sotto le narici, eccita una titillazione quasi in- tollerabile, ed in altra parte a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è pit altro che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essi- stenza credo io che possano esser molte qualità che ven- gono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre. Un corpo solido, e, come si dice, assai materiale, mosso ed applicato a qualsivoglia parte della mia persona, pro- duce in me quella sensazione che noi diciamo tatto, la quale, se bene occupa tutto il corpo, tuttavia pare che principalmente risegga nelle palme delle mani, e pit ne i polpastrelli delle dita, co” quali noi sentiamo piccolissime differenze d’aspro, liscio, molle e duro, che con altre parti del corpo non cosi bene le distinguiamo; e di queste sen- 800 GALILEO GALILEI sazioni altre ci sono più grate, altre meno, secondo la di- versità delle figure de i corpi tangibili, lisce o scabrose, acute o ottuse, dure o cedenti: e questo senso, come più materiale de gli altri e ch'è fatto dalla solidità della materia, par che abbia riguardo all'elemento della terra. E perché di questi corpi alcuni si vanno continuamente risolvendo in particelle minime, delle quali altre, come più gravi dell’aria, scendono al basso, ed altre, più leg- gieri, salgono ad alto; di qui forse nascono due altri sensi, mentre quelle vanno a ferire due parti del corpo nostro assai più sensitive della nostra pelle, che non sente l’incursioni di materie tanto sottili tenui e cedenti: e quei minimi che scendono, ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati colla sua umidità, la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de’ toccamenti delle diverse figure d’essi mi- nimi, e secondo che sono pochi o molti, più o men veloci; gli altri, ch’ascendono, entrando per le narici, vanno a ferire in alcune mammillule che sono lo strumento del- l’odorato, e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con nostro gusto o noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti o ve- loci, ed essi minimi, pochi o molti. E ben si veggono pro- vidamente disposti, quanto al sito, la lingua e i canali del naso: quella, distesa di sotto per ricevere l’incursioni che scendono; e questi, accommodati per quelle che sal- gono: e forse all’eccitar i sapori si accommodano con certa analogia i fluidi che per aria discendono, ed a gli odori gl’ignei che ascendono. Resta poi l'elemento del- l’aria per li suoni: i quali indifferentemente vengono a noi dalle parti basse e dall’alte e dalle laterali, essendo noi costituiti nell’aria, il cui movimento in se stessa, cioè nella propria regione, è egualmente disposto per tutti i versi; e la situazion dell’orecchio è accommodata, il più che sia possibile, a tutte le positure di luogo; ed i suoni allora son IL SAGGIATORE 801 fatti, e sentiti in noi, quando (senz’altre qualità sonore o transonore) un frequente tremor dell’aria, in minutissime onde increspata, muove certa cartilagine di certo timpano ch'è nel nostro orecchio. Le maniere poi esterne, potenti a far questo increspamento nell’aria, sono moltissime; le quali forse si riducono in gran parte al tremore di qualche corpo che urtando nell’aria l’increspa, e per essa con gran velocità si distendono l’onde, dalla frequenza delle quali nasce l’acutezza del suono, e la gravità dalla rarità. Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sa- pori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vi- vente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. E come a i quattro sensi considerati inno relazione i quattro elementi, cosi credo che per la vista, senso sopra tutti gli altri eminen- tissimo, abbia relazione la luce, ma con quella propor- zione d'eccellenza qual è tra ’l finito e l’infinito, tra ’l temporaneo e l’instantaneo, tra ’1 quanto e l’indivisibile, tra la luce e le tenebre. Di questa sensazione e delle cose attenenti a lei io non pretendo d’intenderne se non po- chissimo, e quel pochissimo per ispiegarlo, o per dir meglio per adombrarlo in carte, non mi basterebbe molto tempo, e però lo pongo in silenzio. E tornando al primo mio proposito in questo luogo, avendo già veduto come molte affezzioni, che sono repu- tate qualità risedenti ne’ soggetti esterni, non Anno vera- mente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi, dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chia- 51. - G. Galilei, Opere - II. 802 GALILEO GALILEI miamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra so- stanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d'essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando, sî che grata sia quella penetrazione per la quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspi- razione, molesta quella per la quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza: sf che in somma l'operazion del fuoco per la parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sot- tilità tutti i corpi, dissolvendogli pit presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degl’ignicoli e la den- sità o rarità della materia d’essi corpi; de’ quali corpi molti ve ne sono de’ quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi ignei, e va seguitando la risoluzione fin che incontra materie risolubili. Ma che oltre alla figura, moltitudine, moto, penetrazione e toc- camento, sia nel fuoco altra qualità, e che questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente nostro, che, rimosso il corpo animato e sensi- tivo, il calore non resti altro che un semplice vocabolo. Ed essendo che questa affezzione si produce in noi nel passaggio e toccamento de’ minimi ignei per la nostra sostanza, è manifesto che quando quelli stessero fermi, la loro operazion resterebbe nulla: e cosî veggiamo una quantità di fuoco, ritenuto nelle porosità ed anfratti di un sasso calcinato, non ci riscaldare, ben che lo tegniamo in mano, perch’ei resta in quiete; ma messo il sasso nel- l’acqua, dov’egli per la di lei gravità ha maggior pro- pensione di muoversi che non aveva nell’aria, ed aperti di pit i meati dall’acqua, il che non faceva l’aria, scap- IL SAGGIATORE 803 pando i minimi ignei ed incontrando la nostra mano, la penetrano, e noi sentiamo il caldo. Perché, dunque, ad eccitare il caldo non basta la pre- senza de gl’ignicoli, ma ci vuol il lor movimento ancora, quindi pare a me che non fusse se non con gran ragione detto, il moto esser causa di calore. Questo è quel movi- mento per lo quale s’abbruciano le frecce e gli altri legni e si liquefà il piombo e gli altri metalli, mentre i minimi del fuoco, mossi o per se stessi con velocità, o, non ba- stando la propria forza, cacciati da impetuoso vento de’ mantici, penetrano tutti i corpi, e di quelli alcuni risol- vono in altri minimi ignei volanti, altri in minutissima polvere, ed altri liquefanno e rendono fluidi come acqua. Ma presa questa proposizione nel sentimento commune, si che mossa una pietra, o un ferro, o legno, ei s'abbia a riscaldare, l'ho ben per una solenne vanità. Ora, la con- fricazione e stropicciamento di due corpi duri, o col risolverne parte in minimi sottilissimi e volanti, o col- l’aprir l'uscita a gl’'ignicoli contenuti, gli riduce final- mente in moto, nel quale incontrando i nostri corpi e per essi penetrando e scorrendo, e sentendo l’anima sen- sitiva nel lor passaggio i toccamenti, sente quell’affez- zione grata o molesta, che noi poi abbiamo nominata caldo, bruciore o scottamento. E forse mentre l’assotti- gliamento e attrizione resta e si contiene dentro a i mi- nimi quanti, il moto loro è temporaneo, e la lor operazione calorifica solamente; che poi arrivando all'ultima ed al- tissima risoluzione in atomi realmente indivisibili, si crea la luce, di moto o vogliamo dire espansione e diffusione instantanea, e potente per la sua, non so sio debba dire sottilità, rarità, immaterialità, o pure altra condizion di- versa da tutte queste ed innominata,. potente, dico ad ingombrare spazii immensi. Io non vorrei, Illustrissimo Signore, inavvertentemente ingolfarmi in un oceano infinito, onde io non potessi poi 804 GALILEO GALILEI ridurmi in porto; né vorrei, mentre procuro di rimuovere una dubitazione, dar causa al nascerne cento, si come temo che anco in parte possa essere occorso per questo poco che mi sono scostato da riva: però voglio riserbarmi ad altra occasion più opportuna. QUARTA PROPOSITIO. IRRADIATIO CORPORUM LUMINOSORUM OCULI EST AFFECTIO, NON AUTEM AÈRIS ILLUMINATI, CUM AÈR ILLUMINARI NON POSSIT. 49. Dum Galilaus de fulgore illo agit, qui, luminosis corporibus circumfusus, eminus spectantibus ab ipso luminoso corpore non distinguitur, ait primo, illum in oculi superficie per refractionem radiorum in insidente humore fieri, non autem circa astrum aut flam- mam revera consistere; addit secundo, aérem illuminari non posse; tertio vero, corpora luminosa si per tubum conspiciantur, larga illa radiatione spoliari. Porro ad harum propositionum veritatem investigandam, illud quod secundo loco positum est, primo est a nobis expendendum, hoc est an illuminari aèr possit: ex hoc enim reliqua pendere videntur. Qua in quaestione supponendum, primum, ex opticis ac physicis est, lumen non videri nisi terminatum; ter- minari autem non posse, nisi corpore aliquo opaco; per- spicuum enim, qua perspicuum est, lucem non terminat, sed liberum eidem transitum prabet: secundum, aérem purum ac sincerum maxime perspicuum esse, minusque proinde aptum ad lumen terminandum; aérem vero im- purum, multisque vaporibus admixtum, et lucem termi- nare et remittere ad oculum posse. Et quidem huius secundae suppositionis prima pars ab omnibus, atque a Galilaeo ipso, ultro conceditur: pars autem altera multis probatur experimentis. IL SAGGIATORE 805 Aurora enim in Solis exortu, atque in occasu crepu- scula, satis indicant, impurum aérem illuminari posse; idem testantur corona, area, parelia, aliaque huiusmodi qua ex aére crassiori fiunt. Fateri hoc etiam videtur Galilaus in Nuncio Sidereo, ubi circa Lunam vaporosum quemdam orbem ei qui Terra circumfunditur non absi- milem, statuit, quem a Sole illuminari asserit; quod de Ioviali etiam orbe videtur affirmare. Praterea, si quis Lunam post alicuius domus tectum adhuc latitantem, cum proxime emersura est, observet, maximam aéris partem eiusdem Luna lumine illustratam, quasi lunarem auroram, prius intuebitur; fulgorem autem hunc magis ac magis crescere comperiet, quo propior exortui Luna fuerit. Ridiculum autem esset affirmare auroram, crepu- scula, aliosque huiusmodi splendores, in insidente oculis humore per refractionem gigni. Quid enim? dum Lu- nam ac Solem, altius provectos, brevi inclusos gyro intueor, siccioribus ne oculis sum, quam cum eosdem postea, horizonti proximos, in orbem ampliorem extensos aspicio? Satis igitur ex his patet, aérem impurum ac mixtum illuminari posse; quod etiam ratione pervincitur. Cum enim lumen terminetur ab eo quod aliquam habet opacitatem; aér autem per vapores concretior atque opacior fiat; hac saltem parte, qua opacus est, lumen reflectere poterit. Quibus ita explicatis, ad quastionem propositam re- deo: in qua, dum auctores nec. pauci nec mali asserunt, partem aéris luminosis corporibus in speciem circumfusi pariter illuminari, non de sincero nullisque admixto va- poribus locuti existimandi sunt, sed de eo aére qui, den- sioribus halitibus opacatus, lumen stellarum sistere ac cohibere possit, ne ultra progrediatur. Nam dum aiunti, Solem ac Lunam ampliori sese forma prope horizontem spectandos offerre quam cum altiores fuerint, id ex aére vaporoso interiecto oriri affirmant: ex quibus patet, illos 806 GALILEO GALILEI non de aére puro loqui, sed de infecto ac proinde opaciori. Quare statuendum est, non abiiciendam esse (quod Ga- lileus iubet) opinionem illam qua asserit, aérem illu- minari a stellis posse; cum tot experimentis verissima comprobetur, si de aére impuriori intelligatur. Quod si illuminari aér potest, poterit etiam pars aliqua luminosi illius coronamenti, quo sidera vestiuntur, in aérem illu- minatum referri. Quamvis non negem (id quod primo loco propositum fuerat), radiosam illam coronam longis distinctam radiis, quae ad quemcumque oculi motum mo- vetur, oculi affectionem esse, ex quo fit ut iidem radii modo plures modo pauciores, nunc breviores nunc pro- ductiores, fiant, prout oculus ipse movetur; adhuc tamen non probavit Galilaeus, nullam partem illius luminis, quod nos a vera flamma non distinguimus, ex aére illu- minato existere, qua postea ne per specillum quidem luminosa spoliari possint. Neque obstat experimentum ab eodem Galilzo alla- tum. « Si manum, inquit, inter lumen atque oculum collocatam ita moveris, ac si lumen occultare velles, fulgor ille circumfusus nunquam tegetur, quoad ipsum verum lumen non absconderis; sed radii ipsi manum inter atque oculum nihilominus comparebunt; at ubi partem veri luminis aliquam texeris, eorumdem radiorum partem oppositam evanescere comperies; nam si luminis partem superiorem celaveris, radii inferiores apparere desinent ». Haec Galileus: qua omnia verissima experior, dum radios ipsos tantum considero, radios, inquam, illos quos, ex eorum motu pene perpetuo ac luminis diversi- tate, satis superque a reliquo vero lumine distinguo: at dum reliquum lumen, quod ipse verum existimo, celare tento, ea prorsus ex parte qua manum interpono, si non omnino abscondo, minuo saltem atque infusco. Infusco, inquam; neque enim ex qualibet manus interpositione celari obiecta possunt, ne videantur. Si quis enim, ut di- IL SAGGIATORE 807 cebam, attente animadvertat, dum veram candela a nobis remota flammam tegere manus obiectu nitimur, etiamsi summam pyramidis accensa partem revera manus texerit, adhuc tamen eamdem illam inter manum atque oculum conspicimus, videturque interpositus digitus ea flamma comburi ac duas veluti in partes secari; ea plane ratione quam digitus A ostendit. Qui autem fieri possit, ut ex hac digiti interpo-. sitione aspectus flamma non impe- diatur, sic ostendo. Cum oculi pupilla indivisibilis non sit, sed plures possit in partes dividi, poterit una illius pars tegi, reliquis non tectis; quamvis Ds ergo, parte aliqua pupilla obtecta, ju ad illam species obiecti luminis non perveniant, si tamen reliqua aperta remaneant et ad illas eaedem species per- tingere possint, lumen adhuc videbitur. Sit enim, v. g&., lumen BC, oculi pupilla FA, corpus opacum inter- positum sit D, quod quidem speciem puncti C pervenire ad F non permittat, nullo tamen sit impedimento quin ex C alter radius CÀ per- veniat ad partem pupilla A. Per radium ergo C A vide- bitur apex luminis C; non videbitur autem adeo fulgens, ut tunc quando totam pupillam sua imagine explebat: idem autem apex C non prius videri desinet, quam D totam pupillam tegat, prohibeatque ne ullis radiis apex C ad illam feratur. Quod si corpus D multo minus fuerit quam oculi pupilla, v. g. filum aliquod crassum, parum- que ab eadem pupilla abfuerit, lumine interim longe posito; quomodocumque inter oculum et lumen idem filum extendatur, nullam luminis partem impediet, neque fili eiusdem pars inter oculum et flammam constituta com- 808 GALILEO GALILEI parebit, ac si prorsus combusta fuisset: quod ex eadem causa oritur. Neque enim filum illud, cum minus sit quam pupilla, si ab eadem non longe distet, impedire potest quominus omnes flamma partes, aliquibus saltem radiis, ad potentiam ferantur: quare per eos saltem flamma videbitur. Ad tertium denique dictum, quo ait, sidera hoc splen- dore accidentario spoliari, cum tubo optico conspiciuntur; multa hic etiam sunt, qua non facile solvantur. Nam si tubus opticus sidera adscititio hoc fulgore spoliaret, non deberet hic fulgor per tubum conspici: at conspicitur tamen. Et quidem inter fixas stellas nulla est adeo exigua, qua splendore isto, etiam non suo, a tubo exui patiatur; quod Galilaeus ipse fateri videtur, dum a Cane aliisque stellis fulgorem illum numquam omnino auferri posse affirmat: semper enim, etiam per tubum, scintillantes hosce radios in illis intuemur. Sed quid dico a stellis? Planeta etiam aliqui adeo fulgoris huius tenaces sunt, ut nunquam sibi illum eripi patiantur; Mars videlicet, Venus atque Mercurius, quorum lumen nisi coloratis vitris, specillo aptatis, retuderis, nunquam nudi compa- rebunt. Et sane non video, si eadem radiorum illorum causa in superficie oculi remanet, hoc est humor ille pu- pillae perpetuo insidens, cur postea, si lumen astri, per specilli vitra refractum, in eumdem humorem incidat, refringi iterum, quanquam diverso fortasse modo, eosdem- que luminis ductus producere, non debeat. Iam vero si illud admittatur, quod admitti necesse est, ut supra pro- bavimus, aérem etiam illuminari, atque ex hoc fieri posse ut sidus maius appareat quam revera sit; non poterit Galilaeus negare, ex hoc saltem capite, circumfusum etiam fulgorem videri per tubum, ac proinde etiam augeri debere: fatetur quippe omnia illa per tubum videri atque ab eodem augeri, qua ultra ipsum posita sunt; cum igitur hic etiam splendor ultra specillum sit, per illud IL SAGGIATORE 809 conspici augerique debebit. Quod si nihilominus in stellis hoc incrementum non percipitur, aliunde petenda erit huius aspectus causa, non ex eo quod radiatio haec fiat inter specillum et oculum, hoc est in superficie humida oculi. Hoc enim, si non de radiis illis vagis ac distinctis, sed de stabili et continuo amplioris luminis coronamento loquamur, ex aére illuminato existere posse, Solis ac Luna exemplis, prope horizontem ampliori orbe quam in vertice apparentium, comprobatur: si vero de radiis ipsis intellisatur, cum hi etiam per specillum conspi- ciantur in stellis, non poterit hoc minimum earumdem stellarum incrementum in radiorum illorum abiectionem referri, cum non abiiciantur. Passi ora V. S. Illustrissima alla terza proposizione, la quale legga e rilegga tutta con attenzione: dico con attenzione, acciò tanto più manifestamente si conosca poi, quanto artificiosamente vada pure il Sarsi conti- nuando suo stile di voler, coll’alterare levare ed aggiun- gere e più col divertire il discorso e meschiarlo con cose aliene dal proposito, offuscar la mente del lettore, si che in ultimo, tra le cose da sé confusamente apprese, gli possa restar qualche opinione che il Sig. Mario non abbia cosi stabilita la sua dottrina, che altri non v’abbia potuto trovar che opporre. Essendo stata opinione di molti ch'una fiammella ar- dente apparisca assai maggiore in certa distanza per- ch’ella accenda, ed in conseguenza renda egualmente splendida, buona parte dell’aria sua circonvicina, onde poi da lontano e l’aria accesa e la vera fiammella appa- riscano un lume solo; il Sig. Mario, confutando questo, disse che l’aria non s'accendeva né s'illuminava, e che l'irraggiamento, per cui si faceva l'ingrandimento, non era intorno alla fiammella, ma nella superficie dell’occhio nostro. Il Sarsi, volendo trovar che opporre a cotal vera dottrina, in vece di render grazie al Sig. Mario d’avergli 52. - G. Galilei, Opere - IT. 810 GALILEO GALILEI insegnato quello che di sicuro gli era sino allora stato ignoto, si fa innanzi, e si pone a voler provare come, contro al detto del Sig. Mario, l’aria s'illumina: nella quale impresa egli, per mio parere, erra in molte maniere. E prima, dove il Sig. Mario, redarguendo il detto di quei filosofi, disse che l’aria non s'accendeva né s'illumi- nava, il Sarsi mette sotto silenzio quella parte dell’ac- cendersi, e solo tratta dell’illuminarsi: onde il Sig. Mario con ragion può dire al Sarsi d’aver parlato d’una cosa, ed esso aver preso ad impugnarne un’altra; aver par- lato, dico, dell’aria circonvicina alla fiammella e dell’illu- minazione che le può venire dal suo accendersi, e quello aver parlato dell’illuminazione che senza incendio viene sopra l’aria vaporosa, posta in qualsivoglia distanza dal- l'oggetto illuminante. Inoltre, egli medesimo sul primo ingresso dice che i corpi diafani non s'illuminano, tra i quali mette nel primo luogo l’aria, e poi soggiunge che, mescolata con vapori grossi e potenti a reflettere il lume, ella ben s'illumina. Adunque, Sig. Sarsi, sono i vapori grossi, e non l’aria, quelli che s'illuminano. Voi mi fate sovvenir di quello che diceva che il grano gli faceva venir capogiroli e stornimenti di testa, quando però v'era mescolato del loglio. Ma è il loglio, in buon’ora, e non il grano, quello ch'offende. Voi volete insegnarci che nel- l’aria vaporosa s'illumina l'aurora, che mill’altri ed il Sig. Mario stesso l’ha in sei luoghi scritto innanzi a voi. Ma che più? voi medesimo in questo medesimo luogo dite che io l’ammetto insino intorno alla Luna ed a Giove; adunque tutte le prove ed esperienze di aurora, d’aloni, di parelii e di Luna ascosta dopo qualche parete sono superflue, non avendo noi gia mai dubitato, non che ne- gato, che i vapori diffusi per aria, le nuvole e la caligine s illuminano. Ma che volete voi, Sig. Sarsi, far poi di cotale illuminazione? dir forse (come in effetto dite) che per essa appariscano i primarii oggetti illuminanti mag- IL SAGGIATORE 811 giori? e come non v'accorgete voi che, quando ciò fusse vero, bisognerebbe che il Sole e la Luna si mostrassero grandi quanto tutta l’aurora e gli aloni interi, imperò che cotanta è l’aria vaporosa che del lume loro è fatta partecipe? Voi dunque, Sig. Sarsi, perché avete trovato scritto (dico cosî, perché voi stesso citate i filosofi e gli autori d’ottica per confermare ed autorizare cotali pro- posizioni) che la region vaporosa s'illumina, ed oltre a ciò che il Sole e la Luna vicini all’orizonte appariscono, mediante tal regione vaporosa, maggiori che inalzati verso il mezo cielo, vi siete persuaso che da cotale illuminazione dependa il loro apparente ingrandimento. È vera l’una e l’altra proposizione, cioè che l’aria vaporosa s’illumina, e che il Sole e la Luna presso all’orizonte, mercé della region vaporosa, appariscono maggiori; ma è falso il con- nesso delle due proposizioni, cioè che la maggioranza dependa dall’esser tal regione illuminata, e voi vi sete molto ingannato, e toglietevi da cosî erronea opinione; imperocché non pel lume de’ vapori, ma per la figura sferica dell’esterna loro superficie, e per la lontananza maggiore di quella dall'occhio nostro quando gli oggetti son più verso l’orizonte, appariscono essi oggetti maggiori della lor commune apparente grandezza, e non i luminosi solamente, ma qualunque altro posto fuor di tal regione. Traponete tra l'occhio vostro e qualsivoglia oggetto una lente convessa cristallina in varie lontananze: vedrete che quando essa lente sarà vicino all'occhio, poco si ac- crescerà la specie dell'oggetto veduto; ma discostandola, vedrete successivamente andar quella ingrandendosi. È perché la region vaporosa termina in una superficie sfe- rica, non molto elevata sopra il convesso della Terra, le linee rette che tirate dall’occhio nostro arrivano alla detta superficie, sono disuguali, e minima di tutte la perpen- dicolare verso il vertice, e dell’altre di mano in mano maggior sono le più inclinate verso l’orizonte che verso 812 GALILEO GALILEI il zenit. Quindi anco (e sia detto per transito) si può fa- cilmente raccorre la causa dell’apparente figura ovata del Sole e della Luna presso all’orizonte, considerando la gran lontananza dell'occhio nostro dal centro della Terra, ch'è lo stesso che quello della sfera vaporosa; della quale apparenza, come credo che sappiate, ne