Sebastiano Timpanaro Scritti di storia e critica della scienza 1] www.liberliber.it Questo e-book è stato realizzato anche grazie al so- stegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia (pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!) www.e-text.it QUESTO Ra] -BOOK: TITOLO: Scritti di storia e critica della scienza AUTORE: Timpanaro, Sebastiano <1888-1949> TRADUTTORE: CURATORE: NOTE: CODICE ISBN E-BOOK: n. d. DIRITTI D'AUTORE: no LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze COPERTINA: n. d. TRATTO DA: Scritti di storia e critica della scienza / Seb. Timpanaro. - Firenze : Sansoni, stampa 1952. — 334 p. 8 23 cm. CODICE ISBN FONTE: n. d. la EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 giugno 2020 INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità standard 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima SOGGETTO: SCI080000 SCIENZA / Saggi DIGITALIZZAZIONE: Catia Righi, catia righi@tin.it REVISIONE: B G] IMPAGINAZIONE: Catia Righi, catia righi@tin.it PUBBLICAZIONE: Catia Righi, catia righi@tin.it aolo Alberti, paoloalberti@iol. it Liber Liber Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: www.liberliber.it/online/aiuta. Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione inte- grale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: www.liberliber.it. Indice generale Elber biberon alare 4 AVVERTENZA pedalare 9 INTRODUZIONE ALL’ANTOLOGIA «LEONARDO)........................... 15 UN’OPINIONE DI VICO.................. rei 28 LA SCIENZA COME ESPERIENZA ASSOLUTA.....36 LA SCIENZA E IL PENSIERO.................................... 43 SCIENZA E IDEALISMO................. 48 CONCREFEZZA:— arenile 53 IL CREDO DI RICHET:..--« Giura aaa 57 IL SENSO:EJIELIMITE:;pclcla lalla 61 IL LINGUAGGIO E LO STILE................. 68 PER LA STORIA DELLA SCIENZA... ll 77 LA CRISI E LA SCIENZA..............Mrrrrrereereneee 84 INTERMEZZO nella ile 92 L'EDIZIONE REALE DEI MANOSCRITTI VINCIANI................................ 99 bellici ateo 99 liceo ie iaia 103 PERE IERI 111 RARO RI II RE AAT A CERRI: 119 TUTTO-LEONARDOz:Lsco sie alclee 127 UN ERRORE D’INTERPRETAZIONE D’UNA PAGINA DI LEONARDO............................ 132 LEONARDO E GLI SPIRITI....................... 142 5 LASCIENZADEGALIEEO:;.. icaro 167 ELOGIO DI GALILEO):...s;:ciiiiiiiriri 176 EVANGELISTA TORRICELLI E LA PRESSIONE ATMOSFERICA......................... 193 LORENZO MAGALOTTI E LA SCIENZA............. 201 EUIGIGARNANI iene 211 IL TACCUINO DI GALVANI............... in 216 IL SEGRETO DI VOLTA enla 222 SADI CARNOT E IL PRINCIPIO DELL’EQUIVALENZA................. 227 GLORIA: DI PACINOTTL......uiariniiae 231 PACINOTTI E MALTEUCCI: srl 244 GALILEO FERRARIS E IL CAMPO ROTANTE....258 IL CENTENARIO DI CROOKES..................... 272 CROOKES:SPIRITISTA..siie 280 LASIGNORA-CURIE:sc sinora 288 AUGUSTO RIGHE: uil 293 DONAKLE:RIGHI: celata 301 RIGREEMARCONI: onnelollationionaralanai 308 GUGLIELMO MARCONI................. in 313 MARCONI E I SUOI PRECURSORT........................ 323 IL VALORE DELLA TEORIA DI EINSTEIN.......... 335 EAROSA elia aisi 344 RITORNO ALL’ESPERIENZA................. 353 DEBROGLIE:. siasi era sita 361 HESS E ANDERSON PREMI NOBEL..................... 368 L'UOMO: DEFLANGEVIN scorie 374 DALLA MATERIA L’ENERGIA?........... n 387 6 MATERIA ED ENERGIA.............. iii 393 CHE COS'È LA MATEMATICA?............... 399 LE INTERPRETAZIONI DELLA GEOMETRIA NON EUCLID licheni 405 LA SCIENZA DI GARBASSO............in 411 CORBINO: <del 426 RICORDO DI AUGUSTO MURRI........................... 431 L’ITALIA E LA SCIENZA... 447 UN’ANTOLOGIA DI PROSA SCIENTIFICA.......... 454 UN NUOVO ORIENTAMENTO DELLE SCIENZE FI- SICHE rca iaia 460 BARRICELLI SULL’IPPOGRIFO............................ 469 RIVENDICAZIONI A VUOTO....................... 478 RISPOSTA A FERRARIO............... i 485 L'ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE..................... 492 IL CONGRESSO DEI RABDOMANTI.................... 500 INDICE DEILNOMI:;.;/;p lia ta 509 SEB. TIMPANARO SCRITTI DI STORIA E CRITICA DELLA SCIENZA AVVERTENZA Gli scritti raccolti in questo volume, pur essendo stati composti in epoche e occasioni diverse, hanno un '’ispi- razione unitaria. Essi rappresentano un tentativo di su- perare il dissidio tra scienza e storicismo idealistico va- lorizzando la storia della scienza e vincendo quell osti- lità verso le scienze positive che nell’idealismo italiano, che pur si diceva storicista e antimetafisico, costituiva un residuo della vecchia metafisica e della vecchia edu- cazione retorica. L’autore nacque a Tortorici, in provincia di Messina, il 20 gennaio 1888. Studiò fisica all’Università di Na- poli e poi a quella di Bologna, dove ebbe per maestri Federigo Enriques, Luigi Donati, Giacomo Ciamician e, ammirato e amato da lui sopra ogni altro, Augusto Righi. Pur non essendo interventista, si batté con valore nella prima guerra mondiale; fu ferito e decorato di medaglia d’argento. Dopo la laurea, fu aiuto di fisica sperimentale a Parma fino al 1929; poi, per molti anni, insegnante di liceo a Firenze, infine, dal ’42 alla morte, direttore della «Domus Galilaeana» fondata a Pisa da Giovanni Gentile. Dal 1948 tenne anche la segreteria del Gruppo italiano di storia delle scienze. Mori a Pisa il 22 dicembre 1949. Fu antifascista e dopo la caduta del fascismo s’iscrisse al Partito socialista italiano. Fu radicalmente laico, con una coerenza e un’avversione a qualsiasi compromesso che i maestri dell’idealismo italiano non ebbero. In Galileo vide impersonato il suo ideale di scienziato filosofo e umanista, scopritore di un nuovo mondo e vittima dei difensori ciechi del vecchio mondo. In Augusto Righi e in Giovanni Gentile riconobbe i maestri che più direttamente avevano contribuito a for- mare il suo spirito, nonostante il netto dissenso che da Gentile lo divise sul terreno politico. Oltre che di scienza, s’interessò di letteratura e di arte. Fu appassionato collezionista di incisioni, quadri, disegni. Piuttosto alieno dal mondo ufficiale universita- rio, ricercò invece l’amicizia di letterati e artisti. Con molti di essi fu in grande dimestichezza, non da tutti fu interamente capito. Negli anni in cui fu aiuto a Parma, pubblicò alcuni lavori di fisica sperimentale. Ma, fin da giovanissimo, il suo interesse fu soprattutto rivolto alla storia della scienza, in cui egli vedeva il terreno d’incontro fra lo storicismo idealista e lo spirito scientifico. Per promuo- vere questo incontro egli fondò nel 1914 a Bologna un periodico, l’Arduo, insieme ad un suo amico gentile e devoto, Bruno Biancoli, anch'esso allievo di Righi. In- terrotto al principio del ’15 a causa della guerra, l’Arduo si pubblicò di nuovo, in forma più matura, dal °21 alla fine del ’23 (ma già nel ’20 era uscito un nume- ro unico dedicato ad Augusto Righi, nel trigesimo della 10 morte). «L’Arduo — scriveva più tardi il Timpanaro in un articolo in memoria di Bruno Biancoli! — s ‘intitolava cosí perché odiava il dilettantismo e la faciloneria e mi- rava alle cose ardue, senza tuttavia bandire nuove reli- gioni e nuovi futurismi: prometteva soltanto di esser se- rio e onesto. Era un periodico di scienza, filosofia e sto- ria che s’ispirava all’idealismo italiano». Tra i collabo- ratori vi furono Piero Gobetti, Guido De Ruggiero, Giu- seppe Lombardo Radice, Luigi Russo, Adriano Tilgher, Santino Caramella, Vito Fazio-Allmayer, Giuseppe Sait- ta (quest’ultimo fu anche per qualche tempo condiretto- re, ma rimase sostanzialmente estraneo allo spirito del- la rivista); e, per la parte scientifica, Orso Mario Cor- bino, Federigo Enriques, Beppo Levi, Giulio Krall. Il Timpanaro vi pubblicò, oltre a molte noterelle polemi- che e a scritti di carattere etico-politico, una serie di articoli sul Righi che costituiscono tuttora, noi credia- mo, il più importante contributo critico sul grande mae- stro. Anche dopo la fine dell’Arduo, egli continuò senza soste la sua attività per la storia della scienza. Pubblicò due antologie di classici scientifici, Leonardo e Galileo (Milano, Mondadori, 1925-’26), premettendo alla pri- ma un’importante introduzione teorica, qui ristampata (p. 7 sgg.°). Più tardi curò, per i «Classici Rizzoli», 1 L'Italia letteraria, 12 maggio 1929. 2 Questo e i successivi riferimenti ai numeri delle pagine si ri- feriscono all'edizione originale cartacea [nota per l'edizione elet- tronica Manuzio]. 11 un'edizione delle principali opere di Galileo in due vo- lumi (Milano, 1936-’38), con un profilo critico e una cronologia galileiana nel primo volume e un’ampia bio- grafia nel secondo. Ma la forma da lui prediletta fu l’articolo di giornale e di rivista. Specialmente ne L’Ambrosiano di Milano (uno dei giornali che, per la parte culturale, rimasero più a lungo relativamente im- muni dall'influenza fascista) egli pubblicò dal 1930 al 34 una rubrica fissa, le «Illuminazioni scientifiche». Il suo scopo non fu mai di fare della «volgarizzazione», cioè della scienza più o meno annacquata e romanzata ad uso del grosso pubblico, ma di interessare alla scien- za l’alta cultura italiana, e nello stesso tempo di intro- durre nella storia della scienza, ancora oscillante tra la raccolta di dati eruditi e la divagazione letteraria, uno spirito veramente storico. Contemporaneamente a lui, anche qualche altro, in campo idealistico, aveva sentito l’insufficienza delle teorie sulla scienza di Croce e Gentile. Un filosofo che è ancora ben lontano dall'avere il riconoscimento che merita, Giorgio Fano, in un saggio pubblicato nel 1911* criticò validamente la teoria nominalistica dello pseu- doconcetto e riconobbe nel concetto astratto della ma- tematica e nel concetto empirico delle scienze fisiche due momenti essenziali dello spirito teoretico. Poco 3 Ne L'Anima diretta da Amendola e Papini. Cfr. Seb. Timpa- naro, Scritti liberisti (Napoli, 1919), p. 78. Il Fano ha poi svilup- pato il suo pensiero in altre opere, di cui l’ultima e la più compiu- ta è La filosofia del Croce (Milano, 1946). 12 dopo Guido De Ruggiero, ne La scienza come esperien- za assoluta‘, sostenne l’identità di scienza e filosofia in senso gentiliano, ma con una coerenza che Gentile stes- so non raggiunse mai su questo punto. Più tardi la stes- sa tesi fu ripresa da Ugo Spirito in Scienza e filosofia (Firenze, 1933); anzi, è interessante notare che in una comunicazione al quinto congresso internazionale di fi- losofia (Napoli, 1924) ristampata a p. 211 di questo vo- lume il Timpanaro sosteneva, contro Ugo Spirito, la stessa tesi che di li a pochi anni lo Spirito fece propria. Tuttavia costoro, che erano filosofi e non scienziati, si limitavano ad affermare astrattamente l’identità di scienza e filosofia senza poi entrare nel vivo della ricer- ca scientifica; mentre per il Timpanaro quell’identità costituiva soltanto la premessa della propria concreta attività di storico della scienza: sono particolarmente significative le parole con cui egli concludeva la recen- sione a La scienza come esperienza assoluta (p. 20 di questo volume). Perciò, ancor piu che sull’identità di scienza e filosofia, egli batteva l’accento su quella di scienza e storia della scienza. E il pregio maggiore di questi scritti è proprio il vigile senso storico che li per- vade, e che è tanto raro nella maggior parte degli studi di storia della scienza che tuttora si pubblicano. Per questo egli stimava solo pochi in questo campo, uno so- 4 Annuario della Biblioteca filosofica di Palermo, vol. Il (1912), fasc. 3. 13 pra tutti: Raffaele Giacomelli, lo studioso degli scritti di Leonardo sul volo. x k x In questo volume abbiamo voluto raccogliere gli scritti più significativi di teoria e storia della scienza, lasciando da parte sia i lavori di fisica sperimentale, sia gli scritti di argomento extrascientifico, i quali po- tranno eventualmente far parte di un’altra raccolta. Ab- biamo riprodotto per intero gli scritti prescelti anche se, inevitabilmente, tra l’uno e l’altro è risultata qualche ripetizione. Gli articoli Un’opinione di Vico e La scien- za come esperienza assoluta sono stati da noi inclusi, malgrado la loro forma ancora un po’ giovanile, perché fanno vedere come già dagli anni di Bologna l’autore avesse chiaro in mente il programma della sua attività futura, e come il suo interesse per la storia della scien- za non sia nato in lui da alcuna presunta crisi in seguito ai nuovi orientamenti della fisica. Non abbiamo invece ristampato, perché già abbastanza nota, la Vita di Gali- leo delle Opere Rizzoli. Abbiamo ordinato gli scritti press’a poco secondo la materia, mettendo in principio quelli di carattere teorico e programmatico, poi quelli di storia della scienza, anch’essi raggruppati per argo- mento, infine alcuni d'indole più spiccatamente polemi- ca. S. T. jr. 14 INTRODUZIONE ALL’ANTOLOGIA «LEONARDO» La nostra bella scienza — è inutile dissimularlo — non è riuscita ancora a fondersi intimamente con la nostra cultura e a diventarne un elemento essenziale. La scien- za si studia più o meno largamente in tutte le scuole, ma la nostra cultura rimane ostinatamente filosofico-lettera- ria. Il fatto è dovuto, tra l’altro, allo stesso progresso scientifico che rende la scienza inaccessibile o quasi ai non iniziati e anche, purtroppo, all’isolamento in cui si compiacciono, in generale, di chiudersi gli scienziati; alla mancanza, nel campo della storia della scienza, di un critico geniale paragonabile al De Sanctis e soprattut- to alla scarsissima simpatia che hanno per la scienza i nostri principali filosofi, che sono i veri direttori della nostra cultura. Tutte le teorie della scienza da loro soste- nute, da quelle che proclamano che la scienza è tutto a quelle che ammettono che essa è soltanto qualcosa o qualcosa d’inferiore, sono costruite su pochissime no- zioni scientifiche di cui il filosofo ha appena una va- * Dal volume: Leonardo, pagine di scienza, Milano, Monda- dori, 1926, pp. VII-XV. Vedi anche «L'educazione nazionale», 15 gennaio 1921, p. 13, e «L’Arduo», 1921, p. 10 sgg.; 144 sgg.; 271 sgg. 15 ghissima notizia; e quindi, se hanno la loro importanza per comprendere il pensiero del filosofo, non possono in nessun modo aiutarci a comprendere, ad amare, a fare la scienza. I nostri filosofi fanno con la più superba sicu- rezza la teoria della scienza, ma questo non significa mi- nimamente che essi conoscano tutta quanta la scienza; non ne conoscono, e se ne vantano, nemmeno gli ele- menti. Si tratta dunque non, come sarebbe naturale, di storie, sia pure contratte in poche parole, ma di costru- zioni a priori assai più arbitrarie e assai meno ricche del- la Filosofia della natura di Hegel (la quale, in fondo, è un tentativo poderoso per dominare la scienza del tem- po): e assai più dogmatiche. Perché mentre il grande fi- losofo tedesco non si sentiva in grado di dedurre la pen- na da scrivere di Krug e tanto meno le onde hertziane o il radio o i raggi X ancora sconosciuti, i nostri filosofi, per quanto non si stanchino di protestare contro i discor- si in aria e le filosofie definitive, si comportano come se potessero dedurre non solo la penna di Krug ma tutto quello che c’è, che c’è stato e che ci sarà in cielo e in terra: e senza simpatia per la scienza, senza studio, sen- za fatica. Fortunatamente, l’importanza sempre maggiore che, anche per merito loro, va prendendo la storia; il fastidio che ormai sentono tutti per il filosofo puro, il filosofo Budda, il filosofo che non sa nulla di nulla; il bisogno sempre più vivo che anche nel mondo scientifico si sen- te per la conoscenza diretta dei classici della scienza, ci fanno sperare che è vicino il momento in cui si comin- 16 cerà finalmente a dare ai nostri grandi scienziati il rico- noscimento che meritano, e che perciò l’abisso che si è artificiosamente scavato tra cultura scientifica e cultura classica, tra scienza e spiritualità, sarà colmato. Noi sen- tiamo che finirà per trionfare un nuovo umanismo che sia nello stesso tempo classicità e modernità, spirituali- smo assoluto e assoluto positivismo. Le pagine di scienza raccolte in questo volume e quelle che seguiranno immediatamente vogliono essere il primo passo verso questo nuovo umanismo a cui tutti oramai tendiamo più o meno consapevolmente; e ap- punto per questo io ho fede nel mio lavoro. Per mostrare che questa fede non è infondata convie- ne esaminare un po’ più da vicino alcune delle vedute sulla scienza a cui abbiamo accennato. La scienza — si dice — è essenzialmente molteplice, tanto è vero che, a rigore, esistono le scienze e non la scienza. Ma questa considerazione colpisce la scienza come attività particolare, come oggetto, e si può ripetere con lo stesso diritto anche contro la filosofia la quale, come oggetto, è pure molteplice e si scinde nelle cosid- dette scienze filosofiche, anzi si moltiplica all’infinito. La scienza — si dice ancora — è dogmatica perché non può provar tutto: c’è sempre in essa qualcosa che si am- mette come postulato; ma anche quest’obiezione non si può fare che alla scienza in quanto particolare e si può ripetere contro ogni scienza particolare, sia positiva che filosofica, anzi contro ogni pensiero di cui non si veda che l’oggettività. Noi pensiamo sempre un oggetto de- 17 terminato e sia pure l’Io stesso. Quest’oggetto, conside- rato astrattamente, fuori dello spirito, è sempre un dato tra dati; ma, in questo senso, anche la filosofia è dogma- tica. Supponiamo di avere davanti un libro di filosofia. Astrattamente, questo libro è un dato tra dati. È vero che chi lo legga e lo intenda, lo risolve, ma anche lo scien- ziato in quanto fa la scienza risolve la realtà esterna. Se egli poi continua a credere a una realtà presupposto del- lo spirito, la colpa è del suo naturalismo: la scienza non c'entra. È verissimo che nella scienza c’è qualcosa che lo scienziato in quanto tale non può provare, ma anche nella filosofia c’è qualcosa che il filosofo in quanto tale non può provare: tutto ciò che non è propriamente filo- sofia ma filologia, scienza. È che lo scienziato contrap- posto al filosofo, il filosofo contrapposto e isolato rigi- damente dallo scienziato hanno qualcosa di violento e d’illogico. La realtà non è lo scienziato in quanto non fi- losofo, in quanto non uomo, ma l’uomo che si specifica come scienziato, come artista, come politico, come san- to, come maestro, come lavoratore, restando uomo. Un’altra tesi molto diffusa anche tra gli scienziati è che la scienza non è scienza ma convenzione più o meno opportuna, economia. Ma questa veduta, secondo la quale il matematico non solo non sarebbe distinguibi- le dal calcolatore ma nemmeno dal regolo calcolatore o dal gesso o dalla lavagna, nella sua formulazione più ri- gorosa si riduce alla distinzione tra concetti generali ca- ratteristici della scienza, concetti individuali caratteristi- ci dell’arte e concetti universali o filosofici. Distinzione 18 naturalistica e ingiustificata. Perché dal punto di vista fi- losofico, tutti i concetti sono sintesi di universalità e di particolarità, di filosofia e di scienza; dal punto di vista naturalistico, sono tutti particolari. Particolare è il con- cetto dell’arte giacché ha fuori di sé la filosofia, la mo- ralità, economia, la scienza; e particolare non solo il concetto di punto di elettrone di aquila, ma anche quello di Benedetto Croce. Il Croce giovane che vagheggia perfino il suicidio è forse il filosofo degli anni virili? Il Croce sotto le macerie di Casamicciola è proprio identi- co all’autore delle solenni parole conclusive della Filo- sofia della pratica? E non è al contrario evidente che il Croce di un certo momento, considerato astrattamente, non è quello del momento successivo? Tutte coteste teorie a cui non abbiamo potuto che ac- cennare e tante altre di cui si potrebbe fare una critica esauriente senza grande sforzo indicano molto chiara- mente che i loro autori, come dicevamo, sono del tutto estranei alla scienza, ed è per questo che, secondo noi, per l’instaurazione del nuovo umanismo non occorre af- fatto umanizzare, come dicono, la scienza, ma invece conoscerla, amarla. Andiamo alla scienza con tutta l’anima e ne sentiremo senz'altro l’umanità. «Entriamo in questo mondo — per esprimerci con le belle parole del De Sanctis che valgono benissimo anche per la scienza —, e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perché un argomento non è tabula rasa, dove si può scrivere a genio; ma è marmo già incavato e lineato, che ha in sé il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande 19 qualità del genio è quella d’intendere il suo argomento, e diventare esso, risecando da sé tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene, vivere ivi dentro, essere la sua anima o la sua coscienza. E parimente il critico, in luogo di porsi innanzi regole astratte, e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l’Iliade e la Gerusa- lemme e il Furioso, dee studiare il mondo formato dal poeta, interrogarlo, indagare la sua natura, che contiene in sé virtualmente la sua poetica, cioè le leggi organiche della sua formazione, il suo concetto, la sua forma, la sua genesi, il suo stile». Di qui il valore immenso della storia della scienza su cui non s’insisterà mai abbastanza. Noi non esitiamo ad affermare che il mancato avvento del nuovo umanismo o, ch’è lo stesso, di una cultura davvero moderna è do- vuto principalmente al fatto che nei nostri studi non c’è stato posto finora per la storia della scienza. Ma sulla storia della scienza, perché ci s’intenda bene, occorre in- sistere un po’ a lungo. I sostenitori di questa nuova storia, salvo rare ecce- zioni, sono rimasti fermi al concetto che altro è la scien- za, altro la storia e si sono smarriti, com’era naturale, in una selva di assurdi. Cosi, per alcuni, la storia della scienza dev'essere su- bordinata alla ricerca scientifica e non può, per conse- guenza, essere giustificata se non come strumento di ri- cerca. Costoro sono disposti ad ammettere che la scien- za non sia tutta nei manuali, ma perché ritengono che i compilatori di manuali siano gente mediocre che non 20 riesce a raccogliere, per la sua insufficienza mentale, tutte le verità e anche un po” perché i grandi scienziati, secondo loro, celano ostinatamente qualche verità per secoli e per millenni; ma il loro ideale è sempre quello del manuale perfetto il quale renderebbe inutile la storia. E la storia, com’essi la concepiscono, non è altro che un surrogato del manuale futuro: un grande catalogo biblio- grafico, ordinato per materie, il quale consenta ai ricer- catori lo sfruttamento integrale dei tesori ancora sepolti. Altri, sdegnando questo compito troppo modesto, at- tribuiscono alla storia della scienza fini più grandiosi, come quello di mostrare il concatenamento tra l’evolu- zione di una scienza e quella delle altre e gli altri rap- porti tra le varie scienze e tra scienza e cultura, tra scienza e religione e cosí via allo scopo di scoprire la chiave del sapere e la sintesi delle sintesi e la suprema quintessenza; e distinguono una forma superiore di sto- ria (quella delle scienze in generale, nella quale com- prendono la filosofia) e le storie, più umili, delle singole scienze. Qualche altro invece, non vedendo nella scienza che una forma immatura di filosofia, vorrebbe che la storia della scienza studiasse lo svolgimento dei concetti filo- sofici ai quali si sono ispirati i vari scienziati; e si po- trebbe sostenere, con analogo campanilismo, che gli scienziati si debbano trattare come artisti, o come uomi- ni di religione, o come uomini onesti. Queste concezioni hanno certo qualche esigenza le- gittima, ma si lasciano sfuggire quasi del tutto la scienza 21 e la storia. Perché una storia della scienza degna del nome non può essere che un’intuizione critica della scienza nel suo svolgimento. Essa, a somiglianza di tutte le altre storie (e ci riferiamo specialmente al grande De Sanctis), deve interpretare, illuminare, valutare l’opera dei singoli scienziati. E perché questo sia possibile, oc- corre tener presente che la scienza non è un insieme di formole ma un processo dialettico e quindi formola e in- sieme attività. I sognatori del manuale perfetto dovrebbero conveni- re che, fino a quando questo loro ideale non sia realizza- to, per scienza non si può intendere altro che la raccolta di tutte le opere scientifiche o, come possiamo anche dire, la storia della scienza, visto che quelle opere sono, se non altro, ordinate cronologicamente: storia nella quale vanno evidentemente comprese anche le pagine che noi aggiungiamo, come si suol dire, al corso storico e che, in questo senso almeno, non sono che una parte del corso stesso. Senonché se ci decidiamo a studiare con amore le varie opere scientifiche, non tarderemo ad accorgerci che esse sono sempre un organismo vivente. E come è un organismo un libro o una memoria di uno scienziato qualunque, vedremo che anche l’insieme del- le opere dello scienziato stesso, se riusciremo a pene- trarle, sono un tutto organico. E a mano a mano che pro- cederemo nello studio delle opere scientifiche di tutti i tempi e di tutti i paesi, coglieremo l’unità e la spirituali- tà di tutta l’enciclopedia scientifica. Quelle opere che avevamo chiamato storia della scienza diventano, in 22 questo modo, storia in un senso più profondo di come si poteva sospettare, perché siamo condotti a riconoscerle come un processo e un processo non di quello che cre- devamo oggetto del nostro pensiero, ma di noi stessi. E ci accorgeremo pure che questa storia che è scienza, questa scienza che è storia, non ha fuori di sé la filosofia o l’arte o la religione o la vita o la natura, ma è assoluta totalità; e non è copia o schema o simbolo della realtà, ma realtà e originalità assoluta. Occorre subito notare esplicitamente — e ad alta voce — che, con questa veduta, non intendiamo affatto negare le distinzioni, ma piuttosto instaurarle in tutta la loro ric- chezza, negando ogni schematismo. Per questo ci siamo riferiti al De Sanctis, che è tutto distinzioni, tutto vita, tutto novità, e combattiamo con tutte le nostre forze i cosi detti filosofi puri (o filosofi zero?) che non hanno né senso filosofico né cultura specifica. È verissimo che spesse volte accade (appunto in quei filosofi che, non avendo l’amore virile dei problemi particolari, perdono il contatto con la realtà) che le parole: «Tutto è spirito, tutto è pensiero, tutto è atto» diventino nient'altro che parole. Ma questi filosofi dicono: «Tutto è atto» e pen- sano «Tutto è essere», rimanendo cosi al di fuori, al di- sotto d’ogni filosofia. L'atto non è una classe, sia pure generalissima, non è un mezzo per classificare più alla svelta la realtà, ma consiste nel cogliere, di questa realtà sempre viva e sempre nuova, tutte le sfumature. Da questo punto di vista, si svela in tutta la sua insuf- ficienza quella subordinazione della storia della scienza 23 alla scienza di cui parlavamo e le altre che si potrebbero escogitare tra scienza e tecnica, tra scienza e filosofia, tra scienza e utilità e cosi all’infinito: subordinazioni unilaterali che si possono facilmente rovesciare, giacché se chi vuol fare una ricerca scientifica considera istinti- vamente la letteratura dell’argomento come un mezzo utile per la sua ricerca, chi vuol fare la storia di una teo- ria potrebbe pure considerare tutte le ricerche che lo hanno condotto alla teoria come mezzi utili per scrivere la sua storia; e se chi vuol realizzare un’applicazione scientifica vede nella scienza un mezzo tecnico, lo scienziato si vale delle risorse della tecnica per realizza- re conquiste scientifiche. Quell’altra subordinazione che si vorrebbe istituire tra la storia in generale e la storia delle singole scienze è fondata sull’errore di cercare l’universalità nel mondo esterno il quale è essenzial- mente finito, per quanto d’una finitezza irrequieta, aven- do i limiti eternamente spostabili; e non regge perciò, nemmeno essa, alla critica. E a coloro che, per ottenere una storia della scienza veramente compiuta, credono di salvarsi includendovi anche la filosofia, si può replicare che nemmeno la loro storia è compiuta perché vi manca l’arte, la politica e via via all’infinito; e potremo anzi aggiungere che, ap- punto per questo processo all’infinito in cui si è costretti a cadere quando ci si mette nel punto di vista dell’ogget- to astratto, la storia, nel loro senso, non può essere mai compiuta (come, del resto, non può essere compiuta nemmeno una storia che si riferisca a un oggetto parti- 24 colarissimo). Ogni storia, dal punto di vista dell’oggetto, è sempre incompleta e particolare, perché la sola univer- salità concepibile è quella del pensiero. Ma il più pericoloso difetto degli universalisti di cui stiamo parlando è quella loro mania astrattista che li spinge a cercare rapporti estrinseci e sintesi arbitrarie, lasciandosi sfuggire la spiritualità concreta della vita scientifica. Noi non intendiamo negare a nessuno il di- ritto di studiare le relazioni che lo sviluppo di una scien- za ha avuto con quello di una corrente filosofica o di una religione o magari con la pioggia e col bel tempo e vedremmo con simpatia anche studi eruditi sugli scien- ziati o studi sulla loro filosofia o sulla loro vita morale, ma la storia della scienza dev'essere tutt’altro. Essa ci deve presentare i fisici, i chimici, i naturalisti, i matema- tici, gli astronomi, vivi e operanti, in modo che ci diven- tino familiari come noi a noi stessi. Noi dobbiamo vive- re le loro conquiste, le loro indagini, le loro ipotesi in tutti i loro particolari, in tutte le loro sfumature, in tutto il loro slancio; ed è quindi necessario rifare i loro calco- li, le loro esperienze, le loro osservazioni, valendosi il più possibile dei loro stessi mezzi e non limitarsi a leg- gerne gli scritti. La storia sarà cosi, come dev’essere, in- tuizione, illuminazione e penetrazione ad un tempo, sarà definizione integrale e concreta dell’attività scientifica e non catalogo di astratti pregi o astratti difetti, né visione unilaterale o divagazione brillante o vuoto filosofico. A quegli altri che vorrebbero limitare la storia della scienza allo studio della filosofia dei vari scienziati, ab- 25 biamo risposto implicitamente, perché quella filosofia, essendo in generale naturalismo, è un difetto degli scienziati, il quale, in una storia della scienza, dovrà cer- to essere esaminato, ma in quanto influisce sulla loro ri- cerca: e dovrà, in ogni caso, rimanere nello sfondo, so- prattutto perché la filosofia (e lo stesso si dica per tutte le altre forme che si distinguono empiricamente dalla scienza) è, per lo scienziato, una parte secondaria, e in generale deficiente, della sua attività. La vera filosofia dello scienziato è la scienza: essa è, cioè, celebrazione piena dello spirito. Sostenere che la scienza sia una for- ma deficiente di filosofia o, in altri termini, un errore, non è possibile se non riferendosi alla scienza fatta, alla scienza cosa in sé; ma, in questo senso, anche la storia e la filosofia dovrebbero essere errori. Occorre adesso stare a discutere quell’idea cosí esa- geratamente fortunata secondo la quale il fine della sto- ria è lo studio del metodo scientifico? I due metodi clas- sici, il deduttivo e l’induttivo, sono due astrazioni, giac- ché il metodo d’ogni scienza è sempre la dialettica di cotesti due pretesi metodi; senonché bisogna avvertire che il metodo, considerato come una via per arrivare alla scienza, è concepibile in una concezione statica del- la scienza stessa, mentre, nella nostra concezione, via e meta coincidono e perciò il metodo non è altro che lo sviluppo della scienza, la scienza stessa. Ma, purtroppo, i cercatori del metodo vagheggiano, in sostanza, una legge, o meglio una regola che dia modo ai fannulloni di fabbricare la verità senza fatica; e denigrano cosi, anzi 26 distruggono quella scienza seria e virile che vorrebbero celebrare. 27 UN’OPINIONE DI VICO* Giambattista Vico, nella sua autobiografia, scrive così: Però osservando il Vico cosi da Aristotile come da Plato- ne usarsi assai sovente pruove mattematiche per dimostrare le cose che ragionano essi in filosofia, egli in ciò si vide di - fettoso a poter bene intendergli; onde volle applicarsi alla geometria e inoltrarsi fino alla quinta proposizione di Eucli- de. E riflettendo che in quella dimostrazione si conteneva in- somma una congruenza di triangoli, esaminata partitamente per ciascun lato ed angolo di triangolo, che si dimostra con egual distesa combaciarsi con ciascun lato ed angolo dell’altro, pruovava in se stesso cosa più facile l’intender quelle minute verità tutte insieme, come in un genere metafi- sico di quelle particolari quantità geometriche. E a suo costo sperimentò che alle menti già dalla metafisica fatte universa- li non riesce agevole quello studio propio degli ingegni mi- nuti, e lasciò di seguitarlo siccome quello che poneva in cep- pi ed angustie la sua mente già avvezza col molto studio di metafisica a spaziarsi nell’infinito dei generi; e colla spessa lezione di oratori, di storici e di poeti, dilettava l’ingegno di osservare tra lontanissime cose nodi che in qualche ragione * Pubblicato per la prima volta in un giornale giovanile («La Scazzetta» di Foggia, 1913, n. 3 e 4); ristampato come opuscolo, Bologna, 1913 e 1915. 28 comune le stringessero insieme, che sono i bei nastri dell’eloquenza che fanno dilettevoli l’acutezze. «Talché con ragione gli antichi stimarono studio propio da applicarvisi i fanciulli quello della geometria e la giudicarono una logica propia di quella tenera età, che quanto apprende bene i parti- colari e sa fil filo disporgli tanto difficilmente comprende i generi delle cose; ed Aristotile medesimo, quantunque esso dal metodo usato dalla geometria avesse astratto l’arte sillo- gistica, pur vi conviene ove afferma che ai fanciulli debbono insegnarsi le lingue, le istorie, la geometria, come materie più propie da esercitarvi la memoria, la fantasia, e l'ingegno»... Scoverto che egli ebbe tutto l’arcano del meto- do geometrico contenersi in ciò, di prima diffinire le voci con le quali si abbia a ragionare, di poi stabilire alcune mas- sime comuni, nelle quali colui con chi si ragiona vi conven- ga; finalmente, se bisogna, domandare discretamente cosa che per natura si possa concedere, affine di poter uscire i ra- gionamenti che senza una qualche posizione non verrebbero a capo e con questi principii da verità più semplici dimostra- te procedere fil filo alle più composte e le composte non af- fermare se non prima si esaminino partitamente le parti che le compongono, stimò soltanto utile aver conosciuto come procedano nei loro ragionamenti i geometri, perché se mai a lui abbisognasse alcuna volta quella maniera di ragionare, il sapesse; come poi severamente l’usò nell’opera De universi iuris uno principio, la quale il signor Giovan Clerico ha giu- dicato «esser tessuta con uno stretto metodo mattematico» come a suo luogo si narrerà. Ho creduto di riportare per intero, invece di sunteg- giarlo, questo passo alquanto lungo dell’autobiografia 29 vichiana sul quale voglio fare qualche osservazione cri- tica, per timore di alterarlo e perché, riportato cosi inte- gralmente, dimostra meglio l’importanza ch’esso ha nel- la storia della vita e del pensiero di Giambattista Vico. Senonché, appunto perché il passo di cui ci occupiamo è assai importante, occorre che cerchiamo di valutarlo nel modo più rigoroso. La nostra valutazione, diciamolo su- bito, è di pieno dissenso, ma noi crediamo di fare cosi un’opera altamente vichiana perché il Vico, come dice Benedetto Croce, «alle autorità non intendeva appog- giarsi, ma neppure le disprezzava; dovendo l’autorità farci considerati a investigare le cagioni che mai potes- sero gli autori, e massimamente gravissimi, indurre a questo o a quello opinare», e perché il culto dei grandi non consiste soltanto nello svolgere i germi fecondi con- tenuti nella loro opera ma anche nel trarre dalle loro opi- nioni più caduche motivi eterni di vero. Quali sono le ragioni che hanno indotto il Vico a quell’opinione intorno alla matematica? Il passo che ab- biamo riportato risponde abbastanza bene alla nostra do- manda. È che il Vico si è messo a studiare la geometria con criteri filosofici. Davanti alle verità matematiche, che gli dovevano servire per l’intelligenza di alcuni luo- ghi di Platone e di Aristotile, egli era, in sostanza, per- fettamente indifferente; e perciò se, prima di risolversi a prendere in mano il trattato di geometria, si fosse con- sultato con un buon matematico, questi gli avrebbe con- sigliato, piuttosto che la lettura di una geometria, quella di una filosofia della geometria. Ma è bene che sia stato 30 cosi; perché, se no, non avremmo avuto questa pagina che illustra cosi bene i caratteri antimatematici e antipo- sitivi della mentalità vichiana analizzati da Fausto Nico- lini nella sua prefazione alla Scienza nuova. È male solo che il Vico non si sia reso conto che era lui e non la ma- tematica che aveva torto e abbia dato un giudizio asso- lutamente erroneo cioè che la geometria sia uno studio proprio degli ingegni minuti e da applicarvisi i fanciulli. Per fortuna il Vico, piuttosto che demolire la geometria, non ha fatto che uno sfogo lirico. Perché, a voler giudicare un’opera qualsiasi dalle pri- me due o tre pagine, anche un ingegno scadente capisce che si rischia di commettere errori madornali; e il Vico doveva esser convinto che con la lettura delle prime pa- gine dell’Etica di Spinoza e della stessa sua Scienza nuova si potevano benissimo giudicare quelle grandi opere con la stessa severità con la quale egli giudicava il capolavoro di Euclide. Quel trovare più facile l’intende- re le minute verità geometriche tutt’insieme come in un genere metafisico potrebbe sembrare alla prima effetto di profondità di veduta, ma tutti i principianti credono che le dimostrazioni siano superflue. Né si può credere che qui il Vico applichi felicemente il metodo d’intui- zione del Bergson. Perché si può ammettere che, per esempio, a dar l’intuizione di Bologna siano insufficien- ti tanto le idee che le immagini e sia necessario invece vedere attualmente o con uno sforzo d’immaginazione la simpatica città ricca di portici, di torri e di belle fan- ciulle; ma l’intuizione non si può applicare a un oggetto 31 astratto come un teorema e chi crede di poterlo fare è perché, dopo conosciuta la dimostrazione di un teorema, può, con uno sforzo mentale, pensare sommariamente e rapidamente la dimostrazione stessa, però questo sforzo non supera la dimostrazione, ma le resta inferiore come una formola alla ricerca che l’ha originata. È poi eviden- te che quell’argomento preso da Aristotile, secondo il quale ai fanciulli bisogna insegnare insieme alla geome- tria e alle lingue anche la storia, portava implicita la cri- tica dell’opinione vichiana, giacché è da ingegni minuti non quella storia sulla quale il Vico stese tanta ala ma le raccolte scolastiche di aneddoti. Senonché in questo punto il Vico è un seguace non di Aristotile ma dell’ari- stotelismo medievale. Affermando l’universalità contro la particolarità, il genere metafisico contro la verità mi- nuta, egli avversa, più che la sola matematica, tutte le scienze positive; e come s’è stancato delle proposizioni euclidee si sarebbe ugualmente stancato dello scritto del Galilei sulla Bilancetta, e invece delle ricerche che con- dussero al barometro avrebbe preferito lo formola: La natura aborre dal vuoto. Ma nell’affermazione che la scienza sia propria degl’ingegni minuti, non solo c’è il disconoscimento del metodo positivo, ma si viene anche a negare che la scienza sia essenzialmente sistematica, verità che il Vico avrebbe trovato, se li avesse letti per intero, negli stessi Elementi di Euclide che sono un organismo e non un’accozzaglia incoerente di proposizioni. In tutte le scienze positive c’è largo posto per la sintesi: basta pen- 32 sare allo sviluppo che hanno avuto i concetti di funzione e di limite nell’analisi algebrica e infinitesimale, quello di corrispondenza nella geometria proiettiva, descrittiva e analitica, quello di energia in fisica, e all’organicità che s’è conseguita in algebra con l’introduzione dei nu- meri negativi, irrazionali e complessi, in geometria con gli elementi all’infinito e immaginari e nelle scienze fi- siche con l’applicazione della matematica che le ha fatte entrare in una fase superiore. Anzi — lo dico per inciden- za — io sono convinto che anche la fase matematica delle scienze fisiche sia provvisoria e per conto mio farò qualche tentativo per preparare una fisica razionale che sia rispetto alla fisica matematica quello che la fisica matematica è rispetto alla fisica sperimentale. L’opinio- ne sostenuta dal Vico può sorgere in chi legga i sommari (scadenti), nei quali la scienza è cristallizzata e morta: e del resto i manuali di filosofia e i sunti dei poemi fanno un’impressione peggiore. Ma, per poter valutare giusta- mente la scienza, occorre nuotare liberamente ed entu- siasticamente nell’oceano della ricerca; e questo può farsi o studiando polemicamente i sommari eccellenti, sotto la guida di maestri che della scienza abbiano più che il possesso materiale il sentimento ardente, o meglio studiando direttamente la storia della scienza. Ed è per- ciò che, secondo me, la migliore critica dell’opinione vi- chiana potrebbe farla un editore che pubblicasse il corpo dei classici della scienza insieme a una buona biblioteca di cultura scientifica. In Italia c’è adesso un notevole ri- sveglio culturale di cui sono esponenti le belle collezio- 33 ni editoriali in corso di pubblicazione e quelle che si preparano; ma è un risveglio filosofico-letterario. Per la scienza in esso non c’è posto. La scienza, anzi, se si pre- scinde dagli specialisti, è abbandonata. Certo quest’abbandono non è dovuto soltanto alla sopravvi- venza dell’opinione di Vico che abbiamo discusso, ma dipende anche dal successo della teoria nominalistico- economica della scienza della quale il Vico è un precur- sore, dal discredito che il positivismo ha gettato sulla scienza gabellando per scienza i suoi castelli metafisici, dall’ordinamento delle nostre scuole secondarie dove la scienza viene insegnata affrettatamente su manuali pes- simi e delle università dove nella facoltà di filosofia non c’è posto per la scienza, dall’isolamento degli scienziati e dall’ignoranza in materia di scienza dei filosofi e degli artisti e soprattutto dall’indole ultraumanistica degl’ita- liani i quali si sono accorti dell’esistenza di Galileo ma perché i suoi libri sono anche letterariamente eccellenti e per fare qualche declamazione sul suo processo che, piuttosto che un fenomeno di pensiero (lotta tra la scien- za positiva e l’aristotelismo medievale), è sembrato un bel pretesto per gridare l’eterno rettorico Eppur si muo- ve! del quale ci siamo tanto tanto ubbriacati che perfino il Favaro, nel suo profilo del Galilei, ha creduto di do- verlo ricordare e definire sublime. Ma se verrà quell’editore che abbiamo augurato e c’indurremo finalmente a metterci in comunicazione con le opere scientifiche, ci accorgeremo che la scienza coincide con la sua storia (anzi, in grandissima parte, 34 con la storia senz'altro) e che quindi essa possiede i ca- ratteri di slancio vitale, di ascensione, di lotta, di disinte- resse che riconosciamo alla filosofia, all’arte e alla fede. Allora non sarà più possibile di rappresentare nel nome di Giambattista Vico la parte del Simplicio galileano; ma, invece, liberati i grandi scienziati dai loro ergastoli, li metteremo insieme agli altri grandi (siano filosofi o artisti o eroi) con i quali essi hanno in comune la genia- lità e la ricchezza. 35 LA SCIENZA COME ESPERIENZA ASSOLU- TA° Nel suo articolo su Henri Poincaré e la dottrina della scienza, pubblicato nella Voce del 15 agosto 1912, Gui- do De Ruggiero sostiene che l’elemento vitale delle teo- rie nominalistico-economiche della scienza positiva non sia l’idea dell’economia e quella del concetto astratto che non riesce a stringere la realtà, sicché le verità scientifiche sarebbero delle etichette, delle carte topo- grafiche, delle vedute cinematografiche della realtà, in una parola delle convinzioni utili, ma l’accentuazione del momento dinamico e attuale della ricerca scientifica, del carattere vitale, creativo del sapere, dell’efficienza nostra nella scienza. Il concetto della convenzione utile ha valore solo dal punto di vista polemico, inquantoché non ammette col naturalismo imperante che la scienza sia, come la filosofia per il naturalismo, la scimmia del- la dea natura, una semplice copia della realtà; ma questa negazione della tesi naturalistica, dice giustamente il De Ruggiero, è troppo poco radicale; e quindi consiglia di seguire la via additata da Kant con la sintesi a priori, eli- * Recensione allo scritto dallo stesso titolo di Guido De Rug- giero, (vedi l’Avvertenza) pubblicata in Scritti liberisti, Napoli 1919, p. 161 sgg. 36 minando il presupposto d’una realtà in sé al di là della scienza e riconoscendo la scienza come una realtà spiri- tuale e vivente. La critica della scienza può servire cosi d’impulso a un nuovo sviluppo. La teoria della scienza accennata in quell’articolo vie- ne svolta ampiamente dal De Ruggiero nel suo saggio su la scienza come esperienza assoluta, in cui viene so- stenuta apertamente la tesi dell’identità di scienza e filo- sofia. Dal punto di vista dell’idealismo attuale seguito dal De Ruggiero, questa tesi è d’un’evidenza immediata. Se le categorie sono molte anzi infinite solo dal punto di vi- sta del pensato ma si riducono a una sola dal punto di vista del pensare, è evidente che non solo la scienza, ma anche l’arte, la religione, l’amore, la guerra, le più futili inezie, colte nella loro attualità, sono filosofia, mentre viste, astrattamente, dall’esterno sono tutta natura, mec- canismo, errore. Tuttavia il De Ruggiero ha ragione af- fermando che è lui che per la prima volta afferma questa verità nel campo dell’idealismo assoluto perché, per quanto possa essere strano, nemmeno Giovanni Gentile l’ha affermata con la stessa nettezza; sicché, pure essen- do questa una verità schiettamente gentiliana, non si può dire che essa sia, anche dopo lo scritto del De Ruggiero, materialmente affermata dal Gentile. Il De Ruggiero però, nel suo studio, va troppo per le lunghe e imposta il suo problema ammettendo il princi- pio che la scienza si svolga, ciò che, se viene ampia- mente giustificato nel corso della ricerca, dal punto di 37 vista didattico è un vero circolo vizioso. Se la scienza è sviluppo, cioè se essa non è semplice variare, puro dive- nire, pura immediatezza, ma è sintesi a priori, sensazio- ne essenziata e la filosofia è identicamente sviluppo, è inevitabile concludere che la scienza sia filosofia. Cosi, lungo tutta la ricerca, vediamo sempre il De Ruggiero a tu per tu con bivi, dilemmi, ostacoli, compiti ardui, gli vediamo fare dei riassunti che poi si trasformano in rie- laborazioni, lo vediamo fino alle ultime pagine in lotta con lo spettro della cosa in sé; sicché a un tecnico que- sta ricerca apparisce inevitabilmente come l’opera fati- cosa d’un principiante e a un profano come un lavoro oltremodo tecnico e astruso. Il problema di tutta la ricerca è quello della sintesi a priori. Il De Ruggiero sa benissimo che la conoscenza è sempre sintesi a priori. Lui stesso nel suo prezioso com- mento a quella riduzione della Critica della ragion pura che ha intitolato Pensiero e esperienza, sostiene esplici- tamente, fin dalle prime parole, che non è possibile am- mettere dei giudizi analitici e dei giudizi empirici accan- to ai giudizi sintetici a priori, perché tutti i giudizi sono sintetici a priori e gli altri non sono se non posizioni fi- losofiche oltrepassate da Kant con la sua scoperta. Rite- niamo dunque che il De Ruggiero non si doveva tanto indugiare sulla teoria della sensazione come pura imme- diatezza, puro divenire, come pluralità e attualità senz’identità e su quella dell’intelletto come pura me- diazione, come unità immobilità finità possibilità senza concretezza. Egli doveva affrontare risolutamente il 38 concetto di ragione come idealità attuale, come sensa- zione essenziata, come sviluppo, cioè identità nell’alte- rità. Bastava fare un rapido esame della sensazione. La sensazione è pura immediatezza, puro contenuto? È pos- sibile distinguere la sensazione dalla percezione? Non è ogni percezione rispetto al progresso ulteriore del pen- siero qualcosa d’immediato? E d’altra parte, troviamo mai una sensazione cieca, una sensazione che non sia sintesi a priori di contenuto e forma? Risolto questo pro- blema che il Gentile ha risolto, il concetto di scienza fat- ta e quello di natura si sarebbero rivelati senz'altro come astrazioni che hanno valore in quanto superati dal pensiero concreto, si sarebbero rivelati nel loro valore dialettico, negativo e cosi non si sarebbe potuto ammet- tere una scienza fatta, una scienza che non fosse co- scienza; e allo stesso modo sarebbe stato assurdo distin- guere dalla scienza una subscienza (una sensazione bru- ta) o una superscienza che si chiamerebbe filosofia, una filosofia che non si riesce a vedere cosa potrebbe essere se la scienza è sviluppo, o meglio, come nota il De Rug- giero, questa filosofia come istanza superiore alla scien- za non è che un tentativo di svalutare la scienza identifi- candola arbitrariamente con un suo momento cioè con alcune false concezioni della scienza stessa. Tuttavia non bisogna credere che io abbia l’intenzio- ne di ridurre il saggio del De Ruggiero in una forma che soddisfi meglio alle esigenze didattiche. Io accetto l’opera del De Ruggiero nella forma tormentata che ha e consiglio di leggerla, per quanto ai critici della finzione 39 utile potrebbe bastare l’articolo che ho citato in princi- pio se essi sono ben disposti o meglio se vorranno per- suadersi che quando trattano la scienza come arbitrio si sono completamente dimenticati della scienza e fanno all’amore con le nuvole. Rientrino un po’ nel vivo della ricerca e le nuvole spariranno. La scienza si rivelerà non come semplice soluzione, né come semplice problema, ma come sintesi viva di problema e soluzione. E devo anche avvertire che se dal punto di vista didat- tico il libro del De Ruggiero si presta alle accuse a cui ho accennato, d’altra parte questo carattere tormentato del libro, mentre fa quasi toccare con mano che il pen- siero è sviluppo, è poi interessantissimo dal punto di vi- sta letterario perché rivela uno di quei drammi spirituali di cui il Papini lamentava la mancanza nella nostra lette- ratura (dimenticando, veramente, la Disfatta di Oriani e dimenticando che un altro di quei drammi l’ha fatto per- fino il Manzoni con la psicologia dell’Innominato e che, in tutti i casi, questi son drammi che vanno cercati nei filosofi: la Scienza nuova, da questo punto di vista, pre- senta più interesse di tante opere letterarie). Un appunto diverso dobbiamo fare a Guido De Rug- giero. Ammettiamo con lui che un vero conflitto tra scienza e filosofia non sia neppure concepibile e che il conflitto che in realtà si agita è tra due filosofie una pro- gredita e l’altra arretrata che non riescono a conciliarsi in una stessa mente. Però riteniamo che col suo saggio egli non abbia adempito a quell’esigenza d’impulso a un nuovo sviluppo ch’egli vedeva nelle critiche della scien- 40 za se non a titolo puramente pregiudiziale. Questo nuo- vo sviluppo deve farsi sullo stesso piano di quelle criti- che. La materia deve esserne la scienza, ma giudicata li- beristicamente o, se si vuole, col metodo gentiliano dell’immanenza, vale a dire non in base a formole astratte, a principii dommatici, ma alla luce del pensiero vivo. La ricerca del De Ruggiero, per quanto importan- te, è sempre una rielaborazione della Critica della ra- gion pura. La tesi dell’identità di scienza e filosofia è sostenuta senza venire a diretto contatto con la scienza e si potrebbe giustificare anche avendo della scienza una notizia rudimentale. Se si accetta quella tesi, ma ci si di- sinteressa poi della scienza, non si è praticamente molto lontani da quel campanilismo filosofico ripudiato dal De Ruggiero che consiste nel piantare in asso la scienza per cercare la verità altrove. Non che si debba studiare soltanto la scienza positiva. Ci metteremmo improvvisamente in antitesi con quanto c’è di più vivo nel saggio del De Ruggiero se dicessimo questo. Dice benissimo il De Ruggiero che il concetto di scienza naturale non è che una astrazione, il prodotto di una classificazione; anzi è chiaro che ogni ramo dell’attività umana, visto dall’esterno, non è che mecca- nismo, anche la filosofia e anche l’arte intese come in- sieme di opere bell’e fatte. Chi studia dunque filosofia in senso stretto non vive necessariamente nelle astrazio- ni: vive nelle astrazioni chi vuole scimmiottare la realtà concepita come cosa in sé, qualunque cosa studi. Tutta- via il riconoscimento che ha dato il De Ruggiero alla 41 scienza, identicandola con la filosofia, rimarrebbe pura- mente platonico se dopo di esso si lasciasse da parte la scienza. Occorre che la scienza sia fatta entrare nel campo dell’alta cultura; occorre mettere praticamente accanto, dopo d’averlo fatto in teoria, le opere scientifiche e le opere filosofiche; occorre sfatare il pregiudizio che la storia della scienza non abbia interesse per lo scienziato, che corrisponde a quello di chi dicesse che la storia del- la filosofia non interessi il filosofo; occorre far vedere che scienza e storia della scienza, anzi scienza e storia, sono tutt'uno; occorre, in una parola, creare la storia della scienza come esperienza assoluta. 42 LA SCIENZA E IL PENSIERO" Benedetto Croce ha visto chiaramente che, per salva- re l’unità dello spirito, è necessario ammettere che in ogni frammento della realtà ci sia tutto lo spirito. Noi potremmo distinguere idealmente nello spirito alcune forme, ma questo non significa che ci possa essere in concreto una forma separata dalle altre. Cosi si potrebbe distinguere l’arte dalla scienza e dalla filosofia, ma un teorema di matematica o una legge fisica sarebbero sempre insieme arte, scienza e filosofia e altro, se altre forme spirituali si creda di dovere ammettere. «Un’ ope- ra d’arte e un’opera di filosofia — dice il Croce —, un atto di pensiero e un atto di volontà, non sono di certo affer- rabili con le mani o indicabili col dito; e solamente in si- gnificato pratico e approssimativo possiamo dire che questo libro è poesia e quest’altro filosofia, che quest’azione è atto teorico o atto pratico, atto utilitario o atto morale. S’intende bene che quel libro è anche filo- sofia e, anzi, anche atto pratico, come quell’atto utile è anche morale, e anche teoretico; e all’inverso». Secondo il grande filosofo inoltre non solo in ogni frammento della realtà sono presenti tutti i concetti distinti, ma an- * Pubblicato in «Pagine critiche» IV (1926), p. 100 sg. 43 che in ogni concetto distinto ci sono (benché soltanto implicitamente) tutti gli altri. È evidente dunque che, anche ammettendo la teoria crociana delle forme spirituali, la tesi secondo la quale gli scienziati non avrebbero niente che fare col pensiero, se si vuole salvare l’unità dello spirito, non si può accet- tare che in via approssimativa. Lo scienziato, in quanto scienziato, non sarà se non implicitamente pensiero, ma, in quanto uomo, è pensiero e altro (se si vuol distingue- re qualcosa dal pensiero): è tutto. Il guaio è che, nello scienziato, ciò che davvero conta è, in generale, solo la scienza; e quindi se la scienza non è pensiero, lo scienziato, in realtà, non ha niente o quasi niente che vedere col pensiero: e il divorzio intollerabile che esiste, in Italia, tra scienza e filosofia, anzi tra scien- za e cultura, sarebbe logico; e sarebbe anche naturale un analogo distacco tra filosofi, artisti, educatori e storici. Lo spirito sarebbe cosi, in teoria, tutto in tutto, ma nulla muterebbe se le varie forme spirituali fossero separate le une dalle altre. Ogni forma spirituale sarebbe sempre in- sieme con le altre, ma le altre sarebbero delle ombre. Anche se si ammette che salvi pienamente l’unità del- lo spirito, rispetto al problema della scienza la teoria del Croce è poco soddisfacente perché fondata sulla distin- zione insostenibile tra concetto e pseudoconcetto. La legge morale e il cielo stellato, una melodia e un colpo di fulmine, un sistema filosofico e un’esperienza scienti- fica, in quanto oggetti sono tutti particolari e quindi, se si vuole, tutti pseudoconcetti; ma, in realtà, essi sono 44 sempre sintesi di soggetto e oggetto, sono lo spirito in alcune delle sue forme inesauribili. «Tutto è tutto — dice il Lombardo-Radice nel suo bel saggio su Emerson. — È unità infinitamente sola in ciascuna manifestazione, e infinitamente confortata dentro ciascuna manifestazione da tutte le altre. È più Dio, Dio, nel fiore o nella Divina Commedia?». E più oltre: «Nel sasso, se io lo rivivo — e tutta la scienza è tentativo di rivivere le cose, le singole cose, ponendosi dal di dentro di esse, e sentendole come atto dell’ Universo —, intuisco presente la stessa legge che regola i moti degli astri, perché è un grave, cioè quel modo di attività che appare all’indagine dell’uni- versale che fa l’astronomo; e la sua “composizione ato- mica” è il nome che lo scienziato ha dato all’infinita for- za costruttiva che esprime da sé il mondo come sua rea- lizzazione. Il pathos della scienza è questo ricongiunge- re ogni essere, onde tutti gli esseri appaiono Unum quanto più la scienza è profonda. Lo dice la stessa paro- la profonda; più addentro alle cose. Il vivente Dio è o no Tutto — ricco di tutta la infinita potenza di manifestazio- ne — nel sasso? «E che sono questi che ho detto tentativi di rivivere le cose, se non vibrazioni della coscienza che comprende sé e passa dall’isolamento delle cose (o dal numero) all’ Unum, cui essa non è più estranea, perché è coscien- za, e le cose diventano sue, il suo vivo contenuto?» Non si mette affatto in dubbio che si possa studiare il sasso dal punto di vista metafisico, ma è evidente che la conoscenza metafisica non è tutto. C’è pure la cono- 45 scenza fisica, chimica, mineralogica, geologica; o me- glio, oltre ai cosi detti problemi filosofici che la realtà ci può suscitare, ce ne sono infiniti altri, i quali sono tutti, come i problemi filosofici, forme sempre nuove della sintesi di soggetto e oggetto in cui consiste il pensiero. E se alcuni di questi problemi, se alcuni dei concetti che adoperano gli scienziati sembrano o sono in contrasto con una particolare filosofia, invece di dichiarare quei problemi non filosofici e irrazionali, bisogna correggere la filosofia, rendendola capace di dominare davvero tut- ta la realtà. Per ottener questo, non vedo altro mezzo che quello di rinunziare alle costruzioni a priori e mantenersi fedeli al concetto della filosofia come storia, il quale dovrebbe rinnovare profondamente la filosofia, la scienza e la cul- tura. Se la filosofia e la storia sono tutt'uno, la filosofia della scienza non può essere che la storia della scienza: e nient'altro che storie (più o meno scheletriche e vio- lente) sono infatti le varie teorie della scienza ideate fi- nora. Il filosofo della scienza dovrebbe risolvere tutti i pro- blemi relativi alla scienza in un dato momento storico e perciò dovrebbe conoscere a fondo la scienza nel suo svolgimento. Pretendere di fare una teoria di tutta quan- ta la scienza in base a qualche notizia vaga di pochi con- cetti scientifici (e, quel ch’è peggio, una teoria indipen- dente dal progresso del pensiero scientifico) è la più stridente contraddizione col concetto della filosofia 46 come storia e una prova che la nostra filosofia non è an- cora del tutto uscita dalla fase teologico-metafisica. Quando la filosofia si sarà liberata da ogni residuo di trascendenza e riconoscerà perciò, sul serio, nella positi- vità un momento essenziale dello spirito, vedrà nel mondo scientifico una delle più belle affermazioni del pensiero e diventerà più varia, più concreta, più moder- na. Allora anche la scienza uscirà dal rigido isolamento in cui adesso si trova e acquisterà piena coscienza del suo valore, liberandosi dal naturalismo; e la nostra cul- tura avrà finalmente l’unità e la modernità che le man- cano. 47 SCIENZA E IDEALISMO" L’idealismo italiano non ha avuto e non poteva avere influenza sul movimento scientifico contemporaneo so- prattutto perché i nostri filosofi, privi come sono di ogni simpatia per la scienza e di ogni seria cultura scientifica, non hanno saputo darci, sulla scienza, che teorie generi- che le quali, dal punto di vista scientifico, sono poco più che discorsi in aria. La stessa teoria che la scienza è esperienza assoluta, appunto perché è rimasta indiffe- rente ai problemi, alle scoperte, alle teorie che più han- no appassionato gli scienziati, non ha avuto, com’era naturale, nessuna risonanza nel mondo scientifico; men- tre le teorie einsteniane sulla relatività del tempo, dello spazio e della gravitazione, benché assai modeste dal punto di vista filosofico, hanno avuto un successo stre- pitoso perché erano, o sembravano, la soluzione delle difficoltà che travagliano la scienza contemporanea. Anche sulla storia della scienza l’influenza dell’idea- lismo, se si prescinde dall’ Arduo e un po’ dal Bilancio- * Il primo dei brevi scritti che riuniamo sotto questo titolo fu pubblicato nel «Baretti» di Piero Gobetti, novembre 1925, come risposta ad un’inchiesta sull’influenza dell’idealismo sulla cultura italiana; gli altri quattro ne «L’ Arduo», 1914, p. 98; 1922, p. 115 e p. 352. 48 ni, si deve considerare nulla o insignificante. Fuori o contro l’idealismo sono stati sempre infatti l'Ostwald, il Mach, il Poincaré, il Vailati, il Favaro, il Duhem, il Lo- ria, il Marcolongo, il Vacca, l’Enriques, il Solovine; i vinciani Cermenati, direttore dell’Istituto di studi vin- ciani, Ettore Verga, direttore della Raccolta vinciana, Edmondo Solmi, De Torri, De Lorenzo, Séailles, Beltra- mi, Péladan, Bottazzi; la rivista Scientia di Eugenio Ri- gnano, che si dice di sintesi scientifica ma è in realtà di alta volgarizzazione, di storia e di critica della scienza; la rivista Zsis di Giorgio Sarton, dedicata alla storia della scienza e della civiltà; l’ Archivio di storia della scienza e Gli scienziati italiani di Aldo Mieli; l’ Annuario scien- tifico ed industriale di Lavoro Amaduzzi; le numerose riviste, in generale tedesche (o rubriche di riviste) di bi- bliografia scientifica e infine le necrologie degli scien- ziati che si pubblicano nei periodici scientifici e negli atti accademici. Questa mancata influenza dell’idealismo italiano è stata un gran male per la scienza, che è rimasta quasi ta- gliata fuori dalla cultura contemporanea e soprattutto per la storia della scienza, la quale, dominata come è stata dal metodo erudito, non ha saputo rivelare valori nuovi. Ma essa costituisce senza dubbio anche un’obie- zione contro il nostro idealismo, il quale, se non vuol di- chiararsi incapace di penetrare la vita moderna, dovrà concepire rigorosamente tutta la realtà, e quindi anche la scienza, come spirito, realizzando finalmente 49 quell’assoluta immanenza a cui sembrò mirare, quand’era filosofo, il Gentile. x k > Nessuno ha combattuto cosí accanitamente il dilettan- tismo quanto Benedetto Croce, ma il migliore esempio di dilettantismo è la critica che il Croce, analfabeta della scienza, ha fatto alla scienza. x k x Come mai gli hegeliani non hanno ancora capito che gli argomenti con i quali il Gentile ha dimostrato l’unità di filosofia e di storia della filosofia si possono ripetere per dimostrare l’unità di scienza e di storia della scien- za? Come mai possono credere pensiero le loro critiche alla matematica che sono appena degne d’un principian- te mediocre e non le opere dei genii matematici? E che cosa sono le loro critiche se non degli aborti di storia di quel tantino di matematica di cui hanno una conoscenza superficialissima? x k x Benedetto Croce ha detto recentemente che non si può filosofare sopra un ordine di fatti senza possederne la diuturna, varia e viva esperienza, e che di ciò che non 50 ci ha profondamente interessato non si può fare filosofia profonda. Ma se questo è vero — ed è verissimo —, bisogna pure convenire che i filosofi italiani, i quali sono quasi tutti filosofi in senso stretto, non sono in grado di dirci nulla su ciò che non sia filosofia in senso stretto: nulla, in par- ticolare, sull’arte e sulla scienza. E che sarebbe tempo che essi prendessero coscienza dei propri limiti e smet- tessero di ammannirci fastidiosi discorsi in aria. x k x La limitatezza che, secondo qualche filosofo, sarebbe propria degli scienziati non esiste; e nemmeno ci sembra ammissibile l’idea, sostenuta da qualche altro, che lo scienziato sappia senza capire e che invece il filosofo capisca. Hertz quando rielabora le equazioni di Maxwell e scopre e studia le onde elettromagnetiche sa e capisce: è un punto saldissimo dello spirito. La limitatezza che qualche volta si deve rimproverare allo scienziato non riguarda propriamente lo scienziato, ma il filosofo o meglio il dogmatico che sonnecchia in fondo alla sua mente (e in fondo alla mente d’ogni uomo). Ma come è limitato, superficiale, falso lo scien- ziato in quanto cattivo filosofo, non meno falso, superfi- ciale e limitato è il filosofo in quanto cattivo scienziato. Attività privilegiate non ce ne sono. Ogni volta che si è svegli — sia pure davanti a una bolla di sapone —, li c’è 51 tutto lo spirito, mentre se si sonnecchia davanti ai più eccelsi problemi lo spirito si eclissa. 52 CONCRETEZZA" Il caso dell’egregio dantista che pubblicò un canto della Divina Commedia come imitazione inedita di Dan- te non è del tutto campato in aria. Un egregio professore di meccanica razionale vedendo, alla fine di un dottissi- mo corso sui giroscopi, in mano a uno studente un bel giroscopio, domandò un po’ seccato: «Che cosè quell’arnese?» Aveva studiato tutta la teoria dei girosco- pi senza provare il minimo desiderio di vedere un giro- scopio. In quel tempo gran parte della fisica matematica consisteva in astrattissime e inutilissime esercitazioni senza legami con la realtà sperimentale. Un altro profes- sore, per esempio, dopo aver cercato inutilmente di ri- solvere il problema della distribuzione della carica elet- trica nei conduttori, concluse con sicumera che la solu- zione non era riuscito a trovarla ma esisteva certamente. (E chi potrebbe dubitarne?). Quella pseudo-scienza è ormai un allegro ricordo. Oggi tutti mirano alla concretezza. Della matematica si fa larghissimo uso (più di prima), ma ognuno cerca di porsi problemi concreti e fa di tutto per evitare la mini- ma divagazione. Tutti vogliono soprattutto che il teorico abbia senso fisico. Cosi mentre nessuno accetterebbe * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 30 gennaio 1931. 53 della matematica metafisica, si accettano ipotesi stranis- sime perché suscettibili di controllo sperimentale: e al- cuni arrivano perfino a negare l’esistenza di tutti gli enti che non si possono misurare con strumenti fisici. C’è in- somma, se mai, troppa concretezza. Non so che cosa ne pensi Domenico Pastorino; è cer- to che nell’articolo Terre nuove, pubblicato nell’ Ambro- siano, egli è stato troppo severo nei riguardi della scien- za e mi permetterà alcune amichevoli osservazioni. Dice Pastorino che la filosofia moderna può sorridere dei consensi della scienza, come sorrideva prima dei dissen- si, perché «virtualmente, fin dai tempi di Kant — e con ben altra profondità di basi che quelle della scienza — aveva fatto in pezzi gl’idoli adorati sino all’altro ieri dalle scienze positivistiche». Che la natura sia caos e che la legge le sia imposta dal nostro spirito è assioma della filosofia critica. Né c’era bisogno di valorizzare quasi l’atomo nel tubo di Crookes per concludere che i fenomeni microfisici «non si possono considerare come esistenti indipendentemente dal soggetto che li osser- va». Questo è assioma palmare per la filosofia fin dai tempi di Kant, anzi «non solo i fenomeni microfisici ma tutti i fenomeni indistintamente, sono, per essa, condi- zionati dallo spirito che li osserva: nessun oggetto senza soggetto». La filosofia sostiene la spiritualità di tutto il reale ed ammette come canone fondamentale il concetto della creazione, intesa come produzione del «qualitati- vamente nuovo e superiore». Gli scienziati sono, dun- que, ben in ritardo in confronto ai filosofi. E la domanda 54 rivolta a Duford «se i progressi della fisica abbiano im- portanza metafisica» non trovò adeguata risposta, anche perché la metafisica di oggi non ha niente da imparare a questo riguardo dalla fisica, seguendo questa l’altra come una zoppa una persona salda sulle gambe». Io sono d’accordo con l’amico Pastorino (benché non lo conosca personalmente, mi permetta di chiamarlo cosí per via dei principii che abbiamo in comune): sono d’accordo con lui sulla concezione idealistica della real- tà e su quello che lui dice molto bene nei riguardi della filosofia moderna. Sono anche d’accordo con lui, e non da oggi, nel deplorare la degenerazione positivistica del- la scienza. Credo però che egli, accettando come buona la traduzione non autorizzata che della scienza d’oggi ha fatto il Borgese, non abbia bene inteso la novità della scienza contemporanea. Ritornerò a lungo su quest’argomento; per ora mi limito a dire qualche parola sui fenomeni microfisici. Quando gli scienziati dicono che questi fenomeni non si possono considerare indi- pendentemente dal soggetto che li osserva, non intendo- no affatto ripetere che non c’è oggetto senza soggetto: intendono affermare una concezione concreta della fisi- ca. Finora i fisici avevano creduto che si potessero stu- diare i fenomeni prescindendo dalle «perturbazioni» che lo scienziato e i mezzi che egli adopera introducono ne- cessariamente nelle esperienze, perché credevano che queste «perturbazioni» si potessero, almeno idealmente, annullare. Ora si è visto che non sempre questo è possi- bile. Heisenberg, per esempio, ha dimostrato che non si 55 possono determinare nello stesso tempo la posizione e la velocità di un corpuscolo, perché quello che si guadagna in precisione in una delle due misure, si perde nell’altra. Questo non era minimamente sospettato dai filosofi e costituisce una vera novità. È una novità scientifica, non filosofica; ma crede davvero Pastorino che la filosofia debba essere indifferente alle novità? Dove se ne va al- lora l’idealismo? L’idealismo non può evidentemente consistere nell’affermare, una volta per sempre, la spiri- tualità di tutto il reale, ma nel vivere questa verità e quindi nel comprendere e sentire la spiritualità della nuova scienza. Tutto il reale non può significare tutto il reale di Kant, ma anche tutto il nostro reale. Se la filoso- fia si estranea dalla scienza e dalla storia, si ritorna al vecchio dogmatismo da cui Kant cominciò a liberarsi. È verissimo che molti scienziati sono ancora immersi nel sonno dogmatico, ma anche i filosofi sonnecchiano mol- to spesso, specialmente quando si occupano della scien- za o peggio quando dichiarano di non volersene occupa- re perché impegnati in faccende più filosofiche. 56 IL CREDO DI RICHET" Le Riflessioni sulla scienza che Charles Richet pub- blica nella Revue des deux Mondes del 1° novembre, su- sciteranno vivi consensi in Francia e altrove: e non sen- za ragione. L’illustre scienziato francese esprime, nello stile delle grandi occasioni, idee che hanno molto ségui- to nel mondo scientifico: per esempio che gli scienziati amano il vero e sono anzi poeti della verità; che la scienza è generosa e benefica ed è essa che dà ai tempi moderni la loro incomparabile grandezza; che la nostra immaginazione è povera in confronto di ciò che è real- mente esistente nell’atomo e nel cosmo e che c’è tanta poesia nell’anima dello scienziato quanta ce n’è nei più deliziosi poeti. «Pensa — egli dice al lettore a titolo di commiato — alle scoperte che si devono ancora fare, ai tesori nascosti nel mistero delle cose e sarai penetrato di confusione pensando che troppo spesso ti abbandonerai ad occupazioni ridicole». C’è un po’ d’ingenuità, se si vuole, ma c’è entusiasmo giovanile, c’è fede: e da que- sto punto di vista io approvo. Ma c’è anche un realismo, un astrattismo caratteristicamente francese che a me, ita- liano, non piace. Dopo Vico e l’idealismo non si può ri- manere a Cartesio. * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 13 novembre 1931. 57 Secondo Richet, la scienza che già conosciamo si può paragonare a una sfera, quella futura è rappresentata dal- lo spazio che circonda la sfera, cioè dall’infinito; sicché più la scienza cresce più aumentano le scoperte da farsi immediatamente, restando però sempre trascurabili in confronto di quelle che restano da fare. Se l’immagine non si prende alla lettera, possiamo essere d’accordo e possiamo anche vederla sotto una luce simpatica. In fondo, in forma immaginosa, Richet ci dice che non è ancora stanco, che vuole ancora lavorare, che la scienza è per lui ancora, com’è sempre stata, giovane e ardente. Purtroppo, lo scienziato francese dà alla sua immagine un valore eccessivo. In realtà egli, più o meno oscura- mente, pensa che la scienza sia tutta realizzata in quell’infinito misterioso e che perciò la scienza degli uomini sia un vero nulla: e non gli passa per la mente che la scienza degli uomini è viva e quindi piena di pos- sibilità, inesauribile e che, almeno per ora, essa sola si può considerare scienza, ed è, se mai, l’infinito, trascu- rabile, almeno fino a che rimane un’astratta possibilità. Infatti il Richet afferma che il progresso scientifico è cosi rapido che, dopo trent’anni, anche lavori eccellenti passano di moda. Nel 1931 — egli continua — non si con- sultano più le pubblicazioni scientifiche del secolo XIX. Esse fanno certamente una buona figura nelle nostre bi- blioteche e basta. «Una vecchia biblioteca scientifica è una sinistra necropoli. Uno spesso strato di polvere e di oblio ricopre tutti quei cadaveri». Di qui a bruciare mao- mettanamente tutte le biblioteche scientifiche non c’è 58 che un passo. Mais parfois — soggiunge quasi per corre- re ai ripari il Richet — certe couche de poussière est bien injuste. Perché è ingiusta? Perché Laplace, Ampère, Fresnel sono vivi, come i più vivi degli scienziati di oggi: e chiamarli cadaveri è una bestemmia. Sono vivi e rimar- ranno sempre vivi, come i canti dei poeti. Basta aver senso storico; basta saperli leggere. Veramente, relativa- mente ai poeti Richet ci potrebbe anche dare ragione. Secondo lui, un’opera d’arte, per quanto ammirevole, è sempre un riflesso del nostro spirito: fragile, fugace, in- coerente (udite, udite) come il nostro stesso spirito. (Con strana contraddizione, il Richet dice pure che nella scienza ciò che conta veramente è lo spirito, il pensie- ro). Galatea — egli continua — era incomparabilmente bella e Pigmalione aveva ragione di esserne innamorato ma essa non era che il pensiero di Pigmalione mentre un’opera di scienza è un frammento di assoluto. Eviden- temente, la poesia e l’assoluto non sono il forte di Char- les Richet. Egli non sospetta che il valore sia della poe- sia che della scienza consiste proprio nell’essere attività spirituali e nel non avere niente di assoluto, nel senso che lui dà alla parola. La scienza è bella, giovane e im- mortale, come la sente e la adora il Richet, appunto per- ché è il nostro stesso spirito. Se essa si fa consistere nei risultati finali, schematici, perde ogni consistenza; e la sua storia non ci appare più una storia di vittorie ma (l’espressione è del Richet) una storia di errori. Le più grandi scoperte — dice ancora il Richet — si possono rias- 59 sumere in una piccola frase: e cita Lavoisier e Pasteur; e poteva citare Volta, Fresnel, Maxwell, Einstein, De Bro- glie. Ma è chiaro che esse non sono soltanto quella pic- cola frase. La piccola frase ha valore in quanto le riassu- me, tant'è vero che nei ripetitori non ha niente di gran- de. La scienza — dice infine il Richet — non è né tedesca, né francese, né europea, né australiana, né del XX o del XII secolo, ma è la scienza senz'altro: ed è vero ma purché per scienza senz’altro non s’intenda una scienza fuori della storia. La scienza non deve ammettere pre- giudiziali e deve riconoscere soltanto le leggi dello spi- rito umano ma appunto per questo dev'essere concreta, cioè francese, italiana, vostra, mia, e, nello stesso tem- po, vera. 60 IL SENSO E IL LIMITE” Dice Antonio Banfi nella Cultura di novembre, che il pensiero contemporaneo non mira a costituire sistemi metafisicamente chiusi ma a definire gli «assi razionali che sottostanno alle varietà di direzioni, di oggetti, di metodi del sapere»; non mira a schematizzare ma ad ap- profondire, a rendere universale l’esperienza: «Il sapere arrivato a questo grado di autonomia, di elasticità, di sciolta articolazione interiore e insieme di certezza ra- zionale, non più sistema ma sistematicità sviluppantesi attraverso mille direzioni, è la sola garanzia di una cul- tura libera e progressiva. Giacché esso non ha da pre- scrivere agli uomini nessuna esigenza, nessun ideale, fuor di quelli che sorgono ed agiscono nella loro vita combattuta, ma ha solo da rischiararli nel loro senso e nel loro limite, al di là del quale degenerano in vana re- torica ed in oscuro fanatismo». Bellissima idea, che meriterebbe la più seria conside- razione sia da parte dei filosofi che da parte degli scien- ziati: e ci auguriamo vivamente che il Banfi vorrà ri- prenderla e svilupparla. Più o meno consapevolmente, tutti sono oramai stanchi di schematizzazioni e di empi- rismi e hanno sete di una sciolta articolazione interiore * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 22 gennaio 1932. 61 che sia insieme certezza razionale. Per conseguire l’altissimo fine, credo anch’io col Banfi che occorra de- terminare con chiarezza il senso e il limite di ogni attivi- tà. Credo in particolare che se gli scienziati e i filosofi sapessero rispondere alla domanda: «Qual è il senso, qual è il limite della scienza?», la nostra cultura farebbe un gran passo avanti. Lo credo tanto che, pur essendo convinto di non essere minimamente in grado di affron- tare il difficile problema, voglio almeno tentare di chia- rirne qualche punto, augurandomi che venga presto co- lui che, magari qui nell’ Ambrosiano, saprà fare il passo decisivo. Prima di tutto, mi pare indiscutibile che l’autonomia a cui accenna il Banfi si debba rivendicarla alla scienza: e naturalmente in sede teorica. Quelli che negano il carat- tere conoscitivo alla scienza pensano sempre alla legge, intesa come schematizzazione del processo scientifico e non al processo scientifico stesso. Chi fa una qualunque ricerca scientifica tocca invece con mano che non sche- matizza ma pensa, che non si aggira tra ombre ma è a contatto con la realtà. Facciamo il caso della scienza più bistrattata, e non da oggi, dai filosofi, cioè della mate- matica. Punto, linea, superficie, numero irrazionale, nu- mero immaginario, non sono puri nomi? Presentano cer- to delle difficoltà piuttosto serie (meno serie di quanto credono alcuni filosofi) ma che siano concetti realissimi e non puri nomi si può vederlo facilmente: basta riuscire a comprendere un qualsiasi libro di matematica, sia pure elementare. 