sono stati scritti, come di problema molto astruso, interi trattati, ancor che tutto il misterio non ricerchi maggior profondità di dot- trina che l’intender per qual ragione un cerchio veduto in maestà ci paia rotondo, ma guardato in iscorcio ci apparisca ovato. Ma ritornando alla materia nostra, io non so con che proposito dica il Sig. Sarsi, esser cosa ridicolosa il dire che l’alba e i crepuscoli ed altri simili splendori si gene- rino nell'umore sparso sopra l'occhio, e molto più ridi- coloso se alcuno dicesse che guardando noi verso il vertice, avessimo gli occhi più secchi che guardando l’orizonte, e che però la Luna e ’l Sole ci paresser minori in quel luogo che in questo: non so, dico, a che fine sieno intro- dotte queste sciocchezze, non si trovando chi già mai l'abbia dette. Ma mentre il Sarsi ci figura per troppo semplici, veggiamo se forse cotal nota più ad esso che a noi saccommodi. Qui si tratta di quello irraggiamento avventizio per lo quale le stelle ed altri lumi inghirlan- dandosi appariscono assai maggiori che se fussero visti. i loro piccoli corpicelli spogliati di tali raggi, tra i quali, perché sono poco men lucidi della prima e vera fiam- mella, resta esso corpicello indistinto, in modo che ed esso e l'irraggiamento si mostra come un sol oggetto grande e risplendente. A parte di questo irraggiamento ed ingrandimento vuole il Sarsi mettere il lume che per refrazzione si produce nell'aria vaporosa, e vuole che per questo il Sole e la Luna si mostrino maggiori verso l’ori- zonte che elevati in alto, e, quel ch'è peggio, vuole che l’istesso abbiano creduto molti altri filosofi: il che è falso, È IL SAGGIATORE 815 né anno si altamente errato. E che questo sia grandis- simo errore, lo doveva molto speditamente mostrare al Sarsi la grandissima distinzione che si vede tra le luci del Sole e della Luna e l’altro splendore circunfuso, dentro al quale incomparabilmente più lucido e meglio determinato questo e quel luminare si discerne: il che non accade dell’irraggiamento delle stelle, tra ‘1 quale il corpicello della stella resta da pari splendore ingombrato ed indistinto. Ma sento il Sarsi che risponde e dice, che quel Sole e Luna grandi non sono i corpi reali nudi e schietti, ma uno aggregato e composto del piccol corpo reale e del- l'irraggiamento che l’inghirlanda e racchiude in mezo con luce non minore della primaria, onde ne risulta il gran disco apparente tutto egualmente splendido. Ma se questo è, Sig. Sarsi, perché non si mostra la Luna cosî grande nel mezo del cielo ancora? vi manca forse l’aria vaporosa atta ad illuminarsi? Io non so quello che voi foste per rispondere, né me lo potrei immaginare, perché non si potendo contra a un vero venir con altro che con fallacie e chimere, le quali, come voi sapete, sono infinite, io non potrei indovinar la vostra eletta. Ma per troncarle tutte in una volta e cavar voi ed altri, se vi fussero, d'errore, basti, a farvi toccar con mano che la gran Luna che voi vedete nell’orizonte è la schietta e nuda, e non aggrandita per altra luce avventizia e circunfusa, basti, dico, il ve- dere le sue macchie sparse per tutto il suo disco sino al- l'estrema circonferenza nella guisa a capello che si mostra nel mezo del cielo; ché se fusse come avete creduto voi, le macchie nella Luna bassa e grande si doverebbon veder raccolte tutte nella parte di mezo, lasciando la ghirlanda intorno lucida e senza macchie. Adunque, non per isplen- dore aggiunto, ma per uno ingrandimento di tutta la specie nel refrangersi nella remota superficie vaporosa, si mostrano il Sole e la Luna maggiori bassi che alti. 814 GALILEO GALILEI Or vedete, Sig. Sarsi, quanto è facil cosa l’atterrare il falso e sostenere il vero. Questa pur troppo grand’evi- denza della falsità di molte proposizioni che si leggono nel vostro libro, non mi lascia interamente credere che voi non l’abbiate compresa; e vo pensando che possa essere che, conoscendovi voi internamente dalla realtà delle ragioni convinto, vi riduciate per ultimo partito a far prova se l’avversario, col creder vere quelle cose che voi stesso conoscete false, si ritirasse e cedesse; e che perciò voi arditamente le portiate avanti, imitando quel giocatore che, vedendosi d’aver a carte scoperte perduto l'invito, tenta con altro soprinvito maggiore di far cre- dere all'avversario gran punto quello che piccolissimo vede egli stesso, onde, cacciato dal timore, ceda e se ne vada. E perché io veggo che voi vi siete alquanto intri- gato tra questi lumi primarii, refratti e reflessi ne’ vapori o nell'occhio, comportate voi, come scolare, ch'io, come professore e maestro vecchio, vi sviluppi ancora un poco meglio. Per tanto sappiate che dal Sole, dalla Luna e dalle stelle, corpi tutti risplendenti e costituiti fuori e molto lontani dalla superficie della region vaporosa, esce splen- dore che perpetuamente illumina la metà di tal regione; e di questo emisferio illuminato l’estremità occidentale ci arreca la mattina l'aurora, e la parte opposta ci lascia la sera il crepuscolo: ma niuna di queste illuminazioni accresce o scema o in modo alcuno altera l’apparente grandezza del Sole, Luna e stelle, che perpetuamente si ritrovano nel centro o vogliamo dir nel polo di questo emisferio vaporoso da loro illuminato; del quale le parti direttamente traposte tra l'occhio nostro e ’1 Sole o la Luna ci si mostrano più splendide dell’altre che di grado in grado da queste parti di mezo più si discostano, lo splendor delle quali va di mano in mano languendo; e questo è quel lume che da segno dell’appressamento della IL SAGGIATORE 815 Luna allo scoprirsi, mentre dopo qualche tetto o parete ci si nasconde. Una simile illuminazione si fanno intorno intorno anco le fiammelle poste dentro alla sfera vapo- rosa; ma questa è tanto debile e languida, che se di notte asconderemo un lume dopo qualche parete e poi ci an- deremo movendo per iscoprirlo, difficilmente scorgeremo splendore alcuno circunfuso o vedremo altra luce sin che si scuopra la fiamma principale; e questo debolissimo lume nulla assolutamente accresce la visibile specie di essa fiammella. Ci è un’altra illuminazione, fatta per re- frazzione nella superficie umida dell’occhio, per la quale l'oggetto reale ci si mostra circondato da un cerchio lu- minoso, ma inferiore assai di splendore alla primaria luce; e questo si mostra allargarsi per maggiore o minore spazio, non solamente secondo la maggiore o minor copia d'umore, ma secondo la cattiva o buona disposizion del- l'occhio: il che ho io in me stesso osservato, che per certa affezzione cominciai a vedere intorno alla fiamma della candela uno alone luminoso e di diametro di più d’un braccio, e tale che mi celava tutti gli oggetti posti di lé da esso; scemando poi l’indisposizione, scemava la gran- dezza e la densità di questo alone, ma però me ne resta ancora molto più di quello che veggono gli occhi perfetti: e questo alone non s’asconde per l’interposizion della mano o d'altro corpo opaco tra la candela e l’occhio, ma resta sempre tra la mano e l’occhio, sin che non si occulta il lume stesso della candela. Per questo lume parimente non singrandisce la specie della fiammella, del cui splen- dore egli è assai men chiaro. Ci è un terzo splendore vivacissimo e chiaro quasi al par dell’istesso lume prin- cipale, il qual si produce per reflessione de’ raggi primarii fatta nell’umidità de gli orli ed estremità delle palpebre, la qual reflessione si distende sopra ’1 convesso della pu- pilla: della qual produzzione abbiamo argomento sicuro dal mutar noi la positura della testa; imperò che secondo 816 GALILEO GALILEI che noi la inclineremo, alzeremo, o vero terremo diritta- mente opposta all'oggetto luminoso, lo vederemo irrag- giato nella parte superiore solamente, o nell’inferiore solamente, o in ambedue; ma dalla destra o dalla sinistra gia mai non vederemo comparirgli raggi, perché le refles- sioni fatte verso gli angoli dell’occhio non possono arrivar sopra la pupilla, sotto l’orizonte della quale, mediante la piegatura delle palpebre su la sfera dell’occhio, esse parti angolari si ritrovano; e se altri, calcando colle dita sopra le palpebre, allargherà l’occhio e discosterà gli orli di quelle dalla pupilla, non vedrà raggi né sopra nè sotto, avvenga che le reflessioni fatte in essi orli non vanno sopra la pupilla. Questo solo è quello ir- raggiamento per lo quale i piccoli lumi ci appariscono grandi e raggianti, e nel quale la real fiammella resta ingombrata ed indistinta. L’altre illuminazioni non anno, Sig. Sarsi, che far nulla, nulla p@nitus, nell’ingrandi- mento, perché sono tanto inferiori di luce al lume pri- mario, che ben sarebbe cieco affatto chi non vedesse il termine confine e distinzione tra l’uno e l’altro; oltre che (come di sopra ho detto) il disco del Sole e quel della Luna, quando per tale illuminazione s’ingrandissero, do- vrebbono mostrarsi grandi quanto gl’immensi cerchi delle loro aurore. Però quando voi dite che non negate, quella corona raggiante esser affezzion dell'occhio, ma che non perciò ho io ancora provato che qualche parte non de- penda dall’aria circunfusa illuminata, toglietevi dal troppo miseramente mendicar sussidii cosi scarsi. Che volete che faccia quel debolissimo lume mescolato con quei fulgen- tissimi raggi reflessi dalle palpebre? aggiunge quel che farebbe il lume d’una torcia a quel del Sole meridiano. Di questo lume sparso per l’aria vaporosa io ve ne voglio conceder non solamente quella piccola parte che voi do- mandate, ma quanto abbraccia tutta l’aurora e ’1 crepu- scolo e tutto l’emisferio vaporoso; e di questo voglio che IL SAGGIATORE 817 il corpo luminoso né per telescopio né per altro mezo possa già mai essere spogliato; e voglio ancora, per vostra compitissima soddisfazzione, ch’ei venga dal telescopio ingrandito come tutti gli altri oggetti, si che non pure adegui tutta l'aurora, ma mille volte maggiore spazio, se mille volte tanto si potesse comprendere coll’occhiale; ma niuna di queste cose solleva punto né voi né "1 vostro Maestro, che avreste bisogno, per mantenimento della vostra principal conclusione (ch’è che le stelle fisse, per esser lontanissime, non ricevono accrescimento veruno dal telescopio), avreste bisogno, dico, che la stella ed il suo irraggiamento fusse una cosa medesima, o almeno che l'irraggiamento fusse realmente intorno alla stella: ma né quello né questo è vero, ma bene è egli nell'occhio, e le stelle ricevono accrescimento tanto quanto ogn’altro 0g- getto veduto col medesimo strumento, come puntualissi- mamente scrisse e dimostrò il Sig. Mario. Questi altri vostri diverticoli, d'arie vaporose illumi- nate e di Soli e Lune alte e basse, son, come si dice, pannicelli caldi, e un voler fuggir la scuola e cercar di deviare il lettore dal primo proposito. È fra l'altre vostre molte diversioni, questa che fate in mostrar con assai lungo discorso come per l’interposizion del dito non s'im- pedisca la vista della fiammella, e quel che dite del filo sottile e del corpo interposto minor della pupilla, son tutte cose vere, ma, per mio avviso, nulla attenenti al proposito che si tratta: il che veggo che internamente avete conosciuto voi medesimo ancora, atteso che, quando era il tempo dell’applicazione di queste cose alla ma- teria e di chiuder la conclusione, voi fate punto, e la- sciandoci sospesi passate ad altro proposito, e cercate, pur per via di discorso, provar cosa di cui cento espe- rienze chiarissime sono in contrario; e ben che voi veg- giate, guardando col telescopio, la stella di Saturno terminatissima e di figura diversissima dall’altre, il disco 818 GALILEO GALILEI di Giove e quel di Marte, e massime quando è vicino a Terra, perfettamente rotondi e terminati, Venere a’ suoi tempi corniculata ed esattissimamente delineata, i glo- betti delle stelle fisse, e massime delle maggiori, molto ben distinti, e finalmente mille fiammelle di candele, poste in gran distanza, cosi ben dintornate come da vi- cino, dove, senza il telescopio, l'occhio libero niuna di cotali figure distingue, ma tutte le vede ingombrate da raggi stranieri e tutte sotto una stessa figura radiante, con tutto ciò pur volete che ’1 telescopio non le mostri senza raggi, persuaso da certi vostri discorsi, de i quali io non sarei in obligo di scoprir le fallacie, avendo per me l’esperienza in contrario; tuttavia, per vostra utilità, le accennerò cosî brevemente. E per venir con ogni maggior chiarezza al mio in- tento, io vi domando, Sig. Sarsi, onde avvenga che Ve- nere si circonda si fattamente di questi raggi ascitizii e stranieri, che tra essi perde in modo la sua real figura, ch'essendo stata dalla creazion del mondo in qua mille e mille volte cornicolata, mai da vivente alcuno non è stata osservata né veduta tale, ma sempre è apparsa d'una stessa figura, se non dapoi ch'io primieramente col telescopio scopersi le sue mutazioni? il che non accade della Luna, la quale coll’occhio libero mostra le sue di- versità di figure, senza notabile alterazione che dependa dall’irraggiamento avventizio. Non rispondete, ciò acca- dere mediante la gran lontananza di Venere e la vici- nanza della Luna; perché io vi dirò che quello che accade a Venere, accade ancora alle fiammelle delle candele, le quali, in distanza di cento braccia solamente, confondono la lor figura tra i raggi e la perdono non men di Venere. Se volete risponder bene, bisogna che diciate, ciò derivare dalla piccolezza del corpo di Venere in relazione all’ap- parente grandezza di quel della Luna, e che vi figuriate, la lunghezza di quei raggi che si producono nell'occhio IL SAGGIATORE 819 esser, v. g., per quattro diametri di Venere, che non sa- ranno poi la decima parte del diametro della Luna. Ora figuratevi la piccolissima falce di Venere, inghirlandata di una chioma che se le sparga e distenda intorno intorno in distanza di quattro suoi diametri, ed insieme la gran- dissima falce della Luna con una chioma non più lunga della decima parte del suo diametro; non doverà esservi difficile a intendere come la forma di Venere del tutto si perderà tra la sua capellatura, ma non già quella della Luna, la quale pochissimo s’altererà: ed accade in questo quello a punto che accaderebbe in vestire una formica di pelle d'agnello, di cui la configurazione delle piccoline membra in tutto e per tutto si perderebbe tra la lun- ghezza de i peli, si che l’istessa apparenza farebbe che se fusse un bioccolo di lana; nulla dimeno l’agnello, per la sua grandezza, assai distinte mostra le membra sue sotto la pecorile spoglia. Ma dirò, di più, che ricevendo il ca- pillizio splendido, che risiede nell'occhio, la limitazion del suo spargimento dalla costituzion dell’occhio stesso pit che dalla grandezza dell'oggetto luminoso (e cosî veg- giamo stringendo le palpebre, si che appariscano surger dall'oggetto luminoso raggi molto lunghi, non si veggono maggiori quei che vengono dalla Luna, che quei di Ve- nere 0 d’una torcia o d'una fiaccola), figuratevi una de- terminata grandezza d’una capellatura; nel mezo della quale se voi intenderete essere un piccolissimo corpo lu- minoso, perderà la sua figura, coronato di troppo lunghi crini; ma ponendovi un corpo maggiore e maggiore, final- mente potrà il simulacro reale occupar tanto nell'occhio, che poco o niente gli avanzi intorno del capillizio; e cosi l’immagine, v. g., della Luna potrà esser che ingombri nell'occhio spazio maggiore della commune irradiazione. Stante queste cose, intendete il disco reale, per essempio, di Giove occupar sopra la nostra luce un cerchietto, il cui diametro sia la ventesima parte dello spargimento 820 GALILEO GALILEI della chioma raggiante, onde in si gran piazza resta in- distinto il piccolissimo cerchietto reale: viene il telescopio, e m'aggrandisce la specie di Giove in diametro venti volte; ma già non ingrandisce l’irraggiamento, che non passa per li vetri: adunque io vedrò Giove non pit come una piccolissima stella radiante, ma come una Luna ro- tonda, ben grande e terminata. E se la stella sarà assai più piccola di Giove, ma di splendore molto fiero e vivo, qual è, per essempio, il Cane, il cui diametro non è la decima parte di quel di Giove, nulla di meno la sua ir- radiazione è poco minor di quella di Giove, il telescopio, accrescendo la stella ma non la chioma, fa che, dove prima il piccolissimo disco tra si ampio fulgore era im- percettibile, gif fatto in superficie 400 e più volte mag- giore, si può distinguere ed assai ben figurare. Con tal fondamento andate discorrendo, ché potrete disbrigarvi per voi stesso da tutti gl’intoppi. E rispondendo alle vostre instanze, quando dal Sig. Ma- rio e da me è stato detto che ’1 telescopio spoglia le stelle di quel coronamento risplendente, ciò è stato profferito non con intenzione d'avere a stare a sindicato di per- sone cosi puntuali come siete voi, che, non avendo altro dove attaccarvi, vi conducete sino a dannar con lunghi discorsi chi prende il termine usitatissimo d’infinito per grandissimo. Quando noi abbiamo detto che il telescopio spoglia le stelle di quello irraggiamento, abbiamo voluto dire ch'egli opera intorno a loro in modo che ci fa vedere i lor corpi terminati e figurati come se fussero nudi e senza quello ostacolo che all’occhio semplice asconde la lor figura. È egli vero, Sig. Sarsi, che Saturno, Giove, Ve- nere e Marte all'occhio libero non mostrano tra di loro una minima differenza di figura, e non molto di grandezza seco medesimi in diversi tempi? e che coll’occhiale si veggono, Saturno come appare nella presente figura, e Giove e Marte in quel modo sempre, e Venere in tutte IL SAGGIATORE 821 queste forme diverse? e, quel ch'è più meraviglioso, con simile diversità di grandezza? si che cornicolata mostra il suo disco 40 volte maggiore che rotonda, e Marte 60 volte quando è perigeo che quando è apogeo, ancor che all’occhio libero non si mo- stri più che 4 o 5? Bisogna che rispondiate di si, perché C1)) % (3) queste son cose sensate ed eterne, si che non si può spe- rare di poter per via di sil- Ù logismi dare ad intendere che ) sn la cosa passò altrimenti. Or, ) l’operare col telescopio in- torno a queste stelle in modo che quell’irraggiamento, che perturbava l’occhio libero ed impediva l'esatta sensazione, |...... |, la qual opera è cosa massima e d'ammirabili e grandissime conseguenze, è quello che noi abbiam voluto significare nel dire spogliar le stelle dell’irraggiamento, che son parole solamente di niun momento, di niuna conseguenza: le quali se a voi, che siete ancora scolare, danno fastidio, potrete mutarle a vostro beneplacito, come cambiaste già quello nostro accrescimento nel vostro transito dal non essere all'essere. A quello che voi dite, parervi pur ragionevole che, si come l'oggetto lucido, venendo per lo mezo libero, pro- duce nell'occhio l'irraggiamento, egli debba ancor far l’istesso quando viene passando per li cristalli del tele- scopio; rispondo concedendovelo liberamente, e dicovi che accade a punto l’istesso de gli oggetti veduti col telescopio che de’ veduti senza: e si come il disco di Giove, per essempio, veduto coll’occhio libero rimane per la sua pic- colezza perduto nell’ampiezza del suo irraggiamento, ma non già quello della Luna, che colla sua gran piazza oc- cupa sopra la nostra pupilla spazio maggiore del cerchio raggiante, per lo che ella si vede rasa, e non crinata: 822 GALILEO GALILEI cosi, facendomi il telescopio arrivar sopra l’occhio il disco di Giove sei cento e mille volte maggiore della specie sua semplice, fa ch'egli colla sua ampiezza ingombri tutta la capellatura de’ raggi, e comparisca simile ad una Luna piena: ma il disco piccolissimo del Cane, ben che mille volte ingrandito dal telescopio, non però adegua ancora la piazza radiosa, si che ci apparisca tosato del tutto; nien- tedimeno, per essere i raggi verso l’estremità alquanto men forti e tra loro divisi, resta egli visibile, e tra la di- scontinuazion de’ raggi si vede assai commodamente la continuazion del globetto della stella, il quale con uno strumento che più e pit l’accrescesse, più e pid sempre distinto e meno irraggiato ci si mostrerebbe. Si che la cosa, Sig. Sarsi, sta cosî, e questo effetto ci venne chia- mato uno spogliar Giove del suo capillizio: le quali pa- role se non vi piacciono, già vi si è dato licenza che le mutiate ad arbitrio vostro, ed io vi do parola d’usar per l'avvenire la vostra correzzione; ma non v'affaticate in voler mutar la cosa, perché non farete niente. E già che voi in questo fine replicate che pure è ne- cessario conceder che l’aria circunfusa s’illumini, e che perciò la stella apparisca maggiore; ed io torno a repli- carvi che i vapori circunfusi s’illuminano, ma non perciò il corpo luminoso s’accresce punto, essendo che il lume de’ vapori è incomparabilmente minore della primaria luce: per lo che il corpo lucido, se è grande, resta nudo, e se è piccolo, rimane, col suo irraggiamento fatto nel- l'occhio, terminatissimo e distintissimo tra ’1 debolissimo lume dell’aria vaporosa. E vi replico ancora, poi che voi medesimo me ne porgete replicata occasione, che total- mente deponghiate quella falsa opinione che "1 Sole e la Luna presso all’orizonte si mostrino maggiori per una ghirlanda d’aria illuminata che s’aggiunga al lor disco, perché questa è una grandissima semplicità, come di sopra ho detto e provato. E per non lasciar cosa inten- IL SAGGIATORE 823 tata per cavarvi d’errore e far che voi restiate capace di questo negozio, alle vostre ultime parole, dove voi dite che vedendosi pur pel telescopio essi raggi luminosi in- torno alle stelle, non si potrà ridurre il minimo ricresci- mento di quelle nella perdita di questi, essendo che non si perdono; vi rispondo che l'accrescimento è grandissimo, come in tutti gli altri oggetti, e che il vostro errore sta (come sempre si è detto) nel paragonar voi la stella in- sieme con tutto il suo irraggiamento, visto coll’occhio libero, col corpo solo della stella veduto, collo strumento, distinto dalla sua piazza radiosa, della quale egli talvolta compar maggiore e tal volta eguale, secondo la gran- dezza della stella vera e la moltiplicazion del telescopio; e quando comparisce minor di esso irraggiamento, tut- tavia si scorge il suo disco, come ho detto, tra l'estremità della capellatura. Ed una accommodatissima riprova del- l'accrescimento grande, come in tutti gli altri oggetti, è il pigliar Giove coll’occhiale avanti giorno, e andarlo se- guitando sino al nascer del Sole e più oltre ancora; dove si vede il suo disco, pel telescopio, sempre grande nel- l’istesso modo: ma quel che si vede coll’occhio libero, cre- scendo il candor dell'aurora si va sempre diminuendo, si che vicino al nascer del Sole quel Giove che nelle te- nebre superava d’assai ogni stella della prima grandezza, si riduce ad apparir minore di quelle della quinta e della sesta, e finalmente, ridottosi quasi ad un punto indivisibile, nascendo il Sole, si perde del tutto: nulla dimeno, sparito all'occhio libero, si séguita egli pur di vederlo tutto il giorno grande e ben circolato; ed io ho uno strumento che me lo mostra, quando è vicino alla Terra, eguale alla Luna veduta liberamente. Non è dunque cotal ricresci- mento minimo o nullo, ma grande, come di tutti gli altri oggetti. To vi voglio, Sig. Sarsi, pigliare alla stracca, se non potrò prendervi correndo. Volete voi una nuova dimo- 824 GALILEO GALILEI strazione, per prova che gli oggetti in tutte le distanze crescono nella medesima proporzione? Sentitela. To vi do- mando se, posti quattro, sei o dieci oggetti visibili in varie lontananze, ma in guisa però che tutti si veggano nella medesima linea retta, si che il pit vicino occupi tutti gli altri, vi domando, dico, se tenendo l’occhio nel medesimo luogo e riguardando i medesimi oggetti co ’1 telescopio, voi gli vedrete pur posti in linea retta o no, si che il vicino non vi asconda più gli altri, ma ve gli lasci vedere? Credo pur che voi risponderete ch'ei vi compariranno per linea retta, essendo realmente per linea retta disposti. Ora, stante questo, immaginatevi quattro, sei o dieci bacchette diritte, tra di lor paralelle, poste in distanze disuguali dall'occhio, ed esse di lunghezze pur disuguali, e le più lontane maggiori, e di mano in mano le più vicine minori, in modo che gli estremi termini loro sì veggano posti in due linee rette, una a destra e l’altra a sinistra; pigliate poi il telescopio, e riguardatele con esso: gia, per la concession fatta, i medesimi termini, tanto i destri quanto i sinistri, si vedranno pure in due linee rette come prima, ma aperte in maggiore angolo. E come ciò sia, Sig. Sarsi, questo, appresso i geometri, si domanda ricrescer tutte quelle linee secondo la medesima proporzione, e non ricrescer più le vicine che le lontane. Cedete dunque, e tacete. PROPOSITIO QUARTA. NULLUM LUMINOSUM EST PERSPICUUM, ET FLAMMA VIDERI EA NON PATITUR, QUE ULTRA ILLAM POSITA SUNT. 50. Sed videamus, quam recte ex Peripatetica disci- plina atque ex experimentis sibi arma contra Aristotelem fabricet Galileus. « Praterea, inquit, cometam flammam non fuisse, ex ipsa experientia et Peripateticorum dicto IL SAGGIATORE 825 deducimus, quo affirmant, nullum corpus lucidum esse perspicuum; experientia vero docet, flammam vel mi- nimam unius candela impedimento esse quominus obiecta ultra ipsam posita conspiciantur: si ergo cometam flam- mam fuisse quis dixerit, dicendum eidem erit, stellas ultra illam positas ab ea celari debuisse: et tamen per cometa caudam lucidissime intermicantes easdem stellas vidimus ». Hac ille: in quibus mirari satis non possum, hominem, magni alioqui nominis atque experimentorum amantis- simum, ea diserte adeo asseverasse, quae obviis ubique experimentis redargui facile possent. Quamvis enim Peripateticorum dictum, si recte intel- ligatur, verissimum sit (omne enim corpus, ad hoc ut illuminetur vel, potius, illuminatum appareat, excurren- tem ulterius lucem quasi sistere ac reprehendere debet; perspicuum autem, utpote eidem luci pervium, eam ter- minare non potest: ex quo dicendum est, corpus quod- cumque eo clarius illuminandum, quo plus opaci minusque habuerit perspicui), nullus tamen est qui neget, reperiri corpora partim perspicua partim opaca, qua partem lucis aliquam terminent, qua lucida appareant, aliquam vero libere transire permittant; qualia sunt nubes ra- riores, aqua, vitrum et huiusmodi multa, qua et lumen in superficie terminant, et ad aliam partem idem trans- mittunt. Quare nihil est, cur ex hoc dicto quidquam momenti suis experimentis Galilaeus adiectum putet. Experimenta porro ipsa falsa deprehenduntur. Affirmo igitur, candele flammam obiecta ultra se posita ex oculis non auferre, et perspicuam esse. (1um argumentum). Huic, primum, dicto adstipulantur Sacra Littera, cum de Anania, Azaria ac Misaele in for- nacem, Regis iussu, coniectis agunt. Sic enim Regem ipsum loquentem inducunt: «Ecce ego video quatuor viros solutos et ambulantes in medio ignis, et nihil cor- ruptionis in eis est; et species quarti similis filio Dei » 826 GALILEO GALILEI [Daniel 3]. Ac ne quis existimet id pro miraculo haben- dum, idem probatur iterum ex eo, quia in candela flamma medio loco consistens videtur ellychnium, seu nigricans seu candens. Praterea, cum strues aliqua ingens lignorum incenditur, medias inter flammas semiusta ligna et car- bones accensos libere prospectamus, cum tamen saepe maxima flammarum vis oculum inter atque eadem ligna media consistat. Flamma igitur perspicua est. (Qum argumentum). Secundo, quodcumque opacum, inter oculum et obiectum positum, eiusdem obiecti aspec- tum impedit, sive magno sive parvo ab eodem distet in- tervallo; ita, v. g., lignum aliquod, sive rem quampiam altingat sive ab illa multum removeatur (si tamen inter illam atque oculum substiterit), eam videri non permittet: quod in flamma non accidit, hac enim quascumque res ultra se positas, si non longe distent, sed easdem e pro- ximo vehementer illuminet, semper videri patietur; quod quilibet experiri facile potest, si lesendum aliquid ultra lumen collocaverit, unius tantum digiti intervallo, tune enim characteres illos a flamma obtectos facile perleget: flamma, ergo, perspicua est et luminosa: quod Galilaus negat, eiusque oppositum tamquam principium, contra Aristotelem disputaturus, assumit. Quod si quis quaerat, cur obiecta ultra flammam posita, si saltem ab eadem longe semota fuerint, non conspiciantur, hanc ego huius rei causam assigno: quia nimirum obiectum movens potentiam vehementius, impedit ne videantur obiecta reliqua, ad eamdem potentiam movendam minus apta; obiecta autem queelibet eo vehementius, ceateris paribus, potentiam movent, quo sunt lucidiora; quia igitur obiecta, longe ultra flammam posita, multo minus illuminantur quam flamma ipsa, ideo haec potentiam ve- luti totam explet obruitque, nec obiecta alia videri per- mittit. Et propterea, quo obiecta eadem eidem flamma fiunt propiora, quia tanto magis illuminantur, eo etiam IL SAGGIATORE 827 magis apta sunt movere potentiam, ac proinde tunc con- spiciuntur; maiori siquidem illustrata lumine, cum flamma pene ipsa contendunt. Quare si aut flamma obtusiori splendeat lumine, aut obiectum ultra illam positum lu- minosum ex se sit, aut ab alio vehementer illuminatum, nunquam illius aspectum interposita flamma impediet, quamvis longissime obiectum illud a flamma distet. (3um argumentum). Hoc etiam quibusdam experi- mentis confirmare placet. Incendatur distillatum vinum, quod aquam vitis vulgo appellant: eius enim flamma, cum non admodum clara sit, liberam rerum imaginibus ad oculum viam relinquet, ut etiam minutissimos quosque characteres perlegi patiatur. Idem accidit in flamma ex incenso sulphure excitata, qua, colorata licet sit et crassa, vix tamen quidquam impedimenti eisdem rerum imagi- nibus affert. (4um argumentum). Secundo, sit licet flamma claris- simo ac micanti lumine, si tamen alterius candela lumen ultra illam collocatum longe etiam semoveris, inter vici- nioris flamma lumen remotiorem flammam intermicantem cernes. Cum ergo stella corpora sint luminosa et quavis flamma longe clariora, nil mirum si non potuit earun- dem aspectus ab interposita cometa flamma impediri: ac proinde nihil detrimenti ex hoc Galilei argumento pa- titur Aristotelis opinio. (5(5um argumentum). Tertio, non luminosa solum illa qua propria fulgent luce, ab interposita flamma velari non possunt, sed ne alia quidem corpora opaca, si tamen ab alio lumine illustrentur. Ita interdiu si quid aspexeris a Sole illuminatum, nullius interpositu flamma impediri eius aspectus poterit. Constat igitur satis superque, flammas perspicuas esse, atque hoc etiam non obstare quominus cometa flamma esse potuerit. 828 GALILEO GALILEI È tempo, Illustrissimo Signore, di venir a capo di questi pur troppo lunghi discorsi: però passiamo a questa quarta ed ultima proposizione. Qui, com’ella vede, dice il Sarsi non potersi a bastanza stupire che io, avendo qualche nome d’avveduto osservatore ed applicato assai all'esperienze, mi sia ridotto ad affermar constantemente quelle cose che si possono agevolissimamente confutare con esperimenti manifesti ed apparecchiati per tutto; de’ quali poi n’apporta molti, ond’egli apparisca altrettanto veridico e diligente sperimentatore, quant'io mal accorto e mendace. Dirò prima brevemente quello che persuase il Sig. Mario a scrivere, e me a prestargli assenso, che quando la cometa fusse una fiamma, dovesse asconderci le stelle; poi anderò considerando l'esempio e ragioni del Sarsi, lasciando in ultimo a V. S. Illustrissima il giudicar qual di noi sia più difettoso e mal avveduto nel suo espe- rimentare e discorrere. Considerando noi, il trasparire d’un corpo non esser altro che un lasciar vedere gli oggetti posti oltre di sé, ci persuademmo che quant’esso corpo trasparente fusse men visibile, tanto potesse meglio trasparere; onde l’aria trasparentissima è del tutto invisibile, l’acqua limpida ed 1 cristalli ben tersi, traposti tra oggetti visibili, poco per se stessi si scorgono: dal che ci pareva che assai a pro- posito si potesse all'incontro inferire, i corpi quanto più per se stessi fusser visibili, dover esser tanto meno tra- sparenti; e perché tra i corpi visibili per se stessi, le fiamme per avventura parevano non esser degli infimi, però giudicammo quelle dovere esser poco trasparenti: l'autorità poi di Aristotile e de’ Peripatetici, aggiunta a questo discorso, ci confermò nell'opinione. Circa la qual autorità mi par da notare come il Sarsi le vuol dare altra interpretazione da quella che apertamente suonan le parole; e dice che intesa bene è verissima, e che il senso è che i corpi, acciò che si possano illuminare, non GALILAENS CAL Re Dari È sLor: GEOMLTRIAE ASTRONOMIAE LAS NVLLI AF "RAT An SECO È BENE OVIES VDCALXAVIL DORIA : MONUMENTO A GALILEO IN SANTA CROCE nur IL SAGGIATORE 829 devon esser trasparenti; e non, che i corpi lucidi non son trasparenti. Ma se il Sarsi la piglia in quel senso, perché cosi gli par la proposizion vera, adunque bisogna ch’ei lasci l’altro perché in quello gli paia falsa (perché quanto alle parole, meglio si adattano a questo che a quello): tuttavia egli medesimo poco di sotto non pure afferma, ma con più esperienze conferma, i corpi luminosi im- pedir la vista delle cose poste oltre di loro, dove scrive: Nam hac etiam rerum ultra ipsam positarum aspectum impediunt, e quel che segue. Ma tornando al primo di- scorso, dico che oltre all’autorità de’ Peripatetici ci con- fermò ancora più il veder finalmente per esperienza un vetro infocato impedirci assai la vista degli oggetti, che freddo distintamente ci lascia scorgere, e l’istesso far la fiammella d’una candela, e massime colla sua superior parte, più lucida dell’inferiore ch'è intorno al lucignolo, la qual è più tosto fumo non bene infiammato che vera fiamma. Di più, avendo noi osservato, la grossezza del corpo, ben che per se stesso non molto opaco, importar tanto, che, v. g., una nebbia, la quale in profondità di venti o trenta braccia non ci leva la vista d’un tronco, moltiplicata all'altezza di 200 o 300 ci toglie del tutto anco la vista del Sole stesso, pensammo non esser lontano dal ragionevole il creder che la non trasparenza ed opa- cità d'una fiamma non potesse mai essere cosi poca, che ingrossata in profondità di centinaia e centinaia di braccia non ci dovesse impedir l'aspetto delle minute stelle. Con- cludemmo per tanto, la profondità della chioma della co- meta (che pur bisogna che sia non dirò col Sarsi e suo Maestro 70 miglia, ma al manco tante canne), quand’ella fusse una fiamma, doverci ascondere le stelle; il che ve- dendo noi ch’ella non faceva, ci parve avere argomento assai concludente per provar ch’ella non fusse uno in- cendio. Ora il Sarsi, curando poco o niente la principal sustanza di tutto questo ragionevolissimo discorso, appic- 850 GALILEO GALILEI candosi a quel sol detto del Sig. Mario, che la fiammella d'una candela non è trasparente, si persuade e promette la vittoria, tuttavolta ch’ei possa mostrare, la detta fiam- mella aver pur qualche trasparenza; e dice che chi avvi- cinerà a quella un foglio scritto, si che quasi la tocchi, e porrà diligente cura, potrà vedere i caratteri: al che io aggiungo « tuttavolta ch’ei sia di vista perfettissima », perché io, che però non son losco, stento a poterli ve- dere, servendomi anco degli occhiali, quanto più posso da vicino. È ben vero che oltre alla detta, molt’altre esperienze adduce il Sarsi: tra le quali, e per riverenza e per reli- giosa pietà e per esser ella di suprema autorità, debbo primieramente far considerazione sopra quella che il medesimo Sarsi ripone nel primo luogo, pigliandola dalle Sacre Lettere. Dove, insieme co ’1 Sig. Mario, noto le pa- role della Scrittura precedenti alle citate dal Sarsi, le quali mi par che dicano che avanti che il Re vedesse l'angelo e i tre fanciulli camminar per la fornace, le fiamme fussero state rimosse; ché tanto mi par che im- portino le parole del Sacro Testo, che son queste: An- gelus autem Domini descendit cum Azaria et sociis eius, et excussit flammam ignis de fornace, et fecit medium fornacis quasi ventum roris flantem. È noto, che dicendo la Scrittura flammam ignis, par che voglia far distin- zione tra la fiamma e ’l fuoco; e quando poi più a basso si legge che il Re vede caminar le quattro persone, si fa menzione del fuoco, e non della fiamma: Écce ego video quatuor viros solutos et ambulantes in medio ignis. Ma perché io potrei grandemente ingannarmi nel penetrare il vero sentimento di materie che di troppo grand’inter- vallo trapassano la debolezza del mio ingegno, lasciando cotali determinazioni alla prudenza de’ maestri in divi- nità, anderò semplicemente discorrendo tra queste infe- riori dottrine, con protesto d’esser sempre apparecchiato IL SAGGIATORE 851 ad ogni decreto de’ superiori, non ostante qualsivoglia dimostrazione ed esperimento che paresse essere in con- trario. E ritornando all’esperienze del Sarsi, per le quali ei ci fa vedere trasparir per varie fiamme diversi oggetti, dico che posso liberamente concedergli, tutto questo esser vero, ma di nessuno sollevamento alla sua causa: per lo stabilimento della quale non basta che la fiamma inter- posta sia profonda un dito, e che gli oggetti altrettanto vicini gli sieno, né molto più lontano il riguardante, o vero che gli oggetti sieno dentro alle stesse fiamme ed anco nella parte bassa, pochissimo lucida; ma ha di bi- sogno (altrimenti resterà a piè) di farci toccar con mano ch’una fiamma, ancor che profonda centinaia e centinaia di braccia e lontanissima dal riguardante e da gli og- getti visibili, non però ce n’impedisca la veduta; ch'è quanto se dicessimo, che gli faccia di mestier provare che la fiamma arrechi assai meno impedimento che se fusse altrettanta nebbia, la qual nebbia è tale, che trapostane non solo alla grossezza d’un dito, ma di quattro e sei braccia, non arreca impedimento veruno, ma in profon- dità di 100 o 200 asconde l’istesso Sole, non che le stelle. E finalmente, io non mi posso contener di rivolgermi un poco al medesimo Sarsi, che si stupisce del mio inescu- sabil mancamento nell'uso dell’esperienze. Voi dunque, Sig. Sarsi, mi tassate per cattivo sperimentatore, mentre nell'istesso maneggio errate quanto più gravemente errar si possa? Voi avete bisogno di mostrarci che la fiamma interposta non basta, contro alla nostra asserzione, ad occultarci le stelle, e per convincerci con esperienze dite che provando noi a riguardar uomini, tizzoni, carboni, scritture e candele posti oltre alle fiamme, sensatamente gli vederemo: né mai v'è venuto in pensiero di dirci che noi proviamo a guardar le stelle? e perché, in buon'’ora, non ci avete voi detto alla bella prima: Interponete una 832 GALILEO GALILEI fiamma tra l'occhio e qualche stella, ché voi né più né meno la vederete? Mancano forse le stelle in cielo? e questo è esser destro ed avveduto sperimentatore? Io vi domando se la fiamma della cometa è come le nostre, o d’altra natura. Se d’altra natura, l’esperienze fatte nelle nostre non anno forza di concludere in quella: se è come le nostre, potevate immediatamente farci veder le stelle per le nostre, lasciando stare i tizzoni, funghi e l’altre cose; e quando dite che dopo la fiammella d’una candela si scorgono i caratteri, potevate dire che si scorge una stella. Sig. Sarsi, chi volesse trattarla con voi, come si dice, mercantilmente, cioè con una bilancia sottilissima e giustissima, direbbe che voi foste in obligo di fare accen- dere una fiamma lontanissima e grandissima quanto la cometa e farci per essa veder le stelle, atteso che e la grandezza della fiamma e la lontananza dell’occhio da quella importano assaissimo in questo fatto e se ne deve tener gran conto: ma io, per farvi ogni agevolezza e van- taggio, mi voglio contentare d’assai meno, e voglio pre- pararvi mezi accommodatissimi per vostro bisogno. E prima, perché l’essere la fiamma vicina all’occhio importa assai per vedere gli oggetti meglio, in vece di porla re- mota quanto la cometa, mi contento d’una distanza di cento braccia solamente: in oltre, perché la profondità e grossezza del mezo similmente importa assaissimo, in vece della grossezza della cometa, ch'è, come sapete, tante centinaia di braccia, mi basta quella di dieci sola- mente: in oltre, perché l’esser l'oggetto, che si ha da vedere, lucido arreca parimente vantaggio grandissimo, come voi medesimo affermate, mi contento che tale og- getto sia una stella di quelle che si vider per la chioma della nostra cometa, le quali stelle, per vostro detto in questo luogo, sono di gran lunga più chiare di qualsi- voglia fiamma: e poi, se con tutti questi tanto per la causa vostra vantaggiosi apparecchi voi fate vedere per IL SAGGIATORE 833 la trasparenza di cotal fiamma la stella, voglio confes- sarmi per convinto e predicar voi pel più cauto e sottile sperimentatore del mondo; ma non vi succedendo, non ricerco altro da voi se non che col silenzio ponghiate fine alle dispute, come spero che siate per fare: perché se mai vaccaderà di veder questa mia scrittura, la qual ri- mane nell’arbitrio di questo Signore, a chi scrivo, di mo- strarla a chi più gli piacerà, vederete come deve fare chi si piglia per impresa di volere essaminar gli altrui com- ponimenti, ch'è non lasciar cosa veruna senza considerarla, e non (come avete fatto voi) andar a guisa della gallina cieca dando or qua or la tanto del becco in terra, che s'in- contri in qualche grano di miglio da morderlo e roderlo. E per finir questa parte, non potete negar d'aver voi medesimo compreso e confessato che dalle fiamme inter- poste qualche sensibile impedimento anco per l’occhio vostro ne deriva; imperò che se niente assolutamente d’offuscamento arrecassero, senz'altri avvertimenti e cau- tele, d’esser gli oggetti più o men lontani dalla fiamma, più o men lucidi, ed esse fiamme nate più da zolfo o d’acquavite che da paglia o da cera, avreste risoluta- mente detto: « Sia la fiamma e l’oggetto qualunque si voglia, nessuno impedimento ne nasce, ma si vede come per l’aria libera e pura >: ed oltre a questo, poco più a basso parlando delle cose che non risplendono per se stesse, come le fiamme, ma sono illuminate da altri, dite che queste ancora impediscono la vista degli oggetti, dove la particola ancora mostra che voi concedete qualche im- pedimento nelle fiamme. Ma che pit? se elle non punto impedissero, a chi mai sarebbe caduto in pensiero di dire ch’elle non sieno trasparenti? Ci è dunque, anco per voi stesso, qualche sensibil offuscazioncella (dico per voi stesso, perché per noi e gli altri l’impedimento è assai grande), e le vostre esperienze son fatte intorno a fiam- melle cosi piccole, che risolutissimamente l’impedimento 53. - G. Galilei, Opere - Il. 834 GALILEO GALILEI d’altrettanta nebbia sarebbe stato del tutto insensibile: adunque le vostre fiamme impediscono piti che altret- tanta nebbia: ma tanta nebbia quanta è la profondità della cometa, vela e totalmente toglie la vista del Sole; adunque, quando la cometa fusse una fiamma, dovrebbe esser bastante ad asconderci il Sole, non che le stelle: le quali ella non asconde; adunque non è una fiamma. E perché quanto per sostenere un falso sono scarsi tutti i partiti, tanto per istabilimento del vero sopra- bondano i contrari veri, io voglio accennare a V. S. Il- lustrissima certo particolare per lo quale mi par che si confermi, l’opinion d’Aristotile esser falsa. Avvenga che natura di tutte le fiamme conosciute da noi è di dirizzarsi all'in su, restando il lor principio e capo nella parte in- feriore, se la barba della cometa fusse una fiamma ed il capo fusse la materia ond’ella traesse origine, bisogne- rebbe che la chioma direttamente si dirizzasse verso il cielo; dal che ne seguirebbe una delle due cose, cioè o che la chioma si vedesse sempre a guisa di ghirlanda in- torno al capo (il che sarebbe quando il luogo della cometa fusse altissimo), o vero (e questo accaderebbe quand’ella fusse poco lontana da terra) bisognerebbe che, nel na- scere, prima nascesse l'estremità della barba, ed in ultimo il capo, ed alzandosi verso il mezo del cielo, quanto più il capo fusse vicino al nostro zenit, tanto la barba do- vrebbe apparire più breve, e nel vertice stesso dovrebbe apparir nulla o circondante il capo intorno intorno, e finalmente nell’andar verso l’occaso la barba dovrebbe parere rivolta al contrario, sf che il capo si vedesse in- clinare all’occidente prima di lei; altramente, quando la barba andasse avanti come nel nascere, converrebbe che la fiamma, contro alla sua naturale inclinazione e contro a quello che faceva quand'era nelle parti orientali, risguar- dasse all'ingit. Ma tali accidenti non si veggono nella cometa e suo movimento; adunque non è una fiamma. IL SAGGIATORE 835 51. (6um argumentum). Illud etiam omitti non debet, eodem, quo Aristotelem urget, argumento Galileum premi. Sic enim ille: « Flamma perspicuae non sunt; cometa autem coma perspicua est; ergo flamma non est». At ego adversus Galileum sic: Luminosa perspicua non sunt; comete coma perspicua est; ergo luminosa non est. Esse autem perspicuam indicant stella, eius interpositu nulla ex parte celata. Praterea, comam hanc luminosam esse asserit idem Galileus, dum illam ex illu- minato vapore existere contendit; vapor enim illuminatus corpus est luminosum. Neque dicat, loqui se de luminosis nativo ac proprio lumine fulgentibus, non autem de iis quae lumen aliunde accipiunt. Nam hac etiam rerum ultra ipsa positarum aspectum impediunt: si enim pila aliqua vitrea, aut amphora, vino aut re alia quacum- que plena fuerit, et lumini exponatur, iis tantum partibus ex quibus lumen non reflectit nec illuminata comparet, vinum ostendet; ea vero parte qua lumen ad oculum re- mittit, nil nisi lucidum quid et candens spectandum of- feret. Idem in aquis etiam a Sole illuminatis accidit, in quibus pars illa qua Sol ad oculum reflectitur, nihil ultra se positum videri patitur; relique vero partes lapillos atque herbas in fundo subsidentes ostendunt. Quare illu- minatorum etiam corporum erit, ulteriora obiecta velare ne videantur; atque hac etiam luminosa dici poterunt. Si ergo haec apud Galileum nullam admittunt perspicuita- tem, per cometa barbam, vel luminosam vel illuminatam, stellas videre non possumus: at potuimus tamen: ergo et illuminata fuit cometa barba, et perspicua. Hxc ego omnia eo libentius affero, quod ea facile quivis intelligat, cum non ex illis linearum atque angu- lorum tricis pendeant, ex quibus non omnes eque facile se expedire norunt; hic enim si quis oculos habeat, in- genii etiam huic abunde erit. 53a. - G. Galilei, Opere - II. 836 GALILEO GALILEI Qui, com'ella vede, vuol il Sarsi ritorcere il mio me- desimo argomento