62 Quando voi entrate nello spirito della matematica in modo da essere in grado non solo di ripetere le dimo- strazioni del libro ma di farle vostre, di trovare una for- mola o una proprietà con un procedimento diverso da quelli del libro, voi dimenticate le obiezioni dei filosofi e ne sentite la vanità e l’astrattezza. Voi sentite di pensa- re nel senso più pieno della parola, anche se siete inca- paci di giustificare filosoficamente i concetti fondamen- tali, cosî come si può essere un finissimo ragionatore anche se non si sa scrivere un trattato di logica e un grande critico letterario senz’aver scritto un’estetica. Il consiglio dei vecchi matematici ai principianti in imba- razzo: «Andate avanti, la fede verrà», non è poi tanto ir- ragionevole quanto si potrebbe credere. La fede viene perché, facendo della matematica, ci liberiamo di quella boriosa superficialità che vorrebbe passare per filosofia sopraffina: ci tuffiamo nella vita invece di restarcene al difuori. Chi ha spirito matematico, anche se segue una filosofia inadeguata, se ne libera appena comincia a pensare matematicamente. In quanto matematico, egli è sempre nella verità, come il poeta è sempre morale, quando canta, anche se nella vita è un inetto o un bir- bante. Mi si potrebbe obiettare che se io ho ragione, non sarebbero possibili contraddizioni nella matematica, non solo con le premesse ma nemmeno con altre teorie o con altre scienze o con la filosofia. Ma è proprio cosí: non ci possono essere contraddizioni e non ce ne sono finché si resta nella matematica; le contraddizioni cominciano quando credendo di fare della matematica, si fa della 63 cattiva filosofia o quando in qualunque modo si oltre- passano i limiti della matematica. Particolarmente istrut- tiva è la controversia sul postulato euclideo. Il postulato euclideo, come ogni altro, non si dimostra: si ammette. Postulato è appunto la verità che si ammette senza di- mostrazione; chi pretende di dimostrarlo lo snatura. S’intende che il postulato non deve essere arbitrario, non deve essere in contraddizione con nessuna verità, perché allora sarebbe inammissibile: è un dato intuitivo che il più delle volte discende naturalmente da un’ipote- si. Il postulato di Euclide, per esempio, è una conse- guenza immediata, un aspetto particolare dello spazio euclideo, che è quello del senso comune. Nello spazio euclideo è naturale che per un punto fuori di una retta non si possa condurre che una parallela alla retta; in altri spazi il postulato non può essere ammesso: e in base a postulati diversi sorgono altre geometrie. Ognuna di queste geometrie è vera nel proprio spazio ma non può pretendere di essere essa sola la vera in qualunque spa- zio. Ogni geometria insomma ha dei limiti che non van- no oltrepassati; essa, come ogni scienza, ha il suo cam- po di validità al difuori del quale non è vera. Questo concetto si può oramai considerare acquisito nella fisica, come si è avuto più di una volta occasione di ricordare. Cosi l’ottica geometrica ha un suo dominio in cui può essere ammessa senza riserve, un altro ne ha l’ottica ondulatoria, un altro la teoria dei quanti. La meccanica classica vale nel campo sterminato dei feno- meni macroscopici e delle piccole velocità ma non vale 64 nel campo atomico; nel nucleo poi non vale nemmeno la meccanica ondulatoria. Anche principii nei quali fino a qualche anno fa tutti credevano incondizionatamente, come il principio di causalità, sono stati abbandonati dalla maggioranza dei fisici nel campo atomico; e Bohr dubita perfino che il principio della conservazione dell’energia non sia valido nel nucleo atomico. So benissimo che molti sperano che si finisca con l’ideare una teoria che comprenda tutti i fenomeni possi- bili, una teoria universale e definitiva ed è molto proba- bile che si creino teorie più comprensive di quelle che si hanno adesso; ma una teoria che ci dispensi dal pensare a me pare nient’altro che un brutto sogno. Tutto fa cre- dere che quando avremo trovato la teoria più comprensi- va, i problemi da risolvere si moltiplicheranno. La teoria più comprensiva non potrà sfuggire alla sorte di tutte le teorie, che è quella di sistemare alla meglio l’esperienza passata, lasciando impregiudicato il problema del futu- ro. Quando Marconi riusci a trasmettere la lettera S' oltre P Atlantico meravigliò gli scienziati più dei profani per- ché dimostrò l’insufficienza di una teoria che sembrava granitica. Non avendosi allora l’idea di quello che poi si chiamò lo strato ionizzato di Kennelly-Heaviside, pare- va evidente che le onde hertziane non potessero oltre- passare grandi distanze per via della curvatura della ter- ra; Marconi però ebbe fede nell’esperienza e vinse. Ora vediamo chiaramente che nelle teorie di allora sulla pro- pagazione delle onde c’era implicita la negazione arbi- traria dello strato di Kennelly-Heaviside, c’era una ge- 65 neralizzazione eccessiva, un’estrapolazione; ma non tut- ti vedono ancora chiaramente che ogni teoria vale sol- tanto per le esperienze che riassume e perciò su questo punto non s’insisterà mai abbastanza. Cosi è curioso che molti ancora si ostinino a fare un’estrapolazione enor- memente più arbitraria, cioè ad estendere all’universo le leggi che si ammettono per i sistemi chiusi. Sull’enorme mistero dell’universo che appassiona tanto gli scienziati nei momenti di malinconia, la scienza non può dir nulla; ma la filosofia ha detto da un pezzo che il mistero ri- marrà inpenetrabile finchè l’universo sarà concepito come un ente chiuso in se stesso e indipendente dallo spirito. L'universo è oggetto dello spirito e non si può studiare come se l’uomo non ci fosse; ad esso non si può applicare né il principio di causalità, né il principio della conservazione dell’energia, né il principio di Car- not. L'universo, o meglio la realtà di cui l’universo fisi- co è solo un aspetto, cresce, si sviluppa. Non è dunque un sistema conservativo, un sistema chiuso: è tutt’altra cosa. Parlare della sua morte non è logico e forse nem- meno molto serio. Ma è pure vero che queste sono idee schiettamente fi- losofiche. Sono dunque i filosofi che le devono agitare; sono essi che devono dare all’attività scientifica la co- scienza del suo valore e dei suoi limiti. Il momento non potrebbe essere più propizio. Gli scienziati si trovano a ogni momento a tu per tu con la filosofia e la filosofia non può continuare a rimanersene nella sua torre d’avo- 66 rio, se non vuole anch’essa degenerare nella rettorica e nel fanatismo. 67 IL LINGUAGGIO E LO STILE" Nella Collection de suggestions scientifiques diretta da Léon Brillouin (Paris, Blanchard), Pius Servien Co- culescu, letterato amico della scienza, pubblica un opu- scolo curioso intitolato Le langage des sciences. Secon- do l’ Autore, c’è un linguaggio comune a tutte le scien- ze. Una disciplina si trasforma in una nuova scienza ap- pena rinunzia al linguaggio umano nella sua integrità per accettare il linguaggio scientifico. Il linguaggio scientifico appartiene dunque al linguaggio in generale ma non viceversa. Cosi (l’esempio è dell’ Autore) la fra- se: «Il burro fonde a una temperatura compresa tra quel- la del ghiaccio fondente e quella dell’acqua che bolle», benché non abbia né una grande precisione né un gran valore, fa parte della lingua delle scienze; mentre la fra- se: «Come mi piacerebbe assaggiare quel burro!» non appartiene al linguaggio scientifico. Per definire il carat- tere fondamentale del linguaggio comune a tutte le scienze, l’ Autore considera una memoria scientifica qualunque, per esempio una memoria di fisica matema- tica. Appena se ne legge la prima frase — egli dice — si osserva che ha un senso ben determinato, uno e non più: il senso che le aveva dato 1’ Autore e che le daranno tutti * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 5 febbraio 1932. 68 1 lettori. Certo, due lettori differenti reagiranno in ma- niera diversa davanti a un lavoro scientifico, ma ciò che conta dal punto di vista scientifico non sono i lampi di genio che il lavoro può suggerire a qualche lettore privi- legiato: sono le frasi che per tutti hanno lo stesso signifi- cato: «Le memorie originali, per esempio, hanno un po- tere suggestivo infinitamente più grande dei trattati sco- lastici; ma esse dànno alla scienza ciò che tutti i trattati sono capaci di ripeterne, benché con altre parole: ed è questa verità unica, identica per tutti, che si chiamerà domani teorema di Lie o principio di Curie». Il linguaggio scientifico ha la caratteristica di posse- dere frasi equivalenti, cioè frasi che, pure essendo diver- se dal punto di vista letterario, sono rigorosamente iden- tiche dal punto di vista scientifico (o, in altri termini, hanno lo stesso significato, sicché sostituendo ad una di esse un’altra qualunque delle altre il senso non si altera minimamente). Cosi invece di dire che due punti deter- minano sempre una retta, Hilbert ammette che si possa dire ugualmente che la retta passa per quei due punti, o che essa li congiunge, oppure che i due punti sono situa- ti sulla retta. Una conferma dell’esistenza di frasi equi- valenti è data dalle frasi nulle, le quali aggiunte a una frase qualunque la trasformano in una frase equivalente alla data. «Per esempio la frase (del linguaggio scientifi- co, benché non vera): “Il sole è grande come il Pelopon- neso” è equivalente a quest'altra: “Il sole è grande quan- to il Peloponneso, meno l’Argolide, più 1 tre terzi 69 dell’ Argolide”, essendo stata ottenuta aggiungendo alla prima una frase nulla». Il linguaggio scientifico — continua il Servien — è in- differente ai ritmi. Un linguaggio che fosse in tutto iden- tico al linguaggio scientifico senz’essere però indiffe- rente ai ritmi, non potrebbe ammettere né frasi equiva- lenti né frasi nulle e perciò mancherebbe della proprietà fondamentale del linguaggio scientifico, che è quella di avere un senso unico per tutti. Una conseguenza immediata di quanto si è detto fin qui è che il contenuto di una qualunque memoria scien- tifica si può esprimere integralmente non solo con paro- le della stessa lingua in cui la memoria è scritta ma con parole di un’altra lingua qualsiasi. «Ogni testo in lin- guaggio scientifico, e in linguaggio scientifico soltanto, è perfettamente traducibile». Tutte le lingue coincidono fra loro per tutta l’estensione del linguaggio scientifico. La frase: «Due più tre è uguale a cinque», equivale esat- tamente dal punto di vista scientifico non solo alla frase: «Se si aggiunge due a tre, si ottiene cinque», ma a molte frasi tedesche o francesi. Anche se la traduzione si do- vesse ritenere insufficiente dal punto di vista letterario, o più in generale psicologico, essa sarebbe esatta dal punto di vista del contenuto scientifico. Per ogni parola che non sia del linguaggio scientifico, c’è un elemento sonoro da cui non si può fare astrazione. Per dire: «Mi piace» non ho altro mezzo che dire queste due parole. Se le traduco in una lingua qualunque, dico tutt’altra 70 cosa, giacché nelle parole del linguaggio comune c’è un elemento sonoro che non si può tradurre. Dal punto di vista di Servien, il problema della lingua universale diventa l’uovo di Colombo. La lingua univer- sale esiste già: è la lingua delle scienze; e al difuori del dominio scientifico è vano parlare di lingua universale. Per rendere riconoscibili a persone parlanti lingue diffe- renti le parole della lingua «universale», cioè scientifica, basterebbe dare a ogni nozione lo stesso segno scritto o in altri termini creare una nuova scrittura che si potreb- be chiamare ideografica. In questo modo si renderebbe più rapido un processo che si va attuando sempre più in tutte le scienze. Tutte le scienze infatti tendono a liberar- si da ogni scrittura non ideografica. Uno sforzo supremo in questo senso è il Formulario di Peano, che è scritto in una vera e propria lingua universale: ma lingua univer- sale è anche il simbolismo matematico ordinario e non solo quello di Peano: e cosí pure certi simboli commer- ciali, le leggende delle carte geografiche, le notazioni chimiche. Tutti questi ragionamenti — bisogna convenirne — non sono molto profondi: e sono molto prolissi, senz’essere molto chiari. Implicitamente, 1° Autore confonde la scienza con la legge scientifica, con la formola staccata dall’esperienza e dal ragionamento e dallo scienziato che l’ha trovata: e allora tutto il resto segue da sé. Lo scienziato si affannerebbe dunque per contribuire ad ag- giungere qualche pagina o qualche riga ai trattati scola- stici. Tutto quello che in lui c’è di vivo, di personale, di 71 unico sarebbe quasi superfluo. Tutto quello che nella sua opera può suscitare nuovi pensieri dev’esser messo da parte. Quello che importa è di aggiungere qualche dato ai trattati scolastici. Le memorie originali dovreb- bero dunque sparire dopo di essere state utilizzate da un compilatore di testi scolastici: da uno qualunque e prefe- ribilmente da uno mediocre, da uno che si possa consi- derare come l’esponente di tutti coloro che non hanno la minima originalità. Se è cosí, ogni scienziato potrebbe fare a meno di scrivere memorie originali e si potrebbe limitare a comunicare ai compilatori di testi scolastici i suoi risultati più «universali», cioè più triti, più terra ter- ra. Parlare di stile scientifico sarebbe dunque un non senso: sarebbe un segno che non si è ancora compreso il vero carattere della scienza. Vedremo invece che Ser- vien parla di stile e arriva quasi a risolvere il vero pro- blema della scienza ma non se ne accorge e se lo lascia sfuggire. Prima di analizzare questa nuova fase del suo pensie- ro, desidero far vedere che il punto di vista di Servien non è solo superficiale ma sbagliato. È sbagliato perché la formola di per se stessa non significa niente: ogni for- mola non è che un riassunto di esperienze e di pensieri da cui non è possibile fare astrazione. Gli stessi trattati scolastici, gli stessi formularî hanno valore in quanto li sappiamo leggere, cioè in quanto sappiamo, per mezzo di essi, pensare e sperimentare: hanno valore per quel tanto che essi sono scienza viva, scienza «non traducibi- le». E non ci vuol molto a capire (ed è strano come 72 l’ Autore non se ne sia accorto) che se la tesi sostenuta da Servien in questa prima parte del suo scritto fosse ammissibile, se cioè si dovesse ammettere che scientifi- co significhi traducibile, tutte le banalità e i luoghi co- muni sarebbero scienza. Niente di più traducibile infatti di frasi come quelle che si trovano nelle grammatiche: «Avete visto il vecchio padre del vostro vicino? No: ho visto la buona madre della mia bella vicina». Un orario, un catalogo sono eminentemente traducibili e non hanno niente che fare con la scienza. Le due frasi del burro sono ugualmente traducibili, mentre Servien ci assicura che la seconda non appartiene alla lingua scientifica. È vero; ma dicendo: «Comme j’aimerais goûter de ce beurre!», io dico la stessa cosa che direi se traducessi la frase in italiano o in inglese. Il lato sonoro, il lato poeti- co della frase non contano nulla, perché essa è per ec- cellenza prosaica. Cosi i comandi militari, che devono essere essenzialmente antiscientifici per Servien, sono traducibilissimi, tant'è vero che esistono in tutti gli eser- citi. Sulla questione dello stile, come s’è accennato, il Ser- vien ha idee opposte a quelle che dovrebbe logicamente avere. Il contenuto positivo di una memoria scientifica — egli dice — si può esprimere in mille maniere ma poiché non sono tutte adottate sorgono problemi di stile. Si po- trebbe perfino sostenere che soltanto il linguaggio della scienza ponga dei problemi di stile perché il contenuto di una pagina lirica non può essere espresso che in un modo e quindi non si può parlare di stile. (L'argomento 73 è debolissimo, come tutti vedono. Appunto perché c’è una sola espressione che sia davvero artistica, sorge il problema dello stile. Quell’espressione unica occorre trovarla e perciò occorre saperla distinguere da tutte quelle che potrebbero sembrare equivalenti). Limitandosi, per fissare le idee, alla matematica, l Autore dice che ogni memoria scientifica originale ha due funzioni: una scientifica: dire delle cose nuove; l’altra letteraria: dirle nella forma più conveniente. La funzione letteraria in teoria è un lusso, in pratica è es- senziale giacché la scienza è attività vivente e non può sfuggire alle esigenze della vita. Cosi ciò che spiega e unifica il tutto è quel sentimento del bello di cui parlano tutti i matematici. L Autore distingue poi la memoria che il matematico scrive in un certo modo per ragioni di opportunità e la ricerca effettiva e nota con ragione che sarebbe di gran- de utilità una filologia delle scienze (storia, psicologia, critica di testi...) che ci mettesse a contatto con la ricerca scientifica. Le vie attraverso le quali si son fatte le varie scoperte — egli dice — sono vie sacre e intangibili. E con- traddicendo in pieno l’affermazione precedente che fa- ceva consistere la scienza in ciò che di essa passa nei trattati scolastici, egli afferma che il miglior trattato di analisi matematica sarebbe «la ristampa ordinata, scelta, brevemente commentata delle memorie fondamentali che hanno fatto progredire l’analisi», e continua: «Ben- chè tutti i matematici d’ingegno si siano nutriti quasi esclusivamente dei testi dei loro pari, è curioso vedere 74 che i trattati e i corsi sono dappertutto, mentre i testi ca- pitali di Cauchy, Welerstrass, non si trovano che in alcu- ne biblioteche, in quelle edizioni complete in-4°, splen- didi in-pace. Chi non si è mai dissetato alle sorgenti im- magina che l’acqua vi è meno buona e meno assimilabi- le che nei serbatoi scolastici. La causa ne è ancora la confusione tra economia di parole ed economia di pen- siero: questa, sempre realizzata dalle memorie originali; quella, spesso realizzata nei trattati scolastici, 1 più chia- ri dei quali, in confronto dei testi delle scoperte, sono assolutamente opachi e senza voluttà. Anche in questo campo c’è un umanismo possibile e l’originale dovreb- be essere più familiare del commento». In questa bellissima pagina l’ Autore aveva superato ogni grammaticismo. Logicamente egli doveva conclu- dere che quello che aveva detto precedentemente andava abbandonato e che la scienza è essenzialmente stile, spi- ritualità, non ideografia e astrazione. Egli comincia col dire, veramente, qualcosa di simile. Dice che alcune del- le cose dette precedentemente appaiono ora sotto una nuova luce: dice che non si può più parlare d’indifferen- za ai ritmi, che l’espressione ideografica potrebbe pre- sentare degl’inconvenienti e che il problema della lin- gua universale esige molto empirismo; ma aggiunge su- bito che tutto ciò «n infirme pas, mais seulement nuan- ce» quello che è stato detto prima. Nel linguaggio lirico lo stile sarebbe la stessa cosa mentre nel linguaggio scientifico non sarebbe che l’igiene del pensiero. La ve- rità è invece che lo stile, cioè la personalità dello scien- 75 ziato, è tutto nella scienza ed è per questo che bisogna attingere alle fonti. 76 PER LA STORIA DELLA SCIENZA" Nell’interesse della storia della scienza, vogliamo fare alcune osservazioni sui due ultimi fascicoli di Ar- cheion, l'importante rivista diretta da Aldo Mieli con la cooperazione di Roberto Almagià, Silvestro Baglioni e Gino Loria. Se il lettore ci troverà un po’ farraginosi, pensi che la colpa non è tutta nostra ma un pochino an- che dei due fascicoli di Archeion, che sono piuttosto caotici. Cominciamo col dare una buona notizia: il gruppo italiano per la storia delle scienze, aderente al Comité international d’histoire des sciences, si è costituito. Ol- tre ai membri effettivi e corrispondenti del Comité (R. Almagià e G. Loria, E. Bortolotti, A. Corsini, D. Gior- dano, R. Marcolongo, G. A. Nallino), sono stati chiama- ti a far parte del gruppo: Federigo Enriques e G. Monta- lenti, presidente e segretario dell’Istituto Nazionale ita- liano di storia delle scienze; G. Vacca, professore di sto- ria della matematica nell’Università di Roma; Silvestro Baglioni, Guglielmo Bilancioni, Arturo Castiglioni, Amedeo Agostini, Mario Gliozzi, tutti cultori assai ap- prezzati di storia della scienza. È un bel gruppo senza dubbio, perché i componenti non solo hanno dato, come * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 4 marzo 1932. 77 dicevo, contributi importanti alla storia della scienza, ma continueranno a darle ancora moltissimo. Alcuni di essi hanno già pubblicato opere fondamentali e altre ne pubblicheranno. Sulla loro scelta nessuna riserva si può fare. Ma poiché in Archeion leggiamo che il gruppo è «definitivamente costituito», dobbiamo francamente di- chiarare che la notizia non può essere accettata senza gravi riserve. Già, secondo noi, non è stata felice l’idea di dare al Comité international d’histoire des sciences il carattere di accademia. Sarebbe stato meglio creare un’associazione aperta a tutti coloro che amano la storia della scienza. Né siamo isolati in quest’opinione. Tutti poi convengono che, anche volendo conservare il carat- tere di accademia al Comité, i gruppi nazionali devono essere liberi da ogni catenaccio: e io personalmente ri- tengo che il Comité dovrebbe far tutti gli sforzi per au- mentare al massimo l’efficienza dei gruppi, facendovi entrare tutti coloro che alla storia della scienza possono dare un contributo qualsiasi. Secondo me, dovrebbero entrare nei gruppi nazionali tutti i soci delle varie socie- tà scientifiche e tecniche, i direttori delle riviste e dei quotidiani e tutti coloro che, anche non occupandosi di storia della scienza, possono in qualunque modo giovare alle iniziative che possono essere prese in questo cam- po. Se il gruppo italiano dovesse davvero essere defini- tivamente costituito, esso lascerebbe fuori la maggior parte degli storici della scienza e non potrebbe essere accettato. Vogliamo dunque sperare che esso abbia ca- rattere provvisorio. 78 Anche le direttive del Comité ci sembra che non ab- biano ancora raggiunto l’assetto definitivo; e il carattere un po’ troppo eclettico dell’ Archeion esprime forse l’incertezza in cui ci sembra che il Mieli si trovi e con lui tutto il Comité. Aldo Mieli ha dato sempre (né gli diamo torto) una grande importanza all’elemento erudi- to della storia della scienza; tuttavia, prima che andasse a Parigi, aveva mostrato di sapere apprezzare non solo i dati e le date ma anche le idee, tanto che alcune sue di- chiarazioni di sapore idealistico furono notate con com- piacimento dai cultori della filosofia moderna. A Parigi si è invece, se non m’inganno, lasciato sopraffare dall’erudizione e dall’astrattismo, dimodoché, se conti- nua di questo passo, finirà con lo svolgere un’azione pu- ramente estrinseca e sussidiaria. La storia della scienza (il Mieli lo sa benissimo e non deve dimenticarlo) consi- ste essenzialmente nel rivivere con spirito critico il pen- siero scientifico e non nel precisare qualche dato di fatto di scarsa importanza. Il Comité international d’histoire des sciences si occupa di troppe cose: dalla questione delle priorità a quella della rettifica degli errori, dalla bi- bliografia alla trascrizione dei nomi proprî dalle lingue che non usano l’alfabeto latino (e ha perfino una Com- mission des questions à resoudre), ma temiamo che esso finisca proprio col non occuparsi dello studio dei classi- ci della scienza con lo scopo di darne una nuova inter- pretazione. In questo caso, esso svolgerà un’azione assai modesta e discutibile. Lo ripeto: io non disprezzo l’eru- dizione e sono perciò disposto ad ammettere che le 79 Commissioni permanenti del Comité possano avere una funzione utile, ma l’erudizione non dev'essere fine a se stessa. Facciamo l’esempio della rettifica degli errori. Dice il prof. Gino Loria, presidente della Commissione per la rettifica degli errori, che questa Commissione ha il compito di sradicare, per quanto è possibile, gli errori storici più diffusi. Egli ricorda che il Bertrand, nel suo volume sui fondatori dell’astronomia moderna, dice che Copernico vide a Roma il Regiomontano e osserva giu- stamente che la notizia è falsa perché, quando Coperni- co andò a Roma, il Regiomontano era morto da un pez- zo. L'osservazione era stata già fatta fin dal 1877 da R. Wolf, nella sua storia dell’astronomia ma ciò nonostante l’errore continua a essere ripetuto. È deplorevole, siamo d’accordo, e non abbiamo niente da ridire contro la ru- brica Corrigenda, che sarà pubblicata in Archeion; ma bisogna dir forte che sarebbe molto più deplorevole che non si avessero idee chiare sul pensiero di Copernico e che ciò che davvero importa è la conoscenza delle idee di Copernico e del loro valore storico. Gli sbagli di stampa sono odiosissimi (e pochi li odiano come me) ma non bisogna poi credere che il correttore di bozze conti più dello scrittore. Non lo crede nemmeno l’Archeion, che, nelle sei righe dedicate a Edison, scrive per due volte male il nome del grande inventore. Gli er- rori materiali come quello citato dal Loria equivalgono in fondo a sbagli di stampa: e un’opera di storia della scienza potrebbe essere bella e vera anche contenendone parecchi, mentre essa non ha importanza se manca 80 d’idee. Il Comité international non si può dire che man- chi d’idee ma non si può nemmeno dire che sia troppo ricco da questo punto di vista. Nel penultimo fascicolo di Archeion è pubblicato al posto d’onore un messaggio di Emile Meyerson sullo studio della storia delle scien- ze. Non lo disprezzo ma mi auguro che il Comité non lo consideri come un testo sacro e che abbia in proposito idee più importanti. Meyerson fa buon viso alla storia della scienza, per la quale dice opportunamente che oc- corrono cattedre, istituti, seminari; ma che abbia un’idea chiara di ciò che debba essere la storia della scienza non mi pare. Al Meyerson manca il concetto della verità come sviluppo, che è il solo che possa giustificare la storia della scienza, perché, se non si ha questo concet- to, la storia non può essere che storia di errori e perciò non può avere che un interesse limitato. Se cerchiamo di mettere per un momento da parte, come consiglia il Meyerson, le nostre idee di oggi per guardare il passato con gli occhi degli antichi, noi potremo essere equi, nel senso che possiamo scusare gli errori degli antichi, ma non potremo certamente considerare l’errore come veri- tà: e non saremo storici. Per fare della storia, non basta nemmeno riconoscere che la scienza del passato è «una scienza allo stesso tito- lo della nostra» occorre riconoscere che essa è la nostra stessa scienza in una fase anteriore. Dire che studiando la scienza del passato ci sentiamo trasportati sotto un al- tro cielo dove i fiori e le montagne hanno forme strane, 81 e un sole sconosciuto illumina il paesaggio, può essere poetico ma non mi pare profondo. Non mi pare chiara nemmeno la distinzione che nell’ultimo Archeion fa Arnold Reymond tra storia del pensiero scientifico e storia delle scienze. Secondo il Reymond, la prima si dovrebbe occupare di ciò che è essenziale nei metodi, nella tecnica e nei modi di ragio- nare, mentre la seconda dovrebbe cercare di essere com- pleta, esponendo in modo particolareggiato sia 1 tentati- vi che le conquiste. L’ Autore stesso riconosce che que- sta distinzione dovrebbe essere sviluppata e giustificata; ma si tratta in verità di una distinzione troppo empirica che non può avere che giustificazioni di carattere pratico e contingente e sarebbe erronea se volesse significare che ci possa essere una storia che sia puro pensiero e un’altra che sia una semplice raccolta di fatti. L’ordine del giorno di Laignel-Lavastine votato per acclamazione mi pare buono. Secondo quest’ordine del giorno, considerando la parte fondamentale che hanno le scienze nella storia dell’umanità e considerando la ne- cessità della conoscenza della storia delle scienze per la comprensione degli studi storici (io avrei aggiunto: e di quelli scientifici), si fa voto perché sia insegnata la sto- ria delle scienze nelle scuole secondarie e sia accentrata in un istituto speciale nell’insegnamento superiore. Non ci sembra però necessario — e forse nemmeno opportuno — che l’insegnamento della storia delle scienze faccia parte, nelle scuole secondarie, della storia generale. È 82 meglio affidarlo, come si fa in Italia, agli insegnanti del- le singole scienze e a quelli di filosofia. 83 LA CRISI E LA SCIENZA" Non so se abbiate letto, nelle Nouvelles Littéraires del primo aprile, l’articolo: «La crise et la science» di Julien Benda. È una critica a un altro articolo, l’«eloquente ar- ticolo» di Paul Langevin sulla scienza colpevole o libe- ratrice, che nessuno di noi deve aver letto, essendo stato pubblicato in un giornale fuori mano (la Dépéche de Toulouse dell’11 marzo). Dal momento che non cono- sciamo direttamente lo scritto del Langevin, le conside- razioni che faremo avranno carattere provvisorio, alme- no da certi punti di vista; ma provvisorio non significa inutile, e d’altra parte quello che dice Benda merita di essere discusso indipendentemente dal Langevin. Il problema dei rapporti tra la crisi e la scienza non è nuovo per noi, anzi sappiamo che esso è stato il centro dei congressi delle scienze di Milano e di Roma né si è ancora detta l’ultima parola. In un punto siamo tutti d’accordo in Italia: che la crisi non può lasciare indiffe- renti gli scienziati. Sull’applicazione di questo principio si può discutere ma mettere in discussione il principio stesso non è lecito se non si vuole abbassare la scienza a perditempo. Lo scienziato è uomo e non si può sottrarre ai doveri dell’uomo: e Langevin probabilmente non ha * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 7 aprile 1933. 84 fatto altro che riaffermare questa verità. Che Julien Ben- da possa non esser d’accordo può sembrare incredibile. Sono diversi anni che egli non ha pace per il tradimento dei «chierici» e dovrebbe essere felice di trovarsi al fianco l’illustre fisico del Collège de France. Ma i «chierici» sono irritabili più dei letterati e il dissenso non deve sorprendere. Langevin è per lo spirito scienti- fico, Benda per lo spirito etico. Il primo è tutto fatti, tut- to ragione (anzi «raison»: è uno dei capi più autorevoli dell’ Union rationaliste), il secondo tutto ombre, tutto spettri e catastrofi. Langevin è un maestro della fisica teorica. I suoi lavori sul magnetismo sono fondamentali. Egli ha messo l’ordine nel caos magnetico sistemando i risultati ottenuti sperimentalmente da Curie, giustifican- do per via termodinamica la legge di Curie e fondando la nuova teoria statistica del paramagnetismo. È stato uno dei precursori e poi uno dei più entusiasti campioni della teoria di Einstein e ha visto sempre nella scienza qualcosa di profondamente vivo, che impegna tutto l’uomo e non soltanto il suo cervello. La sua filosofia, che è quella del manifesto dell’ Union rationaliste non è certo il nostro ideale. Più che una filosofia è una religio- ne: la religione del positivismo; ma io non la disprezze- rei. Dev’essere certamente rielaborata e ampliata ma può costituire un punto d’appoggio: ottimo per i france- si. E può sempre essere un ottimo antidoto contro i ritor- ni offensivi dell’antiscienza cosí frequenti in tempi di crisi. Proprio accanto all’articolo di Julien Benda si leg- ge un trafiletto della simpatica signora Germaine Beau- 85 mont intitolato Retour du spectre che ci riconcilia con l’Union rationaliste. Secondo la signora Beaumont, la riabilitazione dello spettro fatta da Jean Giraudoux è «uno dei più interessanti avvenimenti letterari e mistici del nostro tempo affaticato». Davanti a questo ritorno si può finalmente comprendere quanto fosse arida la lette- ratura di ieri, la letteratura senza spettri, e quanti tesori fossero nascosti nelle armature dello spettro, nelle sue catene, nelle sue case disabitate, nel suo pallore, nel suo odore di cimitero al chiaro di luna. Lui solo è fedele e sa amare e ha il senso della tradizione e dell’esattezza e il culto del focolare. Contro queste romanticherie l’ Union rationaliste ha mille ragioni, e ha ragione quando sostie- ne che tra spirito scientifico e poesia non c’è incompati- bilità: la poesia non va confusa con avvenimenti mi- stico-letterari come quello celebrato dalla Beaumont. Nell’articolo che non è piaciuto a Benda, il Langevin, a quanto sembra, sostiene che lo scienziato non deve ri- manere chiuso nel suo laboratorio, indifferente agli arbi- trii, alle ingiustizie, ai delitti che si commettono per mezzo della scienza e che deve invece intervenire per- ché ci sia più moralità, più giustizia, più razionalità nel mondo. Fin qui francamente non sappiamo dar torto a Langevin. Lo scienziato deve far di tutto per rendere più spirituali le relazioni fra gli uomini singoli e tra le na- zioni, e qualche volta può farlo anche senza uscire dalla scienza. Il dissenso comincia quando Langevin dice che, per uscire dalla crisi, occorre estendere il metodo scien- tifico al mondo umano. Si corre il rischio di trattare gli 86 uomini come cose, negando cosi, con ingenua contrad- dizione, la spiritualità che si vorrebbe instaurare. Se Ju- lien Benda avesse detto questo, noi lo avremmo applau- dito, ma egli non ha la serenità necessaria per suggerire rimedi efficaci (posto che si possa parlare di rimedi). È un malato che vuol fare il medico. Come malato ci inte- ressa e qualche volta ci commuove ma come medico non può essere preso in considerazione. Per Benda, i fatti, la realtà, i dati dell’esperienza a cui si riferisce Langevin sono «eminentemente ingiustizia, passione, violenza, irrazionalità». La storia è, secondo lui, «essen- zialmente irrazionale». Lo scienziato perciò non può fare altro che registrare quest’irrazionalità e trovarne le leggi, giacché — aggiunge il Benda, credendo certamente di fare una considerazione profonda —, l’irrazionale può avere le sue leggi. Quando pretende d’introdurre nei fat- ti la razionalità, lo scienziato sostituisce una realtà di suo gusto a quella dell’esperienza e cessa di essere scienziato per divenire uomo d’azione. Se la storia fosse davvero «essenzialmente irraziona- le», Langevin avrebbe torto ma avrebbe torto anche Benda. L’unico rimedio, l’unica saggezza sarebbe il prender atto di quella irrazionalità, l’adorarla. Essenzial- mente irrazionale vorrebbe dire assurdità del contrario, ma evidentemente Julien Benda voleva dire altro. Egli ammette che la realtà storica si possa modificare e che alcuni personaggi come Gesù e qualche altro l’abbiano effettivamente modificata. Quell’essenzialmente è dun- que del tutto superfluo. Il dato umano infatti — egli dice 87 poco più oltre — non è simile a quello chimico e fisico perché comporta della libertà. Ebbene, in una visione idealistica del mondo, anche il dato fisico-chimico com- porta della libertà o meglio è essenzialmente libertà. Il dato fisico-chimico è il problema ancora non ben formu- lato che lo scienziato si pone, e risolvere il problema o, in altri termini, far della scienza significa passare a una spiritualità più profonda. Lo scienziato non ha davanti a sé una realtà a cui si adegua passivamente. La sua è una attività essenzialmente spirituale, creatrice, come l’atti- vità morale di cui si fa paladino il Benda. Facendo della scienza, lo scienziato non cessa di essere uomo, come sembra al Benda: si fa più uomo. Se la nazione, se l’umanità sono in crisi, egli ha il dovere di contribuire, per quanto è possibile, al ritorno della normalità. Deve per questo snaturare se stesso come crede il Benda? No; alla soluzione della crisi egli può contribuire in vari modi e — quando non si possa fare altrimenti — anche continuando a fare della scienza pura. Quando è possibi- le, egli può orientare in altra direzione la sua attività e in qualche caso può o addirittura deve abbandonare l’atti- vità scientifica. Certe attività nei momenti gravi vanno lasciate a pochi privilegiati. Capisco che a tutto questo Langevin non ha molto probabilmente pensato ma si può escluderlo? In lui c’è stata sempre un’ansia di supe- rare la scienza come attività speciale: e bisogna ricono- scere che se egli non è arrivato a una veduta superiore per via teorica, c’è arrivato in pratica con la sua ardente fede nella scienza educatrice. Nell’articolo di cui si di- 88 scute, egli ha parlato di scienza colpevole e liberatrice; e in verità lo scienziato è colpevole se si chiude nel suo laboratorio nei momenti in cui è suo dovere lavorare al- trove, mentre se riesce ad essere dove ferve la crisi, vivo come nel laboratorio, può svolgere azione di alta mora- lità. Quest’azione fuori del laboratorio può non essere scientifica — e può essere anche l’azione morale di Ben- da — ma può anche essere, come dicevamo, l’attività scientifica in altra forma o in altra direzione. Perché ciò sia possibile, occorre riaffermare che lo scienziato non è una macchina per far della scienza inutile, come sembra credere il Benda. E bisogna rinunziare ai dualismi e al manicheismo apocalittico. Secondo il Benda, coloro che hanno in qualche modo portato la giustizia sulla terra hanno fatto questa dichia- razione preliminare: «Io non accetto il mondo com'è»: e questa rivolta contro i dati dell’esperienza sarebbe la ne- gazione dello spirito scientifico. Se vogliamo proprio parlare di rivolta, siamo certamente fuori dello spirito scientifico; ma siamo anche fuori della giustizia: il ri- voltoso non è il rivoluzionario, non è il creatore. I dona- tori di giustizia a cui il Benda ama riferirsi non erano ri- voltosi e qualche volta erano spiriti di titani entro virgi- nee forme; temo invece che lui, Julien Benda, sia un po- chino rivoltoso, e senza dubbio è da rivoltoso quell’insofferenza della realtà contemporanea. «Kant — egli dice — ha detto che la morale crea il suo oggetto e in verità essa crea la giustizia e non la trova bell’e fatta: basta aprire gli occhi per accorgersene. Anche qui il me- 89 todo adottato da quelli che migliorano gli uomini non è esattamente il contrario di quello dello scienziato la cui attività è diretta essenzialmente ad un oggetto imposto dal mondo esterno? (Qualcuno mi dirà che la scienza «crea» lo spazio a quattro dimensioni; ma io dubito che con creazioni di questo genere si possa salvare il mondo attuale)». Io rispondo che, a parte ogni discussione sulle forme dello spirito, tra l’attività morale e quella scienti- fica non si può porre l’abisso che immagina Benda. Tutt’e due sono attività creatrici. Se Benda avesse ragio- ne, l’attività scientifica non sarebbe attività spirituale: sarebbe pura passività, e l’unica attività spirituale sareb- be la moralità. Ma in questa visione crudamente duali- stica sarebbe davvero possibile un’attività spirituale? Io non lo capisco. E mi pare che Benda, con quel suo pes- simismo assoluto, renda impossibile ogni azione morale. Non vorrei che egli, con le migliori intenzioni, identifi- casse l’azione morale col sospiro e la maledizione. Que- sti mezzi sono meno efficaci dello spazio a quattro di- mensioni per risolvere la crisi. Ma l’argomento dello spazio a quattro dimensioni si poteva lasciarlo da parte. In quanto verità matematica, lo spazio a quattro dimen- sioni — potrebbe rispondere Langevin — ha certamente un’azione liberatrice, come ogni verità, come ogni atto spirituale: mentre se ci riferiamo a un aspetto particolare della crisi, non c’è niente di strano che non serva, come del resto non serve in moltissimi problemi matematici. Nemmeno la morale può essere adatta a risolvere tutti gli aspetti della crisi, la quale non è che la realtà di oggi 90 in quanto non ci contenta. C’è in essa l’aspetto morale a cui si riferisce il Benda e quello politico, quello econo- mico, tanti altri. Anche l’arte e la scienza sono in crisi. In un certo senso, la crisi è la vita stessa e la sua fine as- soluta sarebbe la morte dell’umanità. 91 INTERMEZZO" I lettori si saranno certamente accorti che le Ilumina- zioni scientifiche non si pubblicano più ogni settimana ma ogni quindici giorni. Il mutamento è dovuto a ragio- ni di carattere generale, estranee alla mia volontà e alla natura o alla fortuna della rubrica; e non posso dire che mi faccia piacere, convinto come sono che di scienza, nel modo come l’intendo io, ce ne sia ancora troppo poca in Italia. Tuttavia vedrò di assolvere lo stesso il mio compito, anche nei limiti più ristretti di spazio che mi sono concessi. L'indirizzo della rubrica rimarrà sostanzialmente im- mutato perché in questi ultimi due anni né le mie idee hanno subito profondi mutamenti, né sono sorte idee nuove, né mi sono state fatte serie obiezioni che mi con- siglino una «riforma». Mi sembra al contrario che l’orientamento odierno delle ricerca scientifica e della cultura italiana dimostrino sempre più che la via in cui ci sforziamo di camminare sia preferibile a tutte le altre. Oramai certi entusiasmi e certe diffidenze davanti alla nuova scienza, e la stessa distinzione di scienza vecchia e scienza nuova, si possono considerare fuori moda. I * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 8 luglio 1932. Sulle Mumi- nazioni scientifiche, vedi l’ Avvertenza. 92 nomi di Planck, di Finstein, di Bohr, di de Broglie, di Schrödinger e di tutti gli altri rappresentanti della nuova fisica sono al disopra di ogni discussione. Questi scien- ziati hanno visto aspetti della verità di cui 1 predecessori non avevano idea, hanno superato difficoltà che sembra- vano inestricabili e hanno dimostrato che se la «vecchia scienza» è senza dubbio scienza, essa pure ha dei limiti che non si devono oltrepassare come molte volte si è fatto. Che una distinzione troppo recisa tra la vecchia e la nuova scienza non sia ammissibile, si è visto bene quando si è capito che anche la nuova fisica ha dei limiti e che ne avrà anche quella dell’avvenire. È che le leggi e le teorie, qualunque sia la loro generalità e la loro fe- condità, non sono altro che l’interpretazione di un certo numero di fatti sperimentali o di osservazioni, e sono perciò essenzialmente rivolte al passato, non all’avveni- re. Ogni scienziato d’ingegno può sempre trovare qual- cosa di nuovo in qualunque campo, anche dove può sembrare che si sia detta l’ultima parola. Quello che è vecchio nella scienza del passato è stato sempre vec- chio, cioè non è stato mai vivo, cosi come avviene nelle opere d’arte. Nella scienza del passato è vecchia perché arbitraria la pretesa di aver detto tutto, il dare alla legge carattere definitivo; ma in quanto interpretazione felice o geniale, la «vecchia scienza» conserva tutto il suo va- lore e la sua freschezza. Scienza vecchia e scienza nuo- va sono insomma fasi diverse di un unico processo e nessuna delle due può vantare una superiorità qualsiasi sull’altra. Tuttavia a me pare che oggi anche i giovanis- 93 simi debbano essere molto meglio disposti che non qualche tempo fa verso la scienza italiana. La scienza nuova, essendo stata elaborata quasi esclusivamente da stranieri (e non è senza ragione che il nostro Fermi ha scritto la sua memoria fondamentale in tedesco e l’ha pubblicata in una rivista tedesca) ha avuto, anche per il modo tumultuario con cui si è svolta, qualcosa di deci- samente incompatibile col genio italiano. La diffidenza che molti dei nostri vecchi scienziati hanno avuto verso di essa si deve certamente a scarsa agilità mentale, a scarsa vitalità, ma anche, bisogna convenirne, a quegli elementi ultraromantici, e diciamo pure barbarici, che nella nuova scienza sono essenziali e mancano del tutto alla scienza di Galileo. (Oggi la figura gigantesca di Ga- lileo ci sorprende non meno per le grandi, rivoluzionarie scoperte che seppe realizzare che per l’equilibrio tutto italiano che seppe mantenere nei momenti più gravi). Oggi si è stanchi di romanticismo. Tutti hanno sete di serenità, di equilibrio, di concretezza. Si potrebbe perfi- no parlare di un ritorno al positivismo e al verismo. Non c’è infatti qualche pittore che, per reazione a Modiglia- ni, al surrealismo e alla metafisica, bandisce l’imperati- vo categorico: «Copiare»? Preso alla lettera, il consiglio condurrebbe al suicidio. Perché copiare? L’idea del co- piare implica il presupposto che il bello sia tutto nell’oggetto, sia l’oggetto cosi com’è, indipendentemen- te dall’artista, e allora evidentemente l’arte sarebbe il tentativo superfluo (anzi ridicolo, come sembrava a Pa- scal) di rifare più o meno male ciò che in natura esiste in 94 tutta la sua perfezione. L'artista, che è convinto di essere un creatore, sarebbe la scimmia della natura: perderebbe il tempo a fare il verso alla natura! L'artista e lo scienziato non copiano ma interpretano, realizzano il loro sogno, la loro idea, creano. Lasciarsi sfuggire questa verità sarebbe non reagire agli eccessi metafisici ma ricadere nella più arretrata metafisica. Il progresso, nella scienza e altrove, non può consistere che in un ritorno, se di ritorni si vuol parlare, alla sereni- tà creatrice italiana. I classici della scienza li abbiamo lasciati troppo in disparte: occorre rileggerli, ristudiarli. Essi sono inesauribili e noi, anche se abbiamo tante vol- te dichiarato di vedere solo in loro la scienza genuina, ci siamo in realtà comportati come se essi non avessero più nulla da dirci. Noi dobbiamo tornare ad essi, con la maturità che dobbiamo alla scienza nuova, per andare oltre la stessa scienza nuova. Anche nei problemi in cui essi hanno meglio rivelato la loro grandezza, ci hanno lasciato molto da fare: essi sono ancora suscettibili d’impensati sviluppi. Naturalmente essi hanno dei limiti e delle manchevolezze e non liberarcene sarebbe un mancare di rispetto alle loro personalità. Noi dobbiamo continuare la loro opera sia nelle direzioni in cui essi hanno lavorato che in quelle in cui hanno lavorato gli al- tri. A chiunque abbia trovato nuove verità dobbiamo perciò fare buon viso; e se non è abbastanza «italiano», cioè abbastanza classico, il nostro dovere è di renderlo più classico, liberandolo dai paradossi e dagli arbitrii, se ci riesce. 95 Pensandoci bene, non è generoso accanirsi su difetti che uno scienziato o una scuola scientifica presenta. I difetti vanno considerati con indulgenza, essendo l’aspetto negativo, e quindi secondario, della verità per la quale la scuola si è imposta. I difetti della nuova fisi- ca sono in gran parte una conseguenza inevitabile delle enormi difficoltà in cui essa si è trovata impigliata e del- la grande originalità dei suoi più importanti risultati. Essa si è trovata di fronte a teorie cosi perfette che sem- brarono a tutti definitive. Il senso di scandalo che i nuo- vi fisici suscitarono dipendeva quasi sempre dal fatto che essi erano costretti a opporsi a teorie alle quali sem- brava che non ci fosse nulla da obiettare e loro stessi non sapevano che obiettare. Ora soltanto vediamo chia- ramente che quelle teorie, se erano meravigliose come sistemazioni di un certo ordine di fenomeni, erano poi insufficienti davanti a fenomeni di cui prima non si era nemmeno sospettata l’esistenza, e il senso di scandalo o è scomparso o ha perduto la massima parte del suo valo- re. Scompare cosi nello stesso tempo l’opposizione tra la vecchia e la nuova fisica e, in conclusione, si è fatto un enorme progresso. Le idee che abbiamo adesso riaffermate il lettore in- telligente le ha viste circolare in tutti i nostri articoli e vedrà che ad esse ci manterremo fedeli anche nella serie che ora s’inizia. Noi ci terremo ancora aderenti all’attualità ma, data la maggiore lentezza della rubrica, ci fermeremo su cose di maggiore importanza. Come in passato, daremo sempre un posto notevole alla grandi fi- 96 gure della scienza e in particolare alle nostre, ma non tenteremo in nessun modo di metterci in gara con le ri- viste. Cercheremo di scrivere articoli non superficiali (a che servirebbero?) ma agili o, in altri termini, di fare del giornalismo. Noi ci sentiamo appunto giornalisti e ab- biamo l’ambizione di fare unicamente del giornalismo scientifico. Il lettore che ci trovasse troppo professori dia l’allarme d’urgenza. La volgarizzazione continueremo a evitarla. In Italia nessuno ne sente il bisogno, almeno nei giornali, anche perché di volgarizzazione se ne fa troppa nella scuola. Ci sono poi parecchie riviste francesi che tutti possono leggere e leggono infatti, nelle quali la volgarizzazione è fatta benissimo. Noi italiani aspiriamo ad altro. Noi siamo essenzialmente umanisti o, come alcuni si com- piacciono ancora di dire, letterati, e vogliamo che la scienza non strida con la nostra mentalità: vogliamo una scienza umana. L'esigenza è più che giusta ed è profon- damente scientifica: intendo dire che la scienza è essen- zialmente umana. L’apparenza del contrario dipende dal fatto che essa il più delle volte, quando negli spiriti ben disposti fa quell’impressione, è presentata male, d’auto- rità, dall’esterno, almeno per noi italiani. A noi italiani la scienza non si può insegnare come ai francesi. Noi vogliamo andare a fondo, vogliamo metterci a contatto con la personalità dello scienziato; se no, non prestiamo attenzione. Noi abbiamo poca simpatia per le idee gene- rali tanto care ai francesi, né ci entusiasmiamo per il lato pratico delle cose. Siamo sempre un po’ artisti, e se la 97 scienza ci viene presentata come del tutto in contrasto con l’arte, non possiamo accettarla. Occorre mettere l’italiano a contatto con la ricerca viva, fargli sentire che lo scienziato impegna nella scienza tutto se stesso e non il suo cervello soltanto. Occorre fargli vedere che quell’armonia tra l’arte e la scienza, che seppero realiz- zare in modo cosi stupendo Leonardo, Piero della Fran- cesca e Goethe, non ha niente d’innaturale e che anche gli scienziati più specialisti sono uomini interi quando fanno la scienza. La nostra rubrica ha avuto finora un difetto abbastan- za grave; ha lasciato da parte uomini e problemi impor- tanti, e intere scienze. Ma questo difetto è una conse- guenza inevitabile dei limiti, forse troppo ristretti, della mia cultura. Si può attenuarlo, e vedrò di attenuarlo, ma senza tentare un assurdo enciclopedismo. Del resto, al- cuni argomenti vanno messi da parte perché non si pre- stano per quel tipo d’articolo che piace a me. Cercherò, a ogni modo, di far meglio. 98 L'EDIZIONE REALE DEI MANOSCRITTI VINCIANI" Può darsi che il lettore abbia visto o (anche le cose più inverosimili accadono qualche volta) abbia addirit- tura studiato i codici di Leonardo pubblicati dalla Reale Commissione Vinciana, ma non ci sarebbe da meravi- gliarsi se non avesse nemmeno sentito parlare di questa Commissione e della sua ammirevole opera. Purtroppo nei quotidiani, nei settimanali e nelle riviste destinate al gran pubblico molto difficilmente si trova un po’ di spa- zio per la grande edizione. Si capisce che, se è cosi, ci devono essere delle ragioni e ci sono senza dubbio; ma sono delle buone ragioni? Io dico di no e voglio sperare che quest'articolo e quelli che seguiranno non rimanga- no isolati e diano l’avvio a una nuova fioritura giornali- stica. Nell’anno vinciano sarebbe, più che opportuno, doveroso. * Pubblicato in «Oggi», 10, 17, 24 giugno e 1 luglio 1939. Si ristampa qui senza le illustrazioni. 99 Il compito della Commissione era dei più ardui: si trattava di fare, se non meglio, almeno come gli editori del Codice Atlantico, del Codice Leicester, del Codice sul volo degli uccelli, dei Quaderni d’ Anatomia. Biso- gna riconoscere che c’è riuscita. Quando l’edizione sarà compiuta, Leonardo avrà il suo più bel monumento. Il primo dei manoscritti vinciani pubblicati dalla Commissione reale è stato il Codice Arundel 263 del Museo Britannico. L'editore è stato un uomo intelligen- te, di gusto e di fede: il cav. Remo Danesi di Roma, ben noto per altre edizioni monumentali. La sottocommis- sione per la trascrizione e la pubblicazione era composta di Giovanni Gentile, presidente, e di Enrico Carusi, Pie- tro Fedele, Roberto Marcolongo, Mario Pelaez. L’edi- zione, di trecento esemplari numerati, comprende una perfetta riproduzione fototipica che quasi quasi consente di fare a meno dell’originale e due trascrizioni: la tra- scrizione diplomatica e quella critica. La trascrizione di- plomatica è la riproduzione del testo in caratteri di stam- pa senza le figure. È, più che altro, una trascrizione per gli specialisti che vogliono valersi dell’originale nella sua genuinità. Non è indispensabile, ma utile, visto che Leonardo scriveva a rovescio e perché il manoscritto è sbiadito e non è facile a decifrarsi. A ogni modo lo sco- po della trascrizione diplomatica è quello di facilitare la lettura del facsimile riprodotto in fototipia e non può so- stituire il facsimile mancando delle figure. Come si ca- pisce, nella trascrizione diplomatica è conservata non solo l’ortografia leonardesca (mancanza di punteggiatu- 100 ra, di maiuscole, unione o fratture delle parole, abbre- viazioni, anomalie grammaticali), ma anche la disposi- zione topografica delle parole. La trascrizione critica, che alcuni chiamano interpre- tativa, ma è un’esagerazione, riproduce il testo con le virgole e i punti e le maiuscole, sciogliendo le abbrevia- zioni e ammodernando con molta parsimonia. In questa parte ci sono anche le figure e perciò, in un certo senso, potrebbe bastare da sola. Le figure sono non solo rove- sciate (e ciò, se facilita la lettura delle lettere, crea degli inconvenienti, perché, per esempio, dove Leonardo dice destra bisogna intendere sinistra), ma sono ridisegnate e non riprodotte fotograficamente. Questo è un inconve- niente serio perché Leonardo è sempre artista, anche quando butta giù una figura a scopo dimostrativo. Le copie, anche se fatte da disegnatori bravissimi, mancano del fascino leonardesco. Da questo punto di vista si po- trebbe persino sostenere che l’unica riproduzione possi- bile di manoscritti vinciani sia quella in facsimile e che solo per ragioni pratiche è consigliabile la trascrizione in caratteri tipografici. Guardate per esempio questo stu- dio di proporzioni dell’occhio umano. Anche riprodu- cendo la fotografia dei due occhi si rompe l’unità della pagina. Qui non ci sono due occhi di diverse grandezze con una didascalia: c’è una composizione. Non è una pagina di anatomia ma una natura morta. La disposizio- ne dei due occhi e dello scritto e dello spazio libero è es- senziale se si vuole capire davvero Leonardo. Ancora più significativa è la pagina di nudi e dell’igrometro del 101 Louvre. Tra l’igrometro e i nudi c’è continuità. Basta questa pagina per comprendere che Leonardo non è arti- sta e scienziato. L'attività scientifica e quella artistica sono in lui tutt'uno. Mentre fa i suoi studi per il Cenaco- lo di Santa Maria delle Grazie, Leonardo pensa all’apparecchino a spugna e cera che può servire a «mi- surare l’aria e conoscere quando s’ha a rompere il tem- po». Direi che in questo Leonardo non somigli a nessun altro. Negli altri le due attività o sono parallele o l’una subordinata all’altra e non, come in Leonardo, una sola. Con gli stessi criteri del Codice Arundel la Reale Commissione Vinciana o meglio monsignor Enrico Ca- rusi ha pubblicato i fogli mancanti al Codice sul volo degli uccelli. Come si sa, l’edizione del Codice sul volo degli uccelli curata dal Piumati e dal Ravaisson-Mollien e pubblicata da quel grande amico di Leonardo e dell’Italia che fu Teodoro Sabachnikoff, mancava delle carte 1, 2, 10, 17. Una di queste carte era stata ricupera- ta dal Sabachnikoff a stampa finita e offerta come le al- tre alla regina Margherita; le altre tre erano in possesso del collezionista ginevrino Enrico Fatio, il quale prima le prestò alla Commissione Vinciana e poi le regalò all’Italia (e fu fatto, in compenso, cavaliere). Cosi il co- dicetto che Napoleone aveva rubato all’Italia, che Libri aveva a sua volta trafugato e che in parte era andato di- sperso, si trova al completo nella Biblioteca Reale di Torino. Un altro codice pubblicato dalla Commissione Vin- ciana è il Codice Forster del Museo Vittoria e Alberto. È 102 stato pubblicato in cinque volumi di formato più piccolo (appartengono alla «serie minore»); di essi solo il primo è stato pubblicato da Danesi: gli altri dalla Libreria dello Stato che ha saputo continuare l’opera del Danesi. Il Co- mitato esecutivo della Commissione era composto di Gentile, presidente, e di Enrico Carusi e Roberto Marco- longo. Lo stesso Comitato esecutivo e la stessa Libreria hanno pubblicato (nella serie maggiore, s’intende) il Co- dice A (2172) dell’Istituto di Francia. Tanto nella pubblicazione dei codicetti Forster che del manoscritto A e credo sempre in seguito si è mante- nuta la riproduzione fototipica e la trascrizione critica e si è rinunziato alla trascrizione diplomatica. Si tratta di un compromesso consigliato da ragioni di economia e che non è quindi il caso di discutere. Noi avremmo sa- crificato la trascrizione critica. Quella diplomatica è più utile di come si crede perché il facsimile qualche volta è cosi sbiadito che non si riesce a leggere. Evidentemente la Commissione non ha voluto fare un’edizione per soli specialisti ma anche per il pubblico. A me pare però che un’edizione cosi costosa sia per il pubblico fino a un certo punto. Al pubblico occorre un’edizione critica su carta comune e a prezzo normale. 103 II Nell’articolo precedente ci siamo limitati a dare un cenno puramente editoriale dell’opera della Commissio- ne Vinciana; ma anche dal punto di vista in cui ci erava- mo messi, ci sarebbe molto da aggiungere perché la Commissione, oltre a riprodurre il testo di Leonardo, ha opportunamente aggiunto prefazioni, indici, note, glos- sari su cui ci riserviamo di ritornare. Con i codici recentemente pubblicati si può dire che, in un certo senso (non come testo popolare), Leonardo non sia più inedito (il testo per tutti resta ancora da fare). Dei fogli di Windsor c’è solo l’edizione in facsi- mile del Rouveyre; ma si dice che presto la Commissio- ne Vinciana comincerà a pubblicarli. C’è da augurarsi che siano presto pubblicati tutti gli altri fogli sparsi che si trovano a Londra, a Oxford, a Parigi, a Venezia, a To- rino, a Firenze e altrove. Alcuni di questi fogli hanno trovato o troveranno posto nei disegni, invece che nei manoscritti, di Leonardo, come per esempio gli studi per la Madonna del Gatto, del Museo Britannico, o il boz- zetto per l’ Adorazione, del Louvre; altri, come il dise- gno dell’ Accademia di Venezia, potrebbero essere inclu- si nei fogli di anatomia. Secondo me però sarebbe me- glio che fossero pubblicati a parte senza tentare ordina- menti che, se non impossibili, almeno per ora sono pre- maturi. Un ordinamento non può consistere nel mettere 104 insieme alla rinfusa i fogli che trattano della stessa ma- teria. Prima di ordinare i fogli, occorrerebbe datarli. Su questo problema dell’ordinamento che torna sem- pre a discutersi e non senza ragione, Leonardo parla al principio del Codice Arundel: «Cominciato in Firenze, in casa Piero di Braccio Martelli, addi 22 di marzo 1508. E questo fia un raccolto senza ordine, tratto di molte carte le quali io ho qui copiate, sperando poi di metterle per ordine alli lochi loro, secondo le materie di che esse tratteranno; e inde che avanti ch’io sia al fine di questo, io ci arò a riplicare una medesima cosa più volte si che, lettore, non mi biasimare, perché le cose son molte e la memoria non le po’ riservare e dire: questa non voglio scrivere perché dinanzi la scrissi. E s’10 non volessi cadere in tale errore, sarebbe necessario che per ogni caso ch’io ci volessi copiare su, che per non repri- carlo, io avessi sempre a rilegere tutto il passato, e mas- sime stando con lunghi intervalli di tempo allo scrivere da una volta a un’altra». È chiaro che Leonardo pensava a un ordinamento per materia. Quest’ordinamento non doveva consistere nel mettere insieme tutti i fogli scritti, ma nel mettere insieme alcuni di questi fogli, eliminan- do le ripetizioni e naturalmente scegliendo tra due fogli che si contraddicono quello che risponde al suo ultimo pensiero. Si trattava insomma (e lo si sa per altra via) di scrivere dei veri e propri trattati. Il problema che ora si pone è questo: è possibile scrivere i trattati che Leonar- do aveva in mente? Io credo che non sia possibile. Si può valersi del materiale di Leonardo per scrivere dei 105 trattati, come il trattato della pittura, quello sulle acque e quello non meno importante benché meno conosciuto composto da R. Giacomelli con gli scritti sul volo, ma si tratterà sempre di opere in collaborazione e non esclusi- vamente leonardesche. S’intende che, se ben fatti, questi trattati potrebbero essere molto utili, come sono utili le traduzioni, i saggi critici, le antologie e perfino i sempli- ci riassunti. Divago, lo so: ma avrete letto che due ingegneri ave- vano presentato al Consiglio Nazionale delle Ricerche il progetto di un motore che a carico e a vuoto consumava la stessa energia, sicché consentiva di avere la luce elet- trica e di far andare i treni gratis. Era una bella trovata. Peccato che il Consiglio delle Ricerche abbia risposto che la «scoperta» è senza fondamento! Quegli ingegneri non avevano letto Leonardo. Nel Codice Forster II sotto il disegnino di una ruota infatti si legge: «Qualunque peso sarà apricato alla rota, il qual peso sia causa del moto d’essa rota, sanza alcun dubio il cientro di tal peso si fermerà sotto il cientro del suo polo; e nessuno instrumento che per umano ingiegno fa- bricar si possa che col suo polo si volti, potrà a tale ef- fecto riparare. O speculatori dello continuo moto, quanti vani disegni in simile ricerca avete creati! Accompagna- tevi colli ciercatori dell’oro». La figurina ci fa capire bene che cosa Leonardo abbia voluto dire. Sulla perife- ria della ruota, a uno degli estremi del diametro orizzon- tale c’è un pesetto che, se la ruota è libera di girare in- torno al centro o, come dice Leonardo, al polo, la mette- 106 rà in movimento. Leonardo però capisce non solo che la ruota finirà, dopo qualche oscillazione, col fermarsi in modo che il pesetto rimanga in basso all’estremo del diametro verticale, ma che con nessun istrumento mec- canico si può evitare l’inconveniente ottenendo il moto perpetuo. Oggi tutti sappiamo che con nessuna macchi- na si può ottenere lavoro senza spesa perché occorrereb- be creare dal nulla l’energia necessaria. Leonardo aveva intuito il principio nel campo dei fenomeni allora cono- sciuti e oggi accetterebbe la sua estensione senza diffi- coltà. Di cose scientifiche (specialmente di geometria e di meccanica) i codici leonardeschi recentemente pubblica- ti son pieni e si può vederlo leggendo le memorie che ha loro dedicato il Marcolongo (ne dirò anch’io qualcosa, per quanto lo consente l’indole di questo periodico); ma ci sono anche pagine di filosofia della scienza (quelle sul punto; anche quelle sulla gravità e levità); ci sono apologhi, curiosità, appunti per la Cena, disegni, pagine letterariamente interessanti: c’è Leonardo, grand’uomo del Rinascimento e di tutti i tempi. Ecco, nel Codice Forster II, gli appunti per la Cena: «Cristo — Giovan Conte, quello del Cardinale del Mo- staro. Giovanissimo, viso fantastico; sta a Santa Cateri- na allo spedale. Alessandro Carissimo da Parma per le man di Cristo». Fin qui si tratta di un promemoria. Leo- nardo prende nota delle persone che potrebbero servigli da modelli per le figure, per un viso, per una mano. Ma quel «giovanissimo, viso fantastico» non è più la nota- 107 zione mnemonica e ci fa pensare a qualcuno dei più spi- rituali disegni di Apostoli. Più oltre, nei fogli 62 e 63, ci mette davanti al suo capolavoro, in cui la psicologia dei personaggi e la mimica delle mani sono d’importanza fondamentale. Leggiamo: vedrete che ne vale la pena. Capirete meglio Leonardo e il Cenacolo: «Uno che bee- va e lasciò la zaina nel suo sito e volse la testa inverso il proponitore. — Un altro tene le dita delle sue mani insie- me e co’ rigide ciglia si volta al compagno. L'altro colle mani aperte mostra le palme di quelle e alza le spalli in- ver li orecchi e fa la boca della maraviglia. Un altro par- la nell’orecchio all’altro e quello che l’ascolta si torcie inverso lui e gli porge li orecchi tenendo un coltello nell’una mano e nell’altra il pane mezzo diviso da tal coltello. — L’altro nel voltarsi tienendo un coltello in man versa con tal mano una zaina sopra della tavola. — L’altro posa le mani sopra della tavola e guarda. L'altro soffia nel bocone. — L'altro si china per vedere il propo- nitore e fassi ombra colla mano alli occhi. — L'altro si tira inderieto a quel che si china e e’ vede il proponitore infra °l muro e ’1 chinato». La prima idea della Cena è un’idea drammatica o, se si vuole, letteraria: l’idea che possiamo ancora ricono- scere e ammirare, nonostante i danni e i restauri. Ma avrebbe torto chi si appoggiasse alle parole citate per fare un’apologia della pittura di contenuto. Quelle paro- le dimostrano che Leonardo vedeva chiaro e sapeva dire quel che voleva; ma esse sono evidentemente solo l’antecedente dell’affresco di Santa Maria delle Grazie. 108 Leonardo passa subito ai disegni che ora si conservano al Louvre, all’ Accademia di Venezia, alla Biblioteca Reale di Windsor, dove c’è quello di Filippo; e qui (come, per quanto si può giudicare, nel Cenacolo) egli si esprime compiutamente col segno e col colore. E grandissimo, anche se esaminato dal lato strettamente pittorico, egli ci appare nella Gioconda, nella piccola Annunziazione del Louvre, oggi a Milano, nell’ Adora- zione dei Magi, nella Vergine delle Rocce, nel cartone della Sant'Anna di Londra e in tanti altri disegni che sono tra i più belli che esistano. x k x Come in tutti i manoscritti vinciani, anche in questi che stiamo esaminando ci sono favole, facezie, parados- si. Nel Codice Forster II c’è la storiella di madonna Bona. Un moribondo, sentendo che c’è all’uscio una donna con quel nome, alza le braccia ringraziando Dio con alta voce e dice ai suoi che la facciano passare «ac- ciò che potessi vedere una donna bona inanzi che esso morissi, imperocché in sua vita ma’ ne vide nessuna». Nello stesso manoscritto c’è una vera e propria face- zia: una «cartolina del pubblico»: «Fu detto a uno che si levassi del letto, perché già era levato il sole; e lui rispo- se: Se io avessi a fare tanto viaggio e facende quanto lui, ancora sarei io già levato; e però avendo a fare si poco camino, ancora no mi vo’ levare». 109 Non so se vi piacerà il paradosso del torlo d’uovo nel Codice Arundel: «Il rossume over tuorlo dell’ovo sta in mezzo al suo albume senza desciendere d’alcuna parte, ed è più lieve o più greve o eguale d’esso albume; e s’elli è più lieve e’ doverebbe surgiere sopra tutto l’albu- me e fermarsi in contatto della scorza d’esso ovo; e s’elli è più grave doverebbe disciendere; e s’elli è ugua- le cosí potrebbe stare nell’un delli stremi come in mezzo o di sotto». L’argomentazione è logica. Se 1l torlo è libero non si spiega come possa stare nel centro perché o ha lo stesso peso specifico della chiara e allora dovrebbe stare indif- ferentemente in un punto qualunque e non sempre al centro; se il peso specifico è minore deve galleggiare sulla chiara; se è maggiore, come realmente è, dovrebbe andare al fondo. Noi sappiamo perché rimane al centro: perché è vincolato da due cordoni che si chiamano cala- ze. Io credo che Leonardo lo sapesse meglio di noi e che quindi abbia voluto proporre un indovinello; ma può darsi che quando scriveva non sapesse ancora bene come stessero le cose e ponesse soltanto un problema da risolvere. Questi scherzi, queste favolette, questi problemi para- dossali vanno tenuti in considerazione per comprendere Leonardo, ma sarebbe un grave errore credere che siano al centro del suo spirito. Leonardo è un uomo serio. Nulla è più falso che l’idea che egli sia un dilettante. Po- chi sanno come lui insistere su un problema, su un’idea. 110 L’universo è per lui un campo inesauribile di ricerche e uno spettacolo. L’acqua è per lui una specie di divinità. «Questa», dice nel Codice Arundel, fogli 57 e 58, «l’alte cime de’ monti consuma. Questa i gran sassi discalza e remove. Questa scaccia il mare de li antichi liti, perché col porta- to terreno l’inalza il fondo». Non la nomina mai col suo nome e in realtà leggendo bene si vede che non è solo acqua: è acqua e fuoco, acqua e moto; ora è amara, ora dolce, quando dannosa quando salutifera: è soprattutto mutevole. «E come lo specchio si transmuta nel colore del suo obbietto, cosi questa si transmuta nella natura del loco donde passa: salutifera, dannosa, solutiva, sti- tia, sulfurea, salsa, sanguigna, malinconica, frematica, collerica, rossa, gialla, verde, nera, azzurra, untuosa, grassa, magra. Quando apprende il foco, quando lo spe- gne, calda, freda... quando notrica e quando il contrario, quando salata o disipita, quando con gran diluvi le am- plie valli sommerge». A questo punto Leonardo si eleva a una considerazione generale: «Col tempo ogni cosa va variando»; e poi continua sul tono di prima. Il lato più importante dei codici vinciani che stiamo esaminando rimane però quello scientifico. Le osserva- zioni che egli fa in materia di trasformazione di solidi in altri equivalenti e in materia di volo degli uccelli, di meccanica, di ottica e di altri rami della fisica sono tra le più belle che egli abbia fatte. Importanti sono le sue os- servazioni di acustica, che poco sono state finora studia- te. 111 III Gli enti geometrici fondamentali non si definiscono facilmente. Pascal, cercando di definirli, si è impigliato in difficoltà inestricabili e più recentemente c’è stato qualcuno che li ha considerati astratti e assurdi. Nel Ri- nascimento non era possibile capirli sul serio. Per capirli occorreva tutto lo sviluppo del calcolo infinitesimale e forse anche oggi si potrebbe discutere. Leonardo non di- scute e nemmeno passa oltre. Sembra che quegli enti cambino natura ad ogni istante e lui si adegua di mo- mento in momento alla loro nuova natura. Il punto non ha mezzo ma è lui mezzo di ogni cosa; non ha mezzo ma lui è il mezzo e nessuna cosa può es- ser minore. Il punto è quel minore. Punto è quel che la mente non divide e non ha parti. Ma allora il punto sa- rebbe l’atomo dello spazio? Leonardo sa, capisce che questa risposta non è soddisfacente (infatti conduce ai paradossi di Zenone: la freccia non raggiunge il bersa- glio; Achille non raggiunge la tartaruga) e dice perciò che il punto è termine comune del nulla con la linea, ma non è né nulla né linea e non occupa posto tra il nulla e la linea, sicché il nulla e la linea sono in contatto ma non congiunti. «Seguita che ’1 punto è men che nulla e se tutte le parti del nulla sono eguali a una, concluderas- si magiormente che tutti li punti ancora sono eguali a un sol punto e un punto è eguale a tutti». La conclusione sembra paradossale ma è logica. Il paradosso si avrebbe 112 se il punto fosse qualcosa di materiale mentre esso è in- corporeo e perciò non si deve credere che molti punti in continuo contatto compongano la linea o molte linee la superficie e molte superficie il corpo. Nel Codice Atlan- tico dice che la superficie, essendo ciò che mostra la fi- gura dei corpi, ha in sé essere ma in realtà, poiché non occupa spazio, dato che è il termine tra i corpi e l’aria che li circonda, è simile al nulla che ha il nome e non l’essere. Le ultime parole dello stesso foglio (fol. 68 verso) sono, non so se è un caso: «I pensieri si voltano alla speranza»; e potrebbero esser messi come epigrafe a tutta la ricerca. Perché se Leonardo non è riuscito a dare la soluzione completa del problema che si era posto, qualcosa ha pure capito e c’era da sperare che tutta la luce potesse essere fatta. Egli non è cosí sicuro come potrebbe sembrare e insiste appunto perché sente che qualcosa gli sfugge, ma la sua eloquenza e la sua felicità son dovute al suo sentirsi sulla buona strada. La teoria vinciana della gravità è forse la sua cosa più singolare. Potrebbe sembrare un dirizzone da uomo sen- za lettere e senza spirito scientifico; è, invece, nonostan- te gli errori e i paradossi, una cosa seria. Leonardo è molto aristotelico quando fa della teoria (da Aristotele non si libera del tutto nemmeno quando enuncia la legge d’inerzia; differisce profondamente da Aristotele per il suo spirito d’osservazione); sulla teoria della gravità comincia da Aristotele ma in parte se ne li- bera. È da notare che egli non suppone neppure quella azione a distanza che ripugnava tanto allo stesso New- 113 ton, il quale, com’è noto, diede la legge dell’attrazione ma non volle mai ammettere la realtà fisica dell’attra- zione stessa. Dopo aver detto con Aristotele che ogni cosa desidera mantenere la sua natura, Leonardo dice nel Codice Atlantico (fol. 123 recto) che «la gravità, per essere re- scacciata dalle cose lievi, desidera tal sito che essa più non pesi». La gravità e la forza, aggiunge subito dopo, desiderano di non essere e perciò la loro esistenza è uno stato violento. Poiché, aveva detto prima, ogni grave si allontana per quanto è possibile dai corpi più leggeri, il suo centro «nel centro delli elementi si quieta»; nel Co- dice Forster, III (fol. 66 verso) ripete che il desiderio di ogni corpo è che il suo centro sia il centro della terra. Questo «desiderio» però non ha niente di animistico, né ha niente da vedere, per esempio, con l’azione della ca- lamita. «Il discienso del grave», dice Leonardo nel Co- dice Arundel (fol. 95 r.), «non è verso il cientro per es- ser tirato da lui, né perché tale grave desideri congiu- gnersi con esso cientro ma perché il mezzo nol po’ so- stenere». Per spiegarsi meglio, Leonardo fa l’esempio dell’acqua, cercando di dimostrare che essa non è attrat- ta dal centro del mondo. Se cosi fosse, egli dice, l’acqua si muoverebbe sempre verso il centro e se ne fosse im- pedita eserciterebbe una pressione sull’ostacolo. «Il che dell’uno e dell’altro si vede l’opposito, perché chi lascia cadere l’acqua sopra della terra, essa immediate perde il peso e ’1 desidèro di disciendere. E ch’ella non dia gra- vezza sopra il suo sostentaculo, si vede nel fondo 114 dell’acqua de’ pantani essere il fango levissimo quasi di sottilità d’acqua stare notante a similitudine di nebbia infra lo terreno e l’acqua del padule. La qual cosa no sa- rebbe cosi, se tale acqua pesassi sopra esso fondo. An- cora si vede le cime delle sottilissime erbe spicarsi dal fondo d’essi paduli e penetrare infra l’acqua inverso la sua superfizie come se dall’aria circundata fussi. Il che se l’acqua pesassi sopra il suo fondo, essa peserebbe an- cora sopra la cima di tale erbe e non potrebbe essere pe- netrata da loro, anzi le terrebe piegate e spianate insieme colla condensata terra». A noi che siamo pratici d’idrostatica questa conclu- sione pare stranissima, e strana doveva apparire a molti anche quando Leonardo scriveva. Leonardo invece era convinto (e, come si è visto, si appoggiava a osservazio- ni incontestabili) che anche l’acqua del mare non pesas- se sul fondo e negava anche la pressione atmosferica. Egli diceva perfino che i grandi edifici non esercitano pressione sul terreno su cui si appoggiano. «Ancora la gravità de’ grandi edifizi non pesa sopra i sua sustenta- culi, come si vede ne” terreni tratti di sotto i lor fonda- menti; il quale non è altrimenti raro come sotto l’aria si- tuato fussi». Evidentemente anche i suoi contemporanei avrebbero trovato discutibile quell’affermazione e c’è perfino da sospettare che non si riesca bene ad afferrare il suo pensiero. L'affermazione che l’acqua non esercita pressione sul fondo è da lui ripetuta troppe volte perché si possa dubi- tare di non avere bene inteso. Nello stesso Codice Arun- 115 del (fol. 266 v.) egli torna sull’idea che l’acqua non eser- cita pressione sul fondo, tant’è vero che non piega le fo- glie nate sul fondo. Più o meno oscuramente Leonardo cerca di fondare la sua teoria sul principio di Archimede. La gravità è il peso specifico. Dunque, egli sostiene, anticipando gli Accademici del Cimento, la gravità e la levità non diffe- riscono di natura e si trasmutano l’una nell’altra. «Levi- tà è un accidente creato dall’elemento più raro tirato sot- to il men raro, che allor si move per non potere resistere, che allora acquista peso, il quale si gienera immediate che a tale elemento manca resistenzia, la quale resisten- zia, essendo vinta dal peso, non muta senza mutazion di sostanza; muta, acquista il nome di levità (fol. 205 r.)». Leonardo aggiunge che levità e gravità nascono insieme e dà questa prova: mettiamo dell’aria sotto l’acqua, sof- fiando in una canna, e vedremo che l’aria acquisterà le- vità stando sotto l’acqua, mentre l’acqua, per avere sotto di sé l’aria, acquisterà gravità. Qui egli ha ragione ed è nuovo. Se avesse sottoposto meglio all’esperienza le sue idee avrebbe finito col com- prendere che il principio di Archimede, benché sia mol- to importante, non basta. In realtà (e l'abbiamo fatto ca- pire affermando che la posizione di Leonardo è oscura) il principio di Archimede, che del resto egli non cita esplicitamente, non basta nemmeno a lui. Infatti egli continua ad ammettere un sito naturale dei corpi e defi- nisce precisamente la gravità come una potenza invisibi- le «infusa ne’ corpi che dal loro natural sito son remos- 116 si». Il sito naturale è il centro del mondo, cioè il centro della terra concepita tolemaicamente. «Grave (Codice Forster, II, fol. 116 v.) è detto quel corpo che, essendo li- bero, si dirige il suo moto al cientro del mondo per la via più breve. Lieve è quel corpo che sendo libero si fu- gie da esso cientro del mondo e ciascuno è d’egual po- tenzia». Il centro del mondo dovrebbe essere un punto fisso e cosí lo concepisce Leonardo quando rimane aristotelico; quando il senso fisico prende il sopravvento (Codice Forster II, fol. 126 v.) Leonardo invece sostiene che, per il variare dell’inondazione dell’oceano, è sempre mobi- le. Nel Codice Arundel (fol. 19 r.) dice che «la terra è mossa dal suo sito dal peso d’un picolo uccel che sopra di lei si posi». Si sposterà dunque anche il centro e par- rebbe perciò che si dovesse spostare anche la traiettoria dei gravi cadenti ma non direi che Leonardo la pensasse proprio cosí. Il suo pensiero su questo punto doveva oscillare secondo che prevalessero il principio di Archi- mede, intendo dire le ragioni fisiche, oppure l’aristoteli- smo. Qualche volta Leonardo combina quello che abbiamo detto il suo punto di vista fisico col punto di vista aristo- telico, per esempio nei fogli 6 e 7 del Codice Forster, III, dove egli sostiene che i circoli delle sfere celesti, in- sieme con gli elementi, egualmente da lor discacciano e sospingono ogni cosa ponderosa, cosicché i gravi sono piuttosto di sopra cacciati che dal centro tirati in giù. 117 Non bisogna credere però che Leonardo concepisca il sito naturale dei corpi con pedantesco rigore perché se- condo lui (Codice Arundel, fol. 205 r.) «l’aria non ha in sé sito naturale e sempre si ferma sopra corpo più denso di lei, né mai sopra il più lieve che le sia in contatto se non per violenzia». A voler dare un’idea adeguata delle idee di Leonardo sulla gravità, occorrerebbe insistere ancora molto (e for- se su certi aspetti più propriamente fisici torneremo); crediamo però di essere riusciti a far capire il carattere delle teorie leonardesche. Sono teorie di un ingegno es- senzialmente intuitivo, fondate, più che sull’esperienza, sull’osservazione; sono teorie che annunziano tutta, si può dire, la scienza moderna ma, a voler esser giusti, non la iniziano ancora decisamente o almeno non sem- pre. Si è molto discusso per decidere se Leonardo abbia o no avuto l’idea della composizione delle forze con la re- gola del parallelogrammo e si può anche rispondere di no, nel senso che la regola, nella sua generalità, non c’è nei manoscritti. Ma guardate questa figurina del Codice Arundel, fol. 143 v. Leggiamo: «Quando il moto naturale del vaso che versa sarà eguale al moto traversale della cosa versata, allora la ipotenissa taglierà i lati eguali al suo ortogonio. «Quando il moto traversale del vaso che versa fia per velocità uguale al moto natural della cosa versata, allora le linee de’ moti si comporano un ortogonio del quale la ipotenissa fia la materia versata». 