contro di me; ma quanto felicemente questo gli succeda, anderemo brevemente essaminando. F prima, noto com'’egli, per effettuar questa sua intenzione, incorre in qualche contradizzione a se medesimo, e, quello di che più mi meraviglio, senza necessità. Di sopra, perché cosi compliva alla sua causa, fece ogni sforzo di provar come le fiamme sono trasparenti, si che per esse si possono veder le stelle; qui, per convincermi colle mie armi, avendo egli bisogno che i corpi luminosi non sieno trasparenti, si mette a provare cosî essere con molte espe- rienze; onde pare che e’ voglia che i corpi luminosi sieno e non sieno trasparenti secondo che ricerca il bisogno suo: ed in questo inconveniente cad’egli senza necessità alcuna, atteso che, senza dar pur ombra di contradizzione col mostrar di voler ora quello che poco fa aveva negato, bastava ch’ei dicesse (senza porsi egli stesso a dimostrarlo) che noi medesimi avevamo affermato generalmente, i corpi luminosi non esser trasparenti: né aveva occasione di temer ch'io fussi per venire a distinzioni di luminosi per sé o per altri, imperò che io ho sempre creduto che tal. ricorso non serva se non per quelli che da principio non si son saputi ben dichiarare; e se il Sig. Mario avesse fatto differenza tra questi corpi e quelli, si sarebbe dichiarato a tempo, e non avrebbe aspettato che l’avversario l’avesse avuto a fare accorto del suo mancamento. Dico dunque ch'è verissimo che qualunque illuminazione, o propria o esterna, impedisce la trasparenza del corpo luminoso: ma non bisogna, Sig. Sarsi, che voi intendiate che dicendo noi cosî, vogliamo inferire che per ogni minima luce il corpo che la riceve debba divenir cosî opaco com'è una muraglia, ma che secondo la maggiore o minor lucidità perda pit o meno della trasparenza: e cost veggiamo nel principio dell'aurora, secondo che la region vaporosa co- mincia a participare un pochetto di lume, perdersi le IL SAGGIATORE 832 minori stelle; dapoi, crescendo lo splendore, perdersi anco le maggiori; e finalmente, nella massima illumina- zione, celarsi quasi la Luna stessa. In oltre, quando per qualche rottura di nuvole noi veggiamo scendere sino in Terra quei lunghissimi raggi di Sole, se voi porrete ben cura, vedrete notabil differenza circa lo scorgere le parti d’un monte opposto: imperò che quelle che sono oltre a i raggi luminosi si scorgono più offuscate dell’altre late- rali, che non vengono da essi raggi traversate. È cosi parimente, scendendo un raggio di Sole per qualche fine- strella in una stanza ombrosa, come tal or si vede per qualche vetro rotto in alcuna chiesa, tutti gli oggetti op- posti, in quella parte dove il raggio gli traversa, si veg- gono meno distintamente, mentre però il riguardante sia in luogo onde ei vegga il raggio luminoso distinto, il che non avviene da tutti i siti indifferentemente. Ora, stanti queste cose vere, dico (e cosî si è sempre detto) potere esser che la materia della cometa sia assai più sottil dell’aria vaporosa, e meno atta ad illuminarsi, ché così ne persuade il vederla noi sparir nell’aurora e nel cre- puscolo, trovandosi il Sole ancora assai sotto l'orizonte; st che, quanto alla lucidità, non ci è ragione perch'ella debba asconderci le stelle pia della region vaporosa. Quanto poi alla profondità, prima, la region vaporosa è grossa molte miglia; dipoi, noi non siamo in necessità di por la barba della cometa di smisurata profondità, non avendo determinato né quanto sia il diametro del capo, né s'egli è rotondo, né quanta sia la lontananza. Con tutto ciò, quando anco altri volesse porla profonda 8 o 10 miglia, non si vede nascerne inconveniente alcuno; perché anco l’aria vaporosa in tanta e maggior profon- dità, ed illuminata quanto la barba della cometa, lascia veder le stelle. 52. Illud praterea a Galileo Aristoteli obiicitur, male illum ex cometis pradicere, annum fore non admodum 838 GALILEO GALILEI pluvium, sed siccum potius, ventorum eliam ingentem vim ac Terra motus portendi. Cum enim, inquit, cometa nihil aliud Aristoteli sint nisi ignes, huiusmodi exhalatio- num veluti eluones voracissimi, si nullas reliquias ab tisdem relinquendas dixeris, longe sapientius pronun- ciaris. Sed ego longe aliter sentiendum existimo. Nam si qua in urbe per fora ac vias magnam frumenti vim di- spersam negligenter haberi, aut si forte vilissima quaque capita ac plebecula sordes opipare semper epulari vi- deas; an non inde tantam rei frumentaria ac totius an- none facultatem sapienter arguas, ut nulla ibidem in longum tempus metuenda sit inopia? Ita plane dicendum. Atqui halituum sedes angustis ut plurimum terminis, ac veluti in horreo frumentum, ineluditur; neque ad illas plagas, quibus vorax flamma dominatur, facile produ- citur, nisi quando eorumdem ingens copia inferioribus sedibus capi non potest, aut forte iidem, sicciores ac ra- riores effecti, omnem aqueam exuerint qualitatem. Quare non inepte Aristoteles ex cometis, hoc est ex huiusmodi exhalationibus ad ignem usque, adeo non parce sed af- fluenter, productis, intulit, inferiora haec omnia iisdem maxime abundare. Neque hinc sequitur, ab eo igne nullas eorumdem halituum reliquias relinquendas: is enim ea tantum absumit, qua supra non capaces inferioris sedis angustias ad ignis plagam elevantur; qui postea ignis non in alienas regiones irrumpit, sed suo semper fixus in regno ea sibi vindicat quae propius ad illum accesserint aut, quasi ab humidioribus impressionibus transfuga, ad illum defecerint: et. propterea potuit Aristoteles hinc etiam ventos, sicciorem anni temperiem, aliaque huius- modi praenunciare. De nostro certe cometa si quis tale aliquid pradixisset, potuisset ab eventu ipso id egregie confirmare; nam et annus siccior solito extitit, insolentes ventorum vehementesque flatus experti sumus, Terra motibus magna Italiae pars concussa, idque alicubi non IL SAGGIATORE 839 parvo urbium atque oppidorum damno. Quid igitur? an non sapienter, ut alia multa, hac etiam. Aristoteles enunciavit? L’essempio in virti del quale crede il Sarsi di poter difendere Aristotile e mostrar l’obiezzione del Sig. Mario invalida, a me par che non molto s'assesti al caso essem- plificato. Che il veder per le strade e per le piazze copia di biade arguisca esser di quelle maggiore abbondanza che quando non se ne veggono, ha molto ben del ragio- nevole, imperò che è in potere ed in arbitrio de i padroni l’esporle ed il celarle, e, di pit, il farne mostra non le consuma o diminuisce punto; i quali due particolari non inno luogo nel caso della cometa. E per avventura es- sempio pi proporzionato sarebbe se alcuno dicesse in cotal modo: che l’isola Cuba abbondi di cinnamomi e cannelle, ce ne sia grand’argomento il sapere che gl’iso- lani fanno fuoco di quelle continuamente. Il discorso è concludente, perché, essendo in arbitrio loro l’arderle o no, quando ne avesser penuria l’userebbon per condimento solamente, come noi. Ma quando venisse avviso che i mesi passati per certo accidente si fusse attaccato fuoco nella gran selva de’ cinnamomi, e che gl’isolani non furono po- tenti ad estinguer le fiamme, ritrovandosi in questo tempo assai lontani dal luogo, si ch’ella irreparabilmente arse; se alcun mercante da tale accidente insolito volesse a i nostri aromatarii pronosticare una straordinaria abbon- danza, poi che, dove per l’ordinario se ne abbruciano a fascetti, questa volta si è fatto a boscaglie intere; io credo ch'ei verrebbe reputato persona molto semplice: e quello che vedendo dalle fiamme divorar le biade mature della sua possessione, si rallegrasse e si promettesse d'essere per empire assai pit del solito i suoi granai, poi che ven'è da abbruciare a moggia, credo che sarebbe tenuto stolto affatto. La materia di che si fa la cometa o è della me- desima di che si producono i venti, o è diversa: se è 840 GALILEO GALILEI diversa, non si può dalla copia di quella arguire abbon- danza di questa, pit che se alcuno dal veder molt’uva si promettesse gran ricolta d'olio; se è dell’istessa, attaccato che vi sia il fuoco, arderà tutta. 55. Quid porro ex his omnibus inferri non immerito possit, non ex me, sed ex Galileo ipso, audiendum censeo. Ille enim, cum sua haec experimenta exposuisset, addidit: «Haec nostra sunt experimenta, nostra ha conclusiones, ex nostris principiis nostrisque opticis rationibus deducta. Si falsa experimenta, si vitiosa fuerint rationes, infirma ac debilia futura etiam sunt dictorum nostrorum fùnda- menta ». His ego nihil ultra addendum existimo. Atque hac illa sunt, quae mihi in hac disputatione, ob meam erga Praceptorem observantiam, dicenda pro- posui: quibus ostendi certe conatus sum primum, iustam a Galilao (atque hic princeps fuit scribendi scopus) que- relarum materiam Praceptori meo, a quo ille perhono- rifice semper est habitus, oblatam fuisse; deinde, licuisse nobis, in edita illa Disputatione, per parallaxis ac motus cometici observationes eiusdem cometa a Terra distantiam metiri, atque ex tubo optico, parvum admodum cometa incrementum afferente, aliquid etiam momenti rebus no- stris accedere potuisse; praterea, non @que eidem Galilao licuisse, cometam e verorum luminum numero excludere, ac severas adeo motus rectissimi leges eidem prascribere; ad hac, constare ex his, aérem ad cali motum moveri, alteri, calefieri atque incendi posse, ex motu per attri- tionem calorem excitari, nulla licet pars attriti corporis deperdatur, aérem illuminari posse, quotiescunque cras- sioribus vaporibus admiscetur, flammas lucidas simul esse atque perspicuas, quae Galilaus ita se habere negavit; falsa denique deprehensa experimenta illa, quibus fere unis eiusdem placita nitebantur. Haec autem innuere po- tius quam fusius explicare volui, cum neque plura exigi viderentur, ut pateret omnibus, neque ulli in Disputa- IL SAGGIATORE 841 tione nostra a nobis iniuriam illatam, neque nos infirmis rationibus ductos eam, quam proposuimus, sententiam cateris omnibus preetulisse. Qui, com’ella vede, il Sarsi fa due cose: la prima con- tiene implicitamente il giudicio che altri deve fare della debolezza de’ fondamenti della nostra dottrina, appog- giandosi ella sopra esperienze false e ragioni manchevoli, com'’egli pretende d’aver dimostrato; aggiunge poi, nel secondo luogo, un catalogo e racconto delle conclusioni contenute nel Discorso del Sig. Mario e da sé impugnate e confutate. In risposta alla prima parte, io, ad imitazion del Sarsi, liberamente rimetto il giudicio da farsi circa la saldezza della nostra dottrina in quelli che attentamente avranno ponderate le ragioni e l’esperienze dell’una e l’altra parte; sperando che la causa mia sia per esser favoreggiata non poco dall’aver io di punto in punto es- saminato e risposto ad ogni ragione ed esperienza pro- dotta dal Sarsi, dovegli ha trapassata la maggior parte e la più concludente di quelle del Sig. Mario. Le quali tutte io avevo fatto pensiero (ed era in contracambio del catalogo del Sarsi) di registrar nominatamente in questo luogo; ma postomi all'impresa, mi è mancato e l'animo e le forze, vedendo che mi saria stato bisogno trascriver di nuovo poco meno che l’intero trattato del Sig. Mario. -Però, per minor tedio di V. S. Illustrissima e mio, ho ri- soluto più tosto di rimetterla ad un’altra lettura di quello stesso trattato. BERELENE, bj Lia asl Wa Nin Vee tà toe IO. TRAE DI do L: "A To dintba; ‘09 PA ” a NIQIRE Contavamo di poter pubblicare in questo volume le Lettere sulle macchie solari, gli scritti sulla longitudine e quasi tutto l'epistolario, ma non è stato possibile per esigenze editoriali. VITA DI GALILEO. Ecco lo scritto presentato da Galileo in sua difesa, insieme con la dichia- razione autografa del Bellarmino, il 10 maggio 1633: « Nell’interrogatorio posto di sopra, nel quale fui domandato se io avevo significato al Padre Rev.mo Maestro del S. Palazzo il comandamento fattomi privatamente circa 16 anni fa, d’ordine del S.° Off.°, di non tenere, defendere vel quovis modo docere l’opinione del moto della terra e stabilità del sole, risposi che no; e perché non fui poi interrogato della causa del non l’aver significato, non ebbi occasione di soggiugner altro. Ora mi par necessario il dirla, per dimostrar la mia purissima mente, sempre aliena dall’usar simula- zione o fraude in nissuna mia operazione. Dico pertanto, che andando in quei tempi alcuni miei poco bene affetti spargendo voce come io ero stato chiamato dall’Em.mo S. Card. Bellarmine per abiurare alcune mie opinioni e dottrine, e che mi era convenuto abiurare ed anco riceverne penitenze ecc., fui costretto ricorrere a S. Em.za, con suppli- carla che mi facesse un’attestazione con esplicazione di quello perché io ero stato chiamato; la quale attestazione io ottenni, fatta di sua propria mano, ed è questa che io con la presente scrittura produco: dove chiaramente si vede, essermi solamente stato denunziato non si poter tenere né difendere la dottrina attribuita al Copernico della mobilità della terra e stabilità del sole ecc.: ma che, oltre a questo pronunziato generale, concernente a tutti, a me fusse comandato cosa altra nissuna in particolare, non ci se ne vede vestigio alcuno. Io poi, avendo per mio ricordo questa autentica attestazione, mano- scritta dal medesimo intimatore, non feci dopo più altra applicazione di mente né di memoria sopra le parole usatemi nel pronunziarmi in voce il detto pre- cetto, del non si potere difendere né tenere ecc.; tal che le due particole che, oltre al tenere, defendere, che sono vel quovis modo docere, che sento conte- nersi nel comandamento fattomi e registrato, a me son giunte novissime e come inaudite: e non credo che non mi debba esser prestato fede che io nel corso di 14 o 16 anni ne abbia aver persa ogni memoria, e massime non avend’auto bisogno di farci sopra reflessione alcuna di mente, avendone così valida ricor- danza in scritto. Ora, quando si rimuovino le due dette particole e si ritenghino le due sole notate nella presente attestazione, non resta punto da dubitare che il comandamento fatto in essa sia l’istesso precetto che il fatto nel decreto della S.ra Congregazione dell’Indice. Dal che mi par di restare assai ragionevolmente 846 scusato del non aver notificato al P. Maestro del Sacro Palazzo il precetto fattomi privatamente, essendo l’istesso che quello della Congregazione del- l’Indice. Che poi, stante che ’1 mio libro non fusse sottoposto a più strette censure di quelle alle quali obbliga il decreto dell’Indice, io abbia tenuto il più sicuro modo e °’1 più condecente per cautelarlo ed espurgarlo da ogn’ombra di macchia, parmi che possa essere assai manifesto, poi che io lo presentai in mano del supremo Inquisitore in quei medesimi tempi che molti libri, scritti sulle me- desime materie, venivano proibiti, solamente in vigor del detto decreto. Da questo che dico mi par di poter fermamente sperare che il concetto d’aver io scientemente e volontariamente trasgredito a i comandamenti fattimi sia per restar del tutto rimosso dalle menti de gli Emin.mi e prudentissimi SS.i giudici; in modo che quei mancamenti che nel mio libro si veggono sparsi, non da palliata e men che sincera intenzione siano stati artifiziosamente intro- dotti, ma solo per vana ambizione e compiacimento di comparire arguto oltre al comune de i popolari scrittori, inavvertentemente scorsomi della penna, come pure in altra mia deposizione ho confessato: il qual mancamento sarò io pronto a risarcire ed emendare con ogni possibile industria, qualunque volta o mi sia dagl’Em.mi SS.i comandato o permesso. Restami per ultimo il mettere in considerazione lo stato mio di commise- randa indisposizione corporale, nel quale una perpetua afflizione di mente, per dieci mesi continui, con gl’incomodi di un viaggio lungo e travaglioso, nella più orrida stagione, nell'età di 70 anni, mi hanno ridotto, con perdita della maggior parte degl’anni che ’1 mio precedente stato di natura mi pro- metteva; ché a ci6 fare m’invita e persuade la fede che ho nella clemenza e benignità degl’Emin.mi SS.i miei giudici, con speranza che quello che potesse parere alla loro intera giustizia che mancasse a tanti patimenti per adeguato castigo de’ miei delitti, lo siano, da me pregati, per condonare alla cadente vecchiezza, che pur anch’essa umilmente se gli raccomanda. Né meno voglio raccomandargli l'onore e la reputazione mia contro alle calunnie de’ miei malevoli, li quali quanto siano per insistere nelle detrazioni della mia fama, argomento ne prendano gl'Em.i SS.i dalla necessità che mi costrinse a innarrar dall'’Em.mo Card.l Bellarmino l’attestazione pur or con questa presentata da me». Facciamo seguire alcune notizie su Galileo, dovute al figlio Vincenzo e al Viviani. Dice Vincenzo Galilei: « Fu il Galileo d'aspetto gioviale, massime in vecchiezza, di statura giusta e quadrata, di complessione robusta e forte, e tale che non ci voleva meno acciò ei potesse resistere alle fatiche veramente atlantiche da lui durate nelle continue osservazioni celesti; nondimeno fu travagliato, da circa 40 anni dell'età sua sino all’ultima sua vita, da dolori artetici o a quelli simili, i quali di quando in quando lo molestavano, or più or meno. Questi ebbero origine in lui da un soverchio fresco ch’ei pati una notte d’estate in una villa nel contado di Padova. ° . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Molto si dilettò il Galileo di stare in villa, nella quale dimorò circa 30 anni, riconoscendo in gran parte la sanità e la lunghezza di sua vita dall'aria aperta e salubre della campagna, e cost ritirandosi ancora dalli strepiti della città, per poter con più quiete attendere alle speculazioni e per esser di natura dedito alla solitudine, se ben tra gli amici fu di soavissima e gentilissima con- 847 versazione. La sua eloquenza ed espressiva era mirabile; discorrendo sul serio era ricchissimo di sentenze e concetti gravi; ne i discorsi piacevoli l’arguzie e i sali non gli mancavano. Facilmente si moveva all'ira, ma più facilmente . sì placava. Ebbe memoria esquisita, si che oltre alle moltissime cose attenenti a’ suoi studi aveva a mente gran quantità di poesie e specialmente gran parte dell’Orlando Furioso dell’Ariosto, che. tra i poeti fu il suo favorito e l’autor suo esaltato da lui sopra tutti i poeti latini e toscani. Non era appresso di lui vizio pit detestabile della bugia, forse perché mediante le scienze matematiche troppo ben conosceva la bellezza della verità. Si dilettava dell’agricoltura, la quale gli porgeva materia di filosofare e passatempo insieme; e spesse volte per suo diporto attendeva alla coltura delle piante e specialmente delle viti, potandole e legandole di propria mano con diligenza esquisita. Con tutto che fosse moderatissimo nel vitto ordinario, e specialmente nel bere, tuttavia si dilettava di vari vini, de’ quali gliene venivano di diversi luoghi e specialmente dall’istessa cantina del G. Duca, cosi volendo la somma benignità di S. A. >». « Erano tra tanto — scrive il Viviani — i suoi più grati trattenimenti nella musica pratica e nel toccar li tasti e il leuto, nel quale, con l'esempio ed insegnamento del padre suo, pervenne a tanta eccellenza, che più volte trovossi a gareggiare co’ primi professori di que’ tempi in Firenze ed in Pisa, essendo in tale strumento ricchissimo d’invenzione, e superando nella gentilezza e grazia del toccarlo il medesimo padre; qual soavità di maniera conservò sempre sino alli ultimi giorni. Trattenevasi ancora con gran diletto e con mirabil profitto nel disegnare; in che ebbe cosi gran genio e talento, ch'egli medesimo poi dir soleva agl’amici, che se in quell’età fosse stato in poter suo l’eleggersi professione, avrebbe assolutamente fatto elezione della pittura. Ed in vero fu di poi in lui cosî naturale e propria l'inclinazione al disegno, ed acquistovvi col tempo tale esquisitezza di gusto, che ’l giudizio ch'ei dava delle pitture e disegni veniva preferito a quello de’ primi professori da’ professori medesimi, come dal Cigoli, dal Bronzino, dal Passignano e dall’Empoli, e da altri famosi pittori de’ suoi tempi, amicissimi suoi, i quali bene spesso lo richiedevano del parer suo nell’ordinazione dell’istorie, nella disposizione delle figure, nelle pro- spettive, nel colorito ed in ogn’altra parte concorrente alla perfezione delle pitture, riconoscendo nel Galileo intorno a sf nobil arte un gusto cosi perfetto e grazia sopranaturale, quale in alcun altro, benché professore, non seppero mai ritrovare a gran segno; onde ’l famosissimo Cigoli, reputato dal Galileo il primo pittore de’ suoi tempi, attribuiva in gran parte quanto operava di buono alli ottimi documenti del medesimo Galileo, e particolarmente pregiavasi di poter dire che nelle prospettive egli solo gli era stato il maestro. Nel tempo di trenta mesi ch'io vissi di continuo appresso di lui sino alli ultimi giorni della sua vita, essendo egli spessissimo travagliato da acerbissimi dolori nelle membra, che gli toglievano il sonno e ’l riposo, da un perpetuo bruciore nelle palpebre, che gl’era di insopportabil molestia, e dall’altre in- disposizioni che seco portava la grave età, defatigata da tanti studi e vigilie de’ tempi addietro, non poté mai applicare a disporre in carta l'altre opere che gli restavano già risolute e digerite nella sua mente, ma per ancora non distese, come pur desiderava di fare. Aveva egli concetto (gif che i Dialoghi delle due Nuove Scienze erano fatti pubblici) di formare due giornate da aggiugnersi all’altre quattro; e nella prima intendeva inserire, oltre alle due suddette dimostrazioni [cioè quella relativa al piano inclinato e quella sul 848 quinto libro di Euclide], molte nuove considerazioni e pensieri sopra varii luoghi delle giornate già impresse, portando insieme la soluzione di gran nu- mero di problemi naturali di Aristotele e di altri suoi detti ed oppinioni, con discoprirvi manifeste fallacie, ed in specie nel trattato De incessu animalium; e finalmente nell’ultima giornata promuovere un’altra nuova scienza, trattando con progresso geometrico della mirabil forza della percossa, dove egli stesso diceva d’aver scoperto e poter dimostrare acutissime e recondite conclusioni, che superavano di gran lunga tutte l’altre sue speculazioni gié publicate. Ma nell’applicazione a così vasti disegni, sopragiunto da lentissima febbre e da palpitazione di cuore, dopo due mesi di malattia che a poco a poco gli consumava gli spiriti, il mercoledî dell’8 di gennaio del 1641 ab Incarnatione, a ore quattro di notte, in et& di settantasette anni, mesi dieci e giorni venti, con filosofica e cristiana constanza rese l’anima al suo Creatore, inviandosi questa, per quanto creder ne giova, a godere e rimirar pit d’appresso quelle eterne ed immutabili maraviglie, che per mezzo di fragile artifizio con tanta avidità ed impazienza ella aveva procurato di avvicinare agl’occhi di noi mortali >». 849 LE NUOVE SCIENZE. Il titolo originale di questa grande opera, che nell’epistolario è chiamata libro o trattato del moto, non si conosce, In una lettera dell’agosto 1658 Ga- lileo, come è noto, scrive a Elia Diodati: « E con maraviglia e travaglio son restato della libertà presasi il signore Elzevirio di trasformare l’intitolazione del mio libro, riducendola di nobile, quale ella meritamente deve essere, a volgare troppo, per non dire plebea; ed è forza, per mio credere, che qualche mio poco affetto in Amsterdam gli abbia tenuto mano, e V. S. molto Illustre, come mio vero e sincero amico e padrone, ben fa a procurare la reintegrazione di essa intitolazione ». La correzione però non fu fatta e Galileo in un’altra lettera al Diodati, anch'essa dell’agosto 1638 scrisse: « Gia che non s'è potuto ricorreggere l'’inti- tolazione del mio libro, bisognerà avere pazienza >. Del libro, che oggi chiamiamo Dialoghi delle Nuove Scienze, Galileo parlò più volte nelle sue lettere. «Il trattato del moto — scrisse al Micanzio il 19 novembre 1634, — tutto nuovo, sta all'ordine; ma il mio cervello inquieto non può restar d’andar mulinando, e con gran dispendio di tempo, perché quel pensiero che ultimo mi sovviene circa qualche novità mi fa buttare a monte tutti i trovati precedenti ». Il 21 dicembre 1634 scrisse al Diodati: « In breve comincerò a mandare a Venezia quel che mi resta delle mie fatiche, che è quello che da me è pid stimato, per esser tutto nuovo e tutto mio, e quivi si procurerà che sia stampato ». Il libro, dato il « divieto generale de editis omnibus et edendis >, non si poté stampare a Venezia e dopo varie peripezie fu stampato dagli Elzeviri a Leida nel luglio 1638. Quest'anno ricorre dunque il tricentenario della pub- blicazione. L’opera arrivò a Roma nel dicembre, a Venezia nell’aprile del ‘39, a Galileo in giugno. Il 27 ottobre 1638 Galileo scrisse al Diodati: « Quanto al Sig. Elzevirio, egli portò seco due mie opere, cioè il trattato del moto e quello delle resistenze de’ solidi all’essere spezzati, trattati amendue nuovissimi e amendue distesi in dialogi, e in consequenza sparsi di varii episodii (per dir cosî) di materie pur nuove e curiose ». Il 6 dicembre aggiungeva: « Sono attorno al trattato de’ proietti, materia veramente mirabile, e nella quale quanto più vo speculando, tanto più trovo cose nuove né mai state osservate, non che dimostrate, da nessuno. E sebene anche in questa parte apro l’ingresso agl’ingegni speculativi di diffondersi in immenso, vorrei io ancora ampliarmi un poco più; ma provo quanto la vecchiaia tolga di vivezza e di velocità agli spiriti, mentre duro fatica ad intendere non poche delle cose nell’età più fresca ritrovate e dimo- strate da me. Manderò quanto prima questo trattato de’ proietti, con una appendice d’alcune dimostrazioni di certe conclusioni de centro gravitatis solidorum, trovate da me essendo d’età di 22 anni e di due anni di studio di geometria, le quali è bene che non si perdino ». Il 4 luglio 1637 scrisse sempre al Diodati: « Poiché l’opere che si stampano adesso contengono due intere scienze, tutte novissime e dimostrate da’ loro primi principii e elementi, siché, a guisa degli altri elementi matematici, aprono l’ingressi a campi vastissimi, pieni d’infinite conclusioni ammirande; perloché leggieri stima fo di tutto quello che sin qui ha visto il mondo di mio, in comparazione di questo che resta a vedersi >». Galileo dunque considera le Nuove Scienze come il suo capolavoro. Il giu- dizio sarebbe meno discutibile se per nuove scienze s’intendesse tutta la mec- canica di Galileo e non il libro pubblicato a Leida nel 1638. Il lettore sa che la meccanica è il centro dei Dialoghi dei Massimi Sistemi. Dal punto di vista letterario e filosofico i Massimi Sistemi sono senza dubbio superiori alle Nuove 850 Scienze. Dal punto di vista scientifico le Nuove Scienze meritano i giudizi entusiastici di Galileo. Le accuse del Duhem e del Caverni non hanno ragione di essere, come ha mostrato Roberto Marcolongo nella sua memoria sullo svi- luppo della meccanica sino ai discepoli di Galileo. La dedica al Conte di Noailles e la Prefazione sono state scritte probabil- mente da Elia Diodati su appunti di Galileo. Anche la Tavola delle materie principali che si trattano nella presente opera e la Tavola delle cose più nota- bili, che pubblichiamo più oltre, è probabile che non siano state compilate da Galileo. La prima tavola, come ha notato il Favaro, contiene delle inesattezze: «il titolo II, Qual potesse esser la causa di tal coerenza, accenna alla coerenza come se prima ne fosse stata fatta menzione, laddove nel titolo precedente non è nominata; e, quello che ancora è pit grave, alla Giornata prima è dato il titolo che spetta alla seconda, e viceversa ». La nostra edizione non riproduce materialmente quella di Leida ma tiene conto della volontà espressa da Galileo per il caso di nuova edizione. Le aggiunte e le varianti nel testo non hanno contrassegni; ma ne diamo conto qui in nota. Ap. 147, dopo le parole: « Sagr. Gentilissima dimostrazione e molto acuta », il resto del periodo fino alle parole: « del circoscritto di manco lati > è un'aggiunta di Galileo all'edizione originale. Nell’Edizione Nazionale l’ag- giunta è, come tutte quelle che seguono, in nota (a p. 108 del vol. VII). A p. 151 (Edizione nazionale, VIII, p. 107) le righe 29-31, dalle parole: « adunque questo composto » sino alle parole « che è minore » sono una variante che Galileo sostituî nell'edizione originale alle parole: « adunque questa mag- giore si muove men velocemente che la minore ». A pag. 156 (Ediz. naz. VIII, p. 112) le righe 22-30, dalle parole: « dalla quale esperienza » fino alle parole: « di quella dell’aria », sono una variante che Galileo sostituf nell’edizione originale alle parole: «e tale (come sarebbe una palla di piombo) le passerà in tempo facilmente men che doppio >». A pp. 173-174 (Ediz. naz. VIII, pp. 126-127) tutto il discorso di Sagredo, dalle parole: « Acuta veramente speculazione » fino alle parole: «il peso del- l’acqua sola in aria. » è un’aggiunta di Galileo all'edizione originale. Le pagine 276-282 (Ediz. naz. pp. 214-219), dalle parole: « Salp. Qui vorrei, Sig. Sagredo » fino alle parole: « Salo. Ripiglierò dunque la lettura del testo » sono un'aggiunta messa in dialogo da Vincenzo Viviani e che Galileo deside- rava fosse inserita in un'eventuale ristampa dei Discorsi delle Nuove Scienze. L'aggiunta fu pubblicata dal Viviani nell'edizione bolognese delle Opere del Maestro (1655). Galileo aveva scritto da Arcetri a Benedetto Castelli il 3 dicembre 1639 (il giovine discepolo è il Viviani): «È manifesto pur troppo, Signor mio Reverendissimo, che il dubitare in filosofia è padre dell’invenzione, facendo strada allo scoprimento del vero. L'opposizioni fattemi, son già molti mesi, da questo giovane, al presente mio ospite e discepolo, contro a quel principio da me supposto nel mio trattato del moto accelerato, ch'egli con molta applicazione andava allora studiando, mi necessitarono in tal maniera a pensarvi sopra, a fine di persuadergli tal principio per concedibile e vero, che mi sorti finalmente, con suo e mio gran diletto, d’incontrarne, s’io non erro, la dimostrazione concludente, che da me fin ora è stata qui conferita a più d’uno. Di questa egli ne ha fatto adesso un disteso per me, che, trovandomi affatto privo degli occhi, mi sarei forse con- fuso nelle figure e caratteri che vi bisognano. È scritta in dialogo, come sovvenuta al Salviati, accié si possa, quando mai si stampassero di nuovo i miei Discorsi e Dimostrazioni, inserirla immediatamente doppo lo scolio della seconda proposizione del suddetto trattato, a faccie 177 di questa impressione, 851 come teorema essenzialissimo allo stabilimento delle scienze del moto da me promosse. Questo lo comunico a V. S. per lettera, prima che ad alcun altro, con attenderne principalmente il parer suo, e dopo quello de’ nostri amici di costi, con pensiero d’inviarne poi altre copie ad altri amici d’Italia e di Francia, quando io ne venga da lei consigliato. E qui, pregandola a farci parte d’alcuna delle sue peregrine speculazioni, con sincerissimo affetto la riverisco, e gli ricordo il continuare l’orazioni appresso Dio di misericordia e di amore per l’estirpazione di quelli odii intestini de’ miei maligni infelici persecutori >. Nell’Edizione nazionale le righe dei Frammenti attenenti ai Discorsi, com- prese tra le parole eius hk 250 e Datae parabolae elevationem invenire (pp. 538-541 della nostra edizione); le righe comprese tra erunt extrema plus quam dupla © gi e sia l'angolo adc gradi 45 (pp. 544-546) e quelle com- prese tra et ipsi quoque di i h e Tabula altitudinum semiparabolarum (pp. 547- 548) sono state pubblicate solo in fac-simile. La figura relativa al frammento sit factum (p. 505 della nostra edizione), come risulta dall’appendice alla Ristampa del volume ottavo, va modificata cosi: GE ot deg) ee e I Eebapa pete ni “ci est noi | XA» DL ; miei cy ne di a 190 DIOR e ud srisSblif2?) ch. eù nidi Taref ar Areas) att ved, Ri: af nf CO01 2a Ri fonatca. eeletag bea. ere bat xk / fab. el agf ci e forita fi srt eritf & 852 TAVOLA DELLE MATERIE PRINCIPALI CHE SI TRATTANO NELLA PRESENTE OPERA I Pag. Scienzia nuova prima, intorno alla resistenza de i corpi solidi all'essere spezzati. {Giornata prima... .\\0. 0004 aule AE; TE Qual potesse esser la causa di tal coerenza. Giornata seconda . . . .. . 203 TEL Scienzia nuova altra, de i movimenti locali. Giornata terza... ... 247 Cioèidell'equabile bn dn 0... i RR e ;] N]; Del®naturalmente accelerato . . . .,,; i gRgegeeeeeSSSauN IV. Del violento, o vero de i proietti. Giornata quarta. . .......... 339 VE Appendice di alcune proposizioni e dimostrazioni attenenti al centro di gravita de. i solidi: Giornata quarta. i ee s , PAVOLACDELLE GCOSECPIUZNO ABI A Pag. Acqua alzata e attratta per tromba non si eleva più di 18 braccia . . . 100 Acqua non ha resistenza alcuna all’esser divisa . . /./.0.... + 159 Acqua sopra le foglie de’ cavoli, formata in grosse gocciole, come si SOSTeNE: eri SUN E e o LU Alcune dimostrazioni del centro fin gravità de i solidi MR Animali acquatici maggiori de i terrestri, e per qual cagione MeReee225 Argomento d’Aristotele contro il vacuo è ad hominem . . ......... 150 Aria ha gravità positiva, 168. Come si possa misurar tal gravità . «dé 108 Aria compressa, e ritenuta Lio en fertenio pesa nel vacuo, 170. agli di pesarlaa e til e SEE REED i Arsenale di Venezia, gran campo di HI viorari a gl’ingegni ....° |. . Ma 853 Asta di legno, fitta in una muraglia ad angoli retti, e ridotta a tal lun- ghezza e grossezza che si possa reggere, ma allungata un pelo pit, si ezsifnpergiogpranriegpeso, se sunica Ri <.. n. Wa 80 Atomi innumerabili d’acqua, entrando ne’ canapi, tirano e alzano im- DO SOR DES I E E ln i C Cerchio è un poligono di infiniti lati, non quanti, indivisibili . . . . . 138 Cerchio è medio proporzionale tra due poligoni, uno de’ quali li sia circon- scritto, l’altro gli sia isoperimetro . . . . . a LI Chiodo doppio di grossezza d’un altro, e fitto to; muro, sostiene SO besopiell'altro minore iMesenoe to. 0, i A . 88 Cilindro o prisma di qualsivoglia materia, sospeso Lepeidicala eni COMO TESIS ta a EFONEpersieee e e n 0 Ce 90 Cilindri o fili di qualsivoglia materia sino a quanta lunghezza si possano tirare, oltre alla quale, gravati dal proprio peso, si strapperebbero 101-102 Cilindri retti, le superficie de’ quali, trattene le basi, sono eguali, hanno fra di loro la medesima proporzione che le loro altezze contraria- MENtemi presen, ide MN I MRI Colonna grossissima di marmo spezzatasi :6 sé stessa, e perché . . . . 87 Condensazione, secondo l’opinione dell'Autore, procede da constipazione fsparti no ni quale sed WIM visi Dili to di i... i iI Wiubiiuofcompostoldiindiyisibiliààlzonee eli... . . ... a 4116.0155 Corda o canapo come resista allo strapparsi . . . . . . RO I) Corda di instrumento musicale, toccata, muove e fa risonare tutte le corde accordate con essa all’unisono, alla quinta e all’ottava, e perché . . . 192 Corpi fluidi sono tali per esser risoluti ne i primi loro atomi indivisibili . 126 Data una linea retta divisa ufcunque in parti diseguali, descrivere un cerchio, alla cui circonferenza tirate, a qualunque punto di essa, quante si voglino coppie di linee dall’estremità di detta linea divisa, ritengano tra di loro la medesima proporzione che hanno le parti della linea divisa 131 Data una canna vota, trovar un cilindro pieno eguale ad essa . . . . . 245 Della resistenza de i solidi a spezzarsi, aggravati dal proprio peso, per SIE tutta la seconda Giornata belfmotoslocale Anneo ea e, ott I da 247 al254 Del moto naturalmente accelerato . 0. . .. . ... . °° da 254 a 339 Del moto de i proietti . . . PR nine LI da 39 a899) Differenza tra ’l cerchio finito e l'infinito . pri RAEE ; DppA 25. Differenza, benché grandissima, di gravità de i mobili non Sr RIS n° MESI CATE (eMIOFORvElOCItaR inn e i dune, Lil e RE E È impossibile, per qualunque immensa forza, tendere una corda diritta- mente per linea equidistante all'orizzonte . .. . . . . . ...,. . 390 54. - G. Galilei, Opere - Il. 854 Esempio di osso d'un animale, allungato pit tre volte del naturale, quanto dovrebbe esser:pit grosso: per ‘sostenersi. o iu. i i e MI 224 F Fra Buonaventura Cavalieri, dell'Ordine de’ Giesuati, matematico insigne, €: 8U0 Specchio. USstorioni e nt i e i IRR, a II O O G Grave, cadendo da una altezza, nell’arrivar a terra ha concepito tanto impeto, che verisimilmente basterebbe a ricondurlo alla medesima al- tezza, onde,Si/mosserity gear irta astanti i Io I Incendii:si fanno.:con.moto velocissimo . .Linsn. cd signo siii 28 Instante di tempo quanto, è quale un punto in una linea quanta . . . . 138 Investigar le proporzioni della velocità di diversi mobili nell’istesso e INICIVErSEIAMEZzioRWi Ate, Rug, pie vl eta I 009 Investigare la lunghezza della RRSVI onde penda un lata dalla fre- quenza: (delle sue vibrazioni: 0% (0. MR N) gl EI oi IR I ATI I penduli hanno limitato il tempo delle lor vibrazioni, sf che è impossibile fargli muovere ‘con altro ‘periodd'*. COMO SR e E OT RO ENNIO L La quantita della velocità del mobile è insieme Ra: e misura della quantità della resistenza del mezzo . . ei 104-138 (Secondo l’Ediz. Naz. pag. 71, Cono cO alle Do 108- 109 della nostra Edizione.) Luca Valerio, nuovo Archimede dell’eté nostra, ha scritto de centro gravi- tatis ‘solidorum’ mirabilmente." . 00, Lee rn sete Ei M Macchine materiali grandi, benché fabbricate con l’istessa proporzione che altre minori della medesima materia, sono meno robuste e FRGRAGNO a resistere contro a gl’impeti esterni, che le minori . . . . ur. 185 Mobili di diversa gravità, ma della medesima materia, cadendo Sh LA altezze, si: muovono con pari velocità", ftt, e eee Mobili descendenti per le corde suttese a qualsivoglia arco del cerchio, passano in tempi eguali tanto le corde maggiori che le minori. . . . 188 Mobili e penduli descendenti per gli archi delle medesime corde, elevati sopra l’orizonte sino a 90 gradi, passano i detti archi in tempi eguali, ma più brevi che non sono i passaggi per le corde, . . . ...... 188 Medi varii di disegnare le’ parabole uu. iu i otite Rie e 222 855 N Ne i solidi non si può diminuire la ugo “ning il peso, conservando la similitudine delle figure . . . ; SE RO UNI, 182 Numero infinito, si come ha infinite NATO, di a e di cubi, cosi ha diniixnumeri quadpatise;rubictat 4 lee o nno Larita d18 O Ordigno o strumento inventato da un capriccioso per calarsi da grande al- tezza giù per una corda, per non si scorticare le mani. . . .. . 93-94 Oro in dorare l’argento si distrae e assottiglia immensamente . i in 140 Ossa di animali grandissimi oltre alla loro natura non sussisterebbono, mentre si dovesse conservare in esse la proporzione della grossezza e du- teszayche- hanno: slixrgnimali ‘naturali Magi At DEN 00 e 224 p Palla di cera accomodata per fare esperimento di diverse gravità di acque 158 Parti quante nella quantità discreta né finite né de, ma rispondenti ad ogni segnato numero . . . nia \IMRO dh PARETE TOI Pesci si equilibrano EERACIOA nell’ acqua, 158. E per gii CAUSATA ANZIO Positiva è la causa d’un effetto positivo . . . 3 URI ERRE Re e On PR A: Problema ammirabile di Aristotele, di dua te concentrici che si rivol- gono, e sue vera risoluzione . . . . RARO I de Pet eo 105 Problemi di proporzioni musicali, e loro IAT PM Gao Lt'ar00O Punti infiniti come si assegnino in una linea finita... . ...... 134 Q Quadratura della parabola dimostrata con unica dimostrazione . . . . 239 Qualsivoglia corpo, di qualsivoglia figura e grandezza e gravità, viene 3 frenato dalla renitenza del mezzo, benché tenuissimo, talmente che, con- tinuandosi il moto, lo riduce a equabilità . . /././..... 0... 185 R Rarefazione è distrazione di infiniti PAR con DIRI ISTE RL di in- finiti vacui indivisibili. . . . x : . 139 Rarefazione immensa è SER di poca polvere d' Piras in èghe aria sima di fuoco . . . ) aa : ) ; . 148 Resistenza del mezzo nr via, tune le ISO REA di vravila RESSE EBunoverebbero:con' pari ‘velocità sto nei on: pie E RAI S Sacca da tener grano, col fondo di tavola, fatte con la medesima tela, ma Uiverse\d'altezza;:quali siano; pit capacirvà i Luana ae ne e 856 Scabrosità e porosità maggiore 0 minore nella superficie de’ meo pre: babile cagione del maggior o minor ritardamento di essi . . . . 180 Solidi simili sono tra di loro in sesquialtera proporzione delle sudest . 184 Specchi d’Archimede ammirabili . . . . È 7 Melia 1; Superficie eguali di dua solidi, levandone dall' una Berio e ‘dall'altra conti- nuamente parti eguali, si riducono l’una in una circonferenza di cerchio, Valtrasinsun:punto f.le. 7 . 112 Superficie de i cilindri eguali, trattone le basi, sono tra di Te in Pet plicata proporzione delle loro lunghezze . . . ..../. 0.0 1 T ‘Tavola per i tiri d'artiglieria secondo le diverse elevazioni del pezzo . 382-385 Tempi delle vibrazioni di più mobili pendenti da fila più o men lunghe, sono in tra di loro in proporzione suddupla delle lunghezze delle fila ONCE CEPENCONO Li et. n I E SO CSI I M Vacuo cagione in parte dell'attaccamento fra le parti de' solidi, 96. Come si misuri in ciò la sua virtii, per distinguerla dall’altre cause concorrenti 98 Vacui minutissimi, disseminati e traposti tra le minime particelle de’ solidi, causa probabile dell’attaccamento di esse particelle fra loro . . . . . 104 Velocità del lume come possa con esperienza investigarsi se sia instantanea OCICHIPOLE NEMBRO RIST Is, I IT Velocità de’ gravi descendenti naturalmente al centro va continuamente ac- crescendosi, sino a che, per l'accrescimento della resistenza del mezo, diventa uniforme . . . Al 100, 4, OR CRIARI REA604 Velocità de’ mobili simili e dissimili calo e in diver mezi, che pro- porzionelabbia |. . . «TIMO Velocità delle pelle di ASA 0) KE So usucna incomparabilmente mag- giore della velocità de gli altri proietti . . . . ahi ASD2 Velocità diversa di moti diversi de i pianeti, sdcondi Pieno è Lei ad essi dal moto per linea retta, e, continuata poi nella conversione per i loro orbi, molto acconciamente verrebbe illustrata dalle specolazioni dell'Autore i n 04.6. LR CEI! Unitacha "dell'infinito <.<. «| rr AUAaA bi] 857 Pubblichiamo adesso, a complemento delle Nuove Scienze, le Operazioni astronomiche, che, secondo il Viviani, dovevano essere comprese nella «< Gior- nata quinta >». LE OPERAZIONI ASTRONOMICHE. I ragionamenti che ne i giorni passati sono occorsi intorno all’esquisitezza de gli strumenti astronomici usati da gli osservatori sin qui, ed in particolare da Ticone Brahe, con spese eccessive, mi hanno porta occasione di rinovare alcuni miei pensieri sopra questa materia; li quali, s'io non m'’inganno, mi fanno credere, potersi con istrumenti assai più semplici, e molto più esatti, conseguire le medesime notizie, ed altre appresso non tentate ancora, e con tutto ciò utilissime e grandi, nel medesimo affare. È noto a ciascuno, due esser i mezzi principalissimi e necessarissimi per far le celesti osservazioni con puntualissima giustezza: l’uno de’ quali è il po- tersi servire d’un misuratore del tempo che senz’errore d’un momento ci som- ministri l’ore e le loro frazioni, fino a’ minuti primi, secondi e terzi, e pit, se più bisognassero; l’altro è il trovarsi forniti di strumenti per prender l’altezze delle stelle e le distanze tra esse ed altre simili misure necessarie. Dirò la fab- brica e ’1 modo di perfezionar l’una e l’altra sorta di strumenti. Fsattissimo compartitore, in minutissime particelle, del tempo è un pendolo ‘ appeso a un sottil filo di qualsivoglia grandezza; il qual pendolo, essendo di materia grave, rimosso dal perpendicolo e lasciato liberamente scorrere, fa le sue reciprocazioni, o vogliam dir vibrazioni, siano pur grandi o piccole, per- petuamente sotto tempi ugualissimi. Il modo poi di trovare, mercé di questo, esattamente la quantità di qualsivoglia tempo ridotto ad ore, minuti, se- condi etc., che sono le particole comunemente usate da gli astronomi, sarà tale. Accomodato un tal pendolo, di lunghezza, per esempio, d’un palmo o di mezzo braccio, e facendolo andare, e per una volta tanto numerando con pazienza le vibrazioni che passano in un giorno naturale, conseguiremo il nostro intento, tutta volta però che abbiamo una precisa conversione di detto giorno, o vogliam dire dell’equinoziale. E per ottener questa, voglio che si fermi un telescopio esquisito, di lunghezza di quattro braccia o pit, verso qualche stella fissa quan- d’ell’è intorno al meridiano, e tenendo sempre immobile il telescopio, aggiustato già alla stella, si continui di rimirarla sino all’ultimo punto ch’ella scappa fuori della vista; nel qual punto si comincino ‘a numerare le vibrazioni del pendolo, continuando la notte e ’1 giorno seguente sino al ritorno della medesima fissa incontro al telescopio conservato sempre immobilmente nel medesimo posto; ed aspettando che la stella scappi fuori della vista nel modo che fece nella pre- cedente osservazione, ritengasi il numero delle vibrazioni scorse in tutto questo tempo: imperocché da esse in tutte l’altre osservazioni di tempi potremo avere le quantità loro in ore, minuti, secondi e terzi etc., operando con la seguente regola. Pongasi, per esempio, che ’1 numero delle vibrazioni nel tempo delle 24 ore naturali sia stato 280536; ed all’arrivo d’alcuna fissa nel meridiano si cominci a numerare le vibrazioni, sin che un’altra fissa pervenga al meridiano, e sia il tempo decorso, misurato, 16942 vibrazioni: vogliamo sapere quanto sia questo tempo, ridotto in ore, minuti, secondi etc. Dicasi dunque, per la regola aurea: Se 280536 vibrazioni sono il tempo di 24 ore, qual sarà il tempo delle 16942? Operisi per la regola, e troverassi un'ora, con l’avanzo della frazione 126072; dalla quale caveremo i minuti primi, moltiplicandola per 60, il cui prodotto è 7564320, che diviso pel primo numero 280536 ne d& 26, che sono minuti primi, ed avanza 270384; dal quale averemo i secondi, multiplicandolo pure per 60, il x cui prodotto è 16223040, che diviso pur per l’istesso partitore ne rende 57, e 858 sono minutì secondi, ed avanza 212488; il qual di nuovo multiplicato per 60, e "l prodotto partito pel medesimo partitore, ci di 44 minuti terzi, con l’avanzo di 205696; che multiplicato pure per 60, e diviso il prodotto pel medesimo partitore, ci dé 44 minuti quarti quasi appunto. E con tal ordine si troveranno frazioni più minute, quanto ne piacerà. F tra tanto notisi quanto grande sia l’utile che da questa prima operazione si ritrae, poi che per essa venghiamo in cognizione scrupolosissima della differenza ascensionale retta di tali stelle, etc. Stabilito in tal modo il mio misuratore del tempo, vengo alla divisione e suddivisione de’ gradi del quadrante o sestante, con maniera simile alla sopra- posta nella divisione del tempo. Dopo aver diviso l’arco del quadrante in 90 parti uguali, overo in 60 quello del sestante, piglisi una verghetta in figura di prisma triangolare, fatta d'avorio o di altra materia dura, intorno alla quale verghetta si vadia avvolgendo una sottil corda da cetera; e per fuggire l’offesa della rug- gine, sara bene che la corda sia un fil d’oro, tirato per sottilissima trafila. Questo, avvolto intorno alla triangolar verghetta in modo che le rivolte si va- dano toccando, non è dubbio alcuno che tutto lo spazio compreso tra le rivolte estreme sarà diviso in particole minime ed ugualissime. Preparisi dunque cotal prismetto, e di esso s’ingombri, dalla moltitudine delle volute del filo, tanta parte, quanta appunto è la lunghezza d’un grado del nostro quadrante o se- stante; accomodisi poi il prisma cosî diviso, che ad arbitrio nostro risponda a qualsivoglia grado delli 90 o 60, trasportandolo a questo ed a quello secondo ’l bisogno, cioè applicandolo a quel grado che dalla dioptra o dal perpendicolo sarà tagliato: la divisione d’un grado d’un quadrante o sestante, la cui costa sia quattro braccia in circa, sarà dalle rivolte del sottil filo fatta in molte centinaia di parti. E qualunque sia il numero di esse, troveremo le frazioni del grado con l’istessa regola che trovammo di sopra le frazioni dell’ore; ché posto, per esempio, che le revoluzioni del filo fussero 2430, e che le tagliate dalla dioptra o dal perpendicolo fussero, verbigrazia, 820, diremo: Se il numero 2430 ci da minuti primi 60, quanti ce ne darà l’altro numero 820? Operisi conforme alla regola, e troveremo darcene 20°. 