118 In un caso particolare, particolarissimo, è in fondo la regola del parallelogrammo. Invece del parallelogram- mo c’è il triangolo rettangolo; ma è lo stesso. L’ipotenu- sa è la diagonale di un parallelogrammo, che in questo caso si riduce a un quadrato. Per lasciarvi la bocca dolce, vi presenterò questa Ma- donnina, presa dal Codice Forster, II, fol. 37, r. Non è ri- prodotta bene ma, anche cosi, piace: i disegni di Leonar- do resistono anche alle cattive riproduzioni. Il disegno riprodotto è del 1497 e si riferisce a una pala d’altare che Leonardo doveva dipingere per una chiesa di Bre- scia. IV Nei riguardi della gravità, Leonardo non si limita alle considerazioni, diciamo cosi, filosofiche di cui si è par- lato nell’articolo precedente: egli scende e si ferma a lungo sul terreno più propriamente scientifico, conse- guendo risultati importanti e suggestivi. Nel Codice Arundel (fol. 11 z): «Nessun grave si fer- merà sopra il sostentaculo dov'è posato se la linea cen- trale del suo peso non toca la fronte di tal sostentaculo». La linea centrale del peso, come spiega subito, è la verticale passante per il suo centro di gravità. Leonardo enuncia dunque la regola del poligono d’appoggio, o poligono di sostentazione, cioè dice chiaramente, come 119 oggi diciamo tutti, che un grave appoggiato non può ri- manere in equilibrio se non quando la verticale che pas- sa per il suo centro di gravità cade nell’interno del poli- gono di appoggio. Egli spiega che, se la verticale cades- se fuori della fronte del sostegno, non potrebbe rimanere in equilibrio «perché el magior suo peso sarebbe fori del suo sostegno e cosí cadendo tirerebbe con seco la parte più lieve». Qui Leonardo (e si vede meglio da ciò che segue) decompone il peso del corpo come faremmo noi e ragionando quasi come noi. «Tanto s’allegerisce un grave al suo sostentaculo, quanto e’ si fa più distante al perpendicolare che ha il fermamento del sostentaculo. Il quale allegerimento ha tale proporzione con tutto il peso, quale ha la lunghezza di tal distanza co’ la lun- ghezza di tal sostentaculo». Non meno interessanti sono le considerazioni di Leo- nardo intorno al comportamento di un grave che cada nel centro della terra. Che fa un grave che sia abbandonato a se stesso, nel caso che sia libero di muoversi fino al centro della terra e oltre? Leonardo, che osserva tutto, conosce il comportamen- to del pendolo, quand’è spostato dalla posizione di equi- librio e intuisce che anche il grave deve compiere delle oscillazioni prima di fermarsi. Leggiamo, ne vale la pena (Codice Arundel, fol. 65 r.): «La gravità cadente al cientro del mondo non fermasi a esso centro immediate, ma co” lungheza di tempo molte volte scorre tra su e giù intorno a tale centro. 120 «Quando il centro natural del peso s’unisce col centro del mondo, il corpo che lo include rimarrà sanza moto. «Sempre i moti del grave intorno al centro del mondo saran fatti con egual tempi, ancora che mai nella lor suc- cessione sieno d’eguale lungheza». Se non avete letto attentamente o, come può succede- re, avete saltato la citazione, tornate indietro, per piace- re. Le parole che qui sopra ho riferito sembrano di Gali- leo. Leonardo dice, e Galileo sarebbe in tutto d’accordo, che il grave, dopo molte oscillazioni isocrone, finirebbe col fermarsi; e allora il suo centro di gravità coincide- rebbe col centro della terra. L’isocronismo delle oscilla- zioni pendolari, che sarà riscoperto da Galileo, nell’ulti- mo periodo citato è espresso con tanta chiarezza che è superfluo insistere. Leonardo dice che le oscillazioni sono fatte in tempi uguali, benché siano d’ampiezza via via decrescente. Per dir la verità, Leonardo afferma che i moti «fatti con egual tenpi» nella lor successione non sono mai di uguale lunghezza, ma dal momento che il grave finisce col fermarsi, non si può trattare che di oscillazioni di ampiezza decrescente. Perché, arrivato al centro del mondo, il grave non si ferma subito e compie molte oscillazioni? Leonardo avrebbe potuto rispondere allegando, come fa in una pa- gina che analizzeremo più oltre, l’impeto, o impulso, da cui il grave è animato. Il grave non si può fermare fin- ché non si consumi il suo impeto. Invece nel Codice Forster (II, fol. 59 v.) egli risponde che il centro del mondo, essendo indivisibile, è uguale al nulla e, se lí 121 viene gettato un peso, «quanto più si move più pesa; onde giunto al cientro del mondo, che ha solo il nome, e coll’esere eguale al nulla, il peso gittato non troverà re- sistenzia per tal cientro, anzi paserà e po’ tornerà». In al- tri termini, il peso va crescendo a mano a mano che il grave si avvicina al centro della terra (e qui Newton ve- drebbe in embrione la sua legge), ma le oscillazioni son dovute al fatto che il centro della terra, essendo un puro nome, non presenta resistenza. E che farebbe una massa d’acqua se si trovasse, senza la terra, intorno al centro del mondo? Leonardo (Codice Arundel, fol. 205 v.) risponde «ch’ella si farebbe di per- fetta sfericità, la qual sarebbe di tanta virtù che, essendo penetrata da’ razi solare, ella acenderebbe il foco nelle cose atte al foco poste nella oposita parte dell’aria». Qui si potrebbe vedere in Leonardo (ma forse corriamo trop- po) un legame tra la gravità e l’attrazione molecolare, specialmente se ci riferiamo ad altri codici. Piuttosto, vogliamo fare un’altra osservazione. Leonardo ha detto che l’acqua, raccogliendosi in una sfera, potrebbe servi- re ad accendere il fuoco, giacché, diremmo noi, divente- rebbe una lente convergente. Ma nominato il fuoco, Leonardo pensa a un problema non ancora risolto e nota: «Perché il foco rinchiuso subito more. E cosi nelle cave del grano». Non volendo rispondere perché incalzato da altri pen- sieri, o non avendo ancora i dati per rispondere, egli passa oltre e si occupa di attrito. Un corpo rimane in equilibrio su un piano inclinato quando il suo peso è 122 vinto dall’attrito. «Quando la potenzia della confrega- zione vince la potenzia del peso, allora il corpo non n’arà moto». Quest’affermazione non avrebbe una grande impor- tanza se fosse isolata ma, collegata con tutte le altre esperienze sull’attrito che al Govi parvero incredibili, è interessante, perché se il corpo ha un peso maggiore dell’attrito non può restare in equilibrio e oggi sappiamo che si dovrà muovere di moto uniformemente accelera- to. Se il peso è uguale alla forza d’attrito e il corpo rice- ve un impulso, si avrà invece moto uniforme. Nel caso dell’attrito interno quest’ultima osservazione presenta molto interesse e non si può dire che fosse del tutto sco- nosciuta a Leonardo. Infatti nel Codice Arundel (fol. 10 r.) si leggono queste parole: «El grave che discende in- fra l’acqua, osserva sempre una medesima velocità. Quel ch’è detto acade perchè l’acqua non apre la strada al mobile come fa l’aria, e non po’ fare onda come l’aria allo ingiù. Onde è necessario che ’1 mobile, penetrando mezo d’egual resistenzia, che ’1 moto d’esso mobile sia d’egual velocità». Non dite senz'altro: «Non è vero», perché avreste tor- to. Leonardo ha visto certamente qualcosa: ha visto che la discesa può avvenire con moto uniforme (quando la forza motrice, cioè il peso nell’acqua, e la forza d’attrito sono o diventano eguali. Il caso può avvenire in un flui- do qualunque e quindi anche nell’aria). Sull’attrito ci limiteremo a citare il fol. 41 r. del Codi- ce Arundel. In questa pagina Leonardo disegna, fra 123 l’altro, quello che nei testi di fisica si chiama «banco di Coulomb» perché fu usato dal fisico francese, nelle sue classiche esperienze sull’attrito, quasi tre secoli dopo (1781-1790). «Le confregazion de’ pesi», dice Leonardo, «son di tante varie resistenzie quanto son vari e’ corpi che ’nsie- me si confregano; e se le superfizie de’ corpi che ’nsie- me si confregano, saranno dense e di resistente planizia, allora il contatto grande fia d’egual resistenzia a quel del picolo». Queste affermazioni si ritrovano identiche nei moder- ni trattati di fisica, per esempio in quello del Roiti. Se- condo Leonardo, dunque, l’attrito dipende dalla natura dei corpi e, quando le superficie siano e rimangano pia- ne, è indipendente dalla loro estensione. L’ultimo punto è stato discusso, ma ecco che cosa dice il Roiti: «Non dipende dall’estensione della super- ficie di contatto purché questa non si riduca ad essere appuntata o tagliente. Cosi: un parallelepipedo, soggetto alla sola forza di gravità, incontra la medesima resisten- Za a scorrere sopra un piano orizzontale, qualunque sia la faccia colla quale vi si appoggia». S’intende, la legge è valida soltanto per l’attrito ra- dente e, come si capisce, è approssimata. Si spiega pen- sando che i corpi vengono a contatto in un numero limi- tato di punti, che non dipendono dall’estensione delle superficie. Va ancora notato che nelle figure di Leonar- do appaiono proprio dei parallelepipedi. 124 È tempo adesso di parlare di quella pagina (Codice Arundel, fol. 2 r.), in cui si parla del moto oscillatorio e dell’impeto: il guaio è che ce ne manca lo spazio! Il let- tore la legga. È intitolata: Del moto ventilante che sen- pre si consuma nel moto incidente. Per Leonardo (i vo- cabolaristi non se ne sono accorti) moto ventilante è il moto oscillatorio. Il moto oscillatorio, egli dice, consiste in una conver- sione reciproca di moto riflesso in incidente, che dura sino a che l’impeto non si consumi. Benché nasca sem- pre dall’impeto, si genera in diversi modi e in diversi corpi (pendoli, bilance, barche nell’acqua, acqua nei vasi, vento riflesso tra le pareti dei muri). Il moto venti- lante può essere retto, come nel caso del pendolo, e «cir- convolubile», come nel caso del yo-yo. Com’è naturale, la parola yo-yo non c’è nell’ Arundel, ma cè la descrizione e c’è la figura. In una delle pagine del Codice Forster (I, fol. 4 r.) e più brevemente nel Codice Arundel (oltre che nel Codi- ce Atlantico), Leonardo descrive il compasso di propor- zione, o seste proporzionali, con cui si può ingrandire o ridurre un disegno, oppure si può trasformare un cerchio in un’ellisse. Si tratta di un compasso a polo (o fulcro) mobile, cioè, come spiega Leonardo, di due aste che possono fissarsi con una vite in diverse posizioni. Lungo le aste ci sono diversi fori ugualmente distanti dagli estremi, in cui si può trasportare la vite, fissandola mediante la ma- drevite. 125 Il compasso di proporzione di Leonardo, a quanto sembra, è il primo che sia stato ideato; almeno finora non risulta che ne siano stati costruiti altri precedente- mente. Leonardo, come si sa, è uno scrittore di cose militari. Da questo punto di vista sono particolarmente notevoli il Codice B e il Codice Atlantico, ma in tutti gli altri Co- dici e nei fogli sparsi si possono trovare notizie e dise- gni. Famose sono le alabarde dell’ Accademia di Venezia e, più ancora, le falciatrici di guerra del Palazzo Reale di Torino: eccone la riproduzione qui a lato. Nei Codici Forster si parla molto di balestre, di can- noni e specialmente di bombarde. Leonardo ha capito che la bombarda in cui si accende, in pari tempo, mag- gior quantità di polvere, «più veloce e remota fa la sua ballotta» (Codice Forster, Il, fol. 70 r.) e che, a parità di peso, una palla sferica è meno veloce di una schiacciata come formaggio con gli orli arrotondati, «e questo aca- de (Ib., fol. 72 r.) perché in pari peso di ballotta a essere tonda essa percote più aria e trova più resistenza e, a es- sere stiacciata, essa entra ne l’aria per taglio e più presto la penetra e più presto si move per quella». Non risulta che Leonardo abbia pensato al cannonis- simo. Ebbe però l’idea di una bombarda colossale. 126 TUTTO LEONARDO" Roberto Marcolongo, che è stato, fino al collocamen- to a riposo per limiti d’età, professore di meccanica ra- zionale all’Università di Napoli ed è autore di ricerche originali e di un bel manuale di meccanica oltre che di uno dei più seri trattati sulla teoria della relatività, è molto apprezzato nel mondo scientifico, sia come scien- ziato e storico delle scienze, sia come maestro. Insieme al Burali-Forti egli ha il merito di avere largamente con- tribuito alla fortuna di quel poderoso strumento di ricer- ca che è il calcolo vettoriale, tanto che si può senza esa- gerazione affermare che tutti i giovani scienziati siano oggi in Italia per qualche verso suoi allievi. Alla meccanica di Leonardo il Marcolongo ha dedica- to memorie fondamentali. Egli ha pure illustrato, anzi possiamo dire ha ricostruito le ricerche geometriche e ha studiato altri aspetti dell’attività scientifica leonardesca. Occorre aggiungere che il Marcolongo è uno dei mem- bri più attivi e autorevoli della Reale Commissione Vin- ciana. Il volumetto Leonardo da Vinci artista-scienziato, edito nella Collezione Hoepli (Milano, 1939, sedici fi- gure e diciotto tavole fuori testo) è dedicato ai suoi figli. * Pubblicato in «Panorama», 27 gennaio 1940, p. 176 sg. 127 Nella fascetta si legge: «Tutto Leonardo nell’arte, nella scienza e nella vita del Rinascimento»; e infatti vi sono considerati tutti gli aspetti della grande personalità, dalla biografia alla scienza, alla tecnica, alla pittura, alla pro- sa, alle vicende dei manoscritti. Si tratta, come si capisce, di un compito che, più che difficile, si potrebbe ritenere disperato. Del resto, l Autore dichiara lealmente che il volumetto è «frutto di lunga se non esauriente preparazione» e qua e là nel cor- so del libro dice senz’altro che per alcuni argomenti si è valso o si è addirittura limitato a riassumere ricerche di altri vinciani. Dato lo scopo propostosi, che è quello di presentare senza pretese Leonardo da Vinci al gran pubblico e non quello di rivelare un nuovo Leonardo, ci sembra che il Marcolongo abbia avuto sempre, o quasi sempre, la mano felice. Se mai, qualche volta e in particolare negli aspetti di Leonardo che gli sono meno familiari, ha detto molto meno di quello che si poteva dire o ha peccato di troppo entusiasmo. Per esempio, pur riconoscendo le benemerenze di Papini nei riguardi di Leonardo non si può ripetere col Marcolongo: «È sempre vero quanto stupendamente ha scritto G. Papini — fu profondo poeta e non ha scritto un verso». Questo giudizio non è stu- pendo e non è nemmeno interessante. Meno che mai si può accettare la frase del Tommaseo che al Marcolongo sembra scultorea: «Egli è il maggiore dei nati di donna; un Dante con la mente di Platone e con l’anima di Virgi- lio; un Raffaello con la struttura di Michelangelo e di 128 Galileo». Secondo me è uno dei giudizi più rettorici e più vuoti della letteratura vinciana. I nomi non potevano essere scelti peggio. Se si volesse dare un senso a quelle parole, bisognerebbe riconoscere che, secondo il Tom- maseo, Leonardo era un mostro. Nelle pagine più sue, per fortuna, il Marcolongo è lontanissimo da affermazioni generiche o assurde; e an- che quando non si può consentire con lui bisogna rispet- tarlo. Allora il Marcolongo, pure avendo, com’è natura- le, un vero culto per Leonardo, non confonde gli accen- ni con le dimostrazioni compiute e con gli svolgimenti, né le speculazioni curiose con le vere e proprie inven- zioni. Cosi nel capitolo ottavo, che mi sembra il miglio- re benché forse sarà meno apprezzato dal pubblico (ri- chiede un po’ d’attenzione per essere compreso), il Mar- colongo dice che Leonardo se fu meccanico, inventore, naturalista tra i più eccelsi, non fu matematico. Egli non dissimula le numerose fonti a cui Leonardo attinge, e ammette che non è sempre nuovo o sempre esauriente. A proposito del problema della riflessione su uno specchio sferico, il Marcolongo riconosce esplicitamen- te che Leonardo, nonostante i numerosi tentativi, non riusci a risolverlo per mancanza di preparazione mate- matica, benché la soluzione fosse stata trovata, sia pure barbaricamente, da Alhazen. Leonardo riusci però a dar- ne una soluzione meccanica per mezzo di un sistema di aste articolate ricostruito dal Marcolongo stesso. Al cosí detto «cannocchiale di Leonardo», benché dica che le recenti dotte ricerche dell’ Argentieri merita- 129 no la più alta considerazione, si vede bene che il Marco- longo non ci crede perché si limita ad affermare che è assai probabile che Leonardo abbia pensato a un tele- scopio o cannocchiale. Non si potrebbe essere più riser- vati perché, secondo il Marcolongo (e noi gli diamo ra- gione), non è nemmeno certo che Leonardo abbia pen- sato a un cannocchiale. L’occhiale da veder la luna gran- de, su cui Leonardo non dà particolari, è presumibil- mente una lente d’ingrandimento di grande lunghezza focale°. Molto opportunamente il Marcolongo si astiene dall’insistere sulla superatissima tesi di Leonardo sco- pritore dei fenomeni d’interferenza e di diffrazione. A proposito della deviazione dei gravi cadenti, a me pare che Leonardo consideri tolemaicamente la terra come fissa e ammetta che ruoti intorno alla terra la «sfe- ra dell’aria». L’aria, essendo animata da questo suo moto di rotazione, trascina con sé il sasso lanciato dall’alto della torre, sicché esso «non percote nel lato d’essa torre prima che in terra». L’osservazione è senza dubbio interessante ma non consente di parlare di Leo- nardo come precursore di Vincenzo Renieri e tanto meno di pensare che egli abbia dato consapevolmente una prova sperimentale della rotazione diurna della Ter- ra intorno al proprio asse. D’accordo col Marcolongo, credo che Leonardo ab- bia intuito il primo e il terzo principio della meccanica, anzi il codice Arundell ci dimostra che Leonardo ha 5 [Su questo argomento vedi l’articolo seguente]. 130 enunciato il principio di Newton nella sua generalità. S’intende, non per questo si può parlare di Leonardo come di un supergalileo o di un supernewton. Anche nelle sue più ardite intuizioni egli rimase sempre un uomo del Rinascimento. 131 UN ERRORE D’INTERPRETAZIONE D’UNA PAGINA DI LEONARDO" Il volume Leonardo da Vinci, pubblicato dall’Istituto Geografico De Agostini a cura della Mostra di Milano, vuol darci una nuova sintesi di Leonardo. È un volume atlantico (centimetri 30 per 41 per 5; 6 chili), ricchissimo d’illustrazioni, duemila delle quali da fotografie dirette. Il costo del volume (cinquecento lire) non è esagera- to, ma non è evidentemente popolare. Un’edizione mi- nore, con pochissime riproduzioni essenziali in nero, sa- rebbe opportuna. Il Maresciallo Badoglio osserva nella breve presenta- zione che la Mostra vinciana ha cercato di dare un Leo- nardo vivo e attuale. Ispirandosi allo stesso concetto, il Comitato esecutivo ha inteso bandire opportunamente dal volume le divagazioni estetiche o letterarie. Che però, da questo punto di vista, il volume sia riu- scito come voleva il Comitato, non direi. Di divagazioni non ne mancano sia nel testo sia nelle riproduzioni. Tan- * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 28 febbraio 1940. Vedi an- che // cannocchiale di Leonardo nel «Tesoretto», Milano 1940, p. 101 sgg.; replica dell’Argentieri e risposta del Timpanaro ne «L’ Ambrosiano», 15 marzo 1940. 132 te opere di scuola leonardesca non si capisce perché sia- no state riprodotte. E poi altro è la divagazione estetica, altro lo studio. Leonardo è essenzialmente artista ed è scrittore. Occorreva dunque studiarlo principalmente come artista. Invece quest’aspetto del suo genio è stato molto sacrificato. Vi si parla di Leonardo musicista, fi- losofo, glottologo, decoratore, di Leonardo architetto, con un capitolo dedicato all’architettura a cupola, ma di Leonardo pittore si parla pochissimo e non di proposito. Giorgio Nicodemi, nel suo ampio saggio sulla vita e le opere di Leonardo, parla naturalmente anche del pittore; ma, in realtà, il saggio è, più che altro, di carattere bio- grafico: un vero e proprio giudizio sul pittore non c’è. Il capitolo di Adolfo Venturi su Leonardo e il disegno è buono ma è troppo breve ed è assai meno importante delle prefazioni che lo stesso Venturi ha premesso all’edizione reale dei disegni di Leonardo. La parte più importante del volume, o almeno la più utile per chi voglia studiare Leonardo, a me pare quella biografica e di erudizione. Buona, e qualche volta ottima, è anche in generale la parte scientifica, per quanto non manchino, oltre che in- terferenze e lacune, infatuazioni ed errori. Ottima è stata l’idea di ristampare integralmente il Codice sul volo. Due capitoli, quello di Giovanni Gentile e quello di Fausto M. Bongioanni, sono di carattere filosofico. Do- vrebbero essere, in un certo senso, il centro del volume, giacché invece di studiare, come fanno per necessità gli 133 altri collaboratori, un aspetto della personalità di Leo- nardo, dovrebbero studiare l’essenza di quella personali- tà. Buone osservazioni, s’intende, non ne mancano in tutt’e due i capitoli. Ma il Bongioanni si compiace trop- po di paradossi e di giochi scolastici. Egli dice giusta- mente che nel Rinascimento italiano Leonardo ci sta proprio di casa, essendo congeniale alla sua stirpe, alla sua civiltà, al suo secolo. È pure vero che la contraddi- zione che alcuni vorrebbero porre tra Leonardo scien- ziato e Leonardo artista è apparente. Ma come si fa poi ad ammettere che Leonardo sia «tragico e immite»; che egli vuol diventare cosi assolutamente «ragione» da di- ventar disumano, rompendo l’equilibrio «microcosmo- macrocosmo» con un «disegno d’incesto cosmico»? Come si fa a scrivere che il tono degli scritti leonarde- schi «ha qualcosa di più perentorio [dei suoi dipinti], di più calzante, di più sottile e più enorme nella potenza evocativa»? Il Gentile dice cose ottime sul Rinascimento ma, in- vece di parlare di Leonardo come uomo del Rinasci- mento, finisce, senz’accorgersene, col parlare dell’uomo del Rinascimento in genere, considerato come errore fi- losofico da superare. Leonardo sarebbe un uomo diviso tra due mondi inconciliabili. In lui ci sarebbe angoscia, intima tragedia, disperata fatica. Il Gentile aggiunge che Leonardo è un implacabile tormentatore di sè stesso, la cui opera meravigliosa «lascia nell’animo un desiderio infinito, fatto quasi di rimpianto e di tristezza: il deside- 134 rio di un Leonardo diverso da quello che fu, che potesse raccogliersi a volta a volta e chiudersi o tutto nella sua fantasia, o tutto nella sua intelligenza; a gustare la gioia pura del creare divino». Il Gentile si lascia sfuggire ciò che lui stesso aveva detto: che il «divino Leonardo» è «una delle espressioni più complete della personalità umana del Rinascimen- to». Leonardo sapeva raccogliersi a volta a volta nella sua fantasia e nella sua intelligenza: e per questo abbia- mo i suoi dipinti, 1 suoi disegni, 1 suoi manoscritti. Ma sapeva raccogliersi come si poteva raccogliere un uomo del Rinascimento che, appunto perché, come allora si diceva, uomo universale, non poteva essere solo pittore o architetto, ma pittore, scultore, architetto, ingegnere, geometra, fisico, botanico, geologo. Di «novità sensazionali» il volume ne ha due e tutt’e due discutibili. Una è la Madonna del Gatto su cui non ci fermeremo perché nel nostro giornale se n’è a lungo parlato. I lettori sanno che il dipinto a olio su tavola, di proprietà di Carlo Nogali, in cui Adolfo Venturi volle identificare la Madonna del Gatto di Leonardo, suscitò tante contestazioni nel mondo artistico che fu ritirato dalla Mostra. Oggi pochi credono che il dipinto sia di Leonardo. L’altra novità è il cannocchiale che il prof. Domenico Argentieri ha creduto di scoprire nel foglio 25 recto del Codice F, a cui finora nessuno aveva dato importanza. 135 La pagina di Leonardo è «indeterminata forte», per dirla con fra Pietro da Novellara, sicché si presta ottima- mente a discussioni di lana caprina. Leonardo parla di un occhiale di cristallo grosso dai lati un’oncia d’un’oncia, cioè 1/144 di braccio, e sottile in mezzo, secondo la vista di chi lo deve adoperare, cioè secondo la proporzione degli occhiali che a lui stanno bene; dice che dev’essere lavorato sulla stessa stampa degli occhiali, dimodoché sia lungo tre once e largo due, cioé di forma rettangolare (un quadrato e mezzo). L’occhiale si deve adoperare remoto dall’occhio un ter- zo di braccio e altrettanto discosto dalla lettera che si legge. Nelle migliori condizioni la comune lettera di stampa parrà lettera di scatole da speziali. Questo oc- chiale, conclude Leonardo, è buono da tenere in iscritto- io ma, se si vuol tenere per fuori, dev'essere più piccolo (lungo 1/8 di braccio e largo 1/12). È evidente che Leonardo parla di una lente di ingran- dimento e precisamente di una lente da lettura. Del tubo, essenziale in un cannocchiale, egli non parla, quindi per nessuna ragione si può parlare di cannocchiale. Si può perfino sostenere che l’occhiale per fuori non sia una lente per guardare a distanza, ma la solita lente da lettu- ra che è più piccola per ragioni di comodità. Anche oggi noi teniamo sullo scrittoio una lente grande e ne portia- mo nel taschino, per poter leggere fuori o al caffé, una molto più piccola. Quest’interpretazione mi pare anzi molto attendibile perché se no Leonardo avrebbe detto a che distanza e con che risultato si poteva vedere. Non 136 aggiungendo niente di nuovo salvo le dimensioni ridot- te, è logico ammettere che egli si riferisca alla lente da lettura e non, per esempio, a quello che l’Argentieri chiama cannocchiale senza oculare, cioè la lente conver- gente (lente, come dice Leonardo, da occhiali di cin- quant’anni) tenuta lontana dall’occhio per guardare at- traverso di essa cose lontane duecento braccia. L’Argentieri ha interpretato la frase «occhiale per fuori» come sinonima di occhiale per guardar lontano (e sin qui non c’è niente di assurdo), ma poi si è talmente lasciato trasportare dall’entusiasmo da credere che Leo- nardo descriva in quella pagina il cannocchiale di Gali- leo o cannocchiale olandese. La pagina leonardesca, come si vede, ha tre figure. Quella di sinistra rappresenta l’occhiale, le altre due sono estranee al testo. La figura a destra in basso è una figura astronomica, simile ad altre del Codice Arundel e del Codice Atlantico. Quasi certamente i due cerchietti che hanno il centro sul semicerchio esterno rappresenta- no il sole che manda 1 raggi alla terra. L’Argentieri ritiene invece che la figura rappresenti una calotta metallica per lavorare le lenti. Quello che se- condo noi è il sole sarebbe invece la lente che Leonardo avrebbe disegnato in due diverse posizioni per «dar mo- vimento alla sua figura». Perché Leonardo avrebbe dise- gnato i raggi, l’Argentieri non lo dice, come non dice perché la lente ha il centro sulla calotta. Ridisegnando la figura, l Argentieri ha messo giustamente la lente sulla calotta e non per metà dentro la calotta. Bisognerebbe 137 ammettere che Leonardo abbia disegnato male. Non oc- corre dire che è pure del tutto inammissibile l’idea del movimento di va e vieni sulla superficie della calotta supposto dall’ Argentieri. A sinistra è rappresentata una lente rettangolare con montatura e con manico. Il lato più lungo del rettangolo è, come dice Leonardo, una volta e mezzo l’altro. Secondo l’ Argentieri si tratterebbe invece di un tubo tozzo e corto; e secondo lui alle due estremità del tubo non si vedono sezioni di lenti perchè il formato ridotto del foglio (10 x 15 cm.) «vietava a Leonardo di scende- re a tali particolari». Ma il preteso tubo sarebbe chiuso (si tratta infatti, come si vede, di due rettangoli concen- trici) e lo spazio per le lenti c’è ad esuberanza. Non si può dunque consentire nemmeno su questo punto con l’Argentieri. Si deve aggiungere che l’ Argentieri, per sostenere la tesi del cannocchiale, ha commesso ancora due arbitrii. Ha supposto che l’occhiale che Leonardo descrive come lente da lettura non potesse servire pro- prio per la lettura. «Non si guarda — egli dice — un libro sul tavolo dello scrittoio con un cannocchiale!». È veris- simo, ma ciò significa appunto che l’occhiale di Leonar- do non è un cannocchiale. L’altro arbitrio consiste nel fatto che 1’ Argentieri dà due significati diversi alla parola occhiale che, secondo lui, significherebbe ora una delle lenti del cannocchiale (la lente oculare divergente), ora il cannocchiale. Di questo vero e proprio giuoco di bussolotti sembra anzi che l’ Argentieri non si sia nemmeno reso conto, perché 138 altrimenti ne tenterebbe una giustificazione. Invece quando Leonardo dice che l’occhiale è grosso da’ lati un’oncia d’un’oncia egli dice che Leonardo parla di una delle lenti del cannocchiale, quella divergente, che rap- presenta la vera novità; quando Leonardo dà le misure della lente l’ Argentieri le attribuisce al tubo del cannoc- chiale che, come si è detto, non esiste nel testo di Leo- nardo. Perché l’ Argentieri ha pensato al cannocchiale? Per- ché la lente descritta da Leonardo potrebbe essere una lente divergente e allora non si potrebbero avere gli ef- fetti descritti da Leonardo: la lente divergente impiccoli- sce. In realtà è tutt'altro che evidente che Leonardo inten- da parlare di quella che oggi si chiama lente semplice a orlo grosso. Occorre inoltre aggiungere che, nonostante le precise affermazioni dell’ Argentieri, non è sempre vero che le lenti semplici a orlo grosso siano divergenti. Ci sono menischi concavi convergenti, come ci sono lenti biconvesse divergenti. Nei libri per le scuole me- die, tenuti, a quanto sembra, presenti dall’ Argentieri, non se ne parla perché si considerano lenti infinitamente sottili, ma se ne parla in tutti i trattati universitari. Leonardo potrebbe però parlare di una lente doppia, qualcosa di simile a quella che oggi diciamo della forma di Gauss, e allora tutto il ragionamento dell’ Argentieri, anche nei riguardi della lente, non avrebbe ragione di essere, come non ha ragione di essere ciò che egli dice sulla calotta e sul tubo. 139 Ammettendo con l’ Argentieri che Leonardo descriva una lente divergente, non per questo si può parlare del cannocchiale. Poiché la lente divergente che supporre- mo, per esempio, biconcava, non ingrandisce, si potreb- bero fare due ipotesi: o Leonardo si è ingannato, o, non volendo ammettere, come fa l’ Argentieri, che Leonardo possa sbagliare, si potrebbe supporre che la lente bicon- cava si dovesse associare con una lente biconvessa. Si avrebbero cosi lenti della forma di Dollond o di Barlow e non il cannocchiale galileiano. Anche volendo ammettere, come in primo tempo am- mise l’ Argentieri prendendo alla lettera le parole di Leo- nardo, che la lente divergente abbia numericamente lo stesso potere degli occhiali, associata opportunamente agli occhiali in modo da costituire un obbiettivo a potere variabile poteva servire da lente da lettura e da «cannoc- chiale senza oculare». Contro la tesi dell’ Argentieri c’è anche un’obiezione pregiudiziale che è fatta da Pio Emanuelli in uno degli scritti del volume che stiamo esaminando. Se Leonardo avesse inventato il cannocchiale, ne avrebbe compreso immediatamente, come Galileo, l’importanza militare e astronomica e avrebbe fatto alcune almeno delle scoper- te galileiane. Dire che l’ha inventato senza veder nulla, significa abbassare Leonardo da Vinci al livello dell’occhialaio olandese. Ci si dirà che abbiamo preso troppo sul serio una tesi evidentemente sballata. Forse è vero. Ma l’ Argentieri ha pure costruito ed esposto alla Mostra il suo, anzi i suoi 140 cannocchiali; e la sua tesi è stata accolta nel volume leo- nardesco. D'altra parte, se l’ Argentieri ha avuto un infortunio, più che naturale in un vinciano novizio (errori d’inter- pretazione se ne trovano anche nei vinciani più famosi), non è detto che non possa far meglio in seguito. Basterà che freni il suo entusiasmo. 141 LEONARDO E GLI SPIRITI" Uno degli aspetti meno studiati di Leonardo da Vinci è il suo atteggiamento davanti agli spiriti o spettri che si vogliano chiamare. Ed è dei più nuovi e significativi, tanto che senza di esso e senza le idee connesse contro l’astrologia, l’alchimia e il moto perpetuo, egli non sa- rebbe cosi decisamente fuori del Medio Evo e, direi, dello stesso Rinascimento. Per chiarire il valore della sua negazione degli spiriti è opportuno premettere due parole sulla religione di Leonardo, perché non mi pare che su questo punto si sia tutti d'accordo. Che Leonardo da Vinci sia stato in prati- ca, più che indifferente, ostile alla religione cattolica tut- ti lo sanno. Tutti ricordano quel giudizio sull’anima e la Vita che sono cose improvabili, e sanno che egli cercò di ridurre i fenomeni biologici a fenomeni meccanici. Uno dei suoi detti più famosi è quello dei Quaderni di Anato- mia, dove lascia la definizione dell’anima «nelle menti dei frati, padri de’ popoli, li quali per ispirazione san tut- ti li segreti». A questo pensiero segue immediatamente la frase ironica: «Lascia star le lettere incoronate perché son somma verità». E alle lettere incoronate, cioè alla Bibbia egli si oppone, a proposito del diluvio e dei fos- * Pubblicato nel «Mondo», Firenze, 4 agosto 1945, p. 15. 142 sili, con una libertà tutta moderna. Verso l’aldilà e verso 1 dogmi egli è indifferente. Certe sue espressioni sareb- bero piaciute a Spinoza. «O mirabile necessità, tu con somma ragione costrigni tutti li effetti a partecipare del- le lor cause, e con somma e irrevocabile legge ogni azione naturale colla brevissima operazione a te obbedi- sce... O mirabile o stupenda necessità, tu costrigni colla tua legge tutti li effetti per brevissima via a partecipare delle lor cause. Questi sono li miracoli». Questi, cioè i fenomeni della visione e i fenomeni fisici in generale, e non quelli soprannaturali. Poco prima aveva detto che certe meraviglie della natura non si spiegano e indirizza- no l’umano discorso alla contemplazione divina, se non che il Dio a cui qui si accenna non è quello degli scola- stici ma piuttosto la Natura di Bruno e di Spinoza. Gerolamo Calvi ha osservato che Leonardo, accanto ai ragionamenti antispiritici, non lascia di affermare l’esistenza dell’anima e la sua immortalità. Leonardo dunque, se ho ben capito, seguirebbe la dottrina della doppia verità, cosi diffusa nel Rinascimento. In appog- gio alla sua tesi il Calvi cita questo passo del Codice Trivulzio: «L’anima mai si può corrompere alla corru- zione del corpo, ma fa nel corpo, a similitudine del ven- to, ch'è causa del sono dell’organo, che guastandosi una cana non resultava per quella del vento buono effetto». La citazione non è persuasiva, perché a parte il fatto che Leonardo non si pronunzia sulla natura dell’anima, qui è ammessa un’anima che non si può corrompere se si cor- rompe il corpo, ma è detto esplicitamente che, senza il 143 corpo, l’anima non agisce e quindi da sola, se vogliamo, esiste ma come astrazione. Del resto, nel Codice Atlan- tico è detto che, senza gl’istrumenti organici del corpo, l’anima «nulla può oprare né sentire». Non meno impor- tante è questo pensiero dei Fogli B dell’ Anatomia: «Come il senso dà all’anima e non l’anima al senso, e dove manca il senso, ofiziale dell’anima, all’anima manca in questa vita la notizia dell’ufizio d’esso senso, come appare nel muto o nell’orbo nato». Qui Leonardo dice addirittura che in questa vita il senso dà all’anima e non l’anima al senso. Per lui dunque il senso senza l’anima è qualcosa, ma l’anima senza il senso è nulla o almeno nulla di effettuale, nulla di operante. La riserva «in questa vita» non dico che vada senz’altro considera- ta come un puro suono ma è tutt’al più l’ombra del pen- siero vinciano. Forse è soltanto una concessione ad ho- minem, come per dire: Per chi ammette un altro mondo, lo so, l’anima può vivere e agire senza il corpo, che sa- rebbe un impedimento invece che un mezzo di cui non si può fare a meno: ma in questo mondo, che è il solo su cui si può ragionare, l’anima tende a ricongiungersi col suo tutto, cioè col corpo, perché senza di esso è una vuota possibilità. Occorre aggiungere che implicitamen- te Leonardo nega che l’anima sia immateriale, perché se no, per la ragione che vedremo a proposito degli spiriti, non potrebbe risiedere nella cavità cranica, come crede Leonardo. «L’anima — egli dice — pare risiedere nella parte judiziale, e la parte judiziale pare essere nel loco dove concorrono tutti i sensi il quale è detto senso co- 144 mune; e non è tutta per tutto il corpo come molti hanno creduto, anzi tutta in nella parte». Del resto, Leonardo ammette che l’anima possa essere senza ordine e confu- sa e allora sarà pure disunito e confuso il corpo. Cosi l’anima sarebbe distinta dal corpo ma avrebbe le stesse imperfezioni del corpo. Gli spiriti, secondo Leonardo, non possono né esser visti né vedere, non possono parlare, non possono entra- re in una stanza se le imposte son chiuse; supposto che potessero venire da noi non potrebbero restarci o verreb- bero distrutti. «O matematici — si legge nel Codice Atlantico — fate luce a tale errore. — Lo spirito non ha voce, perché dov'è voce è corpo, e do’ è corpo è occu- pazion di loco, il quale impedisce all’occhio di vedere delle cose poste dopo tale loco; adunque tal corpo empie di sé tutta la circustante aria, cioè colle sua spezie». Questo discorso sembra imbrogliato ma è chiaro. Leo- nardo voleva dire che lo spirito non può avere voce per- ché, secondo lui, non si può aver voce se non ci sono le corde vocali e la bocca se cioè non c’è il corpo. Ma ap- pena detta la parola corpo, ha pensato a un corpo opaco come il nostro e perciò ha concluso che esso farebbe da schermo. Infine, richiamandosi all’antica teoria delle immagini, o specie, sostenuta anche da Lucrezio, ha ag- giunto che il corpo, con la specie che emette, riempie l’aria circostante. Alla teoria della specie Leonardo ricorre pure per di- mostrare che, come noi non vediamo in campagna, cioè all’aria aperta, uno spirito, cosi lo spirito non può veder 145 noi. Un oggetto che non emetta specie non può esser vi- sto e gli spiriti non possono emettere specie, essendo immateriali. Leonardo pensa certamente che, se mai, po- trebbero emettere specie immateriali e quindi invisibili. D’altra parte un essere spirituale non può vedere, perché per vedere è necessario uno strumento denso e opaco, e lo spirito non può essere, senza contraddizione, denso e opaco. Più precisamente — aggiunge Leonardo — una cosa non può esser vista senza un foro (come quello del- la pupilla) attraverso il quale passi l’aria piena della spe- cie degli oggetti. «E per questo nessuna cosa che non ha corpo non pò vedere né figure né colore di nessuno ob- bietto, con ciò sia che gli è necessario che sia strumento denso e opaco per lo spiraculo del quale le spezie delli obietti impremino (cioè imprimano, proiettino) li colori e le figure loro». Sulla voce e le altre cose di cui stiamo parlando il Vinci aveva detto nel Codice B: «Non pò esser voce dove non è movimento e percus- sione d’aria; non pò essere percussione d’essa aria dove non è strumento; non po’ essere strumento incorporeo; essendo cosi, uno spirito non pò avere né voce né forma né forza e se piglierà corpo non potrà penetrare né entra- re dove li usci sono serati». Né lo spirito potrebbe farsi dei corpi di varie forme e quindi parlare e far forza, per- ché, secondo Leonardo, gl’immaginati spiriti, non aven- do né nervi né ossa, non posson far nulla di simile. «E se alcuno dicessi: Per aria congregata e ristretta insieme, lo spirito piglia i corpi di varie forme e per quelo stru- 146 mento parla e move con forza, a questa parte dico che dove non è nervi e ossa non pò essere forza operata 1° nessuno movimento fatto dagl’imaginati spiriti». Fuggi — conclude — i precetti di quegli speculatori che si fon- dano su ragioni non confermate dall’esperienza. «Fugi e’ precieti di quelli speculatori che le loro ragioni non sono confermate dalla isperienza». Sull’impossibilità che ha lo spirito di unirsi con la materia e farsi un corpo, Leonardo torna a lungo nei Fo- gli B dell’Anatomia (folio 31). Lo spirito non può stare negli elementi perché se ammettiamo che esso sia incor- poreo (Leonardo dice quantità incorporee, mostrando cosí che per lui è inconcepibile uno spirito che non oc- cupi spazio), e questa tal quantità è detta vacuo, e il va- cuo non si dà in natura, e dato che si dessi, subito sareb- be riempiuto dalla ruina di quello elemento nel qual tal vacuo si generassi». Riferendosi adesso alla sua teoria della gravità come essenzialmente relativa, cioè come dovuta a differenza di peso specifico, Leonardo sostiene che lo spirito, il quale, secondo il suo modo di vedere, sarebbe nelle condizioni di una bolla d’aria nell’acqua, dovrebbe continuamente fuggire verso il cielo e uscire del tutto dagli elementi. Lo spirito non potrebbe nem- meno pigliar corpo d’aria perché se rimanesse tutto riu- nito in se stesso, ricadremmo nell’inconveniente della bolla d’aria, e se si mescolasse intimamente con l’aria ne seguirebbero tre inconvenienti. In questo caso, come si capisce, esso renderebbe più leggera o, come dice Leonardo, levificherebbe l’aria con cui si mescola e al- 147 lora l’aria cosí levificata non potrebbe restare nell’aria più densa e volerebbe in alto; inoltre lo spirito cosi spar- so e disunito perderebbe la sua virtù; terzo inconvenien- te, questo corpo d’aria preso dallo spirito sarebbe sotto- posto alla penetrazione dei venti e cosi lo spirito «sareb- be ismembrato o vero sbranato e rotto insieme collo sbranamento dell’aria nella qual s’infuse». Come il lettore avrà notato, il fulcro di tutti questi ra- gionamenti è l’esperienza scientifica; e occorre non di- menticarlo se non si vuole fraintendere. Prendendo alla lettera certe espressioni di Leonardo si potrebbe pensare che egli abbia un concetto troppo restrittivo della scien- za. Per esempio, quando dice che non ci può esser voce senza corde vocali e senza bocca, implicitamente sem- bra che egli neghi il grammofono o meglio che egli non l’abbia previsto. Ma, a parte il grammofono che è stato previsto solo da Edison, il suo vero concetto è più pro- fondo. Leonardo da Vinci nega non il progresso scienti- fico con tutte le sue imprevedibili possibilità ma l’anti- scienza e la superscienza, che per lui sono la stessa cosa. In questo (e in tante altre cose) egli è moderno come noi. 148 GALILEO E COPERNICO" Il sistema copernicano è una delle creazioni più origi- nali che presenti la storia della scienza. Pure ammetten- do che Copernico abbia potuto avere qualche spunto da Celio Calcagnini e dal Cusano e abbia trovato idee e conferme in Filolao, in Fraclide Pontico, in Aristarco, è certo che il sistema eliocentrico che porta il suo nome è tutto suo. S’intende, Copernico non crea dal nulla né lo pretende. Egli è un uomo del Rinascimento e ha già il concetto della verità figlia del tempo che sarà poi appro- fondito da Giordano Bruno. Nella prefazione alla sua opera, dopo aver detto che noi possiamo indagare più ampiamente degli antichi il sistema del mondo, giacché abbiamo aiuti tanto più grandi quanto è maggiore l’intervallo di tempo di cui essi ci hanno preceduto, con- clude: «Io esporrò molte cose in modo diverso dagli au- tori precedenti, grazie però ad essi: poiché essi furono i primi ad aprire la via allo studio di questi fenomeni». La novità di Copernico è nella sintesi che egli riusci a rea- lizzare tra la geometria di Tolomeo e la fisica del Rina- scimento. Si sa che dell’ Almagesto era studiosissimo e ammiratore; e non ci vuole molto a persuadersi che il li- bro delle Rivoluzioni celesti, più che la negazione asso- * Pubblicato in «Sapere», 31 ottobre 1943, p. 371 sgg. 149 luta, è la riforma dell’ Almagesto dal punto di vista della meccanica e della concezione della scienza che nel tem- po che Copernico passò in Italia aveva come massimo rappresentante Leonardo da Vinci. Copernico ha in co- mune con Leonardo l’idea che la natura va studiata di- rettamente, senza pregiudiziali aristoteliche e teologi- che. Per lui i ragionamenti a priori non hanno più il va- lore che avevano per l’ Aristotele: sono utili alla ricerca ma non ne sono il fondamento. Né la Bibbia può costi- tuire un’obiezione. Chi volesse contrapporre la Bibbia alla scienza commetterebbe, secondo lui, un arbitrio re- ligioso oltre che scientifico. L’astronomia è per gli astronomi e non per i profani. Perché non ci siano equi- voci Copernico cita Lattanzio che rideva della rotondità della Terra e degli antipodi. Purtroppo l’ammonimento non fu compreso né dai protestanti né dai cattolici, che si trovarono cordialmente uniti contro l’idea copernica- na. Si sa che nel sistema tolemaico le distanze tra i piane- ti e il Sole non sono determinate. Se si determinano op- portunamente queste distanze si passa dal sistema di To- lomeo a quello di Ticho Brahe, vale a dire la Terra rima- ne ferma al centro, il Sole continua a girare intorno alla Terra ma gli altri pianeti girano intorno al Sole. Se si fa un altro passo avanti, dando alla Terra la rotazione diur- na e rendendo le stelle solidali col Sole, si passa al siste- ma di Niccolò Reymers detto Ursus. Copernico vide queste possibilità ma le scartò senza esitazione. Per lui quei sistemi erano anacronistici, perché non si trattava 150 di salvare astrattamente i fenomeni ma di interpretarli. L’unico sistema possibile era il suo. Il suo sistema era quello vero, quello di Dio. Si capisce perciò che per lui non potevano avere im- portanza né le apparenze e gli argomenti di Aristotele e di Tolomeo che le convalidavano né le pregiudiziali teo- logiche. La sua gloria è qui. Ma — è stato detto (che cosa non dicono gli uomini mediocri contro i geni?) — Coper- nico aveva fatto un’ipotesi che poi è divenuta possibile, ma non ha dato la dimostrazione apodittica del sistema eliocentrico. Allora la sua teoria era tutt'al più probabile (Bellarmino e tutto il Sant’ Uffizio, dopo il Sidereus Nuncius e la Lettera a Cristina di Lorena, esclusero che potesse essere probabile e la dichiararono assurda oltre che eretica). Presentandola come vera, Copernico com- metteva un arbitrio inqualificabile. (Appunto cosí fu detto da padre Secchi, che non era solo un teologo, il contegno di Galileo). «Il pazzo — disse graziosamente Lutero — vuol sovvertire tutta l’arte astronomica». Ebbene, se per dimostrazione s’intende un procedi- mento che costringa ad accettare una verità scientifica a chi non se ne intende e non vuol saperne è evidente che Copernico non diede né poteva dare la dimostrazione del suo sistema. La dimostrazione è un processo spiri- tuale: richiede preparazione e buona volontà. Per Coper- nico, come poi per Galileo e per Keplero, la dimostra- zione era del tutto convincente. Copernico aveva spiega- to i moti dei pianeti e della Luna meglio di Tolomeo e in maniera più naturale, tanto che lo stesso Ticone riconob- 151 be che la teoria tolemaica era morta; aveva eliminato l’enorme inconveniente della mobilità del cielo stellato; aveva compreso che l’assenza di parallasse delle stelle era dovuta alla loro lontananza; aveva rimosso le obie- zioni più grossolane e intravisto la nuova meccanica; aveva guardato il mondo da fisico e non da matematico, non da peripatetico, non da teologo. La teoria di Tolo- meo era stata soddisfacente al principio dell’era volgare ma nel Cinquecento non presentava più interesse. Le nuove osservazioni, la critica a cui era stata sottoposta l’avevano corrosa. Per salvare i nuovi fatti che si erano scoperti si era dovuta complicare sempre più, — e si ca- piva che questo processo di elefantiasi non solo non sa- rebbe mai finito ma sarebbe diventato più mostruoso. E poi la teoria era, in un certo senso, o pareva, immortale perché di ogni nuova anomalia si poteva render conto con nuovi epicicli, ma era essa stessa un’anomalia ine- splicabile. Il suo mortale difetto, che non poteva sfuggi- re a un grande scienziato del Rinascimento, era il suo carattere gratuito e artificioso. Certo, essa doveva avere un motivo di vero, visto che aveva spiegato un gruppo di fenomeni, ma Copernico intuiva che una teoria fisica era tutt’altro. La teoria tolemaica era equivalente alla vera, dal lato cinematico e limitandosi a un certo ordine di approssimazione, ma non era la vera, e Copernico cercava unicamente la verità. Chi si ostina a vedere nell’astronomo di Thorn solo un matematico che riusci a costruire un sistema equivalente a quello di Tolomeo ma più semplice, se ne lascia sfuggire il carattere. Coperni- 152 co inizia l’astronomia moderna perché non vuole salva- re i fenomeni ma vuole spiegarli e riesce genialmente a darne la prima spiegazione. Pur non avendo ancora la meccanica che gli occorre, ne intravede i primi linea- menti e ne pone chiaramente l’esigenza. La facilità con cui la teoria copernicana si lascia inquadrare nella mec- canica galileiana non è dovuta al caso ma al suo caratte- re. Contrariamente a quello che potrebbe sembrare, per- fino i residui aristotelico-tolemaici che rimangono in Copernico ne rivelano il senso fisico nel senso più mo- derno. Copernico non ha a sua disposizione le osserva- zioni di Ticho Brahe e tanto meno le ellissi di Keplero ed è naturale che conservi i movimenti circolari; avendo conservato le orbite circolari, spiega alcune anomalie con gli epicicli. In questo egli rimaneva ancora tolemai- co; e cosi doveva fare perché il compito delle teorie è quello di sistemare coi mezzi che si possiedono una cer- ta fase dell’esperienza. Nella teoria copernicana la mate- matica, la fisica e l’esperienza sono tutt'uno. Egli ha il merito, che non sarà mai abbastanza lodato in un teori- co, di aver sempre riconosciuto lealmente i fatti senza torcerli in nessun modo alle sue idee; com’è noto, egli accettò perfino certe irregolarità immaginarie. A chi la giudica storicamente la sua costruzione appare armonica come un’opera d’arte. La sua teoria delle stazioni e re- trogradazioni dei pianeti è un capolavoro di eleganza e basterebbe da sola alla sua immortalità. Il sistema ticonico è un gran passo indietro dopo Co- pernico ed è (bisogna riconoscerlo) il punto debole 153 dell’opera di Ticho Brahe. Da questo punto di vista Ti- cho rimane ancora un medievale. (In realtà, nell’opera di Ticho c’è qualcosa di peggio del sistema del mondo: c’è il suo ostinato amore per l’astrologia; ma qui siamo fuori della scienza). Perché Ticone fece quell’ibrido si- stema che porta il suo nome? Per la vanità di esser l’autore di un sistema, no: Ticho Brahe può esser trattato severamente ma non denigrato. La sua deficienza di senso fisico (dico senso teorico perché il suo spirito di osservazione è ammirevole) c’entra certamente. Ma la vera ragione è la sua timidezza religiosa. Il celebre danese era convinto che la Bibbia facesse testo anche in materia di astronomia e perciò si credeva in dovere di adattare la scienza alla Bibbia. Senza questa pregiudiziale egli avrebbe aderito con entusiasmo alla teoria copernicana. Le ragioni con cui cercò di giustificare la sua teoria hanno dunque per noi questo vizio d’origine. Ma appun- to per questo suo carattere, la teoria di Ticho Brahe ebbe successo nel campo dei teologi e dei peripatetici, e Gali- leo dovette combatterla. Che sia stata viva nel mondo scientifico non oserei affermarlo, e meno che mai ripete- rei con un astronomo illustre che verso il 1600 il sistema copernicano si potesse considerare «presso che spento» e che perciò Galileo e Keplero l’abbiano dovuto richia- mare in vita. Il sistema copernicano non è mai morto, anzi, come tutti gli organismi vivi e vitali, esso si è andato svilup- pando e potenziando. Al suo trionfo contribui, senza vo- 154 lerlo, lo stesso Brahe sia con le osservazioni su Marte che prepararono le leggi di Keplero, sia con le prove che diede contro l’incorruttibilità dei cieli e contro l’esisten- za delle sfere materiali a cui si credevano attaccati gli astri. Certo, il compito che restava da svolgere per far trionfare il sistema copernicano dopo Ticone era grave giacché occorreva debellare i teologi e i peripatetici. Ga- lileo ha il merito di aver contribuito in modo essenziale a questa grande vittoria. Con le sue clamorose scoperte, coi suoi scritti cosi rivoluzionari, col suo lungo martirio egli diede alla questione copernicana il carattere di guer- ra d’indipendenza spirituale. Sul terreno scientifico Ga- lileo attuò le esigenze poste da Copernico. I teologi credevano di poter liquidare la teoria coper- nicana limitandosi a ripetere con Lutero che, secondo la Bibbia, Giosuè comandò al Sole e non alla Terra di fer- marsi. Le ragioni di Copernico non potevano aver valo- re perché erano in disaccordo con la Bibbia. D’accordo coi peripatetici, essi tendevano a considerare l’esperien- za come priva di vera razionalità e, quando si degnava- no di prendere sul serio Copernico, credevano di poter- sene sbrigare con sillogismi sgangherati. «Quando un circolo ruota — diceva Melantone — il centro rimane fer- mo. Ma la Terra è il centro del mondo. Dunque rimane ferma». In termini ugualmente inconsistenti ma più pe- rentori si esprimeva Maffeo Barberini contro Galileo: «Non c’è dubbio: Dio poteva disporre gli astri in modo diverso da come pretende Copernico. Se lo neghi devi 155 dimostrare che ciò implica contradizione. E allora per- ché asservire al sistema copernicano la divina potenza e sapienza?». Impietrito in questo atteggiamento non vol- le mai ammettere che ci potessero essere prove in con- trario. Si trattava, come ben vide Galileo, di mentalità immobili e impersuasibili. Qualunque prova sarebbe stata inefficace. Copernico e Galileo erano chiari ma per capirli bisognava conquistare il loro punto di vista. Quelli che ancora distinguono tra prove decisive e prove congetturali sono male informati. I teologi e i peripateti- ci non opponevano ragioni a ragioni ma il testo di Ari- stotele, il testo biblico alle ragioni e alle esperienze. Chi avesse ancora qualche dubbio potrebbe consultare il vo- lumetto del P. Filippo Anfossi, maestro del S. Palazzo, pubblicato anonimo a Roma nel 1822. L’Anfossi dice che le leggi di Keplero, l’attrazione newtoniana, la de- viazione verso Est dei gravi cadenti liberamente «son cose che non meritano la menoma attenzione a fronte di tante, e cosi chiare espressioni delle Scritture, che asse- riscono costantemente il moto del Sole, e l’immobilità della Terra, senza asserir mai il contrario una sola vol- ta». Più oltre, all’obiezione che le tre «cose» ora citate e l’aberrazione delle stelle e la loro parallasse annua «somministrarono altrettante luminose prove per la veri- tà del controverso sistema», risponde: «Lo Spirito Santo sapeva o no tutte queste posteriori scoperte? Se le sape- va, perché gli uomini santi ispirati da lui ci han detto ot- tanta e più volte, che il Sole si muove senza dirci una sola che è immobile e fermo?... Bisogna rinunciare al 156 senso comune, e a quanto ha di più inviolabile e sacro la Religione per secondar le idee de’ moderni filosofi e astronomi, che invece di adattare alla divina scrittura le loro speculazioni, come hanno fatto Ticone Brahe e il Boscovich, vogliono far servire la divina Scrittura alle loro idee». Sono assurdità ma hanno almeno il vantag- gio della grande chiarezza. La Bibbia prima di tutto e sopra tutto. Ciò che non è d’accordo con la Bibbia è er- rore, ipotesi gratuita. L’ Anfossi non si sarebbe dato per vinto nemmeno davanti all’esperienza di Foucault. Avrebbe opposto il detto in contrario dello Spirito Santo e, se si fosse degnato di scendere in terra, avrebbe detto che lo spostamento del piano d’oscillazione del pendolo è reale e non apparente. Galileo rimosse anche queste pregiudiziali teologiche e da un punto di vista cosi ortodosso che ha diritto alla gratitudine incondizionata della Chiesa. Purtroppo seb- bene in pratica il suo punto di vista in materia di esegesi sia stato praticamente accettato dalla Chiesa ci sono an- cora cattolici (dei protestanti non so nulla) che conser- vano verso il loro grande correligionario uno strano ran- core. Galileo offri l’unico compromesso possibile. Due verità — egli diceva — non possono contrariarsi. La teoria copernicana è vera e quindi non le si può contrapporre la Scrittura. Poiché il testo biblico è, in questo e in altri casi, in contraddizione con la scienza vuol dire che non è un testo scientifico. Visto che se ne presenta l’occasio- ne, dirò che, anche in questo, come in astronomia, Gali- x leo è in profondo accordo con Copernico, e perciò il 157 tentativo che qualcuno ha fatto di esaltare Copernico de- nigrando Galileo è un non senso. Se si volesse esporre tutto ciò che nel campo scienti- fico fece Galileo in favore della teoria copernicana oc- correrebbe esaminarne tutta l’opera. La verità coperni- cana è il centro, il motivo costante, il punto d’unione, il vertice di tutta la sua attività di astronomo, di fisico, di pensatore. Con le scoperte celesti Galileo dimostrò che la fisica aristotelica, seguita da Tolomeo, non aveva consistenza e che Copernico aveva ragione. Il mondo era assai più vasto di come credevano Aristotele e Tolomeo. Le stelle erano incomparabilmente più lontane e più numerose e alle più grandi e più varie distanze le une dalle altre. Tra cielo e terra non c’era diversità di natura e nulla poteva giustificare il posto privilegiato che Aristotele, Ticho e i teologi davano alla Terra. Le quattro lune che egli per primo aveva scoperto intorno a Giove, le fasi di Venere, i movimenti delle macchie solari erano tutte prove, una più chiara dell’altra, in favore di Copernico; e ogni pro- va metteva meglio in luce la magnanima chiaroveggen- za dell’astronomo polacco. In questo e in altre cose Ga- lileo era d’accordo con Bruno e contro la stolta moltitu- dine che reclama le prove palpabili negando la ragione e l’esperienza. In realtà le prove più palpabili Galileo le aveva date creando il nuovo metodo e la nuova mecca- nica. 158 I Dialoghi delle Nuove Scienze non sono meno coper- nicani del Dialogo dei Massimi Sistemi. I teologi non li condannarono perché non li avevano capiti. Ma - si potrà ancora obiettare — un grande astronomo, che è un grande storico della scienza, G. V. Schiaparelli non è dello stesso parere. Nella sua lettera a padre Adol- fo Miiller in data 10 giugno 1909, lo Schiaparelli dice testualmente cosi: «Galileo dunque nel 1615 non aveva dato la dimostrazione del sistema eliocentrico più che Copernico e Keplero; ma egli aveva fatto qualcosa più di loro, aveva dimostrate false le teorie tolemaiche dei cinque pianeti e aveva dimostrato che tutti i pianeti han- no il Sole per centro dei loro movimenti. Arrivato a que- sto punto egli credette di aver dimostrato la verità dell’ipotesi di Copernico; troppo presto disse: Tertium non datur! Qui fu tutto il suo errore: errore molto perdo- nabile se ben consideriamo ogni cosa. Poco informato dei lavori altrui, pare egli ignorasse l’idea di Ticone. Egli parla dappertutto dei due massimi sistemi, e non mi ricordo di aver trovato mai alcuna menzione di un terzo massimo sistema la cui adozione era in quel tempo la più opportuna, come quella che avrebbe conciliato in modo per tutti soddisfacente il rispetto a ciò che allora si credeva la sola legittima interpretazione del testo biblico con ciò che si poteva considerare legittima conseguenza delle osservazioni degli astronomi e di Galileo medesi- mo». Occorre premettere che la lettera dello Schiaparelli non era destinata alla pubblicità. È scritta a memoria 159 senza un grande impegno, e non corrisponde bene al pensiero dell’ Autore. Egli infatti, in una nota allo scritto sui precursori di Copernico nell’antichità, dopo aver notato l’equivalenza tra i sistemi di Tolomeo, di Copernico e di Ticone, ag- giunge: «Lo stesso Keplero, colle sue ellissi, non avreb- be potuto togliere la possibilità di sostenere l’immobilità della Terra. Solo Galileo e Newton poterono distrugger- la, partendo da principi fisici più certi di quelli che fino allora avevano dominato nelle scuole». Qui è detto, come si è visto, che Galileo e Newton distrussero, con la loro nuova meccanica, l’ipotesi dell’immobilità della Terra. Distrussero dunque Ticone, alla cui teoria, se si toglie l’immobilità della Terra, non resta più nulla. Galileo considera solo i sistemi di Copernico e di To- lomeo «interi e con sommo artificio condotti al fine», e dice che quello ticonico è una promessa non eseguita, ma nella lettera a Francesco Ingoli, nei Massimi Sistemi e altrove prende in seria considerazione gli argomenti di Ticho Brahe e li distrugge radicalmente. Del resto, tutte le lettere copernicane si possono con- siderare una critica a Ticone; anzi, come abbiamo già detto, tutta l’opera di Galileo. Galileo distrugge la pregiudiziale biblica e dimostra che la Terra non può essere considerata come un’ecce- zione nel sistema solare; e cosi la base del cosi detto si- stema ticonico cade. 160 Gli altri argomenti di Ticho si fondano sull’ignoranza del principio classico di relatività, e non possono evi- dentemente aver valore per Galileo. Quanto al moto di declinazione intorno al centro che Copernico attribuisce alla Terra e che sembrava molto improbabile perché di verso contrario al moto diurno, a quello lungo l’eclittica e a tutti gli altri movimenti cele- sti allora conosciuti, Galileo risponde con la graziosa esperienza della palla ruotante in un vaso pieno d’acqua, descritta più ampiamente nel Saggiatore. Stendendo il braccio e girando sopra i nostri piedi — egli dice — vedia- mo la palla girare in senso contrario e finire la sua con- versione nello stesso tempo che noi finiamo la nostra; ma questo non è un moto ma una quiete, «perch’è ben vero che a quello che tiene il vaso apparisce muoversi, e rispetto a sé e rispetto al vaso e girare in sé stessa la pal- la posta in acqua; ma la medesima palla, paragonata col- le mura della stanza e colle cose esterne, non gira altri- menti né muta inclinazione, ma qualunque suo punto che da principio riguarda verso un termine esterno se- gnato nel muro o in altro luogo più lontano sempre ri- guarda verso lo stesso». Si tratta, in altri termini, di un'illusione dovuta a inerzia. Prima di chiarire il suo pensiero con l’esperienza ora ricordata, Galileo aveva premesso che l’accidente del terzo moto era conforme alla natura, e non senza ragio- ne. Perché in realtà tutto avviene come se il terzo moto esistesse. Col terzo moto Copernico non fece altro che correggere il pregiudizio allora corrente sul moto di ri- 161 voluzione della Terra. Si credeva allora aristotelicamen- te che la Terra non potesse girare intorno al Sole che mostrandogli sempre la stessa faccia, come se fosse fis- sata a una sfera rigida che fosse concentrica col Sole. All’obiezione che, supposto il moto della Terra intorno al proprio asse, una pietra che cadesse verticalmente dall’alto di una torre dovrebbe cadere molto più a Ovest dal piede della torre, Galileo risponde per bocca di Sal- viati: «Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo col moto diurno insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensi- bile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre». Risposte ana- loghe sono date alle obiezioni relative alla diversa gitta- ta che dovrebbero avere i tiri d’artiglieria al variare dell’orientamento del cannone. In altri termini, Galileo applica il principio classico di relatività. Se qualcuno osservasse che il principio di relatività non vale per i moti vari, dirò che Galileo lo sapeva, anche se può sem- brare che se ne dimentichi. Infatti quando dice che i fe- nomeni che avvengono sotto coperta di un gran naviglio fermo non cambiano se la nave si muove con la velocità che si vuole, non manca di avvertire che il moto dev’essere uniforme e non fluttuante qua e là. E sebbene si sia limitato ad abbattere le obiezioni dei geocentristi, ha per lo meno intravisto la deviazione dei gravi verso Est che doveva essere trovata sperimentalmente da Giambattista Guglielmini. Mi riferisco a quel ragiona- 162 mento che fa Salviati nella seconda giornata del Dialo- go dei Massimi Sistemi quando parla della palla che mentre si tratteneva nel «concavo della Luna», ossia nella regione del cielo della Luna rivolta a noi, era ani- mata, insieme con l’atmosfera, dal moto diurno della Terra. Egli dice che la palla continuerà ad andare in vol- ta nello scendere e per conseguenza piuttosto che secon- dare il moto della Terra «dovrebbe prevenirlo, essendo- ché nell’avvicinarsi alla Terra il moto in giro ha da esse- re fatto continuamente per cerchi minori: talché, mante- nendosi nella palla quella medesima velocità che ell’aveva nel concavo, dovrebbe anticipare, come ho detto, la vertigine della Terra». Galileo sa che il centro di una palla che nelle regioni più elevate dell’atmosfera abbia «il moto circolare delle ventiquattr’ore» ha pure una velocità più grande dei punti più bassi e quindi deve toccare il suolo più a oriente del piede della verticale. È vero che egli non si è tuttavia reso conto che ogni corpo che cade da grande altezza deve prender parte alla rotazione terrestre. Se avesse approfondito questa circo- stanza poteva precorrere le esperienze di Guglielmini e persuadersi che i proiettili lanciati in direzione orizzon- tale devono deviare secondo il moto apparente del Sole. Ticho Brahe trovava pure assurdo che tra Saturno e le stelle ci potesse essere un cosi immenso spazio vuoto; ma, a parte che l’affermazione era arbitraria perché in quello spazio ci sono almeno Urano, Nettuno, Plutone, i loro satelliti, comete, è evidente che in ogni caso Gali- leo, discepolo dell’esperienza, non poteva non accettare 163 la realtà. Più interessante è l’obiezione della parallasse. Come avevano capito anche gli antichi, se la Terra si muoveva intorno al Sole la retta che congiunge il nostro occhio con la stella fissa deve variare continuamente di direzione durante l’anno, sicché noi dobbiamo proiettare la stella in punti via via diversi del cielo. Per questa ra- gione la stella sembrerà descrivere un’ellisse, che non è altro che l’immagine dell’orbita terrestre. Naturalmente quest’ellisse sarà tanto più piccola quanto la stella è più lontana e quindi se le nostre misu- re non sono molto precise potremo credere che la stella non abbia parallasse. Ticho Brahe riteneva che le stelle fossero più vicine di quanto sono realmente e non trovando parallasse du- bitava di Copernico. A ogni modo — egli diceva — se la parallasse è cosi piccola da essere insensibile ciò significa che l’orbita della Terra vista dalla stella dev’essere pure insensibile. Il male è che noi vediamo le stelle e che il loro diametro è notevole (secondo lui poteva arrivare a tre primi); do- vremmo dunque concludere che le stelle abbiano diame- tri superiori, anche enormemente, all’orbita terrestre: e ciò è inammissibile. Che ci potessero essere stelle con diametri cosi grandi, per Galileo non era assurdo perché egli sapeva che le stelle sono incommensurabilmente più lontane di come le credeva Ticone. La risposta che diede Galileo è definitiva e ne fa riful- gere la superiorità da ogni punto di vista. 164 Il nostro scienziato vide che Ticone e quelli che la pensavano come lui s’ingannavano sommamente nel prendere il diametro delle stelle fisse. L’errore era di non tener conto dell’irradiazione. Secondo Galileo non si può scusare la loro inavver- tenza perché era in loro potere di eliminare i raggi av- ventizi o crini. Basta guardare gli astri nella prima appa- rizione della sera o ultima occultazione dell’aurora. «E se non altro Venere, che pure spesse volte si vede di mezzogiorno cosi piccola che ben bisogna aguzzar la vi- sta, e che pur poi nella seguente notte comparisce una grandissima fiaccola, gli doveva fare accorti della lor fallacia: ché non crederò già che eglino stimassero il vero disco essere quello che si mostra nelle profonde te- nebre, e non quello che si scorge nell’ambiente lumino- so, perché i nostri lumi, che veduti la notte di lontano appariscono grandi, e da vicino mostrano la loro vera fiammella terminata e piccola, potevano a sufficienza fargli cauti». L'autore fa vedere che non è indispensabile il telesco- pio e che perciò Ticone non è scusabile. Per lui erano assurde le grandezze apparenti delle stelle stimate da Ti- cho Brahe anche per una ragione fotometrica. Se le stel- le fossero cosi grandi avrebbero un potere illuminante assai maggiore, ma in realtà «per fare un’area o piazza luminosa eguale al disco del Sole o della Luna, compo- sta di stelle, ciascheduna anco eguale al Cane, non ba- sterebbero quaranta mila accoppiate e distese insieme». 165 Noterò ancora che a Galileo si deve pure la prima idea del metodo differenziale per la misura della paral- lasse delle stelle, col quale Bessel riusci a determinare la prima parallasse stellare che si sia conosciuta: quella della stella 61 della costellazione del Cigno. In nessun modo (lo ripeto) si può ammettere che Ga- lileo dovesse logicamente aderire alle idee cosi inconsi- stenti di Ticho Brahe. La logica era tutta dalla parte di Copernico e di Galileo. Il sistema misto di Ticone era nato morto, e Galileo era troppo generoso quando diceva che trovava in Tico- ne le stesse difficoltà che trovava in Tolomeo. Il sistema ticonico era inferiore a quello tolemaico perché effetto di partito preso. E in ogni modo, non si può ignorare che, dopo, per merito di Galileo e di Keplero, si era an- dati molto avanti e occorreva tendere a Newton e oltre. 166 LA SCIENZA DI GALILEO" AI bel libro di Bertrando Spaventa sulla filosofia ita- liana nelle relazioni con la filosofia europea manca uno dei più interessanti capitoli: quello dedicato a Galileo. Della filosofia galileiana lo Spaventa si occupò in una memoria, letta all’ Accademia di scienze di Napoli nel 1882, una parte della quale fu pubblicata in Esperienza e metafisica e un riassunto negli Scritti filosofici. Fondandosi quasi esclusivamente su quella pagina del Dialogo dei Massimi Sistemi in cui Galileo espone la sua ardita dottrina dell’intendere umano in relazione con la sapienza di Dio, lo Spaventa sostiene che Galileo, pur non essendo un filosofo in senso stretto, è più che un puro fisico o astronomo, avendo un concetto suo proprio del tutto e vedendo la fisica e l’astronomia nel tutto, cioè filosoficamente e non alla maniera degli specialisti. Galileo è scienziato filosofo e la sua filosofia non è l’empirismo o il positivismo ma esperienza razionale e ragionata, schietta metafisica. Com’è ben noto, alla fine della prima giornata del suo dialogo Galileo fa dire a Salviati, che rappresenta le sue idee, che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè in- tensivamente o estensivamente; e che, quanto alla molti- * Pubblicato in «Primato», 1 marzo 1942, p. 99. 167 tudine degl’intelligibili, che sono infiniti, l’intendere umano è come nullo ma «pigliando l’intendere intensi- ve, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosi perfettamente, e ne ha cosi assoluta certezza, quando se n’abbia listessa natu- ra; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geo- metria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprenderne la necessità, sopra la qua- le non par che possa esser sicurezza maggiore». E poiché a questo punto Simplicio si scandalizza, Sal- viati, ossia Galileo, risponde che se la verità che ci dàn- no le dimostrazioni matematiche è quella stessa che ha la sapienza divina, il modo col quale Dio conosce è sommamente più eccellente del nostro, essendo di un semplice intuito, mentre noi procediamo con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione. Cosi le infi- nite proprietà del cerchio che noi in piccola parte pos- siamo conoscere prendendone una delle più semplici per definizione e poi passando da essa col discorso ad un’altra, e da questa ad un’altra ancora, l’intelletto divi- no le comprende tutte con la semplice apprensione della loro essenza. Le proprietà di tutte le cose sono virtual- mente nelle loro definizioni e benché siano infinite per noi, forse nella loro essenza e nella mente divina sono una sola. Ciò non è del tutto incognito all’intelletto 168 umano perché quando siamo padroni di un argomento possiamo da un punto all’altro velocemente trascorrere. «Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un istante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’inten- der nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch'io lo reputi as- solutamente nulla; anzi, quando io vo considerando quante e quanto meravigliose cose hanno intese, investi- gate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente co- nosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti». Lo Spaventa, com’è naturale in un uomo di cosí pre- potente passione teoretica, non analizza punto per punto la tesi galileiana, pur sottolineandone alcuni aspetti con intelligente penetrazione: egli in fondo si limita a mo- strare che l’intendere per intuito e l’intendere per discor- so non possono essere rigorosamente pensati che come momenti di una sintesi dialettica. In Galileo c’è dunque il germe, o per lo meno l’esigenza, di una metafisica della mente; e allora Galileo è moderno come Vico. Se è cosi, l'affermazione dello Spaventa che Galileo e Vico parlano a un dipresso lo stesso linguaggio va intesa in un senso più profondo di come si potrebbe pensare alla prima. Vale a dire non soltanto che Galileo e Vico sono tutt'e due filosofi ma che esigono la stessa filoso- fia. 169 Credo che in quest’affermazione, se è intesa senza far violenza alla storia, ci sia molto di vero. Direi che Gali- leo e Vico siano due ingegni complementari, la chiarez- za dell’uno è l’oscurità dell’altro. Vico capisce la storia e si sente estraneo alla natura, Galileo si esalta nella na- tura e disprezza i dottori di memoria; ma il principio che li anima è lo stesso, l’incondizionato valore del nostro pensiero. Certo, non bisogna esagerare: le affinità elettive di Galileo non vanno cercate in Vico, e meno che mai in Kant o in Hegel, ma nei pensatori del nostro Rinasci- mento: Galileo potenzia, corregge, porta a maturità la fi- losofia naturale di Telesio e di Bruno. Specialmente con Bruno, i rapporti sono evidenti, come del resto è noto dalle ricerche più recenti. È vero che negli scritti di Galileo il nome di Giordano Bruno non figura, ma la ragione (non ci può essere dub- bio) è il rogo di Campo dei Fiori. Galileo non volle mai nominare Bruno perché credeva di non poterlo fare. Bruno era il reprobo e non era lecito esaltarlo. Ma i punti di contatto con lui sono molti e importanti. Galileo è ardentemente copernicano come Bruno e sostiene anche lui che Copernico non è un matematico che abbia ideato un sistema del mondo che serva pei computi e non abbia valore fisico: Copernico non è astronomo puro ma astronomo «filosofo», cioè fisico (qui la filosofia non è la metafisica, come intende lo Spaventa, ma la fisica: la filosofia naturale. Lo Spaventa 170 ha invece ragione chiamando scienziato filosofo, nel senso metafisico, Galileo). Con Bruno, Galileo ha in comune l’intuizione fisica della natura (e un po’, come nel passo citato, anche quella metafisica): il sole, la terra, gli astri li concepi- scono tutt’e due allo stesso modo. Coincidenza sorprendente: il principio di relatività della meccanica classica, che tutt'e due enunciano quasi allo stesso modo (Bruno non tiene conto della resistenza dell’aria), lo spiegano in modo simile e lo adoperano con lo stesso scopo (in Galileo però il principio acquista più vigore e importanza). Se si aggiunge che nella Cena delle Ceneri Bruno so- stiene, come notò il Gentile, lo stesso pensiero che poi Galileo svolse nella lettera alla Granduchessa madre, Cristina di Lorena, e che in tutti i Dialoghi metafisici, oltre che nelle Opere latine ci sono analogie letterarie e coincidenze scientifiche col Dialogo dei Massimi Siste- mi e con altri scritti di Galileo, bisogna riconoscere che Bruno va considerato, più di Benedetti, assai più dei Dottori parigini e forse non meno di Archimede e di Co- pernico, come uno dei pochi precursori di Galileo. La scienza di Galileo è attività assoluta e non c’è po- tere che possa distruggerla o limitarla. Dio stesso non può nulla contro di lei. Nè questa affermazione è teme- raria, come non è temerario, o in contrasto con l’onnipo- tenza divina, il dire che Dio non può fare che il fatto non sia fatto. 171 Tra queste affermazioni e quelle dei peripatetici c’è un abisso. Per vederlo bene, esaminiamo, seguendo il testo di Agostino Oreggi, l’argomento di Urbano VIII che Galileo mise in bocca a Simplicio, provocando, o esacerbando, l’ira funesta del pontefice. Concesse tutte le affermazioni di Galileo, Urbano VIII gli chiese se Dio avrebbe potuto e saputo disporre e muovere altrimenti corpi celesti in modo da salvare mo- vimenti, ordine, rito, distanze e disposizione dei corpi celesti. «Che se tu lo neghi — disse il Santissimo — devi provare che implichi contradizione che queste cose pos- sano accadere diversamente di come hai escogitato. Dio infatti nell’infinita sua potenza può tutto ciò che non im- plica contradizione; e dato che la scienza di Dio non è minore della sua potenza, se concediamo che Dio abbia potuto, dobbiamo affermare che ha pure saputo. E se Dio ha potuto e saputo disporre queste cose diversamen- te da come è stato escogitato, in modo che siano salve tutte le cose che sono state dette, non dobbiamo in que- sto modo coartare la potenza e scienza divina». Galileo dà dell’argomento una versione più agile e più viva, perché, dopo aver detto che Dio con la sua in- finita potenza e sapienza avrebbe potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed anche dall’intelletto nostro ine- scogitabili, aggiunge: «Onde io immediatamente vi con- cludo, che stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare la divina potenza e sa- pienza ad una sua fantasia particolare». 172 Notate la frase della fantasia particolare con la quale Galileo corregge, per quanto era possibile, l’argomento del Papa, riaffermando implicitamente che se ci può es- sere contrasto tra la sapienza divina e una fantasia parti- colare, non ce ne può essere tra Dio e la scienza. Per Urbano VIII invece (il lettore lo riconoscerà) la scienza umana, che per Galileo uguaglia la divina, è sempre fantasia particolare; e perciò chi sostiene che essa è attività universale e necessaria è contro Dio ed è alla cristianità perniciosissimo. L’argomento di Urbano VIII, insomma, è di carattere teologico. È vero però che è formulato molto male; per- ché, ammesso che Dio abbia potuto disporre le cose di- versamente, non ne segue senz'altro che il sistema co- pernicano coarti la sua libertà. Tra le tante maniere pos- sibili, c'era anche la copernicana e perciò, con la stessa logica del Papa, l’argomento si poteva rovesciare, soste- nendo che si coarta la Divinità negando troppo recisa- mente il sistema di Copernico. Anche questo sistema era uno dei tanti possibili e Dio poteva attuarlo. Se mai, si sarebbe limitata la libertà divina ammettendo che il si- stema copernicano era l’unico realizzabile. La risposta di Galileo è più profonda. Noi — egli dice — non cerchiamo ciò che Dio poteva fare ma ciò che ha fatto. Dio poteva fare la terra infinita, poteva farla muo- vere, invece che una volta in ventiquattr’ore, molte mi- gliaia e milioni di volte in un’ora sola, poteva far volare gli uccelli con le vene piene di mercurio e con ali picco- 173 lissime e gravi, ma ha fatto altrimenti «per insegnarci che Egli gusta della semplicità e facilità». Quest'ultima frase è molto importante, perché dimo- stra che le concessioni che Galileo fa, hanno un valore del tutto astratto e accademico. I modi che Dio preferi- sce sono quelli semplici e facili. Per questo egli ha at- tuato quella meraviglia cosí stupenda che si chiama si- stema copernicano e non il rompicapo di Tolomeo. Da qui alla tesi che Dio non poteva fare che quello che ha fatto, cioè che il sistema copernicano non è un fenomeno contingente, come credeva il Papa e avrebbe ammesso perfino Kant, ma una verità necessaria, il pas- so è breve. Non bisogna dimenticare che per Galileo la natura, in quanto è osservantissima esecutrice degli or- dini di Dio, è scientificamente infallibile, è la verità stessa, mentre la Bibbia, adattandosi all’intelligenza del volgo, non ha valore scientifico. Egli sostiene inoltre, nelle postille al Dialogo dei Massimi Sistemi scritte dopo la condanna, che le novità che possono rovinare le repubbliche e sovvertire gli stati sono il volere che gl’intelletti creati liberi da Dio si facciano schiavi dell’altrui volontà, costringendo l’intelletto e i sensi a non vedere e a non intendere; e l’ammettere che persone ignorantissime d’una scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl’intelligenti e per l’autorità che è stata loro concessa abbiano il potere di volerli a modo loro. «Voi sete che cagionate l’eresia (dice ai teologi), mentre senza cagione alcuna, volete che il senso delle Scritture 174 sia quello che piace a voi, e che i sapienti neghino i sen- si propri e le dimostrazioni necessarie». Queste idee toglievano alla Chiesa ogni autorità in materia di scienza. Il conflitto era dunque inevitabile e senza rimedio, se si volevano mantenere recisamente le rispettive posizioni. Il significato della condanna è tutto qui. E si capisce perché si fini col condannare, insieme al dialogo incriminato, tutti gli scritti di Galileo, pubbli- cati o da pubblicarsi, e si sconsigliò il monumento in Santa Croce. Com°era naturale, si estese poi la condan- na fino all’inverosimile, tanto che al Padre Grassi (quel- lo del Saggiatore) fu proibito di pubblicare certe opinio- ni sui colori non perché false ma perché nuove. La scienza di Galileo ha un altro carattere che occorre sottolineare: è profondamente umana. Voglio dire che non è attività da specialisti e tanto meno da cenacolo. È popolare, nel senso più alto dell’espressione, e insieme rigorosa; è scienza e tecnica: scienza e apostolato e azione politica e sociale. Da questo punto di vista, gli altri scienziati suoi con- temporanei, gli accademici del Cimento, gli stessi illu- ministi, che si considerano, non senza ragione, come suoi continuatori, sono poveri al suo confronto. Egli non solo è ancora vivo ma è ancora un precurso- re. 175 ELOGIO DI GALILEO" Galileo (è superfluo dirlo) è essenzialmente uno scienziato. Per darne un’idea compiuta occorrerebbe perciò occuparsi a lungo dell’isocronismo delle piccole oscillazioni, delle montuosità della luna, dei satelliti di Giove, dello strano aspetto di Saturno, delle fasi di Ve- nere, delle macchie solari e della rotazione del Sole, dei suoi argomenti in favore del sistema copernicano, del principio dell’indipendente coesistenza dei movimenti e della seconda legge della meccanica, del cannocchiale, della bilancetta, del microscopio, del barometro, dell’applicazione del pendolo agli orologi: in una parola delle due scienze, l’astronomia e la meccanica, che egli rinnovò cosi profondamente da potersene considerare senza esagerazione il creatore. Ma dei meriti scientifici di Galileo voi artisti ne sape- te abbastanza e scendere a maggiori particolari non mi sembra di buon gusto. A voi ciò che interessa è l’arte e chi non vuol fare opera inutile si deve mettere, per quanto è possibile, nel vostro punto di vista. Vedrò ap- punto di sottolineare, nella vita e nell’opera di Galileo, ciò che maggiormente interessa gli artisti. * Discorso tenuto all’ Accademia di Belle Arti di Firenze, pub- blicato in «Paesaggio» I (1946), p. 185 sgg. 176 Galileo suonava il liuto, a quanto si dice, mirabilmen- te. La cosa è naturale se si pensa che il padre, Vincenzo Galilei, era musicista e musicologo di gran nome. Dal padre Galileo fu pure iniziato al disegno e si appassionò tanto che soleva dire agli amici che se fosse stato libero di scegliere una professione avrebbe scelto la pittura. Della sua giovanile passione per la pittura sono rimaste varie tracce nelle sue opere. Acuta è la sua osservazione che si possono conoscere tutti i precetti del Vinci senza saper dipingere uno sgabello. Solo un uomo del mestie- re poteva scrivere che per imitare e rappresentare in pit- tura una corazza bisogna accoppiare neri schietti e bian- chi, l’uno accanto all’altro, nelle parti di essa in cui la luce cade ugualmente. Mi par buono il suo confronto tra la pittura intarsiata e quella a olio. «Essendo le tarsie un accozzamento di legnetti di diversi colori, con i quali non possono già mai accoppiarsi e unirsi cosi dolcemen- te che non restino i loro confini taglienti e dalla diversità dei colori crudamente distinti, rendono per necessità le loro figure secche, crude, senza tondezza e rilievo; dove che nel colorito a olio, sfumandosi dolcemente i confini, si passa senza crudezza dall’una all’altra tinta, onde la pittura riesce morbida, tonda, con forza e con rilievo». Buona è anche l’osservazione che quelle pitture, fatte perché guardate in scorcio da un luogo determinato mo- strino una figura umana, «è sconcia cosa rimirarle in faccia, non rappresentando altro che un mescuglio di stinchi di gru, di rostri di cicogne e di altre sregolate fi- gure». 177 Tra i suoi amici e discepoli Galileo ebbe dei pittori come il Cigoli e il Passignano, i quali vanno citati nella storia delle macchie solari, il primo per i bei disegni, il secondo perché con l’osservazione che le macchie sola- ri, girando ora verso il mezzo e ora verso la circonferen- za per linee spirali, s'immergono nel corpo luminoso, anticipò la scoperta fondamentale dello Scheiner. Il Cigoli, almeno a giudicare dalla lettera che Galileo gli scrisse il 26 giugno 1612, sottoponeva al Maestro an- che dei quesiti d’arte, né si può dargli torto. La lettera che si è adesso ricordata merita di essere riassunta e non per nulla figura nella moderna critica d’arte. Si tratta (non è male dirlo esplicitamente) non di una nuova edi- zione dei giudizi di Leonardo sulla superiorità della pit- tura ma di una lettera polemica, cioè di una liquidazione di alcuni pregiudizi in favore della scultura sostenuti da alcuni sfaccendati. Essi dicevano che la scultura è più mirabile della pittura perché ha il rilievo e l’altra no. AI contrario, risponde Galileo, viene la pittura a superar di meraviglia la scultura perché la scultura mostra il rilievo come pittura. Infatti, le sculture avranno tanto più rilie- vo quanto saranno in una parte colorite di chiaro e in un’altra no, tant'è vero che una figura in rilievo diventa del tutto piatta se le diamo di scuro dove sia chiaro fin- ché il colore sia tutto unito. La pittura è più ammirevole della scultura perché, pur non avendo alcun rilievo, può mostrarci il rilievo quanto la scultura, anzi alle volte più, giacché può rappresentare nel medesimo piano non solo il rilievo di una figura, che importa un braccio o 178 due, ma la lontananza di un paese e una distesa di mare di molte e molte miglia. Dire che il tatto ne dimostrereb- be l’inganno è da deboli, quasi che la pittura e la scultu- ra siano fatte per toccarsi più che per vedersi. Occorre inoltre notare che di quel rilievo che inganna la vista ne è cosí partecipe la pittura come la scultura, anzi più, per- ché nella pittura oltre il chiaro e lo scuro vi sono i colori che alla scultura mancano. E, quanto al tatto, chi crederà che uno, toccando una statua, la creda un uomo vivo? AI tatto sono sottoposti, oltre il rilievo e il depresso, il mol- le e il duro, il caldo e il freddo, il delicato e l’aspro, il grave e il leggero: tutti indizi dell’inganno della statua. Il rilievo della statua, insiste Galileo, non è dovuto alla profondità ma al chiaro e allo scuro perché, delle tre dimensioni, due sole sono sottoposte all’occhio, cioè la lunghezza e la larghezza, mentre la profondità non può essere compresa dall’occhio perché la nostra vista non penetra dentro i corpi opachi. Senonché alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà la natura, alla pittura l’arte; sic- ché anche per questo è più ammirevole un’eccellente pittura. All’altra obiezione, che la natura fa gli uomini scolpi- ti e non dipinti, Galileo risponde che li fa non meno di- pinti che scolpiti, e anche quest’argomento si risolve in favore della pittura perché quanto più i mezzi coi quali si imita sono lontani dalle cose da imitarsi tanto più limitazione è meravigliosa. Imitare il rilievo della natu- ra con lo stesso rilievo come fa la scultura non è molto meraviglioso: e artificiosissima imitazione sarà quella 179 che rappresenta il rilievo con il suo contrario che è il piano. Un altro argomento è quello dell’eternità della scultu- ra, ma, secondo Galileo, non val niente perché non è la scultura che faccia eterni i marmi, ma i marmi fanno eterna la scultura. Del resto, questo privilegio lo hanno anche 1 sassi, benché tanto la pittura che la scultura sia- no forse ugualmente soggette a perire. Sono osservazioni ingegnose, che rivelano un aspetto caratteristico della mentalità galileiana. Quella sua idea della funzione essenziale del chiaroscuro nella scultura è importante e sarebbe piaciuta al Bernini e a Medardo Rosso. Tuttavia, lo ripeto, il discorso ha per Galileo uni- camente valore polemico, tanto che alla fine egli dice cosí al Cigoli: «Ma io però la consiglierei a non s’inol- trar più con essi in questa contesa, parendomi ch’ella stia meglio per esercizio di spirito e d’ingegno fra quei che non professino né l’una né l’altra di queste due ve- ramente ammirabili arti, quando in eccellenza sono pra- ticate; poiché V. S. nella propria s’è resa cosi degna di gloria con le sue tele, quanto il nostro divino Michelan- giolo co’ suoi marmi». Si potrebbe anzi vedere, in que- sto mettere accanto al buon Cigoli il divino Michelange- lo, un esempio di quell’ironia galileiana che rese cosi furibondo Urbano VIII; tanto più che Galileo chiude la lettera non invitando il Cigoli a superare Michelangelo, ma pregandolo di continuare amichevolmente a osserva- re le macchie solari. 180 Un giudizio molto più favorevole si può dare esami- nando Galileo dal lato letterario, non tanto per la sua ammirazione per l’ Ariosto e la sua scarsa simpatia per il Tasso (qualcosa di buono c’è in quelle osservazioni e postille, che non per nulla piacquero al De Sanctis. Otti- mo il giudizio su Argante che s’immalinconisce magna- nimamente non per la sua prossima fine, ma per la sua Gerusalemme, che fu regina e vinta or cade); meno an- cora per i versi berneschi o d’occasione che rimangono delle curiosità utili per conoscere meglio la biografia e niente di più. Specialmente nel Saggiatore e nel Dialo- go dei Massimi Sistemi Galileo si rivela scrittore di prim’ordine. La parodia di Lotario Sarsi, che egli fa nel Saggiatore non potrebbe essere più felice. «Se il Sarsi vuole che io creda a Suida che i Babiloni cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda io lo crede- rò; ma dirò bene la cagione di tal effetto esser lontanis- sima da quella che gli viene attribuita, e per trovare la vera io discorrerò cosi: — Se a noi non succede un effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d’esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia la vera causa; ora a noi non mancano uova, né fionda, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuociono, anzi, se fusser cal- de, si raffreddano più presto; e perché non ci manca al- tro che l’essere di Babilonia, adunque l’esser Babilonesi è causa dell’indurirsi l’uova, e non l’attrizione dell’aria, che è quello che io volevo provare». 181 Come nel Saggiatore è dipinto, è scolpito, è cinema- tografato il Sarsi ed è espressa nello stesso tempo l’ine- sauribile personalità di Galileo, cosi nei Massimi Siste- mi è, stavo quasi per dire, cantata tutta la nuova età che ha per protagonisti Galileo, Simplicio, Sagredo, Aristo- tele, Copernico, Keplero. La nuova civiltà industriale che ha per simbolo l’arsenale di Venezia, vive di quella vita che solo l’arte sa fare. Il dialogo non è un mezzuc- cio rettorico ma lo strumento indispensabile per rendere in tutta la sua ricchezza il pensiero galilelano, che rias- sume, corregge, potenzia Aristotele e Tolomeo, Archi- mede e Copernico, Telesio e Bruno. Tutti gli scritti galilelani ci mettono davanti agli oc- chi, vivissima, la grande personalità dell’ Autore, come vere e proprie opere d’arte. La ragione è evidente. La scienza di Galileo non è astrazione intellettualistica, non è curiosità erudita o scolastica, non è roba da setta o da cenacolo, ma, nel suo estremo rigore, è profondamente umana. Cosi, del resto, è stata sempre la scienza autenti- ca. L'immagine del matematico che, guardando la luna, cade nel fosso è una infelice caricatura che non risponde alla realtà, come quella dell’artista che suona indifferen- te la cetra, mentre i suoi figli muoiono di fame. La scienza non è attività particolare ma cultura, e quella di Galileo è cultura nel modo più eccellente. L’ Autore pre- feriva la parola filosofia. Secondo lui la differenza che è tra gli uomini e gli animali si riduce all’essere o non es- sere filosofi. La filosofia ci separa in più o meno degno grado dal comune essere del volgo perché «chi mira in 182 alto si differenzia più altamente; e il volgersi al gran li- bro della natura, che è °l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi». La scienza galileiana è quest’alzar gli occhi, che è un innalzare lo spirito: un'attività che è conoscenza e amore e azione. Di questa sua scienza Galileo è non solo il creatore ma l’apostolo e il martire. Su questo punto occorre insistere perché va ancora in giro per il mondo un’indegna calunnia, secondo la quale Galileo si piegò al Sant'Uffizio perché non era sicuro delle sue teorie, non avendo ancora dato le prove decisi- ve in favore della concezione copernicana che furono poi date da Foucault con l’esperienza del pendolo e da Bradley con l’aberrazione delle stelle. Galileo sarebbe stato dunque un retore, un retore però che (guarda com- binazione) avrebbe preannunziato, stavo per dire profe- ticamente, un mondo nuovo. Le sue affermazioni erano insussistenti, tuttavia, non si sa come, erano vere punto per punto. Qualche altro insinua che Galileo era in fondo un uomo in cui le energie morali non corrispondevano all’alta intelligenza. Nulla di più avventato e di più contrario alla verità. Nessun dubbio poteva avere Galileo intorno al sistema copernicano. Tutte le sue osservazioni, le sue esperien- ze, i suoi ragionamenti hanno un centro: la verità coper- nicana. Inizialmente Galileo era tolemaico ma a poco a poco dovette convincersi che il sistema tolemaico era troppo 183 complicato e, si può dire, mostruoso per esser vero, mentre il sistema eliocentrico, che nell’opera di Coper- nico aveva fatto un gigantesco passo avanti, era d’accor- do con le nuove scoperte astronomiche e meccaniche di Galileo, sicché si poteva dire che ricevesse di giorno in giorno nuove decisive conferme. Le obiezioni che gli aristotelici facevano a Copernico (nessuno lo sapeva meglio di Galileo) non avevano il minimo valore, non potevano resistere alla critica, erano frutto d’ignoranza e d’incapacità di pensare. Quegli aristotelici erano dei veri fossili: incapaci di esser persuasi delle nuove verità per- ché incapaci di vedere coi propri occhi, incapaci di muoversi. Nel Dialogo dei Massimi Sistemi Galileo non trascura nessun argomento in favore del sistema tole- maico; la colpa non è sua se la verità copernicana viene fuori irresistibile da ogni parte. Galileo aveva dato anche la risposta definitiva a colo- ro che pretendevano di confutare la scienza con la Bib- bia. Le lettere copernicane, e in particolare quella alla Granduchessa Madre, Cristina di Lorena, sono dei capo- lavori anche dal lato teologico, giacché offrono alla Chiesa l’unica via d’uscita. La Bibbia è un testo religio- so, non un testo scientifico. Quest’idea, che Galileo di- fende con argomenti irrefutabili, è di vari dottori della Chiesa, da S. Agostino a Girolamo, a Dionigi l’ Areopa- gita, a S. Tommaso d’ Aquino. Negarla era un atto di tale cecità da riuscire inesplicabile. Basterebbe, per chiudere la discussione, ciò che diceva S. Tommaso a proposito delle parole di Giobbe: Chi stende l’aquilone nel vuoto 184 e appende la terra sul nulla. La Scrittura, chiarisce S. Tommaso, chiama vacuo e niente lo spazio che abbrac- cia e circonda la terra, e che noi sappiamo non esser vuoto ma pieno d’aria, per accomodarsi alla credenza del volgo, che pensa che in quello spazio non ci sia nul- la. Questo parlare secondo il volgo è, secondo S. Tom- maso, abituale nella S. Scrittura, e Galileo giustamente dice che da questo luogo si può assai chiaramente argo- mentare che la Scrittura, per il medesimo rispetto, abbia avuto molto più gran cagione di chiamare il sole mobile e la terra stabile perché «se noi tenteremo la capacità de- gli uomini vulgari, gli troveremo molto più inetti a re- star persuasi della stabilità del sole e mobilità della ter- ra, che dell’esser lo spazio che ci circonda ripieno d’aria: adunque, se gli autori sacri in questo punto, che non aveva tanta difficoltà appresso la capacità del vulgo ad essere persuaso, nulla di meno si sono astenuti dal tentar di persuaderlo, non dovrà parere se non molto ra- gionevole che in altre proposizioni molto più recondite abbino osservato il medesimo stile». Galileo non si limita a queste considerazioni generali ma dimostra che il passo di Giosuè, su cui si fondano i teologi peripatetici per affermare la verità del sistema tolemaico, non era nemmeno conciliabile con questo si- stema. Né ci poteva esser dubbio perché il linguaggio del volgo adoperato dalla Bibbia si riferisce a una fase scientifica assai arretrata rispetto a quella di Tolomeo, che presuppone una grande preparazione matematica e astronomica. 185 L’argomento principale di Galileo è che due verità non possono contrariarsi e perciò quello che è scientifi- camente certo non può essere distrutto da nessun testo sacro. La natura e la Scrittura infatti procedono tutt’e due da Dio; ma mentre la natura osserva infallibilmente gli ordini di Dio ed è assurdo pensare che si sbagli o possa essere interpretata in modo diverso da come l’interpreta lo scienziato, la Scrittura, adattandosi alla mentalità del volgo, non fa scienza. S’intende che per Galileo la natura è necessaria e del- la stessa necessità logica beneficia la scienza. Parlare dunque della scienza come di qualcosa di contingente, come facevano i teologi peripatetici e più di tutti Urba- no VIII, non ha senso per Galileo. Per lui tra la scienza umana e quella divina la distinzione è puramente quanti- tativa. Dio conosce un numero enorme di verità più di noi ma le verità che noi conosciamo, e in modo partico- lare quelle matematiche, le conosciamo come le conosce Dio perché sono della stessa natura di quelle divine. Se aggiungiamo che per Galileo le verità scientifiche non possono essere dimostrate o negate se non dalla ragione, e i testi, sacri o profani, non contano, si capisce che i teologi non potevano aver presa su di lui perché non tentarono nemmeno di opporre argomenti alle sue ragio- ni ma si trincerarono dietro il puro /pse dixit. Il processo di Galileo è cosi assurdo, se si considera dal punto di vista scientifico-filosofico, che qualcuno ha perfino tentato di ridurlo a una vendetta personale del pontefice, al quale avevano fatto credere che in Simpli- 186 cio Galileo avesse rappresentato proprio lui, Urbano VII. (Era un’invenzione, sia detto tra parentesi. Ma an- che se fosse stato vero, il Papa avrebbe avuto lo stesso torto a offendersi. Il Simplicio galilelano è una bravissi- ma persona, che non torcerebbe un capello a nessuno. È affezionatissimo ad Aristotele ma in realtà non è del tut- to chiuso alle nuove idee, tant'è vero che nei Dialoghi delle nuove Scienze diventerà galileiano. Se nel Dialogo dei Massimi Sistemi non si decide mai a lasciare Aristo- tele, ciò dipende dal timore di fare un salto nel buio. Egli ha bisogno di una guida e gli sembra che, lasciato Aristotele, si rimanga senza scorta). In realtà il processo esprime il conflitto inevitabile tra il decrepito mondo aristotelico medioevale e il nuovo pensiero, la nuova civiltà impersonata da Galileo. Ci fu- rono bizze, meschinerie ma il conflitto è un gran fatto storico, non un fatterello di cronaca. Si sa come fu imbastito il processo: su un cavillo, cioè sulla violazione del precetto comunicatogli il 26 maggio 1616 dal Bellarmino. Nella dichiarazione del Bellarmino era detto che la dottrina attribuita al Coper- nico, che la terra si muova intorno al sole e che il sole stia nel centro del mondo senza muoversi da oriente a occidente, è contraria alle Sacre Scritture e perciò non si può difendere né tenere. Nel testo del Sant’ Uffizio non c’è detto soltanto che la dottrina copernicana non si possa né difendere né te- nere ma che questa dottrina non si può, in qualsiasi 187 modo, tenere, insegnare o difendere, verbalmente o per iscritto. Il processo fu imbastito sul quovis modo, che fu inter- pretato, con evidente arbitrio, nel senso che della teoria copernicana non era lecito occuparsi in nessun modo, nemmeno, come Galileo aveva fatto nei Massimi Siste- mi, per esporre gli argomenti pro e contro. In base a questo assoluto divieto di occuparsi di Co- pernico si pretese che il permesso di pubblicazione del suo libro fosse stato carpito con la frode e lo si conside- rò come nullo. Nel processo (s’intende) non si discusse ma si cercò di accertare fino a che punto Galileo fosse colpevole di aver violato il precetto della Chiesa. Quelli che dicono che Galileo fu condannato non per le sue idee scientifiche ma per la sua cattiva teologia non hanno letto la sentenza (e non hanno nemmeno letto gli scritti copernicani di Galileo che, anche dal lato teo- logico, sono dei capolavori). Con la sentenza del 22 giugno 1633 quei cattivi teolo- gi (possiamo ben chiamarli cosí) si compromisero in pieno e senza rimedio. Essi sentenziarono che la propo- sizione che il sole sia centro del mondo e immobile di moto locale è assurda e falsa in filosofia, e formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura, mentre la proposizione che la terra non sia centro del mondo né immobile ma che si muova anche di moto diurno è parimente assurda e falsa nella filoso- fia, mentre, considerata in teologia, è ad minus erronea in fide. 188 Nel sistema di Copernico e di Galileo, che s’intende- va condannare, le due proposizioni incriminate sono due aspetti della stessa verità. Dire che una di esse è formal- mente eretica mentre l’altra è solo erronea è la quintes- senza del formalismo sofistico. Nella sentenza è pure detto che Galileo, producendo a sua difesa la dichiarazione del Bellarmino che non con- teneva il quovis modo, restò maggiormente aggravato perché, nonostante che in essa fosse detto che la dottrina copernicana era contraria alla Scrittura, lui aveva ardito di difenderla e persuaderla probabile. La sentenza prosegue dicendo che poiché ai giudici era sembrato che Galileo non avesse detto interamente la verità sulla sua intenzione fu necessario venir contro di lui al rigoroso esame e conclude: «Diciamo, pronunziamo, sentenziamo, e dichiariamo che tu Galileo suddetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Uf- fizio veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenu- to e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture; che il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente ad occidente e che la terra si muova e non sia il centro del mondo, e che si possa tener e difen- dere per probabile un’opinione dopo esser stata dichia- rata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conse- guentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, purché prima con cuor 189 sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi tutti ti sarà data». Inutile cavillare: qui non si condanna il teologo ma lo scienziato; qui la scienza, con un esempio forse unico nella storia, è chiamata delitto. Ma la sentenza è interessante perché in essa c’è una vera glorificazione di Galileo. Egli non volle confessare di aver mancato, tanto che si dovette venire al rigoroso esame, e durante il rigoroso esame egli rimase incrolla- bilmente fermo nella sua posizione, rispondendo cattoli- camente, cioè senza bestemmiare, senza ribellarsi, con una serenità eminentemente cristiana. La leggenda mise in bocca al grande scienziato il motto: Eppur si muove! Avrebbe interpretato meglio la verità storica se gli aves- se attribuito le parole di Cristo: Perdona loro, o Padre, perché non sanno quel che fanno. Galileo, dunque, durante l’infernale seduta del 21 giugno 1633 si comportò eroicamente. Era vecchio, pie- no di mali, quasi un cadavere, ma non vacillò. Non disse grandi frasi, non fece nulla di teatrale: si limitò a rima- nere impassibile, come il «Cristo davanti a Pilato» di Tintoretto, che si ammira a S. Rocco. Abiurò (s’intende a parole), ma cosí doveva fare. Egli era sinceramente cattolico e senti il dovere di non com- promettere di più la sua Chiesa, che si era già da sé cosi gravemente compromessa. 190 Non per questo egli si accasciò. Alcuni mesi dopo cosi scriveva a Elia Diodati: «I torti e l’ingiustizie, che l’invidia e la malvagità mi hanno machinato contro, non mi hanno travagliato né mi travagliano. Anzi (restando illesa la vita e l’onore) la grandezza dell’ingiurie mi è più presto di sollevamento, e è come una specie di ven- detta, e l’infamia ricade sopra i traditori e i costituiti nel più sublime grado dell’ignoranza, madre della maligni- tà, dell’invidia della rabbia e di tutti gli altri vizii e pec- cati scellerati e brutti». Non sono evidentemente le parole di un vinto. E del resto voi sapete che se, dopo il processo, Gali- leo ebbe ore molto nere e non si consolò mai per la mor- te della sua dolcissima figlia Suor Maria Celeste, che mori di dolore per le sofferenze di lui durante il proces- so, egli continuò a lavorare. I mali che lo tormentarono per tutta la vita s’intensificarono, egli divenne irrimedia- bilmente del tutto cieco, ma nella prigione di Arcetri dettò quei Dialoghi delle Nuove Scienze che molti riten- gono il suo capolavoro e non senza ragione, se ci met- tiamo da un punto di vista esclusivamente scientifico. Ad Arcetri dettò la lettera sul candore lunare, un altro piccolo capolavoro, paragonabile a quel gioiello che s’intitola La Bilancetta. Ad Arcetri, alla vigilia della morte, ideò l’applicazione del pendolo agli orologi, con un dispositivo ingegnosissimo, che funziona ottimamen- te. Perfino negli ultimi giorni della sua vita trovò modo di scrivere la graziosa lettera alla sua intelligente amica Alessandra Bocchineri, e trovò grandissima soddisfazio- 191 ne del nuovo matematico Torricelli, ricevendo grandissi- mo gusto nel sentir confrontare alcune nuove dimostra- zioni tra lui e il Viviani. L’Evangelista, alla fine del suo racconto, osserva che sono molti i miracoli di Cristo di cui non si fa cenno nelle sue pagine. Nelle poche parole che ho avuto l’ono- re di leggervi, innumerevoli meraviglie galileiane sono sottintese. Ma non importa: voi sapete benissimo che Galileo Galilei è una delle più grandi personalità che ab- bia avuto l’Italia, uno dei più grandi scienziati filosofi che siano esistiti; il più puro, il più armonico eroe della scienza. 192 EVANGELISTA TORRICELLI E LA PRESSIONE ATMOSFERICA" Evangelista Torricelli nacque quasi certamente a Faenza il 15 ottobre 1608, e mori a Firenze trecent’anni fa, il 25 ottobre del 1647. Daniello Bartoli, nella sua ci- calata sulla tensione e la pressione, lo dice «onor di Faenza che gli fu patria e di Firenze che gli fu scuola e teatro». Poiché manca l’atto di nascita, c’è chi lo fa na- scere a Modigliana, chi a Imola, chi a Tossignano o a Piancaldoli e perfino a Roma. Siamo dunque in presen- za, come dice il Ghinassi, di una nobile gara che rinnova per poco quella dell’antica Grecia per la terra nativa di Omero. E omerici si possono dire gli entusiasmi che il Torricelli suscitò fin da quando era ragazzo e continua e suscitare anche oggi a chi ne studia l’opera multiforme e profonda. Il primo che lo iniziò agli studi e ne comprese il genio fu don Jacopo Torricelli, monaco camaldolese, suo zio paterno, rimasto sempre affezionatissimo al grande nipote. Evangelista ricambiava l’affetto, e sul letto di morte disse al Serenai: «Scriva l’avviso della mia morte al R. P. Jacopo Torricelli mio zio, che questa volta il povero vecchio morrà anch’egli; scriva a Faen- * Comunicazione tenuta alla radio, pubblicata in «Torricellia- na», 1950, fasc. 1, p. 22 sgg. 193 za, è un vecchio di ottantotto anni». Padre Jacopo affidò il nipote a uno dei più illustri discepoli di Galileo, a don Benedetto Castelli, noto per le ricerche di idraulica e la scoperta delle fasi di Venere, che egli fece indipendente- mente da Galileo. Il Castelli comprese e protesse in tutti i modi il suo giovane allievo, che raccomandò e inviò presso Galileo ad Arcetri. Cosi, per ripetere le parole di Vincenzo Viviani, questo giovane d’integerrimi costumi e di dolcissima conversazione, fu «accolto in casa, acca- rezzato e provvisionato dal Sig.r Galileo, con scambie- vol diletto di dottissime conferenze». Ma — sospira il Vi- viani — la congiunzione in terra di due lumi cosí grandi doveva per forza essere quasi momentanea, come nel caso degli astri. E infatti Torricelli rimase ad Arcetri solo tre mesi, gli ultimi tre mesi della vita del gran Vec- chio. Sappiamo che Galileo si compiacque oltremodo di questo suo discepolo, ultimo in tempo, ma primo per merito. Non sappiamo se gli abbia mai parlato dell’esperienza che si suole attribuire ai fontanai fioren- tini e di cui Galileo si era occupato nella lettera a Giam- battista Baliani del 6 agosto 1630 e poi nei Dialoghi delle Nuove Scienze. Certo, Torricelli conosceva le idee del Maestro, per il quale aveva una vera idolatria, e per- ciò non è lecito supporre che non avesse letto con atten- zione le Nuove Scienze. Nella lettera che gli scrisse l’ 11 settembre 1632, Torricelli chiama Galileo «un oracolo della natura»; in quella del 15 marzo 1641 dice che quanto egli cede al Magiotti e al Nardi nel merito dell’ingegno, altrettanto li supera «nel pregio di reverir 194 con infinita stima il famoso nome del Galileo, nome be- nemerito dell’universo e consecrato all’eternità»; nella lettera del 27 aprile del 1641, dice che la villa di Arcetri, per la presenza di Galileo, è la «regia della Verità e l’erario della Sapienza». Nei tre mesi del sodalizio de- voto, questa ammirazione crebbe ancora. Contrariamente a quello che molti credono, nella que- stione del vuoto Galileo è tutt'altro che aristotelico. Per Aristotele il vuoto è impossibile; Galileo invece sa che il vuoto si può realizzare e si realizza nel caso delle pompe aspiranti o, come lui dice, pompe che operano per attrazione. L'acqua non può essere aspirata oltre una certa altezza, che è precisamente di dieci metri e trenta- tré; oltre quell’altezza, la corda, diciamo cosi, d’acqua si strappa. Il vuoto, insomma, ha per Galileo una forza at- trattiva ben determinata e del tutto equivalente a quella che oggi sappiamo essere la pressione atmosferica, come per primo comprese Torricelli. Questa forza attrat- tiva del vuoto non esiste (e va bene), ma è la prima for- ma, embrionale, imprecisa, della pressione atmosferica. Non bisogna dimenticare che perfino Pascal, nella lette- ra al Périer del 15 novembre 1647, dice che non osa ab- bandonare il principio dell’orrore del vuoto, nel senso galileiano. E dopo aver fatto l’esperienza del vuoto nel vuoto, pur essendo personalmente persuaso che la forza attrattiva del vuoto non sia più sostenibile, dice che se la nuova esperienza si spiega con la pressione atmosferica, si può ancora spiegare, assai probabilmente, con l’orrore del vuoto. 195 La verità è che l’idea del Torricelli è l’inveramento di quella di Galileo. In fondo, Galileo si limita a descrivere 1 fatti, a dirci come stanno le cose; Torricelli spiega per- ché siano cosí. C’è senza dubbio nella tesi di Galileo una irriducibile oscurità, che Torricelli dissipa d’un col- po, facendo intervenire la pressione atmosferica. L'idea di Torricelli è lo sviluppo geniale di quella di Galileo. Torricelli vede tutto chiarissimamente, come noi oggi. Chi legga le due lettere che egli scrisse a Michelangelo Ricci 111 e il 28 giugno del 1644, non può esitare. Oggi la sua interpretazione può sembrarci, più che ovvia, ba- nale, ma questo non significa che il merito del faentino non sia enorme. La cappa di piombo aristotelica pertur- bava le menti più aperte e più guardinghe. Pensate a Cartesio. Uomo genialissimo in matematica e in filoso- fia, nella questione del vuoto è più aristotelico di Aristo- tele. L’11 ottobre del 1683 scrive a Mersenne che l’osservazione dei fontanai fiorentini non ha che vedere col vuoto. Le pompe non possono sollevare l’acqua ol- tre diciotto braccia, o per difetto delle pompe stesse o perché l’acqua, invece di salire più su, sgocciola tra la pompa e l’embolo. Il 16 ottobre del ’39 scrive allo stes- so Mersenne che l’acqua nelle pompe sale con lo stan- tuffo perché, non essendoci vuoto in natura (e non ce ne può essere, essendo per lui il vuoto identico al nulla), non può avvenire alcun movimento senza che nello stes- so tempo si abbia un cerchio di corpi in moto. Nel Mon- de chiarisce che tutti i movimenti che si fanno in natura, come ha riconosciuto da diverse esperienze, sono in 196 qualche modo circolari. Come mai — egli si domanda — se pratichiamo un’apertura in un barile il vino non esce? E risponde: — Non per timore del vuoto. Il vino non può uscire perché tutto fuori è pieno e il vino, se uscisse, non troverebbe posto, essendo nell’universo tutti i posti occupati. Se si fa un’apertura anche al disopra del bari- le, ogni difficoltà sparisce, perché l’aria può risalire cir- colarmente. Cosi il vino che esce e l’aria che entra nel barile si scambiano il posto. Si direbbe che per Cartesio tutti i corpi siano incompressibili. Se un uomo di genio come l’autore del Discorso sul metodo rimaneva impigliato in tante difficoltà, non c’è da meravigliarsi delle obiezioni che Michelangelo Ricci fece a Torricelli. Il Ricci diceva che si potrebbe esclude- re l’azione della pressione dell’aria con una lamina me- tallica. In questo caso l’atmosfera graviterebbe sulla la- mina e non sul mercurio e per conseguenza, se il mercu- rio rimanesse sospeso come prima, non si potrebbe attri- buire l’effetto alla pressione atmosferica. Risponde il Torricelli: — Se la lamina tocca il mercu- rio della vaschetta, evidentemente il mercurio rimarrà sollevato come prima, perché sarà sostenuto dalla lami- na stessa. Se tra la lamina e il mercurio della vaschetta resterà dell’aria, bisogna distinguere due casi: o l’aria è alla pressione atmosferica e allora il mercurio resterà sollevato nel tubo, come se la lamina non esistesse (e in- fatti in questo caso essa non eserciterebbe alcuna azio- ne); o l’aria della vaschetta è più rarefatta dell’esterna e allora il mercurio del tubo scenderà alquanto, e se fosse 197 infinitamente rarefatta, cioè se ci fosse il vuoto, il mer- curio scenderebbe tutto nella vaschetta (come sapete, questa esperienza si fa adesso nelle scuole). Diceva ancora il Ricci: «Se tiriamo fuori l’embolo di uno stantuffo a perfetta tenuta, sentiamo grandissima re- sistenza, e ciò non solo quando lo stantuffo si dispone verticalmente e l’embolo si tira in su, ma in qualunque posizione lo mettiamo». Si vede di qui che il buon Ricci non aveva la minima idea di ciò che oggi chiamiamo principio fondamentale della pressione o principio di Pascal, e non gli possiamo dare del tutto torto. L’idea l’aveva però chiarissima Torricelli, il quale risponde sorridendo: «Fu una volta un filosofo che, vedendo la cannella messa alla botte da un servitore, lo bravò con dire che il vino non sarebbe mai venuto, perché natura dei gravi è di premere in giù e non orizzontalmente e dalle bande; ma il servitore fece toccarli con mano che se bene 1 liquidi gravitano per natura in giù, in ogni modo spingono e schizzano per tutti i versi anco all’insù, purché trovino luoghi dove arrivare, cioè luo- ghi che resistano con forza minore della forza di essi li- quidi. Infonda V. S. un boccale tutto nell’acqua, colla bocca all’ingiù, poi li buchi il fondo, si che l’aria possa uscire, vedrà con che impeto l’acqua si muove di sotto all’insù per riempierlo». Torricelli dice altre cose, ma ho già abusato della vo- stra pazienza. Dirò che egli ha capito cosi a fondo l’esperienza che porta il suo nome, che essa si può dire non presenti più per lui nessun interesse. Tra l’altro, egli 198 previde la variazione dell’altezza barometrica con l’alti- tudine, studiata poi da Pascal e Périer, e forse non la ve- rificò perché la trovava più che evidente. Direte: — Ma anche l’esperienza che sembra più evi- dente a priori non è mai inutile, se si fa bene, e rivela sempre qualcosa d’imprevedibile. Rispondo che è vero, ma che questo concetto dell’esperienza non è di Torricelli e nemmeno di Pascal. Posso anche concedervi che Torricelli, pur avendo idea- to l’esperienza del mercurio, non era un vero sperimen- tatore: e non per caso l’esperienza fu eseguita da Vivia- ni. Torricelli è il più grande e il più versatile dei disce- poli di Galileo: è fisico e matematico; scienziato, inge- gnere, tecnico; ma la prova più alta e più costante della sua genialità ce l’ha data come teorico e in particolare come matematico puro. L'esperienza della pressione at- mosferica è e rimarrà la sua cosa più popolare (ed è, si capisce, una cosa stupenda), ma il suo massimo titolo di gloria, per il quale merita il titolo che gli fu dato di nuo- vo Galileo, è l’opera matematica. Di Torricelli mi piace molto la vita intensa e più an- cora la morte, come risulta dai Ricordi dettati a Lodovi- co Serenai, e con questa bella morte desidero finire. Sul letto di morte, Torricelli non si veste d’abiti reali e cu- riali, non assume pose ispirate, né dice detti memorabili. Sa che sta per morire, ma non si preoccupa della morte. Non solo non rinnega la vita, ma non se ne distacca. Dà disposizioni minute sui suoi averi, con lo stile del Codi- ce civile, ed ha la stessa amorosa cura delle cinque liret- 199 te che gli deve Carlo Dati e dei manoscritti inediti: le cartucce barone, che sembrano confuse e non son con- fuse affatto (cartucce barone equivale a fogli volanti: il barone qui non ha baronìa, essendo il mendicante giro- vago). Questa suprema fedeltà alla scienza, alla vita, alla ter- ra, è tanto bella quanto rara. Se riusciremo ad apprezzar- la come merita, noi italiani, che abbiamo senza dubbio molte grandi qualità (è bene riaffermarlo), ci avvieremo a liberarci dei nostri più grandi difetti: la rettorica, le sentimentalerie, l’improvvisazione. 200 LORENZO MAGALOTTI E LA SCIENZA" Il terzo centenario della nascita di Lorenzo Magalotti, com’era da prevedersi, non ha suscitato interesse nel mondo scientifico; ma la nostra rivista non può ignorar- lo perché l’autore dei Saggi di naturali esperienze fatte nell’ Accademia del Cimento si può considerare uno dei più illustri antenati di «Sapere» nel campo della divul- gazione scientifica più dignitosa e attraente. Come scienziato, Lorenzo Magalotti non conta un gran che e si può perfino sostenere che non esista. Non c’è una scoperta che si possa dire sua, una sua idea scientifica che regga. Il segretario dell’Accademia del Cimento era allievo e amico di Vincenzo Viviani, conosceva gli elementi della geometria, aveva letto Galileo, era anche, se si deve credere a lui stesso, un abile sperimentatore, ma non era e non poteva essere uno scienziato perché non aveva fede nella scienza. Pur accettando idee fondamentali di Galileo, egli è più lontano dalla rivoluzione galileiana degli stessi peri- patetici che deride. Più che ostile, è impermeabile alla nuova scienza. Il suo ideale sarebbe un principio da cui si potesse dedurre tutto col solo ragionamento. I suoi * Pubblicato in «Sapere», 31 dicembre 1937, p. 473 sgg. 201 problemi prediletti sono quelli che non si possono o non si sanno risolvere. Per Galileo l’esperienza è uno dei modi con cui Dio ci si rivela: è essenzialmente verità; per Magalotti è un circolo che, movendosi da un ignoto e girando per altri ignoti, ritorna o nello stesso o in altro ignoto. Galileo s’inebria delle sue scoperte e ne sente tutta la novità; Magalotti, quando ci si mette, arriva alle nega- zioni più paradossali. Egli crede che il capitale del sape- re sia stato press’a poco sempre lo stesso in tutti i tempi. In un secolo si è saputo più di una cosa, in un altro di un’altra «come quel magazzino, che oggi è pieno di spe- zierie, domani di tele, quell’altro di lana, e via discor- rendo; ma di tutte queste mercanzie non ve n’è mai più di quello, che importano i corpi e il credito di quella casa di negozio, che lo tiene in affitto». Ma il secolo di Galileo non ha fatto progressi mag- giori nelle scienze che non i precedenti? Magalotti ri- sponde che, anche se fosse vero, resta sempre il dubbio se ci siamo per questo avvicinati o allontanati dalla veri- tà. «Io non avrei per cosí gran sproposito, come per av- ventura parrebbe a qualche presuntuoso filosofo, il dire che, quanto più sparse più slegate e più minute noi con- tassimo le pretese verità delle particolari conclusioni in- torno alle cose naturali, tanto più lontani ci trovassimo dalla necessaria unità del loro vero principio: il che, se mai stesse cosi, tutto il vantaggio, che verremmo ad aver ricavato da questi grandi acquisti in materia di scienze, si ridurrebbe al trovarci noi, quanto più preoc- 202 cupati di falsi, o di veri dubbiosi, altrettanto più incapaci di dare in quella prima certa universalissima verità, nel- la quale non erano forse tanto incapaci di colpire all’impazzata, se non di mira, quelli, che non ne sapeva- no o non credevano di saperne tanta; e, colpita la quale, si ha tutto il resto». La fisica — continua il Magalotti — è un gergo; la me- dicina un indovinello. Non esiste un principio dell’una o dell’altra sul quale si accordino i loro professori e che consenta di dedurre coerentemente l’uno dopo l’altro i fenomeni. Se si trovasse un solo universalissimo teore- ma dal quale dipendessero tutti i teoremi particolari, tut- ta la farragine dei probabili si risolverebbe nel nulla dell’opinione. Egli passa a questo punto a fare «una piccola scorre- ria sulla medicina», cioè una cicalata sulla «vanità dell’arte», dove di leggibile non c’è che la barzelletta del buon vecchio Magiotti, il quale rispose al granduca Ferdinando, che gli domandava con che coscienza pren- desse i denari dagli ammalati: «Io, serenissimo, li piglio non in qualità di medico, ma di guardia, perché non ven- ga un giovane, che creda a tutto quel, ch’ei trova scritto ne’ libri, e cacci loro qualche cosa in corpo, che me gli ammazzi). Chiusa la schermaglia contro la medicina, il Magalot- ti prevede che un filosofo potrebbe pigliar animo, soste- nendo che la fisica sia andata molto più là della medici- na; e risponde: — Pare ma non è. Quello che si sa adesso si sapeva tremila anni fa. La filosofia è come le mode, 203 che «non sono mode, perché comincino a usare adesso, ma, perché è un pezzo, che non erano usate». E qui un’altra scorreria, più inconsistente dell’altra ma più di- vertente, per via delle barzellette. «Io — racconta il Ma- galotti — ho conosciuto un servidore del cardinal Barbe- rino, che, quando fu seco in Francia, fece una grandissi- ma provvisione di cappelli. Appena tornato in Italia, per sua disgrazia si mutò la moda. Egli sodo a seguitare a portare i suoi cappelli, ognuno gli rideva dietro; ma, perché è sempre vero che chi la dura la vince, tanto si girò e rigirò, che prima, ch’egli avesse consumato tutti i suoi, ritornò la medesima forma, e cosí quegli, ch’era stato il più indietro all’usanza, fu il primo a portare il cappello alla moda in Roma e ne riceveva le congratula- zioni di tutti». Ma le esperienze, le osservazioni, i ragionamenti di Galileo, di Torricelli, di Cavalieri, di Redi, di Borelli, di Cassini e di Huyghens, sono davvero dei vecchi cappelli tornati di moda? Magalotti non si perde d’animo e affer- ma che non si deve dare gran peso a qualche nuova esperienza che non si trova negli antichi perché degli antichi non abbiamo che gli scheletri. Se all’ Europa suc- cedesse ciò ch’è successo alla Grecia «che prima o poi ha da succedere indubitatamente», fra tremila anni non si saprebbe più nulla delle esperienze d’oggi. Questo (bisogna convenirne) è accademia. Non meno accademiche sono le domande che egli fa a proposito delle proprietà elettriche dell’ambra e che si concludo- no, poco socraticamente, col «Questo uno io so, che nul- 204 la io so»; e le idee sulla luce, che conviene analizzare perché rappresentano il suo massimo sforzo in senso scientifico. La lettera a Viviani sopra la luce è sembrata a qualcu- no molto importante perché vi s’è voluto vedere un’anti- cipazione della teoria newtoniana della gravitazione uni- versale. È il migliore scritto scientifico del Magalotti (mi riferisco agli scritti originali, escludendo i Saggi di naturali esperienze) e contiene qualcosa di buono: per esempio l’adesione alla teoria copernicana, che risulta anche da una lettera a Luigi del Riccio (Vienna, 7 luglio 1675), e l’idea che l’attrazione che la terra esercita sui corpi sia proporzionale alla densità e quindi alla massa dei corpi. L’attrazione però non è quella newtoniana perché non varia in ragione inversa del quadrato della distanza, anzi, a quanto sembra, non dipende dalla di- stanza. Il Magalotti accetta da Gilbert l’idea che il globo terrestre sia un gran calamita la cui azione non si esten- de all’infinito ma solo si diffonde per un determinato spazio. Questa sfera d’azione pone il termine all’atmo- sfera di ogni pianeta, sicché se due pianeti «siano fra loro per tanto spazio lontani, che la sfera della potenza magnetica dell’uno non confini colla sfera dell’altro, questo tratto intermedio, o sarà vòto, o sparso per av- ventura di fuoco, di luce, o d’etere, o d’altro mezzo più tenue, ed un corpo quivi collocato non avrà inclinazione al moto, ma tratterrassi immobile. Se le sfere magneti- che di due pianeti saranno confinanti, allora io conside- ro fra l’un pianeta, e l’altro una linea immaginaria, la 205 quale io chiamerò comune distanza, e secondo che un corpo sarà collocato di qua, o di là da cotal linea, entrerà nella sfera dell’un pianeta, o dell’altro, e sí venendone attratto, in questo, o in quello anderà a cadere». Il punto più strano di questa teoria è quel tratto inter- medio tra la sfera d’azione dei due pianeti in cui i corpi rimarrebbero immobili, ma è anche strano che la forza magnetica supposta dal Magalotti non varii al variare della distanza o per lo meno non si sa se varii. A quanto sembra poi il Magalotti ritiene che l’attrazione della ter- ra e quella della calamita abbiano la stessa natura, e al- lora non si capisce perché la calamita non attragga, me- glio del ferro, per esempio il piombo o il mercurio. L’oggetto della lettera sono però i movimenti della luce e del fuoco, non l’attrazione. L’autore sostiene che si possono intendere quei movimenti senz’attribuire al fuoco e alla luce un’interna inclinazione al moto, come credeva il padre Antonio Lanci, e fondandosi invece sul principio dell’estrusione o scacciamento scambievole degli elementi, cioè che ogni corpo scacci quelli più leg- geri. La luce insomma si muove perché galleggia su tutti i corpi. Se in un recipiente facciamo il vuoto, essa do- vrebbe dunque andare al fondo del recipiente; se due corpi celesti non hanno le atmosfere magnetiche confi- nanti, la luce dovrebbe fermarsi al limite dell’atmosfera del corpo da cui proviene. Queste due conseguenze sono mie, ma fino a un certo punto: il Magalotti le accettereb- be senza esitare. «Quel fuoco tutto — egli dice — che pre- sentemente si trova nell’atmosfera della Terra, di Giove, 206 di Venere, ecc. e sembra, ch’ei vada all’insù, chi gli to- gliesse di sotto la terra, l’aria, e l’acqua, piomberebbe di subito, e si spargerebbe intorno al tesoro della virtù ma- gnetica, il quale per avventura nel centro di ciascun pia- neta risiede, e quello ammantando di placide, e quiete fiamme, chi sa quel, ch’e’ si faria, se una piccola stelluz- za somigliante alle fisse, o al nostro Sole, ecc.». Il fuoco «non è altrimenti d’umore d’andare vagan- do»; «anche a lui piacerebbe la quiete» se gli fosse per- messa. Purtroppo gli altri elementi non lo lasciano vive- re, «ma tutti, qualunque volta l’incontrano, gli sono ad- dosso per iscacciarlo, essendo gli altri tutti di lui più ga- gliardamente tirati». Durante l’inverno le vivande appe- na levate dal fuoco si freddano perché «il densissimo aere con maggior furia il povero fuoco ne caccia». Se intorno al sole e ai fuochi non ci fosse l’aria essi forse non risplenderebbero agli occhi nostri. È l’aria che piombando sul fuoco lo fila in raggi finissimi e lo dif- fonde e perciò si potrebbe chiamare trafila del fuoco. In- somma, tutto si spiega ammettendo unicamente che il fuoco sia più leggero degli altri corpi e in particolare dell’aria. Ogni altro concetto, compreso quello di tem- peratura, è superfluo. Una vera cicalata è la lettera a Carlo Dati intitolata Sopra il detto del Galileo: il vino è un composto di umore e di luce. L’autore confessa di avere più volte fantasticato per arrivare a intendere il significato di quella frase. Dopo lunga meditazione riusci finalmente a risolvere il pro- 207 blema. Secondo lui i liquidi sono tutti composti di umo- re e di luce, ma il vino avrebbe la massima quantità di luce. Perché non l’abbia invece l’acqua, o il latte, non lo dice; e forse se qualcuno glielo avesse domandato avrebbe trovato l’obiezione di cattivo gusto. Il problema consiste soltanto nel determinare perché il vino conten- ga più luce degli altri liquidi. Il Magalotti sostiene (gra- tuitamente, s’intende) che i pori dell’uva sian fatti in modo che un raggio di luce possa andarci dentro ma non uscirne. L’estremo del raggio che penetra nel poro, o raggio sepolto, vi si regge «in figura di un serpentello di luce»; ma per effetto del moto apparente del sole il rag- gio esterno si schianta da quello sepolto, il quale «perde in un subito la figura di raggio, e si spolvera dentro all’uva», cioè si riduce in polvere. Potrebbe tuttavia ac- cadere che «poiché il raggio sepolto, e il raggio esterno si sono distaccati d’insieme, quello non si spolverasse altramente, ma rimanesse nella sua figura di serpentello acceso, e lucido; e ciò avverrebbe» ...se volete proprio saperlo andate a leggere, ma credo ne abbiate abbastan- za. ] raggi che sono entrati per primi nell’uva — continua il Magalotti — s’intormentiscono e anneghittiscono e non vengono fuori facilmente, anche se ne vien dato loro il modo. I raggi che sono andati dentro verso la metà dell’estate appena, al momento della pigiatura «scattano di subito con tutta la loro forza, e fuggonsi; quindi il mosto suo calore concepe, quindi il bollore, la rarefazio- ne, ed il fumo». Invece le serpette di luce dei primi tem- pi «placide e mansuete vanno guizzando per entro il 208 vino, e solamente allorch’e’ si bee, fannosi sentire alla lingua, e al palato colle graziose punture de’ loro tanti angoli, e serpeggiamenti». Qualcuno potrà dire a questo punto: Concediamo pure che in questi scritti e in altri Lorenzo Magalotti sia nient’altro che un letterato o addirittura un cicalone del Seicento; non si può però negare che egli sia uno scien- ziato di grande valore, se non altro per la lettera a Otta- vio Falconieri sul veleno della vipera e per il libro dei Saggi. Ebbene, la lettera al Falconieri è un gioiello. Essa contiene tutte, si può dire, le osservazioni intorno alle vipere del Redi. I Saggi di naturali esperienze sono un modello di prosa scientifica e un bel libro di fisica speri- mentale, che si legge ancora e si leggerà sempre con in- teresse. Ma il Magalotti, in questi scritti, non ha messo di suo che la forma. Per i Saggi lo riconosce esplicita- mente il più informato specialista del Magalotti, Stefano Fermi; per la lettera sul veleno della vipera lo dice l’autore stesso. D’altra parte, negando che Magalotti sia uno scienziato io non intendo negare le sue benemeren- ze nei riguardi della scienza. Anzi dico che queste bene- merenze sono più grandi di quanto si crede. Lorenzo Magalotti non era solo un «filosofo morbi- do», un elegante curioso di tutto e annoiato di tutto, un letterato in parrucca: era anche un artista. La sua paren- tesi filippina; quei versetti, assurdi in un cortigiano: «Ch’alla fine — son vicine — o tutt'uno, e gabbia e cor- te»; quel non voler pubblicar nulla dimostrano che egli 209 era assai più serio e più intelligente dei suoi troppi am- miratori. Era un fine scrittore di storiette, di aneddoti, di para- bole e di favole poetiche, che purtroppo sciupò e dissipò le sue eccellenti qualità naturali. Al libro dei Saggi egli era molto attaccato e aveva ra- gione. Nel famoso volume non solo riusci a esporre con chiarezza e con proprietà di linguaggio molte esperienze dell’ Accademia del Cimento (purtroppo ne trascurò al- cune delle più importanti ma la colpa è di tutta l’ Acca- demia), non solo fece opera di alta divulgazione scienti- fica: ma seppe vedere e seppe esprimersi da artista, come nelle pagine sull’unicorno. Che c’è di più noioso della descrizione di un apparec- chio? Eppure Magalotti, quando descrive i termometri o l’igrometro dell’ Accademia del Cimento, interessa e di- verte, perché sa presentarci gli apparecchi quasi come esseri viventi. Felicissimo è il Racconto degli accidenti varii di diversi animali messi nel vôto. L'autore si è di- vertito, si è interessato, s'è commosso davanti agli effet- ti diversi che la mancanza d’aria produce su mignatte, grilli, farfalle, mosconi, lucertole, uccelli, granchi, ra- nocchi, pesci, anguille; ed è riuscito a esprimersi da arti- sta. Qui e altrove Lorenzo Magalotti è assai di più di un modesto scienziato come tanti altri del suo tempo: è un fine artista della scienza. 210 LUIGI GALVANI" È giusto ed è bello che gli scienziati di tutto il mondo siano accorsi a Bologna per onorare Galvani, come dieci anni fa accorsero al congresso di Como in onore di Vol- ta. Difficilmente si può trovare una figura più mite, più serena, più modesta e più avvincente di Luigi Galvani, che è insieme un grande scienziato e una grande co- scienza morale. Forse nessuno degli scienziati del Settecento dimostra meglio di lui che l’illuminismo è lo sviluppo del pensie- ro galileiano e quindi, nel campo scientifico che gli è proprio, è una conquista inalienabile. Come Galileo, è infermiccio e nello stesso tempo instancabile nelle espe- rienze e nella meditazione scientifica; e muore anche lui in disparte, quasi in miseria. Tutta la sua vita è un atto di fede nella verità, in cui non c’è posto per interessi mon- dani. Non è tutto nella sua grande scoperta. Anche come anatomico e come fisiologo merita molta considerazio- ne. Tra i lavori di anatomia è importante quello sui reni dei polli, in cui, un secolo prima di Hoppe-Seyler e Za- leski, ideò la legatura degli ureteri. Egli approfondi * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 19 ottobre 1937. 211 l’anatomia e la fisiologia del naso. I suoi studi più noti in quest'ordine d’idee sono quelli sull’orecchio degli uccelli, in cui fece varie scoperte che in gran parte furo- no poi rifatte e pubblicate da Antonio Scarpa. Ne segui tra i suoi ammiratori e quelli dello Scarpa una vivace polemica, alla quale egli si mantenne estraneo, limitan- dosi a pubblicare ciò che era sfuggito allo Scarpa. Più che la gloria o, peggio, la vanagloria, al Galvani interes- sava la verità. Per lui lo Scarpa era uno che aveva con- fermato alcune sue ricerche e quindi gli aveva fatto pia- cere, non uno che gli avesse rubato qualcosa. x k x La sua gloria è l’esperienza della rana, che suscitò nel mondo scientifico un’impressione che si può paragonare a quella prodotta dalla scoperta dei satelliti di Giove. Non senza ragione Emilio Du Bois-Reymond, che è il più illustre studioso di elettricità animale, disse che il Commentario di Galvani: De viribus electricitatis in motu musculari, determinò nel campo dei fisici, dei fi- siologi e dei medici, un’agitazione che si può paragona- re soltanto a quella prodotta nel mondo politico dalla ri- voluzione francese. L'esperienza della rana è dovuta al caso; ma se ci li- mitiamo a quest’affermazione, il suo vero carattere ci sfugge. Bisogna aggiungere che nessuno meritava di farla più di Galvani, anzi nessuno poteva farla. Il Com- mentario fu pubblicato nel 1791, ma fin dall’estate del 212 1780 Galvani aveva studiato le contrazioni muscolari prodotte, nelle rane preparate alla sua maniera, dall’elet- tricità che egli chiamava artificiale, cioè quella della macchina elettrica e dell’elettroforo. Si trattava di un fe- nomeno di contraccolpo che non presenta difficoltà a chi conosce la teoria dell’influenza elettrostatica. La rana, che era sospesa a un uncino metallico messo a ter- ra, quando agiva la macchina elettrica si caricava per in- fluenza. Ad ogni scintilla la carica d’influenza andava a terra e la rana subiva la scossa. Galvani, non potendo comprendere bene il fenomeno, moltiplica le esperienze. Cosi volle vedere se gli effetti ottenuti con la macchina elettrica si ottenevano con l’elettricità atmosferica e li ottenne ripetute volte, esponendosi al pericolo di rima- nere fulminato. Il «caso», cioè l’esperienza di Galvani, avvenne al principio del settembre 1786, cioè dopo sei anni di lavoro. La rana aveva il midollo spinale perfora- to da un uncino di ferro. Galvani l’appoggiò orizzontal- mente sul parapetto, anch’esso di ferro, della ringhiera del terrazzino dove soleva fare le esperienze, appog- giando sul parapetto anche l’uncino. La rana subi le contrazioni tetaniche. È interessante notare che tanto l’uncino che la ringhiera erano di ferro e non di due me- talli differenti. In seguito Galvani si accorse che, quando i metalli erano differenti, l’esperienza riusciva molto meglio. È lui dunque (occorre ripeterlo perché molti l’hanno dimenticato) che scopri la circostanza che dove- va condurre Volta cosi lontano. 213 x k x Come si sa, Galvani spiegò la sua esperienza con l’ipotesi dell’elettricità animale e non credette mai all’elettricità di contatto, anzi su questo punto polemiz- zò a lungo con Volta. È vero però che quando Galvani mori (4 dicembre 1798), Volta non aveva ancora inven- tata la pila. Che l’ipotesi dell’elettricità animale non fosse sballa- ta ora è evidente, perché l’elettricità animale esiste, come risulta dalle esperienze di Matteucci, di Du Bois- Reymond e di tanti altri. Anche Volta, letto il Commen- tario, accettò in primo tempo la spiegazione che della sua «stupenda esperienza» aveva dato Galvani. Nella prima memoria sull’elettricità animale (5 maggio 1792) egli scriveva: «L'esistenza di una vera e propria Elettri- cità animale, vale a dire che eccitasi di per sé negli or- gani viventi senza indurvene punto di straniera, cioè di quella già eccitata con qualsiasi artificio in altri corpi; elettricità appartenente a tutti gli animali a sangue fred- do, e a sangue caldo; che trae origine dall’organizzazio- ne medesima, e dura e si mantiene anche ne’ membri re- cisi, finché avvi un residuo di forze vitali e il cui gioco ed azione si esercita primieramente tra nervi e muscoli; è ciò che viene provato ad evidenza nella terza parte di quest’Opera con molte esperienze ben combinate, e ac- curatamente descritte». Sono espressioni sincere, non frasi di convenienza. L’ipotesi di Galvani era molto seria ed era sostenuta 214 molto efficacemente. Anche oggi gli scritti di Galvani sono vivi, perché il grande scienziato conosce bene i fat- ti e ragiona benissimo. Pure negando l’ipotesi di Volta, egli non sostiene affatto, come molti dicono, che l’arco scaricatore non abbia importanza. Galvani sa come Vol- ta che gli archi eterogenei sono più efficaci di quelli omogenei ed è consapevole della complessità della sua esperienza. Non ammette l’elettricità di contatto perché questo concetto non si inquadra bene nell’elettrostatica di allora. Per lui non è ammissibile una differenza di po- tenziale tra i punti di uno stesso conduttore, omogeneo o eterogeneo che sia, come non è ammissibile che in due vasi comunicanti l’acqua non si disponga alla stessa al- tezza. Oggi noi, in base alla teoria degli elettroni, non troviamo più la difficoltà insormontabile, ma bisogna dire che allora nessuno seppe rispondere all’obiezione di Galvani. Non si deve tacere che Volta sosteneva an- che lui una teoria incompleta, perché trascurava il fatto- re chimico su cui doveva insistere Fabroni con tanto successo. x k x Luigi Galvani ha fatto una grande esperienza, dando- ne una spiegazione che sembrò accettabile ai piú, anzi in primo tempo a tutti. Senza di lui la pila è inconcepibile. Non ci possono essere dubbi. Egli ha meritato l’ammira- zione dell umanità. 215 IL TACCUINO DI GALVANI" Il numero più gustoso del centenario di Galvani è sta- to senza dubbio il Taccuino sulle Torpedini che molti credevano scomparso. Albano Sorbelli, che ha avuto la fortuna di acquistare il prezioso cimelio per la Bibliote- ca dell’ Archiginnasio di Bologna, ha avuto la felice idea di curarne la pubblicazione, che è stata realizzata con grande signorilità dalla casa Zanichelli. Il volumetto, in edizione di cinquecento esemplari numerati, rilegato in tutta pergamena e stampato su ottima carta, contiene la riproduzione in facsimile e la trascrizione dell’autografo galvaniano, una dotta prefazione del Sorbelli ed alcune note filologiche che il Sorbelli ed Enrico Benassi hanno tratto in gran parte da quelle del Gherardi e hanno pub- blicato per chiarire alcuni punti di dubbia interpretazio- ne. Lo studio del Taccuino e i confronti con le altre ope- re di Galvani e con gli scritti più recenti di elettrobiolo- gia sono stati lasciati al lettore. È da augurarsi che que- sti studi che, come dice l’illustre direttore della Bibliote- ca dell’ Archiginnasio, sono tutti del massimo interesse, non restino allo stato di desiderio. Noi non possiamo che limitarci a poche osservazioni. * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 14 gennaio 1938. 216 x k x Le esperienze del Taccuino furono fatte da Galvani a Sinigaglia e a Rimini, nel maggio del 1795. Sono dun- que posteriori alla Nuova memoria sulla elettricità ani- male di Alessandro Volta, che è dell’anno precedente e ne è una delle principali cause occasionali, ma non han- no carattere polemico. Il nome di Volta che sarà fatto con molto garbo nella quinta memoria allo Spallanzani, nel Taccuino non figura. In quell’occasione, come sem- pre, Luigi Galvani si propose (cavallerescamente, reli- giosamente) la ricerca della verità e nientť’altro; e lo stesso fece l'inventore della pila. Nei due nostri grandi ricercatori rivive lo spirito galileiano in una delle forme più alte. Alessandro Volta, dopo aver dato, nella prima memo- ria, le più brillanti conferme alle idee di Galvani sull’elettricità animale, nella seconda memoria aveva at- tribuito le contrazioni della rana unicamente alla diffe- renza di potenziale di contatto, tentando perfino di spie- gare con azioni meccaniche le contrazioni ottenute da Galvani mettendo direttamente a contatto i nervi e i ten- dini della rana. Abbagliato dall’effetto Volta, non vede- va l’effetto Galvani. Naturalmente (è bene non dimenti- carlo) egli negava l’elettricità animale comune, cioè quella scoperta da Galvani, non quella dei pesci elettrici, che non era e non poteva essere messa in dubbio; e oggi nessuno lo può giudicare severamente perché, nella massima parte delle esperienze con la rana, le contrazio- 217 ni erano dovute alla differenza di potenziale di contatto che Volta aveva scoperto e sulla quale aveva edificato la pila. Ma appunto perché nelle esperienze con la rana l’effetto Volta predomina talmente su quello dell’elettri- cità animale da potersi dire abbagliante, noi ci sentiamo spinti, più degli stessi contemporanei, ad ammirare l’eccezionale serietà di Galvani, che non si stancò mai d’insistere sulla sua scoperta e che riusci a difenderla dalle più gravi obiezioni. Non è il caso di meravigliarsi troppo del mancato riconoscimento della scoperta di Volta perché Galvani mori nel 1798, cioè quando la pila non esisteva ancora. Si potrebbe persino sostenere che, in un certo senso, egli abbia sempre ammesso l’effetto Volta, perché riconosceva che i metalli esaltano l’azione dell’elettricità animale e nel Taccuino parla dei «metalli più atti a svegliare l’animale elettricità» e adopera la coppia zinco-argento. Più che negare la scoperta di Vol- ta, a cui è in realtà indifferente, Galvani vuole rivendica- re la propria scoperta e ci riesce. E come Volta, per di- mostrare la differenza di potenziale dovuta al contatto, abbandonerà le rane, ricorrendo all’elettroscopio con- densatore dove l’ipotesi dell’elettricità animale non ha più ragione di essere, cosi Galvani si mette a studiare le torpedini in cui interviene soltanto l’elettricità animale. x k x 218 Il Taccuino è il diario di queste esperienze. Un diario schiettamente scientifico ma senza la minima traccia di quell’aridità che alcuni attribuiscono alla scienza. Qui lo scienziato è Luigi Galvani, un uomo di grande ingegno e di intensa vita morale. La scienza è l’espressione più compiuta e più profonda della sua personalità. Il Taccui- no è un giornale intimo. Galvani ridirà con maggior cura le cose che dice qui, nelle comunicazioni all’ Accademia delle Scienze di Bologna e nella quinta memoria allo Spallanzani, ma il Taccuino ha un fascino particolare. Non è un quadro ma è il primo pensiero del quadro; e nonostante certe trascuratezze e certe oscurità, ha la fre- schezza e la fragranza dei disegni dei grandi maestri. Le esperienze del Taccuino sembrano puramente qua- litative ma, se si guarda bene, non è cosi. La mentalità di Galvani è più affine a quella di Volta di quanto comu- nemente non si creda; e come in Volta ci sono le formu- le matematiche anche se non si vedono scritte material- mente, cosí nelle pagine del Taccuino ci sono vere e proprie misure da grande sperimentatore. Valendosi di quel sensibile elettrometro (o galvanometro) che è la rana preparata alla sua maniera, Galvani riesce ad ap- profondire, come nessuno aveva saputo fare prima di lui, le proprietà elettriche della torpedine, anticipando scoperte di elettricità animale che saranno poi estese e sviluppate da Matteucci e Du Bois-Reymond. Cosi egli si accorge che applicando i nervi tagliati di una rana preparata al dorso di una torpedine, si ottengono le con- trazioni ad ogni scossa e che si possono ottenere convul- 219 sioni gagliarde, frequentissime anche senza scossa sen- sibile. Mettendo delle rane preparate a contatto dei lem- bi della torpedine si sono avute le convulsioni «tanto toccando le torpedini che no, tanto eccitata la scossa che no»; e varie rane preparate, poste in vari luoghi della torpedine, «si movevano, quand’una, quando l’altra, e tutte anche in un tempo». Da queste ed altre esperienze Galvani conclude che o varie piccole correnti elettriche circolano in ogni direzione nel corpo della torpedine, o una sola corrente investe tutto l’animale, specialmente negli organi elettrici, e oltrepassa anche i confini della torpedine stessa. Oggi diremmo che, secondo Galvani, ogni punto della superficie della torpedine abbia un po- tenziale proprio. Galvani osservò che, se si toglie il cuore alla torpedi- ne, continuano le contrazioni delle rane preparate, cioè «l’esistenza, l’azione e il circolo della elettricità della torpedine»; mentre togliendole la testa, cessa ogni con- trazione delle rane: e cosi estraendo dal cranio il cervel- lo. E poiché anche gli organi elettrici divengono inattivi se sono separati dal cervello, egli conclude che il fabbri- catore e raccoglitore della elettricità della torpedine è il cervello. x k x Occorrerebbe trascrivere tutto il Taccuino per dare un’idea adeguata di tutte le osservazioni di elettrobiolo- gia, di anatomia e di fisiologia che vi fa Galvani; e non 220 è certo che basterebbe, perché il grande scienziato, scri- vendo per se stesso, procede per accenni. Nel Taccuino, Luigi Galvani è nel suo regno e si muove con sicurezza ed eleganza, come Volta nel campo della fisica. 221 IL SEGRETO DI VOLTA" Di Volta ci sono molti ritratti, che si possono vedere nell’ Edizione nazionale delle Opere, ma nessuno è pro- prio bello. Sono ritratti di quell’Ottocento più pedestre di cui si è detto giustamente tanto male: cattive fotogra- fie. Forse il migliore è quello del Garavaglia, ma è mol- to inespressivo. Volta andrebbe raffigurato con quella luce negli occhi, con quella calma gioia piena di conse- guenze che ebbe nel momento in cui le foglioline dell’elettroscopio condensatore lentamente si aprirono. Nessuno era presente al grande avvenimento e nemme- no l’Autore, che fu tanto eloquente sull’elettricità di contatto, senti il bisogno di farci la più piccola rivelazio- ne su quell’eccelso momento. Eppure li c’è tutto Volta. In quel punto tutta l’attività scientifica anteriore, tutte le lunghe, sottili ricerche sull’elottroforo, sul condensatore e sull’elettroscopio condensatore, s’illuminano e si tra- sfigurano genialmente, diventando lo strumento infalli- bile della grande scoperta. Volta aveva tutto pubblicato e i suoi scritti erano stati ben letti e apprezzati da tutto il mondo scientifico. Gal- vani li doveva conoscere e, se non li aveva letti fin da principio, li lesse certamente quando entrò in polemica * Pubblicato in «Pirelli», luglio 1949, p 48 sgg. 222 col suo grande competitore; l’olandese Van Marum, amicissimo di Volta, si direbbe che li conoscesse meglio di Volta. Come mai allora né Galvani né Van Marum ac- cettarono subito, con entusiasmo, l’ipotesi del contatto e tanti fisici distinti continuarono a parlare di elettricità galvanica anche dopo l’invenzione della pila? La verità è che solo Alessandro Volta aveva compreso se stesso, solo lui era degno della grande invenzione. Tutte le ri- cerche di elettrostatica che Volta aveva fatto fino allora erano la preparazione alla pila. Si direbbe che Volta avesse uno scopo che dovesse conseguire quasi per una fatalità: la pila. Quando Galvani fa conoscere, col Commentario, la sua esperienza, Volta partecipa ingenuamente, generosa- mente all’entusiasmo generale. Egli ripete la «stupenda esperienza» quasi da artista, per gustarla in tutti i parti- colari, ma non si stanca di ripetere che Galvani ha ragio- ne, che ormai non si può in nessun modo dubitare dell’esistenza dell’elettricità animale. Ed ecco una cir- costanza a cui nessuno dà il suo vero valore e che fisici illustri non riusciranno a capire nemmeno un secolo dopo: le contrazioni della rana sono più vivaci quanto più le estremità dell’arco sono differenti. Se la rana fos- se un condensatore carico e l’arco avesse la funzione passiva di metterne in comunicazione le armature, le contrazioni dovrebbero essere ugualmente vivaci tanto con un arco di un solo metallo che con uno di due. La differenza non si può spiegare che attribuendo le contra- zioni all’arco. La rana è un puro rivelatore: si commuo- 223 ve perché è sottoposta alla differenza di potenziale che deve esistere quando due metalli differenti si mettono a contatto. L'ipotesi, che oggi può sembrare naturalissima, è delle più audaci perché sembra in aperta contraddizio- ne con tutta l’elettrostatica. Sembrerebbe che una diffe- renza di potenziale tra due metalli in contatto, anche ammettendo che in un certo istante potesse stabilirsi, dovrebbe immediatamente dissiparsi: dovrebbe determi- nare senz'altro l’equilibrio, come avviene appunto nelle ordinarie esperienze di elettrostatica. Volta però è un fi- sico e sa benissimo che questi ragionamenti puramente qualitativi non hanno valore scientifico, e tenta la prova decisiva. Senza dubbio, se Volta avesse avuto un elettro- scopio condensatore come tanti ce ne sono nelle nostre scuole, cioè insensibile, o se l’effetto Volta fosse stato di entità notevolmente minore in modo da esser sensibile per la rana ma non per l’ettroscopio, difficilmente Volta sarebbe riuscito (non lo escludo però, intendiamoci, per- ché Volta, quando ebbe la grande intuizione, non era certo un uomo comune, e c’è da supporre che avrebbe girato in altro modo l’ostacolo). Fatto sta che l’elettro- scopio condensatore di Volta funzionava ottimamente, assai meglio dei migliori di oggi (parlo, s’intende, di elettroscopi e non di elettrometri a quadranti) e l’espe- rienza riusci. Nessuno sa (lo ripeto) che cosa sia avve- nuto in quel momento nell’animo, nel pensiero di Volta, ma credo che anche voi sentiate il bisogno che sento io di forzare il segreto. Volta prende una coppia rame-zin- co. Essendo i piatti dell’elettroscopio condensatore di 224 ottone, dal punto di vista del contatto è come se fossero di rame. Per mettere in evidenza l’ipotetica elettricità di contatto, non c’è che un mezzo: tenere in mano lo zinco della coppia, mettere a terra uno dei piatti del condensa- tore e toccare l’altro col rame. Se l’ipotesi risponde alla realtà e non sorgono complicazioni (su questo non si può dir nulla a priori), il condensatore si dev'essere cari- cato. Non resta che prendere il piatto superiore per il manico isolante e sollevarlo. Lascio immaginare a voi se in quel momento il viso di Volta era pallido e se il suo cuore batteva forte. Credo che anche voi siate convinti che egli sollevò il piatto, lentissimamente, in uno stato di angoscia e insieme di speranza, come il giocatore che «succhia» la carta al macao. Le foglie si aprirono, come per magia. Vi assicuro che io invidio Volta per quel mo- mento faustiano e non tanto per la pila, che è una conse- guenza (molto importante e che richiedeva anch’essa una vera genialità: un fisico che non avesse avuto la le- vatura di Volta forse si sarebbe irretito nella seconda esperienza e Volta andò invece avanti senza esitare). Alcuni si sono meravigliati leggendo gli interminabili ragionamenti di Volta sul principio del contatto e sulla funzione del conduttore umido. Hanno torto. Volta non si stancò mai di ragionare sul suo caso perché in realtà qualcosa di oscuro, nonostante tutto, rimaneva ancora. Il conduttore umido non era soltanto passivo: esso forniva l’energia chimica, che è indispensabile al funzionamen- to della pila, se non si vuole incorrere nell’assurdità del moto perpetuo. Volta non riusci a vedere chiaramente 225 questo punto, che si chiari davvero molto più tardi. Egli però diede tutti gli elementi necessari alla teoria della pila, formulando, insieme al principio del contatto, la legge dei metalli intermediari; e fu l’unico a spingersi tanto lontano e con tanta sicurezza. L’ammirazione che ebbero per lui i contemporanei ci appare per questo, an- che oggi, dopo tanti progressi, più che giustificata. 226 SADI CARNOT E IL PRINCIPIO DELL’ EQUIVALENZA“ Il centenario di Sadi Carnot andrebbe commemorato con uno studio esauriente di tutta l’opera del grandissi- mo fisico. Poiché nei pochi minuti che mi sono concessi questo è manifestamente impossibile, mi limiterò a ri- chiamare l’attenzione del Congresso sulla parte avuta da Sadi Carnot nella formulazione del primo principio del- la termodinamica. Che al Carnot spetti una specie di priorità morale nei riguardi del principio dell’equivalenza, non si discute. Tutti riconoscono che, nei manoscritti postumi, Sadi Carnot arrivò non solo al principio dell’equivalenza ma a quello della conservazione dell’energia e che trovò per l'equivalente meccanico della caloria un valore lieve- mente più esatto di quello trovato da Roberto Mayer nel 1842, cioè dieci anni dopo la morte del Carnot. La prio- rità, diciamo cosi, giuridica, che è poi quella che conta, viene però attribuita a Mayer perché questi arrivò al principio dell’equivalenza indipendentemente dal Car- not e pubblicò la scoperta prima che i manoscritti del Carnot fossero divulgati. Implicitamente si viene cosi ad * Pubblicato negli «Atti della Società italiana per il progresso delle scienze», XXII riunione (1932), vol. II, p. 201 sgg. 227 ammettere che nell’immortale trattato di Sadi Carnot: Réflexions sur la puissance motrice du feu, pubblicato, com’è noto, nel 1824, non vi sia nessun accenno al prin- cipio dell’equivalenza: e questo è falso. Sadi Carnot in- fatti, dopo aver stabilito che dovunque ci sia una diffe- renza di temperatura ci può essere produzione di poten- za motrice o, come diciamo oggi, di lavoro meccanico e che reciprocamente è sempre possibile produrre una dif- ferenza di temperatura a spese di lavoro meccanico, considera due corpi a temperatura costante: A, a tempe- ratura più alta (caldaia); B, a temperatura più bassa (re- frigerante), e dice che se si vuole produrre del lavoro meccanico mediante il trasporto di una certa quantità di calore dal corpo A al corpo B, si potrà procedere in que- sto modo: Produrre, a spese del calore della caldaia, del vapore alla temperatura della caldaia stessa; Espandere il vapore fino a che la sua temperatura di- venti uguale a quella del refrigerante; Condensare il vapore mettendolo a contatto con B ed esercitando su di esso una pressione costante finché sia interamente liquefatto. Carnot osserva che si potrebbe invece ottenere il va- pore a spese del calore del refrigerante e alla temperatu- ra del refrigerante stesso; comprimerlo finché non assu- ma la temperatura di A e infine metterlo a contatto di A e comprimerlo fino a liquefarlo del tutto. «Con le prime operazioni — egli continua — avevamo nello stesso tempo produzione di lavoro meccanico e 228 trasporto di calore dal corpo A al corpo B; con le opera- zioni inverse si ha nello stesso tempo spesa di lavoro e ritorno di calore da B ad A. Ma se in tutti e due i casi si è operato con la stessa quantità di vapore e non si sono avute perdite né di lavoro né di calore, la quantità di la- voro prodotto nel primo caso sarà uguale a quella spesa nel secondo e la quantità di calore passata, nel primo caso, da A a B sarà uguale a quella che ripassa, nel se- condo, da B ad A, sicché si potrebbero fare alternativa- mente un numero indefinito di operazioni di questo ge- nere senza produzione di lavoro e senza passaggio di ca- lore da un corpo all’altro» (p. 11, ristampa del 1878). Siamo evidentemente davanti ad un’anticipazione del principio della conservazione dell’energia che Carnot formulerà rigorosamente quando avrà abbandonato l’ipotesi del calorico alla quale nel trattato aderisce an- cora ma senza entusiasmo. Che questa mia affermazione non sia arbitraria si vede subito continuando a leggere. Carnot aggiunge in- fatti che se con la prima serie di operazioni si potesse produrre una quantità di lavoro maggiore di quella am- messa, noi potremmo ritornare alle condizioni iniziali con una parte soltanto del lavoro prodotto, e poiché po- tremmo ripercorrere il ciclo a piacere, si otterrebbe non solo il moto perpetuo ma una creazione indefinita di la- voro senza spesa. Carnot afferma che questa creazione, del tutto contraria alla scienza acquisita, è assolutamente inammissibile e conclude formulando il suo celebre teo- rema di cui dà più oltre una dimostrazione più completa, 229 considerando non più vapore acqueo ma aria e facendo uso del suo ciclo. È interessante osservare che Carnot afferma l’impos- sibilità del movimento perpetuo non solo per i fenomeni meccanici come si era fatto fino allora ma anche per quelli termici ed elettrici e per tutti gli altri: e ciò perché tutti i tentativi fatti per ottenere con qualsiasi mezzo il moto perpetuo erano falliti. Egli nota acutamente che nemmeno la pila di Volta può essere considerata come una prova del moto perpetuo perché essa non può dare corrente per un certo tempo senza deteriorarsi: e conclu- de affermando che per moto perpetuo non si deve inten- dere il movimento senza fine per inerzia ma l’azione di qualunque apparecchio capace di creare energia in quan- tità illimitata e perciò di mettere in movimento, con energia sempre crescente, l’universo intero. Bastano questi pochi cenni per persuadersi che nei manoscritti postumi Carnot non fece che precisare e svi- luppare le idee del trattato, anche nei riguardi del princi- pio dell’equivalenza, e che Mayer continuò anche lui, con minore genialità, la grande opera del fisico francese. Il principio dell’equivalenza non va dunque denomina- to, come si fa comunemente, principio di Mayer ma principio di Carnot e Mayer. 