14” e quasi 49”’’, Preparati cotali due strumenti massimi, potremo prima rettificare le cose gia stabilite sino a questi tempi, ed altre arrecarne, con nuovi e molto esquisiti mezzi ottenute. E per maggior distinzione e chiarezza, voglio che andiamo nu- merando e distinguendo le operazioni tra di loro. OPERAZIONE PRIMA. Avanti che venghiamo all’operazioni particolari, dependenti da i due pre- paramenti posti di sopra, ho giudicato esser bene il dichiarare un modo esat- tissimo, pel quale quel che vuol fare l’osservazioni possa rimediare all’incon- veniente nel quale incorrerebbe ogni volta che si servisse de’ raggi della sua vista come derivanti da un punto solo indivisibile; il che è falso, atteso che vengono prodotti da tutto ’1 piccolo cerchio della pupilla de gli occhi: onde fa di bi- sogno che il riguardante abbia una squisita misura del diametro della pupilla del proprio occhio, la cui grandezza si deve mettere in conto; altrimenti si po- trebbero commettere errori gravissimi, come in varie operazioni, che ci ac- caderanno, manifestamente si comprenderà. E per trovar tal diametro della pupilla, ho pensato un modo assai esatto; ed è tale. Prendansi due strisce di carta, l'una bianca e larga il doppio pi dell’altra, che sia nera; e basterà che questa più stretta sia larga un pollice, e l’altra due; e fermata la maggior in una parete, pongasegli l’altra al dirimpetto, e lontana da quella, per esempio, dieci braccia. È manifesto, che essendo tali due strisce collocate parallele fra di loro, le linee rette, le quali partendosi da due punti estremi della larghezza ir ale ‘859 della maggiore striscia, passando per i due termini della minore rispondenti a quella della maggiore, anderebbero a congiugnersi in un punto, altre dieci braccia lontano dalla minore striscia; e se nel punto di tal concorso si costi- tuisse l'occhio, e che in esso la vista si facesse in un sol punto, la striscia nera e minore asconderebbe precisamente tutta la bianca: ma perché i raggi visivi escono da tutta la pupilla, però troveremo per esperienza, esser necessario av- vicinare alquanto l’occhio alla striscia nera; avvicinarlo, dico, tanto, che dalla larghezza della nera venga precisamente occultata la larghezza della bianca. E fatto questo, prendasi con diligenza la lontananza della pupilla dalla striscia nera, la quale sarà minore della distanza dell’angolo del concorso; e dalla dif- ferenza di tali due distanze agevolmente verremo in cognizione del diametro della pupilla: il che faremo chiaro per la figura qui appresso notata. Intendasi la retta A B esser la larghezza della striscia bianca, la cui metà CD sia la larghezza della nera; e fermate tra di loro paral- A lele in qualsivoglia distanza, O intendansi dalli estremi ter- F mini, A, B passare le rette TO per i termini C, D, concor- renti nel punto E; nel qual G D punto quando vi fusse costi- B tuita la pupilla, e che la vista terminasse in un sol punto, verrebbe la A B occultata dalla CD. Quando dunque ciò non accada, portisi l’occhio verso C D, sin dove primieramente resta la A B coperta dalla CD; e ciò avvenga, per esempio, in FG: è manifesto, la FG esser il diametro della potenza visiva, cioè della pupilla, la cui grandezza ci resterà nota mercé delle tre linee note C D, CF, EF; imperocché qual proporzione ha la CE alla EF, tale l'ha la CD alla FG. OPERAZIONE SECONDA. Fermato e con somma diligenza ritenuto il diametro della propria pupilla, vengo ad una operazione tanto più ammiranda e da pregiarsi, quanto da essa dependono cognizioni sopra modo importanti e nelle quali tutti i passati astro- nomi si sono allucinati; e questa è una esattissima misura de i diametri de i dischi delle stelle, tanto fisse quanto erranti, i quali sono stati creduti molte e molte volte maggiori di quello che realmente sono. E veramente troppo è stata scarsa l'avvertenza di coloro che hanno giudicato, come si dice, a occhio, il diametro, verbigrazia, del Cane o di Venere suttendere a due o tre minuti primi, giudicando tali grandezze da quello che mostrano nell’oscurità della notte, quando la capellatura de i raggi avventizii è cento e cento volte maggiore del nudo corpicello della stella; come pur dovevano comprendere dall’aver ve- duto più volte Venere, di giorno, non punto maggiore d’un grano di miglio, e la medesima, un'ora doppo il tramontar del Sole, grande come una gran fiaccola. Ma venghiamo ad emendar l’errore con l’investigare quale e quanto sia l’an- golo a cui suttende il diametro di qualsivoglia stella. E preso, per esempio, il Cane, e fatto pendere da qualche notabile altezza una corda grossa, verbigrazia, un dito, ed avendo preparata tal corda che ad essa altri possa liberamente ac- costarsi e discostarsi, vada, quello che opera, appressandosegli si che gli venga precisamente coperta la stella, in guisa tale, che movendo l’occhio a destra o a sinistra, per ogni minimo intervallo si scopra qualche parte del disco risplen- dente; e posto un segno nel luogo dove è stato l’occhio nell’operare e un altro nel luogo della corda, si esamini poi con comodità e puntualissimamente il dia- 860 metro della corda, o pure (e sarà la vera) la larghezza di essa corda compresa dalli estremi raggi tangentila, ed il diametro della pupilla, misurati amendue con le più sottili frazzioni che usar si possano: imperocché dalla proporzione di questi due diametri e dalla nota e misurata distanza tra ’1 luogo della corda e la pupilla troveremo il vero punto del concorso de’ raggi li quali, partendosi dal diametro della stella, passassero per i termini del diametro della corda; il che faremo manifesto con questa semplice figura. Intendasi l’occhio esser in E F quando la corda, il cui diametro CD, occupa il diametro A B della stella alla A pupilla, il cui diametro E F: O) G cercasi il concorso de’ raggi A C, BD, cioè l’angolo G. G Intendasi nel triangolo CGD F la EI parallela alla G D: è D B manifesto, come IC a CD, cosi stare E C a C G. Ma IC è nota, essendo l’eccesso del diametro della corda sopra ’1 diametro della pupilla; è nota parimente essa C D, essendo il diametro della corda; nota è similmente la E C, distanza tra l’occhio e la corda: adunque averemo la lontananza C G, per la quale e per il noto diametro della corda averemo l’angolo G, e per consequenza la suttesa ad esso, cioè il diametro del Cane, oh quanto e quanto minore del creduto fin qui! ed in conseguenza intenderemo quanto siano state grandi le fallacie che da cotanto errate supposizioni sono state dedotte. E qui è bene metter in considerazione che la grossezza della corda per coprire il corpo della stella non ha da esser maggior di quanto basta a nascondere il piccol disco di essa come se fusse tosato e tolti via i raggi ascitizii, li quali, perché non sono intorno al corpo della stella, ma solamente nel nostro occhio, coperto il piccol capo della stella, spariscono i crini; e cosi l'operazione resta semplice e netta. OPERAZIONE TERZA. Di conclusioni massime, e che dietro si tirano conseguenze maggiori, po- tremo venir in notizia servendoci, per far le nostre osservazioni, di lontananze massime, E restando di voler investigare, come nella precedente operazione, il diametro d’una stella fissa e qualch'altra conseguenza appresso, vorrei che nella sommità di qualche alta montagna fusse collocato qualche grosso trave, e fer- mato parallelo all'orizzonte, elevato da terra quattro o cinque braccia, e posto a squadra del meridiano: ed avendo sito opportuno nella pianura d’avvicinarsi ed accostarsi al monte liberamente, movendosi sotto l’istesso meridiano o senza molto diviare da esso, vorrei che l'osservatore si fermasse in luogo dal quale sincontrasse qualche stella delle convertibili intorno al polo settentrionale, stando egli dalla parte di mezzo giorno, la quale stella andasse ad occultarsi doppo il trave, collocato come s’è detto; e trovato sito opportuno, quivi si fab- bricasse un piccolo ricetto (quando non vi fussero case già fabbricate), nel quale con perfetto telescopio s'andasse osservando la stella in diversi tempi: dalle quali osservazioni si potrebbe venire in diverse cognizioni. i E prima, quando il caso avesse incontrato che la grossezza del trave pre- cisamente occultasse il disco della stella, già per la regola dichiarata nella pre- cedente operazione troveremo l’angolo al quale sottende il diametro della stella. Ma se in tanta lontananza la trave segasse il disco, lasciandone parte sopra e parte sotto, col ritornare a replicar l’osservazioni fatte in diversi tempi, di- stanti per uno, due e tre mesi l’uno dall’altro, potremo accorgerci se nella sfera 861 stellata sia qualche minima titubazione; nella qual cognizione ci condurrà, tut- tavolta che la grossezza del trave notabilmente di soverchio ricoprisse la stella, si che ella per qualche tempo restasse ascosa, ci condurrà, dico, il nostro esat- tissimo misuratore del tempo, col mostrarci se i tempi della occultazione di quella siano 0 non siano sempre uguali. Una simile notizia potremo conseguire stando anco nella città, col ritrovar sito dal quale si vegga qualche stella fissa andar traversando la piramide di qualche campanile; che opportunissima sarebbe la pergamena della nostra Cu- pola: imperocché, aggiustato prima, e poi immutabilmente fermato, il tele- scopio, si che si scorga l’ultimo punto dell’occultazione ed il primo dello sco- primento della stella nel traversar la grossezza di detta piramide o pergamena, l’esquisita numerazione del tempo della occultazione ci rende sicuri se alterazione alcuna sia o non sia nell’ottava sfera. Imperocché, se ‘1 tempo si manterrà sempre l’istesso, sarà concludente argomento che la detta stella si addoperà sempre alla pergamena camminando per l’istessa linea; ma se le durazioni si troveranno in diversi tempi esser disuguali, avremo segno evidente, la stella traversare detta pergamena ora più alto ora più basso, ed in conseguenza soggiacere l’orbe stellato a qualche titubazione. Voglio che mi basti aver accennati i fondamenti saldi e principali in tali operazioni, lasciando che il lettore per sé stesso vadia provedendo a quelle par- ticolari difficoltà che si rappresentassero, le quali non possono esser di gran momento appresso agli uomini d’ingegno saldo, ben affetti, e desiderosi d’age- volare, e non difficoltare, l’imprese e l’invenzioni altrui; e con questi soli parlo, lasciando che altri più insigni inventori trovino artifizii più grandi. E qui sola- mente soggiungo la necessità grande di tenere il telescopio continuamente fisso ed immobilmente fermato nell’istesso posto, e la canna fabbricata di materia non soggetta all’alterazioni dell’aria. OPERAZIONE QUARTA. Utile e molto curiosa è tra le cognizioni astronomiche l’assicurarsi dell’av- vicinamento e discostamento da noi de i due luminari e delli altri pianeti an- cora; de i quali accidenti ci potremo chiarire con operazioni non dissimili dalle passate. Come, per esempio, se noi misureremo il tempo nel quale il Sole tra- passa col moto diurno tanto spazio quanto è il diametro del suo disco, mentre si va addopando a qualche muro intorno all’ora meridiana, e tale osservazione faremo in diversi tempi dell’anno, la differenza de’ tempi di cotali trapassi ed addopamenti ci darà le differenze delli angoli a’ quali il disco solare in detti tempi sottende, e vedremo la differenza del suo diametro posto nell’auge e nel perigeo. Col traversare una striscia la quale occulti la Luna all'occhio posto in una tal distanza, potremo comprendere quanto il diametro del suo disco sia differente nelle quadrature da quello che è nel plenilunio e nel suo primo ap- parire nel novilunio. E cosî riscontreremo quanto veri e giusti siano gli acco- stamenti e discostamenti attribuiti a” medesimi luminari dagli astronomi. L’avvicinarsi e ’1 discostarsi dalla Terra gli altri pianeti è tanto sensato e rispondente a i cerchi e movimenti loro attribuiti da gli ultimi osservatori, che non resta luogo di punto dubitarne; e mercé di perfetto telescopio pur troppo chiaramente si scorge, i dischi in particolare di Venere e di Marte mostrarsi, quello circa quaranta, e questo ben sessanta, volte maggiore in un sito che in un altro, cioè mentre sono perigei e poi apogei. l loro ricrescimenti e diminu- zioni si scorgono similmente in Giove ed in Saturno posti nelle diverse distanze, dove egregiamente si manifesta ancora il congiugnimento de i due approssima- menti e discostamenti mercé dell’eccentrico e dell’epiciclo: incontro e notizia veramente ammirabile. 55. - G. Galilei, Opere - Il. 862 OPERAZIONE QUINTA. Il negozio delle refrazzioni resta per ancora appresso di me assai ambiguo, né vi so discernere precisione alcuna, fondata sopra stabili e certe osservazioni: e veramente confesso di non restar capace come la struttura delle tavole di esse refrazzioni, portata come assai risoluta, in particolare da Ticone, sia veramente tanto sicura, che di essa si possa fare assoluto capitale nel calcolare le ele- vazioni delle stelle, in particolare ne' luoghi non molto alti sopra l’orizzonte. Della non ferma scienza di cotal materia me ne vengono arrecati argomenti da più bande. E prima, parmi di scorgere che tali refrazzioni siano, e sian per essere, assai variabili, per l’esperienza e per la ragione. Quanto all'esperienza, posto che sia vero che mercé della refrazzione l’oggetto lucido, e non molto remoto dall’orizzonte, venga sollevato; che tal sollevamento sia in diversi tempi molto disuguale, ce lo mostra il solar disco, il quale alcune fiate, trovandosi circa un grado elevato dall’orizzonte, si mostra non in figura circolare, ma bislunga, cioè d’altezza notabilmente minore della lunghezza: il che credo io veramente accadere, che mercé de i vapori bassi l’inferior parte del disco solare viene più inalzata che la superiore, restando l’altra dimensione, cioè la lun- ghezza, inalterata. Ora, stante che questo sia effetto della refrazzione, si ma- nifesta l’incostanza e mutazione sua, perché tale accidente non accade conti- nuamente, anzi pure rare volte, ed or con maggior ed or con minore diversità; ma il più delle volte si vede perfettamente circolare. Da questa osservazione mi pare che si possa, in certo modo, introdurre due sorti di refrazzioni: cioè, la prima, fatta dal grand’orbe vaporoso, che circonda quasi che immutabil- mente la Terra, mercé del quale nascono i crepuscoli; e l’altra sia effetto d’altri più grossi vapori, che in minor altezza si distendono sopra qualche parte del globo terrestre e che forse non si elevano più in alto che sormontino gli altri vapori grossi, circoscrivendo quella parte vicina dove si producono le nuvole, le pioggie, i venti etc.: e forse non sarà lontano dal vero il dire, cotali re- frazzioni massime farsi in quest'orbe vaporoso e basso. Io apporterò qualche esperienza, non fatta, ma da farsi per venire in maggior cognizione di questa materia di quella che sin qui se n’è avuta. E prima, per chiarirsi quanto sia vero che accader possa, come alcuni af- fermano, che la Luna o ’1 Sole, doppo essere scesi sotto all'orizzonte, si mo- strino a’ riguardanti esser ancora superiori, mercé della refrazzione fatta ne’ vapori grossi; in quel modo che vanno esemplificando della moneta posta nel fondo del catino, le cui sponde la celano all’occhio posto in sito obliquo, e che poi la medesima moneta si rende visibile qualunque volta s’infonda acqua nel vaso, nella quale, come dicono, i raggi visuali refratti vanno a trovar la moneta, o pure che la sua spezie dall’acqua venga sollevata; per chiarirsi, dico, se l’istesso accaggia per la medesima ragione nel Sole gia realmente tramontato, accomodata esperienza ne sarebbe per avventura questa. Pongansi due osser- vatori, uno sopra una torre assai alta overo in cima d’una rupe altissima, e l'altro sia al piede di essa torre o rupe; ed amendue osservino il tramontare del Sole, numerando con l’esquisito misurator del tempo i minuti secondi che passano mentre che il disco solare tutto si nasconde sotto l’orizzonte: impe- rocché. quando i vapori grossi abbiano facoltà di sostenere l’imagine del Sole sollevata dall’orizzonte, piti lungo tempo passerà nel tramontare a quello posto al basso, come molto piti immerso ne i vapori, che all’altro collocato in luogo sublime, per esser egli fuori delle parti vaporose piti grosse; e forse potrebbe accadere che il Sole si mostrasse tuffato sotto l'orizzonte prima a colui collocato in alto, che all’altro basso. Ma soggiungo un’altra esperienza, e, per mio cre- dere, da stimarsi non poco. Pongasi una corda distesa più dirittamente che sia possibile, lontana dal- l'occhio cento o pit braccia, la qual sia posta parallela all'orizzonte, e da esso 863 sì mostri elevata circa un grado; si mostri, dico, in tale elevazione all’occhio, il quale vadia osservando il disco solare dal primo toccamento di essa corda sino alla totale sommersione sotto la medesima, numerando esattamente i minati, almeno secondi, spesi dal disco solare nel suo trapasso. Facciasi immediata- mente l’istessa operazione nel calare del medesimo disco solare sotto '1 vero orizzonte, notando, con la medesima precisione, il tempo della demersione; il quale dovrà esser più lungo notabilmente, se notabilmente vien sollevata la sua spezie dalla refrazzione. E se con altre corde, per cosi dire, orizzontali, poste due o tre o più gradi elevate dal vero orizzonte, si faranno simili inda- gini, si potrà, sio non m'inganno, con simil metodo aprire strada assai sicura al deliberare circa le refrazzioni: il qual negozio mi par differentissimo da quello del vaso e dell’acqua, essendo che in questo l’occhio è in un diafano di- versissimo da quello nel qual si trova la moneta, ma nel nostro caso l’occhio è immerso ne i medesimi vapori per i quali ha da passar la spezie; che se l'occhio, il catino e la moneta fusser tutti nell'acqua, la refrazzione non vi sarebbe. OPERAZIONE SESTA. È noto con quanta fatica hanno proceduto gli astronomi per venire in co- gnizione, di tempo in tempo, del luogo nel quale si ritrova il Sole in relazione alle stelle fisse, mentre che non è stato loro permesso vedere nell’istesso mo- mento il Sole e qualche fissa, per poter con quadrante o sestante prendere l'intervallo tra essi; ma hanno avuto bisogno di prendere prima la distanza tra ’1 Sole e la Luna, o vero Venere, la quale pure si lascia veder tal volta mentre il Sole è sopra l’orizzonte; e pigliando poi la distanza tra Venere e la fissa desiderata, hanno in due pezzi composto quello che non poterono in un sol tratto. Ma ora mercé del telescopio esquisito le fisse, e massime quelle della prima grandezza, si possono veder tutto ’l giorno, avendole prima trovate avanti il levar del Sole e continuando poi d’andarle accompagnando con l’occhiale. Ma quale e quanto è l’uso de i nostri ben preparati strumenti per descriver tutta la sfera stellata? Presa l’altezza meridiana d’una stella, da noi presa per la prima e principale, e numerando poi il tempo d’un’altra che doppo quella prima arrivi al meridiano, dove con esquisitezza si pigli la sua altezza, gia averemo la differenza ascensionale di questa, ed in conseguenza il sito nella sfera stellata; ed il medesimo intendasi dell’altre: ma è ben vero che è negozio laboriosissimo e veramente atlantico, mercé del troppo numeroso gregge delle fisse. E perché in questa ed in molte altre operazioni aviamo bisogno d'una giustissima linea meridiana, esporrò conseguentemente un modo di trovarla, per mio credere esattissimo, 864 IL SAGGIATORE. Di quest'opera, che rimane un capolavoro perché, oltre ad essere una diver- tente stroncatura, è il Discorso del metodo galileiano, pubblichiamo l’edizione completa. Nell'edizione nazionale la Libra del Grassi, essendo stata riprodotta a parte, non è stata inclusa nel Saggiatore. S'intende che tanto per il testo della Libra che per quello del Saggiatore abbiamo seguito l’edizione nazionale. A pag. 701 (Ediz. Naz. VI, pag. 295), alla riga nona, dopo le parole: « né fuor di proposito », l'edizione originale continua: « Primieramente (per rispon- dere a tutte le parti), io dico, non occorrere che ’1 Sarsi venga si spessamente ripetendo il rinfacciarci l’aborrimento della poesia, poi che noi, come già si disse, non l’aborriamo in modo veruno. Anzi qui soggiungiamo, non ci essere incognito che, per l’incatenata parentela la qual tutte l’arti una coll’altra ten- gono, non solo si permette al filosofo il tramezar talora ne’ suoi trattati alcune poetiche delizie, come fece Platone e come fanno oggi molti, ma si concede anco al poeta il seminare alle volte ne’ suoi poemi alcune scientifiche specula- zioni, come tra i nostri antichi fece Dante nella sua Comedia, e come tra i moderni ha fatto il Cavaliere Stigliani nel suo Mondo Nuovo. Appresso dico ( per rientrar nella disputa) ch’ecc. ». Questo passo fu interpolato da Tommaso Stigliani. Il 19 novembre 1634, Galileo scriveva da Arcetri a Fulgenzio Micanzio, a proposito di un'eventuale ristampa del Saggiatore: « Saria forse bene aggiu- gnervi le postille che ho fatte alla risposta del medesimo Sarsi al Saggiatore; e si potrebbe figurar che allo stampatore fusse dato per le mani un libro di detto Sarsi postillato con risposte alle obbiezioni che ei fa al Saggiatore. La Paternità Vostra ci penserà un poco, ed io ancora >. In omaggio a questa volontà di Galileo, pubblichiamo la massima parte delle postille alla replica del Grassi. Quelle precedute da asterisco sono di mano del Guiducci. 1) Simula il viso pace, ma vendetta Chiama il cor dentro, e ad altro non attende. 6) Questo non è il vero metodo insegnatovi da me per non lasciare niente non considerato; perché io trascrivo tutta la vostra scrittura senza lasciarne sillaba, e voi per dare un poco di vita alle vostre calunnie e falsità, almeno appresso quelli che non hanno il mio libro, non producete (ed anco troncata- mente) altro che quei luoghi da i quali vi par di poter rappresentar contra- dizzioni o altre fallacie, la falsità delle quali troppo chiaramente si conoscerebbe da chi avesse in pronto l’opera mia. ?) Voi, per darmi titolo d’imbriaco, avete finto di non intendere quello che significhi Saggiatore. Io, alla vostra imitazione, potrei dire che il nome Sim- bellatore vien da i zimbelli, che sono alcuni piccoli sacchetti pieni di crusca, legati in capo di una cordicella, con i quali i nostri fattori il carnovale soglion sacchettare e zimbellare le maschere, e che cosi inavvertentemente aveste augu- rato a voi medesimo scherzi pit aspri; ma non voglio etc. 10) Se voi aveste cognizione della lingua toscana, aresti, senza pit oltre leggere nel mio libro, inteso come il nome Saggiatore senza traslazione si- gnifica l'istesso che collibista, e non quello che pragustator vini, il quale noi chiameremmo assaggiafore, poi che si dice assaggiare il vino, e non saggiare. 865 In oltre, già che voi dite che, avvertito del significato in che io lo prendo, comprendeste che il pigliarlo per assaggiator di vini era non pur falso, ma in- decente e poco sobrio, perché scriverlo? non si può, per mio parere, dir altro, se non per darmi, con ricoperta assai trasparente, titolo di briaco, con assai poca modestia: cosa che ho sfuggita io, ben che ne avessi assai largo campo, come poco di sotto intenderete. 12) Voi non intendete questo mestiero, mentre che voi credete che i sag- giatori si servino delle bilancine per pesar l’oro o l’argento, essendo che l’uffizio è di ritrovare se ’1 metallo che vien proposto per oro puro o per argento, è tale, o pure tiene di rame o altra materia men perfetta, o è alchimia ete.: e cosi il Saggiatore scuopre i vostri errori mascherati con molte molte fraudi e ’nganni, e non gli pesa altramente, lasciando che tal giudizio si faccia da chi si sia e con qualsivoglia stadera ben grossa. 13) E che volete far, signor Sarsi, se a me solo è stato conceduto di scoprir tutte le novità celesti, ed a niun altro nissuna? E questa è verità da non si lasciar supprimere da malignità o invidia. Io primo, e solo, ho scoperto la Luna montuosa, etc. E tantum abest che altri avanti di me abbiano tali cose osser- vate, che infiniti le negavano, e molti le negano ancora, dopo essergli state molte volte mostrate, etc.; e voi medesimo, per non intendere ancora che cosa sieno le proiezioni dell’ombre e l’altre apparenze per le quali necessariissima- mente si conclude la montuosità della Luna, col parlarne scherzevolmente mo- strate di non la credere. Di pit, io non ho mai detto, esser impossibile che altri avanti di me abbia scoperto etc., ma che Simon Mario, nel volersi attribuir l'anzianità nelle Medicee, si mente, e ne adduco la ragione manifesta. E perché niuno, altri che lui, si è attribuito tal cosa, se voi volevi parlare a proposito, non dovevi in generale rispondere al mio particolare, ma dimostrare che po- teva benissimo essere che Simon Mario avesse osservate le Medicee avanti di me, e che io e non esso si fussi ingannato circa la loro declinazione, etc. La vostra, dunque, considerazione è un grande sproposito, accompagnato da ma- lignità e invidia. Aggiungasi di pid: voi dite che ogn’uno #4 gli occhi, e che molti sono i telescopii, e però che molti potevano osservare etc. E non v’accorgete che tanto vien ad esser maggior la lode mia e ’1 biasimo de gli altri? li quali sarebber degni di scusa se io solo avessi auto occhi e telescopio. 14) Non veggo di potere scusar la malignità vostra manifesta, se non con l'ignoranza, dicendo che è necessario che voi non abbiate intesa la ragione con la quale io dimostro la bugia di Simon Mario, ed in consequenza che voi non intendiate come, essendo Giove australe, bisogni etc. Qui si vede che voi scri- vete solamente per quelli che non sono atti a rivedervi il conto. 15) * Non mi maraviglio punto che la Libra sia piena di inurbanità, poiché l’autore s’è accorto che l’inurbanità si disdice, dopo l’essere assunto al princi- pato Urbano. Mi maraviglio bene della presente scrittura, che n'è pit copiosa di quell’altra. 20) Voi vi querelate di quello di che dovreste ringraziarmi: imperò che ponete che io vi abbia, ben che mascherato, conosciuto; non vi par egli che io vi abbia molto rispettato e tenuto conto della reputazion vostra, mentre che, sendo messo in necessità di rispondere alle vostre opposizioni, e per ciò scoprir molti vostri errori, ho dissimulato il vostro nome e vi ho lasciato oc- culto sotto quella maschera che voi medesimo vi. ponesti al volto? E già che mi porgete si oportuna occasione di mostrarvi quanto io più cortesemente mi sia portato verso di voi, che voi verso di me, non la voglio lasciare. Voi di 866 sopra, per darmi, con arguzia assai fredda, del bevitore e briaco, dite che, sendo la prima origine di questa parola Saggiatore presa dall’assaggiare i vini, onde saggiuoli etc., fuste per esprimerla con il termine pitissator, libator, etc.; ma che poi avendo dalla lettura del mio libro compreso che io la pigliavo per significar quelli che fanno i saggi dell’oro, parendovi anco che la prima de- nominazione fusse poco onesta e indegna di filosofo, e che per ciò ne desideravi una più sobria, lasciata la prima, pigliaste quest'altra. Io, quando prima veddi il libro vostro, mi accorsi il nome esser finto, e potere esser che sotto di quello si contenesse in qualche modo il vero nome cognome e patria dell’autore; e nel tentare se per sorte era un anagramma, veddi che si risolveva in Horatio Grassio Salonense. Nel ricercar poi accuratamente qual patria fusse questa Salona, veddi in Strabone, quella essere un luogo in Bitinia assai celebre per esser fecondissimo producitore e ingrassator di buoi. Or questo encomio non mi piacque punto, e per fuggire ogni ombra di scherno, determinai di lasciar la maschera nel suo essere, etc. Voi di sopra avete scritto quello che non si cava da mie parole, e voi stesso lo confessate, e dite che è ignominioso; e pur lo scrivete. lo tacqui quello che dalla vostra medesima deposizione si cavava; e solamente per fuggire ogni sospetto di irriverenza, lo tacqui. 21) Addio, Signor Lottario: ora comprendo il vostro astuto avvedimento di mascherar voi e affrontar me smascherato, che fu per poter liberamente bur- larmi ed anco pugnermi, senza paura che io fussi per aprir bocca. Né potete in conto alcuno negare di non l’aver fatto a tal fine, perché, dalle punture in poi, non è altra cosa nel vostro libro (dove nen si tratta altra cosa che di qui- stioni filosofiche e matematiche, studii onestissimi) per la quale voi vi aveste auto a nascondere: adunque a questo solo fine vi mascheraste. Ora, perché voi qui mi tassate di svergognato, lascierò che altri giudichi chi sia men modesto, o quello che, per tassare chi mai non l’offese, cerca di ascondere la sua ingiuria sotto la maschera, o l’altro che, ingiustamente provocato, col viso scoperto ri- sponde alla maschera. E notate appresso, signor Lottario, che l’ingiurie non si pesano né pareggiano con la bilancia, ma con la stadera; tra le quali è questa differenza, che dove la bilancia sta in equilibrio quando nelle due lanci si pongono pesi eguali, per far l'equilibrio nella stadera bisogna per contrappeso del romano, che peserà, verbigrazia, dieci libre, mettere cento e talvolta cin- quecento e mille. L'incarico del primo è tanto grave, che non solamente con- viene che l’incaricato si scarichi con risposte più gravi, ma talvolta è anco tale che, ben che profferito con parole, si stima non si poter contrappesare se non con i fatti. Voi sete stato il primo a pugner me, e senza niuna occasione o ra- gione. Né vale il dire che ’1 Discorso del signor Mario fusse mia farina; perché, quando pur questo fusse, la dottrina solamente potrebbe aver presa da me; ma quelle che voi chiamate punture, qual cagione vi muove a credere che anco in queste il medesimo signor Mario abbia auto bisogno del dettatore? In oltre, le maschere alle quali non si risponde, son quelle che vanno appuntando tutti quelli che incontrano; e perché la burla è comune, non si risponde: ma voi parlate a me solo, e per molte ore, e però etc. Che voi siate comparito in maschera per poter liberamente pugnermi, e non per altro, è manifesto, perché azione troppo scurrile sarebbe il montar sopra le cattedre o i pulpiti, immascherato, a insegnar filosofia o interpretar le Sacre Scritture, che sono le due azioni che sole, oltre alle punture, esercitate: e se a questo fine solo, perché almeno non lasciare star me ancora coperto dalla maschera sotto la quale voi medesimo affermate che io ero comparito in piazza? e perché, appiattando voi, esclamare al popolo: Avvertite che questo, con chi i' gareggio, è Galileo Galilei, mascherato da Mario Guiducci? Questo scoprir la faccia ad altri si chiama sfacciatezza e temerità, ma non conosciuta da voi, perché vi ci sete troppo abituato, ef ab assuetis etc. 867 22) Che uno provocato da un altro gli risponda con qualche acerbità mag- giore, è cosa consueta e permessa; ma che altri si ponga a incaricare uno che mai non parlò di lui, né forse seppe ch’ e’ fusse al mondo, questo è bene man- camento grande e che eccede tutti i termini di modestia. Il Saggiatore risponde alla Libra, sendo prima stato aggravato da lei; ma da chi fu provocata la Libra a offendere il Saggiatore, il cui autore né pure aveva aperto bocca, né anco pensato all’autor della Libra? Volete dunque farvi lecito voi di metter il nome e la persona mia in campo, che mai non fiatai di voi, per sfogar sopra di me lo sdegno causatovi da un altro, e non volete ch’io mi risenta? 25) Che "1 firmamento si muova lentamente in pracedentia, è notissimo, si che or mai dalle antichissime osservazioni in qua le stelle fisse abbino trascorso quasi un intero segno: con tutto ciò i segni assegnati per domicilii a i 7 pianeti sono ‘li antichissimi e ritengono pur gl’istessi nomi, ancor che le costellazioni dalle quali furono prima denominati, sieno trascorse avanti, tanto che dove prima abitava, v. g., il Leone, ora vi stanzia il Cancro, etc.; e queste antiche case son talmente compartite tra i pianeti, che mai si troverà appresso gli astronomi che si abbia rispetto alcuno alle costellazioni; e voi solo sete quello che volete che egualmente si possa dire, un pianeta essere in Cancro ed in Leone, in Libra e nello Scorpione, etc. Ed io vi ringrazio di questa dottrina: in ricompensa della quale voglio pur dirvi, che molto migliore scusa era per voi, nel presente caso, il dire che le costellazioni del zodiaco sono veramente 11, e non 12; delle quali lo Scorpione, come grandissimo, occupa 2 case, e che la Libra non è altro che le due bocche dello Scorpione. 26) Tutto questo discorso è fuor di tutti i propositi, gettato via, e non serve se non per nuocere alla causa vostra. Il Saggiatore vi cita tre luoghi (che son poi tutti quelli dove il vostro Maestro ripone il nascimento della cometa), dove sempre vien nominato lo Scorpione, e non mai la Libra; anzi, per assi- curar il lettore che egli in modo nissuno intende ch’ e’ sia o possa esser la Libra, scrive cosi: Fuerit hoc sane, cum in Scorpio, hoc est in Martis precipua domo, natus sit. Ora, se la cometa nacque nella principal casa di Marte, cioè in quella parte del cielo dove Marte si rende più vigoroso potente e felice, come vorrete, senza una manifestissima contradizzione, assegnarli anco la Libra, che è l’esilio, l’infortunio, e ’1 massimo detrimento del medesimo Marte? In vano dunque, Sig. Sarsi, fate questa lunga sbracciata per dimostrarvi (ma solo appresso la moltitudine de i semplici) astronomo assai sopra di me eminente, col produr cose tritissime anco a i principianti dell’arte; ma bisogna che con- fessiate come, per dare oncino al vostro scherzo (ancor che non molto acuto), non vi sete curato di contradire a voi medesimo: e se voi vi sete preso tal li- cenza, ben poteva esser molto pit lecito a me far luogo allo scherzo mio, ca- vandolo da voi medesimo, senza punto alterare, non che senza contradire alle cose scritte da voi. Tal che non io (come mi attribuite voi) sono il ciurmatore che, per vendere i miei bussoli, fo l’esperienza de’ morsi venenati sopra di me; ma ben sete voi il bagattelliero o prestigiatore, che volete cambiarci le carte in mano, etc. La rovina vostra è stata quel dire che ella comparve nello Scorpione, cioè nella casa principale di Marte, etc.: questo vi ha troncati tutti i puntelli da potervi pit sostenere, etc.; se già voi non trovate ripiego al dire, che l’affer- mare che ella comparse nella casa e nella regia dove Marte è potentissimo, sia il medesimo che dire che ella comparse nell’esilio e nella carcere dove Marte è abbietto, miserabile e infelicissimo, ché tale è per lui il segno di Libra. 36) Voi medesimo scrivete e confessate che non sapreste contradire a tutte le proposizioni dell’istesso eresiarca Calvino, che è l’istesso che dire che anco in Calvino sono dogmi non repugnanti alla nostra Fede, ed in conseguenza non 868 indegni d'essere anco da noi Catolici ammessi; dal che ne séguita che imme- ritamente verrebbe notato e gravato d’eresia quello del quale non costasse che egli ammettesse altro che alcuna delle dette proposizioni, da voi medesimo ricevute, e solo meriterebbe tal nota chi ricevesse le proposizioni di Calvino dannate e dichiarate eretiche da Santa Chiesa. Poco appresso spacciate me per Epicureo, con la giunta (per ben bene specificar la vostra intenzione) «il quale o totalmente negava Dio, o almeno la sua Provvidenza >; altrove mi fare se- guace di Telesio e di Cardano, con la dichiarazione, per chi non lo sapesse, che la loro filosofia e dottrina è parimente dannata. Le proposizioni poi per le quali voi volete registrarmi tra i Telesiani ed Epicurei, sono (per quel che dite voi stesso, ché io, per me, non ho mai fatto studio in tali autori) che la cometa è una pura apparenza e che il moto è causa di calore, intendendo che il moto sia in quella materia che ha da scaldare, e non in quella che deve essere scal- data, come intendono i Peripatetici. Adunque, se voi non volete confessare d’esser mosso da altro che da un puro zelo a darmi simili note, è forza che diciate di tenere veramente, sinceramente e internamente, che l’affermare che la cometa è un puro simulacro, e che il moto nel riscaldante è causa di calore, sieno due proposizioni empie e dannande, come il negar la Provvidenza divina o l’istesso Iddio. Ah, che dovreste vergognarvi! E sotto qual maschera volete nasconder la vostra arrabbiata malignità? 56) Non avrei mai detto in questa maniera, cioè che ’l telescopio ci inganni nel farci veder gli oggetti più grandi di quello che ci mostra l’occhio libero; ma detto avrei solamente che ei ce li mostra tali nella distanza, v. g., di 1000 braccia, quali l’occhio libero ce le rappresenta nella distanza di 50; si che se l’occhio libero ci mostra le cose più giuste nella minor distanza che nella mag- giore, bisogna concludere che ’1 telescopio non solamente non è fallace, ma che è correttore delle fallacie dell’occhio libero. Qui è luogo di narrar 100 modi con i quali si chiariscono veramente i balordi accusatori di tale strumento. 58) Ah pezzo d’asinaccio, questo è il ringraziamento che tu mi fai dell’averti io tante volte cavato di errore? Tu da bufolaccio scrivesti semplicemente che la maggiore lontananza degli oggetti era causa di minore accrescimento, ed io ti insegno che non la lontananza dell’oggetto, ma lo scorciamento dello stru- mento, era causa di minore accrescimento; ed ora, villan poltrone, tu lo vuoi insegnare a me. 72) È possibile che voi siate tanto bue, che non intendiate come può be- nissimo essere che la polvere, il fumo, i fiati degli uomini e de’ cavalli, sollevati da 2 eserciti che in un perturbatissimo e tumultuosissimo conflitto sieno alle mani, dopo aver essi ancora, mentre erano vicini a terra, tumultuato, possino unitamente e placidamente salire in alto? Di più, che viaggio abbia fatto la materia della cometa, non si è osservato mentre era bassa, ma quando già era altissima e splendeva. 74) Non è vero che le stelle sparischino nell’aurora. Sparisce la capellatura (e questa risplende meno), e non il disco della stella: il che è manifesto, perché, secondo che l’aria si va schiarendo, la stella si mostra minore. Spariscono le stelle nell’aurora per la piccolezza, e non perché sieno men lucide: e che ciò sia, non solo nell’aurora, ma per tutto ’1 giorno si veggono riguardandole col telescopio, che l’ingrandisce; e Venere stessa si vede tal volta di mezo giorno, con l'occhio libero, più lucida dell'ambiente. Ma la cometa, essendo grandis- sima, non può sparir per altro se non perché sia superata, o vero pareggiata, la sua luce da quella dell’aurora. 869 75) È sicuramente a noi più lucida; già che al lume di una sola piccolissima candeletta leggerò lettere, che tutte le stelle del cielo e dieci volte altrettante non mi renderebbon lume a bastanza. 76) Mette il denso e l’opaco come condizioni che vadino in conseguenza l'una dall’altra: e cosî la cera sarà pit densa del diamante. In oltre, ei rac- coglie il non trasmettere il lume dalla densità, che è falso; perché il vetro è denso, e pur trasmette il lume. 77) Voi dite grandi spropositi. Voi sete sul voler provare come il mezzo più lucido non deve occultar un oggetto men lucido, e che la cometa, se fusse men lucida dell'aurora, pur come tale dovrebbe vedersi; ché come tali si veg- gono le macchie del Sole e della Luna. E prima, fuori del caso è il dire: <I pianeti si veggono tutto ’l giorno, né può l’ambiente intermedio occultargli »; e questo è uno sproposito, perché questi si veggono come più lucidi del mezo, e noi trattiamo del vedersi i pit oscuri. Le macchie del Sole hanno il campo lucido dopo di loro, e non è il mezo lucido tra esse e l’occhio. Le macchie della Luna, che sapete voi che non venghino offuscate e totalmente celate dal mezo, che forse è pit lucido di loro? forse perché le vedete? ed io vi dico che può essere che il mezo sia più luminoso di loro, e che come tale ce le occulti, e che ad ogni modo noi le vegghiamo, ma in virti delle parti più lucide della medesima Luna, in relazione alle quali le men lucide si distinguono: levate le lucide e lasciate le fosche solamente e se allora si vedranno, potrete dire che ’l mezo non le occulta. Ma però questo sarebbe senza vostro profitto; perché io subito vi direi che si veggono perché sono veramente pit lucide del mezo am- biente. Il Sarsi ha creduto che il mezo possa egualmente occultare o lasciar visibili gli oggetti, tanto i men lucidi quanto i più lucidi di sé: il che è falso; e per cavarlo di errore gl’insegno (ben che a persona ingratissima) il modo da chiarirsi, come gli oggetti piti oscuri, e non i più chiari, possono restare offu- scati. Osservi una mattina avanti giorno la Luna, quando sia sottilmente fal- cata; vedrà il resto del suo disco assai lucido, per lo splendore contribuitogli dalla Terra: séguiti di osservare mentre l’aurora comincerà a schiarirsi; vedrà, nell’illuminarsi il mezo, abbacinarsi il detto disco lunare (che pure in sé stesso continua nell’istessa chiarezza, e pit tosto realmente l’accresce), sin che l’albore circunfuso si ridurrà puntualmente simile a quello, ed allora si perderà la vista di esso disco: e ben che l’ambiente séguiti di illuminarsi pit e più, ed in conseguenza a farsi assaissimo più chiaro del disco, non però vi si scorgerà egli mai più come più scuro, ancor che la falce apparente ci sia scorta a cer- carlo con la vista. Ma che? la Luna prossima a entrar sotto ’1 Sole non si vede, e, più, quella sola parte di lei che sia congiunta col Sole apparisce negrissima, e ’1 resto, che rimane fuori del disco solare, non si vede punto. Se il Sarsi avesse osservato non solo con gli occhi della fronte, ma con quelli della mente insieme (come egli dice di me), che i pittori nel dipigner paesi, di mano in mano che vogliono imitare le montagne più lontane, le fanno simili al colore del- l’ambiente, si che le lontanissime si accennano appena distinte dal mezo, arebbe imparato come il mezo diafano, secondo che pit e pit si profonda, più e più tigne gli oggetti opposti del suo colore, e cosi i monti lontani doventano azzurri e chiari, ben che realmente sieno cosî oscuri come i vicinissimi; ed arebbe inteso che l’azzurro del cielo non è altro che il color dell’aria vaporosa intermedia, etc. 78) Ma la cometa è una mole incomparabilmente maggiore di Giove o Ve- nere veduti col telescopio; adunque non per la piccolezza si perde. 82) Solennissima bestia! quasi che il medesimo sia dire, che per formare il capo della cometa non è necessario la superficie tersa, che il dire che nella superficie tersa non si può formare il capo della cometa. 870 83) Memineris tu quod hoc in loco scribis, maferiam comete densiorem esse dicendam materia planetarum: ergo, Sarsi, existimas planetas ex materia non densiori quam sit nubium vaporum ac exalationum materia. 86) Voi sete adietro un pezzo. Siano quanti si vogliano eccentrici, ed’ anco quanto si voglino corpi irregolari; quando siano della medesima materia e contenuti l'uno dentro l’altro, non rifrangono: e cosi un pezo di diaccio sre- golatissimo, immerso nell’acqua, non altera punto le figure de i corpi posti nel fondo del vaso. Bisogna dunque che voi introduchiate che gli eccentrici e gli epicicli siano di altra materia del resto del cielo; cosa alla quale non avete pensato. 90) Or sia come vi piace, e concedavisi che voi domandassi di sapere come ciò poteva essere, confessando intanto di non lo sapere; e ringraziatemi almeno dell’avervi io cavato d’ignoranza con tanta agevolezza, come ho fatto. 91) Ma, ser balordissimo, se voi avevi compreso che la posizione scritta da voi non faceva a proposito, ma si ben la taciuta, perché tacer questa e scriver quella? Ecco delle vostre solite ingratitudini: io vi addito la vostra buassaggine, e voi, in cambio di ringraziarmene, dite che ve lo sapevi prima. 93) È gran fastidio l’avere a sbalordire balordi. Il dire < La state è caldo per l'accostamento del Sole » è usitato, mentre per tale accostamento s'intende l’alzamento sopra l’orizonte verso il nostro vertice. Ma è anco vero e più propriamente detto: « Il Sole la state si allontana da noi, e ’l verno si avvicina », perché il verno, venendo verso 'l perigeo, veramente si avvicina, e la state, andando verso l’apogeo, veramente si allontana. Ora, essendo vera l’una e l’altra proposizione, « Il Sole » cioè «la state si accosta >, ed « Il Sole la state si discosta da noi », è necessario addurre or l’una ed or l’altra, secondo il proposito di cui si parla. Ma parlandosi di un vero proprio e reale avvicina- mento di qualche oggetto, che veramente si avvicini a noi, si che l’intervallo tra esso e noi si faccia minore, grande sproposito è il dire che il Sole ancora fa l’'istesso la state, perché si alza verso il nostro vertice, e sarebbe bene a proposito il dire che il Sole la state fa il contrario, perché veramente si discosta da noi. Imparate dunque a parlare, ignorante. 