230 GLORIA DI PACINOTTI" Negli ultimi anni della sua vita, a quanto dicono, An- tonio Pacinotti cominciava la lezione puntualmente, ma, passata l’ora, continuava a parlare con la sua famosa lentezza, come se non dovesse finir più. Gli allievi, ap- profittando dei momenti in cui il Maestro scriveva una formola o disegnava un apparecchio, se la squagliavano a piccoli gruppi. Quando Pacinotti si accorgeva di esser rimasto solo, senza scomporsi andava via anche lui. Un giorno gli studenti, per vedere che cosa succede- va, presero la strana risoluzione di rimanere fermi ad ogni costo. Pacinotti, davanti all’aula rigurgitante e si- lenziosa, divenne più eloquente, più entusiasta del soli- to; e chi sa quando si sarebbe fermato se qualcuno non bisbigliava un «si salvi chi può!». Allora tirò fuori di scatto l’orologio e, vedendo che era già mezzogiorno (eran passate, a quanto sembra, due ore), aprendo le braccia per significare che l’aveva fatta grossa, disse lentamente: «Ebbene? Andiamo a desinare». Naturalmente io non c’ero e non vi garantisco tutti i particolari. Può darsi che, senza volerlo, abbia anch’io un po’ ricamato. La storiella però esprime bene il carat- tere del «gigante fanciullo», il suo amore per la scuola e * Pubblicato in «Omnibus», 6 agosto 1938, p. 6. 231 per la scienza e il piacere di vivere tra i giovani. È as- surdo vederci, come qualcuno ha fatto, un indizio di de- cadenza. In Pacinotti non ci fu decadenza. Egli rimase giovane fino alla morte. La sua fisonomia aperta e intel- ligente divenne con gli anni sempre più spirituale. Non è nemmeno vero che la dinamo sia stata come lo straordinario accidente di una vita borghese. La dinamo è senza dubbio il suo capolavoro, la sua gloria, ma è sta- ta anche un po’ la sua disdetta; e non solo per il furto di Gramme. La dinamo oscurò tutti gli altri suoi lavori, al- cuni dei quali sono assai belli. Giudicando col criterio dell’albero che si conosce dai frutti, si possono commet- tere gravi errori. Il capolavoro di Edison diverrebbe cosi la scoperta dell’effetto termoionico, che egli fece per caso e a cui non diede importanza. Quando Pacinotti inventò la dinamo era un ragazzo. Si potrebbe dunque pensare, e molti lo credono, che l’invenzione sia un colpo di fulmine geniale: avremmo l’analogo scientifico-tecnico del caso Rimbaud. Invece è il frutto di una lunga serie di pensieri e di perfeziona- menti. Nell’Università di Pisa, dove Pacinotti studiava, c’erano allora maestri insigni come Betti, Mossotti e Fe- lici. Non cito Carlo Matteucci perché in quel periodo aveva lasciato la scienza per la politica. La cattedra di fisica tecnica era occupata da Luigi Pacinotti, padre di Antonio. Questi scienziati esercitarono tutti grande in- fluenza sul nostro Pacinotti e in particolare Riccardo Fe- 232 lici e il padre. Pacinotti lesse anche avidamente il tratta- to di fisica del De La Rive. Luigi Pacinotti non amava la scienza astratta e aveva anche inventato una macchina magneto-elettrica, di poca importanza, come tante altre che allora s’inventa- vano dappertutto. Nella sua Introduzione alla Fisica tecnologica e alla Meccanica sperimentale (1845) egli scrive: «Diciamolo pur francamente, non sono i mecca- nici scienziati, né gli scienziati meccanici; vi è bisogno di avvicinare l’arte alla scienza specialmente fra noi, e questo è lo scopo che ci dobbiamo proporre». Con l’invenzione della dinamo, con le ricerche sull’utilizzazione del calore solare, con gli scritti di agraria, Antonio Pacinotti dimostrò di aver capito pro- fondamente queste parole del padre. Egli però rimase sempre uno scienziato. I suoi due primi quadernetti scientifici s’intitolano Sogni, ma non bisogna credere che trattino di scienza romanzata o che abbiano un qualsiasi carattere lettera- rio. «Sogni — luglio 1858. — Sul magnetismo terrestre. — Supponiamo di avere nel piano del meridiano magnetico un circolo che possa girare sul suo centro e che due ci- lindri di legno...». I quaderni sono tutt'e due su questo tono. «Ero giovane allora ed entusiasta», spiegò più tar- di Pacinotti, e sognavo...». Eran progetti di esperienze talmente seri che non ci si può trovar nulla da ridire; ma Pacinotti vi si abbandonava con disinteresse e con gioia, come a sogni. Per lui non erano che sogni. 233 Leggendo il primo quaderno si vede come Pacinotti arrivò alla dinamo. Egli aveva ideato un apparecchio che doveva servire a misurare le correnti elettriche, indipendentemente dal campo magnetico terrestre. Costruito l’apparecchio, si accorse subito che non poteva servire allo scopo ma che poteva essere il punto di partenza per la costruzione di una macchina elettromagnetica. Ebbe cosi la prima idea della dinamo. Mi dispiace che l’indole di questo giorna- le non consenta di riportare la figurina e la relativa de- scrizione. Il dispositivo è cosi semplice che anche oggi i professori di fisica se ne servono. Si tratta di una spirale piegata a cerchio. Agli estremi di un suo diametro si ap- poggiano due mollette che si mettono in comunicazione coi poli di una pila conveniente. Se la spirale è messa in un campo magnetico abbastanza intenso, essa ruota: è un motore Pacinotti. Occorre sottolineare una circostanza su cui né Paci- notti né altri richiameranno in seguito l’attenzione. Il campo magnetico è qui creato con due calamite a ferro di cavallo e quindi la macchinetta è a quattro poli ma- gnetici. Sempre nel primo quadernetto dei Sogni, Pacinotti dice che, se invece di mandare nell’anello una corrente, lo facciamo rotare «a forza dinanzi a due calamite o per- manenti o temporarie si avrà una corrente indotta conti- nuamente nello stesso senso». L'apparecchio è dunque, come si dice, reversibile: è, insieme motore e dinamo. 234 Queste parole sono della fine del 1858. Poiché Paci- notti era nato il 17 giugno 1841, aveva diciassette anni e mezzo e aveva capito la dinamo con una lucidità che su- scita ancora la nostra meraviglia. Pacinotti continua dicendo che, invece di adoperare una spirale, se ne potrebbero adoperare parecchie so- vrapposte, e spiega come si potrebbe fare. Ma invece di insistere nei progetti, crede opportuno di passare alle esperienze e costruisce una macchinetta nella sua forma più semplice. Sotto la data del 10 e del 12 gennaio 1859, registra nel primo quaderno i risultati di diverse espe- rienze che son tutte d’accordo con quanto aveva previ- sto. Si mette allora a costruire una macchina più grande. Appena iniziata la costruzione gli viene l’idea del com- mutatore. La macchina è cosi virtualmente compiuta. Il lavoro viene però interrotto dalla guerra, alla quale egli prende parte come sergente volontario nella seconda compagnia della divisione toscana del genio militare. Durante la guerra Pacinotti ebbe l’idea dell’ultimo perfezionamento della sua macchina. Qualcuno anzi, molti anni dopo, disse che era stato in una notte di luna mentre combatteva. Pacinotti dichiarò che non aveva mai combattuto, e ciò gli faceva piacere perché era sicu- ro di non aver mai ucciso nessuno. Non aveva combat- tuto, perché faceva parte del quinto corpo d’armata, che fu detto la quinta ruota del carro, essendo rimasto sem- pre di riserva. A Goito, una sera, mentre era seduto so- pra un ciglio vicino ai fasci di fucili, pensò per la prima 235 volta al modo d’intensificare l’azione delle calamite o elettrocalamite fisse (riduzione al minimo dell’intraferro mediante denti sull’anello). Doveva essere il 5 o 6 lu- glio. Pacinotti ricordava benissimo che quella sera c’era stato un po’ di trambusto, tanto che si era pensato a un’infiltrazione nemica. Era invece la bella vivandiera che correva strillando per sfuggire a un assalto. Come si vede, la dinamo fu compiuta in una serata allegra. Congedatosi, tornò a Pisa e, dopo superati alcuni esa- mi universitari, valendosi di Giuseppe Poggiali, mecca- nico dell’Istituto di fisica tecnica, costrui la prima mac- chinetta. Nel quadernetto del 1858 scrisse allora questo poscritto: «1860, aprile. La macchina elettromagnetica, della quale le prime idee si trovano qui sopra registrate, è stata da me costruita in piccolo modellino. Questa macchina ha una sola elettrocalamita fissa; agisce bene assai come macchina magneto-elettrica, giacché dà una corrente continua sempre in un senso, e molto intensa». È significativa la frase del piccolo modellino. Eviden- temente, Pacinotti pensava che la macchina andasse co- struita in grande modello. Con la stessa macchinetta Pacinotti fece molte espe- rienze e nel settembre (1860), mentre si trovava con la famiglia in villeggiatura, scrisse una memoria intitolata: «Elettrocalamite trasversali. Applicazione di questo nuovo sistema di calamite alla costruzione di una mac- china elettro-magnetica e magneto-elettrica». Il prece- dente di questa memoria è il secondo quaderno dei So- gni. 236 La memoria rimase inedita perché Pacinotti voleva continuare le ricerche. Una parte di essa fu pubblicata più tardi, nel Nuovo Cimento (fascicolo di giugno 1864, pubblicato il 3 maggio 1865). Nell’autunno del ’60, a Pisa, Pacinotti introdusse un ultimo miglioramento nella macchinetta: vi aggiunse le armature polari e poi le ingrandi. Il primo luglio del 1861 prese la laurea e divenne as- sistente del padre. Come si capisce, continuò le ricerche sperimentali con la macchinetta. Ma nel maggio del ’62, non si sa bene perché, forse per dissidî col padre, andò a Firenze come aiuto dell’astronomo Giambattista Donati, rimanendovi per poco più di due anni. Nel 1864, in seguito a concorso, passò come profes- sore di fisica all’istituto tecnico di Bologna; e allora, per prender data, si decise a pubblicare nel Nuovo Cimento la memorietta sulla dinamo. A proposito: si è detto che in questa memorietta Pacinotti si sia espresso in forma sibillina, quasi volesse mantenere il segreto senza perde- re il diritto di priorità. A me non pare. Chi legga con at- tenzione il testo e tenga sott'occhio la tavola ivi ripro- dotta, si può fare un’idea chiarissima della macchina. Nel luglio del 1865 Pacinotti, accompagnato dal fra- tello Giacinto, fece un giro per l’ Europa con l’incarico, datogli dal Matteucci, di raccogliere informazioni sul servizio meteorologico. A Parigi, verso il 25 agosto del 65, distribuí varie copie della memorietta del Nuovo Cimento ed ebbe il colloquio con Dumoulin in presenza del capo-officina Zenobio Gramme. Anche Jamin ebbe 237 una copia della memorietta e diverse spiegazioni sul di- segno e sulle esperienze. Non possiamo fermarci sulle nuove ricerche e le nuo- ve invenzioni di Antonio Pacinotti, sulla sua nomina all’università di Cagliari (1873) e sul successivo passag- gio alla cattedra del padre (fine del 1881), né sui lunghi anni di dolore e d’isolamento in seguito alla morte della prima moglie. Poiché ci siamo proposti di occuparci solo della dinamo, ci limiteremo a dire che i suoi meriti furono pienamente riconosciuti. Ebbe onorificenze, no- mine accademiche, diplomi di onore, la nomina a sena- tore (1905), grandiose onoranze (1911). Mori a Pisa, nella stanza dov’era nato, il 25 marzo del 1912. x k x Quanto alla dinamo, dato che Pacinotti non aveva preso brevetti, gli si poteva benissimo riconoscere la priorità. Ma Gramme era un industriale deciso a fare i milioni, non un sognatore, e il 22 novembre 1869, quattr’anni e mezzo dopo la pubblicazione di Pacinotti, brevettò la macchina di Pacinotti e altre macchine pro- prie ma che non funzionano. Il 30 luglio del ’70 prese il brevetto, a nome proprio e di d’Ivernois, anche in Italia! Finalmente il 17 luglio 1871 fece presentare da Jamin all’ Accademia delle Scienze di Parigi una nota in cui descriveva come sua la macchina di Pacinotti. Appena letta la nota di Gramme, Pacinotti rivendicò la sua priorità, scrivendo all’ Accademia e a Jamin. Il 238 suo reclamo fu pubblicato nei Comptes rendus del 28 agosto 1871. Pacinotti diceva che la macchina di Gram- me era stata costruita in base al principio pacinottiano dell’elettrocalamita trasversale, ma non contestava a Gramme il merito di avere esteso quel principio, met- tendo intorno all’anello più di due poli magnetici. Forse aveva dimenticato (e, cosa curiosissima, né lui né altri se ne son più ricordati in seguito) che la prima macchi- netta era a quattro e non a due poli. All’incontro con Gramme nell’officina Froment diretta da Dumoulin, non accennava nemmeno: e si può indovinare facilmente perché. Dumoulin aveva presentato Gramme col nomi- gnolo di M. Kenelle, che Pacinotti ricordava perché era stato ripetuto, mentre non ricordava più il cognome Gramme. Quando lesse la nota dei Comptes rendus, Pa- cinotti non pensò che Gramme fosse l’antico capo-offi- cina della Casa Froment; e del resto lui desiderava sola- mente che si riconoscesse la sua priorità a titolo di giu- stizia e non per ragioni di lucro, tanto più che l’inven- zione era di dominio pubblico. Gramme non rispose a Pacinotti né allora né mai e fece malissimo; ma in una seconda comunicazione (Comptes rendus, 2 dicembre 1872) dichiarava che la cosa più notevole della sua invenzione era la possibilità di stabilire un numero qualunque di poli. Pacinotti ri- spose l’anno dopo nel Nuovo Cimento che poiché Gram- me aggiungeva che le macchine da lui costruite avevano soltanto due poli, quella dichiarazione era un implicito riconoscimento della sua priorità. A me pare inverosimi- 239 le che nel colloquio dell’officina Froment, Pacinotti, parlando dei vari miglioramenti da fare alla macchina, abbia dimenticato l’aumento del numero dei poli e che invece a questo miglioramento abbia pensato il mecca- nico belga, che nel 1871 aveva ancora idee molto in- complete e confuse sulla dinamo. C’è da credere che Gramme fosse non soltanto un abile uomo d’affari, ma un umorista. Egli si permetteva il lusso di prendere in giro una seconda volta Pacinotti, che sembrava avesse dimenticato tutti i particolari del colloquio parigino. Nel 1881, in occasione del primo congresso interna- zionale di elettricità, Pacinotti, per consiglio dei suoi ammiratori e del ministro dell’Industria e Commercio, mandò a Parigi la macchinetta e altre macchine di sua invenzione. Delegato dell’Italia al congresso era Gilber- to Govi, fisico, storico della scienza, patriota, uomo di carattere, il quale svolse un’opera attivissima in favore di Pacinotti. Per opera di Govi. la macchinetta ebbe tan- to successo che il nostro ministro dell’Industria e Com- mercio credette opportuno di fare andare Pacinotti a Pa- rigi. Il 24 settembre 1881, il Govi tenne una conferenza sulla macchinetta in presenza di Pacinotti e di molti elettrotecnici di tutto il mondo. Alla fine della conferen- za, Pacinotti mise in azione la macchinetta e fece vedere che essa poteva trasmettere il movimento a un’altra macchina di sua invenzione (la macchina a gomitolo, 1873), ottenendo un successo memorabile. Gramme non intervenne alla conferenza e con vari pretesti evitò sempre d’incontrare Pacinotti. Un giorno 240 però, all’ Esposizione, Pacinotti vide entrare nello stand della Società Gramme un signore dalla barba bianca e riconobbe subito M. Kenelle. Gli andò incontro per sa- lutarlo, ma Gramme, vista la mossa, gli voltò le spalle e si allontanò rapidamente. Uno di quei giorni, in un omnibus, si alzò dal sedile opposto una donna che era la signora Ortensia Nysten, prima moglie di Gramme, e si presentò dicendogli: «Voi siete l’inventore della dinamo»; e accennò a signori cat- tivi (i finanziatori di Gramme, forse). Pacinotti: «Non, non, Madame», rispose, «ils ne sont pas des méchants; saluez Monsieur Gramme de ma part». Come si vede, Pacinotti sognava ancora. Ma quel Ke- nelle che fuggiva e non era altro che Gramme gli dovet- te far comprendere tante cose e gli dovette far ricordare tutti i particolari dimenticati del colloquio all’officina Froment. Anche allora però stette zitto e nemmeno nel 1884 parlò. Un bollettino francese aveva pubblicato, nel 1884, due articoli troppo favorevoli a Gramme e troppo ingiu- sti nei riguardi di Pacinotti. Il nostro scienziato non fece rivelazioni, ma inviò ai giurati dell’esposizione interna- zionale d’elettricità in Torino una stroncatura di Gram- me che meriterebbe da sola un articolo. Il 7 ottobre 1905 il professor Eric Gérard, inauguran- do a Liegi un monumento a Gramme, accennò a Paci- notti con parole stonatissime, tanto che gli studenti ita- liani dell’Istituto Montefiore e gli altri italiani che vi 241 erano intervenuti, si ritirarono protestando. Tra l’altro, il Gérard aveva chiesto: «Come mai Gramme che era cosi lontano dal mondo scientifico italiano poté aver notizia dei lavori dal professor Pacinotti?». Allora Pacinotti scrisse la lettera aperta al direttore dell’ Elettricista, professor Angelo Banti, in cui rispon- deva a quella ed altre domande. In quella lettera Paci- notti fece la storia della sua invenzione e dei suoi rap- porti con Gramme, senza però nominare Gramme. Il nome fu fatto nelle interviste concesse in occasione del- le onoranze del 1911. La pagina della visita all’officina Froment è bella. Pacinotti cercava di persuadere Dumoulin a costruire la dinamo in grandi dimensioni e gli spiegava la memo- rietta. Gli disse che sarebbe convenuto mettere l’asse di rotazione in posizione orizzontale e gli parlò di altre modificazioni utili. Pacinotti espresse poi il desiderio di visitare l’officina e Dumoulin, acconsentendo, gli accennò a Gramme. Pa- cinotti rispose: «Non desidero parlare con cotesto signo- re che non conosco affatto»; ma Dumoulin gli disse che si trattava di una brava persona, che li poteva aiutare. «Io faccio molto conto dei suoi consigli; è bene che lo informiate». Era l’ora della refezione e non c’era nessu- no nell’officina, salvo Gramme, che lavorava al primo tornio. Dumoulin, che aveva in mano la memorietta, tor- nò a chiedere spiegazioni sulle figure, e si mostrava scettico e insisteva su difficoltà insussistenti. A un certo punto, mentre Dumoulin rimaneva riservato, Gramme, 242 con un sorriso che a Pacinotti parve benevolo, disse: «Si, si». E Pacinotti tornò a parlare della dinamo, del suo rendimento, della riversibilità, della grande impor- tanza della corrente indotta continua ad alto potenziale. «Quel capo officina», conclude Pacinotti, «non era giovinetto, era uomo più alto e più bello del signor Du- moulin, aveva la faccia regolare e rosea, gli occhi cene- rini ed i baffi castani. Indossava una quasi elegante giac- ca brizzolata, con sottoveste della medesima roba ador- nata da una catena da orologio a lunghe maglie d’argen- to. Mentre mi allontanavo da quella officina, cercavo di consolarmi del probabile insuccesso, dicendomi: la pub- blicazione già fatta qualcosa potrà valere, anche perché l’ho fatta conoscere; sono liberale, non ho cercato priva- tive; e se non potrò conseguire io gli effetti utili della mia macchina, almeno saprò di aver fatto qualcosa onde vengano conseguiti. Qualche giorno dopo rividi il signor Dumoulin per la via; lo salutai di lontano per potergli parlare nuovamente, ma esso voltò strada». Il nostro racconto non lascia dubbi. La macchina co- struita da Gramme è una dinamo Pacinotti. Gramme non ha idee nuove; non ha che meriti industriali. Antonio Pacinotti, d’altra parte, non era un industria- le. Se fosse stato un industriale avrebbe trovato i denari, se non nel ’60, almeno nell’’81 o nell” 84. Era un ideali- sta, come Galileo Ferraris e Augusto Righi: una delle fi- gure più simpatiche dell’Ottocento. 243 PACINOTTI E MATTEUCCI (con documenti inediti)” Nell’ Archivio Pacinotti alla «Domus Galilaeana» c’è una lettera di Carlo Matteucci ad Antonio Pacinotti, che non è stata mai pubblicata, nemmeno in riassunto, né studiata. La lettera è scritta su un pezzo di carta di cm. 24 per 20, piegato in due irregolarmente, sicché ne risul- ta un comune foglietto scritto su tutt'e quattro le pagine, che non sono numerate. Le pagine 2 e 3 hanno in alto un margine bianco di 4,5 cm.; l’ultima ne ha una di tre cm. Sulla prima pagina c’è impresso a secco un bollo con lo stemma d’Italia e con le parole Senato del Regno. Sul bollo a secco c’è un timbro tondo in inchiostro violetto, con le parole Istituto di Fisica Tecnica «A. Pacinotti» — Pisa — Archivio, N. d’invent. I. 188. 1. La segnatura è scritta a mano in inchiostro rosso. La lettera è scritta chiaramente dal Matteucci, salvo la chiusa, che si legge con difficoltà. Eccone il testo: * Pubblicato nel «Mondo», Firenze, 16 febbraio 1946, p. 4 sg. 244 «Torino, 21 settembre. «Caro Tonino, «Voi finite sempre le lettere dicendo, Scusi la fran- chezza, ecc. Sono scuse inutili con me e molto meno sono necessarie queste scuse di parte mia verso di voi. «Io sono quello che voi non siete ancora, uomo d’affari e che conosce il mondo, e per conseguenza devo dirvi col cuore nelle mani senza che sia minimissima- mente alterata la mia amicizia e il mio interessamento per voi, che non posso tollerare che andiate al Ministero della Marina a fare delle critiche sulle mie proposte. Fossero le cose più bestiali, non si è mai visto al mondo un Ajuto che va a far critiche alle idee del suo Superiore — tanto più che ognuno capisce che era più naturale per voi di farle a me prima queste critiche e a questa delle Commissioni come a quella degli impiegati avrei rispo- sto che quelle difficoltà che ora affacciate me l’era af- facciate anche io prima e non le ho subite se non dopo essermi persuaso che i modi da me proposti, tutto consi- derato, erano i meno cattivi. In certe cose bisogna con- tentarsi di quello che si può fare di meglio, cercando poi col tempo e coll’esperienza di migliorare e non sottiliz- zare da principio, per far nulla. Insomma, e torno a ripe- tere, senza che l’anima mia si turbi minimamente verso di voi, se volete per questi 3 o 4 mesi ajutarmi, fatelo come si deve e come voglio che lo facciate e ne sarò contentissimo. Se nò, ditemelo prima e rimedieremo. Lo stesso devo dirvi delle casse degli istrumenti: ritengo che si faccia male a scassarli a Livorno per rincassarli 245 poi per portarli a Firenze e cosi vi avevo scritto e scritto al Ministero. Nell’occasione di mandare quelle casse d’istrumenti al Museo spero vi ricorderete di mandare anche le mie. Non capisco cosa vogliate fare per i baro- metri. Tutte le condizioni che erano scritte nel contratto consistevano che ci fosse il certificato di Glaisher; que- sto c’è e non possiamo pretendere altro. Se vogliamo far cambiamenti li faremo da noi. «Salutate Papà e tutti di casa e credetemi di cuore «aff.mo G. Matteucci». Per quanto l’anno manchi, si può facilmente mostrare che è il 1865. Dalla lettera infatti si deduce che Mat- teucci era presidente del Comitato Meteorologico del Ministero della Marina e direttore del Museo di fisica e di storia naturale di Firenze e che era ancora a Torino. Ora le due nomine avvennero appunto nel 1865° e verso la fine dell’anno Matteucci lasciò per sempre Torino”. Dalla lettera risulta pure che Antonio Pacinotti era aiuto del Matteucci presso il Comitato meteorologico, ed è pure noto che il Pacinotti fu alla dipendenza del Mini- stero della Marina e quindi del Matteucci solo nel 18658; il 26 dicembre del ’65 egli tornò all’Istituto Tec- 6 Nicomede Bianchi, Carlo Matteucci e l’Italia del suo tempo, Torino, Bocca, 1874, p. 536. 7 Bianchi, op. cit., p. 537. 8 Antonio Pacinotti, La vita e l’opera. A cura della Conf. Naz. fascista Professionisti e Artisti (in realtà, a cura di Giovanni Pol- vani), Pisa, Nistri, 1934, p. 811. Indicheremo questa pubblicazio- 246 nico di Bologna’. Sulla modificazione ai barometri a cui accenna il Matteucci alla fine della lettera, il Pacinotti gli aveva scritto nel Rapporto sui presagi meteorologici in data 10 settembre 1865". Gli diceva che nei barometri forniti dalla Casa Negrelli di Londra il livello del mercurio nel pozzetto non era né libero né visibile. «Pare evidente — egli sosteneva — la necessità di modificarli prima che possano esser distribuiti, e la modificazione che mi par- rebbe assai facile e rispondente alla forma di tali appa- recchi, sarebbe di praticare un foro nella superficie ci- lindrica del bossolo che serve di pozzetto e di masticiar- vi un tubetto ricurvo di vetro del diametro della canna, e nel quale il livello del mercurio si potrebbe portare sem- pre ad un segno costante per mezzo della vite che agisce sul fondo mobile del bossolo». Giunti gli strumenti a Firenze, il Matteucci aveva ri- conosciuto l’opportunità di modificare i barometri prati- cando un foro nella parte superiore della scatola che fa- ceva da vaschetta e adattandovi un galleggiante: ma pri- ma che la modificazione fosse ultimata, il Pacinotti, come risulta da una lettera a Silvestro Gherardi in data 1° ottobre 1866, parti per Bologna e non seppe più nulla della cosa!!. Ciò fa supporre che egli non tornò più a Fi- renze presso il Matteucci. Veramente da una lettera in- ne con «Pacinotti». 9 Pacinotti, p. 888. 10 Pacinotti, p. 821. Il Rapporto occupa le pagine 814-822. 11 Pacinotti, p. 827. 247 viatagli dal Ministero della Marina (Archivio Pacinotti, I. 120.1), risulta che il Pacinotti aveva avuto il permesso di ritornare a Bologna alla metà del febbraio del °66. La lettera, inedita, è scritta nella prima pagina (le altre sono bianche) di un foglio Mod. G. N.° 47, di formato proto- collo: è intestata Ministero della Marina — Direzione Generale del Servizio Militare Marittimo — Divisione 1° — Sezione 1°. Porta il n. 1922 e l’indirizzo: Al Sig. Pro- fessore Pacinotti — Pistoia. Essa dice: Firenze, addi 20 settembre 1865. «Dietro le passate intelligenze tra il Ministero scri- vente e quello di Agricoltura Industria e Commercio, la S. V. dovrà recarsi pel 15 Ottobre ad assistere agli esami in Bologna, e cominciare le prime lezioni pel nuovo anno scolastico accordandosi col Preside di quello Isti- tuto, perché vengano proseguite da un sostituto di fidu- cia. «Libero in tal modo la S. V. potrà fino al 15 Febbraio accudire all’impianto del servizio meteorologico. «P. Il Ministro: E. D’ Amico». Pur non avendo voluto restare addetto al servizio me- teorologico, il Pacinotti non intendeva abbandonare il lavoro iniziato. Egli non tornò in Firenze per altre ragio- ni. C’è a questo proposito nell’ Archivio Pacinotti (I. 164) una lettera autografa di Pacinotti al Padre, mutila e senza data ma che è senza dubbio della fine del 1865 o 248 dei primi del ’66, in cui si leggono queste parole, can- cellate con un tratto di penna: «Il Preside mi ha detto che in questi giorni capiterà quà all’Istituto il Berti il Luzzatti ed il Ministro per par- lare ed ispezionare, e mi ha vivamente sconsigliato dall’abbandonare il laboratorio. Anche stamani è tornato ad assicurarmi della venuta di questi alti sindacatori sic- ché con dispiacere mi son deciso a restare in Bologna. «Non so bene come farò per le macchine a Firenze, ma probabilmente incaricherò il S.r Ulisse Marchi di ri- ceverle». Nonostante il dissidio, i rapporti col Matteucci erano rimasti evidentemente buoni, se no il Pacinotti non si sa- rebbe deciso «con dispiacere» a restare a Bologna. I termini del dissidio non si conoscono in modo preci- so, ma si possono fare ipotesi plausibili. Occorre premettere che poco prima del viaggio di Pa- cinotti all’estero in missione meteorologica, si era svolta una discussione tra Matteucci e Le Verrier”. Questa po- lemica spiega (ci si consenta di dirlo, visto che il fatto è sembrato di difficile spiegazione) perché il Le Verrier abbia detto a Pacinotti! che se si presentava come aiuto del Matteucci non poteva dargli schiarimenti sulla me- teorologia e sul metodo di far predizioni. La polemica è molto interessante e meriterebbe uno studio particolare. Inizialmente, il Matteucci, senza ne- 12 Comptes Rendus, tome soixantième, Janvier-Juin 1865, pp. 891-895, 949-950, 1000-1001 e specialmente 1313-1327. 13 Pacinotti, p. 812. 249 gare l’utilità di un servizio meteorologico di presagi che, come diceva, si realizzano 45 volte su 79, sostene- va che tutta la verità pratica dei nostri servigi meteoro- logici è contenuta in queste parole che il maresciallo Vaillant aveva scritto al Le Verrier nel febbraio 1864: «Abbandonate le predizioni; abbiate all'Osservatorio un servizio in permanenza e appena sarà segnalata una tem- pesta, ma una vera tempesta, datene avviso a tutte le sta- zioni che corrispondono con voi». Si negava, in fondo, in questo modo la vera e propria previsione e si ammet- teva perciò che convenisse limitarsi a segnalare telegra- ficamente l’avvicinarsi di grandi cambiamenti di tempo già in atto, visto che essi si propagano con una velocità infinita. Il Le Verrier era invece (e con lui Dumas e pa- recchi altri che si appoggiavano all’autorità di Lavoisier, di Laplace, di Borda) favorevole alla previsione. Anche il P. Secchi che il Matteucci aveva citato come d’accor- do con lui, credette di non dover tacere il suo sentimen- to e, pur facendo delle riserve, non si contrappose reci- samente al Le Verrier". In seguito i due protagonisti modificarono le loro idee e in un certo senso finirono con lo scambiarsi le parti. Il Le Verrier infatti, tenendo conto dei risultati ottenuti, dichiarò! che non poteva es- ser d’accordo con coloro che immaginano che diverrà possibile di determinare con alcuni giorni d’anticipo il 14 Il Nuovo Cimento, t. XX, ottobre 1864, pubblicato il 2 otto- bre 1865, pp. 258-267. 15 Comptes Rendus, tome soixante-deuxième, Janvier-Juin 1866, pp. 1045-1052. 250 luogo e l’ora dei fenomeni meteorologici e, dopo aver preso in considerazione un rapporto della Commissione meteorologica inglese, contraria alle previsioni giorna- liere, «che non si mostrano generalmente esatte», veniva alle seguenti conclusioni: Mantenere l’invio giornaliero delle notizie sulla situazione presente di grandi regioni dell’atmosfera, facendo due volte al giorno uno studio completo dell’atmosfera. Le previsioni vanno limitate all’annunzio dell’inizio delle grandi variazioni atmosfe- riche, della loro persistenza e della loro fine; il sistema di avvertimento dev’essere semi-diurno, senza escludere le previsioni fatte con ventiquattro ore di anticipo, quan- do lo stato generale dell’atmosfera lo consente!°. Matteucci, d’altra parte, dopo un’inchiesta e nuovi studi, occasionati senza dubbio sia dalla polemica con Le Verrier che dalle critiche del Pacinotti, fini con l’ammettere la previsione locale e generale, compiacen- dosi di dare numerose regole e criteri scientifici, aggiun- gendo perfino che «son pure da tenersi in qualche conto quelle regole pratiche, che i marinai, i giardinieri e i contadini traggono dalla semplice osservazione del cie- lo». Il Pacinotti, come risulta dal Rapporto al Matteucci”, era favorevole ai presagi ma senza infatuazioni. «Per quanto — egli diceva — dopo lungo esercizio possa restar facile il prevedere 24 ore in precedenza lo stato generale 16 Il Nuovo Cimento, t. XXI-XXII, febbraio e marzo 1865-66, pubblicato il 12 aprile 1866, pp. 81-100. 17 Pacinotti, pp. 819-820. 251 dell’atmosfera conoscendone sopra tutta l’Europa gli stati precedenti, non mi sembra facile che una sola per- sona nello spazio di pochi minuti debba aver modo di tener conto adeguatamente di tutte le modificazioni che le influenze locali apporteranno qua e là sullo stato ge- nerale trovato. E più ancora sarà difficile il presagio speciale per quei luoghi che si trovano in condizioni di latitudine, di orografia e di clima differenti molto da quelle del paese principalmente studiato». In seguito il Pacinotti espose, com’è noto!, idee e proposte in mate- ria di meteorologia, che avrà anche allora, almeno in parte, esposto al Matteucci: e cosi saranno sorti nuovi motivi di dissenso. È certo che al Ministero della Mari- na egli andò a esporre idee, non a fare della maldicenza; e in ogni caso, prima di ricevere la lettera del Matteucci, aveva deciso, come adesso mostreremo, di tornare all’ Istituto Tecnico di Bologna. Nell’ Archivio Pacinotti (I. 120) c’è a questo riguardo un foglio inedito in forma- to protocollo, senza segnatura e senza filigrana che con- tiene nella prima pagina (le altre tre sono bianche) que- ste parole di pugno del Pacinotti: «Copia. «Eccellenza, «Non volendo abbandonare la carriera dell’insegna- mento, il sottoscritto, in ordine alla ministeriale del 15 Giugno comunicatagli dal Sig.r Preside del R. Istituto 18 Pacinotti, pp. 832-862. 252 Tecnico di Bologna, si crede in dovere di esprimere alla Eccellenza Vostra che esso desidera conservarsi il posto di Fisica e Chimica nel suddetto R. Istituto. Conseguen- temente dipenderà del tutto dagli ordini della Eccellenza Vostra tanto riguardo al tempo che tuttora dovesse con- sacrare alla sistemazione del Servizio meteorologico pel Ministero della Marina, quanto riguardo all’epoca in cui dovrà riprendere le lezioni a Bologna. «Esso accoglie con piacere la presente occasione per segnarsi col massimo dovuto ossequio. «Dell’Eccellenza Vostra Devt.mo Obb.mo Servo «Antonio Pacinotti. «Firenze, 13 Settembre 1865». «A Sua Eccellenza il Comm. Torelli «Ministro d’Agricoltura Industria e Commercio del Regno d’Italia». (A voler esser pedanti, si deve notare che, invece d’Italia, c’è scritto Itatalia). La ministeriale del 15 giugno che Pacinotti cita è co- piata in un foglio (inedito) in carta vergata, di formato quadrotta, scritto da un amanuense ma firmato dal Ghe- rardi (sulle due prime pagine; la terza e quarta pagina sono bianche); in alto a sinistra c’è stampata l’intesta- zione R. Istituto Tecnico di Bologna. Vi si legge: 253 «Stimatiss.mo Sig.r Professore, «Mi rendo sollecito di partecipare alla S. V. Illma un foglio Ministeriale che La riguarda e ricevo in questo momento, con farlo trascrivere per intiero qui appresso. Voglia favorirmi un cenno di ricevuta della partecipazio- ne in discorso, soggiungendo quel che credesse in pro- posito, e che io non mancherei di comunicare al Mini- stero. — Ed augurandomi ben di cuore che non sia mai per verificarsi il caso che S. E. il Sig.r Ministro ha volu- to fare nelle estreme finali del suo foglio, senza più mi professo, con ogni stima, «Bologna, 16 Giugno 1865». «Suo aff.mo Servo, Il Preside dell’Istituto «Prof. Silv. Gherardi». «AIPIIlmo Ecc.mo Signore «Il Sig.r D.r Antonio Pacinotti — Professore di Fisica e Chimica nel R. Istituto Tecnico». (Copia del citato foglio Ministeriale) «Regno d’Italia — Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio — Div.e 3* — Sez.e Istituti — N. del Prot. Divisionale 574. «Firenze, addi 15 Giugno 1865. «Prego la S. V. Preg.ma di partecipare al Professore Antonio Pacinotti che egli è dal 1° Luglio p.° v.° a tutto Settembre posto a dipendenza del Ministero della Mari- 254 na, per quelle incumbenze che il prefato Dicastero cre- derà di affidargli. «Durante tale periodo di tempo il predetto professore continuerà a godere dell’attuale stipendio esigibile pur sempre a Bologna; io pregherei solo la S. V. di notifica- re al predetto professore, come ebbi io stesso a dichiara- re al Ministero della Marina, essere cioè indispensabile che egli si trovi al suo posto il 15 Ottobre, e che sicco- me sarebbe impossibile lasciar privo l’Istituto di un se- rio insegnamento, cosi dovrà il Sig.r Pacinotti con lette- ra comunicare a questo Ministero prima del 15 Settem- bre se egli sarà nel caso di riprendere servizio, aggiun- gendogli che, in mancanza di tale comunicazione, il Mi- nistero si vedrebbe costretto di provvedere senz'altro a nuova nomina. «P. il Ministro, firmato: F. De Blasiis». «Signor Preside «Dell’Istituto tecnico di Bologna». Non solo il Pacinotti non fece della maldicenza con- tro il Matteucci, ma considerò la lettera che gli scrisse il Matteucci da Torino come un documento a suo favore. Nell’Archivio Pacinotti c’è una lettera autografa al Feli- ci, che ha la segnatura I. 185. 1; è senza data ma dal contesto risulta che è certamente del settembre o ottobre 1872. Riferendosi alla domanda per il concorso all’Uni- versità di Cagliari, mandata da Bologna al Ministro del- la Pubblica Istruzione il 30 luglio del 1872, come si 255 vede dalla minuta, conservata pure nell’ Archivio Paci- notti (I. 178), dice il Pacinotti: «Quando da Bologna mandai la mia domanda non potei unire agli altri miei ti- toli una relazione che scrissi al Prof. Matteucci circa il servizio meteorologico dopo il mio viaggio del 1865 né altre carte a questo relative, perché eran riposte qui a Caloria. Qui raccolsi tali fogli, e uniti ad essi il diploma per la medaglia della campagna 1859 e l’ultima notarel- la sulla dispersione, avevo inviato tutto al Ministro pre- gandolo di voler comunicare tali documenti alla Com- missione esaminatrice. Invece dal Ministero mi sono stati rimandati scrivendomi che il tempo utile alla pre- sentazione dei titoli pel concorso è scaduto». Nello stes- so incartamento c’è un autografo del Pacinotti, intitola- to: Seguito della lista dei documenti del Prof. A. Paci- notti che si riferisce evidentemente ai fogli raccolti a Caloria. Uno dei documenti è proprio la «Lettera 21 Set- tembre 1865 del Prof. Senatore Carlo Matteucci». La cosa non ha nulla di strano, dopo quello che abbia- mo detto. Del resto, la lettera è una severa ma garbata lezione di disciplina e di senso pratico. È paterna ma non paternalistica, perché il Matteucci mentre esclude recisamente che l’aiuto possa criticare presso terzi l’operato del superiore, ammette senz'altro la critica di- retta, e riconosce la fondatezza delle critiche fatte dal caro Tonino. Quelle critiche se l’era fatte lui stesso, ma aveva fatto ugualmente le proposte perché si era persua- so che, tutto considerato, erano le meno cattive. Egli pensava giustamente che, invece di sottilizzare da prin- 256 cipio per non far nulla, bisognava accontentarsi di ciò che in quelle circostanze, con quegli uomini, con quei mezzi, si poteva fare di meglio, cercando poi, col tempo e con l’esperienza, di avvicinarsi alla perfezione. Nella lettera il Matteucci dice di essere uomo di affari e che conosce il mondo. Naturalmente, intendeva dire, e diceva la verità, che, conoscendo uomini e cose, faceva ciò che era attuabile, senza lasciarsi sviare dalla chimera dell’assoluta perfezione. Se si tien presente che egli riaf- fermava la sua amicizia e il suo interessamento per il Pacinotti e che nel Museo di Firenze intendeva circon- darsi dei più illustri scienziati italiani, facendoli attende- re non all’insegnamento ma alle ricerche”, si deve viva- mente deplorare che Pacinotti si sia deciso per l’Istituto Tecnico di Bologna. Se si fosse inteso col Matteucci (e poteva intendersi facilmente) e avesse fatto a lui la dife- sa della macchinetta che nell’estate precedente aveva fatto al Dumoulin, con ogni probabilità si sarebbe evita- to il caso Gramme. 19 Bianchi, op. cit., p. 449. 257 GALILEO FERRARIS E IL CAMPO ROTANTE" Racconta il marchese Solari che, facendo in America il nome di Galileo Ferraris, si è sentito rispondere: cono- sciamo Galileo Galilei, non Galileo Ferraris. In realtà Galileo Ferraris è poco conosciuto sia in America che in Inghilterra e in Francia (più conosciuto è in Germania); e anche in Italia è ben conosciuto dagli elettrotecnici e dai fisici ma non dal pubblico. È una grave ingiustizia perché si tratta di uno dei più grandi scienziati dell’Ottocento e di una delle figure più affa- scinanti. Credeva ardentemente nella scienza e nel progresso ma la sua fede era molto elevata e non aveva nulla di utilitario. Sensibile al vero e al bello, non capiva l’utile materiale. «Quando — egli diceva — contemplando un prodotto della scienza o un’opera d’arte sentiamo in noi quella soddisfazione che ci fa dire: “bello”, quel prodot- to o quell’opera sono utili in sé». Tutti quelli che Phan- no conosciuto insistono sulla spiritualità del suo sguar- do, del suo gesto, della sua voce, sul suo sorriso di asce- ta, sulla sua modestia. Sapeva a memoria il Giorno del Parini, l Ermanno e Dorotea di Goethe, diverse poesie di Carducci e di Longfellow; era amatore di quadri e di- * Pubblicato ne «La Scena illustrata», luglio 1939, p. 11. 258 segnatore; era valente pianista e gli piaceva molto la musica di Wagner. Dissero che quando, il 25 ottobre del 1896, fu nominato senatore, telegrafò le congratulazioni a un suo cugino perché non gli passò per la testa che po- teva esser lui. È una storiella, ma il 10 novembre ecco che cosa scriveva al professor Francesco Grassi: «L’ina- spettata nomina che mi fu conferita esce siffattamente dalla cerchia delle mie aspirazioni e supera talmente i miei meriti, che all’annunzio io rimasi come sbigottito, e stetti quasi trepidante ad aspettare gli apprezzamenti». Il grande scienziato trovava naturale che si potesse di- scutere la sua nomina! Con Galileo Galilei ebbe in comune la poca salute, oltre che il nome e il genio; ma visse molto meno dell’autore dei Massimi Sistemi. x k x Nacque il 30 ottobre 1847 a Livorno Piemonte, ora Livorno Ferraris, da Luigi e da Antonia Messia. Ebbe due sorelle e un fratello; era il terzo. Il padre era un far- macista attivo, affabile, galantuomo; il fratello era medi- co, combatté con Garibaldi nel °66 in Val di Ledro, poi a Monterotondo e a Mentana e mori combattendo a Digio- ne, nel gennaio del 1871. Il suo amore per lo studio si manifestò in maniera ori- ginale a sei anni. Un giorno, all’insaputa di tutti, prese libri e quaderni del fratello e andò a prender posto nella quarta elementare. Al maestro che gli domandò che cosa 259 era andato a fare a scuola, rispose: «Non voglio mica di- ventare un asino 10!». Fece il liceo a Torino e, a Torino, il 29 settembre 1869 prese la laurea d’ingegnere civile. Alcuni mesi dopo divenne assistente di fisica tecnica nel Museo In- dustriale, che ora è la Scuola d’ingegneria di Torino. Nel 1877 il titolare della cattedra, professor Codazza, chiese di essere messo a riposo e allora il Ferraris ebbe l’incari- co dell’insegnamento. Nel novembre del 1878 fu nomi- nato professore straordinario e l’anno dopo ordinario di fisica tecnica per merito eccezionale. Si era imposto con l’opera sulle proprietà cardinali degli strumenti diottrici, in cui aveva esposto elementarmente e con grande origi- nalità la teoria di Gauss e con cinque conferenze sull’illuminazione elettrica, che era l’argomento del giorno. In queste conferenze, nell’operetta di ottica e in altri lavori Galileo Ferraris dimostrava di essere insieme uno scienziato e un maestro. x k x Nel 1884, prendendo lo spunto dal trasformatore per correnti alternate di Gaulard e Gibbs presentato all’ Esposizione Internazionale di Elettricità di Torino, Galileo Ferraris cominciò a studiare a fondo con pieno successo i problemi che avevano fatto perdere la ragione al Gaulard. Meditò sul trasporto a distanza dell’energia elettrica e diede la teoria dei trasformatori statici e delle correnti alternate. In particolare, egli chiari che per cal- 260 colare l’energia di una corrente alternata si deve tener conto, oltre che dell’intensità e della forza elettromotri- ce, del cosi detto fattore di potenza, il quale, come lui fece vedere per primo, dipende dal ritardo o, come si dice, dalla differenza di fase tra la forza elettromotrice e l’intensità. Temo che a questo punto il lettore protesti: si va trop- po nel difficile! È vero, ma Galileo Ferraris è tutto in questi concetti e in altri non meno difficili. Volendo es- sere chiari oltre un certo limite, si rischia di non dir nul- la. La vera ragione della sua scarsa popolarità è che egli si è sempre mosso, da gran signore, in una sfera molto elevata, in cui i simboli matematici si possono conside- rare indispensabili. È un ingegno limpido come Ales- sandro Volta, ma richiede maggiore preparazione. La scoperta del campo magnetico rotante e l’inven- zione simultanea dei «motori Ferraris» non hanno niente di fortuito. Per lui erano una conseguenza della teoria elettromagnetica della luce, dei fenomeni della cosi det- ta luce polarizzata e delle proprietà delle correnti alter- nate. Una sera d’estate del 1885 Galileo Ferraris, girova- gando nei dintorni della caserma Cernaia a Torino, ri- fletteva appunto sulla teoria elettromagnetica e su quella della luce polarizzata e tutta un tratto gli venne l’idea del campo rotante. La luce è dovuta a oscillazioni elettriche: su questo non c’era da discutere. Ma le correnti alternate non sono anch'esse, in un certo senso, oscillazioni elettriche? Per- 261 ché coi due campi magnetici prodotti da due opportune correnti alternate non si deve ottenere, analogamente a quanto avviene con la luce polarizzata, un campo ma- gnetico rotante? Perché il lettore comprenda il ragionamento, occorre tener presente che, secondo la teoria ondulatoria svilup- pata da Agostino Fresnel, la luce è dovuta a vibrazioni che avvengono trasversalmente alla direzione secondo la quale si propaga il raggio luminoso. Nella luce natu- rale le oscillazioni avvengono in tutti i piani trasversali possibili; nella luce polarizzata, che si può ottenere in vari modi, per esempio facendo passare luce naturale at- traverso lo spato d’Islanda, le vibrazioni avvengono in- vece in un solo piano. Le vibrazioni della luce polariz- zata possono essere però, rettilinee o ellittiche e in parti- colare circolari; d’altra parte, ogni vibrazione ellittica o circolare si può supporre dovuta a date vibrazioni rettili- nee convenienti. Analogamente, secondo Ferraris, con due campi magnetici alternativi si deve ottenere un cam- po rotante. Ferraris quella sera vide subito come si poteva realiz- zare l’esperienza. Le correnti che producono i due cam- pi magnetici devono avere la stessa frequenza e devono avere una differenza di fase di un quarto di periodo; inoltre devono essere disposte ad angolo retto. Mi spie- go. Una corrente alternata semplice non ha, come la cor- rente continua, sempre lo stesso verso (cioè i due poli cambiano periodicamente di nome), né la stessa intensi- 262 tà. L'intensità e la forza elettromotrice cambiano ad ogni istante di valore, passando, ma non nello stesso tempo, dal valore zero a un massimo, poi scendendo a zero, cambiando senso fino a un minimo e risalendo a zero per poi ricominciare il ciclo. La durata di un ciclo si chiama periodo della corrente o, in altre parole, il perio- do è il tempo compreso tra due massimi o due minimi consecutivi. Il numero dei periodi al secondo si chiama frequenza. Due correnti alternate si dice che hanno una differenza di fase quando non assumono simultanea- mente lo stesso valore e si dicono sfasate di un quarto di periodo quando i massimi e i minimi dell’una coincido- no coi passaggi allo zero dell’altra. Galileo Ferraris capi che, analogamente a quanto av- viene in ottica (nel caso della luce polarizzata circolar- mente) e anche, ora possiamo dire, a quanto avviene in acustica e nella composizione dei moti di due pendoli, mandando in due spirali disposte ad angolo retto due correnti alternate (semplici) che abbiano una differenza di fase di un quarto di periodo, si doveva ottenere un campo magnetico rotante; anzi egli capi, pensando al cosi detto magnetismo di rotazione, come si poteva otte- nere la verifica sperimentale. Arago nel 1824 aveva ot- tenuto la rotazione di un ago magnetico facendo ruotare, al disotto di esso, un disco di rame; l’anno dopo Her- schel e Babbage avevano ottenuto il fenomeno inverso. Oggi sappiamo, e Ferraris lo sapeva, che si tratta di ef- fetti d’induzione elettromagnetica (correnti di Foucault). 263 La mattina dopo Galileo Ferraris, «recatosi — dice Riccardo Arnò — febbricitante d’emozione nel laborato- rio», fece preparare dal meccanico Clerici una spirale di rame e tolse l’altra da un galvanometro di Wiedemann, e le dispose ad angolo retto l’una nell’altra. Fece ricavare da un tubo di rame un cilindretto con un gancio su una delle basi e preparò personalmente, per mezzo di un al- ternatore Siemens e di un trasformatore Gaulard, le cor- renti che gli occorrevano, inserendole nelle due spirali. «Al meccanico — racconta Guido Grassi — che gli do- mandò a che cosa doveva servire tutto quell’apparec- chio, rispose che il cilindro avrebbe dovuto girare. Lo attaccò ad un filo e lo tenne sospeso egli stesso colla mano, e, appena chiuso il circuito, il cilindretto di rame cominciò infatti a girare». Il dispositivo è quello che, sulla tavola riprodotta, è denominato modello n. 1. I modelli n. 2 (ad asse oriz- zontale) e n. 3 (che non riproduciamo, e che è ad asse verticale) sono più grandi e il cilindro di rame, invece di essere sospeso, è portato da un albero metallico appog- giato su cuscinetti. Il modello n. 4 è un vero motore in- dustriale. I quattro cimeli, che si conservano nell’Istituto Nazio- nale di Elettrotecnica «Galileo Ferraris» di Torino che ci ha gentilmente mandato le fotografie, furono molto am- mirati a Chicago nell’Esposizione Internazionale del 1893. Alla partenza, nel porto di Genova, per un’immer- sione della nave su cui erano caricati, rimasero per alcu- ne settimane sott'acqua e subirono qualche danno. 264 Dal racconto che si è riferito risulta che il Ferraris ebbe la sensazione (e la diede al meccanico) che qualche cosa di nuovo e d’importante stava per accadere. Il suo ragionamento era logico, e logicissimo e quasi ovvio ci appare oggi, ma era sempre un ragionamento per analo- gia e la decisione non poteva esser data che dalla espe- rienza. Si deve aggiungere che se il grand’uomo non credette opportuno di dar subito l’allarme alle Accade- mie e meno che mai al pubblico, non tenne però nasco- sti gli apparecchi, come risulta tra l’altro da varie testi- monianze fatte a Torino davanti al notaio avvocato Er- nesto Torretta il 27 febbraio 1923. È opportuno insistere su questo punto perché non ci siano dubbi sulla questio- ne di priorità col Tesla. L’ingegner Ettore Thovez figlio di un collega del Fer- raris nel Museo Industriale Italiano e studente, allora, nel penultimo anno d’ingegneria, dice che nel 1885 Ga- lileo Ferraris andò a trovare suo padre e lo invitò a pas- sare nel suo laboratorio per vedere un nuovo esperimen- to. «Vi andai io pure — continua il Thovez — e ricordo che nella stanza, che era piena di apparecchi fra cui al- cuni generatori secondari del Gaulard, vidi un piccolo apparecchio (si tratta evidentemente del cimelio n. 1) formato da due matasse di filo delle quali una rotonda e una quadra normali fra di loro ed intersecantisi in una retta verticale; sospeso ad un filo, un piccolo cilindretto cavo, di rame, stava col suo asse sulla intersezione so- pradetta. 265 «Il Ferraris spiegò che mandava sulle due bobine due correnti alternate che era obbligato di ricavar dal suo al- ternatore Siemens che gli serviva per tutti i suoi esperi- menti sui trasformatori, e che si era procurato una diffe- renza di fase per mezzo di autoinduzioni e di resistenze. Il cilindretto si mise a ruotare velocemente. Scambiò i fili di una matassa coi reofori della linea ed il cilindretto che dapprima aveva girato a destra si fermò e girò a si- nistra. «Mise poi un bicchiere pieno di mercurio al posto del cilindretto ed il mercurio sotto l’azione delle due corren- ti prese a girare. Ci spiegò — è sempre il Thovez che rac- conta — che il Gaulard cercava senza successo un moto- re a corrente alternata, ed egli aveva cercato di ottenere un moto rotatorio per mezzo dei campi magnetici alter- nati e vi era cosi riuscito». Secondo il Thovez, che ha fatto un racconto sui suoi appunti scolastici, le prime esperienze nel campo rotante risalgono o agli ultimi giorni del maggio 1885 o ai primi di giugno. L’Arnò fissava la data all’agosto dell’’85. Si può essere sicuri di non sbagliare dicendo, come si fa dai più, estate del 1885. Nella celebre nota del 1888, il Ferraris dice: «Le esperienze, delle quali si fa cenno, fu- rono eseguite nell’autunno del 1885»; ma forse, più che alle prime esperienze dimostrative, intende accennare alle misure eseguite dopo. In ogni caso, l’anno della scoperta è, senza possibilità di contestazione, il 1885. Non deve meravigliare che l’annunzio ufficiale della scoperta sia stato dato, con la nota intitolata Rotazioni 266 elettrodinamiche prodotte per mezzo di correnti alterna- te, il 18 marzo 1888 all’ Accademia delle Scienze di To- rino e in seguito a insistenze dei professori Naccari e Bellati. Il Ferraris doveva completare l’importante lavo- ro sui trasformatori e sul campo rotante, voleva pubbli- care un lavoro esauriente e non una nota per prender data, che sarebbe stata in contrasto con la sua modestia e il suo disinteresse. Non è nemmeno strano che nella famosa nota egli ab- bia negato l’importanza industriale dei motori a campo rotante. Prima di tutto, come abbiamo detto, il Ferraris era poco sensibile all’importanza industriale di una sco- perta; e se a proposito del telefono aveva detto che le considerazioni pratiche gli sembravano non solo odiose ma indecorose, indecorosissime gli dovevano sembrare le considerazioni pratiche sul campo magnetico rotante che per lui era prima di tutto una bella idea. Si può ag- giungere che la fecondità e l’utilità pratica di un princi- pio non sempre si possono prevedere e nel 1888 il prin- cipio di Galileo Ferraris, volendo evitare ogni accusa di vanagloria, non poteva esser presentato come industrial- mente molto importante e senza dubbio nessuno poteva prevedere che avrebbe rivoluzionato l’industria. Non si deve dimenticare che la produzione industriale della corrente bifase e trifase non esisteva ancora e la necessità di costruire la rete di distribuzione dell’energia elettrica con almeno tre fili doveva sembrare un grave inconveniente dei motori a campo rotante, senz’accen- nare a un altro inconveniente di carattere energetico che, 267 come nota Guido Grassi, è comune a tutti i motori asin- croni (cioè che non richiedono per avviarsi una corrente di data frequenza) e che non poteva sfuggire al Ferraris. Pure negando l’importanza industriale del suo motore per il suo limitato rendimento, il Ferraris diceva che è possibile «studiare le dimensioni di esso in modo da au- mentarne notevolmente la potenza e migliorarne moltis- simo il rendimento», aggiungendo che il suo apparec- chio poteva esser utile, oltre che per esperienze da lezio- ne, come contatore elettrico. Ora sappiamo che in tutte queste affermazioni aveva ragione. I motori di Tesla erano più industriali di quelli di Fer- raris, ma la prima affermazione industriale del principio del campo rotante si ebbe nel 1891, all'Esposizione In- ternazionale di Elettricità di Francoforte sul Meno, per merito dell’ingegner Dolivo-Dobrowolsky, il quale riu- sci a trasmettere a 175 chilometri di distanza l’energia sviluppata da una turbina di trecento cavalli. Il Ferraris era a Francoforte, dove prese parte ai lavori del Con- gresso ed ebbe memorabili accoglienze. Occorre avver- tire che dalle lettere scritte da Francoforte all’ingegner Candellero non risulta che egli abbia trovato esagerata l’ammirazione che tutti gli dimostravano o che sia rima- sto sorpreso nel vedere che il campo rotante aveva una grande importanza industriale. Egli trovò tutto naturale. «La maggior soddisfazione — scriveva al Candellero il 17 luglio del 1891 — fu per me l’aver veduto come qui tutto sia pieno del Drehfeld oder Ferrarisschefeld, e come tutti attribuiscano a me l’onore dell’invenzione. Si 268 può dire che il Drehfeld (campo rotativo) forma la carat- teristica di questa esposizione; non solo esso serve di base alla grande trasmissione tra Lauffen e Francoforte, ma figura, si può dire, in tutte le mostre delle principali case. Le prime parole che Helmholtz mi diresse quando m’incontrò il primo giorno furono queste: “Ho visto a casa di Siemens le esperienze che egli sta facendo in base alla vostra ultima invenzione”. Dopo, in un pranzo (nel quale io sedevo alla sua destra) mi parlò continua- mente di ciò, e volle essere minutamente informato del processo della invenzione. Ieri incontrai un ingegnere della casa Schuckert, il quale mi mostrò subito con or- goglio che la sua casa utilizzava il Drehfeld e che questo andava bene». Il 21 settembre egli scriveva: «È certo che le esperienze attuali segnano un’epoca. Le epoche della trasmissione elettrica dell’energia sono per sommi tratti queste: nel 1873 all’Esposizione di Vienna Fontaine (di Parigi) fa funzionare una dinamo a corrente continua come motore; nel 1881, a Parigi, Mar- cel Desprez proclama la sua fede nella possibilità di su- perare grandi distanze alla condizione di far uso di alti potenziali; nel 1882, a Monaco, Marcel Desprez fa espe- rimenti infelici ma notevoli; nel 1884-86, tra Creil e Pa- rigi, lo stesso Desprez fa esperimenti infelici ma istrutti - vi. La difficoltà di ottenere e adoperare altissimi poten- ziali con correnti continue era enorme, insuperabile; la si può invece superare facilmente con le correnti alter- native; la trasmissione a grandi distanze con correnti al- 269 ternative è facile e sicura purché si abbia un motore elet- trico conveniente. Tale motore elettrico conveniente si presentò possibile dopo la scoperta del Drehfeld o cam- po rotativo». x k x Galileo Ferraris aveva, come si vede, ben compreso il suo motore, anche sotto l’aspetto industriale; e nel 1893, con le memorie: Di un metodo per la trattazione dei vettori rotanti e alternativi, contribui in modo decisivo alla teoria dei motori asincroni. Del successo pratico della sua scoperta si compiacque ma non senti mai il bisogno di uscire dal campo scienti- fico per cercare di trar lucro dalla scoperta. «Finora — scrisse a Guido Grassi il 23 luglio del 1891 — a questo riguardo le cose per me vanno molto bene; senza che io me ne sia occupato ho visto a Francoforte che tutti attri- buiscono a me la prima idea, il che mi basta. Gli altri facciano i denari, a me basta quel che mi spetta: il nome». Nel 1893 il Ferraris partecipò come delegato unico del nostro Governo al Congresso di Chicago e vi ebbe grandi onori. Sulla questione di priorità col Tesla nessu- no fece parola, secondo il suo desiderio. Tutti gli attri- buirono la prima idea; «e ciò — egli scrisse — in America è molto». Alla fine dell’anno precedente le sue condizioni di sa- lute che da parecchio erano state giudicate precarie, peg- 270 giorarono, tanto che tentò di far sospendere le sue lezio- ni d’elettrotecnica; ma la sua domanda non poté essere accolta perché il suo corso era stato inserito nell’ Avviso del Museo Industriale. La sera del 31 gennaio, uscendo dal teatro, si senti la febbre. Il giorno seguente andò lo stesso a far lezione; ma dopo mezz'ora, vinto dalla polmonite: «La macchina è guasta — disse —; non posso continuare». Sulla questione col Tesla non è il caso d’insistere dopo le pubblicazioni fatte nell’ Elettrotecnica dal Re- vessi e dal Silva, tanto più che non ha niente che fare con quella di Pacinotti e Gramme. Tesla è senza dubbio un grand’uomo, anche se non si tien conto dei motori a campo rotante. A questi motori arrivò indipendentemen- te dal Ferraris e per un’altra via, dopo di lui. Il primo brevetto del Tesla è stato ottenuto il primo maggio del 1888, mentre la Nota del Ferraris è stata pubblicata il 18 marzo: ufficialmente non c’è da discutere. Ma la priorità del nostro scienziato è vera in ogni caso, perché se è esatto che la domanda del Tesla è del 30 novembre 1887, è innegabile che Galileo Ferraris fece la grande scoperta in quella sera d’estate del 1885. 271 IL CENTENARIO DI CROOKES" L'Italia non è e non può essere assente alla celebra- zione del centenario di William Crookes, non solo per il valore dell’uomo ma perché la sua opera scientifica ha avuto, da noi, continuatori e critici intelligenti. Noi ci associeremo alla celebrazione, facendo un’analisi minu- ta, per quanto è possibile in un quotidiano, della sua opera di scienziato e di spiritista. Sullo scienziato non è nemmeno possibile la discus- sione: è un classico dell’esperienza. Cominciò come chimico sotto la guida di un insigne maestro di cui fu anche assistente: Augusto Guglielmo Hofmann, diretto- re del Collegio Reale di Chimica di Londra; e anche come chimico ha grandi benemerenze: la fondazione, nel 1859, della rivista Chemical News, che diresse fino al 1901, e la scoperta del tallio per via spettroscopica, che segui immediatamente (1861) a quella del rubidio e del cesio, fatta dai fondatori dell’analisi spettrale, Kirch- hoff e Bunsen. Del tallio, il Crookes determinò anche il peso atomico, ciò che allora non era tanto facile. Sem- pre in materia di analisi spettrale, ha il merito di aver di- mostrato che l’elio trovato in laboratorio era identico a quello scoperto nel sole. * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 7 ottobre 1932. 272 Nel 1874, Crookes inventò il radiometro e ne inter- pretò il movimento come effetto della pressione della luce prevista per via teorica da Maxwell e dal nostro Bartoli il quale ne tentò la dimostrazione sperimentale e non ci riusci, come ha mostrato recentemente l’Amerio, per mancanza di sensibilità nel dispositivo adoperato. La prova decisiva fu data dal Lebedew nel 1899. L’interpretazione di Crookes — tutti sono da un pezzo d’accordo — non regge. Il radiometro ruota, come capi- rono per i primi Reynolds e Stoney, per effetto degli urti delle molecole gassose e non per effetto della pressione di Maxwell e Bartoli. Occorre tuttavia osservare che quando Crookes presentò la sua teoria, essa non era poi tanto strana, né l’ipotesi che fini col trionfare era ancora evidente. Egli ebbe del resto il merito di essersi battuto con onore, costringendo gli avversari a moltiplicare le prove sperimentali finché il dubbio non fu più ammissi- bile. Per noi italiani, è motivo di grande soddisfazione il fatto che Augusto Righi, allora giovanissimo, portò alla controversia un contributo decisivo con le sue «Espe- rienze col radiometro di Crookes» pubblicate nella Scienza applicata di Bologna nel 1876. Ci consenta il lettore d’insistere su questo lucido scritto del Righi che pochissimi, a quanto pare, hanno letto. Per confutare l’ipotesi di Crookes, Schuster aveva sospeso un radio- metro con due fili e aveva fatto vedere che appena il mulinello, sotto la influenza dei raggi calorifici, si mette in rotazione, l’apparecchio eseguisce una piccola rota- zione in senso contrario per ritornare nella posizione ini- 273 ziale quando il mulinello si ferma. Il Crookes aveva ri- sposto che l’esperienza non è decisiva perché facendo galleggiare il radiometro sull’acqua, esso ruota lenta- mente nello stesso verso del mulinello. Augusto Righi, ripetendo l’esperienza di Crookes con maggiore preci- sione (muni il radiometro di specchietto e ne osservava i movimenti con cannocchiale e scala) si accorse che nell’istante in cui i raggi calorifici cadono sulle palette, le pareti del radiometro girano invece in senso opposto al mulinello, ciò che era sfuggito al Crookes che osser- vava a occhio nudo; in seguito, il mulinello va accele- rando la rotazione fino a che gira uniformemente, e l’apparecchio va rallentando il movimento finché si fer- ma. Intercettando i raggi calorifici, la velocità delle pa- lette diminuisce e il radiometro si mette a girare, al con- trario di prima, nel verso del mulinello. «In tal caso — nota il Righi — tutto l’apparecchio è da questo evidente- mente trascinato, per quel po’ d’attrito che esiste nel punto di sospensione». Con questa esperienza e varie al- tre che non potrebbero essere più convincenti, il Righi confermava e completava l’esperienza di Schuster e sta- biliva che «la causa della rotazione del mulinello sotto l’influenza di una radiazione, risiede nell’interno dell’apparecchio». Il Righi mise poi il radiometro a gal- leggiare sull’acqua in posizione capovolta, in modo da rendere per attrito il mulinello solidale con l’apparec- chio; ma fatta cadere un’intensa radiazione sulle palette, non ottenne il minimo spostamento dando cosi una nuo- va prova che Crookes si era ingannato. Con altre espe- 274 rienze, il Righi stabili (e ne spiegò le ragioni) che la ve- locità angolare del mulinello varia in senso inverso alla sua temperatura, e che ad ogni riscaldamento della pare- te del radiometro corrisponde una forza ripulsiva sulle palette e ad ogni raffreddamento una forza attrattiva. Egli diede infine una teoria, a cui oggi nulla c’è da mo- dificare, delle ordinarie rotazioni del mulinello. Il Righi distingue quattro casi, sul primo dei quali, che può ser- vire per tutti (caso del radiometro esposto ad una radia- zione calorifica), si esprime cosí: «Le faccie annerite delle palette, si riscaldano più delle faccie lucenti, in virtù del loro maggior potere assorbente. Le molecole di gas che su di esse si riflettono, aumentano quindi di ve- locità, assai più di quelle che toccano le faccie più fred- de; perciò le faccie nere devono muoversi in senso op- posto delle molecole riflesse sulla loro superficie e cosi dar luogo alla rotazione nel senso ordinario. Le moleco- le del gas, che hanno aumentato la loro velocità sulle faccie nere, urtano le pareti di fronte, e producono la ro- tazione dell’apparecchio, quando esso pure sia mobile, in senso contrario al molinello». Il Righi spiega pure perché i fenomeni radiometrici non possono avvenire che in un gas estremamente diradato. Occorre — egli dice — che la media escursione delle molecole fra due urti reciproci consecutivi sia maggiore della distanza fra le pareti del radiometro e le palette, perché in caso con- trario le molecole che «riflettendosi sopra una superficie hanno subito una variazione di velocità, prima di giun- gere ad un’altra superficie, urterebbero le altre molecole 275 del gas, e la pressione si farebbe in breve ovunque uni- forme». La nota del Righi è, come si vede, un piccolo capola- voro sperimentale, freschissimo come quando fu scritto. Se la tesi del Crookes resta demolita, non bisogna di- menticare che senza di essa, né il Righi né altri fisici avrebbero fatte tante loro esperienze; e senza il radiome- tro, forse nemmeno Lebedew avrebbe dimostrato speri- mentalmente la pressione della luce. In ogni caso, se l’ipotesi è caduta, il radiometro di Crookes resta. Di molto maggiore importanza sono le ricerche del Crookes sui raggi catodici. La conferenza sulla «materia radiante» in cui sono riassunte (Sheffield, 22 agosto 1879) è una delle più belle conferenze scientifiche che esistano; e si capisce perché sia diventata parte integran- te di tutti i corsi di elettricità. È originalissima, è tanto viva che sembra che le esperienze sorgano li per lí per incanto, e nella conclusione, come dice lo Stòrmer, ha chiari accenni profetici: «In realtà, siamo al limite in cui materia ed energia paiono confondersi, oscuro campo fra il noto e lignoto, al quale sono stato sempre partico- larmente attratto. In questo campo inesplorato di sottili, meravigliose e profonde realtà fondamentali, troveranno soluzione, oso credere, i massimi problemi scientifici del futuro». I raggi catodici si ottengono facilmente mediante la scarica elettrica nei gas molto rarefatti. Molti lettori li avranno visti e tutti potranno averne un’idea leggendo gli aurei volumi che il Righi scrisse per il pubblico. Le 276 figure che pubblichiamo sono tratte appunto dal fortuna- to volume del Righi: La moderna teoria dei fenomeni fi- sici. Le figure rappresentano tubi di vetro in cui si può fare il vuoto per mezzo di una buona macchina pneuma- tica (o di due, una Geryk e una Gaede, associate); alle loro estremità sono saldati due fili di platino che portano due laminette a elettrodi di alluminio: a (anodo) in co- municazione col polo positivo di una sorgente ad alto potenziale, c (catodo) in comunicazione col polo negati- vo. Se la pressione dell’aria contenuta nei tubi è quella atmosferica e si fa passare la scarica, si ottiene una scin- tilla rumorosa e brillante; se la pressione si abbassa a un decimo di atmosfera, si ottiene una luminosità come nella figura 1. In corrispondenza del polo positivo si ha una luce rosea a contorni sfumati, al catodo si ha invece una luce violacea e in mezzo lo spazio oscuro di Fara- day. Proseguendo nella rarefazione, la luce positiva, del- la quale non ci occuperemo più, va diventando più sfu- mata, si stratifica e si ritira sempre più verso l’anodo, fino a scomparire del tutto. La luce negativa prima si diffonde sul catodo come nella figura 2; poi si divide in due strati come nella figura 3 (lo spazio interposto è poco luminoso e si chiama spazio oscuro di Hittorf o di Crookes, o anche, per non far torto a nessuno, spazio oscuro del catodo); infine anche la luce negativa che si è intanto andata sempre più diffondendo e attenuando come nella figura 4, finisce anch’essa, quando si arriva a circa un milionesimo di atmosfera, con lo sparire del tutto. Prima però di questo momento, le pareti del tubo 277 che sono di fronte al catodo assumono una fluorescenza verdastra che è dovuta a raggi che provengono dal cato- do e appunto per questo si chiamano raggi catodici. Lo scopritore dei raggi catodici si può considerare Hittorf che fu precorso da Plücker. Hittorf infatti, ripren- dendo alcune esperienze di Pliicker, il quale aveva nota- to una luminosità in vicinanza del catodo di un tubo a vuoto attraversato dalla scarica elettrica, si era accorto che la luminosità era prodotta da raggi provenienti dal catodo e propagantisi in linea retta, tanto che, interpo- nendo un oggetto tra il catodo e la parete opposta si po- teva ottenere l’ombra dell’oggetto. Questi fatti, per quanto importanti, erano rimasti sen- za seguito. Fu per merito di William Crookes che otten- nero uno sviluppo addirittura rivoluzionario. Valendosi di nuovi tubi che si diffusero rapidamente col suo nome e si adoperano ancora dappertutto, il geniale scienziato riottenne l’ombra elettrica e dimostrò, con esperienze che son diventate classiche, che i raggi catodici produ- cono effetti meccanici e termici. Egli emise inoltre l’ipotesi della «materia radiante». L'espressione è di Fa- raday, che nel 1816 aveva accennato alla possibilità di un quarto stato della materia (oltre il solido, liquido e gassoso), che fosse lontano dallo stato aeriforme quanto questo è lontano dallo stato liquido. Il Crookes vide nei raggi catodici questa materia allo stato radiante o mate- ria-radiazione. Secondo lui, i raggi catodici erano mole- cole d’aria allo stato radiante, elettrizzate negativamen- te. Oggi diciamo che si tratta di particelle elementari di 278 elettricità negativa, di elettroni: sostanzialmente è la stessa cosa. Il merito di Crookes è tanto più grande in quanto quasi tutti i fisici del tempo e in particolare il grande Hertz sostenevano invece che si trattasse di ra- diazioni elettromagnetiche. Anche qui dobbiamo citare con compiacimento Augusto Righi, il quale accettò l’idea di Crookes e la confermò con le sue ombre elettri- che, ottenute a pressione ordinaria. Altre conferme decisive ebbe l’ipotesi di Crookes da Perrin, il quale dimostrò direttamente che i raggi catodi- ci possiedono carica negativa; e da J. J. Thomson e da Majorana, i quali dimostrarono che i raggi catodici han- no velocità minore di quella della luce e non possono perciò essere di natura elettromagnetica. Studiando i raggi catodici, Thomson fondò inoltre la teoria elettroni- ca e Roentgen scopri i raggi X. Anche la radioattività è una lontana conseguenza delle esperienze di Crookes. AI Crookes si deve pure un piccolo apparecchio (un tubetto contenente radio e uno schermo fluorescente e una lente d’ingrandimento) detto spinteriscopio, col quale si riesce e vedere lo scintillio prodotto dai raggi alfa, anzi addirittura a contare le particelle alfa delle so- stanze radioattive. La gloria di Crookes come scienziato non è dunque un’opinione. Vedremo nel prossimo arti- colo se si può dare lo stesso giudizio sul Crookes spiriti- sta. 279 CROOKES SPIRITISTA” Al recente Congresso delle scienze si è parlato, si può dire, di tutto, dal nucleo atomico alla stratosfera, dalle vitamine ai carburanti, dal piano regolatore di Roma agli ultimi progressi delle comunicazioni ferroviarie, dalla crisi di crescenza della psicologia al reumatismo e ai nuovi prodotti antimalarici, dagli scavi di Ercolano agli studi etruscologici, dall’ inesistente problema econo- mico dell’oro al gravissimo problema della difesa dagli attacchi aerei, dalla bonifica integrale ai moderni criteri d’igiene di circolazione nelle metropoli, dal concetto di esperienza allo spirito dei tempi nuovi — e si potrebbe continuare per un pezzo; ma non si è parlato di spiriti- smo, di occultismo e di altri miracolismi del genere. Si vede che tra questi ismi e la scienza non c’è una grande cordialità. La colpa è degli spiritisti o degli scienziati? William Crookes, delle cui ricerche spiritistiche esce una bella edizione a cura di Emilio Servadio (Milano, Libreria Lombarda) risponderebbe probabilmente, e non senza fondamento, che la colpa è degli uni e degli altri ma forse si troverebbe in imbarazzo se tentasse di darne le ragioni; né sappiamo come farebbe a spiegarci la di- versa fortuna e il differente valore scientifico delle sue * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 21 ottobre 1932. 280 ricerche sulla materia radiante e di quelle sui fenomeni dello «spiritualismo». Le ricerche sulla materia radiante fanno oramai, come si è visto, parte integrante della fisi- ca moderna. Si sono chiarite, si sono precisate e splen- dono più di prima. La materia radiante di Crookes, an- che se nel caso dei raggi catodici si preferisce chiamarla elettricità radiante, esiste senza dubbio: e anche i raggi luminosi e le altre radiazioni sia elettromagnetiche che corpuscolari sono in fondo materia radiante, dopo Louis de Broglie; le esperienze di Crookes sui raggi catodici si continuano a ripetere nei corsi di fisica con viva soddi- sfazione degli studenti. I raggi catodici sono, come pen- sava Crookes, corpuscoli carichi di elettricità negativa, fanno ruotare leggeri mulinelli, arroventano una lami- netta di platino opportunamente disposta, producono bellissimi effetti di fluorescenza e sono l’origine dei più sorprendenti progressi della fisica degli elettroni. Le ricerche spiritistiche rimangono ancora ai margini della scienza. Anche il Servadio che fa di Crookes spiri- tista un’affettuosa e intelligente apologia, pure ritenendo che in materia di spiritismo non siamo più ai primi pas- si, soggiunge che siamo «lontanissimi da una meta fina- le che ancòra assai oscuramente s’intravede»: conviene cioè che, come dicevamo, lo spiritismo non è ancora una scienza. Crookes cominciò molto bene e durante tutte le sue ricerche spiritistiche disse verità preziose. Egli dichiarò più volte che non aveva e non voleva avere preconcetti in nessun senso e che voleva studiare i fenomeni media- 281 nici col metodo degli accademici del Cimento, come puri fatti, senza fare ipotesi, né nascose il suo fastidio per la pseudo-scienza e la pseudo-religione degli spiriti- sti che conoscono tutto a parole e ripugnano alla verità e alla serietà della scienza. «Lo spiritualismo — egli osser- vava — cosi com’è inteso dai suoi più devoti seguaci, è una religione. I medium, generalmente giovani membri della famiglia, sono vigilati con un esclusivismo e una gelosia che un estraneo difficilmente può vincere. Ap- passionati e coscienziosi credenti nella verità di certe dottrine ch’essi pensano confermate da manifestazioni credute miracolose, la presenza di uno scienziato inve- stigatore è per essi una profanazione dell’altare. Come favore personale mi fu concesso varie volte di assistere a riunioni che avevano piuttosto l’aspetto di cerimonie religiose che di sedute spiritualiste. Ma il venire ammes- so per eccezione una o due volte, come uno straniero poteva esserlo ai misteri eleusini o un pagano far capoli- no nel Sancta Sanctorum, non è certo il modo più adatto per accertare fenomeni e scoprire leggi. Appagare la cu- riosità è una cosa, condurre una ricerca sistematica è un’altra; ed io cerco continuamente la verità». Bisogna tuttavia convenire che anche il Crookes fini per convertirsi a questa strana religione e che perciò le diffidenze che i suoi esperimenti spiritistici suscitarono nel mondo scientifico non erano del tutto ingiustificati. «A mio giudizio — egli dichiarò il 28 novembre 1916 — essi (i fenomeni medianici) provano i richiami che in loro favore sono stati fatti da parecchi miei colleghi e 282 amici della Society for Psychical Research, in quanto accennano all’esistenza di un altro ordine della vita umana in continuazione di questa, e dimostrano la pos- sibilità, in certe circostanze, di comunicare fra questo e l’altro mondo». Non è questa l’essenza della religione medianica? E non sono veri riti religiosi le esperienze fatte da Crookes con miss Cook, la quale sarebbe stata la medium dello spirito di Katie King o Annie Morgan che fosse? Il commento a queste esperienze, pubblicato nel giornale The Spiritualist del 1874 e ristampato nella traduzione di J. Alidel delle Ricerche del Crookes (Pari- gi, Librairie des sciences psychologiques), a me sembra inattaccabile dal punto di vista del Crookes. Quelle esperienze sarebbero una delle prove più decisive della religione dello spiritismo e non si capisce come lo scienziato inglese non lo abbia apertamente riconosciu- to. Ma forse è per questo che egli non si decise mai a pubblicare il trattato scientifico che aveva promesso. L’abbandono delle ricerche spiritistiche si deve molto probabilmente a una crisi di coscienza. Il Crookes era troppo scienziato per accettare il credo quia absurdum e troppo convertito o compromesso per tornare senz'altro alla scienza. Le ricerche medianiche del Crookes lasciano perples- so chi le esamini dal punto di vista scientifico, e le diffi- denze dello Stokes e della Società Reale di Londra a me sembrano naturali; né si può escludere che il comunica- to dello Spectator sul rifiuto della memoria di Crookes su una «nuova forza» avesse carattere ufficioso, tanto è 283 in armonia con le dichiarazioni dello Stokes. «La Socie- tà Reale — scriveva lo Spectator — sarebbe stata disposta, dicono, a prendere in considerazione le comunicazioni affermanti l’esistenza di una forza naturale non ancora conosciuta, se quelle comunicazioni avessero contenuto prove sufficienti a stabilire la possibilità; ma per l’improbabilità dei fatti attestati dal signor Crookes e per la completa mancanza di precisione scientifica nelle sue affermazioni, la sua memoria non fu ritenuta degna dell’attenzione della Società Reale». Il Crookes infatti, per provare la nuova forza si vale del medium signor Daniele Douglas Home a cui fa ese- guire l’esperienza della fisarmonica. Il signor Home non ha l’aspetto del mistificatore ma l’aspetto classico dello spiritista dell’Ottocento. Ha i capelli irti come se fosse elettrizzato, lo sguardo e l’atteggiamento della persona tra di spiritato e di uomo che le beve. Dev’essere stato molto divertente. Il signor Home prese la fisarmonica tra il pollice e il medio dal lato opposto alla tastiera e, dopo che fu aperta la chiave di basso la introdusse in una gabbia posta sotto un tavolino ma in modo che fosse visibile dal Crookes e da altri spettatori. «Questi videro ben presto la fisarmonica ondeggiare curiosamente; quindi se ne sprigionarono alcuni suoni, e infine varie note furono sonate una dopo l’altra. Mentre ciò avveni- va, il mio assistente si portò sotto la tavola e dichiarò che la fisarmonica si stendeva e si contraeva; nello stes- so tempo la mano del signor Home, che la reggeva, ap- pariva perfettamente immobile, e l’altra riposava sulla 284 tavola. I vicini del signor Home videro, poi, la fisarmo- nica muoversi, oscillare, girare dentro la gabbia, e suo- nare nel medesimo tempo». In seguito ci fu qualcosa di più sorprendente «poiché il signor Home abbandonò la fisarmonica, traendo addi- rittura la mano fuori della gabbia e ponendola nella mano di un suo vicino, mentre l’istrumento continuava a sonare senza che alcuno lo toccasse e nessuna mano gli s’accostasse». Il Crookes dichiara che non si convinse della realtà di questo fatto e di altri simili «se non dopo averli consta- tati almeno sei volte circa e averli esaminati con tutto l’acume critico» di cui era capace. Di queste varie espe- rienze egli non dà però 1 particolari, anzi parrebbe che l’esperienza della fisarmonica descritta sia stata unica, almeno se teniamo presenti le circostanze indicate da Crookes e la testimonianza di William Huggins il quale scrisse al Crookes: «Le bozze del suo articolo contengo- no, a mio avviso, un’esatta relazione su quanto avvenne da Lei in mia presenza. Il posto che occupavo presso la tavola non mi consenti di vedere la mano del signor Home staccarsi dalla fisarmonica, ma questo venne atte- stato da Lei e dalla persona che sedeva dall’altra parte vicino al signor Home. Mi sembra che gli esperimenti dimostrino l’opportunità di indagini ulteriori; comunque desidero sia ben chiaro che io non mi pronunzio in alcun modo circa la causa dei fenomeni accertati». D'altra parte il Crookes ci fa sapere che per varie ra- gioni tra le quali gl’inesplicabili alti e bassi del signor 285 Home, «solo di rado accadde che un risultato ottenuto una volta, si sia potuto poi confermare e controllare con apparecchi specialmente allestiti». I fenomeni perdono cosi ogni carattere scientifico e si abbassano a semplici perturbazioni. Io trovo molto strano che il Crookes non abbia cerca- to di fare uno studio esauriente dell’esperienza della fi- sarmonica (o delle altre), in modo da mettere fuori dub- bio che il fenomeno non si può spiegare con le forze co- nosciute, e che non abbia cercato d’indagarne le leggi. Davanti ai raggi catodici, egli si è comportato in un modo del tutto diverso e bisogna convenire che con tutte le sue esperienze spiritistiche egli ci sorprende ma non ci convince. Perché si è valso della fisarmonica? Egli ci risponde che la fisarmonica è facilmente trasportabile e non consente trucchi; ma una tromba o un semplice tubo sonoro sarebbero evidentemente preferibili. Poi 10 non sono affatto convinto che con la fisarmonica non siano possibili trucchi, anzi ritengo che gl’illusionisti siano capaci di rifare l’esperienza del signor Home. L’esperienza della signorina Cook è più stupefacente. Questa medium si mette sdraiata al buio e cade assopita. Allora appare un’altra donna, Katie, la quale parla, si la- scia abbracciare, si lascia tagliare una ciocca di capelli e poi sparisce non si sa come. Io non pretendo di spiegare né questo né altri fatti riferiti dal Crookes. Affermo sol- tanto che essi non sono fenomeni scientifici. Siamo su un terreno infido e senza nuove indagini, nulla si può dire di preciso. Trucchi, illusioni, allucinazioni non sono 286 da escludere. Lo studio andrebbe ripreso. Se ne dovreb- bero interessare non solo i fisici ma anche i fisiologici e 1 medici. Fino a prova contraria, nonostante l’autorità di Crookes io credo che anche i fatti stessi siano incerti. 287 LA SIGNORA CURIE" È morta, come i lettori sanno, la mattina del 4 luglio, nel sanatorio di Sancellemoz presso Sallanches, nell’Alta Savoia, di un’anemia perniciosa alla quale non sono state estranee le sue famose esperienze sulla ra- dioattività. Era andata nel sanatorio a malincuore, in se- guito alle insistenze di vari medici, e di li aveva ancora continuato a dirigere l’Istituto del Radio. Ma il caso era gravissimo e divenne subito disperato, sicché, dopo due o tre giorni, è sopravvenuta la catastrofe. Era assistita dalle figlie, dal genero, F. Joliot: e ha conservato la luci- dità di mente quasi fino all’ultimo. È stata sepolta ac- canto al marito a Sceaux, dopo funerali di carattere strettamente familiare: ha voluto scomparire in silenzio. Le commemorazioni solenni si faranno alla riapertura dell’anno accademico, per iniziativa del Ministero di Educazione nazionale. La rivedo come la vidi al Convegno di fisica nuclea- re. Fra una vecchina vestita di nero, linda, semplice, buona. Ispirava simpatia e confidenza, tanto che veniva la voglia di chiamarla mamma. Ai tempi del radio dove- va avere il fascino della Berthe Morisot di Manet. * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 21 luglio 1934. 288 Fra nata Maria Sklodowska, a Varsavia, il 7 novem- bre 1867. Suo padre insegnava fisica e chimica nel Col- legio di Varsavia e la piccola Maria gli faceva da assi- stente; sicché, com’è stato ben detto, le sue prime bam- bole furono le provette, i matracci e le storte. Implicata in movimenti «sovversivi» studenteschi, cioè in movimenti miranti all’indipendenza della sua pa- tria, Maria Sklodowska fuggi all’estero e andò a finire gli studi a Parigi alla scuola di Henri Becquerel. A Pari- gi, nel 1894, conobbe e amò uno scienziato eminente e un nobilissimo spirito, Pierre Curie, che sposò nel ’95. Da lui ebbe le due figlie Irene ed Eva. Irene è Madame Joliot, ben conosciuta dai nostri lettori. Nel 1898 Mada- me Curie o, come lei preferiva di chiamarsi, Madame Pierre Curie scopri, in collaborazione col marito il radio e il polonio e molte loro importanti proprietà. La fisica era allora in uno dei suoi periodi più belli: all’alba del nuovo mondo che poi fu sistemato con la teoria degli elettroni. William Crookes aveva fatto le sue esperienze sui raggi catodici, che considerava come una materia allo stato radiante. Subito dopo di lui, studiando i raggi catodici, Röntgen scopriva i raggi X. E poiché questi nuovi raggi misteriosi avevano origine dalla re- gione fluorescente del tubo di Crookes, Poincaré aveva emesso l’ipotesi che i raggi X fossero caratteristici della fluorescenza, che cioè tutti i corpi fluorescenti li doves- sero emettere, indipendentemente dai raggi catodici. Vo- lendo verificare quest’ipotesi, Henri Becquerel scopri la radioattività dell’uranio. La giovine Madame Curie si 289 appassionò agli studi del maestro e seppe andare assai più oltre. Essa vide che un composto di uranio aveva una radioattività maggiore di quella dell’uranio che con- teneva. Essendo la radioattività una proprietà atomica, come aveva compreso Becquerel, il composto doveva contenere un corpo più radioattivo dell’uranio. Il marito fu dello stesso parere e cosi i due coniugi si misero feb- brilmente alla ricerca del nuovo elemento radioattivo e trovarono il radio e il polonio. Fu una delle ricerche più laboriose che si possano immaginare, giacché, per otte- nere qualche centigrammo di un sale di radio, si dovet- tero trattare diverse tonnellate di pechblenda di Joa- chimsthal: e un capolavoro d’intelligenza e di pazienza, anche per gli scarsissimi mezzi di cui i due ricercatori disponevano. Non è il caso di stare a sottilizzare sulla parte avuta da ciascuno nella scoperta. Pierre Curie era un uomo di grande ingegno ed era valentissimo in materia di fisica sia dal lato teorico che da quello sperimentale. Dal pun- to di vista fisico, il suo contributo fu certamente notevo- le ed essenziale. La Signora ebbe però l’iniziativa della ricerca e contribui alla scoperta con l’intelligenza, la te- nacia e la grande competenza chimica. La scoperta del radio e del polonio si deve principalmente a lei. Del re- sto, dopo che, nel 1906, Pierre Curie fu travolto da un carro, Madame Curie continuò a lavorare e riusci nel 1910 a ottenere il radio allo stato metallico. E cosi men- tre nel 1903 aveva avuto metà del premio Nobel per la fisica insieme al marito pei lavori sui raggi delle sostan- 290 ze radioattive (l’altra metà fu data al Becquerel, «scopri- tore della radioattività spontanea»), nel 1911 ebbe da sola il premio Nobel per la chimica per la scoperta del radio e del polonio, per avere isolato il radio allo stato metallico e averlo definito rigorosamente e per le ricer- che fatte sui composti del radio. Pochi premi Nobel sono stati dati cosi felicemente: Madame Curie è la più grande scienziata del suo tempo e di tutti i tempi. Con le scoperte, i coniugi Curie divennero strepitosa- mente celebri. Oggi possiamo dire non solo che non ci fu esagerazione ma che la radioattività era assai più nuova di come si poteva credere dai più entusiasti. Con le scoperte dei Curie e con quelle fatte dopo da altri fisi- ci tra i quali va citato il Rutherford, appariva chiaro che l’atomo era un mondo complesso che poteva disgregarsi e si disgregava effettivamente nelle sostanze radioattive. Il radio si trasformava spontaneamente nell’emanazione, che è un gas luminoso nell’oscurità, il quale, aderendo ai corpi circostanti, li rende radioattivi; si trasformava nel radio A, nel radio B e cosi via fino al radio F o polo- nio. Il radio emetteva calore, emetteva radiazioni e il suo peso non diminuiva. Fu persino affacciata l’ipotesi che il principio della conservazione dell’energia non fosse più valido. Ora vediamo che la radioattività non appartiene pro- priamente alla fisica atomica ma a quella nucleare; che essa dimostra non solo che l’atomo è complesso ma che lo stesso nucleo è complesso e può disgregarsi. Che il principio della conservazione dell’energia possa non es- 291 ser valido non sorprende più. Per spiegare l’emissione dei raggi beta dalle sostanze radioattive anche Bohr ha dovuto supporre qualcosa di simile. Negare la conserva- zione dell’energia non significa più ammettere il moto perpetuo. Oggi si parla, con molto fondamento, di elet- troni di materializzazione (la frase è di Madame Curie), cioè di coppie di elettroni dei due segni che risultino dalla trasformazione di un atomo di luce. Non sappiamo tutti che l’onda e il corpuscolo, l’energia e la materia si possono distinguere ma non separare? Nulla di strano che ciò che prima credevamo energia si trasformi in «materia». Si tratta sempre della trasformazione di una forma di materia-energia in un’altra. Non solo i raggi catodici sono materia radiante, materia-radiazione (è l’idea di Louis de Broglie) ma anche i raggi luminosi e i raggi X (Planck e Einstein). Che ci sia ancora molto da approfondire, specialmente dal punto di vista filosofico, è verissimo. Madame Curie è morta dopo aver visto la nuova gio- vinezza della radioattività, che non è meno meravigliosa della prima: e dopo aver visto che a questa nuova ra- dioattività hanno portato un contributo essenziale la fi- glia e il genero nel laboratorio da lei diretto e sotto la sua vigilanza. Non sappiamo immaginare una più alta felicità. 292 AUGUSTO RIGHI" Da quando ebbe l’uso della ragione — come si com- piaceva di ricordare — fino alla morte, Augusto Righi dedicò tutte le sue energie alla fisica; ma chi, per questo, vedesse in lui soltanto uno specialista, si lascerebbe sfuggire il carattere fondamentale della sua personalità. Il Righi fu soprattutto un uomo intero. Chi ricorreva a lui perché gli chiarisse qualche dubbio o qualche diffi- coltà sperimentale, si accorgeva immediatamente che il Maestro era non solo una mente lucida e sicura, ma una grande forza morale. A contatto con lui, si sentiva che la scienza non è una sterile esercitazione accademica ma un’attività che investe tutta la vita. Quest'uomo ch’era sempre all’avanguardia del movi- mento scientifico era certo un uomo moderno, ma senza le ansie, le perplessità, i decadentismi che hanno tor- mentato la coscienza italiana dal Petrarca e soprattutto dal D’ Annunzio in poi. Fin da ragazzo, si trovò come per istinto sulla via del- la fisica sperimentale, e andò avanti, senza fermarsi e senza distrarsi. Coscienza virile, preferi cercare con umiltà la verità concreta, anche se potesse sembrare pic- * Pubblicato ne «L’Arduo», 1922, p. 125; ristampato come in- troduzione all’antologia Galileo, Milano, 1925. 293 cola a chi vorrebbe, con gesto da titano impotente, con- quistare le nuvole; uomo di fede calmo e contento, non senti mai il bisogno di trascendere la sua scienza, né di complicarla con teorie metafisiche, o di assumere atteg- giamenti messianici o tribunizi. Programma e opere, scienza e vita, erano una sola cosa per lui. Egli, in una parola, aveva già realizzato quell’esigenza di concretez- za piena che ai più vigili idealisti odierni sembra la ca- ratteristica dei tempi nuovi. Sotto certi punti di vista, somiglia al Verga, il quale aderisce cosi pienamente alla sua arte da riuscire, come dicono, impersonale, senza pensare che cotesta imperso- nalità è la più alta affermazione lirica. Più che un uomo di studi, lo si direbbe un uomo d’azione, a vederlo intento per cinquant’anni alla sua ri- cerca sperimentale da cui non si stacca un momento: ed è un idealista attuale che non conosce dualismi e risolve tutta la realtà nella sua ricerca creatrice. Augusto Righi è noto anche al gran pubblico per es- sere stato il nonno del telegrafo senza filo; ma l’oscilla- tore a tre scintille, se diventò popolare per l’applicazio- ne che ne fece il Marconi, è stato per il Righi un appa- recchio puramente scientifico. Con esso il geniale fisico riusci a creare onde elettriche assai più brevi di quelle che era riuscito ad ottenere Hertz e cosi poté completare quell’ottica delle oscillazioni elettriche iniziata dal gran- de tedesco, dando la più ampia conferma alla teoria elet- tromagnetica della luce. Enrico Hertz aveva dimostrato che le onde elettriche si propagano con la velocità delle 294 luminose, si riflettono e si rifrangono. Il Righi, ottenen- do onde di qualche centimetro o di qualche millimetro, riusci a riprodurre quasi tutti i più importanti fenomeni dell’ottica: interferenza, diffrazione, riflessione su die- lettrici, riflessione totale, polarizzazione, doppia rifra- zione. Pur riprendendo una ricerca di Hertz, egli è riu- scito ad essere originale, anche perché ha saputo creare nuovi dispositivi (il glorioso oscillatore e il risonatore) e dar vita nuova a dispositivi vecchi (specchi e biprisma di Fresnel), superando difficoltà sperimentali grandi e riuscendo, fra l’altro, a chiarire le relazioni tra la forza elettrica e la forza magnetica. Ha dimostrato, insomma, qualità eminenti di scienziato completo: sperimentatore, teorico e matematico. Ma il classico libro in cui queste ricerche sono esposte e che fu pubblicato nel ’97, è an- cora alla prima edizione e la maggior parte delle altre sue pubblicazioni sono disperse in atti accademici. Come si vede, siamo ben lontani dall’aver dato al Righi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare alla prima, il riconoscimento che merita. L’Ottica delle oscillazioni elettriche è un’opera fon- damentale, ma il Righi non è tutto in quest’opera. A lui si devono, per limitarci a un cenno sommario, le ombre elettriche: ombre perfettamente simili a quelle di Croo- kes — ma ottenute nell’aria alla pressione normale — che preannunziano la teoria elettronica; l’analogo termico dell’effetto Hall che fu l’origine d’importanti ricerche compiute da Leduc, Ettingshausen, Nernst; la scoperta di due importanti singolarità del bismuto e di alcune 295 proprietà del selenio; le variazioni di lunghezza che ac- compagnano la magnetizzazione; l’azione elettrizzante dei raggi ultravioletti e dei raggi X e i fenomeni su cui è fondato il moderno interruttore elettrolitico; il teorema sul moto dei ioni e la legge del fenomeno fotoelettrico e tante vedute teoriche tra le quali di gran valore quella della convenzione elettrica. Gli si devono inoltre molte invenzioni di cui una tec- nica: il telefono che si ascolta a distanza. Assai impor- tanti: l’elettrometro idiostatico assai sensibile e quello per alti potenziali, una nuova macchina elettrica tipo Holtz che può funzionare anche in ambiente umido, gli apparecchi per la composizione dei movimenti oscillato- ri, un sensibilissimo polarimetro a penombra. Il Righi seppe dimostrare la sua originalità anche stu- diando fenomeni scoperti da altri. Cosi, come hanno no- tato il Garbasso e il Corbino, studiando l’effetto Kerr, egli è riuscito a ottenere un fenomeno che si può consi- derare come un’anticipazione della celebre scoperta di Zeeman sulla quale fece poi ricerche cosi importanti. Persino nelle sue conferenze di volgarizzazione e nel- le sue lezioni, riusciva ad essere originale. Ogni argo- mento che trattava diventava nettamente suo, perché egli trovava sempre modo di inventare nuovi dispositivi o di trovare nuove spiegazioni. E sebbene fosse di una chiarezza ch’è diventata proverbiale, riusciva ad essere, anche nei libri non strettamente tecnici, assolutamente rigoroso, tanto che le sue pubblicazioni potrebbero tutte 296 portare l’epigrafe prezzoliniana: «Bisogna lavorar di mascella, ma lo stomaco non rimane a vuoto». Il suo capolavoro è però senza dubbio il suo ultimo volume: / fenomeni elettro-atomici sotto l’azione del magnetismo. È un nuovo capitolo della fisica puramente righiano. E come se egli presentisse che questo suo libro è quello a cui rimarrà più specialmente legata la sua fama, l’ha curato in maniera speciale, indirizzandolo non ai fisici ma al pubblico e ha fatto una nuova esposi- zione della teoria degli elettroni, nonostante che questa teoria fosse stata da lui esposta fra l’altro in un’opera notissima anche all’estero e ha richiamato quasi tutte le sue ricerche anteriori. Leggendo questo libro, si ha un’idea quasi completa della personalità righiana. C’è in esso il teorico audace ma sempre vigile e cauto, il matematico dalle linee clas- siche e soprattutto il fisico dell’esperienza pura, nel sen- so gentiliano. La verità del Righi è una verità salda, ma essenzialmente dialettica, una verità piena di slancio, una verità con le ali. Il libro è pieno di conquiste, ma sono conquiste protese verso l’avvenire e le ultime paro- le si riferiscono a un fenomeno sul quale egli fa delle ipotesi che non lo contentano e che perciò potrà essere — dice — lo scopo di nuove future ricerche. Quando gli svi- luppi di cui è suscettibile quest’opera si saranno realiz- zati, si vedrà più chiaramente di che statura fosse lo scienziato di Bologna. In questo volume son messi in luce tre fenomeni nuo- vi. Il primo è quello che egli chiama magneto-ionizza- 297 zione. Consiste in questo, che il campo magnetico favo- risce la ionizzazione delle molecole gassose. La dimo- strazione ch’egli ne dà è assolutamente convincente; ma il singolare è che, con quella parola, il Righi pone un problema, giacché essa, a rigore, significherebbe che il campo magnetico non facilita ma provoca addirittura la ionizzazione. «La possibilità di un simile effetto — dice il Righi — non può essere esclusa a priori; perciò non mi sembra opportuno modificare quel vocabolo». Un’altra attività sono i raggi magnetici che il Righi suppone costituiti da coppie neutre giranti che risultano da un ione positivo e da un elettrone: qualcosa di simile alle stelle doppie. Il Righi presenta queste sue coppie come un’ipotesi di lavoro; ma è un’ipotesi cosi fondata che si direbbe realtà ed è in ogni modo un’idea di gran- de importanza anche perché è la prima pietra d’un edifi- cio a cui il Righi pensava da gran tempo e che rappre- senta uno dei compiti più importanti della nuova fisica, cioè la meccanica celeste degli atomi. L’altra gemma del volume sono le rotazioni iono- magnetiche, cioè delle rotazioni che si producono in gas ionizzati posti nel campo magnetico e che sono dovute agli urti dei ioni e degli elettroni sotto l’azione del cam- po stesso. Il Righi ottenne per la prima volta queste ro- tazioni studiando l’azione meccanica che producono a distanza le scintille nell’aria rarefatta (scintille Righi, anch’esse, come tante altre cose di lui, piene d’avveni- re); ma l’importanza di queste rotazioni consiste soprat- tutto nel fatto che il Righi, partendo da esse, è arrivato a 298 costruire una teoria elettronica delle forze elettromagne- tiche ed elettrodinamiche che finora si supponeva agis- sero a distanza, aprendo cosi una nuova via alla fisica matematica. Un primo saggio elegantissimo di ricerche di fisica matematica su questa via l’ha dato egli stesso. La morte l’ha sorpreso mentre stava per fare con ar- dore giovanile una nuova esperienza che, se avesse avu- to l’esito che egli si aspettava, avrebbe certo sollevato un gran rumore nel mondo scientifico. D’ esperienza però potrà esser fatta perch’egli l’ha descritta in una memoria pubblicata dopo la sua morte e nella quale ha rielaborato e completato la tesi che aveva già sostenuta in altre tre memorie precedenti con argomenti matematici che sem- brano incontrovertibili, cioè la falsità della celebre pre- visione di Michelson, la cui mancata verificazione speri- mentale è stata l’origine della teoria della relatività di Alberto Einstein. Con la sua esperienza, il Righi voleva attentare alle basi sperimentali di questa teoria, alla qua- le era ostile anche perché la trovava troppo matematica. Per lui, fisico alla Faraday, la scienza era realtà concreta e vivente. Aveva — è vero — una grande padronanza dei metodi matematici (i suoi saggi di fisica matematica sono dei gioielli) e in queste sue ultime memorie si fon- da sul principio di Huyghens che aveva adoperato con tanta felicità per dimostrare la diffrazione delle onde hertziane; ma, in fondo, per lui la matematica era una specie di fisica dello spazio. Riconosceva però che la teoria di Einstein ha fornito risultati di tale importanza 299 che dovrà rimanere in ogni caso nel patrimonio scienti- fico, almeno come ipotesi di lavoro. La critica del Righi è fatta da un punto di vista stretta- mente ortodosso, tanto che egli credeva, sia pure a ma- lincuore, che se la esperienza del Michelson, nella nuo- va forma da lui immaginata, avesse dato di nuovo esito negativo, bisognasse aderire alla teoria della relatività. Ora si comincia a pensare che di esperienze veramente decisive per l’ammissione della teoria di Einstein non ce ne siano. Tuttavia l’esperienza del Righi conserva tutto il suo interesse, se non altro perché l’esito positivo di essa, che non può essere escluso a priori, renderebbe in- sostenibile il principio di relatività: ed è da augurarsi che sia fatta e presto. Sarebbe il miglior omaggio alla sua memoria e alla fisica sperimentale. 300 DONATI E RIGHI" È morto un mese fa a Bologna, a quasi ottantasei anni, il professor Luigi Donati che era stato per gran tempo ordinario di fisica matematica all’Università e di fisica tecnica alla Scuola d’Ingegneria. La notizia è pas- sata senz’eco: io l’ho letta con ritardo in un giornale tec- nico. Fra uno dei maestri più insigni e più venerati della scuola bolognese. Del maestro aveva, come pochi, le qualità intellettuali e specialmente il dono di prodigarsi con gioia senza chieder nulla. Chi andava per chiedergli un consiglio, trovava in lui un amico sempre pronto a chiarire, a incoraggiare e a lodare ma nello stesso tempo rifuggente per istinto dalle cose troppo facili e dalle idee non meditate. Chi lavorava sotto la sua guida, doveva fare magari pochissimo ma quel poco doveva esser chia- ro, nitido, italiano. Egli amava soprattutto le formule ma senza virtuosismi e senza astrazioni. Una formula che non avesse valore fisico, per lui non aveva valore; se la formula era bella, egli ne gioiva come Giuseppe De Ro- bertis quando deliba, sillaba a sillaba, un bellissimo ver- so delle Stanze o delle Grazie. * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 8 aprile 1932. 301 Le sue cose più importanti si trovano nel volume Me- morie e note scientifiche, pubblicato a cura delle facoltà di scienze e della Scuola d’Ingegneria di Bologna, col concorso di enti, colleghi e allievi (Zanichelli, editore). AI di fuori di queste pubblicazioni strettamente scienti- fiche, ce ne sono varie altre di carattere didattico, e c’è tutta la sua lunga attività di insegnante. Il volume con- tiene scritti sull’elasticità, sui vettori, sulle correnti al- ternate, sui raggi X, sui superconduttori, sulle teorie di Einstein e su vari altri argomenti di elettrologia. La me- moria: Sulle proprietà caratteristiche dei campi vetto- riali è una delle cose più belle che si abbiano sull’argo- mento e può stare benissimo accanto alla Teoria geome- trica dei campi vettoriali di Galileo Ferraris. In questa memoria il Donati rivela tutte le qualità della sua bella intelligenza, in cui la matematica e la fisica erano una cosa sola. Bellissime sono tutte le altre memorie, in par- ticolare quella sulla legge di reciprocità per le correnti elettriche, quella sul coordinamento dei fatti e delle rela- zioni fondamentali dell’elettromagnetismo e quelle sulle correnti alternate. Anche le ricerche molto speciali che il Donati fece su vari argomenti, sono modelli di ordine e di chiarezza e svolgono l’argomento con una compiu- tezza definitiva. Meraviglioso è, a questo proposito, lo scritto: Circuiti elettrici con reattanze a scaglioni, che fu occasionato da un’osservazione di Chaumat riferita dall’ Elettricista. Si trattava di un’anomalia, a prima vi- sta sorprendente, presentata da un particolare circuito elettrico. Per Donati, invece, tutto è chiaro: e cosi ne na- 302 sce una nota ch’è una meraviglia: completa, nitida, ele- gante. Luigi Donati ha, tra l’altro, il gran merito di avere uno stile. Egli vede le questioni da un punto di vista che è unicamente suo, pure essendo nella linea classica: e le sa presentare in una maniera personale. Le sue note han- no oggi e avranno domani il valore, la freschezza che avevano quando egli le scrisse: sono originali, al disopra delle mode che passano. Che siano feconde l’ha mostra- to un suo intelligente discepolo: Cesare Rimini; e si ve- drà meglio quando la fisica, superata la crisi che ancora la travaglia e chiarito definitivamente l’enigma del nu- cleo atomico, ritornerà allo studio amoroso dei problemi particolari. Il Donati sapeva essere originale anche quando scriveva degli «appunti didattici». I suoi Appun- ti didattici sulla teoria della relatività sono una delle cose più sue. L’esposizione è fedelissima all’essenza della teoria einsteiniana ma ogni elemento scandalistico è scomparso, tanto che quando il Donati vi dice che «la teoria della relatività informata a criterii di pretta ogget- tività sperimentale trae dall’aderenza ai fatti la sua ra- gion d’essere e la giustificazione delle sue ardite inno- vazioni, che assumono l’aspetto di un necessario adatta- mento alla realtà», voi sentite che è vero, ma il merito è tutto suo. Il Donati fu essenzialmente fisico-matematico, ma fece anche ricerche sperimentali importanti. Nella nota: Sul rapporto fra l’attività elettro-dispersiva e l’attività fotografica dei raggi Röntgen, egli dimostrò, quando 303 ancora i raggi X erano un mistero, cioè alcuni mesi sol- tanto dopo la loro scoperta, che, in armonia con «l’ipo- tesi probabile» che i raggi X «risultino da un complesso di radiazioni ultraviolette di diversa lunghezza d’onda», la loro azione dispersiva sull’elettroscopio è in rapporto costante con l’attività fotografica. Pure mantenendosi nell’orbita classica, Luigi Donati non fu mai un conservatore a oltranza e seppe sempre fare buona accoglienza alle novità più audaci, senza mai cadere però nelle infatuazioni proprie di chi non ha una personalità. Simpatico è il suo atteggiamento davanti al sistema assoluto del Giorgi. L’idea è nuova e felice — egli disse — e la sua adozione segnerebbe un progresso per l’elettrotecnica. Commovente addirittura è l’elevata amicizia che ebbe per Augusto Righi e che tutti conoscono. Io posso tutta- via aggiungere una notizia inedita che farà certamente piacere agli ammiratori del Donati e del Righi. Alla fine del 1927, manifestai al Donati l’idea di oc- cuparmi dell’opera e della vita del Righi, e gli chiesi qualche particolare sconosciuto. Fu allora che il com- pianto maestro mi diede i particolari che riferirò su Ri- ghi e il premio Nobel. «A tenore dello statuto per la Fondazione Nobel — mi scrisse il 12 dicembre — il Co- mitato speciale cui è deferita l’assegnazione del premio per la fisica può di anno in anno diramare inviti all’este- ro, a persone di propria scelta, per la proposta di un can- didato giudicato meritevole del premio da conferirsi a chi, nel campo delle scienze fisiche, abbia ultimamente 304 fatto la scoperta o l’invenzione più importante. — Io ho avuto l’onore di essere invitato per gli anni 1914, 1916 e 1920; e sempre proposi il Righi: con esito negativo le prime volte, mentre nel 1920 intervenne la morte (8 giu- gno) a mandare a vuoto la proposta. — L’esito negativo delle prime due volte si spiega facilmente, data la speci- ficazione del titolo surriferito e il tumultuario succedersi in quel tempo di nuove scoperte sensazionali che dava- no le precedenza ai loro autori. — Migliori speranze io nutriva la terza volta, sembrandomi che il nuovo invito suonasse incoraggiamento a insistere sul nome del Righi la cui attività era stata nel frattempo singolarmente fe- conda e informata ad un vasto piano organico: tanto più che lo studio critico dell’esperienza del Michelson col progetto particolareggiato di una nuova forma dell’espe- rienza stessa, destinata a dare un risultato decisivo, pote- vano preludere ad una grande scoperta». Il 9 gennaio 1928 il Donati mi mandò il testo italiano della relazione sull’opera del Righi anteriore al 1914 la cui traduzione francese fu inviata al Comitato per l’asse- gnazione del premio Nobel per la fisica, e la lettera d’accompagnamento della relazione sull’opera del Righi fino al principio del 1920, la quale «corrispondeva so- stanzialmente a quanto, prescindendo dalla forma e dall’intonazione, si trova esposto nella commemorazio- ne del Righi tenuta il 1° novembre 1920 all’ Archiginna- sio e di cui, per mandato della Facoltà di Scienze, fui io l’oratore». 305 La relazione del 1914 e la commemorazione all’ Archiginnasio contengono giudizî molto intelligenti sull’opera di Augusto Righi. «Sembra a me — dice il Do- nati nella relazione del 1914 — che l’opera dell’eminente fisico bolognese si raccomandi fortemente all’attenzione di codesto Comitato: perché, sebbene Egli non abbia prodotto ancora nessuna di quelle scoperte clamorose, che bastano a rendere di un tratto un nome celebre in tutto il mondo, ha tuttavia recato un contributo al pro- gresso della fisica, la cui vastità e importanza sostanzia- le non può non essere apprezzata da giudici cosí sapien- ti. «L'attività del Righi tocca tutti i capitoli della fisica, e culmina poi nel campo della Elettrologia intesa nel si- gnificato attuale che ne fa come la sintesi dello scibile fisico. Essa è profonda e sagace: procede sempre guida- ta da un sicuro intuito che sviscera ogni questione co- gliendone i punti salienti e nulla lascia sfuggire che me- riti di essere notato, e armata di un’abilità sperimentale le cui risorse inesauribili hanno del meraviglioso e rie- scono a superare con singolare agevolezza le più ardue difficoltà. Essa costituisce come una vasta miniera di os- servazioni e di esperienze geniali e decisive da cui la scienza ha tratto già ampio profitto e dovrà trarne anco- ra nell’avvenire. «Soggiungerò ancora che, sebbene il nome del Righi, come dissi, non sia legato a nessuna scoperta clamorosa, si può tuttavia rilevare che il primo apparecchio di ra- diotelegrafia ebbe un oscillatore del Righi: il che prova 306 che nella mente dell’inventore fu l’opera del Righi ad agire; né va dimenticato il carattere di quest'opera mos- sa dalla pura tendenza alla ricerca della verità. Inoltre va notato che varie leggi enunciò il Prof. Righi che furono largamente utilizzate; e molti fenomeni poté per primo porre in rilievo che potrebbero ben portare il suo nome: ma vi è da tener conto della relativa lentezza e difficoltà con cui anche i migliori lavori italiani riescono a farsi conoscere e ad essere degnamente apprezzati nel mondo scientifico». La relazione continua con un’analisi dell’opera del Righi su cui non possiamo fermarci, come non ci pos- siamo fermare sulla commemorazione all’ Archiginnasio che però il lettore può trovare facilmente e leggere. Il Donati capisce a fondo il suo grande amico e ce lo fa vedere nei vari aspetti di precursore e attore principale della grande evoluzione recente della fisica e in quelli d’inventore, d’insegnante e di divulgatore della scienza. Per il Righi sperimentatore egli ha la «più sconfinata ammirazione». Il Righi dirigeva l'andamento dei feno- meni «con la calma sicura di un sovrano che imparte or- dini sapendo di essere obbedito... Era una successione caleidoscopica di fenomeni brillanti svolgentisi sotto gli occhi degli spettatori attoniti, cui pareva di trovarsi in un mondo d’incanto dominato da una potenza sopranna- turale». Sono senza dubbio parole entusiastiche ma si sente che Donati è sincero e coglie nel segno e che nel Righi 307 esalta non tanto l’amico quanto il suo stesso ideale scientifico. 308 RIGHI E MARCONI" Ho letto con molto dolore il giudizio sul Righi che Alberto Spaini ha pubblicato nell’ultima /talia lettera- ria, tanto che sento il bisogno di scrivere queste righe nonostante che sia sceso adesso dal treno e sia tardi. Parlare di Augusto Righi come di un professore (in sen- so dispregiativo) che «aveva, si vede, costruito un gio- cattolino più o meno ingegnoso» è enorme: e non so davvero che popolo sia quello che, secondo lo Spaini, «ride più che mai». Ho visto il popolo bolognese, il giorno della morte del Righi, piangere unanime. Era 1°8 giugno del 1920. Il popolo era esasperato e diviso, ma tutti tacquero e s’inchinarono quando la gran luce si spense. Alberto Spaini ha dato, senza volerlo, un gran dispia- cere anche a Marconi, che ha sempre esaltato l’opera scientifica di Augusto Righi e, quando lo scienziato mori, telegrafò il suo rimpianto e la sua gratitudine. Marconi e Righi, come la scuola matematica bolognese, come Francesco Maria Grimaldi e Luigi Galvani, sono glorie d’Italia. * Pubblicato ne «L'Italia letteraria», 5 ottobre 1930, in polemi- ca con un articolo di A. Spaini nella stessa rivista, 28 settembre 1930. 309 So benissimo che l’antitesi Righi-Marconi non è una creazione di Spaini, ma questo non significa che sia fon- data. Forse è dovuta ad una confusione tra il concetto di scienziato e quello d’inventore. Augusto Righi è uno scienziato e uno scienziato mol- to serio che non aveva simpatie per i giocattolini più o meno ingegnosi. Ha fatto parecchie invenzioni, ma si tratta d’invenzioni scientifiche, come diceva Bruno Biancoli: si tratta di mezzi, di momenti della ricerca scientifica. Lo stesso «telefono che s’ascolta a distanza» non ha, per Righi, valore tecnico: è una bella esperienza. Righi non insiste appunto perchè, dal punto di vista scientifico, l’invenzione non presenta interesse. Esclusivamente da scienziato si comporta il Righi nei riguardi delle onde elettriche. Dà schiarimenti e consigli al giovanissimo Marconi, gli fa vedere le sue esperien- ze, ma non sogna minimamente, né allora né mai, di mettersi sulla via su cui si metterà audacemente il gran- de inventore. Egli si occupa delle onde elettriche per co- noscerle. Il suo scopo è quello di continuare l’opera di Hertz, cioè di dimostrare che le onde elettriche sono del- la stessa natura di quelle luminose. Col banco di cui fa parte il famosissimo oscillatore (altro che giocattolino!), il Righi non vuole entrare in gara con Marconi ma por- tare a compimento l’ottica delle oscillazioni elettriche: e scrive cosi — anche gli stranieri lo riconoscono — una pa- gina d’oro della storia della fisica. Né l’opera del Righi si esaurisce nelle ricerche sulle onde. È un’opera vastissima (si può dire che tocchi ogni 310 capitolo della fisica) nella quale egli rivela qualità ecce- zionali di sperimentatore e di teorico: un’opera seria e cauta e nello stesso tempo fresca, giovanile. Un giorna- lista come Spaini dovrebbe ammirare un uomo come Augusto Righi, che è un vero recordman della ricerca scientifica. Disse una volta che tutti stavano con lo schioppo pronto, per non lasciarsi sfuggire la minima scoperta scientifica che si profilasse all’orizzonte; ma era lui, Righi, il tiratore fulmineo e infallibile. Può darsi che Righi non sia molto popolare; ma è for- se popolare Galileo Ferraris? Lo stesso Galileo, senza il processo, sarebbe davvero popolare? Del resto Righi è conosciuto meno di come merita anche perché il suo temperamento equilibrato lo portava a togliere alla ri- cerca scientifica ogni carattere sensazionale. È dunque per una delle sue grandi virtà che non è molto popolare. Moltissimo mi è dispiaciuto l’epiteto di professore datogli da Spaini. Nulla di meccanico c’era in Righi. Chi l’ha sentito una sola volta non può dimenticarlo. La sua voce armoniosa, il suo periodo perfetto, lo sguardo penetrante, il gesto da gran signore, le esperienze ele- gantissime, facevano di lui un maestro incomparabile. Chi lo sentiva, anche se non conosceva la fisica, anche se non conosceva l’italiano, non poteva non subire un vero fascino. Marconi è grande. Gli applausi coi quali era accolto ogni volta che si presentava a Bolzano e a Trento, du- rante il Congresso delle scienze, sono più che meritati: e noi ci siamo uniti col più sincero entusiasmo alla folla 311 plaudente. Che sia finalmente entrato all’ Accademia d’Italia, va benissimo: ce ne congratuliamo con l’ Acca- demia. Quello che non si capisce è perché mai, per esal- tare Marconi, si debba dir male di Righi. Marconi è en- trato ora nell’ Accademia d’Italia, ma per noi, lui e Ri- ghi, erano iscritti d’ufficio fin dalla fondazione. Guglielmo Marconi ha lavorato sempre in una via di- versa da quella di Righi. I due grandi bolognesi non si escludono, ma si completano a vicenda. Quando il popolo chiama Marconi scienziato, vuol dire che il grande inventore è colui che conosce e ha quasi il comando supremo delle onde elettriche: vuol dire una cosa giustissima. Ma è pur evidente che Marco- ni non ha mai voluto fare dell’ottica delle oscillazioni elettriche. Proprio ieri a Pio XI che gli domandava che cosa fossero le onde elettriche, rispondeva: — Forse me- glio di me lo sa Vostra Santità. È vero che Marconi ha fatto numerose osservazioni scientifiche, ma è anche vero che egli non si è mai pro- posto fini teorici. La sua attività è originalissima e han- no assolutamente torto quelli che parlano della radio come di una pura applicazione scientifica. Come disse Quirino Maiorana, la radio è una vera e propria scoperta di Marconi perché supera la scienza del tempo. Ma i problemi strettamente teorici delle onde hanno interes- sato il mago solo in quanto potevano essere utili al fine che egli si è proposto sin da principio, che è quello di stabilire, per mezzo delle onde elettriche, comunicazioni sicure ed economiche a grandissima distanza. 312 Righi e Marconi sono ingegni diversissimi ma non opposti. C’è un punto anzi in cui la loro profonda frater- nità trionfa: la fedeltà assoluta — e direi eroica — alla loro missione. Righi non ha che un amore: la Fisica; Marco- ni, la radio. Poco prima di morire, Righi dice che co- mincia allora a sapere un po’ di fisica; Marconi, dopo aver detto che la radio ha superato persino la sua aspet- tativa, ne parla come se invece essa cominciasse ora. 313 GUGLIELMO MARCONI" Si è detto tante volte che fu un grande inventore e con ragione; ma cosi non si definisce il suo genio, non se ne mette in evidenza la straordinaria novità. Guglielmo Marconi fu l’unico grande inventore industriale che ab- bia avuto l’Italia e, secondo me, il più grande che sia esistito finora. x k x Galileo è un grandissimo scienziato, ma è anche un grande inventore, nel senso più rigoroso dell’espressio- ne. Il suo cannocchiale non è solo un episodio delle sue ricerche astronomiche: è un apparecchio che potrà servi- re e servirà ad altri per altre ragioni, e Galileo lo perfe- ziona e lo diffonde e poco ci manca che non fondi una vera e propria fabbrica. Rasenta, se si vuole, l’industria ma non la attua e non vuole attuarla; e meno che mai la attua con la bilancetta, col microscopio, col termometro, con l’applicazione del pendolo agli orologi. Forse sareb- be entrato nella fase industriale col metodo per la deter- minazione della longitudine ma, sia pure per ragioni in- * Pubblicato ne «L’Ambrosiano», 21 agosto 1937, col titolo: Nel trigesimo della morte di Marconi: il suo genio. 314 dipendenti dalla sua volontà, quell’idea non poté mai avere nemmeno un principio d’attuazione. Volta ha inventato l’elettroforo, l’elettroscopio con- densatore e la meravigliosa pila, ma rimane uno scien- ziato dei più puri. Le sue invenzioni non sono che aspet- ti della sua attività scientifica; la pila ne è il coronamen- to. Si può esprimere un giudizio simile per Galileo Ferra- ris. La sua grande invenzione non è per lui che la prova di una teoria, tant'è vero che non solo non ne vede le grandi possibilità pratiche che saranno ben comprese da Tesla, ma le nega. Sembra ed è diverso il caso di Pacinotti, che inventa la dinamo e vuole industrializzarla. Ma, insomma, non ci riesce; e quando Gramme gli ruba l’idea, non tenta nemmeno di mettersi in gara con lui nel campo indu- striale e rimane sereno nel suo studio. Guglielmo Marconi è e vuole essere soltanto invento- re, e sa trovare i capitali, se non in Italia, in Inghilterra. Somiglia molto a Edison, specialmente per il senso in- dustriale e per la perseveranza, ma non è, come il gran- de americano, l’uomo dalle cento invenzioni. Marconi è tutto e sempre nella radio, cioè in un’invenzione che tut- ti credono senza avvenire e lui crede piena di avvenire. Per tutta la vita Marconi chiede sempre qualcosa alla ra- dio, sempre di più; e persino quando la radio supera la sua stessa aspettativa, egli continua a sperare e a lavora- re instancabilmente. Il dolore per la sua scomparsa è do- vuto anche al fatto che nessuno lo può sostituire. La ra- 315 dio è un’attività mondiale. Più volte l’iniziativa è stata presa da altri e, nella trasmissione dall’ Europa all’ Ame- rica con le onde corte, perfino dai dilettanti; ma Gugliel- mo Marconi riusciva sempre a riprenderla e a trovare nuove vie. Era il centro ideale, il patrono, il simbolo della radio. x k x Nel 1895, quando cominciò a Pontecchio le prime esperienze con le onde elettriche, poteva sembrare, come sembrò, un dilettante, un irregolare, un visionario: era un inventore orientatissimo e deciso ad andare fino in fondo. Non aveva approfondito o non conosceva le teorie piú raffinate, ma conosceva tutto ciò che c’era di utilizzabile nel campo della radio. Il suo primo apparec- chio è quanto di meglio si poteva ottenere in quel mo- mento: una sintesi dell’oscillatore a tre scintille del Ri- ghi con l’antenna di Popoff e col tubetto a limatura di Calzecchi-Onesti, studiato a perfezionato da Branly, da Lodge e da Popoff. Col suo nuovo apparecchio Marconi riusci a trasmettere i tre punti della lettera s dell’alfabeto Morse non più a qualche metro ma a cinquanta, a cento, a ottocento metri. Era un grande successo. Marconi co- nosceva pure, a quanto sembra, le esperienze di trasmis- sione con correnti indotte che aveva fatto attraverso il canale di Bristol il Direttore dei servizi telegrafici ingle- si, sir William Preece; e nel febbraio del ’96, visto che il nostro Governo non capiva ancora la radio, andò dal 316 Preece, che gli tributò l’accoglienza che meritava. Mar- coni continua le sue esperienze e il 2 giugno ottiene il primo brevetto. In dicembre sir Preece tiene una confe- renza in cui dice che Marconi ha ideato per il primo un nuovo utilissimo mezzo di comunicazione fra 1 popoli. Marconi sviluppa le sue esperienze e nel maggio del 97 riesce a mandare messaggi col suo sistema di tele- grafia senza fili attraverso il canale di Bristol, fra Penar- th e Weston, a una quindicina di chilometri di distanza. Allora egli diviene dappertutto l’illustre inventore del telegrafo senza fili. Ripete le sue esperienze in Italia (alla Spezia, a Roma), ottenendo grande successo. Il di- rettore dell’ Elettricista, prof. Angelo Banti, ben cono- sciuto dai nostri lettori, dopo aver esaminato gli appa- recchi di Marconi e assistito a diverse esperienze scrive: «Il nuovo sistema sarà foriero di conquiste per la scien- za e per la pratica». Nell’opuscolo che pubblicò in quell’occasione, il Banti aggiungeva che Marconi aveva profondamente modificato il tubetto a limatura, renden- dolo «un organo minuto, delicato, di fina meccanica elettrica». In base alla teoria di Hertz, ottima per spiegare le esperienze di ottica delle onde elettriche eseguite da Hertz e dal Righi ma del tutto insufficiente alla telegra- fia senza fili, i fisici credevano allora e continuarono a credere per un pezzo che le onde elettriche si dovessero propagare come le onde luminose. Per superare gli osta- coli non c’era che la diffrazione. E poiché la diffrazione è tanto più efficace quant’è più grande la lunghezza 317 d’onda adoperata, c’era da supporre che per trasmettere a notevole distanza occorressero onde lunghe. Fu questa probabilmente la ragione che indusse Marconi ad adot- tare le onde lunghe. Si vedrà cosí che, nelle esperienze dei primi anni, Marconi si comportava, nei riguardi del- la scienza, da uomo d’ordine, com’è sempre stato, e non da sovversivo, come alcuni credevano; oggi si potrebbe perfino sostenere che alla scienza egli abbia dato troppo peso. Il suo innegabile novecentismo avanti lettera era dovuto alla sua novità e non a febbre di successo. Come forma mentale, egli è addirittura opposto ad Einstein, a Schrödinger, a Dirac e agli altri astri della fisica nove- cento. x k x Il momento più bello della vita di Marconi, il suo mo- mento eroico è quello della trasmissione transatlantica. Il 28 marzo del ’99 egli era riuscito a trasmettere a una trentina di chilometri, da Santh Foreland presso Dover a Wimereux presso Boulogne: aveva dunque soltanto rad- doppiata la distanza dell’anno precedente. Il 12 dicem- bre del 1901 trasmette la lettera S da Poldhu in Corno- vaglia a Sàqual Hill in S. Giovanni di Terranova, cioè a 3200 chilometri. La potenza era relativamente modesta (15 Kw.), la lunghezza d’onda era di 1800 metri. Non c’era amplificazione perché le valvole non esistevano ancora (non dico quelle a tre elettrodi ma nemmeno quelle di Fleming): il ricevitore che diede il risultato era 318 un telefono collegato con un coherer automatico, cioè un apparecchio che poteva sembrare «del tutto insuffi- ciente». Con la trasmissione attraverso l’ Atlantico, che è un capolavoro di abilità sperimentale ma è più ammirevole come atto di fede, Guglielmo Marconi distruggeva le teorie della propagazione delle onde elettriche allora ac- cettate da tutti, svegliando — possiamo dire — la scienza dal suo sonno dogmatico. Marconi non si adagia sull’incredibile successo. Egli capisce subito che ciò che importa non è la trasmissione di un segnale ma la trasmissione dei messaggi; e nel viaggio di ritorno da San Giovanni sul piroscafo Phila- delphia, continua le esperienze, ricevendo alla presenza di testimoni, numerosi «marconigrammi» provenienti dalla stazione di Poldhu. Si accorge però che la via in cui si è messo, per quanto gloriosa, non ha possibilità veramente nuove e sostituisce i vecchi ricevitori con quelli a detector magnetico. Coi ricevitori magnetici si compie la prima campagna della nave italiana Carlo Al- berto, in cui Marconi trasmette dispacci attraverso le più alte montagne d’Europa. K k k Nel febbraio del ’902, sul Philadelphia, Marconi sco- prí lazione della luce solare sulla propagazione delle onde elettriche: si accorse, cioè, che con le onde di circa duemila metri da lui adoperate «le distanze di trasmis- 319 sione erano durante la notte parecchie volte maggiori che durante il giorno»; e questo indicava, per dirlo dun- que con le sue parole «o un assorbimento dell’energia delle onde elettriche causato dalla luce solare, oppure una variazione nelle condizioni che permettevano alle onde stesse di raggiungere le massime distanze». Con queste esperienze, proseguite sulla Carlo Alberto e al- trove, egli preparò a Heaviside e a Kennelly l’ipotesi della ionizzazione degli alti strati dell’atmosfera, che diede origine a tutta una letteratura. I progressi che Marconi realizzò dal ’903 alla guerra mondiale sono stati da lui riassunti nella conferenza te- nuta all’ Augusteum il 3 marzo 1914. In questo periodo la radio realizzò tutti i progressi che erano possibili sen- za la valvola termoionica di de Forest, acquistando una sempre crescente importanza dal punto di vista civile, militare e sociale. Marconi continuò ad occuparsi degli effetti della luce solare e studiò l’indipendenza di fun- zionamento, l’aumento di portata delle stazioni e la tra- smissione e ricezione automatica a grande velocità. Studiando l’azione della luce solare, trovò che le onde di maggiore lunghezza son molto meno soggette all’assorbimento atmosferico che non quelle di lunghez- za limitata, e cosi si orientò sempre più decisamente verso le onde lunghe, arrivando a produrre onde di oltre dieci chilometri. I progressi maggiori realizzati negli apparecchi si de- vono principalmente all’uso delle onde continue, cioè non smorzate, e delle valvole di Fleming. Marconi però 320 continuò a perfezionare gli aerei, arrivando all’antenna dirigibile; impiegò apparecchi fotografici, registratori e fonografi, e cosi raggiunse la velocità di ricezione e di trasmissione di cento parole al minuto. Parlando delle applicazioni pratiche della radio, Marconi ricorda le sta- zioni per grandi corazzate della potenza di 30 Kw. e del- la portata di duemila chilometri; ricorda le stazioni delle navi mercantili, che hanno salvato migliaia di vite uma- ne, le stazioni costiere aventi una portata da cento a sei- mila chilometri, i servizi pubblici radiotelegrafici a grande distanza, e conclude dicendo che, al disopra di qualsiasi interesse, la maggiore soddisfazione di chi si dedica alla radio è che «la radiotelegrafia non è venuta mai meno tutte le volte che si è trattato di ricevere il gri- do di soccorso di vite umane in pericolo sul mare». x k x Con la guerra mondiale, la radio attrae sempre piú l’attenzione dei tecnici, degli scienziati, dei governi e degli stati maggiori di tutto il mondo e, specialmente per effetto delle valvole a tre elettrodi, s'impone sempre più la radiotelefonia e sorge infine la radiodiffusione, in cui si utilizza finalmente quella proprietà delle onde elettri- che di diffondersi in tutte le direzioni ch’era sembrato un gravissimo difetto. Sembra oramai che non ci siano più possibilità di grandi successi personali; ma Gugliel- mo Marconi ha ottenuto una specie di laboratorio mobi- le e, a bordo dell’ Elettra, continua le sue campagne. Nel 321 novembre del ’26 collega col suo sistema a onde corte a fascio l’Inghilterra e il Canadà alla velocità di oltre due- cento parole al minuto in trasmissione e ricezione simul- tanea a ogni stazione; nel marzo del ’27 collega alle stesse condizioni l’Inghilterra e 1° Australia, superando ventimila chilometri di distanza; nel maggio collauda il regolare collegamento dell’Inghilterra col Sud Africa (diecimila chilometri di distanza) e infine, nell’agosto, collega con servizio rapido e diretto l’Inghilterra e l’India. Col nuovo sistema a fascio, come avemmo oc- casione di ricordare sul nostro giornale a suo tempo, si realizza una grande economia nell’impianto e nell’eser- cizio, una velocità altissima di trasmissione, impossibile con le onde lunghe, e si ha la possibilità di stabilire un numero assai più rilevante di servizi indipendenti. Negli ultimi anni, Marconi si era interamente dedica- to alle micro-onde, realizzando il collegamento tra il Va- ticano e Castel Gandolfo, e mostrando che sulla propa- gazione di queste onde non è per niente detta l’ultima parola. Le micro-onde — egli dice — «sono comunemente conosciute sotto il nome di onde quasi-ottiche poiché era generalmente ammesso che con esse la comunica- zione era possibile solo quando le due estremità del cir- cuito radio erano entro la visuale diretta; e che, conse- guentemente, la loro utilità pratica era limitata da tale condizione». Con le sue esperienze invece egli provò che le micro-onde possono avere una portata sino a qua- si nove volte la distanza ottica. 322 Egli cosi si sentiva di nuovo spinto a ripetere il suo costante insegnamento: perseverare nell’esperienza. La teoria è rivolta al passato e non ha diritto di limitare le ricerche. È sempre opportuno seguire nuove linee di ri- cerca, anche se a prima vista sembrano poco prometten- ti. In realtà solo l’esperienza è creatrice. x k x Per spiegare il suo incondizionato sperimentalismo, si potrebbe citare Faraday o altri fisici inglesi (qualcosa di anglo-sassone c’è in lui senza dubbio: non per nulla sua madre è l’irlandese Annie Gameson); Marconi preferiva riferirsi a Galileo. In realtà il «provando e riprovando» è il motto degli accademici del Cimento, non di Galileo; e non sarebbe difficile mettere in evidenza i punti di con- tatto tra Marconi e la famosa accademia galileiana. Come gli accademici del Cimento Marconi ama i fatti e diffida dei perché. A lui mancano il gusto per la mate- matica e per la fisica pura, la passione dialettica, la ricca efficace fantasia di Galileo; ma sono galileiani (per la loro novità) i risultati ottenuti, e più ancora la fede ine- sauribile nel proprio lavoro, il senso della propria mis- sione. 323 MARCONI E I SUOI PRECURSORI" Le leggende, le storielle, le fantasie, gli equivoci, gli spropositi, i pettegolezzi che riempiono le cronache ora- li e scritte della radio non devono far troppa meraviglia: sono l’accompagnamento, l’immagine deformata della grande invenzione. Più che alla storia della scienza e della tecnica, appartengono alla storia del costume. Mentre ci dicono poco o nulla su Marconi e sui suoi precursori, ci fanno in qualche modo conoscere le rea- zioni, le passioni, le incomprensioni che la nascita della radio suscitò nei contemporanei. Marconi ebbe dei precursori. Poteva essere diversa- mente? Sarebbe come dire che egli sia fuori della storia, che è un colpo di fulmine senza passato e senz’avvenire; e invece di esaltarlo lo negheremmo. Studiando le cose con serietà, leggendo con attenzione e con intelligenza i testi, senza svisarli e senza oltrepassarli, l’originalità di Marconi rimane intatta, come quella dell’ Ariosto o di Cézanne, come quella di Galileo o di Einstein, i quali hanno tutti, come è ben noto, i loro precursori e tuttavia sono cosí profondamente originali che in un certo senso si possono anche dire senza precursori. * Pubblicato ne «L’Illustrazione italiana», 1947, p. 273 sgg. 324 Cinquant’anni fa, quando Marconi ebbe i primi suc- cessi, si poteva credere (e molti lo credevano) che la storia delle onde hertziane fosse scritta, come poi si cre- dette che la storia della radioattività fosse chiusa dai la- vori di Maria e Pietro Curie. Nell’uno e nell’altro caso era finito il primo tempo e si preparava o era già comin- ciato il secondo. Con l’Ottica delle oscillazioni elettri- che del Righi si chiudeva non la storia delle onde elet- tromagnetiche ma il periodo che si può chiamare max- welliano, cioè il periodo ottico (e anche questo periodo si può dire grossolanamente che si chiudesse solo nel campo teorico). Giacomo Clark Maxwell è un astro splendentissimo. Non senza ragione le sue equazioni sembrarono opera di un dio (anche lui, s’intende, è nella storia. La sua opera è inesplicabile senza le esperienze di Faraday, e non rie- sce del tutto chiara se non teniamo conto delle ricerche di Melloni sull’identità della luce e del calore e delle teorie del Mossotti sui dielettrici). Maxwell crea la teo- ria elettromagnetica della luce, dando cosi il tema a En- rico Hertz. Questo grandissimo fisico dall’ingegno mul- tiforme e dalla coscienza eroica rielabora la teoria di Maxwell e passa alle esperienze, producendo e rivelan- do le onde elettromagnetiche e dimostrando che esse hanno, come voleva la teoria di Maxwell, i caratteri del- le onde luminose. È interessante notare che Hertz, nel corso delle sue esperienze sulle onde elettriche, fece la scoperta dell’effetto fotoelettrico e la studiò in una me- moria che è un capolavoro, ma né lui né i fisici che si 325 occuparono del fenomeno dopo di lui (Hallwachs, Stole- tov, Elster e Geithel; e nemmeno Righi e Lenard, che pure ne studiarono alcuni particolari strani), nessuno prima di Einstein comprese che l’azione scaricatrice che la luce ultravioletta ha sull’elettricità negativa è incom- patibile con la teoria di Maxwell e richiede l’intervento di concetti corpuscolari che Maxwell credeva per sem- pre superati. Come per Fresnel, per Maxwell la luce è un fenomeno puramente ondulatorio ma le onde sono elettriche e non meccaniche. Hertz e tutti i fisici che ne continuarono l’opera, compreso quindi il Righi che è il più grande, insistettero sull’identità e non sulla differen- za tra le onde elettriche e la luce; anzi di certe differenze importantissime per la radio si disinteressarono tanto che si può dire che tacitamente le negavano. Ebbene, la teoria hertziana della propagazione delle onde elettriche e l’idea stessa della rigorosa identità delle onde hertzia- ne e della luce, per chi, come Marconi, mirava alla ra- dio, erano, più che un aiuto, un serio intralcio. Questa, se non c’inganniamo, è la vera ragione del contegno al- quanto strano che Marconi, e più recisamente Luigi So- lari, tennero verso il Righi. Non solo tra Guglielmo Marconi e Augusto Righi c’era differenza di mentalità, essendo il Righi uno scienziato tutto ragione e Marconi un tecnico tutto intuizione e avventura; ma è innegabile che Marconi voleva ottenere e ottenne con le onde ciò che agli scienziati sembrava, se non impossibile, poco probabile. Nei riguardi del Righi, occorre però dichiara- re che chiunque l’abbia conosciuto non può aver dubbi 326 sulla sua eccezionale cautela. Egli consigliò a Marconi un serio studio delle onde, senza escludere alcuna possi- bilità, anzi riconoscendone fin dall’inizio il valore prati- co. Ciò, del resto, è confermato dalle due lettere del Ri- ghi che Luigi Solari ha pubblicato nel volume Sui mari e sui continenti con le onde elettriche. — Il trionfo di Marconi. Le lettere, tutt'e due dirette al Solari, sono una del 30 luglio 1897, l’altra del 16 giugno 1901. La prima è evidentemente una risposta a una lettera nella quale il Solari gli chiedeva di occuparsi pubblicamente di Mar- coni. Il Righi risponde che non gli pare conveniente di farlo in quel momento perché, a quanto gli ebbe a dire Marconi stesso, Marconi stava trattando la cessione dei suoi brevetti. Gli fornirà, a lui personalmente, qualche indicazione. «Anzitutto il sig. Marconi non è stato il mio allievo. Essendo ricco, studiò da sé per suo diletto. Più volte mi visitò per chiedermi consigli o spiegazioni; lo consigliai bensi a prepararsi alla licenza liceale, ma non credo che abbia seguito ancora tale consiglio. Gli apparecchi che adopera il Marconi sono ora descritti e disegnati in opuscoli a stampa. Perciò non vi può essere più questione nella valutazione del vero merito che a lui spetta». Quanto alla segretezza delle trasmissioni — con- tinua il Righi — stando a ciò che si sa sulle onde elettri- che, sembrerebbe che non si possa facilmente raggiun- gere, «ma aspetto che il Marconi mi abbia fornito certi dettagli su qualche sua esperienza, per pronunciarmi in modo assoluto». Invece il Righi è reciso su un altro pun- to: sul timore che le onde elettriche emesse da un oscil- 327 latore ad olio di vasellina facessero saltare la Santa Bar- bara delle navi. Questo timore espresso dall’ Ammira- gliato inglese e comunicato al Righi da Marconi, è asso- lutamente infondato. Il Righi, che annunzia sotto stampa la sua nota dei Rendiconti dei Lincei, dice che forse la causa di quel dubbio è da cercare in un’esperienza di Preece e Marconi male interpretata. «Essi dissero che il ricevitore funzionava anche messo dentro una cassa me- tallica chiusa. Orbene, come ho verificato io stesso nei giorni scorsi, se la cassa è chiusa in modo, che vi sia buon contatto fra le parti che la costituiscono, nessuna azione si manifesta nell’interno di essa». «Perciò — con- clude il Righi — credo e spero che nulla si opporrà a che il sistema telegrafico del Marconi entri nella pratica. L'Italia, che ha un cosi grande sviluppo di coste, potrà farne largo uso e forse più ancora le nazioni nordiche, poiché colà le nebbie frequenti rendono spesso ineffica- ci i sistemi di segnali ottici o acustici». È una bella lettera: piena di equanimità, di disinteres- se, d’intelligenza e di generosità nei riguardi di Marco- ni. Se il Solari l’avesse presentata a Marconi, commen- tandola senza partito preso, ogni malumore nei riguardi del Righi doveva svanire. Righi non fa vanterie e conce- de di non essere il maestro di Marconi. Nei riguardi del giovane inventore egli è pieno di fiducia. Questa fiducia, per un uomo cauto come il Righi, ha qualcosa di sorprendente. Si direbbe che in quel giovane cosi irregolare il Righi abbia indovinato ciò che oggi tutti sappiamo ma che allora pochi potevano sospettare e 328 meno che mai uno scienziato come il Righi, lontanissi- mo dalla tecnica. Righi non si pronunzia in modo asso- luto nemmeno sulla possibilità di rendere segrete le ra- diocomunicazioni. Ha dei dubbi, stando a ciò che si co- nosce sulle onde, ma attende, prima di decidere, che Marconi gli fornisca certi particolari. A proposito del si- stema Marconi, crede e spera che entri nella pratica. Questa fiducia è ribadita nella lettera del 16 giugno 1901, alla vigilia della trasmissione della lettera S attra- verso l’ Atlantico. Dice il Righi che, salvo due pubblica- zioni d’indole affatto teorica, non si è più occupato di ciò che si riferisce alla telegrafia senza filo. «Questa è entrata nella sua fase pratica, ed a questa rimango estra- neo. La nuova applicazione è ancora in via di sviluppar- si e perfezionarsi, ed è sperabile vengano superate le po- che difficoltà ed incertezze che ancora rimangono; e mi auguro che Ella possa contribuire a raggiungere questo scopo». Mentre dichiara di essere estraneo alla fase pra- tica della radio, Righi non lesina gli auguri né per Mar- coni né per Solari. Che si voleva di più? A me pare che alla generosità da gran signore del Righi occorreva ri- spondere riconoscendo a voce alta ciò che Marconi do- veva al Righi. Occorreva che Marconi si dichiarasse lie- to di essere allievo del Righi, anche se in senso libero e non scolastico. Marconi si era pure consigliato più volte col Righi, anche se non si era iscritto ai corsi universita- ri, e aveva pure adoperato l’oscillatore a tre scintille del Righi nelle sue prime esperienze di radiotelegrafia. Si direbbe che Marconi, il quale aveva tanta fiducia nella 329 radio, cioè in se stesso, abbia creduto di diminuirsi rico- noscendo ciò che doveva al Righi, mentre non credette di perder nulla telegrafando al Branly, nel 1899, subito dopo la trasmissione attraverso la Manica, che il bel ri- sultato era dovuto in parte ai bei lavori di Branly. Oggi nessuno oserebbe sostenere che Guglielmo Marconi debba più a Edoardo Branly che ad Augusto Righi. Il Righi era un maestro incomparabile e gli schiarimenti che diede a Marconi dovettero essere illuminanti, decisi- vi; né si può dire che, nelle prime esperienze, l’oscilla- tore a tre scintille sia stato meno importante del coherer. Tutto ciò va riconosciuto, naturalmente, senza che que- sto limiti anche in modo minimo l’originalità di Marco- ni, come non la limita il fatto di essere stato libero allie- vo dell’autore dell’Ottica delle oscillazioni elettriche. Leonardo aveva detto nei codici Forster: «Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro»; Marconi è un discepolo che andò più oltre di tutti i suoi maestri, o me- glio si mosse per vie sue, mirando a nuovi obbiettivi e riuscendo genialmente a conseguirli anche quando sem- bravano assurdi. Marconi non ripete nessuno. L’oscillatore a tre scin- tille, l'antenna, il coherer sono punti d’appoggio per uno slancio del tutto imprevedibile. Anche Branly e il Cal- zecchi Onesti che prima di lui si occupò della resistenza delle polveri metalliche erano dei semplici teorici e sono più lontani dal Marconi dello stesso Righi. Le esperien- ze che Temistocle Calzecchi fece nel Liceo di Fermo fu- rono pubblicate nel Nuovo Cimento del 1884, ’85 e ’86: 330 prima dunque delle esperienze di Hertz. Sono esperien- ze interessanti. Il Calzecchi costruisce il coherer, nella forma che conosciamo e che fu adottata dal Branly; ne mette in evidenza la proprietà fondamentale, cioè la va- riazione brusca di resistenza, che però attribuisce a in- duzione (elettromagnetica e anche elettrostatica); scopre pure che si può ripristinare la grande resistenza primiti- va rimescolando la limatura o soltanto scuotendo o fa- cendo vibrare il tavolo su cui è posto il tubetto. Egli non fa esperienze a distanza e non pensa che la diminuzione della resistenza, che egli ottiene anche con le scintille elettriche, possa avere una spiegazione diversa di quella che ha dato. Se qualcuno gli avesse detto che quelle non erano esperienze «curiose» ma esperienze d’importanza rivoluzionaria, il buon Calzecchi Onesti avrebbe creduto di esser preso in giro. Anche quando Hertz fece le sue esperienze sulle onde elettriche, al Calzecchi non passò per la testa che il suo tubetto potesse entrarci. Più strano è il fatto, come notò il Calzecchi stesso, che anche Bran- ly, il quale studiò i tubetti a limatura nel 1890, cioè dopo le esperienze di Hertz, abbia studiato il fenomeno della diminuzione di resistenza senza fare ipotesi e quindi senza pensare alle onde hertziane, nonostante che si va- lesse di scintille oscillanti. Il Branly ottenne la diminu- zione di resistenza a diverse distanze: e in questo consi- ste la sua novità rispetto al Calzecchi. Egli vide che la diminuzione della resistenza, quando si producono in vi- cinanza del circuito delle scariche elettriche, varia al va- riare della distanza. L'azione diminuisce quando la di- 331 stanza aumenta, ma si osserva senza speciali precauzio- ni fino ad alcuni metri di distanza, mentre adoperando il ponte di Wheatstone si ottiene l’effetto a più di venti metri di distanza. Il primo fisico che comprese il coherer come rivelato- re di onde elettriche fu Oliviero Lodge, al quale si devo- no le bottiglie sintoniche e vari bei lavori sulle onde elettriche. A lui si deve il nome coherer e una teoria dell’apparecchio che farebbe consistere la diminuzione della resistenza in una specie di saldatura, o coesione in- tima tra i granuli di limatura operata da scintilline di ri- sonanza, come se la limatura fosse costituita da un siste- ma di risonatori di Righi. Un posto a parte, tra i precursori di Marconi, merita il russo Alessandro Popov (che molti, sull’esempio dei francesi, scrivono Popoff, come si pronunzia). Il Popov era un vero inventore e nel 1905 presentò alla Società fi- sico-chimica russa un apparecchio per la registrazione delle scariche atmosferiche nel quale, oltre alla famosa antenna, c’è un coherer che riprende automaticamente la resistenza primitiva, e c’è anche un relais o soccorritore. Il Popov ha anche il merito di avere adoperato per primo il telefono come rivelatore (veramente, su questo punto era stato preceduto dal Calzecchi Onesti, il quale però... non se n’era accorto). Si deve ancora osservare che in una nota del 5 dicembre del ’95, il Popov espresse pure l’idea di ottenere radiocomunicazioni regolari; ma Mar- coni fu più veloce di lui e di ogni altro. 332 Guglielmo Marconi ebbe, fin da principio, per la ra- dio una fede senza riserve che lo prese tutto diventando l’unica ragione della sua vita. Si pensa alla fede di Gali- leo nel sistema copernicano, a quella di Mazzini nell’Unità italiana, a quella di Marx nella società senza classi. Questo è il suo segreto, la ragione dei suoi suc- cessi e del suo trionfo. A rigore, quando comincia le sue prime esperienze è un dilettante e, in un certo senso, ri- mane per tutta la vita un dilettante. Non solo non prende la licenza liceale ma non fa nessuno studio regolare, e con la matematica non prende mai familiarità. Si può concedere che egli non abbia compreso veramente né Maxwell né Hertz né Righi. Egli però è tutt'altro che un ignorante. Tutto ciò che gli occorre lo trova come per istinto e lo assimila senza sforzo. Non è forte in teoria, ma alla teoria non crede molto. Fin dall’inizio si è ac- corto che gli scienziati sanno si tante cose che egli non sa, ma credono pure di sapere tante cose che l’esperien- za smentisce. La fede di Marconi è tutta materiata di esperienza. Davanti all’esperienza Marconi non ha pre- venzioni. Nell’esperienza ci sono molte cose che man- cano in tutti i libri. Marconi si orienta senza sforzo nel campo sperimentale e domina l’esperienza, perfezionan- do gli apparecchi incessantemente e arrivando presto a risultati sconcertanti per la loro novità. La storia intima della radio resta ancora da fare e chi sa fino a che punto potrà esser fatta. Purtroppo, manca- no molti dati. Ciò che finora è stato scritto su Marconi serve poco. Del movimento intimo del suo pensiero 333 Marconi stesso non scrisse mai nulla e forse non poteva. L’inventore somiglia, in un certo senso, all’artista e, come si sa, l’arte non si traduce in termini logici. A modo suo, Marconi tenne conto dei risultati scienti- fici più di quanto non si creda comunemente. Cosi la corsa alle onde lunghe si deve con ogni probabilità al fatto che, supposto che le onde elettriche si comportino in tutto come la luce, non si può superare la curvatura terrestre (e fino a un certo punto) che valendosi del fe- nomeno della diffrazione o inflessione delle onde intor- no agli ostacoli. Più lunghe sono le onde, più sono gran- di gli ostacoli che possono superare. Con le onde sono- re, che sono assai più lunghe di quelle luminose, si su- perano ostacoli assai più grandi. Marconi però si accor- se sperimentalmente che la portata delle onde era mag- giore di come voleva la teoria della diffrazione e cosi pensò che la curvatura della Terra poteva essere supera- ta. La trasmissione dei tre punti della lettera S, secondo l’alfabeto Morse, effettuata da lui tra Poldhu in Corno- vaglia e San Giovanni di Terranova alle 12,30 del 12 di- cembre 1901 susciterà sempre la massima ammirazione. Si tratta di un autentico capolavoro che solo una vera genialità poteva creare. La massima parte dei fisici lo credeva impossibile e con ragioni ineccepibili, data la teoria di Hertz e supposto che lo strato elettrico dell’aria non avesse alcuna importanza, come allora implicita- mente tutti supponevano. Marconi riusci con mezzi rudimentali: in fondo, con gli stessi apparecchi dei primi anni. Egli però aveva la 334 capacità, che è il segno più autentico del genio inventi- vo, di saper piegare gli apparecchi alla sua volontà. Da questo punto di vista, si può dire che ogni parte degli apparecchi di cui Marconi si vale è solo in senso grosso- lano presa dagli altri; in realtà essa è stata perfezionata in modo da potersi considerare nuova. Tante modifica- zioni introdotte da Marconi potrebbero sembrare di poco conto ma sono essenziali per la realizzazione prati- ca. Marconi seppe sempre perfezionare i suoi apparec- chi, superando tutte le difficoltà con tenacia e con intel- ligenza. Si dice: «Marconi fu fortunato. La radio non è sua ma di tutto il mondo scientifico-tecnico». Non è, questa, un’affermazione strampalata. Ma avviene cosi sempre, presto o tardi, quando c’è qualcosa di veramente nuovo e importante. La fortuna di Marconi non è veramente fortuna, non è effetto del caso: è la conseguenza della sua genialità e della sua tempestività. Egli ebbe una grande idea nel momento più opportuno e seppe attuar- la, trasmettendo il suo entusiasmo in ogni tecnico, in ogni paese, in ogni classe sociale. La sua gloria non po- trebbe esser maggiore. 335 IL VALORE DELLA TEORIA DI EINSTEIN° Bisogna riconoscere che finora, in questa sezione, di filosofia se n’è fatta pochissima. Le comunicazioni e le discussioni hanno avuto tutte un carattere estremamente tecnico e si potevano svolgere identicamente in un con- gresso scientifico, mentre a me pare, d’altra parte, evi- dente che molti filosofi di professione, se fossero stati presenti, si sarebbero trovati assai a disagio. Ma i filoso- fi hanno creduto opportuno di non intervenire o se sono intervenuti, anche se si sono antecedentemente occupati della teoria di Einstein, non sono usciti dal silenzio. Nemmeno l’Aliotta che alla teoria della relatività ha de- dicato un intero volume ha voluto parlare; e se parlerà per fatto personale, come mi auguro, è chiaro che con- fermerà in questo modo quanto la mia constatazione sia fondata. Questo assenteismo dei filosofi in una sezione dove si discute una teoria che ha levato tanto rumore anche nel loro campo, non può essere effetto del caso. Esso deve avere ed ha infatti, come mostrerò subito, un motivo profondo. È che alcuni dei filosofi i quali si sono occu- pati della relatività einsteiniana se ne sono occupati da * Pubblicato negli «Atti del V Congresso internazionale di fi- losofia», Napoli 1924, p. 536 sgg. 336 puri logici, cioè per mettere in luce la coerenza della dottrina dell’Einstein; ed è chiaro che il loro studio, per quanto utile, non presenta un vero interesse filosofico, tanto più che essi per i primi sarebbero disposti ad am- mettere che quello studio si poteva fare anche su opere che sono considerate prive di ogni carattere filosofico. Gli altri, come il Wildon Carr, l’Aliotta, il Bonucci, il Tilgher hanno sostenuto tutti, in sostanza, che il merito di Einstein consiste soprattutto nell’avere egli introdotto il soggettivismo nelle scienze della natura. Egli, in altri termini, avrebbe il merito di essere arrivato con molto ritardo ma con mezzi scientifici dov’era già arrivata da un pezzo la filosofia. È sostenibile questa interpretazio- ne idealistica della teoria di Einstein? A me pare del tut- to insostenibile. La relatività einsteiniana si riduce alla relatività dello spazio e del tempo”, senonché questa re- latività del tempo e dello spazio non è per nulla sogget- tività. Per Alberto Einstein i concetti di tempo e di spa- zio non hanno significato se non in funzione di un siste- ma di riferimento. Dire che due avvenimenti sono si- multanei senza indicare il sistema di riferimento, nel quale un osservatore che vi si trovi li percepisca come simultanei, è lo stesso per lui che dire una frase senza si- gnificato. Ma è chiaro che per Einstein se un osservatore A, che si trovi in un certo sistema S trova simultanei i due avvenimenti, un osservatore qualunque A, che si 20 Mi riferisco alla relatività ristretta, perchè quella generale ha di eterodosso, più che altro, il linguaggio, e, d’altra parte, non si può ancora dire fino a che punto sia fondata. 337 trovi nello stesso sistema troverà anche lui che i due av- venimenti sono simultanei. Qui non c’è nessun soggetti- vismo o idealismo. Ciò che è vero per me è vero per tut- ti; e la verità non dipende non dico dal capriccio o dall’arbitrio ma nemmeno dal pensiero. Cosi almeno crede Einstein. Il sistema di riferimento non è un sog- getto e tanto meno il soggetto senza plurale; e poi se due avvenimenti coincidono sia nello spazio che nel tempo, la loro simultaneità è assoluta, cioè indipendente dal si- stema di riferimento. Ma c’è di meglio o di peggio. Ac- canto alla relatività dello spazio e del tempo, Einstein pone un nuovo assoluto: la velocità della luce, anzi un numero infinito di assoluti: tutte le leggi naturali. La re- latività einsteiniana vorrebbe infatti rendere le leggi na- turali indipendenti dai sistemi di riferimento e quindi i filosofi di cui mi sto occupando avrebbero dovuto piut- tosto sostenere che Einstein è il creatore di un nuovo og- gettivismo. Questa tesi infatti (o una tesi assai vicina a questa) è stata sostenuta da un gentiliano: Ugo Spirito, il quale però è arrivato a una conclusione che ha destato giustamente l’indignazione del Garbasso. La scienza, di- ceva Ugo Spirito, è oggettivismo: essa non si interpreta idealisticamente se non in quanto si nega. Tesi inammis- sibile anche dal punto di vista della filosofia gentiliana. Se, come vuole il Gentile, tutto è pensiero, la scienza non può essere sub-pensiero, cioè non pensiero; e se vo- gliamo chiamare il pensiero filosofia, la scienza è filo- sofia e la filosofia è scienza e non superscienza. Ma è pure evidente che, da questo punto di vista, se è filosofia 338 la teoria di Finstein, lo sono pure, allo stesso titolo, quella di Lorentz, quella di Maxwell, quella di Fresnel o di Huyghens o di Newton. Se poi si volesse intendere per filosofia la filosofia in senso stretto, la filosofia dei filosofi puri, allora, secondo noi, la teoria di Einstein non è filosofia. Non che non abbia proprio nulla nulla in comune con la filosofia, ma ha rapporti secondari ed estrinseci con essa. Il valore fondamentale della teoria di Einstein è quel- lo di essere una forma più soddisfacente della teoria di Lorentz. La teoria di Einstein risolve tutti i problemi che voleva risolvere quella di Lorentz e in maniera più feli- ce. Con questo non intendo sostenere che si debba senz'altro accettare la teoria di Einstein: tutt’altro. Io dico che, se si vuole abbattere la teoria di Einstein, biso- gna risolvere tutti 1 problemi che essa risolve. Occorre cioè sostituirla con una teoria migliore e non limitarsi a critiche di dettaglio che, per quanto giuste, lasceranno sempre indifferenti, e a ragione, gli einsteiniani. Le criti- che di dettaglio non hanno nessun valore per gli einstei- niani per una ragione semplicissima: perché la teoria di Einstein è la costruzione più granitica che si possa fare dal punto di vista della scienza classica, quando si assu- mano come veri i due postulati fondamentali: il princi- pio di relatività e il principio della costante velocità di propagazione della luce nel vuoto. Se si accettano i due postulati, bisogna anzi riconoscere che la teoria einstei- niana è non solo rigorosamente logica ma rigorosamente ortodossa. L’eterodossia sta solo nei due postulati. Per 339 costruire dunque una teoria ortodossa, occorre negare i due postulati e dare a Finstein quella ragione a cui ha diritto. È possibile tutto questo? Ebbene io credo che sia pos- sibile, anzi io ho già sostenuto, in una nota pubblicata nell’Arduo e nell’ Elettricista”, una teoria che ritengo soddisfacente. La mia teoria è molto affine a quella del La Rosa. È anch’essa una teoria balistica, ma non è emissiva. Essa mantiene, per quanto è possibile, la no- zione dell’etere lorentziano: è, in una parola, una teoria etereo-balistica. Io ammetto, ma (si badi bene) in prima approssimazione, che la velocità c della luce nell’etere si componga vettorialmente con la velocità eventuale della sorgente che l’emette o dello specchio che la riflet- te. Da questo postulato etereo-balistico, che preciserò fra poco, discende senz’altro che la esperienza di Mi- chelson e tutte quelle che si son fatte e si potrebbero fare ricorrendo alla determinazione di ipotetiche varia- zioni di c per constatare il cosi detto movimento assolu- to (movimento rispetto all’etere), potrebbero avere esito positivo soltanto se fossero fatte da osservatori situati nell’etere, ma dovranno invece (almeno fino a un certo ordine di approssimazione non precisabile a priori) dare risultato negativo se fatte sulla terra. Quest’ipotesi concilia evidentemente il fenomeno dell’aberrazione con l’esito negativo delle cosí dette 21 [Velocità della luce, nell’«Arduo», 1923, p. 112 e nell’«Elettricista», 1 febbraio 1924, p. 17]. 