95) Non si potendo liberar in maniera veruna dalla mia instanza, è teme- rariamente andato a ritrovar la diversità della materia, della quale: ei non disse mai cosa veruna; ma tal sua fuga è non solamente mendicata con bugie, ma spropositatamente introdotta, e che pit tosto lo disaiuta che favorisca. Aveva nella sua dimostrazione bisogno, per concludere il suo intento, che la superficie nella quale si doveva formar l’iride fosse una e piana; ed ora dice che l’imagine del Sole nel mare non si fa, come l’iride, in arco, perché la superficie dell’acqua è una e piana, ma quella dove si fa l’iride non è tale, ma è profonda e discontinuata, etc. 96) Questo pover’uomo deve chiamare i semidiametri linee curve e. circo- lari, perché terminano nella circonferenza del cerchio. 97) Temerario bestiuolo! E quando ho io mai detto che per formar l’iride si ricerchi tal superficie piana? Io, per emendar la vostra monca dimostrazione, dissi che vi manca il dato, cié è la determinazione della superficie dove si ha da formar la cometa; la qual superficie (se volete concluder nulla) bisogna che supponghiate che sia piana ed eretta al raggio visuale, altramente il vostro angolo A non la segnerà se non in un punto solo. 871 101) Ma se tu dal detto del Sig. Mario raccogli, che quando la cometa non avessi altro movimento che il retto etc., bisognerebbe attribuirgliene un altro, perché poi ci vuoi addossare il moto della Terra? non vedi che questo non verrebbe attribuito alla cometa? 102) Io chiamo la vostra dimostrazione puerile, perché la conclusione è tanto nota, che non ci è bisogno di dimostrazione; né voi la mettete come che io non l'abbia saputa: ma quello che dico io nel luogo da voi citato è ben cosa tritissima, ma ignorata da voi, ed io la scrivo per vostro documento. 105) * I maestri delle prime bozze non ha sentito; e voi, solita fide, gli traducete magistri astronomiz. 109) L’insegnare a persone grate sarebbe veramente gran gusto; ma °1 levar d’ignoranza uomini sconoscenti è veramente una pena: tuttavia insegniamo a costui cose da esso non avvertite o sapute. 112) * A dire delle scioccherie non si suda né si affatica. Ed i pari vostri vi s'ingrassano. 113) Questo è un grande sproposito, mentre che noi parliamo delle figure, introdurre il cielo e la Terra. La sfera, il cubo, la piramide etc. sono egual- mente eterne ed innanzi alla creazione del cielo e della Terra, e però, quanto a questo capo, egualmente nobili. 114) Per difetto di geometria, non si accorge il Sarsi di pronunziar 2 cose repugnanti e tra di loro distruggentesi, mentre vuol cavar la nobiltà una volta dalla simplicità, e un’altra dalla capacità. Imperò che se ‘l cerchio è nobile perché è contenuto da una sola linea, dove l’altre figure son contenute da molte, adunque il triangolo sarà più nobile del quadrato, del pentagono etc.; ma se le figure son più nobili secondo che son contenute da manco linee, bisogna dire che le men capaci sien pit nobili delle più capaci, perché quelle di manco lati son men capaci di quelle di pit. Inoltre, la Terra, la Luna, e tutti gli altri pianeti, saranno, quanto alla figura, ignobilissimi, essendo la loro sfericità mirabilmente guasta dalle loro asprezze, etc. 115) Anzi et piscibus et mari assignatur communis causa squamositatis, nempe nobilitas, qua maior est in piscibus quam in mari; ac omnino similiter in planetis et celo communis causa asperitatis est ignobilitas maior, seu nobilitas minor, in celo quam in planetis: unde igitur ista tua disparitas rationis? 116) Se quel che è più semplice è ancora pit nobile, bisogna dire che i pesci sien piti semplici dell’acqua, che pure è uno de i 4 corpi a i quali si attribuisce più che a tutti gli altri la semplicità. Inoltre, quest'uomo 0 si è imbrogliato o vuole imbrogliar noi in queste logicali distinzioni, mentre dice di argomentare a minori ad maius, ed io a maiori ad minus. Ma egli, o. per inavvertenza o per malizia, scambia il suo primo argomento in un altro, per fare apparire il mio contrario al suo: e dove di sopra egli argumentava così: < I pianeti, più nobili de’ cieli, sono di figura aspera; e però al cielo, men nobile, si conviene assegnare tal asprezza », ora dice d'aver argumentato cosi: «Se ’l cielo è rotondo e liscio, che pure è veicolo de i pianeti, quanto si ricercherà tal pulitezza ne i pianeti, che di quello si servono per veicolo, e per cié son più nobili? ». Ma dite cosî senza inganno: «I pianeti, più nobili del cielo, perché si servono di lui per veicolo e abitazione, sono scabrosi e aspri; adunque molto pit al cielo, men nobile, si converrà tale asprezza >» (e così argomen- terete a maiori ad minus); ed io dicendo su le medesime pedate: < I pesci, più 872 nobili dell’acqua, perché è lor veicolo e abitazione, sono squamosi; adunque l'acqua, men nobile, doverà pur essere squamosa », ed argomenterò io an- cora come voi. E cosi il Sarsi, e non il Galileo, sarà il ridicoloso. Teme- rità somma! 117) Gran differenzia è tra l’essere e ‘1 parere. Non conspiciuntur, per vostra intelligenza, non vuol dire appresso i latini non sono, ma non si veggono; e nel presente caso io dissi che col telescopio non si scorgevano le stelle fisse terminate in cerchio, ma radianti, come con l’occhio libero: il che accadeva allora per l’imperfezzione dello strumento; ma avendolo, col progresso del tempo, ridotto a perfezzion maggiore, si è poi scorto distintamente il lor disco rotondissimo. 118) Dicesi si famen, perché, non l’avendo io riguardate tutte, non ero, né ancor sono, sicuro che tutte sien rotonde: e giusta causa di dubitare mi ha dato Saturno. 119) Ne” corpi durissimi e gravissimi, mentre sieno sospesi e librati, in più lungo tempo si fa l’impressione del moto che ne i liquidi, ma non pit difficil- mente, perché ogni minima forza dell'ambiente, continuando di far impeto, gl'imprimeràa moto eguale al suo: ma il motore solido non imprimerà mai al mobile liquido la sua velocità fuori che a piccola parte e vicina, per esser le parti sue non coerenti, etc. E che lungo tempo si ricerchi per far l’impressione ne i corpi duri e gravissimi, ancor che non abbiano resistenza a quel moto, è manifesto in una barca carica e gravissima, chie, legata in un fiume cor- rentissimo, sciolta poi la corda, non piglia il corso se non dopo lungo tempo. Ma che pid? una pietra gravissima, scendendo naturalmente al basso, è tar- dissima nel principio, e non riceve l’impeto grande se non dopo lungo tempo, anzi fa gran resistenza a chi volesse sul principio cacciarla con velocità grande, ben che in gii: e chi sospendesse un gran sasso con corde che appena lo sostenessero, sf che ogni minima giunta di peso le strappassero, percotendovi poi sopra con un gravissimo martello, prima spezzerebbe la pietra che cacciarla impetuosamente a basso; e pure col progresso del tempo acquista per sè stessa velocità maggiore assai che quella con la quale il martello la percosse ed alla quale ella contrastò come se fusse posata sul terren duro. Argomento di quanto dico è il vedere come una grandissima pietra posta sul corpo d'uomo diacente supino si spezzerà con le percosse di un gravissimo martello senza offesa del sottoposto uomo. Non ha mai pensato il Sarsi, quel che sia necessario fare al mobile partendosi dalla quiete. 123) Puossi trovar temerità maggior di questa? Io dico che l’acqua non aderescit alla nave, ma la va strisciando senza restar niuna parte d’acqua attaccata alla nave; segno di che ne è che anco il sevo con che ella si spalma (ed il Sarsi dice, la pece) vien portato via dallo strisciar dell’acqua, il che non avverrebbe se l’acqua aderissi fermamente al sevo. Qui si può trascriver quello ch'io ho detto, ed appresso l’impostura del Sarsi, il quale ad arte non ha seguitato di portar le mie parole. 124) Ah furbo! tu simuli di non aver veduto l’indice degli errori, che pur operai che ti fusse consegnato; e tu stesso di sopra confessi d’averlo veduto, dicendo che era non so quante faccie, etc. 152) Impropriissimamente si dice, Motus est causa caloris; il che è mani- festo, perché con altrettanta verità si può dire che motus sit causa frigoris. L'acqua calda commossa si raffredda, l’aria e ’1 vento mossi si raffreddano. 873 134) Avvertasi che mi par che e’ dica d’essersi accorto e sapere che alcuni corpi possono diminuirsi in parte e crescer di peso, etc. Ma se voi sapevi ciò poter essere, perché, per vedere se il rame battuto sciemava, vi servivi del pesarlo in bilancia? non vedete voi che tale esperienza era fallace? 135) Ma, ser balordissimo, se tu avevi saputo prima, e te ne ricordavi, cioè che poteva esser che alcuna materia sciemasse di mole e crescesse di peso, non vedi tu ora quanto sei stato ignorante, mentre hai asseverantemente scritto che il rame battuto non sciema di mole, poi che per esperienza l’hai trovato non sciemare di peso? Tanto è peggio per voi, poi che, avendolo saputo, non ve ne sete saputo servire, ma senza distinzione alcuna avete affermato, non intendere come con altro che col vedere alla bilancia un corpo pesar meno che prima, si possa comprender che di lui sia scemato qualche parte. 136) Quanto questo poveraccio sia lontano dall’intender quello che vor- rebbe persuader d’aver saputo avanti di me, comprendasi da quello che scrive adesso; mentre, in cambio dire che il restare nella percussion del ferro sempre il peso medesimo, non è argomento necessario del nulla consu- marsi di esso, potendo essere che da esso si separasse alcuna cosa più leggiera in specie del mezo nel quale si pesa il ferro, dice più leggiera in specie di esso ferro. Vuol questo temerario persuadere di aver saputa ed avvertita una cosa innanzi a me, la quale egli non intende dopo che io gliel'ho più che chiaramente dichiarata. 137) Nel rompersi la lastra in 2 parti, vola il fumo o esalazione, ma invisibile, perché non ha la sottil polvere da portar seco, per la quale si fa visibile: e cosi il vento si fa visibile per la polvere sollevata; e la polvere non si solleva se non portata dall’aria commossa, ma nell’aria quieta descende. 142) Ingegnoso trapasso dal fuoco all’aria: il fuoco cacciato dall'aria abbrucia più; adunque l’aria infocata, mossa velocemente, abbrucia. Ma io farò per un foro più angusto passar l’aria assai più velocemente; e quanto più veloce sarà, tanto più rinfrescherà. 154) Aér meridianus perspicuus est, et stella non videntur ob parvitatem, non ratione opacitatis: patet id dum Venus interdiu apparet, mole quidem admodum exigua. Conspiciuntur autem stelle per telescopium, quia species ipsarum longe augentur. L’aria meridiana è sempre perspicua; e Giove non si vede con l'occhio libero per la sua piccolezza, ma ingrandito dal telescopio si vede. A pag. 829, riga 14, invece di ipsam si deve leggere ipsa. 874 INDICE DELL’EDIZIONE NAZIONALE Per comodità degli studiosi, pubblichiamo l’Indice dell’Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, diretta da Antonio Favaro, Firenze, Tip. Bar- bera, 1890-1909. Aggiungiamo tra parentesi le date in cui gli scritti sono stati composti o pubblicati per la prima volta. VOLUME PRIMO. Iuvenilia (1584). Theoremata circa centrum gravitatis solidorum (1585). La Bilancetta (1586). Tavola delle proporzioni delle gravità in specie, de i metalli e delle gioie pesate in aria e in acqua. Postille ai libri de sphaera et cylindro di Archimede. De motu. VOLUME SECONDO. Breve instruzione all'architettura militare (1592-93). Trattato di fortificazione. Le Mecaniche. Lettera a Jacopo Mazzoni (30 mag- gio 1597). Trattato della sfera ovvero Cosmografia. De motu accelerato (1604). l’rammento di lezioni e di studi sulla nuova stella dell’ottobre 1604 (dicem- bre 1604). Considerazione astronomica circa la stella nova dell’anno 1601 di Baldessar Capra; con postille di Galileo. Dialogo di Cecco di Ronchitti da Bruzene in proposito de la stella nuova (1605). Del compasso geometrico .e militare: saggio delle scritture antecedenti alla stampa. Le operazioni del compasso geometrico e militare (1606). Usus et fabrica circini cujusdam pro- portionis, opera et studio Balthasaris Capra; con postille di Galileo (1607). Difesa contro alle calunnie et imposture di Baldessar Capra (1607). Le mate- matiche nell'arte militare. VOLUME TERZO. Parte prima. Abbozzo del Sidereus Nuncius-(fac-simile). Sidereus Nuncius (marzo 1610). Joannis Kepleri Dissertatio cum Nuncio sidereo (1610). Martini Horky Brevissima peregrinatio contra Nuncium sidereum (1610). Quatuor problematum contra Nuncium sidereum confutatio per Joannem Wodderbonium (1610). Joannis Kepleri Narratio de observatis a se quatuor Jovis satellitibus (1611). Joannis Antonii Roffeni epistola apologetica contra Peregrinationem Martini Horkii (1611). Dianoia astronomica, optica, physica, auctore Francisco Sitio; con postille di Galileo (1611). Di Ludovico delle Co- lombe contro il moto della Terra; con postille di Galileo. Nuntius Sidereus Collegii Romani. De lunarium montium altitudine problema mathematicum. lulii Caesaris La Galla De phoenomenis in orbe luna novi telescopii usu nunc iteruin suscitatis; con postille di Galileo (1612). VOLUME TERZO. Parte seconda. 1 Pianeti medicei. Osservazioni (7 gen- naio 1610-23 febbraio 1613). Tavole dei moti medii (1611-1617). Giovilabii. Cal- coli del 1611. Prostaferesi (1612-1616). Calcoli del 1612. Comparazione con la prostaferesi (17 marzo-16 luglio 1612). Calcoli del 1613. Comparazioni retro- spettive. Osservazioni e calcoli del 1613. Osservazioni e calcoli del 1614. Osser- vazioni e calcoli del 1615. Osservazioni e calcoli del 1616. Calcoli del 1616 e 1617. Osservazioni e calcoli del 1617. Osservazioni e calcoli del 1618. Osser- vazioni e calcoli del 1619. Frammenti di calcoli delle Medicee. Observationes Jesuitarum (28 novembre 1610-6 aprile 1611). Theorica speculi concavi spherrici. Analecta astronomica. VOLUME QUARTO. Diversi fragmenti attenenti al trattato delle cose che stanno in su l’acqua. Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (1612). Considerazioni di Accademico Incognito; con postille e frammenti della risposta di Galileo (1612). Errori di Giorgio Coresio nella sua operetta del galleggiare della figura raccolti da D. Benedetto 875 Castelli, con correzioni ed aggiunte di Galileo. Lettera di Tolomeo Nozzolini a Monsignor Marzimedici Arcivescovo di Firenze (22 settembre 1612). Lettera a Tolomeo Nozzolini (gennaio 1615). Discorso apologetico di Lodovico delle Colombe (1612). Considerazioni di Vincenzo di Grazia (1613). Frammenti atte- nenti alla scrittura in risposta a Lodovico delle Colombe e Vincenzo di Grazia. Risposta alle opposizioni di Lodovico delle Colombe e di Vincenzo di Grazia contro al trattato delle cose che stanno su l’acqua o che in quella si muo- vono (1615). VOLUME QUINTO. Apellis latentis post tabulam tres epistole de maculis solaribus (1612). Apellis latentis post tabulam de maculis solaribus et stellis circa Jovem errantibus accuratior disquisitio; con postille di Galilco (1012). Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, comprese in tre lettere scritte a Marco Velseri (1613). Frammenti attenenti alle lettere sulle macchie solari. Lettera a D. Benedetto Castelli (21 dicembre 1613). Lettere a Mons. Piero Dini (16 febbraio e 23 marzo 1615). Lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (1615). |Per una svista del correttore, nell’indice del primo volume della nostra edizione è stato scritto Savoia invece di Lorena]. Considerazioni circa l'opinione copernicana. Discorso del flusso e riflusso del mare (8 gennaio 1016). Francisci Ingoli De situ et quiete terra disputatio (1616). Proposte per la determinazione della longitudine (1612-1616). VOLUME SESTO. De tribus cometis anni M.DC.XVIII disputatio astro- nomica publice habita in Collegio Romano Societatis Jesu ab uno ex patribus eiusdem Societatis (1619). Discorso delle Comete, con alcuni frammenti ad esso attinenti (1619). Lotharii Sarsii Sigensani [|Horatii Grassi Salonensis] Libra astronomica ac philosophica (1619), con postille di Galileo. Lettera di Mario Guiducci al M. R. P. Tarquinio Galluzzi, della Compagnia di Giestii, nella quale si giustifica dell’imputazioni dategli da Lottario Sarsi Sigensano nella Libra astronomica e filosofica (20 ‘giugno 1620). Il Saggiatore (1623). Lotharii Sarsii Sigensani Ratio ponderum libra et simbella (1626), con postille di Ga- lileo. Lettera a Francesco Ingoli in risposta alla Disputatio de situ et quiete Terre (1624). Scritture concernenti il quesito in proposito della stima di un cavallo (1627). Scritture attenenti all’idraulica (1651). VOLUME SETTIMO. Dialogo dei Massimi Sistemi (1632). Frammenti atte- nenti al Dialogo dei Massimi Sistemi (1632). Dal libro di G. B. Morin (1632). Famosi et antiqui problematis de Telluris motu pel quiete hactenus optata solutio (1631), con postille di Galileo. Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocco (1633); con postille di Galileo. VOLUME OTTAVO. Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638) [In questo volume non è pubblicata l’Appendix alla giornata quarta, che è invece pubblicata nel vol. I, pagg. 187-208, per ragioni di cronologia: si tratta infatti di lavoro giovanile di Galileo. Il lettore ha visto che noi invece abbiamo pubblicato questi teoremi sul centro di gravità dei solidi, come nell'edizione di Leida, alla fine della quarta giornata). Principio di giornata aggiunta (giornata sesta) (1641-42). Sopra le definizioni delle proporzioni di Fuclide (1641-42). Principio di giornata aggiunta (giornata quinta) (1641-42). Frammenti attenenti ai Dialoghi delle Nuove Scienze. Le operazioni astronomiche (1637-38). Capitolo L° del Litheosphorus di Fortunio Liceti (1640). Lettera al Principe Leopoldo di Toscana sul candore lunare (1640). Frammenti attenenti alla Lettera al Principe Leopoldo. Scritture e frammenti di data incerta: Intorno agli effetti degl’istrumenti meccanici. A proposito di una macchina con gravissimo pendolo adattato ad una leva. A proposito di una macchina per pestare. Di alcuni effetti del contatto e della confricazione. Sopra 876 le scoperte de i dadi. Intorno la cagione del rappresentarsi al senso fredda o calda la medesima acqua a chi vi entra asciutto o bagnato. Problemi. Fram- menti di data incerta. VOLUME NONO. Scritti letterari. Due lezioni all'Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell'Inferno di Dante (1592). Considerazioni al Tasso (prima del 1614). Postille all’Ariosto. Argomento e traccia di una commedia. Poesie e frammenti. Appendice prima: Canzone di Andrea Salva- dori per le stelle medicee, scritta e corretta di propria mano da Galileo (1610, ristampata nel 1668). Appendice seconda: Saggio d’alcune esercitazioni scola- stiche di Galileo. VOLUME DECIMO. Carteggio 1574-1610. VOLUME UNDICESIMO. Carteggio 1611-1613. VOLUME DODICESIMO. Carteggio 1614-1619. VOLUME TREDICESIMO. Carteggio 1620-1628. VOLUME QUATTORDICESIMO. Carteggio 1629-1632. VOLUME QUINDICESIMO. Carteggio 1633. VOLUME SEDICESIMO. Carteggio 1634-1636. VOLUME DICIASSETTESIMO. Carteggio 1637-1038. VOLUME DICIOTTESIMO. Carteggio 1639-1642. Supplemento. Indice ge- nerale cronologico. Indice generale alfabetico. VOLUME DICIANNOVESIMO. Documenti. Narrazioni biografiche dei con- temporanei: Dalla Cronaca di Antonio Priuli (21-25 agosto 1609). Dal Diario del viaggio di Giovanni l'arde in Italia (novembre-dicembre 1614). Notizie rac- colte da Vincenzo Galilei. Racconto istorico di Vincenzo Viviani (29 aprile 1654). Vita scritta da Niccolò Gherardini (1654). Lettera di Vincenzo Viviani al Principe Leopoldo de’ Medici intorno all'applicazione del pendolo all’orologio (29 agosto 1059). VOLUME VENTESIMO. Indici. Indice dei volumi. Indice dei fac-simili. Indice dei nomi e delle cose notabili. Indice biografico. Supplemento al Carteggio. Supplemento ai Documenti. Nel 1929 si è iniziata, presso la Casa Barbera di Firenze, la ristampa dell’Edizione Nazionale, fino al settimo volume sotto la direzione di Antonio Garbasso e successivamente sotto la direzione di Giorgio Abetti. È già uscito il 18° volume e il 19° è imminente. Alcuni dei volumi (il 29, il 3°, il 5°, il 6°, 1’ 8°, il 9°, il 20°) hanno delle nuove appendici. In appendice al secondo volume è stata pubblicata la scrittura di Lodovico Settala contro l'ammissione di Baldas- sarre Capra nel Collegio dei Medici di Milano. Nel testo del volume sono state fatte correzioni ed aggiunte. Tra l’altre è stata modificata la figura a p. 161 del- l’Edizione nazionale (p. 617 della nostra edizione, vol. I) come qui a lato: L’Appendice più ampia è quel- la contenuta nella parte se- conda del volume terzo: va da p. 887 887 a p. 1054 e contiene un Avvertimento, passi della Dioctrice di Klepero e del De luce et lumine di G. C. La- galla, frammenti di Medicee e di Astronomia di Galileo e 03- servazioni e calcoli di Vincenzo M GITHSSROPN: B 877 Renieri. Nel quinto volume son riprodotti sette disegni di macchie solari (dal 18 al 25 agosto 1612), eseguiti probabilmente dal Cigoli; nel sesto ci sono delle po- stille di Galileo al Discorso delle Comete, aggiunte alle postille di Mario Guiducci alla Ratio ponderum e la riproduzione del frontespizio, della prefazione e di sette proposizioni del Mundus Jovialis di Simon Mario, utili all’intelligenza degli accenni di Galileo al principio del Saggiatore; nell’ottavo volume sono ripro- dotte una proposizione matematica di Galileo, le prime proposizioni sulle Spirali di Archimede, in una traduzione di Mario Guiducci, ma probabilmente ispirata se non dettata da Galileo, e otto facsimili, tratti dai manoscritti galileiani della Nazionale di Firenze, che modificano o completano i frammenti delle Nuove Scienze. Particolarmente importanti quelli sul piano inclinato e sulla catenella o catenaria. "a iu: deg anse Re NI iva Ma 1008 A HI LA PICENO ZA NZAIICA dn ba | ALINA UE VEST ME ky PRA isa D: | h } : (agata - ton 1060 il CI tal Aa): I Di Ke TRES Dialogo delle:Nuove Scienze... .............. pag. 75 RnS EO rn RARE e n aa 85 MRS CONTANTE MO n 203 PI AA AG RE ace e dt i RR i e n 247 Lola Gioi Lea VABBE 339 Della forza della percossa [Giornata sesta]... ..... 420 Sopra le definizioni delle proporzioni di Euclide [Gior- iero ini le Le RITRAE o: 451 Frammenti attenenti ai Dialoghi delle Nuove Scienze .. 471 li CRU ea SORATTE 567 - i sit LO ni gi Ù fee NY de "ade d o na 1 pe oi 4 TAVOLE Malratio ‘isecentescovdi’ Galileo»... eu... al frontespizio Frontespizio dei « Discorsi e dimostrazioni matematiche IMOriogazdue,Muoverscienze > ni... .L... a pag. 96 Stefano della Bella: Disegno per l’edizione bolognese delle gncrezdaGaltico eee... 160 Il compasso geometrico di Galileo . ............... 232 Ubi Le ARE 296 ipigcalaroltasnaturaleidi Galileo ee n 376 if oniespizionidelke Saspiatore DINO, ia 448 rio COLA eo i AN E E RR IPO 576 Panorama del «Gioiello » e del convento di San Matteo SIMEA COGLI o 640 Giuseppe Calendi: Galileo Galilei... .............. 704 Dalla canzone per le Stelle Medicee . ;............. 765 Monumento a Galileo in Santa Croce... ........... 828 SENT PR) SITI gl. ea, i Ù ti - ; n 13 04 <P ZAN wi ti Il n Le sl 4 pe , Ie o » L° 4 / Ù tp da +; # DA A PAC a e NI {9 i I i F À a) ? i x e dici [patita : MIRI A diro, Ì it A f se si: ao? 1% 4 cali Fd ib rivi’ 18 ionriCE + “obi so dvilina sub 1a46 ontCL 50 ta; anbifas t): dito. cb dotti glio) jd ad siorttag PRAGEPA IA ad abi î L/ ollsict0$ ; ‘i “ gl sito: > inlita cslilao). { pa and bel 9 tati gf 9 SIMILI sasa ni: colin È gie AT fd Nea # stop SA a) I A SRI È ol MILL TATO | Ì CHI FVR LI MAGGIOR TVI CHI FVR LI MAGGIOR TVI

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