340 esperienze di moto assoluto a cui si è accennato ed è inoltre d’accordo coi fenomeni delle stelle variabili, del- le nuove e delle doppie che il La Rosa spiega con l’ipo- tesi del Ritz. Ora la teoria balistica del Ritz è contraria, come è noto, al principio della conservazione dell’ener- gia; essa ci costringerebbe inoltre a rifare (e non si vede come) la teoria dell’esperienza di Foucault sulla velocità della luce nell’aria e nell’acqua e quella dei fenomeni d’interferenza, di diffrazione e di polarizzazione e ha inoltre il difetto, forse più grave degli altri, di ammettere troppo rigidamente il principio di relatività. È vero che nessuna esperienza è riuscita finora a rivelare con cer- tezza il movimento assoluto ma non è detto che nessuna ci potrà mai riuscire. Molti fisici eminenti hanno sperato e sperano di riuscirci (benché, a rigore, tutti ormai am- mettano che, se ci sarà un esito positivo, dovrà essere assai più piccolo di quello previsto dalla teoria classica) e perciò, secondo me, il principio di relatività si può am- mettere solo in prima approssimazione e solo come rela- tività unilaterale, per dirla con Bergson, cioè per noi e non per osservatori situati nell’etere. L'ipotesi etereo- balistica non è poi tanto strana quanto forse potrebbe sembrare alla prima. Intanto la concezione newtoniana è un’ipotesi etereo-balistica, essendo la luce un’emissione di corpuscoli nello spazio immobile che è poi anch’esso, in fondo, una specie di etere molto simile a quello di Lorentz, il quale, come è stato acutamente osservato, non ha altra proprietà che l’immobilità. A priori, noi po- tremmo sostenere un’ipotesi equivalente a quella di 341 Newton, vale a dire, potremmo spiegare le variazioni della velocità della luce da noi sostenute con variazioni nello stesso senso della lunghezza d’onda e della fre- quenza. Se n e à sono rispettivamente la frequenza e la lunghezza d’onda che verificano la notissima relazione nà =c, si potrebbe ammettere che diventando la velocità della luce c + v la frequenza diventasse n’ e la lunghezza d’onda X', in modo che fosse verificata l’uguaglianza n'= c+v. Plausibile a priori, questa concezione è smen- tita dai fatti. Le variazioni che ne conseguirebbero della lunghezza d’onda e della frequenza, le quali dovrebbero insieme aumentare o diminuire, sono certamente inesi- stenti. Allora l’ipotesi più plausibile ci sembra quella di ammettere che le variazioni della velocità della luce di- pendano essenzialmente da deformazioni dell’etere che lascino costantemente uguale a c il prodotto della lun- ghezza d’onda per la frequenza. Cosi avviene, per esem- pio, nell’ipotesi del trascinamento totale di Stokes-Her- tz; ma io vorrei pensare a una immagine concreta diver- sa, per quanto — lo dichiaro subito — a questa immagine non intenda dare troppa importanza. Si potrebbe pensare che ogni corpo o sistema di corpi, muovendosi, contrag- ga l’etere esterno nel senso del movimento, lasciandolo immutato nella direzione perpendicolare e nell’interno del corpo o sistema. Non pongo — lo ripeto — la quistione di fiducia su questa immagine, ma non credo che la nostra immagina- zione debba capitolare davanti ad essa se non ha capito- lato davanti allo spazio curvo e allo spazio-tempo a 342 quattro dimensioni inteso, alla maniera del Castelnuovo, come realtà concreta. Si avrebbe cosi il grande vantag- gio che si potrebbe dare nell’ipotesi balistica quella spiegazione dell’effetto Doppler che l’ipotesi del Ritz non può dare. Infatti, com’è noto, nell’ipotesi einsteinia- na, detta à la lunghezza d’onda propria della sorgente, la lunghezza d’onda apparente, per un osservatore fisso, nel caso che la sorgente gli si avvicinasse, sarebbe X' = À (1 — b). Ebbene noi possiamo ammettere che le onde se- guano le vicende dell’etere e che perciò la variazione di constatata per mezzo dell’effetto Doppler, sia reale e non soltanto apparente. Se chiamiamo n; la frequenza propria corrispondente che verifica la relazione nà’ = nà', avremo n; (1- b) = n; e, trascurando i termini in b di grado superiore al primo: n; = n (1+b). La frequenza ap- parente, con la stessa approssimazione, sarebbe dunque n',= n (1 + 2b), valore non molto differente, data la pic- colezza di b, da quello che si ottiene nell’ipotesi einstei- niana. Nella nota a cui ho adesso accennato, ho fatto vedere che l’ipotesi etereo-balistica è anche accettabile dal pun- to di vista del principio di reazione, anzi è suggerita dal- le osservazioni fatte dal Poincaré su quel principio, e che inoltre resta valida, dal mio punto di vista, l’elegan- te dimostrazione della formola di Fresnel-Fizeau data dal Guéry. È una dimostrazione elementarissima, fonda- ta sul concetto lorentziano che la materia ponderabile produca un ritardo di fase sull’onda luminosa per la composizione con l’onda principale di onde secondarie 343 provenienti dagli elementi materiali del mezzo investiti dall’onda principale e ammettendo che, in prima appros- simazione, il ritardo sia proporzionale alla lunghezza del mezzo attraversato dall’onda. Questa teoria a me sembra molto soddisfacente, ma, s’intende, io non oso affermare d’avere risolto la crisi che travaglia la fisica contemporanea. L’ultima parola spetta all’esperienza e all’esperienza soltanto. 344 LA ROSA” La Sicilia ha oggi un numero eccezionale di fisici di valore. Per limitarci a quelli che hanno raggiunto la cat- tedra universitaria, citerò il venerando Macaluso, Canto- ne, Corbino, La Rosa, Lo Surdo, Majorana, Sellerio. Non costituiscono una scuola ma potrebbero costituir- la benissimo perché hanno tutti mentalità classica e, se si fa eccezione per Corbino e La Rosa, un grande attac- camento per la «vecchia fisica». Corbino ha un entusia- smo senza limiti per i grandi rappresentanti della fisica atomica e ha il gran merito di aver portato Fermi alla cattedra di Roma; ma, anche lui, ha fatto le più belle ri- cerche sul terreno classico e resta, da molti punti di vi- sta, nell’orbita in cui si è formato. La posizione che Michele La Rosa ha conquistato coi suoi lavori sulla luce è molto originale e di essa special- mente intendiamo occuparci. Vogliamo però anche ac- cennare ai lavori del fisico palermitano sulla liquefazio- ne del carbonio. Non sono questi soltanto i lavori sperimentali del La Rosa, ma basterebbero a dargli un posto distinto nella fi- sica contemporanea. Sono lavori condotti con grande abilità sperimentale e con raro senso critico e dànno tut- * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 21 novembre 1930. 345 ta la misura del suo robusto e serio ingegno, mirabil- mente idoneo a cogliere i punti deboli di un ragiona- mento e a far crollare idoli. La critica che Michele La Rosa ha fatto alla pretesa fusione del carbonio ottenuta da D. Lummer e annunziata dai giornali «colla solennità delle grandi occasioni» nei primi giorni del 1914, è un piccolo capolavoro. Il La Rosa è riuscito per primo con sicurezza non solo a fondere il carbonio ma ad ottenere, facendo cristalliz- zare il carbonio liquido, dei piccoli diamanti, di alcuni dei quali presentiamo le microfotografie. Anche Despretz aveva creduto di ottenere la fusione del carbonio, ma Moissan dimostrò che era una illusio- ne. Tenendo a lungo nel forno elettrico il carbonio puro, Moissan vide che non si otteneva la minima traccia di fusione e comprese che 1 segni di fusione ottenuti dal Despretz erano dovuti alle impresse contenute nel car- bonio, le quali, nell’arco elettrico, davano origine a composti di carbonio duri come il diamante e anche di più. Il Moissan si era però convinto che a pressione ordi- naria, il carbonio passasse dallo stato solido al gassoso senza attraversare lo stato liquido e che si potesse fon- derlo sotto fortissime pressioni. Il La Rosa osservò che le conclusioni di Moissan con- tengono più di quello che risulta dalle esperienze, le quali dimostrano solamente che il carbonio alla tempe- ratura dell’arco elettrico (e non a temperatura superiore) passa allo stato aeriforme senza fondere e riusci ad otte- 346 nere (per mezzo del cosi detto arco elettrico cantante o musicale... Non lo conoscete? Peccato!) temperature più alte, risolvendo il problema della fusione; valendosi poi di poderose scintille elettriche ottenne anche i diamanti. Anche qui c’erano state le celebri ricerche del Moissan ma nemmeno esse sono decisive perché è probabile che i cristalli ottenuti dal Moissan provenissero dal carbo- nio, che era passato in soluzione sul ferro liquido. Galileo aveva formulato nettamente «il principio di relatività della meccanica classica», quando osservava che con esperienze meccaniche eseguite sotto coperta di una nave non si può decidere se la nave sia ferma o in moto, perché anche se la nave si muove con grandissima velocità (purché il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) non si può riconoscere il minimo mutamento nelle esperienze. «Voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazi che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi, corra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che voi fuste situati per l’opposito». Per la luce pareva che il principio di relatività non po- tesse essere valido. Si pensava infatti che il mezzo uni- versale in cui si propaga la luce (l’etere cosmico) restas- se immobile quando un corpo si muovesse e che non fosse trascinato dal corpo. Sembrava dunque evidente 347 che se noi misuriamo la velocità della luce che c’invia, per esempio, una lampada fissa rispetto a noi e troviamo un certo valore, lo stesso valore dovremo trovare se la lampada si muove, ma il valore dovrà cambiare se noi ci avviciniamo o ci allontaniamo dalla lampada. Poiché una celebre esperienza dovuta a Michelson aveva dato risultato contrario a quest’interpretazione, Einstein pen- sò che si dovesse senz’altro ammettere il principio di re- latività anche per la luce, ammettendo però nello stesso tempo che la velocità della luce fosse indipendente dallo stato di quiete o di moto della sorgente luminosa. Ne ri- sultava cosi per la luce una proprietà stranissima: la ve- locità della luce era sempre la stessa comunque si misu- rasse, anzi era la velocità-limite, la massima velocità possibile. Si doveva inoltre rinunciare ai concetti tradi- zionali sullo spazio e sul tempo, ammettendo che spazio e tempo fossero anch’essi relativi come l’alto e il basso. Un fisico teorico geniale morto giovanissimo: Walter Ritz, non volle accettare le idee... troppo sovversive di Einstein e ideò una teoria, non molto fortunata, nella quale, invece del postulato einsteiniano sulla velocità della luce, si ammetteva l’ipotesi balistica ripresa dal La Rosa: cioè si ammetteva che la velocità della luce si po- tesse sommare con quella della sorgente luminosa, come avverrebbe se la luce fosse dovuta a corpuscoli. La Rosa che non sa accettare in nessun modo la rela- tività dello spazio e del tempo né quella velocità della luce «messa sugli altari», accetta l’ipotesi di Ritz, ma l’ipotesi soltanto, non tutta la teoria. Su questa circo- 348 stanza egli ha molto insistito ma, non si sa perché, molti credono invece che accetti integralmente la teoria di Ritz e hanno perciò per le sue idee una diffidenza del tutto ingiustificata. A me pare che l’atteggiamento del La Rosa non possa suscitare che simpatia, anche da parte dei relativisti, purché essi non siano più einsteiniani di Finstein e non credano perciò che la teoria di Einstein sia un tabù, tan- to più che domani si potrebbe trovare una teoria più comprensiva, nella quale potrebbero trovar posto i punti di vista di Einstein e di La Rosa che oggi sembrano e, nella loro formulazione attuale, sono irriducibili. È certo che poiché il La Rosa parla di postulato e non di teoria di Ritz ammette implicitamente che una teoria accettabi- le manchi ancora; e nessuno può dire che in una nuova teoria non vi possa essere posto, oltre che per il gran nome di Einstein, anche per quanto c’è di vivo nel pen- siero di Michele La Rosa. L'ipotesi balistica ha sull’ipotesi di Einstein il grande vantaggio di lasciare intatti i concetti tradizionali di spa- zio e di tempo; ed è chiaro che per chi non voglia rinun- ziare a questi concetti, la teoria della relatività non può essere che una forma matematica e nulla più. È vero che, ammettendo il postulato di relatività e quello della costanza della luce, seguono la relatività dello spazio e quella del tempo, ma chi trova assurda la concezione re- lativista, cercherà evidentemente di rinunziare a uno dei due postulati o a tutt'e due e spiegherà in altra maniera o non spiegherà affatto il risultato delle esperienze ten- 349 denti a mettere in evidenza un movimento rispetto all’etere cosmico. Il La Rosa accetta il principio di rela- tività, ma sostituisce al principio della costanza della ve- locità della luce ammesso da Einstein, il postulato di Ritz o ipotesi balistica, cioè ammette che la velocità del- la luce, quando la sorgente luminosa è in moto, si som- mi con quella della sorgente. È una posizione — occorre riconoscerlo — fortissima e ha dato modo al La Rosa di creare una nuova teoria delle stelle variabili che è assai bella: è tanto bella che, se anche non si volesse accetta- re, dovrà essere ammirata perché dimostra nel suo auto- re originalità e profondità di vedute. AI La Rosa sono state fatte molte obiezioni e c’è stato un momento in cui parlare della teoria balistica... era proibito; ora, per fortuna, la situazione va migliorando e tutti — credo — riconoscono alle vedute del fisico di Pa- lermo diritto di cittadinanza nella scienza, anche se qualcuno è persuaso che esse passeranno. (Niente paura per questo: l’illustre fisico teorico olandese Lorentz, che, tra parentesi, ebbe parole di vivo elogio per le idee del La Rosa, disse che anche la teoria di Einstein passe- rà, anzi che è già passata. Non importa tanto, del resto, che le teorie restino, ma piuttosto che muoiano bene, dopo aver fatto pensare molto). Un’obiezione che sembrò schiacciante contro l’ipote- si balistica fu fatta da Corbino e Levi-Civita, i quali di- mostrarono che essa conduceva a variazioni di colore enormi e assolutamente inammissibili in stelle aventi una certa differenza nella loro velocità. Ma una relativi- 350 sta senza infatuazioni cioè italiano: Giovanni Giorgi, mostrò che ammettendo una concezione quantistica e non puramente ondulatoria della luce, il ragionamento di Corbino e Levi-Civita conduceva soltanto a prevede- re certe variazioni d’intensità nella luce delle stelle, che erano state previste proprio dal La Rosa e che la teoria balistica delle variazioni di colore per effetto del movi- mento restava ancora da fare. Recentissimamente questa teoria è stata fatta e in ma- niera del tutto d’accordo con l’esperienza. Un’altra obiezione, che sembrò formidabilissima, è quella dell’astronomo olandese De Sitter, il quale disse che se la velocità della luce si sommasse con quella del- la stella che l’emette, come vuole l’ipotesi balistica, si dovrebbe avere una sovrapposizione dei raggi emessi da punti differenti dell’orbita e quindi delle immagini delle stelle in differenti posizioni dell’orbita. Cosi riuscirebbe impossibile lo studio del movimento della stella non po- tendosi distinguere le diverse posizioni che la stella oc- cupa al variare del tempo. Il La Rosa mostrò che questo ragionamento «sempli- ce e fortemente intuitivo» è inesatto perché confonde in- sieme casi in cui le conclusioni sono valide con casi in cui sono inaccettabili; e (fondandosi sull’ipotesi balisti- ca e sull’ipotesi assai plausibile dell’esistenza di un gran numero di sistemi analoghi al nostro sistema planetario) riusci a dare, come s’è accennato, una nuova teoria delle stelle variabili e a prevedere tutto un nuovo ordine di fe- nomeni astronomici che, al momento in cui egli comin- 351 ciò a meditare sull’ipotesi balistica, gli erano sconosciu- ti e si rivelarono poi d’accordo coi dati sperimentali. Che cosa si poteva pretendere di più nel momento stori- co presente in cui i fisici modernissimi come Louis de Broglie confessano di non sapere ancora che cosa sia un raggio di luce? Nella comunicazione fatta al Congresso internaziona- le di fisica di Como, il La Rosa ha parlato della strana accoglienza che alcuni scienziati hanno fatto ai suoi la- vori. «Alcuni fisici — diceva — considerano questi lavori con interesse ma non si pronunziano, aspettando dall’astronomia la conferma delle “applicazioni” che ho fatto del principio balistico ai fenomeni delle stelle va- riabili: e cosi considerano insufficiente la prova che è data dall’accordo meraviglioso tra la previsione ed 1 fat- ti. Molti astronomi trovano ingegnosa e persuasiva la teoria balistica delle variabili, ma esigono che 1 fisici di- mostrino l’esattezza del principio balistico indipenden- temente dalla teoria delle stelle variabili. Essi scindono l’inscindibile e non si accorgono che la corrispondenza tra le previsioni ed i fatti è l’unica prova che si possa chiedere sulla validità del postulato balistico. La teoria delle variabili è la prova decisiva che si chiede. Rompe- re artificiosamente questa unità essenziale, domandando all’astronomia la conferma dell’“applicazione” del prin- cipio balistico, significa cercare fuori della realtà gli ele- menti per ricomporre l’unità che si è artificiosamente di- strutta». 352 Sono parole piene di buon senso: non vedo che cosa si possa rispondere. Credo che si debba lealmente rico- noscere che con La Rosa la fisica contemporanea è stata ingiusta. Per merito del La Rosa, l’ipotesi balistica ha dimostrato una fecondità e una vitalità che non si sareb- bero sospettate. Il fisico palermitano merita una maggio- re simpatia, una grande simpatia: e noi ci auguriamo che tutti gli spiriti sereni riconoscano finalmente questa semplice verità. 353 RITORNO ALL’ESPERIENZA" Chi studia la storia della scienza non può non accor- gersi che, nei grandi sperimentatori, l’esperienza non è mai una verifica sterile delle teorie preesistenti ma un'attività creatrice che, appunto per questo, modifica sempre le teorie e qualche volta le distrugge. È che, come si è avuto più volte occasione di ricordare, le teo- rie sono essenzialmente rivolte al passato e sistemano bene, quando ci riescono, soltanto le esperienze passate, senza poter dir nulla di preciso sul futuro. I teorici non sono profeti. Può qualche volta avvenire che un geniale teorico, sistemando un gruppo di fenomeni, faccia un’ipotesi nuova che poi si trova d’accordo con la realtà (cosi fece Maxwell con la corrente di spostamento) ma, anche in questo caso, l’ultima parola spetta all’esperien- za, la quale può dare le più grandi sorprese. Restando a Maxwell, tutti oramai vedono che la sua teoria elettro- magnetica nonostante i suoi trionfi è tutt'altro che defi- nitiva. Se essa ha il gran merito di prevedere le onde hertziane, è poi incapace di spiegarne la propagazione; né può interpretare in maniera soddisfacente i fenomeni di emissione, assorbimento, diffusione, dispersione. Sot- to la forma che le ha dato il Lorentz, alcune di queste * «L’ Ambrosiano», 4 novembre 1932. 354 difficoltà spariscono ma ne sorgono altre non meno gra- vi: quelle che hanno condotto alla Relatività einsteinia- na e alla meccanica ondulatoria. E non si può nasconde- re che anche il fenomeno di Zeeman che sembrò in pri- mo tempo la più bella conferma della teoria degli elet- troni del Lorentz è solo in parte d’accordo con essa o meglio ha due forme: quella che è stata detta normale perché è d’accordo con la teoria di Lorentz ma è in real- tà un’eccezione, e quella che è detta anomala ed è la più comune e che è stata spiegata da Uhlenbeck e Goudsmit ammettendo che l’elettrone produca un campo magneti- co ruotando su se stesso (ipotesi dello «spin» dell’elet- trone). Nel lucido rapporto sullo stato attuale della teo- ria elettromagnetica presentato nel luglio scorso al Con- gresso internazionale di Elettricità di Parigi, Louis De Broglie mette in evidenza le varie difficoltà della teoria di Maxwell-Lorentz e poi fa vedere che anche la «teoria quantica dei campi» di Heisenberg e Pauli, la quale vo- leva essere una teoria elettromagnetica d’accordo col concetto di fotone, si deve ritenere fallita. Il De Broglie aggiunge che questo insuccesso è un caso particolare delle difficoltà che s’incontrano quando si tenta di tra- sportare i metodi della meccanica ondulatoria in un campo in cui sia necessario tener conto della Relatività, ciò che, secondo lui, è tanto più strano in quanto la mec- canica ondulatoria non è storicamente concepibile senza il principio di relatività. A noi pare tuttavia che l’impos- sibilità in cui ci troviamo di creare una teoria elettroma- gnetica che sia d’accordo con la Relatività e con la mec- 355 canica ondulatoria, dimostri l’insufficienza di tutt’e tre le teorie. Queste non possono più esser considerate come aspetti diversi di un’unica teoria più comprensiva: sono probabilmente vedute parziali e provvisorie. E poi- ché non sembra possibile arrivare alla sintesi per via pu- ramente teorica, sorge la necessità di nuove esperienze. Torniamo cosi al discorso che si faceva in principio: le teorie invecchiano e solo l’esperienza può ringiovanirle. Vediamo in particolare che certe teorie, come la Relati- vità e la meccanica ondulatoria, che alcuni, qualche anno fa, ritenevano definitivamente sistemate, richiedo- no invece una riforma. Presto tutti si accorgeranno che di definitivamente sistemato non c’è nulla e non ci può esser nulla. Il mondo del nucleo atomico si sapeva già che non era sistemato e si è ripetuto in tutti i toni al Convegno di fisica nucleare di Roma; ora si vede meglio. Da allora si sono ottenuti nuovi successi in Francia, in Inghilterra, in America e forse anche in Russia. In Italia non si è anco- ra cominciato ma speriamo che non si tarderà molto. Il mondo nucleare è del tutto nuovo, tanto che anche i più entusiasti seguaci delle teorie fisiche più recenti dichia- rano che i teorici non sanno nulla del nucleo e devono lasciare ogni iniziativa agli sperimentatori. Dalle ultime esperienze pare si sia avuta una prima conferma speri- mentale della relazione einsteiniana che lega la materia all’energia ma si tratta di un punto delicatissimo dove è assai difficile l’accordo. Il dissenso dipende principal- mente dal linguaggio. La trasformazione della materia 356 in energia sembra ad alcuni assurda perché essi concepi- scono l’energia come una proprietà di una sostanza e la trasformazione sarebbe come dire che il colore si tra- sforma nell’oggetto colorato o viceversa. Si tratta invece di un’altra cosa, che magari potrà non esser vera ma non è assurda, come non è assurda la decomposizione dell’acqua in idrogeno e ossigeno. La più piccola quan- tità d’acqua è la molecola d’acqua. Questo però non si- gnifica che la molecola d’acqua (o di qualsiasi altro cor- po composto: il vino, il pane, il sale, tutti i corpi tranne quelli che i chimici chiamano elementi) non significa che l’acqua e gli altri composti non si possano decom- porre. Si può, ma invece dell’acqua abbiamo l’idrogeno e l’ossigeno, invece del sale di cucina abbiamo il cloro e il sodio, invece del composto gli elementi che lo costi- tuiscono. Che le particelle più piccole degli elementi si chiamino atomi potrà piacere o no ma è certo che nes- sun chimico crede che gli atomi siano indivisibili. I chi- mici credono che gli atomi siano le particelle più picco- le di materia che intervengano nelle reazioni chimiche e in questo senso sono veramente indivisibili ma essi san- no che gli atomi si scindono in elettroni e in protoni e — chi sa? — forse in qualche altra cosa. I protoni e gli elet- troni sono indivisibili? Pare di si ma nessuno lo sa con certezza e molti pensano che, in un modo ancora scono- sciuto, essi possano dare origine, trasformandosi in tutto o in parte, a radiazioni. Questa trasformazione non ha niente che fare con la trasformazione della proprietà nel- la sostanza perché, per la fisica moderna, tutti i corpu- 357 scoli, compresi quelli che costituiscono le radiazioni elettromagnetiche, sono nello stesso tempo sostanza e proprietà, materia ed energia, massa e onda. Di questo, a quanto pare, alcuni si dimenticano. Per evitare equivoci, forse sarebbe opportuno dire non che la materia si tra- sforma in energia ma che la materia ordinaria si trasfor- ma in radiazione. Cosi si metterebbe in evidenza che tra la materia e la radiazione non c’è un abisso e che la ra- diazione è in sostanza una varietà di materia o, per dirla con Ambrogio Fusinieri, una materia attenuata. Certo noi siamo ancora molto lontani da quella conoscenza completa e sicura del fenomeno che sarebbe necessaria per potersi esprimere senza incertezze. Il linguaggio ri- mane equivoco perché anche le nostre conoscenze sono equivoche. Noi crediamo di sapere che ogni volta che ha origine un atomo si ha produzione di energia ma non sappiamo bene come e perché ciò avvenga, né come dai protoni e dagli elettroni si passi alla radiazione. Anche qui tutto fa credere che una sistemazione esauriente non sarà possibile senza nuove, laboriose ricerche sperimen- tali. Se la fisica nucleare, come tutti ammettono, non si può ancora ritenere nemmeno vagamente sistemata, è facile capire che nemmeno l’altra fisica si può ritenere rigorosamente sistemata. La fisica non può essere che una. Può esser comodo distinguere fisica nucleare, fisica atomica e fisica classica perché certe leggi, importantis- sime a una certa scala, possono non avere importanza a una scala molto differente. Per piccole velocità, la mas- 358 sa si può considerare costante come vuole la meccanica classica ma è sottinteso che ciò si ammette solo in via approssimativa; nel mondo macroscopico, si può pre- scindere da considerazioni quantistiche ma se volessimo essere assolutamente rigorosi, dovremmo tenerne conto perché le leggi quantistiche valgono per tutti i fenomeni e non soltanto per quelli della scala atomica; analoga- mente possono esistere leggi nucleari di cui non sia ne- cessario tener conto né nella fisica atomica né in quella classica ma, a volere essere rigorosi, la fisica nucleare, o una fisica più comprensiva, sarebbe la vera fisica e di essa potrebbe esser necessario tener conto anche in altri campi. Gamow, per esempio, ha spiegato perché le par- ticelle alfa non abbandonano tutte istantaneamente i nu- clei radioattivi a cui appartengono, ammettendo che, a distanze minime, cariche elettriche dello stesso nome si attraggono, contrariamente alla legge di Coulomb, fon- damentalissima in elettrostatica. È come dire che la leg- ge delle azioni elettrostatiche è più complessa di quella di Coulomb e coincide approssimativamente con la leg- ge di Coulomb nelle condizioni ordinarie. Ma allora non solo sorge il problema, proprio della fisica nucleare, di determinare la legge vera: si deve pure vedere se la leg- ge determinata alle piccolissime distanze sia valida an- che alle grandi e alle grandissime. Dalle condizioni or- dinarie d’esperienza noi ci possiamo allontanare non soltanto cambiando le distanze e in generale le dimen- sioni, in un senso o nell’opposto, ma anche rendendo molto più precise le misure. Se la fisica nucleare è dav- 359 vero nuova, tutta la fisica è nuova. Sia le leggi atomiche che quelle macroscopiche, sono probabilmente qualcosa di simile alla legge di Boyle e Mariotte; e i nuovi speri- mentatori hanno davanti a sé, in ogni direzione, un com- pito immenso. In un campo vicino a quello nucleare c’è la radiazio- ne penetrante o raggi cosmici. Di che si tratta? Per Mil- likan, si tratta di raggi della stessa natura della luce ma di lunghezza d’onda molto più piccola di quella dei rag- gi gamma: si tratta di fotoni che non provengono né dal sole né dalla Via Lattea né probabilmente dalle altre stelle ma da regioni lontane in cui la temperatura e la pressione sono completamente differenti da quelle che si hanno nella nostra atmosfera o in quella delle stelle. Essi non sono dovuti né a disintegrazione atomica né a trasformazione di atomi in radiazione ma a un processo di formazione di atomi. Secondo altri, che preferiscono parlare di radiazione penetrante senza escludere recisa- mente l’origine cosmica sostenuta da Millikan, si tratta invece di una radiazione corpuscolare. Qualche altro, come il nostro Bruno Rossi, senza impegnarsi a fondo sulla natura della radiazione che arriva al limite della nostra atmosfera, sostiene che i fenomeni attribuiti alla radiazione penetrante hanno la loro origine immediata dalla presenza nell’atmosfera di una radiazione che fino a prova contraria si deve ritenere corpuscolare. Tutti però, qualunque sia il tono dei loro discorsi, mostrano di aver fede soltanto nell’esperienza e annunziano nuove ricerche sperimentali. Anche i fisici teorici sono entrati 360 nello stesso ordine di idee e attendono i risultati di Mil- likan, Piccard, Rossi, Regener, Compton, Anderson. Il fermento sperimentale non si limita soltanto alla nuova fisica ma si estende ai problemi della stratosfera e della radio. A queste ultime ricerche partecipa attiva- mente anche l’Italia. La ripresa sperimentale che abbiamo rapidamente de- lineato non ha niente di reazionario. Sono cadute alcune facili illusioni teoriche ma nessuno vuol tornare indie- tro. Ci siamo convinti che non si possa più star fermi e vogliamo andare avanti. Per noi italiani, data la nostra grande tradizione sperimentale, ciò non può essere che motivo di gioia. 361 DE BROGLIE” Louis de Broglie, premio Nobel 1929, è il più simpa- tico dei fisici contemporanei: intendo dire che gode sim- patie universali e senza riserve. È un uomo di estrema avanguardia e potrebbe vantarsi di aver fatto sorgere un nuovo mondo dalle macerie della vecchia fisica; invece preferisce di attenuare più che può la novità della sua posizione, mettendone in evidenza la necessità. Le ulti- me parole del suo volume Ondes et mouvements sono queste: «L’esperienza ci fornisce un numero sempre cre- scente di notizie sul mondo subatomico e tuttavia tutto vi resta misterioso; forse soltanto per mezzo d’idee mol- to ardite si arriverà a vederci chiaro ed è questa la scusa degli audaci tentativi contenuti in questo libro. Oggi come ieri, secondo la bella immagine di Newton, noi siamo dei bambini che giocano sulla spiaggia mentre l'Oceano della Verità si stende del tutto inesplorato da- vanti a noi». Per Louis de Broglie la fisica non è dunque bell’e esaurita: al contrario essa è ancora tutta da sistemare. A differenza di certi suoi ammiratori che lo considerano come il solutore della crisi della fisica contemporanea, egli ritiene, con rara modestia, di avere fatto soltanto * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 14 novembre 1930. 362 qualche tentativo per risolvere la crisi e che molto lavo- ro e molto tempo sono ancora necessari perché ci si veda chiaro. Louis de Broglie, dottore in scienze e «maître de con- férences» alla Sorbona, appartiene a una nobile famiglia di origine italiana. È fratello di Maurice de Broglie, che è molto conosciuto per le sue belle esperienze sui raggi X; e dal fratello, col quale ha collaborato, ha preso il senso fisico: quel senso fisico che i teorici perdono cosi facilmente. Noi crediamo che anche all’Italia debba qualcosa. È francese: nello sguardo, nella cultura, nella mentalità e forse non ha mai studiato nel testo né i nostri poeti, né i nostri filosofi, né i nostri scienziati; ma il suo senso della realtà e il suo equilibrio ci sembrano schiet- tamente italiani. Davanti agli sviluppi che la sua opera fondamentale ha avuto per opera di Schrödinger, sareb- be umano che egli si inebriasse: invece no. Louis de Broglie vede lucidamente che questi sviluppi, per quan- to belli, non sono del tutto soddisfacenti e confessa che, se abbiamo fatto molti progressi, ci si vede tuttavia meno chiaramente di prima. Per potere far capire al lettore in che cosa consista l’originalità di Louis de Broglie (e senza entrare natural- mente nei labirinti matematici in cui il fisico francese si muove con tanta agilità), dobbiamo richiamare qualche idea sulla luce, che egli ha certamente studiato nelle scuole secondarie, ma che probabilmente ha dimentica- to. 363 Fino al ’900 1 fisici erano unanimi nell’ammettere che la luce fosse dovuta a vibrazioni di un mezzo (un po’ misterioso in verità) che si suppone diffuso in tutto lo spazio e nell’interno di tutti i corpi e che si chiama etere cosmico. Nessuno dubitava che la teoria ondulatoria della luce avesse del tutto sconfitto la teoria di Newton, secondo la quale la luce è dovuta a corpuscoli di «fluido luminoso». Il fisico francese Agostino Fresnel che, nella sua breve vita, aveva portato al massimo splendore la teoria ondulatoria, appariva tutto luce; e poco mancò non si sostenesse che le vedute di Newton erano inde- gne del grande teorico della gravitazione universale. È vero che Maxwell aveva modificato la teoria di Fresnel perché aveva sostenuto che le vibrazioni non erano ela- stiche, come pensava Fresnel, ma elettromagnetiche: erano cioè non qualcosa di simile alle onde che si for- mano alla superficie di una vasca piena d’acqua quando ci si butta dentro un sasso, ma delle correnti alternate ad altissima frequenza; però questa teoria che ebbe, per opera del grandissimo Hertz, la sanzione dell’esperien- za, sembrava a tutti che confermasse le vedute di Fre- snel, perché la luce rimaneva sempre un fenomeno vi- bratorio. Senonché, nel corso delle sue esperienze, Hertz scopri un fenomeno (il cosi detto fenomeno fotoelettri- co, studiato con molto successo in Italia da Augusto Ri- ghi) che doveva svelarsi, in questi ultimi tempi, come assolutamente ribelle alle vedute di Fresnel e di Max- well e favorevole invece alla teoria dei quanti di Planck- 364 Einstein che è invece un ritorno (non puro e semplice) alle vedute newtoniane. Un altro fenomeno scoperto da Compton e un altro dovuto a Raman si spiegano pure benissimo con la teo- ria dei quanti e sono inesplicabili con la teoria ondulato- ria. Ci sono dunque moltissimi fenomeni (quelli che Newton spiegava con la sua teoria e quelli che sono la gloria di Fresnel e di altri fisici, tra i quali il bolognese Francesco Maria Grimaldi) che si spiegano benissimo con la teoria ondulatoria; ma ce ne sono altri che si spie- gano soltanto con la teoria dei quanti. E poiché i due punti di vista sono irriducibili, i fisici furono presi da un senso di malessere di cui si fece interprete efficacissimo, in un articolo di Scientia molto russo nel suo pessimi- smo, O. D. Chwolson. Louis de Broglie, ancora giovanissimo, pensò che se è evidente che la luce è onda ed è evidente che è anche corpuscolo, è assurdo affannarsi a dimostrare che è sola- mente onda o solamente corpuscolo: ed è assurdo pian- gere. L’idea più naturale è che questa dualità sia una legge generale e forse il principio fondamentale della natura e che quindi l’onda e il corpuscolo siano, come poi disse Bohr, due facce complementari della realtà. Può darsi benissimo — pensò de Broglie — che dovunque vi sia un corpuscolo, vi sia, associata con esso, un’onda e viceversa. Fondandosi sulla teoria della relatività e sull’ipotesi fondamentale della teoria dei quanti, egli riusci a preci- 365 sare quantitativamente questa sua idea. La sua formola fondamentale, che è la formola su cui si fonda una nuo- va teoria: la meccanica ondulatoria, ebbe numerose, im- pressionanti verifiche in America, in Germania, in In- ghilterra, in Francia, tanto che oramai nessuno dubita che quando un corpuscolo si muove, si muova con esso Ponda di de Broglie. Ma che significa esattamente questa dualità di onde e corpuscoli? Louis de Broglie si è fatta questa domanda e ha risposto francamente che il problema difficilissimo è ancora assai lontano dalla soluzione. L’idea più semplice — continua de Broglie — è quella di Schrödinger, che immagina il corpuscolo costituito da un pacchetto o gruppo di onde; ma disgraziatamente, se quest'idea, seducente per la sua semplicità, è d’accordo con alcuni vecchi fenomeni, quando si passa al campo proprio della nuova teoria, non sembra più sostenibile, perché, se i corpuscoli fossero pacchetti di onde, non potrebbero avere esistenza stabile. Nemmeno l’idea sostenuta per parecchio tempo dallo stesso de Broglie, secondo la quale il corpuscolo sareb- be una singolarità in un fenomeno ondulatorio, sembra facile a sviluppare perché si urta contro serie obiezioni. L’Autore ha fatto un altro tentativo che è il più vicino alle antiche concezioni della fisica: quello di considera- re l’onda come un vero fenomeno reale occupante una certa regione dello spazio e il corpuscolo come un punto materiale avente una certa posizione sull’onda. Ma/heu- 366 reusement, anche qui s’incontrano difficoltà gravissime e non si può considerare la teoria come soddisfacente. L’Autore riassume poi il punto di vista di Heisenberg e Bohr, secondo 1 quali l’onda non ha realtà fisica ma è un semplice simbolo di ciò che sappiamo sul corpuscolo ed ammette che esso debba contenere una gran parte di verità, ma che, d’altra parte, se è indiscutibile che tanto la materia che la luce implichino la dualità delle onde e dei corpuscoli e che la ripartizione dei corpuscoli nello spazio si prevede soltanto con considerazioni ondulato- rie, disgraziatamente la natura profonda dei due termini della dualità e il loro rapporto restano avvolti nel miste- ro. La ragione reale di questi bellissimi «malheureuse- ment» e in particolare la ragione che impedisce a de Broglie di aderire senz’altro alle idee di Heisenberg e Bohr, a me pare sia questa: il fondatore della meccanica ondulatoria ha una mentalità essenzialmente classica. Egli dice che il vero scopo della fisica teorica «sem- bra» quello di scoprire e studiare forme matematiche nelle quali i fenomeni fisici possano essere inquadrati e che la realtà che si nasconde dietro le formole è prodi- giosamente sconosciuta; ma noi sentiamo che in fondo egli non ci crede o almeno non se ne contenta, né gli sappiamo dar torto. È per questo che il de Broglie sa parlare della teoria di Newton con vero entusiasmo, di- mostrando che si tratta di un punto di vista serio e pro- fondo. 367 Nessuno sente più di questo rivoluzionario il rispetto per il passato ed è più di lui convinto che i successi di oggi abbiano per condizione la scienza di ieri, alla quale — dice lui — noi attingiamo continuamente e quasi senza accorgercene. Il segreto del grande successo di Louis de Broglie è in questo suo meraviglioso equilibrio: e naturalmente nel suo grande ingegno. 368 HESS E ANDERSON PREMI NOBEL“ I raggi cosmici sono all’ordine del giorno. I pessimi- sti vorrebbero far credere che sulla loro natura ne sap- piamo oggi quanto ne sapevamo al principio del secolo: quasi nulla; ma hanno torto. La verità è che nel primo decennio del nostro secolo si conoscevano le proprietà fondamentali dei raggi penetranti e Richardson aveva capito che essi venivano dal difuori dell’atmosfera. Oggi sappiamo con certezza che non sono dovuti a so- stanze radioattive del suolo o dell’atmosfera; sappiamo che la loro energia è maggiore a grande altezza (e per questo alcuni li chiamano raggi d’altitudine); sappiamo che penetrando nella nostra atmosfera producono elet- troni dei due segni. Non si può ancora decidere se siano fotoni o elettroni ma forse la cosa non è della massima importanza: forse questo dilemma, come tanti altri, non è inevitabile. Può darsi che fuori dell’atmosfera siano fotoni di grande energia; e in questo senso ha ragione Millikan. Quando entrano nell’atmosfera la ionizzano, o si lonizzano, e abbiamo gli effetti corpuscolari su cui in- sistono Compton e da noi Bruno Rossi; abbiamo i posi- troni di Anderson, gli sciami di Blackett e Occhialini e tante altre meraviglie che giorno per giorno vengono in * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 4 dicembre 1936. 369 luce. I raggi cosmici se ci hanno dato molto filo da tor- cere, ci hanno dato molte soddisfazioni e il gran dono dell’elettrone positivo: e per fortuna non sono ancora un tema esaurito. Il significato del premio Nobel per la fisi- ca è tutto qui. Vittorio F. Hess e Carlo David Anderson sono due valorosi e fortunati studiosi dei raggi cosmici. Meritavano il premio ed è bene che l’abbiano avuto. Tuttavia nei nostri circoli si discuterà, forse troppo, sulla motivazione che del premio hanno pubblicato al- cuni giornali. Si è detto che Hess ha scoperto i raggi co- smici e Anderson l’elettrone positivo: e qui si può di- scutere (se proprio non si ha niente da fare). Hess si sa benissimo che cosa ha fatto: ha dato la pro- va decisiva che le radiazioni cosmiche non sono dovute a sostanze radioattive diffuse nell’atmosfera, ma hanno un’origine extra-terrestre. Le sue ascensioni e i suoi scritti più importanti sono di prima della guerra mondia- le (1912 e 1913). Se mai, si può dire che il premio arrivi con troppo ritardo e abbia qualcosa di malinconico e, stavo per dire, di postumo, per quanto il coraggioso, scrupoloso e modesto scienziato sia ancora al lavoro. Recentemente in collaborazione con Steinmaur ha stu- diato i raggi cosmici in rapporto alle macchie solari, ar- rivando alla conclusione, senza nulla di preciso però, che probabilmente i raggi cosmici sono di natura corpu- scolare. Pensando alla grande cautela con cui Hess pro- cede nelle sue affermazioni, Pangloss potrebbe sostene- re che è giusto che Hess abbia avuto solo ora, dopo Mil- likan e dopo la scoperta dell’elettrone positivo, il pre- 370 mio Nobel, o meglio una parte. Hess è di quegli uomini che non si capiscono e non si apprezzano secondo i loro meriti alla prima, ma quando viene il momento tutti li apprezzano e li ammirano. Fin dalle prime ascensioni Hess comprese, appog- giandosi alla teoria di A. S. Eve, che la radiazione pene- trante doveva avere origine extra-terrestre. La ionizza- zione era troppo forte per potersi spiegare col radio C. Con le ascensioni successive dimostrò che mentre al suolo la radiazione penetrante produce, per centimetro cubo d’aria e per secondo, undici ioni e otto decimi, tra i cinquecento e i mille metri d’altitudine ne produce dieci e tre; verso i mille-duemila metri si ritrova il valore al suolo e poi la ionizzazione va sempre crescendo, sicché fra i duemila e i tremila metri si hanno tredici ioni e tre, fra i tremila e i quattromila, sedici e cinque, fra i quat- tromila e i cinquemila e duecento, ventisette e due deci- mi. In questo modo Hess, come dice benissimo Rossi nell’«Enciclopedia Italiana» (28, 677), separava per il primo la componente dovuta alle sostanze radioattive del suolo e dell’atmosfera da quella dovuta ai raggi co- smici veri e propri. Questo è il punto. I meriti del nostro compianto Domenico Pacini come precursore di Hess e di Millikan nessuno li può mettere in dubbio e noi li abbiamo riconosciuti in questa rubri- ca; ma sostenere, come vorrebbe qualcuno, che Hess, Kohlhörster e Millikan non hanno fatto altro che confer- mare le scoperte di Pacini è un’esagerazione. Pacini di- mostrò nel 1910 (lo dico con le sue parole) che «una 371 parte non trascurabile della radiazione penetrante che si riscontra nell’aria avesse un’origine indipendente dall’azione diretta delle sostanze attive contenute negli strati superiori della crosta terrestre»; con le ricerche successive confermò questa conclusione. Nella nota pubblicata nel Nuovo Cimento del 1912 da cui abbiamo tratto la citazione precedente il Pacini dice che Gockel e Hess, con le ascensioni del 1911, confermavano le sue esperienze: «cioè che esista nell’atmosfera una sensibile causa ionizzante, con radiazioni penetranti, indipenden- te dall’azione diretta delle sostanze radioattive del terre- no». La radiazione penetrante è per Pacini indipendente dall’azione diretta delle sostanze radioattive del terreno ed è nell’atmosfera, non fuori. Con le ricerche del 1912 e °13 Hess andò più oltre: dimostrò che la radiazione pe- netrante non ha che fare, né direttamente né indiretta- mente, con la radioattività del suolo e ha origine fuori dell’atmosfera. x k x Il caso di Anderson è più complesso. Ripeto che non c’è da dubitare minimamente: il premio Nobel lo merita più di parecchi altri. Ma è proprio lui che scopri l’elet- trone positivo o Blackett e Occhialini? Le misure di Anderson sull’energia dei raggi cosmici sono importanti; ed è certo che in quelle ricerche il fisi- co americano si trovava in presenza degli elettroni posi- tivi. L'esperienza della camera di Wilson con la lamina 372 di piombo non lascia dubbi. Un raggio cosmico che vie- ne dall’alto, oltrepassando la lamina metallica, perde energia e quindi subisce maggiormente l’azione del campo magnetico in cui è posto, dimodoché se prima d’attraversare la lamina era quasi rettilineo, dopo diven- ta più curvo. Conoscendo il verso del campo magnetico, il segno delle particelle resta determinato. In primo tem- po però Anderson non pensò a elettroni positivi ma a protoni animati da grande velocità. Benché i protoni ab- biano una massa quasi duemila volte maggiore di quella degli elettroni, l’ipotesi di Anderson era tutt'altro che strampalata: e anche Millikan l’accettava. È vero che nelle esperienze successive Anderson si persuase che al- cune delle particelle positive da lui osservate avevano una massa assai minore di quella del protone, ma non parlò ancora di elettroni positivi: parlò di positroni. Blackett e Occhialini, riprendendo con ingegnosissimo dispositivo le esperienze di Anderson, si accorsero che nell’affermazione di Anderson... c’era una erre di trop- po. Non si tratta di positroni — essi dissero — ma di posi- toni, di elettroni positivi. L'affermazione sembrava a molti audace, temeraria (non ad Anderson); ma era mol- to meditata. Blackett e Occhialini lavoravano a contatto con Dirac, che dopo la scoperta dell’elettrone positivo ebbe il premio Nobel: e ne accettavano la teoria. Dirac ammetteva che l’elettrone (quello che fino allora tutti conoscevano, il negativo) potesse trovarsi in uno stato di energia negativa, cioè in una specie di ultracatalessi in cui si comportava come se non esistesse. In seguito a 373 un incubo improvviso, per esempio per l’urto di un rag- gio cosmico, l’elettrone... sussultava e cambiava posto, diventando un ordinario elettrone negativo; il posto ri- masto libero era un nuovo corpuscolo: l’elettrone positi- vo o positone. L’elettrone positivo è raro perché nasce sempre gemello e in maniera piuttosto strana, come si è detto; l’elettrone negativo invece ordinariamente nasce solo. x k x A questo punto un lettore pettegolo (ma di questi let- tori Ambrosiano non ne ha) potrebbe domandare: Ci fu qualcuno che informò Anderson dell’idea di Blackett e Occhialini o si tratta di coincidenza? O c’entra addirittu- ra la telepatia? Io non so e non voglio rispondere. Anderson, Dirac, Blackett e Occhialini non appartengono né alla cronaca dei pettegolezzi né a quella dell’occultismo. Sono, fra- ternamente uniti, nella storia della fisica d’oggi: e il re- sto non conta. 374 L’UOMO DI LANGEVIN* La teoria della relatività di Einstein da qualche tempo va subendo una revisione. Si tratta di un processo scientifico 0, se si vuole, scientifico-filosofico da cui è assente ogni considerazio- ne di carattere politico. Alcuni dei critici più vivaci, per esempio Pierre Dive, professore alla facoltà di scienze di Clermont-Ferrand, più che antieinsteiniani preferisco- no dirsi semieinsteiniani, perché si contrappongono alle interpretazioni fisiche e non alle formole della teoria di Einstein. Il punto più discusso, nella teoria della relatività ri- stretta, è il postulato della costanza assoluta della velo- cità della luce, che al professor N. Barbulescu, dell’Uni- versità di Cluj, fa venire in mente la teologia dogmatica. Pensate: un raggio di luce si muove nel vuoto. Io ne mi- suro la velocità stando fermo e trovo trecentomila chilo- metri al secondo. Se corro dietro al raggio o gli vado in- contro con qualunque velocità, anche di pochissimo in- feriore a quella della luce nel vuoto, trovo sempre lo stesso valore. Il mio movimento non conta, sicché come nota il Giorgi, la velocità della luce, pur essendo finita, ha le funzioni di un infinito. * Pubblicato in «Argomenti», n. 4 (giugno 1941), p. 41 sgg. 375 Einstein risponde che il paradosso svanisce se si ac- cetta la relatività dello spazio e del tempo, ma il guaio è che di questa relatività non si sa dare una giustificazione diretta. — Ma la teoria einsteiniana è una sintesi grandiosa, i suoi successi sono straordinari. — Sarà, anzi è vero, in un certo senso, ma non basta. La teoria di Einstein non è che una nuova forma della teoria di Maxwell-Lorentz e si è imposta perché si cre- dette che avesse tutti i vantaggi dell’altra teoria senz’averne gl’inconvenienti. Il suo lato positivo è il principio di relatività, che è d’accordo con l’esperienza; ma, come sosteneva Lorentz, il principio di relatività è in contradizione con l’idea che la luce si propaghi per onde in un etere immobile. Se si vuole accettare il prin- cipio di relatività anche nel campo dei fenomeni ottici, occorre modificare le nostre idee sulla propagazione della luce, come pensavano Ritz e La Rosa e come so- stiene adesso Barbulescu, che ha svolto brillantemente un’idea accennata da Poincaré. Anche l’idea svolta da Einstein era stata accennata da Poincaré. Il lettore capisce che se la luce si propaga in un mez- zo immobile (l’etere cosmico) con la stessa velocità in tutte le direzioni rispetto a un osservatore fisso, si dovrà propagare con velocità differente rispetto a un osserva- tore in moto. Michelson con la sua famosa esperienza mostrò invece che non è vero. Il «vento di etere» non esiste. Con esperienze ottiche eseguite nell’interno di un sistema materiale animato da movimento rettilineo e 376 uniforme relativamente all’etere cosmico, non si può de- cidere se siamo fermi o in moto. Si deve dunque esten- dere ai fenomeni ottici il principio di relatività della meccanica classica, intuito da Giordano Bruno e dimo- strato da Galileo. Per spiegare l’esito negativo dell’esperienza di Mi- chelson, cioè per giustificare anche nel campo ottico il principio di relatività, Lorentz e FitzGerald emisero in- dipendentemente l’ipotesi che i corpi si contraggono nel senso del movimento in modo da mascherare l’effetto previsto. Quest’ipotesi, come notò Poincaré «non è che la traduzione immediata del risultato sperimentale di Michelson se si definiscono le lunghezze per mezzo dei tempi che la luce impiega a percorrerli». Finstein adottò appunto quella definizione, anzi ac- cettò anche la formola del tempo locale come esprimen- te la realtà fisica, mentre per Lorentz era un artificio ma- tematico. Cosi nacquero la relatività del tempo e quella dello spazio. Lo strano è che Einstein, pur accettando le idee essenzialmente ondulatorie di Lorentz sulla natura della luce, si era convinto che la luce fosse di natura corpuscolare. Oggi la cosa è meno strana perché sappia- mo che la luce è insieme corpuscolo e onda. Nello stesso volume, Science et Méthode, in cui ho preso la citazione precedente, Poincaré aveva pure scrit- to: «Lorentz avrebbe potuto spiegare i fatti, supponendo che la velocità della luce sia maggiore nella direzione del movimento della terra che in quella perpendicolare, giacché se le superfici d’onda della luce subissero le 377 stesse deformazioni dei corpi materiali noi non ci accor- geremmo della deformazione di Lorentz-FitzGerald». Questa è la via appunto su cui si è messo il Barbule- scu. Secondo il fisico rumeno, la cui opera va seguita con simpatia, le misure di tempo e di lunghezza non cambiano al cambiare dei sistemi di riferimento; cambia soltanto la velocità della luce. Si tratta naturalmente an- che qui di un postulato che occorrerà giustificare con nuove ricerche. Per Einstein, invece, come si è ricordato, la velocità della luce nel vuoto non dipende né dal moto della sor- gente né da quello dell’osservatore: è una costante asso- luta. Non è vero dunque, come ritengono i profani, che per lui tutto sia relativo. Sono relativi il tempo e lo spazio. In particolare è re- lativa la simultaneità. Due fenomeni che sono contem- poranei per me, per te e per gli altri uomini della strada, non sono contemporanei per gli uomini del treno in moto e viceversa. Se prima che il treno parta noi e i viaggiatori accor- diamo i nostri orologi, quando il treno è in moto i nostri orologi rimangono tutti d’accordo tra loro (supponendo che siano cronometri di assoluta precisione) e analoga- mente quelli dei viaggiatori; ma gli orologi dei viaggia- tori ritardano rispetto ai nostri e tanto più quanto più si allontanano e quanto è più rapido il treno. Effetto ancora più sorprendente: i corpi dei viaggiatori, i loro oggetti, il treno si contraggono nel senso del movimento; e se la velocità del treno tende a quella della luce, le loro di- 378 mensioni nel senso del movimento tendono ad annullar- si. Le altre due dimensioni rimangono immutate. Immaginate la sorpresa che avremo alle grandissime velocità. La lunghezza del treno sarà ridotta a qualche centimetro, gli uomini praticamente perderanno la terza dimensione; orologi e cuori rallenteranno talmente il loro moto che quasi cesseranno di battere. Avremmo torto però, cioè non avremmo capito nulla della teoria di Einstein se c’impressionassimo (suppo- niamo sempre, si capisce, che il moto sia rettilineo e uniforme). Einstein c’insegna che i fenomeni del treno e quelli della strada sono reciproci, perciò i viaggiatori avranno sensazioni identiche alle nostre. Per loro, che non noteranno sul treno niente d’insolito, noi perderemo la terza dimensione e le nostre ore, i nostri minuti saran- no interminabili. Appena il treno si ferma, l’incanto svanisce: 1 nostri orologi e quelli dei viaggiatori sono di nuovo d’accordo e tutti abbiamo come prima la terza dimensione. Se il moto del treno non è rettilineo e uniforme, le cose si complicano seriamente: almeno cosí ha detto Finstein e, dopo di lui, in forma più impressionante, Paul Langevin e altri illustri fisici francesi. Einstein aveva fatto l’ipotesi di un viaggio di andata e ritorno di un orologio, sostenendo che per l’orologio che ha effettuato il viaggio deve esser passato meno tempo che per un orologio rimasto fermo. Langevin ha imma- ginato invece un uomo che viaggi a velocità prossima a quella della luce e torni a casa dopo due anni: due dei 379 suoi anni, cioè degli anni registrati dai suoi orologi. Tor- na a casa e si accorge che, se per lui sono passati solo due anni, per la terra son passati invece due secoli. Lui è sempre giovane (due anni passano presto e, a quella ve- locità, più presto del solito); sulla terra i bambini sono nel frattempo cresciuti, son cresciuti 1 loro figli, i loro nipoti e pronipoti e son tutti morti, anche i più vecchi. Di molti avvenimenti si è perduta o falsata la memoria; lui ricorda ogni particolare e può mettere tutto a posto. Immaginate poi che cosa succederebbe se, invece di viaggiare due soli anni, l’uomo di Langevin viaggiasse dieci, vent’anni. Paolo Straneo, nel suo bel Saggio di una esposizione della teoria della relatività secondo il senso fisico, si è indignato contro l’arbitrio, contro l’assurdo esempio, contro l’esilarante paradosso, disastroso per il senso fisi- co, ma non ne ha fatto una critica. Jean Perrin, premio Nobel per la fisica, in un volume che fa parte della Bihliothèque d’éducation par la scien- ce, diretta da Émile Borel, trova strana ogni meraviglia. Poiché uno solo dei due osservatori ha subito delle acce- lerazioni, è naturale che egli solo e non l’altro rimanga giovane. Il Perrin considera due osservatori, uno fisso e l’altro mobile con una velocità solo di un ottocentesimo inferiore a quella della luce e conclude che, in questa ipotesi, se l’osservatore mobile è invecchiato di due anni, quello terrestre sarà invecchiato di quaranta, nono- stante che per ognuno di essi il tempo proprio abbia avuto lo stesso andamento. 380 Il ragionamento del Perrin è curioso. Egli stesso, del resto, dice che si tratta di una conseguenza molto istrut- tiva e curiosa delle formole di Einstein, benché, a dire il vero, molto al di là delle nostre possibilità attuali di esperienza. Insomma, è una delle grandi attrattive dell’avvenire. Il Perrin sa e ripete che, nella nostra esperienza ordi- naria, quando un osservatore mobile ritrova un altro os- servatore lasciato a riposo, i loro cronometri sono anco- ra d’accordo come al principio e ognuno dei due viag- giatori è invecchiato quanto l’altro. Ma — egli aggiunge — questa proposizione cosi familiare diviene tanto meno esatta quanto più l’osservatore mobile ha viaggiato pre- sto e a lungo, perché l’osservatore rimasto in riposo è invecchiato, al momento del ritorno, più di quello che ha subito delle accelerazioni. I cronometri fissi resteran- no d’accordo tra loro e cosi quelli mobili, ma l’ora co- mune segnata dai primi sarà in anticipo sull’ora comune segnata dai secoli. La dimostrazione è immediata. Infatti supponendo che la velocità dell’osservatore mobile sia quella che si è già ricordata, passando davan- ti alla terra egli vedrà che gli orologi terrestri vanno avanti e precisamente se i suoi cronometri segnano l’ora t, gli orologi appartenenti al sistema di riferimento sola- re a cui appartiene la terra segnano venti volte 1. Supponiamo adesso (parla sempre Jean Perrin) che molto lontano dal nostro sole il veicolo in cui si trova l’uomo di Langevin rallenti il suo movimento, si fermi e 381 torni indietro, prendendo, rispetto al sistema di riferi- mento solare, una velocità uguale e contraria a quella che aveva durante l’andata. Durante questo periodo cri- tico il veicolo non sarà più animato da moto rettilineo e uniforme rispetto al sistema solare e il nostro viaggiato- re ha potuto subire perciò un invecchiamento, ma si trat- terà di un invecchiamento definito, senza rapporto con la durata # del viaggio compiuto fino allora e che perciò potrà sempre considerarsi trascurabile se £ è abbastanza grande. Il veicolo, lanciato nel sistema solare con velo- cità uguale e contraria, impiegherà di nuovo il tempo # dei suoi cronometri a ritornare sulla terra e durante il ri- torno avverrà di nuovo che gli orologi del sistema solare camminino venti volte più presto dei suoi. Quando arri- verà sulla terra l’orologio terrestre segnerà dunque qua- ranta volte t. Jean Becquerel suppone invece che la velocità di cui è animato luomo di Langevin sia inferiore solamente di un ventimillesimo a quella della luce. «Per il periodo di un anno il viaggiatore si allontana dalla terra e ritorna in capo a due anni. Cosí è invecchiato di due anni, giacché ha vissuto il tempo proprio del suo sistema, registrato dai suoi orologi; tuttavia, al ritorno, trova sulla terra al- tre generazioni e viene a sapere che è partito da duecen- to anni. Egli si è trasferito nell’avvenire della terra, ma senza possibilità di ritorno nel passato». Il Becquerel non manca di osservare che nel ragiona- mento precedente è stato supposto che la vita consista in una successione di fenomeni fisico-chimici i quali si ri- 382 ducono tutti a movimenti di molecole e di elettroni. Questi movimenti si svolgono nel tempo proprio del viaggiatore, che tra la partenza e il ritorno è più breve del tempo terrestre. Come si vede, questo postulato di carattere biologico appare evidente al Becquerel. Egli invece dichiara che è evidentemente impossibile, anche se si potesse disporre dell’energia necessaria, di raggiungere quella velocità molto rapidamente come occorrerebbe, giacché la forza d’inerzia dovuta all’accelerazione schiaccerebbe il viag- giatore. Tuttavia — egli aggiunge — questo esempio mette mirabilmente in evidenza la relatività del tempo. Per un mobile che fosse animato dalla velocità della luce — egli conclude — il corso del tempo sarebbe sospeso. A una conclusione simile arriva il Perrin. L'uomo di Langevin, secondo lui, durante il suo viaggio vedrà l’universo appiattirsi nel senso del suo movimento, tanto che, per una velocità sempre più vicina a quella della luce, gli sembrerà infinitamente sottile, mentre le Stelle che lo vedranno passare (la maiuscola è di Perrin) riter- ranno ogni vita, ogni mutamento sospesi in lui. I ragionamenti che abbiamo riferito, anche a volerne accettare il punto di vista, non persuadono. L'effetto sa- rebbe dovuto all’accelerazione a cui si richiama esplici- tamente il Becquerel. L’accelerazione infatti ha carattere assoluto, come risulta dalle esperienze di Sagnac e di Michelson e Gale, che rivelano il movimento accelerato di un sistema con misure interne al sistema. Ma l’uomo di Langevin si muove di moto uniforme, salvo che alla 383 partenza, all’arrivo e al momento in cui inverte il senso del suo movimento; e se ammettiamo col Perrin che queste accelerazioni siano trascurabili rispetto al resto del viaggio o addirittura, come pensano altri fisici, che siano complessivamente uguali a zero, si deve escludere ogni effetto persistente. Si tratterebbe di effetti relativi che sparirebbero al cessare del movimento, cioè una pri- ma volta all’atto del dietro-front e infine all’arrivo a ter- ra. Si capisce che durante il viaggio dell’astronave (chiamiamo cosi il veicolo dell’uomo fantasma) se dalla terra e in generale dal sistema solare sembrerebbe so- speso il tempo nell’astronave, per l’uomo di Langevin sembrerebbe invece sospesa la vita nel sistema solare. Di questa reciprocità il Perrin, per troppo entusiasmo, non ha tenuto conto. In una nota l’illustre studioso del movimento brow- niano cerca di spiegare la dissimmetria con la considera- zione di un triangolo. La somma di due lati di un trian- golo — egli dice — è maggiore del terzo lato, ma il cam- mino maggiore, dal punto di vista della «simmetria in- trinseca», differisce dall’altro solo per l’esistenza dell’angolo che non interviene per nulla direttamente nella differenza delle lunghezze. Il cammino ad angolo è più lungo di quello rettilineo ma non nell’angolo. Non è più lungo nell’angolo ma per l’angolo. La sot- tigliezza è degna del Padre Sarsi e di altri aristotelici medievali, ma non ha valore. Durante il moto uniforme si hanno effetti reciproci, cioè, in sostanza, apparenti. Questi effetti devono sparire al cessare del movimento. 384 AI Perrin vorremmo anche ricordare il principio che egli enuncia a pagina 21: «Ogni concetto finisce per perdere la sua utilità, il suo stesso significato, a mano a mano che ci si allontana dalle condizioni sperimentali in cui è sorto». Come si può parlare sul serio di un uomo che vive per due anni e il suo cuore quasi non batte più? Se si volesse ammettere che la vita sia ancora possibi- le in quelle condizioni, non per questo sarebbe lecita la conseguenza del ringiovanimento, o meglio della persi- stente giovinezza. Se qui sulla terra l’uomo sano vive in media settant’anni, nell’astronave di Langevin potrebbe al più vivere alcuni mesi, cioè l’equivalente dei nostri settant'anni. L’uomo di Langevin è uno scherzo e nient’altro, tanto più che se ammettiamo come fenomeno persistente la dilatazione del tempo, occorrerà pure ammettere (nessu- no, a quanto pare, se n’è accorto) anche la contrazione persistente. L'uomo di Langevin sarebbe più sottile di un foglio di carta velina ma avrebbe una densità incom- parabilmente superiore a quella del platino, perché tutte le molecole che costituiscono il suo corpo sarebbero raccolte senza perdite nelle due dimensioni. Suppongo, come si vede, che l’uomo non si volti di fianco perché se no perderebbe anche la seconda dimensione, riducen- dosi ad una linea. Se ammettiamo poi che l’uomo già ri- dotto a una linea, si sdrai nell’astronave nel verso del movimento (dovrà pure dormire questo povero diavolo), esso si ridurrà a un punto materiale. Ecco: è un punto 385 ma gli atomi che costituiscono il suo corpo ci son tutti. Il suo cuore è ultramicroscopico ma batte ancora (molto lentamente); il sangue continua a circolare benché non sia più liquido ma un solido ultradenso; la respirazione continua benché l’aria sia allo stato ultrasolido. Eviden- temente, l’uomo di Langevin, che è diventato il punto di Langevin, continua a mangiare, a bere e a fumare: im- maginate voi come farà il disgraziato a cavarsela appena giunto sulla terra. Se esce dall’astronave è perduto, per- ché, abituato com'è all’aria delle grandi velocità, morrà d’asfissia appena verrà a contatto con la nostra aria trop- po sottile. Non ci siamo fermati su quest’argomento per passare il tempo. Straneo ha detto bene: l’uomo di Langevin è un arbitrio; ma, più che di Langevin, di Perrin e di Bec- querel, è un arbitrio, un punto debole della teoria di Ein- stein. Per lo meno bisogna riconoscere che la teoria in- duce in tentazione. La dilatazione permanente del tempo è nella teoria. Basta supporre che l’uomo di Langevin o, se vogliamo lasciare le bizzarrie, che il mobile sia ani- mato da un moto vario qualunque, cioè che si muova in circolo o a spirale. Allora la dissimmetria c’è veramente e si deve avere il rallentamento, la quasi sospensione del tempo. È vero che il Dive, analizzando il caso del moto va- rio, ha trovato che si va incontro alla negazione del prin- cipio di causalità, ma l’obiezione non riguarda il modo come la teoria è presentata da alcuni: mette a nudo una deficienza della teoria. 386 Il punto debole della teoria di Einstein è la concezio- ne relativistica del tempo e dello spazio. Occorre tornare a Galileo. Il tempo e lo spazio che figurano nelle formole ein- steiniane hanno valore simbolico: non sono lo spazio e il tempo di Galileo. Non vanno dunque presi alla lettera. Tutt’al più, finché rimaniamo vicini alle condizioni in cui la teoria è sorta, possiamo comportarci come se essi fossero il tempo e lo spazio di Galileo; ma l’estrapola- zione, sempre pericolosa, condurrà qui inevitabilmente ai più gravi errori. Il tempo locale, come aveva ben visto Lorentz, è un artificio matematico, non una realtà fisica; e artificio matematico è anche la contrazione. Ciò che cambia, come hanno oggi capito Dive e Barbulescu e avevano già capito Ritz e La Rosa, è la luce. 387 DALLA MATERIA L’ENERGIA? Per gli scienziati dell’Ottocento la materia e l’energia costituivano una specie di Santissima Binità. Confusa- mente, la materia era per loro una sostanza, mentre l’energia doveva essere una proprietà: cosicché, a rigo- re, la materia era concepibile senza l’energia, ma non vi- ceversa. In realtà, le cose erano molto più complicate. Come la materia, anche l’energia si poteva trasformare nei modi più diversi, anche, direbbe Galileo, incogniti e inopinabili, rimanendo quantitativamente immutata. Era dunque anch’essa una sostanza, perché «sostanza» ap- punto questo vorrebbe significare: qualcosa che rimane costante attraverso i mutamenti, che sta sotto ai muta- menti. Ma pur considerandola come sostanza, si conti- nuava a crederla una proprietà, e si poneva perciò tra la materia e l’energia un abisso. L’idea che la materia si potesse trasformare in energia era di un’assurdità cosi radicale che non poteva nemmeno venire in mente. È vero che tutto questo era difficile a pensarsi (e il concet- to della sostanza era stato infatti dimostrato assurdo da Berkeley e poi da Kant e da Hegel); ma poiché si voleva mantenere a ogni costo quel concetto, o meglio poiché non si sapeva farne a meno, per insufficienza filosofica, * Pubblicato nel «Politecnico», 12 gennaio 1946, p. 2. 388 ci si rifugiava nel mistero. La materia e l’energia erano eterne, come il Padre e lo Spirito Santo, ed era assurdo cercare di capirle. Uno scienziato famoso, il du Bois- Reymond, alla fine di una sua conferenza che levò un gran fracasso, disse appunto che non solo noi ignoriamo che cosa siano la materia e l’energia ma l’ignoreremo sempre. Non solo ignoramus (diceva solennemente) ma ignorabimus. Quest’Ignorabimus fu ripetuto frenetica- mente o fu maledetto, a seconda dei punti di vista, ma non fu né dimostrato né confutato. Eppure nel Politecni- co, e stavo per dire qui nel Politecnico, nel volume otta- vo (1860), Carlo Cattaneo sostenne audacemente che ciò che non possiamo negare è la forza, mentre «la ma- teria, spogliata di tutte le forze che supponiamo risiede- re in essa, è un vano nome». Subito dopo dice, come ri- peterà più tardi l’Ostwald, che la materia è un’idea su- perflua. Nel volume decimo (1861), contro Paolo Lioy che vedeva nell’universo materia e vita, dice: «A noi ba- sta il concetto di forza; sostanza che non resista, sostan- za che non sia forza, nel nostro pensiero svanisce». Per Cattaneo come per Leibniz, la forza agisce sempre, compie sempre un lavoro, cioè non è forza ma energia. Il mondo fisico è dunque per Cattaneo, come poi per l’Ostwald, tutto energia. E se è cosí, è evidente che la cosiddetta materia si può trasformare in energia: si tratta sempre di trasformare una forma di energia in un’altra. Oggi gli scienziati che non accettano la trasformazio- ne della materia in energia non saprebbero render conto di ciò che sostengono sulla fede di Einstein, per quanto, 389 in verità, l’esperienza dia loro ragione. Un caso partico- larmente istruttivo è quello di Giorgi. Si sa che l’illustre matematico, fisico matematico ed elettrotecnico, ben noto per il sistema di misura che porta il suo nome, ha molto contribuito alla teoria della relatività, di cui è en- tusiasta. Egli accetta senza riserve il concetto dell’iner- zia dell’energia ma si adombra davanti alla trasforma- zione della materia in energia, sebbene non dica perché. Nel numero di maggio di Mercurio, a proposito dell’ori- gine del calore solare, diceva addirittura: «L’assurda leggenda, tanto ripetuta, che la materia si trasformi in energia, viene messa tranquillamente da parte». La tra- sformazione dunque non solo non sarebbe vera ma non sarebbe nemmeno possibile. Più recentemente, in Real- tà (n. 23-24), parlando della bomba atomica, ha riaffer- mato le sue idee ma senza intransigenza. «La vera mate- ria (egli dice) sono i neutroni e i protoni. Non possiamo escludere che in qualche caso eccezionale uno di questi due corpuscoli perda la propria materialità e si trasformi in energia; ma finora, né dalla teoria né dall’esperimen- to, risulta che ciò avvenga». La teoria dice solo, secondo il Giorgi, che se un certo quantitativo di materia si tra- sformasse in energia, da un milligrammo di materia si ricaverebbero circa dieci miliardi di chilogrammetri, ma non dice che la trasformazione possa avvenire; «È vero che un elettrone positivo e uno negativo, incontrandosi, possono distruggersi reciprocamente e dar origine a un fotone che irradia; ma si tratta di due corpuscoli fatui che si trasformano in altro corpuscolo fatuo». 390 Quest’idea dei corpuscoli fatui non è nuova. Ma non mi pare che serva allo scopo. Questi corpuscoli, per quanto fatui si possano dire, sono materia o energia, secondo i gusti; ma, ciò che davvero importa, essi vengono fuori da quella che anche il Giorgi considera come vera mate- ria, dove si formano all’atto dell’emissione. Il fenomeno che si vorrebbe contestare esiste dunque innegabilmen- te. Il ragionamento che fa il Giorgi per difendere il suo punto di vista dimostra la tesi opposta. Direi che il Gior- gi, mentre crede di opporsi alla trasformazione della materia in energia, presenta il fenomeno in un modo ac- cettabile al pensiero comune. Il Giorgi dice in sostanza questo: Quando il nucleo si spezza e viene fuori l’ener- gia che la bomba atomica ha reso popolare non si tratta di trasformazione di materia in energia. Il nucleo è co- stituito di protoni, neutroni ed energia. Quando si spez- za, l’energia vien fuori; e poiché l’energia ha massa sembra che la materia si trasformi in energia. Il nucleo non ha perduto una parte della sua massa vera ma solo la massa dell’energia che conteneva e che si è resa libe- ra. Il diavolo atomico è dentro il nucleo: tranquillo, in- nocente; appena lo stuzzicano viene fuori imbestialito e distrugge tutto. Ebbene, purché questo discorso non si prenda alla let- tera può passare e può essere opportuno a chi, per resi- dui di mentalità scolastica, ripugni alla trasformazione. Ma bisogna andare avanti. Perché solo il nucleo dev'essere costituito di materia ed energia, e non anche i neutroni e i protoni? Dire che essi sono purissima, eter- 391 na materia non si può. Un corpuscolo materiale, come hanno dimostrato Leibniz e Kant, è necessariamente esteso. Le sue parti, in circostanze opportune, possono scindersi. Dire che il corpuscolo è infinitamente duro, è duro per essenza, significa tornare alle qualità occulte degli scolastici, anzi significa sostenere l’assurdo. Sa- rebbe come dire che è talmente duro che non si può im- maginare niente di più duro. Le grandezze fisiche sono essenzialmente finite, e finita è perciò la durezza. Il pro- tone è indivisibile in certe circostanze, in un certo ordi- ne di fenomeni, come il nucleo, come l’atomo, come la stessa molecola. Se vogliamo dell’acqua non possiamo andare oltre la molecola. In quanto acqua la molecola è inscindibile. Quando la decomponiamo, invece di acqua abbiamo idrogeno e ossigeno. L’unità non è una cosa ma un concetto col quale pensiamo le cose. Leibniz diceva giustamente che la monade è spirituale. Ma allora è mo- nade anche quest'articolo, per quanto in esso possiamo distinguere parole e lettere e spazi. Le lettere, messe in- sieme alla rinfusa, non sono più l’articolo, ma questo non significa che, analizzando l’articolo, non ce le pos- siamo trovare. Giovanni Giorgi dovrebbe dire che anche il neutrone e il protone sono composti di materia ed energia, e che perciò si potranno scindere, dando origine a nuovi effetti di ordine superiore, relativamente a quelli della bomba. Non c’è dubbio: la bomba che si chiama atomica e si dovrebbe chiamare nucleare non è il non plus ultra. Un bel giorno salterà fuori la superbomba. La fisica nucleare è l’inizio di una nuova fisica che spezze- 392 rà i protoni e i neutroni e metterà nuove energie a dispo- sizione della guerra e della pace. Ci auguriamo siano messe solo a servizio della pace. L'America farà bene a non abusare del suo segreto, orientandosi più decisa- mente verso la pace. 393 MATERIA ED ENERGIA" Il nostro insigne collaboratore Giovanni Giorgi ci ha fatto un gran piacere intervenendo nel dibattito sulla materia e l’energia. Non crediamo tuttavia che la discus- sione si possa considerare esaurita e ci permettiamo di esporre alcune considerazioni, augurandoci che il Giorgi possa darci altri chiarimenti. Un chiarimento è indispensabile a proposito della ri- vendicazione di priorità che fa il Giorgi nei riguardi di Einstein. Qui c’è evidentemente un equivoco che va dis- sipato. Il Giorgi dice che egli per primo affermò, nel 1912, che l’energia possiede inerzia, cioè massa, come la materia ordinaria; e cita una lettera ad Finstein di cui fu mandata copia anche al Levi-Civita. Sarebbe oppor- tuno che di questa lettera ci fosse mandata copia. La pubblicheremmo volentieri, perché siamo convinti che ha la sua importanza per la storia della teoria della rela- tività. Ma, quanto all’affermazione fondamentale, una certa priorità nei riguardi di Einstein si può ammetterla a favore di Carlo Cattaneo e di Ostwald ma non di Gior- gi. Einstein, in una breve nota citatissima dai relativisti e tradotta anche dal Solovine, pubblicata per la prima * Risposta ad un articolo di Giovanni Giorgi pubblicata, insie- me con questo, nel «Mondo», Firenze 17 agosto 1946, p. 3. 394 volta negli Annalen der Physik del 1905 e datata da Ber- na, settembre 1905, dice che se un corpo subisce una perdita di energia sotto forma di radiazione, la sua mas- sa diminuisce del valore ormai classico ricordato dal Giorgi. E poiché, continua Einstein, evidentemente im- porta poco che l’energia sottratta al corpo si trasformi in energia raggiante, possiamo dire in generale che la mas- sa di un corpo è la misura della sua capacità di energia. Precisato numericamente il valore della variazione nel modo ben noto, l’ Einstein conclude che, se la teoria cor- risponde ai fatti, si deve ammettere che la radiazione trasporti dell’inerzia tra i corpi che l’emettono e quelli che l’assorbono. Potrebbe darsi che il Giorgi abbia perfezionato queste vedute di Einstein (bisognerà vedere la lettera del °912) ma è certo che Finstein ha chiaramente enunciato il principio dell’inerzia dell’energia nel ’905 e quindi assai prima del Giorgi, che dichiara di averlo enunciato nel 7912. Ripeto però che il caso è curioso, perché la nota einsteiniana del ’905 non può essere sfuggita a un uomo della cultura di Giovanni Giorgi. Nella nota di Einstein, come si è visto, c’è l’impor- tante affermazione che la massa di un corpo è la misura della sua capacità di energia, vale a dire viene abbando- nato il concetto sostanzialistico della materia, la quale si riduce cosí a una forma di energia, come il calore. Que- sta è l’idea che è diventata corrente tra i fisici, e non si capisce perché il Giorgi non l’accetti. Aggiungerò che Einstein, nel suo volumetto di volgarizzazione della sua 395 teoria, deduce lo stesso risultato dalla relatività ristretta e non da quella generale. «Il più importante risultato della teoria della relatività ristretta — egli dice — si riferi- sce al concetto della massa. Mentre nella fisica prerela- tivista ci sono due teoremi di conservazione di fonda- mentale importanza, cioè quello della conservazione dell’energia e quello della conservazione della massa, i quali sembrano indipendenti l’uno dall’altro, nella teoria della relatività essi vengono sintetizzati in un solo teore- ma». Per Einstein il principio della conservazione della massa non perde la sua utilità perché le variazioni di energia che possiamo comunicare a un sistema non sono abbastanza grandi da modificare in maniera sensibile la massa inerte (allora non si parlava della frantumazione dell’uranio), ma il principio fondamentale unico è quel- lo dell’energia. Si direbbe che anche per il Giorgi sia questo il principio fondamentale, tant'è vero che egli mi accusa di avere una concezione troppo materialistica della materia, e allora non si capiscono le obiezioni che egli solleva. Dal fatto che anche l’energia abbia una massa, non ne segue, secondo lui, la possibilità della tra- sformazione. Sarà: non voglio cavillare. Senonché, se l’energia ha una massa non si vede più in che cosa si di- stingua essenzialmente dalla materia e allora, al contra- rio di come crede Giorgi, ne segue la possibilità della trasformazione. Anche sul concetto della trasformabilità della materia in energia non posso essere d’accordo col Maestro. Egli dice che la domanda se la materia si possa trasformare in energia si risolve in questa: — Si è mai ve- 396 rificata sperimentalmente la trasformazione in energia di qualche neutrone o protone? — Se fosse cosi, non ci sa- rebbe differenza tra il reale e il possibile. Dicendo che la trasformazione è possibile si vuol dire che non è assur- da. E qui parrebbe che l’accordo col Giorgi ci sia, per- ché egli non esclude più, a quanto sembra, la pura possi- bilità della trasformazione. Oggi la trasformazione non gli sembra più, parrebbe, un’assurda leggenda, ma una leggenda gratuita. Se fosse proprio questo il suo pensie- ro, cioè se egli aspettasse nuove esperienze, non sarebbe un gran male. A me pare che egli non dica tutto il suo pensiero. Direi che egli ripugni alla trasformazione per ragioni filosofiche che lascia in ombra. Su questo punto sarebbe bene che egli fosse esplicito. Nell’articolo del Politecnico” si voleva dimostrare che in base alle idee di Giorgi, valendosi delle conside- razioni che Leibniz fa contro l’atomo e che io applicavo al neutrone e al protone, si arriva alla conclusione che la materia si può trasformare in energia. A quelle conside- razioni il Giorgi non si oppone, anzi le conferma, per- ché, pur distinguendo i neutroni e i protoni dagli atomi formati, ammette che i due corpuscoli possiedano un’estensione: e allora è valido il ragionamento di Leib- niz. Contro il quale, in verità, non mi sarei aspettato la lavata di capo che gli somministra, senz’esserne stato provocato, Giorgi. Leibniz è un grande pensatore e me- rita maggiori riguardi. Se riserve si possono fare, e radi- 22 [Vedi qui sopra, p. 244 sgg.]. 397 cali, sulla sua metafisica, è chiaro che non le può fare Giorgi, che essendo cattolico, ne accetta il principio. Il ragionamento del Politecnico non sarebbe più adatto quando si negasse assolutamente, e non fino a certo punto come fa Giorgi, la materialità dei neutroni e dei protoni; ma si potrebbe allora ragionare in altro modo. Questi corpuscoli o sono le monadi di Leibniz o sono già energia (allo stato potenziale o come altrimenti Gior- gi preferisce). Il concetto di monade, cioè di sostanza semplice (qui siamo d’accordissimo con Giorgi) è uno dei più aprioristi, e Kant ha dimostrato che non regge: possiamo dunque non prenderlo in considerazione. Se i corpuscoli sono energia allo stato potenziale, si possono evidentemente trasformare in altre forme di energia. Io credo precisamente che questa sia la verità. La materia non è sostanza, come credevano gli scolastici, ma idea, come dimostrò Berkeley, o, se Berkeley, come filosofo, sebbene vescovo, non è gradito, capacità di energia, come dice Einstein, o, se piace di più, è una particolare forma di energia. Se è cosi, la verifica sperimentale che invoca Giorgi l’abbiamo sotto gli occhi. Ogni volta che un corpo emette energia vuol dire che una particella del- la sua massa si è trasformata in energia. S’intende che si può sempre domandare in che misura nelle frantumazio- ni dell’uranio, protoni e neutroni si trasformino in ener- gia, e se è possibile la trasformazione integrale, o, se an- che nelle trasformazioni delle materia in energia, c’è un limite, analogo a quello che c’è nelle trasformazioni del calore in lavoro meccanico; ma su questo e su altri 398 aspetti del problema vogliamo sperare che intervenga Giovanni Giorgi. Allora saremmo davvero contenti di avere scritto queste righe. 399 CHE COS’È LA MATEMATICA?" Finaudi ha fatto bene a pubblicare nella sua «Biblio- teca di cultura scientifica» l’Introduzione al pensiero matematico di Friedrich Waismann. Il libro è un com- plemento ai trattati universitari di matematica e potrà es- sere letto utilmente dagli studenti. Per i professori potrà costituire un motivo di discussione. È consigliabile an- che al gran pubblico (benché richieda una certa prepara- zione), se non altro perché gli darà un’idea sorprendente della matematica. Dal libro risulta infatti che la matema- tica non è una scienza tutta certezza e senza punti discu- tibili. I più grandi matematici si sono qualche volta in- gannati e potranno ingannarsi nell’avvenire. Certi prin- cipî che al pensiero comune appaiono evidenti sono stati negati, per esempio il postulato euclideo che per un pun- to fuori di una retta si può condurre una e una sola pa- rallela alla retta, o il postulato di Archimede che un multiplo abbastanza elevato di una grandezza possa su- perare una grandezza qualunque della stessa specie. Il Waismann interessa perché conosce bene la mate- matica e perché ha senso critico. Alcuni capitoli di que- sto volume, certe sue osservazioni si leggono con vero godimento; anche dove è più discutibile si fa rispettare. * Pubblicato in «Panorama», 27 settembre 1939, p. 716 sgg. 400 Il punto debole del Waismann è la sua filosofia che, come spiega il traduttore, dottor Lodovico Geymonat, è «quella interessante e ormai famosa scuola positivistica, che fu conosciuta dapprincipio sotto il nome di “Circolo viennese», e che fu fondata da Ludwig Wittgenstein. Per il Geymonat, anzi, si direbbe che l’ Autore abbia vo- luto con questo volume provare la solidità del metodo neopositivista. Secondo me, il Waismann, dato il suo ingegno e il consiglio e l’appoggio del Wittgenstein, ha dimostrato l’incapacità del positivismo viennese a chiarire l’essen- za della matematica. Quando l’Autore critica le varie opinioni matemati- che al di fuori delle pregiudiziali viennesi, ci persuade; quando si lascia prender la mano dall’agnosticismo e dal pragmatismo della scuola, ci delude. Perfino lo stile del libro presenta questo dualismo, perché quando il Wai- smann critica gli errori degli avversari è «risoluto e ardi- to», se cerca di ricostruire diventa tortuoso e sfuggente. Qualche volta vi dice che la tesi da dimostrare è stata di- mostrata (ma voi non ve n’eravate accorti); oppure, in- vece di enunciarvi chiaramente la sua tesi, ve la dà in una forma implicita raffinata che è come un gioco cine- se. L'Autore vi presenta una scatola e vi dice che dentro c’è la soluzione. Voi l’aprite e ne trovate dentro un’altra e poi un’altra; e finalmente trovate una scatola grigia che non si apre. 401 — Non vi scoraggiate — vi dice a questo punto ľ Autore —: la scatola è trasparente; aguzzate la vista e vedrete tutto! Il Waismann si era proposto di studiare l’essenza dei concetti matematici, liberando la matematica dall’ogget- tivismo volgare, dall’empirismo e dalle contraddizioni di cui, secondo Lagrange, formicola (sicché ha ottenuto grandi risultati solo per l’infinita clemenza di Dio). Oc- correva inquadrare la matematica nella filosofia, sosti- tuendo al matematico puro quello che Galileo chiama matematico filosofo. Egli sorride, non senza ragione, quando sente chiama- re numeri assurdi da Stifel e numeri finti da Cardano i numeri negativi, e quando Leibniz dice che i numeri im- maginari sono «un artificio sottile e meraviglioso dello Spirito divino, quasi un anfibio tra l’essere e il non esse- re»; e non ripeterebbe certo con D’Alembert: «Andate avanti che la fede verrà», perché ha visto lucidamente che quelle parole possono convenire a chi si preoccupi «più della conquista di nuovi campi del sapere che non dell’analisi precisa dei concetti». Quando esce dal circolo viennese ragiona bene e ten- de, sia pure con qualche incertezza, a una concezione della matematica come scienza autonoma che mi piace molto. Egli ha ben compreso e ci fa vedere che la mate- matica non è trovata bell’e fatta, ma è costruita razional- mente dal matematico; e, se somiglia in qualche modo a un gioco, è in realtà molto di più di un gioco, se non al- tro perché è utile e feconda. Se si fosse abbandonato al 402 suo estro, il Waismann avrebbe finito col concludere che anche i postulati da cui il matematico parte, a mano a mano che egli va avanti e costruisce la scienza, perdono il loro carattere gratuito e la loro astrattezza e divengono momenti essenziali di un pensiero e quindi pensiero anch’essi. Del resto, è vero che i postulati (l Autore li chiama sempre assiomi e conviene distinguere) sono ar- bitrari, cioè, entro certi limiti, scelti ad arbitrio, ma né falsi né vuoti, né in contraddizione fra loro. A chi studia matematica viene sempre la fede, come pensava D’Alembert, ma è una fede che è tutt’uno con la ragio- ne. Il compito del filosofo è di chiarire e approfondire quest’identità. Il Waismann invece, opponendosi a quel- lo che c’è di nuovo e vivo nelle sue riflessioni, dice che la matematica non è un sistema ma una molteplicità di sistemi; che le sue proposizioni (tutte: anche 2+2 uguale a 4; l’esempio è suo) non sono pensieri ma regole d’azione che possono essere seguite o trasgredite. Egli arriva a dire che l’aritmetica è un puro calcolo, sospeso sul vuoto come i nostri sogni, e fondato sul nulla. Ad alcune delle sue più discutibili affermazioni ri- sponde altrove egli stesso. Egli sostiene, per esempio, che davanti alla domanda: «Che cosa è il numero?», ci troviamo press’a poco come davanti al problema agosti- niano del tempo. Secondo lui, per sapere che cosa è il tempo non bisogna cercare di rispondere: «Il tempo è...» (le risposte di questo genere sarebbero impossibili), ma occorre mettersi in grado di comprendere la parola tem- po nei vari casi in cui viene adoperata (non ho tempo, il 403 tempo passa, al tempo che Berta filava, che tempaccio!, tempo perduto). Analogamente per il concetto di nume- ro (anzi, egli dovrebbe aggiungere, per qualunque con- cetto). Ebbene, egli aveva già affermato che, davanti ai nu- meri immaginari, gli studenti novizi provano un’impres- sione di mistero che scompare quando imparano ad ap- plicarli. «Ma — aveva aggiunto acutamente — queste ap- plicazioni non riescono affatto a spiegare la natura dei numeri immaginari. Ci si abitua ad essi e non si doman- da altro». Evidentemente, in questo modo si potrebbero creare degli scolari diligenti ma non dei matematici e tanto meno dei filosofi della matematica. Peano non avrebbe scoperto la curva che riempie interamente un quadrato, né si sarebbe arrivati al concetto moderno di curva, né Klein avrebbe dato la definizione delle geo- metrie, né Waismann avrebbe scritto le pagine più sue. Chi vuole spiegare i numeri immaginari (e ogni altro numero, ogni concetto) deve andare oltre, passando dall’abitudine alla consapevolezza; e allora vedrà che la matematica è vera e una e che le sue contraddizioni sono apparenti. In qualche caso lo riconosce anche l Autore. Il principio che la parte è minore del tutto — egli dice — vale per insiemi finiti ma non per insiemi in- finiti. Per conseguenza — aggiungo io — il matematico ha ragione quando lo afferma per gl’insiemi finiti e lo nega per gli altri, né per questo si contraddice. Nessuna contraddizione si può ammettere tra la geo- metria euclidea e le altre, né tra il postulato di Archime- 404 de e la geometria di Veronese. Il postulato delle paralle- le non è valido incondizionatamente ma vive nella geo- metria euclidea; il postulato di Archimede vale per i segmenti finiti e per le altre grandezze ordinarie, non vale per gli angoli formati da una circonferenza e dalla sua tangente in un punto, come aveva cominciato a capi- re Galileo e capi benissimo Veronese. Bisogna mettersi in testa che ogni principio è deter- minato, cioè si riferisce a un certo spazio, a un certo tempo, a certe ipotesi, a una certa situazione, e ha perciò un suo campo di validità oltre il quale non è applicabile. Purtroppo noi tendiamo a ricadere nel sofisma dei dotto- ri di Salamanca: neghiamo gli antipodi perché, nel no- stro emisfero, gli uomini hanno di solito la testa all’insù. 405 LE INTERPRETAZIONI DELLA GEOMETRIA NON EUCLIDEA" I fondatori della geometria non euclidea ebbero con- sapevolezza dell’importanza della scienza nuova da loro creata. Com’è noto, Giovanni Bolyai, nella lettera scritta al padre da Temesvar il 3 novembre 1823 disse: Ho creato dal nulla un nuovo universo. Lobacevskji, nella sua Pangeometria, mostra inoltre un gran senso critico. Egli dice esplicitamente che la definizione comune della parallela è insufficiente perché non caratterizza abba- stanza una sola linea retta e aggiunge: Si può dire la stessa cosa della maggior parte delle definizioni date or- dinariamente negli elementi di geometria; poiché queste definizioni non solamente non indicano la generazione delle grandezze che si definiscono, ma non dimostrano neanche che queste grandezze possano esistere. Cosi si definiscono la linea retta ed il piano con una delle loro proprietà; si dice che le linee rette sono quelle che si confondono sempre allorché hanno due punti comuni; che un piano è una superficie con la quale una linea ret- ta si confonde sempre, allorché con essa ha due punti comuni. Egli preferisce perciò di cominciare non col * Pubblicato nel «Bollettino dell’Unione matematica italiana», serie III, anno V (1950), p. 82 sgg. 406 piano e la retta ma con la sfera e col cerchio, le cui defi- nizioni non sono incomplete giacché contengono la ge- nerazione delle grandezze che definiscono. D’altra par- te, procede nelle dimostrazioni con metodo rigoroso che fu giustamente ammirato da Gauss. Egli afferma che la pangeometria è una dottrina completa, fondata su princi- pî certi e che la supposizione della geometria ordinaria che il valore della somma dei tre angoli di un triangolo rettilineo è costante non è una conseguenza necessaria delle nostre nozioni di spazio. Eppure Bolyai, dopo aver scritto l’ Appendix sulla scienza dello spazio assoluta- mente vera ed indipendente dalla verità o dalla falsità dell’assioma XI di Euclide (da non potersi decidere mai a priori), ebbe una crisi e cercò di dimostrare il quarto postulato. Lobacevskji fu più fermo, anzi abbandonò il titolo di geometria immaginaria che aveva prima adottato. In realtà però anche lui non riusci mai a comprendere che la geometria non euclidea è vera come l’euclidea e può coesistere con essa. Egli credette che l’esperienza potes- se decidere in favore dell’una o dell’altra geometria, e poiché le misure dirette non mostrano che la somma de- gli angoli di un triangolo possa differire anche minima- mente da due retti, credette che l’ipotesi che la somma sia minore di due retti non possa avere applicazione che nell’analisi. La geometria iperbolica sarebbe dunque una geometria coerente in senso formale, ma non ri- spondente alla realtà; sarebbe essenzialmente astratta, 407 mentre la geometria euclidea sarebbe, o sembrerebbe, concreta. Lo stesso Klein, a cui si devono ricerche importanti nel campo della geometria non euclidea, nel Programma di Erlangen, pur riconoscendo che le ricerche sulla teo- ria delle parallele hanno dimostrato definitivamente che l’assioma delle parallele non è conseguenza matematica di quelli che generalmente gli si premettono ma rivela un elemento di intuizione essenzialmente nuovo, dice che proporsi se il postulato sia o no verificato approssi- mativamente dall’esperienza è una questione filosofica che non interessa il matematico come tale. La matemati- ca sarebbe cosi astrazione o, come direbbe Croce, pseudo-concetto e non vera scienza. Tuttavia, dopo le ricerche di Riemann, Beltrami, Hil- bert, Klein, Dehn, Cayley, Clifford, Helmoltz, Lie, dopo le ricerche del nostro Luigi Bianchi e la critica di Poin- caré, mi pare che si possa considerare acquisita l’idea che la geometria non euclidea è vera come l’euclidea e che scegliere tra l’una e l’altra è assurdo. Ormai è assodato che della geometria non euclidea si possono dare interpretazioni euclidee e che si può con opportuni vocabolari passare dall’una all’altra geome- tria; d’altra parte è stato chiarito che queste varie geo- metrie non son che teorie di speciali geodetiche definite dai rispettivi postulati; è evidente perciò che le varie geometrie, compresa quella generale o assoluta, cioè che non afferma né nega il postulato euclideo e quelli di 408 Lobacevskji-Bolyai o di Riemann, tutte le geometrie non sono che capitoli diversi di una stessa scienza. Questo punto di vista è, in fondo, quello di Poincaré reso coerente, cioè liberato di quel convenzionalismo che ha, secondo me, oltrepassato il genuino pensiero dello scienziato francese. Ne La science et l’hypothéèse, il Poincaré parla dell’interpretazione che Beltrami ha dato della geometria di Lobacevskji e di quelle che si possono dare mediante opportuni dizionari e conclude che non si potrà mai incorrere in contradizioni svilup- pando tutte le conseguenze dell’ipotesi di Lobacevskji, giacché se due teoremi di Lobacevskji fossero contradit- tori sarebbero pure contradittorie le loro traduzioni. Non è tutto — aggiunge Poincaré —: la geometria di Lobacev- skji, suscettibile di una interpretazione concreta, cessa di essere un vano esercizio di logica e può ricevere delle applicazioni; e cita le proprie ricerche e quelle di Klein per l’integrazione delle equazioni lineari. Egli osserva inoltre che l’interpretazione di cui ha parlato non è uni- ca, e si potrebbero stabilire più dizionari analoghi che permetterebbero di passare dai teoremi di Lobacevskji a quelli di geometria ordinaria. Egli osserva ancora che i postulati della geometria non sono né giudizi sintetici a priori né fatti sperimenta- li, o meglio definizioni mascherate; e alla domanda: — La geometria euclidea è vera? — risponde che essa non ha senso, come non ha senso domandarsi se il sistema metrico decimale sia vero e le antiche misure false; se siano vere le coordinate cartesiane e false le polari; e 409 che perciò una geometria non può essere più vera, ma soltanto più comoda di un’altra. Evidentemente, sia pure in modo non del tutto chiaro, Poincaré non nega che la geometria sia vera e tanto meno afferma che essa è tutta arbitraria; egli dice soltanto che per l’interpretazione della realtà fisica può essere più comoda la geometria euclidea che è strettamente legata al nostro mondo, mentre in un mondo fisico costituito diversamente, in cui per esempio non ci fossero corpi solidi, potrebbe es- sere preferibile l’uso di un’altra geometria. Per com- prendere il punto di vista del Poincaré occorre tener pre- sente ciò che egli dice anche ne La valeur de la science e in Science et méthode. Evidentemente — egli dice nel primo di questi libri — quando diciamo che la retta eucli- dea è una vera retta, vogliamo dire soltanto che la prima idea intuita corrisponde a un oggetto piu notevole della seconda. L'oggetto più notevole, come è noto, è il corpo solido, sul quale è modellata la geometria euclidea. In Science et méthode egli dice che se un raggio lumi- noso non soddisfa al postulato di Euclide noi non dob- biamo rinunziare alla geometria euclidea, ma conclude- re che il raggio luminoso non è rettilineo, tanto più che il raggio luminoso probabilmente non ubbidisce rigoro- samente né al postulato di Euclide né alle altre proprietà della retta euclidea. A me pare che all’idea che, anche dopo il Poincaré, alcuni difendono, secondo la quale si dovrebbe risolvere per via sperimentale il problema del carattere euclideo o non euclideo dello spazio, si possa opporre questo ra- 410 gionamento: Se, misurando gli angoli di un triangolo, troviamo che le loro somma non è uguale a due retti, e siamo naturalmente sicuri di non aver commesso errori, non è certo legittimo di concludere che la geometria eu- clidea è falsa, ma solo che quel triangolo non è euclideo. Per concludere devo dire qualche parola sui rapporti tra la geometria non euclidea e la teoria kantiana dello spazio. Com’è noto, in Italia alcuni matematici, come l’Enriques, i quali continuano una tradizione che risale ai tempi di Kant, sostengono che le geometrie non eucli- dee abbiano distrutto la teoria kantiana; altri, come il Caramella e altri filosofi, dicono invece che la teoria di Kant è la migliore giustificazione delle geometrie non euclidee. A me pare che il problema non sia ben posto, ma inclino a credere che abbiano più ragione 1 filosofi. Del resto Poincaré è più vicino a Kant che all’empiri- smo. Non si può negare che Kant si riferisca implicita- mente alla geometria euclidea, ma egli mostra di ignora- re radicalmente la stessa possibilità di altre geometrie. È certo però che la sua teoria dello spazio non implica par- ticolari ipotesi sulla metrica dello spazio e quindi va considerata come del tutto indipendente dal carattere eu- clideo o non euclideo della geometria. La teoria di Kant non è né euclidea né antieuclidea, ma extraeuclidea, e appunto perciò è compatibile con ogni geometria. 411 LA SCIENZA DI GARBASSO" Dopo le belle commemorazioni di Luigi Puccianti, della Brunetti, di Ronchi e la relazione di Fermi all’ Accademia d’Italia, non resta che tentare una valuta- zione critica dell’opera di Antonio Garbasso. Il compito non è dei più semplici perché implica limitazioni che potranno sembrare dolorose ma è forse il migliore omaggio che si possa rendere al Maestro, tanto più che, come si vedrà, la sua figura viene illuminata con altra luce, non diminuita. Antonio Garbasso era allievo del grande Hertz dal quale prese alcune vedute teoriche e l’amore per le si- stemazioni matematiche e per l’esperienza. Era abile sperimentatore e alcune sue esperienze sulle onde elet- triche piacquero molto a Hertz. Tuttavia egli è più origi- nale come fisico matematico che come sperimentatore: è facile persuadersene esaminando uno dei suoi lavori più apprezzati: la memoria sul miraggio. La memoria piace dal lato matematico, da quello sperimentale, da quello bibliografico; dal punto di vista letterario fa pen- sare a un Euclide ringiovanito o a una statua greca. Nel- la letteratura dell’argomento, nelle esperienze, nelle for- mole, l’ Autore si muove con eleganza; ma voi sentite * Pubblicato in «Pan» II (1934), p. 274 sgg. 412 che la parte più sua è quella matematica. Il Garbasso stesso ve lo fa capire perché nell’introduzione osserva che nei lavori precedenti non si è mai stabilito un nesso logico tra i risultati del calcolo e quelli della ricerca spe- rimentale e rivendica a se stesso unicamente la parte matematica in cui la sistemazione viene effettuata con un fare da signore. Le esperienze sono indovinate ma non spinte a fondo e non è senza ragione che, subito dopo, il Rolla abbia potuto spingersi sperimentalmente molto più avanti. Come fisico il Garbasso fece varie altre cose belle ma sin dagli anni giovanili egli fu dominato da un’esigenza profonda e direi dolorosa di totalità: e non poté limitarsi alla fisica. Nei saggi raccolti nel volume Fisica d'oggi, filosofia di domani, egli tentò una rielaborazione filoso- fica della fisica, mostrandosi sostanzialmente d’accordo con Hertz: Già nel volume Quindici lezioni sperimentali su la luce considerata come fenomeno elettromagnetico, aveva sostenuto la teoria hertziana dei «modelli» in for- ma estrema. Ogni teoria che si dà per un dato ordine di fenomeni, — diceva allora, — non è che un modello o, in altri termini, un’immagine grossolana dei fenomeni. Di uno stesso fenomeno «si possono dare due modelli di- versi. Quindi una teoria può essere vera, per noi, senza avere in sé nulla del reale». Questo è nominalismo, giacché il modello è il simbo- lo o, tutt'al più, l’ombra della realtà; senonché in Fisica d’oggi, filosofia di domani, l Autore chiari che la molte- plicità dei modelli accettabili deriva non dalla natura 413 delle cose ma dallo stato attuale del sapere e che ogni nuovo progresso scientifico deve limitare il numero dei modelli, lasciandone finalmente superstite uno solo, «quello che sarebbe fornito dalla percezione immediata della realtà». Il nominalismo avrebbe carattere provvi- sorio; la posizione definitiva sarebbe l’adeguarsi tomi- sticamente alla realtà. La tesi è affermata ma non svolta e cosi il libro non ebbe fortuna. L’insuccesso deve aver consigliato il Garbasso a non insistere in quella direzio- ne. Non per questo egli rinunziò alle sue idee, anzi le ir- rigidi. Per tutta la vita il Garbasso non mancò di pren- dersela con la filosofia. Il suo dadà era l’idealismo hege- liano ma egli comprendeva in questa espressione tutte le filosofie che non riconoscessero il primato della scienza. Non meno di Hegel condannava i suoi precursori e se- guaci napoletani e non risparmiava Bergson. Anche in sant’ Agostino subodorava l’idealismo. Tra i precursori napoletani di Hegel metteva Bruno, verso il quale non ha mai avuto parole di simpatia. A lui piemontese, il fi- losofo di Nola doveva sembrare caotico e barbarico e doveva rifuggirne per istinto. Cosi non poté accorgersi che la pagina del Dialogo sui massimi sistemi in cui Ga- lileo espone, con grande compiacimento del Garbasso, il principio di relatività della meccanica classica ha un’anticipazione ammirevole nella Cena delle Ceneri. AI centro dei pensieri di Garbasso, in fondo alle sue impazienze e alle sue inquietudini c’era la scienza. Fuo- ri della scienza egli non vedeva che la mentalità «cine- se»: un miscuglio di puerilità, di faciloneria, di astrazio- 414 ni arbitrarie, un perditempo. Il suo era un positivismo vago, quasi del tutto virtuale, perché se diceva che la fi- sica di oggi era destinata a diventare la filosofia di do- mani, il domani era relegato in un limbo irraggiungibile. Dal positivismo dei filosofi rifuggiva come dall’ideali- smo perché era anch’esso filosofia. La sua condanna della filosofia era senz’attenuanti: «La storia insegna, — disse a proposito di Kant, — che i filosofi non hanno in- ventato mai nulla, nemmeno gli errori». Le sue più vive simpatie erano per Galileo e per New- ton coi quali aveva in comune il concetto della scienza come filosofia naturale e il sentimento religioso. New- ton gli sembrava superiore perché, grande fisico e gran- dissimo matematico, aveva saputo risolvere i problemi che gli si erano presentati, inventando di volta in volta i metodi e gli strumenti necessari; e i Principî matematici di filosofia naturale gli sembravano il libro «più meravi- glioso forse che sia stato mai scritto». Il giudizio è prezioso per comprendere il Garbasso. Perché i grandi dialoghi di Galileo sono inferiori ai Principî di Newton? Galileo vi si rivela grande osserva- tore, grande sperimentatore e ragionatore profondo, e nessuno potrebbe dire bruscamente che sia inferiore a Newton. Ma nel capolavoro newtoniano Antonio Gar- basso vede assai meglio realizzato il suo concetto della «filosofia naturale». Evidentemente egli prescinde dalla gnoseologia e dalla teologia di Galileo e vedremo che non coglie il significato del processo e della condanna. 415 Data questa mentalità puramente scientifica e data la negazione violenta del concetto della verità che si svi- luppa, non c’è da aspettarsi dal Garbasso delle valuta- zioni e ricostruzioni che meritino di essere dette propria- mente storiche; né ce ne sono. I numerosi saggi di argo- mento storico che egli ha scritto vanno considerati, più che altro, come materiali (preziosi) per un grande tratta- to di fisica o come pagine disperse dell’eccellente tratta- to che l’Autore poteva scrivere. Il Garbasso s’interessa quasi esclusivamente ai risultati e non al modo come sono ottenuti. Leggete le due conferenze su Volta. Tutto quello che Volta ha fatto lo saprete. Garbasso ha letto tutto e vi dà un’informazione precisa ed esauriente. Vi dice che il grande fisico di Como anche senza la pila avrebbe un posto eminente nella storia; che, pure non conoscendo la matematica, pensa matematicamente e ha chiarissima l’idea della capacità elettrica e quella del potenziale; che è uno sperimentatore ingegnoso e fecon- do; che era pronto per la grande scoperta quando Galva- ni gliene diede l’occasione. Tutto vero e ben detto. Ed è verissimo che Volta era più acuto di Galvani e che dei due fu il solo veramente geniale. Ma purtroppo questo punto, che è poi quello che conta, rimane senza prove ed è menomato dalle parole che seguono immediatamente. È geniale — spiega il Garbasso, — ma «di una genialità il Volta, che fa pensare alla definizione del Buffon, secon- do la quale /e génie est une longue patience. Comunque l’uomo si giudica dall’opera e l’opera dalla conseguen- Ze». 416 È il criterio dello scienziato, opposto a quello dello storico. Allo scienziato importa ciò che in un’opera c’è di attuale, ciò che ancora è suscettibile di sviluppo. Tra- sportando la stessa mentalità nel passato, l’opera vien giudicata dalle conseguenze. Allo storico l’opera impor- ta per la sua novità. Volta, come tutti i grandi, si può giudicare in un modo o nell’altro ma col criterio dell’attualità la sua originalità si smarrisce. Tutta la via gloriosa che egli percorse dalla prima adesione alla «stupenda scoperta» di Galvani, all’invenzione della pila, cessa di essere, com’è, uno dei più grandi capola- vori del secolo decimottavo per diventare qualcosa di prolisso e di noioso. Se si trattava di pazienza, come mai Galvani, che pure ebbe tra mano per il primo un vero e proprio ele- mento voltaico e aveva senza dubbio anche lui una pa- zienza infinita e ingegno, si ostinò nella tesi dell’elettri- cità animale? Non si vede nemmeno perché nessuno dei fisici illustri che vivevano al tempo di Volta riusci a mettersi in gara col grande italiano; né perché fisici ami- cissimi di Volta come Van Marum esitarono tanto ad ac- cettare il principio del contatto. Il Garbasso del resto ri- conosce che una teoria soddisfacente della pila si è avu- ta solo da pochi anni. La ragione è semplice: il pensiero di Volta era tanto nuovo e originale che quella chiarezza che oggi sembra eccessiva fu allora necessaria e Volta seppe conseguirla perché era un ingegno sovrano. Il giudizio su Volta non è un’eccezione fortuita: è un giudizio meditato che rispondeva a un convincimento 417 saldissimo del Garbasso. Allo stesso criterio che abbia- mo detto dell’attualità e abbiamo contrapposto a quello storico, si possono ricondurre, — lo faremo subito vede- re, — alcuni apparenti paradossi. Si riferiscono alla sinte- si dell’acqua, all’opera di Righi e di Sadi Carnot, all’abiura di Galileo. Dopo aver notato che dall’eudiometro di Volta è nata quasi per intero la chimica dei gas, il Garbasso prose- gue: «È interessante assai constatare come egli fosse an- dato vicinissimo alla sintesi dell’acqua, che appunto con l’eudiometro del Volta fu compiuta dal grande Lavoi- sier». Fin qui niente di strano. Volta vi si avvicina ma la sintesi, sia pure con l’apparecchio di Volta, è realizzata dal grande Lavoisier. Alla fine della conferenza la scena cambia. La sintesi è realizzata da Volta prima di Lavoi- sier. Il chimico francese non fa che ripetere un’esperien- za già fatta. Direte che è una distrazione: non sono dello stesso parere. Dato il punto di vista del Garbasso, che la verità è bell’e fatta e non resta che scoprirla, data la sva- lutazione del procedimento in favore del risultato, chi arriva vicinissimo al risultato e chi con lo stesso mezzo lo consegue sono tutt'e due in presenza della dea e se non si sta attenti si confondono. Augusto Righi è «un fisico di grande abilità che ha la- vorato assai bene in molti campi della fisica». Il Garbas- so ne apprezza in particolare l’opera sull’ottica delle onde elettriche eseguita «con una disposizione veramen- te geniale dell’eccitatore e del risonatore», né manca di ricordare che Marconi s’iniziò alle onde nel laboratorio 418 del Righi e adoperò l’oscillatore a tre scintille dello stes- so Righi nelle prime esperienze di telegrafia senza filo. Eppure egli sente il bisogno di dire che Augusto Righi «sarebbe stato degno d’imbattersi in uno di quei casi fortunati che hanno fatto la fama del Galvani, e, più re- centemente, del Ròntgen». Con questo criterio una gran parte della storia della fisica perde ogni valore e Galvani stesso dovrebbe cedere il posto all’assistente che esegui per primo la celebre esperienza della rana, come il Gar- basso stesso ricorda. Nell’articolo su Lord Kelwin dice il Garbasso che Sadi Carnot, «il figliuolo oscuro del grande Lazzaro Carnot», nelle sue Réflexions sur la puissance motrice du feu; «si era lasciato traviare dalle fallacie del ragio- namento per analogia». Per la verità, lo scritto in cui si leggono queste parole è del ’908 e si può credere che oggi il Garbasso modificherebbe la sua opinione. Giudi- cando dalle conseguenze, egli non dovrebbe trovare del tutto esagerato il giudizio di Lord Kelwin che nella sto- ria della fisica non ci sia niente di più grande dell’opera di Sadi Carnot. Oggi si può pensare che il gran Carnot sia il giovine che creò, si può dire dal nulla, tutta la ter- modinamica. A ogni modo il giudizio di Garbasso per- de, al solito, il suo carattere paradossale se ci mettiamo nel punto di vista dell’attualità. Nel suo momento stori- co la novità di Carnot è abbagliante; dopo un secolo di rielaborazione il suo pensiero, nella forma primitiva, non può non sembrare insufficiente. Vedremo d’altra parte che il Garbasso stesso, pur non rinnegando il suo 419 realismo, seppe fare una buona difesa del punto di vista storico. Galileo, — ragiona il Garbasso, — abiurò con cuore sincero e fede non finta. Il suo contegno non fu ispirato da debolezza ma da coerenza e probità scientifica. Da- vanti all’accusa di eresia e alla minaccia di scomunica, egli dev’essersi domandato se il sistema copernicano si potesse considerare dimostrato inoppugnabilmente e dev’essersi risposto di no. Fra convinto, per conto suo, ma non poteva convincere gli altri, mancandogli le due «prove sicure» del movimento della terra: quella dell’aberrazione della luce e quella del pendolo di Fou- cault. Garbasso vede benissimo che, per le scoperte stes- se di Galileo, l’ipotesi copernicana «appariva sempre più probabile», ma risponde che «le prove di questo ge- nere, se possono parere superflue ad un filosofo ideali- sta, come Giordano Bruno, non sembrano sufficienti ad un uomo di scienza come Galileo Galilei». Se ci sforziamo di guardarlo da storici, il problema galileiano si risolve senza difficoltà: e il Garbasso stesso ci può soccorrere. Nel suo discorso sui principî della meccanica tenuto a Siena nel 1913, dopo aver ricordato che Ipparco, secondo l’acuta osservazione di Adrasto, non aveva saputo riconoscere quale dei due sistemi che secondo lui spiegano ugualmente bene il moto dei pia- neti coincide con la natura delle cose e quale è d’accor- do con le apparenze solo per accidente, perché gli man- cava il «senso della fisica», il Garbasso continua: «Gali- leo cui non si può negare il senso della fisica era senza 420 dubbio nell’ordine di idee di Adrasto di Afrodisia»: e appoggia la sua tesi citando il pensiero galileiano sugli astronomi filosofi che non si contentano di salvare in qualunque modo le apparenze ma cercano d’investigare la vera costituzione dell’universo. Appunto perché ave- va il senso della fisica, Galileo non poteva considerare come ugualmente probabili l’ipotesi tolemaica e quella copernicana; anzi per lui chi non accettava l’ipotesi co- pernicana, divenuta oramai evidente, era un ritardatario, uno che non capisce per insufficienza mentale e morale. Con l’abiura Galileo non s’impegnava soltanto a non in- segnare il sistema copernicano ma a rinnegarlo, accet- tando il cielo incorruttibile di Aristotile e tutto il mondo che egli aveva distrutto. Rinunziava senza ragione alle sue idee e alle sue scoperte. È troppo inverosimile: l’unica spiegazione è che egli cedette alla violenza. I teologi commettevano un enorme abuso di potere, dan- neggiando gravemente la Chiesa. «Questo sarebbe, — aveva detto lui stesso proprio a proposito dei teologi che s’ingeriscono in questioni scientifiche che non hanno studiato, — come se un principe assoluto, conoscendo di poter liberamente comandare e farsi ubbidire, volesse, non essendo egli né medico né architetto, che si medi- casse e fabbricasse a modo suo, con grave pericolo della vita de’ miseri infermi e manifesta rovina degli edifizî». Ribellarsi era inutile e inopportuno; e da buon fiorentino e da buon cattolico, firmò, senza viltà e senza abdicazio- ni, sicuro che il tempo gli avrebbe dato ragione in tutto. 421 Si deve escludere che sul giudizio del Garbasso ab- biano avuto influenza delle preoccupazioni di carattere religioso. Per i teologi che condannarono Galileo, egli non ha riguardi; e ammette che il Papa abbia lasciato loro la mano libera perché offeso personalmente. Al tempo di Galileo sarebbe stato contro 1 teologi. Garbasso giudica in quel modo l’abiura perché non sa trasferirsi nel tempo di Galileo abbandonando le idee odierne. Gli sfugge perfino che una delle due «prove si- cure» del movimento della terra (l’esperienza di Fou- cault) non era stata data nemmeno nel 1757 quando 1 li- bri favorevoli alla mobilità della terra furono tolti dall’Indice. Eppure egli dice che «allora si poté dire ve- ramente che Galileo aveva vinto». Per fortuna, l’atteggiamento che abbiamo cercato d’illustrare è il più delle volte innocuo. L'Autore mira a cogliere, senz’offesa alla storia, ciò che c’è di attuale nei grandi scienziati: e come abbiamo visto, ci riesce molto bene. Per questo motivo la raccolta che Jolanda De Bla- si ha intitolato Scienza e Poesia (Firenze, Le Monnier) si può leggere utilmente, e spesso senza che la limitazio- ne del punto di vista si avverta. Il vecchio articolo su Hertz, per fare un solo esempio, rimane sempre un pic- colo capolavoro come quando fu scritto. È un rapido di- segno ma è più ricco e più suggestivo di un bel quadro. Leggendolo, non si può non pensare che Ojetti ebbe buon fiuto quando invitò il Garbasso a collaborare al Corriere della Sera: dispiace che la collaborazione si sia fermata al secondo articolo. Nel giornale Antonio Gar- 422 basso poteva esprimersi meglio che altrove. Egli non poteva rassegnarsi a fare lo specialista. Era un uomo so- cievole, politico, e aveva bisogno di dire cose vive a un pubblico vasto. Il laboratorio doveva dargli un senso di soffocamento. Quel suo sguardo freddo, quel suo sorri- setto tagliente celavano un’invincibile scontentezza. Articoli, libri, discorsi, nonostante le riserve di carat- tere storico o filosofico che si possano fare, contengono sempre qualcosa d’interessante. L’ Autore non oltrepassa i suoi limiti (salvo che negli scritti danteschi) e si fa ap- prezzare per le sue conoscenze scientifiche sicure, vaste, vive. Le quindici lezioni sulla luce sono degne di Augu- sto Righi. Anche il volume: Fisica d’oggi, filosofia di domani, che è il meno adatto al suo temperamento, è ot- timo dal lato scientifico e anticipa in qualche modo l’odierno concetto degli enti fisici come enti essenzial- mente misurabili. Acuta e spiritosa è la definizione di Aristotile come maestro di coloro che «sanno qualitati- vamente». Fra cattolico, cattolicissimo (è sepolto alla Verna), non scolastico. In lui non è traccia delle preoccupazioni che qualche cattolico intelligente come il Gianfrance- schi ha avuto davanti a certe affermazioni eterodosse della fisica contemporanea. Qualche volta sorge il dub- bio che, quando egli parla di realismo, voglia unicamen- te salvare l’oggettività della scienza. È indifferente che l’oggetto sia il Dio di Santa Caterina da Siena o la natu- ra di Galileo. 423 Fra moderno più di quanto egli stesso non sospettas- se: era giovane. Leggete nell’ Elettrotecnica del 1929 le «Poche parole di un fisico agli elettrotecnici italiani». Il Garbasso discute la tesi del Corbino che la fisica sia una scienza quasi del tutto esaurita, appellandosi alla storia, alla vita. Per un realista la tesi doveva sembrare eviden- te. Se la fisica è sistemata, vale a dire coincide con la realtà, non c’è da aspettarsi niente di nuovo. Garbasso si ribella. Dopo Galileo, — egli risponde, — la meccanica poteva sembrare sistemata e poi venne Newton. I con- temporanei di Coulomb credevano che l’elettrologia fosse esaurita e Galvani aveva già cominciato a lavorare e subito dopo Volta creò la pila e la corrente. «Da quell’anno coltiviamo la pianta che nasce da quel seme. Ora, se anche la pianta fosse quasi completamente cono- sciuta, e non è; si dovrebbe sempre considerare arbitra- ria l’affermazione che nessuno troverà un seme di spe- cie differente». Non dico che qui si superi decisamente il punto di vista del Corbino ma il Garbasso interessa per la sua vitalità. Non meno interessante è la difesa del punto di vista storico nell’insegnamento della fisica che egli fece nelle Energie nuove del 1919. In quell’articolo il Garbasso mette in luce gli svantaggi che presentano i libri in cui la fisica viene esposta dal punto di vista sistematico, ri- ferendosi a un trattato che attua egregiamente le sue ve- dute: quello di Fabio Invrea. Presentando, — egli dice, — alla maniera di Hertz l’edificio senza le impalcature, si 424 perde la prospettiva storica e non si ha idea di come la scienza si sia formata. Cosi grandi scoperte senza le quali una teoria non sa- rebbe stata nemmeno possibile diventano dei corollari ovvi e quasi banali della teoria stessa. Forse il Garbasso aveva presente un trattato tedesco di elettricità in cui il nome di Volta non figura. Perché «scienza e poesia» ? Il Garbasso negò più vol- te la differenza tra l’arte e la scienza ma non approfondi le sue idee. Si tratta quasi sempre di un altro aspetto del- la sua difesa della scienza. Da certe sue affermazioni parrebbe che egli vedesse nell’arte una forma rudimen- tale di scienza, una sua prima fase qualitativa. La scien- za sarebbe qualcosa di più profondo, avendo in più l’elemento quantitativo. Altrove concede anche meno. «Lo scienziato, — egli dice, — si distingue dall’artista per ciò che, mentre l’uno e l’altro intuiscono il reale, il pri- mo lo formula ma il secondo appena lo riproduce». La scienza sarebbe legge, l’arte soltanto copia. Nel discorso inaugurale: «La scienza e la civiltà», let- to nel 1908 all’Università di Genova, diceva che la scienza non muore ma cambia solamente di forma. «La sinfonia eroica è cosí alta come un canto di Omero, e ta- lune costruzioni grandiose della meccanica e della fisica matematica, per la dovizia della fantasia e lo splendore veramente poetico del genio, sopravanzano forse le sin- fonie di Beethoven». La scienza non è dunque scienza pura, non è soltanto filosofia naturale: è anche poesia. Può essere poesia più autentica, più alta. Certi principî 425 di fisica ci dànno un diletto estetico più elevato degl’infiniti uccelletti che «tubano e gemono e chiocco- lano e zirlano e fischiano e cantano nei versi di un no- stro insigne poeta italiano». È un’uscita vivace che rive- la temperamento artistico. E da artista sono, nel discorso sui principî della meccanica, le immagini della «gentile Siena, dove pregano ancora le Madonne di Duccio e di Sano» e dove, «memore di altri tempi e di altri costumi, Guido Riccio cavalca nell’affresco di Simone Martini». Carducci gli avrebbe detto bravo. La scienza era per Garbasso, ma piuttosto come desi- derio insoddisfatto, ciò che per Gentile è la filosofia. Doveva avere in sé anche l’arte, anche la religione. Per questo egli partecipò come volontario alla guerra e nella guerra e nell’azione consegui l’armonia a cui tendeva. Leggete l’ultimo scritto di Scienza e poesia: c’è tutto Garbasso. C’è il fisico, il didatta, l’uomo di fede; c’è l’uomo tenero che odiava il sentimentalismo per pudore; c’è l’artista. «Una mattina il tiro fu assai bene aggiusta- to: gli shrapnels arrivavano al ciglio del vallone, scop- piavano e proiettavano le pallottole giù pel declivio. Si era ai primi d’aprile e il declivio era coperto di ciliegi in fiore; ad ogni nuovo colpo migliaia di petali bianchi si staccavano dagli alberi e scendevano silenziosi, come fiocchi di neve». Sembra Renato Serra nelle ultime let- tere dal campo. 426 CORBINO" Fra nato ad Augusta il 30 aprile 1876. Non era dun- que vecchio; ma giovanissimo poteva dirsi per l’esube- ranza fisica e intellettuale e per i suoi entusiasmi. Orso Mario Corbino occupa un posto di prim’ordine nella storia della fisica italiana della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Molti lo ritengono il miglior fisico di quel periodo dopo Righi, ed è senza dubbio uno dei tre o quattro migliori e il più versatile. Aveva un temperamento impetuoso, vulcanico, ma non era avven- tato. In fondo alle sue audacie si deve riconoscere un in- crollabile equilibrio. Come scienziato mi pare che ci sia poco da discutere: appartiene alla fisica classica. Le sue più belle esperienze sono quelle fatte col Ma- caluso nel 1898 e specialmente quelle del 1911, in cui mise in evidenza le correnti circolari che si producono in una lamina di bismuto percorsa da corrente radiale. Belle sono anche le esperienze termomagnetiche. Que- ste ricerche e quelle fatte in collaborazione col Trabac- chi sul generatore per correnti continue senza contatti striscianti, quelle sul rocchetto d’induzione, quelle sui fili metallici incandescenti o sulle distorsioni di Volterra * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 29 gennaio 1937. 427 o sull’arco cantante o la distillazione a freddo della ni- troglicerina, fino alle recentissime sul microfono elettro- statico, sono interessanti, originali ma non hanno nulla di eterodosso e di paradossale. Corbino odiava i lavori inutili, i titoli per concorso, ma vedeva con simpatia an- che ricerche per nulla rivoluzionarie, come lo studiare a fondo un argomento che fosse conosciuto solo nelle li- nee generali. Parlò — è vero — nel settembre del ’29 di ricerche esaurite, di nuove teorie in cui non c’è posto né per nuo- ve forze né per fenomeni essenzialmente nuovi; e qui si poteva discutere e si discusse. Ma, nonostante le appa- renze, nel pensiero di Corbino l’affermazione non aveva nulla di preciso, di definitivo, di filosofico, tant'è vero che egli continuò a interessarsi e a lavorare nelle dire- zioni proibite; e se segui col più ardente entusiasmo le ricerche della Scuola di Roma sulla radioattività artifi- ciale, non vi partecipò direttamente. Corbino esprimeva in forma vivace la sua fiducia nella fisica nucleare; par- lava da fisico che vede una nuova via sicuramente aper- ta e non ha tempo di occuparsi fino a che punto valga la pena di lavorare in altre direzioni. Nella fisica — è vero — non ci sono rami esauriti, non ci sono sistemazioni defi- nitive; ma ci sono senza dubbio vie più o meno promet- tenti, e nel ’29 la più promettente era proprio la fisica del nucleo atomico. Si deve aggiungere che, senza l’entusiasmo di Corbino per la nuova fisica, Fermi non avrebbe avuto la cattedra di fisica teorica cosi presto e 428 forse non avrebbe fatto le esperienze sulla radioattività artificiale. Del resto, gli entusiasmi di Corbino per la fisica nu- cleare, per quanto ardenti, non sono incondizionati. Nel suo discorso al Convegno di fisica nucleare (ottobre del °31) egli diceva che lo studio del nucleo mira al disegno ambizioso di ridare la giovinezza alla materia, mira a trasmutare gli elementi, liberando energie incomparabili con quelle che si sono finora adoperate. In questo modo potrà sorgere un’età nuova. La meta è forse ancora lon- tana, ma aver posto il problema, avere indicato la via darà al nostro secolo la gloria più grande. Nel discorso del 3 giugno ’34 alla seduta reale dei Lincei il Corbino notava con compiacimento che il dise- gno ambizioso si poteva dire concretato, perché le sco- perte di Joliot e Irene Curie, cosi ampliate da Fermi, sono «appunto la manifestazione della giovinezza co- municata per urto nucleare alla vecchia materia stabiliz- zata». Senonché osservava subito che i limiti in cui il fe- nomeno si svolge sono troppo modesti perché ci possia- mo considerare prossimi a una nuova era per l’umanità e concludeva con queste parole: «Ma forse non invano la Provvidenza ha imposto tali limitazioni. L'uomo non appare ancora degno di avere in suo dominio sorgenti cosi formidabili di potenza e di distruzione; il progresso scientifico gliene ha fornite già troppe, forse al di là di quanto era compatibile col pro- gresso morale raggiunto. L’egoismo, l’orgoglio, lo spiri- to di sopraffazione turbano e dominano ancora sover- 429 chiamente i rapporti tra gli individui, fra le classi, fra le nazioni. Non si uccide più per tenere la destra o la sini- stra su una strada, ma la scienza appresta gli ordigni da collocare in un pubblico ritrovo o sul vestibolo di un tempio augusto, per seminare la morte fra individui che non hanno compiuto alcun gesto di provocazione. Il se- colo dell’elettricità, cioè della più grande conquista del- la scienza, ha visto la guerra più sanguinosa e distruttiva che la storia ricordi, e nella quale tutte le risorse del pro- gresso scientifico furono sfruttate. E chiunque abbia senso di umanità non può pensare con indifferenza al carattere che assumerà la guerra futura, se non si riusci- rà a evitare l’entrata in azione dei nuovi mezzi di stermi- nio che l’ulteriore progresso della scienza metterà a di- sposizione dei contendenti, togliendo alla guerra quel carattere eroico che può servire a esaltare le virtà fonda- mentali dell’uomo». Non è certo del più puro Novecento, che ne dite? Si potrebbe persino sostenere che la sua calda apologia per la nuova fisica fosse un gesto cavalleresco. Come fisico militante egli era e doveva sentirsi un fisico di prima della guerra. La nuova fisica doveva essere per lui la giovinezza, la vita che continua. Egli la doveva guardare come un padre guarda i figli, anzi come un nonno guar- da i nipoti. Il suo amore è pieno di distacco e di nobiltà; e più ammirevole ci appare il suo disinteresse se pensia- mo che egli era tutto preso da comitati, presidenze, dire- zioni. 430 La verità più profonda è che egli aveva un gran senso storico e la nuova fisica non poteva essere misconosciu- ta senza negare la realtà. Il suo sconcertante novecenti- smo era una delle conseguenze più immediate del suo senso storico. Nel ’927, a proposito dell’opera di Volta che vedeva illuminata da un’intuizione geniale e dominatrice, osser- vava che s'impone ancora alla nostra riverente ammira- zione; sentimenti analoghi aveva provato per Pacinotti, per Righi, per Marconi. La stessa affettuosa, anzi rive- rente ammirazione aveva non solo per Fermi, per Bohr, per Sommerfeld e per altri illustri, ma anche per i giova- nissimi. Vedeva chiaro e riconosceva con gioia i meriti degli altri. Fra un maestro. Chi l’abbia sentito parlare una sola volta non potrà dimenticarlo. Tutto foga e lampeggia- menti, trascinava all’applauso. Ma era — si badi — rigo- roso, preciso. Egli sentiva e faceva sentire a tutti che la fisica è una scienza affascinante. 431 RICORDO DI AUGUSTO MURRI" Fu razionalista, ateo, materialista? Fu un gran medico e una grande coscienza morale. Per lui la medicina, pri- ma di esser ragione, era fede. Alla vecchia distinzione fra medici pratici e medici scienziati non ci credeva. Era convinto che il medico sarà tanto più abile quanto sarà più vasta e più seria la sua preparazione scientifica. L'osservazione clinica è necessaria e di fondamentale importanza ma è molto difficile: pochissimi sono in grado di veder bene e inter- pretar bene i sintomi di una malattia. Occorre perciò avere un’idea delle varie malattie, occorre conoscere l’anatomia patologica; e poiché un’anomalia non è con- cepibile se non in relazione alla norma, bisogna cono- scere pure l’anatomia normale microscopica e macro- scopica e la fisiologia. Una malattia è un fenomeno complesso che non si può conoscere bene se non si de- compone nei suoi elementi. A questo provvede la pato- logia sperimentale, che crea artificialmente le malattie negli animali e le studia. Il medico non dovrebbe ignorare nulla di queste scienze e di tutte quelle che possono avere relazione con l’uomo ammalato: tutte gli possono servire per evitare * Pubblicato in «Pegaso» V (1933), p. 100 sgg. 432 errori e per arrivare alla verità. Non è detto però che gli debbano senz’altro servire. Le vere difficoltà comincia- no davanti al malato, perché allora si deve decidere se e in che misura le nozioni scientifiche sono applicabili. Purtroppo le scienze affini non possono fornire che ar- gomenti di analogia e il medico non può confondere l’analogia con l’identità, l’indizio con la prova. Per ap- plicare all’uomo una nozione scientifica qualsiasi, oc- corre che tra la causa e l’effetto ci sia una relazione qua- si immediata. Cosi è lecito ammettere che la perdita di calore di un malato dipenda dalle differenze di tempera- tura tra le sua pelle e l’ambiente, ma se dicessimo che, di due malati, quello che perde più calore è il più caldo non sempre avremmo ragione perché ci sono organismi con temperatura normale o inferiore alla normale che possono perdere più calore di uno che ha la febbre. La cosa si spiega pensando che nell’uomo intervengono fe- nomeni biologici che non hanno mai la semplicità dei fenomeni fisiochimici. Murri ha visto che nemmeno è lecito sempre passare dall’animale all’uomo. Cosi la distruzione di una certa zona della corteccia cerebrale nel cane o nel coniglio ne offende poco e transitoriamente la motilità mentre la stessa lesione produce sull’uomo un’emiplegia perma- nente. «Sarebbe difficile immaginare un esperimento, le cui condizioni fossero più semplificate; limitata l'offesa alla stessa parte, indifferente la qualità dell’offesa, pur- chè sopprima l’azione di questa parte. Già se al cucchia- io dello sperimentatore o del chirurgo, asportante una 433 zona di corteccia cerebrale, sostituiamo dei colpi di martello sul cranio le differenze crescono: il porcellino d’India diventa epilettico, non gli altri animali. Quale di queste due analogie deve valere per la patologia umana? Nessuna delle due: che dei traumi al capo possano favo- rire l’epilessia umana non è dubbio, ma il caso è rarissi- mo mentre nel porcellino d’India è ovvio: nei casi raris- simi di epilessia umana da traumi è forza ammettere condizioni particolari preesistenti». Quest’esempio e tanti altri analoghi servono inoltre al Murri per una critica al principio di causalità in cui egli precorre e oltrepassa la fisica odierna. Com’è naturale, in lui non c’è traccia del principio di Heisenberg ma egli arriva nel campo medico alla stessa negazione del prin- cipio di causalità, inteso alla maniera di Laplace, a cui è arrivato Heisenberg. Mentre Laplace credeva che se si potesse conoscere lo stato dell’universo in un certo mo- mento tutti i fenomeni futuri sarebbero conosciuti, Mur- ri dice: «Io non posso sapere quel che sarà: e se uno l’afferma, fosse anche Pawlow o Laplace, non ci crede- rei, perché l’avvenire è a tutti chiuso». Il cucchiaio e il martello hanno soltanto una parte nella genesi della ma- lattia; l’altra parte, che è la preponderante, è messa dall’animale. Le martellate producono nei diversi ani- mali una malattia cosí lieve che spesso pare inesistente mentre nel porcellino d’India che è predisposto mag- giormente all’epilessia la malattia assume sempre una certa gravità. Anche in individui della stessa specie una stessa causa può produrre effetti molto differenti. 434 Nell’uomo, per esempio, il trauma del capo può produr- re non solo l’epilessia ma la nevrastenia l’isterismo e varie altre malattie; un incendio o un terremoto possono produrre il diabete, l’annerimento di tutta la pelle, l’insonnia, la paralisi. Questi fatti, — sostiene giustamen- te il Murri, — non possono spiegarsi se non ammettendo che l’azione esterna non è tutta la causa ma solo una parte e che nella causa si deve comprendere anche l’organismo. Il clinico non deve dunque accettare cieca- mente ciò che lo sperimentatore ha osservato nell’ani- male. Si tratta sempre d’indizi che possono offrire delle probabilità ma non la certezza. Né le malattie infettive costituiscono un’eccezione. Una cultura di microrganismi può essere l’occasione o l’origine ma non la causa di una malattia. «La malattia non sta tutta nell’agente penetrato nel corpo: sta anche nelle modificazioni organiche che il corpo ha subito. E poiché queste variano non solo secondo la specie dell’animale, ma anche secondo gli organi degl’indivi- dui, ma perfino secondo la parte di un organo stesso, l’inferenza dallo sperimento alla clinica non è valida se non dopo aver verificato che le condizioni sperimentali sono uguali alle condizioni cliniche». Naturalmente, poiché l’esperienza ha dimostrato, per esempio, che la tubercolosi in alcuni animali si può trasmettere per con- tagio, è più che ragionevole, anche se non si sa altro, non solo consigliare ai bambini predisposti ciò che può agevolare lo sviluppo dell’organismo ma tutto ciò che può far loro evitare il contagio. In altri termini, non bi- 435 sogna essere pedanti: ci sono casi in cui le scienze ausi- liarie forniscono al clinico delle certezze. Date queste sue idee, si capisce che per Murri la dia- gnosi non si può ridurre a una semplice verifica di teo- rie. È un atto originale che richiede una grande cultura ma che non può essere dato dall’occhio medico, dall’istinto, dall’intuizione clinica, dalla divinazione: per Murri queste non sono che parole. Il suo razionali- smo consiste appunto nella negazione di quelle parole: «Tutto sta nel sapere, nell’osservare, nel concludere: la divinazione non è, al più, se non una inferenza giusta da un’osservazione rapidissima ma esatta». Quello che si dice per la diagnosi vale per la cura. Murri non ammette né una cura puramente empirica né una cura a priori. La cura è un esperimento e quindi non va fatta alla cieca. Ci vuole un’idea ma non un’idea qua- lunque. Se si ammettesse con Hoffmann che certe ma- lattie siano dovute a macchinazioni diaboliche, sarebbe logico ricorrere agli esorcismi; se l’idea è arbitraria o in- sufficiente, anche la cura avrà gli stessi difetti. E non è detto che se l’idea è buona debba essere ovvia la cura. Come tutti gli esperimenti, la cura richiede abilità speri- mentale e senso critico: e può presentare delle sorprese. È che anche quando è dedotta logicamente dalla diagno- si è in generale un'ipotesi, preziosa come guida all'esperimento clinico, ma che non si può considerare dimostrata finché non abbia superato la prova sperimen- tale. Ci sono tuttavia dei casi in cui, — dice il Murri, — una cura puramente dedotta può considerarsi quasi cer- 436 ta. Cosi se durante una malattia la pressione arteriosa scende al disotto di un certo valore, noi dobbiamo sem- pre intervenire. Ciò è indiscutibilmente provato dalla fi- siologia, la quale «non c’insegna soltanto che un certo grado di pressione arteriosa è indispensabile perché la vita duri, ma ci dice anche i congegni, che servono a rialzarla: dal canto suo poi la farmacologia ci fa sapere quali mezzi valgono a mettere in azione questi conge- gni. Dato dunque che in un ammalato questi congegni non siano alterati nelle loro proprietà fisiologiche e che nullameno la pressione arteriosa sia troppo bassa, noi siamo autorizzati a una terapia deduttiva perfettamente conforme alla ragione perché l’esperienza clinica ha già sanzionato la verità della conseguenza dedotta. Che la pressione non possa discendere troppo, che la forza, l’ampiezza, il numero delle sistoli cardiache, la condi- zione dei nervi vasomotori ecc., la determinino, che la digitale modifichi le sistoli cardiache di un miocardio sano, che certi farmaci agiscano sul centro dei nervi va- somotori, son già leggi assodate mediante l’induzione». Di queste idee chiare e profonde di Augusto Murri non è facile valutare l’importanza. Esse contengono una nuova attualissima teoria della medicina, anzi di tutta la scienza, che è assai più viva di quelle di Mach e di Poin- caré, di Croce o di Gentile o di Bergson. Murri sente l’insufficienza delle nozioni generali ma non abbandona la scienza per un vago intuizionismo o attualismo, o per opporre concetti a pseudo-concetti. La medicina è scien- za e tale deve rimanere, ma è scienza viva, scienza con- 437 creta, come dopo Einstein vogliono oramai tutti. Il feno- meno che essa deve conoscere è un fenomeno particola- re. Mentre il fisico, almeno quello di ieri, per arrivare alla sua legge scientifica semplifica a oltranza, immagi- nando corpi rigidi, gas perfetti, casi limiti, il medico co- mincia dove il fisico finisce. Egli non deve semplificare 1 fenomeni: li deve vedere come sono, con tutte le loro complicazioni. «La famosa mela, che, cadendo avrebbe dovuto, secondo la leggenda, suscitare l’idea della legge di gravità, parrebbe un fenomeno semplicissimo. Natu- ralmente la mela cade, perché obbedisce alla legge d’attrazione delle masse. Ma perché tutte le mele non cadono? Perché il picciolo le impedisce. E perché que- sto vale talora per un albero e non per un altro? Perché in uno la nutrizione sarà languida e nell’altro può essere rigogliosa. E d’onde tale differenza tra i due alberi? Per- ché uno è più giovane e l’altro tende a seccarsi, oppure uno ha goduto i benefizî della pioggia e l’altro ha soffer- to i danni della siccità. Ma perché anche in due alberi ugualmente nutriti l’uno fa cadere prima dell’altro i pro- prî frutti? Perché in uno il vento ne scosse più violente- mente i rami e ne ha maggiormente indebolite le resi- stenze dei piccioli, cui erano raccomandati i frutti. E sia. Ma allora perché anche in uno stesso albero cadono le mele d’un ramo più tosto che quelle dell’altro? Perché la grandine o un parassita hanno intristito di più un ramo, che l’altro. Sta bene, dunque, che la mela cada in terra per la legge di gravità, ma quante circostanze co- nosciamo già e quante non ne conosciamo ancora, che 438 per ogni mela che cade devono cooperare insieme con essa! Chiamate pure come volete queste circostanze, ma certo voi le ritrovate da per tutto». Basta questa pagina per dimostrare che Augusto Mur- ri non ha che vedere col razionalismo astratto. Qui Mur- ri, senz’abbandonare il punto di vista scientifico, supera definitivamente l’astrattismo, raggiungendo una ric- chezza di determinazioni, una concretezza, una vita de- gne di un artista. Come la mela non cadrebbe senza l’attrazione newto- niana cosi senza un certo virus non si prende una certa malattia; ma saputo che un organismo fu infetto dal vi- rus, non si può senz'altro predire quello che ne seguirà. C’è chi guarisce senza cura e chi non guarisce nemmeno con le cure più tempestive e più logiche; c’è chi non si accorge nemmeno di esser malato e chi sarà infelice per tutta la vita. Si ha qui qualcosa di simile al fenomeno della mela che cade. «La maggiore differenza consiste nell’essere qui più ignoto, più oscuro, o più complicato, direi più sconfinato, l’intreccio delle cause». Sembrerebbe facile cadere nello scetticismo ma Murri evita ogni pericolo perché la fede nella scienza è la ra- gione della sua vita. Egli si sforza continuamente di su- perare le facili, inutili generalità e ci riesce. Davanti al malato egli può sentire dolorosamente la sua responsa- bilità ma ha sempre la lucidità, il senso critico, la sicu- rezza che occorrono. Da questo punto di vista, il suo ca- polavoro sono le perizie medico-legali e alcune lezioni cliniche. Egli riesce a illuminare ogni lato del problema, 439 ogni circostanza apparentemente poco significativa e si vale non solo della sua sterminata cultura ma anche di un’analisi psicologica da autentico scrittore. Come non vedo l’astrattismo razionalista, non riesco nemmeno a vedere il materialismo. Murri non nega mai lo spirito (e come avrebbe potuto farlo lui che è sempre vibrante di spiritualità?): egli afferma i «diritti del cor- po». Quando parla di materialismo è a quei diritti del corpo che si riferisce e non a una veduta filosofica alla quale egli si mantiene sempre estraneo. Il materialismo di Murri ha sempre carattere scientifico: è un aspetto della sua scienza. Esso consiste essenzialmente nel so- stenere, che non è lo spirito che invecchia ma il cervel- lo, come i capelli e come la pelle. Materialisti sono dun- que piuttosto gli avversarii. Anche per Freud in sostanza egli è rispettosissimo e la sua polemica contro di lui non ha niente di negativo e rivela soprattutto, com’è stato detto felicemente, «l’eterno dissidio fra il nebuloso spi- rito romantico e il sobrio, chiaro, spirito latino». Ciò che più mi piace negli scritti di Augusto Murri è il tono. Anche sotto le sue pagine più lucide e all’appa- renza più fredde, si sente un cuore ardente. La sua medi- cina è si scienza e non improvvisazione o estetismo ma è soprattutto volontà, carità, religione. Il medico ha l’obbligo di studiare per tutta la vita, di sapere tutto il possibile, di non trascurar nulla per essere utile consi- gliere di chi gli si affida. Egli non deve dimenticare che la sua opera può essere dannosa o addirittura immorale e non può sentirsi tranquillo se non quando può ripetere 440 con San Paolo: «La nostra gloria è nella testimonianza della nostra coscienza». Murri provò più volte le torture dell’incertezza davanti a malati che avevano confidato la loro vita al suo «scarso sapere»; e qualche volta, tro- vandosi solo davanti a un malato grave in un casolare di campagna, avverti «ogni pulsare del cuore come un’interrogazione severa della propria coscienza». Ac- cingendosi a fare la terza lezione su una morta di mal di cuore, gli veniva il dubbio che tre lezioni sopra un cada- vere potessero essere ritenute un eccesso, e rispondeva: «Ma io e voi possiamo dire d’aver già meditato a ba- stanza sul nostro caso e mettere in pace la nostra co- scienza? Perché la nostra malata è morta? Quando c’è un cadavere c’è sempre anche questa terribile doman- da». Murri non si abituò mai né alla morte né al dolore e senti sempre il dolore degli altri come un dolore proprio intollerabile. Aveva vivo e delicatissimo il senso della fraternità con tutti coloro che soffrono. «Se mi chiama un malato che geme sotto il martirio di una colica addo- minale, io corro alla siringa di Pravaz anche se non ho capito nulla del male suo: mi sento anzi felice di aver potuto dargli sollievo fraterno e, non più angosciato dal- lo spasimo suo, allora lo interrogo con più coraggio, lo investigo con più calma, e lo considero con più serena meditazione». La medicina gli piaceva specialmente per questa «santa facoltà di abolire il dolore, che pareva un tempo privilegio degli Dei». Nei medici che andavano a finire in luoghi remoti e alpestri, dove non si può nem- 441 meno avere il conforto della gratitudine, «pianta delicata che non giunge a fioritura se non in animi gentili» e pare che perfino «l’orizzonte debba rimanere eterna- mente chiuso ad ogni raggio di luce intellettuale e mora- le», egli vedeva dei veri missionari: e lo prendeva subito l’entusiasmo. È una grande coscienza morale e religiosa nel senso di Amendola: alludo a La volontà e il bene e ai saggi di Etica e biografia e in modo particolare a quello sulla lo- gica della vita religiosa. Anche per Murri, il bene è la volontà stessa, è una lotta che non ha mai fine contro l’ignoranza, l’errore, l’abitudine, la morte. Fermarsi, de- sistere sarebbe un tradimento. Ma perché si deve fare il bene? Augusto Murri non si pose mai questa domanda e forse non avrebbe potuto darle una risposta esauriente. Gli sarebbe occorsa, per questo, una filosofia che gli mancava. Egli si diceva agnostico, cioè né teista né ateo, perché non riusciva a comprendere né la materia eterna né un quid eterno che l’abbia creata dal nulla, ma la ve- rità è che la sua fede incrollabile, che è il centro, la luce della sua personalità, non deriva da una filosofia e po- trebbe sembrare a uno spirito religioso come qualcosa di trascendente, come un effetto della grazia, in quanto che rimane sempre per Murri razionalmente incoordinabile col resto della sua personalità. Murri agiva perché so- spinto da un demone a cui era necessario e dolce ubbidi- re con dedizione assoluta. Augusto Murri non era, come si disse, un seguace della dea Ragione. Egli non aveva le angustie e le intol- 442 leranze di certi illuministi. Accennò una volta alla veri- tà, unica Dea, ma alludeva alla medicina, che era per lui la più sociale e la più umana di tutte le arti. Del suo agnosticismo egli non si vantò mai, anzi riconosceva che la fede in Dio è «una fortuna individuale, come la facoltà di volare nell’aquilotto di De Musset». Anche della vita futura ammise in un certo senso l’esigenza, in un momento in cui più lo tormentava l’infelicità della vita. In una lettera del 1922, dopo aver ricordato la sua grande amicizia per Monsignor Bonomelli, e per il ca- nonico Sgarzi: «Il culto di un’opinione, — diceva, — an- che se non è la mia, anche se mi sembra errata e danno- sa, mi impone ossequio, mi ispira fervida simpatia se professata con animo ingenuo e profondamente devo- to». Nella stessa lettera dopo aver ricordato Cristo che insegnò ad amare 1 proprii nemici e ardeva di zelo per illuminare le plebi, concludeva: «L'amore degli uomini diventa sublime solo quando perviene ad accendere una fiamma irresistibile di opere altruistiche. Ecco il mio cristianesimo». Monsignor Bonomelli disse che la figu- ra morale del Murri si può paragonare solamente a quel- la di Marco Aurelio ma riconobbe che partendo da punti opposti lui e Murri arrivavano alla medesima meta. Per conoscere Murri, bisogna leggere le lettere al fi- glio pubblicate da Dante Manetti. Si vedrà com'era gen- tile, tenero il suo cuore, com’era elevato il suo ideali- smo, com’egli fosse incapace di bassezza e di egoismo e come sapesse comprendere e perdonare. Avvenuta la tragedia, Murri rimane atterrito e si chiude in silenzio. Il 443 linguaggio umano in tutte le sue forme, — egli pensa, — vale per le condizioni comuni, ma per certe condizioni straordinarie non serve. Egli non può capire. Ha sempre detto che l’avvenire è impenetrabile ma anche se si fos- se messo a farneticare sulle sorti future del figlio e aves- se pensato alle cose più inverosimili, mai avrebbe potu- to pensare che il suo Nino sarebbe finito nel reclusorio di Oneglia. Il pensiero del figlio l’ossessiona. Egli non fa che pensare a lui e ridirgli la sua infelicità. Più il tem- po passa, più si fa dolorosa la lontananza; più infuriano gli odii contro il recluso, più Murri si sente padre. Pur sapendo che non può vederlo, va ad Oneglia per essergli più vicino. Per il figlio la visita è come non avvenuta. «Eppure ho preferito venir qui: ho veduto le alte mura, dentro cui tu vivi, e non altro. La nostra sorte pare il fato! Nessuno ti può far nulla, nessuno mi può far nulla. La fratellanza umana pare una parola caduta sulla terra da qualche pianeta vicino». La lettera finisce con le pa- role: «T’abbraccio io per tutta l’umanità». In un’altra lettera gli scrive che è tutto smarrito e lo lascia con un abbraccio che non avrà mai fine. «Quando penserai a me, pensami colle braccia intorno al tuo collo e colla bocca piena di baci». La viltà dei falsi galantuomini e dei falsi amici lo rat- trista più che non lo indigni. Non sanno quel che fanno. Egli li perdona cristianamente e si sente più vicino al fi- glio. L’abisso che lo separa dal genere umano può essere superato dai pensieri d’amore. «Non ci son catene, né 444 giudizii, né sentenze, né celle per le anime e per la co- scienza». Leggendo il Vangelo di San Matteo, trova giusta la sentenza del castigo e del perdono, per quanto da per tutto rimanga ancora in vigore il dente per dente. Il pen- siero che si deve perdonare se si vuole essere perdonati «diventerà la formula razionale che una pena è legittima solo quando è reclamata dalla salute pubblica». Murri sente che si deve perdonare a tutti, anche a quelli che si compiacciono di affliggere gli afflitti. Questi non meri- tano disprezzo: «meritano la più commossa delle com- mozioni» perché mancano del «più nobile requisito del- la nostra specie, l’amore, la pietà, il sentimento della fraternità». In un’altra lettera dice che, a rovescio dell’Ecclesia- ste, «l’unico bene dell’universo è questa miseria che perseguita tutti i nati e li porta tutti ugualmente alla morte». È in questa lettera che ammette la colpa del fi- glio, «per violenza di passione e cecità di mente». Egli non sa con precisione in che misura il figlio è colpevole, non avendo mai voluto conoscere nulla dei fatti riferen- tisi al processo. Ma se il figlio ha fatto del male, ne han- no fatto anche e ne faranno molti o tutti. Anche i santi hanno pianto sui proprii peccati. L'importante è che il fi- glio non è più cieco ed è pentito e che ha la facoltà di fare il bene e molto bene e ha la suprema felicità di cer- care solo in se stesso «l’indulgenza ai proprii falli e la compiacenza delle buone azioni». 445 Dal tono morale, Murri non passa mai al moralismo. La nota dominante è il dolore per la sorte del figlio che non dimentica mai. Un giorno gli scrive che non si sa rassegnare, che è stato e sarà sempre pazzo. «Io anzi temo di diventare sempre più pazzo invecchiando. Lun- go il viaggio, l’ozio mi faceva riandare sui morti. Pensa- vo a mia madre, che giovine, era si buona e intelligente e generosa: negli ultimi anni non la riconoscevo più! Era diventata cupa, meno sincera, meno affettuosa. Cosi Riccardo. Me lo ricordo giovine e mi pare di non ingan- narmi dicendo che pochi han sortito una indole cosi be- nevola, cosi amorosa, cosi idealista. Invece negli ultimi anni era pur buono, ma incurante, collerico, non sempre ragionevole. Io pure temo questa metamorfosi dell’età». Poi improvvisamente cambia tono perché si ricorda che il figlio è stato a Trieste da dove scrive. «Qui io penso che tu ci sei stato e mi pare che anche ciò ch’è muto mi parli di te. Godo sapendo che ti alimenti di ricordi bibli- ci e platonici». Diffusasi la notizia che il figlio impazziva: «Tu sei per me, — gli scrive, — più di me stesso: non t’ho amato mai come ora, povero Nino, mai. E se tu cedessi alla forza delle avversità tutto il nostro edificio di famiglia si sfascerebbe con te... Se tu sparisci, che sarebbe di noi? Tu soffri, moltissimo soffri, è vero. Ma sinché vivi noi pensiamo che verrà il giorno della tua risurrezione». La fiducia nel figlio, nella sua redenzione, nella sua moralità non lo abbandonano mai, ma qualche volta si scoraggia. «Non par neppure credibile che gli uomini 446 abbiano immaginato per i proprii simili dei tormenti come questo di strappare il figlio dalla madre e dal pa- dre». «Oh! le parole, sieno maledette anch'esse. Perché la natura non ci ha lasciato l’ululato per piangere? Stu- pidi tutti i privilegi dell’uomo, anche questo d’aver sor- risi o lacrime». Quest’ululato non si dimentica. C’è in esso tutto Mur- ri: la sua insofferenza, la sua inconsolabilità per i mali degli uomini. Era uno spirito fine, sensitivo, fragile. Sembrò razio- nalista perché, per amore dell’umanità, seppe, con una lotta di tutta la vita, superare se stesso. Senza la tragedia familiare forse non avremmo capito la sua vera grandez- za. Pochi meritano come lui la nostra commossa gratitu- dine. 447 L’ITALIA E LA SCIENZA" Con felice idea, Gino Bargagli Petrucci ha pubblicato da Le Monnier i discorsi che alcuni dei nostri migliori scienziati tennero nel 1929, all’Esposizione di storia della scienza. Sono studi seri e di gradita lettura, che no- nostante qualche lacuna e qualche veduta unilaterale, dànno un’idea abbastanza viva della «grandiosità dell’opera compiuta, in ogni campo e in ogni tempo, da- gli Italiani sulle discipline scientifiche» e costituiscono in ogni modo «uno dei migliori e più duraturi ricordi» della Mostra Fiorentina. Apre la raccolta la conferenza di Giorgio Abetti sul contributo dell’Italia all’astronomia e all’astrofisica, nella quale l’ Abetti, molto opportunamente, si ferma sui pochissimi uomini di prim’ordine e in particolare su Ga- lileo. Egli sa mettere bene in luce la grande originalità di Galileo, che comincia ad abbattere il dogma aristote- lico della incorruttibilità dei cieli anche prima di scopri- re le macchie solari e che, volto al cielo il cannocchiale, scopre in breve tempo «più verità astronomiche che non fossero state trovate nel corso di trenta secoli» e ne comprende il valore. Cosi, fatta la grande scoperta dei satelliti di Giove, Galileo vede subito che «la terra intor- * Pubblicato ne «L’Italia letteraria», 11 settembre 1932. 448 no alla quale, per consenso di Tolemaici e di Copernica- ni, girava la Luna, non era dunque più un centro unico di movimento intorno al quale si aggirassero tutti i corpi celesti: Giove, mobile esso pure, sia intorno al sole, sia intorno alla terra, aveva anch’esso quattro Lune: la terra non era dunque più centro dell’universo e il sistema astronomico sul quale avevano giurato fede inconcussa tante generazioni di filosofi era crollato per sempre». L’Abetti sottolinea pure la «sicura conseguenza» che Galileo deduce dalla scoperta delle fasi di Venere, «vale a dire che tutti i pianeti sono per loro natura tenebrosi e ricevono il lume dal Sole, e che intorno ad esso si aggi- rano, confermando cosí pienamente la teoria copernica- na circa il vero sistema del mondo». Analogamente, a proposito degli scritti sulle macchie solari, l’ Abetti non manca di notare che sono particolarmente importanti, oltre che per l’altissimo valore scientifico, perché in essi Galileo sostenne per la prima volta a viso aperto la veri- tà della dottrina copernicana. Risulta da queste documentazioni (ed è strano che non tutti se ne accorgono ancora) che l’idea copernicana non è per Galileo un’opinione da «filosofi in libris» ma una verità «sensatamente provata». Su Galileo ritorna, com’è naturale, Antonio Garbasso nella sua vivace e dotta conferenza sul contributo degl’italiani alla fisica. Galileo arriva non a priori ma per mezzo dell’osservazione e dell’esperienza alla con- clusione che «la natura sia un libro e che siano caratteri di tal libro triangoli, quadrati, cerchi, sfere, coni, pirami- 449 di ed altre figure matematiche attissime per tale lettura». Egli dunque introduce, in modo sistematico, la matema- tica nello studio dei problemi naturali, come mezzo per formulare i risultati ottenuti e per prevederne di nuovi, dimostrandosi cosi per questa parte «anche dal punto di vista della teoria della conoscenza, infinitamente supe- riore a Francesco Bacone, il quale nel Novum Organum sconsigliava l’uso delle matematiche agli scopi della ri- cerca scientifica». La matematica che si conosceva ai tempi di Galileo era inadeguata alla nuova realtà che si andava scoprendo (Galileo stesso dovette fare una nuo- va integrazione per formulare la legge dello spazio per- corso dai gravi in caduta libera) cosicché bisogna segna- re all’attivo di Galileo, oltre l’altissimo merito di avere applicato la matematica ai problemi naturali, «anche gran parte dei mirabili sviluppi che l’analisi ha avuto dal seicento ai giorni nostri». Un altro grandissimo merito di Galileo consiste nell’impiego dell’esperienza. «Quando Galileo, per stu- diare il moto dei gravi abbandonati all’azione della gra- vità, sostituisce, con un lampo di genio, alla caduta libe- ra la caduta lungo un piano inclinato, Egli apre realmen- te una strada che non ha precedenti, nemmeno in Archi- mede siracusano». Dopo una rapidissima analisi delle principali scoperte di Galileo, la cui opera, «anche sfrondata di ciò che a tre secoli di distanza può apparire caduco, rappresenta sem- pre uno dei maggiori titoli di gloria per la nostra nazio- ne», il Garbasso si ferma sull’abiura, sostenendo che il 450 dramma di Galileo è meno romantico ma più doloroso di come è sembrato finora: «è il dramma di un uomo di genio convinto della verità delle sue intuizioni ma che non possiede ancora le prove necessarie per persuadere altrui». Qui il Garbasso accenna alle idee di Galileo sui rapporti fra la scienza e la fede, su cui ritorneremo a proposito del discorso del P. Gemelli, sostenendo che il 22 giugno 1633 Galileo doveva chiedersi davanti al Sant'Uffizio se il sistema copernicano si potesse dimo- strare rigorosamente e che doveva rispondere di no per- ché in favore del moto della terra vi erano solo delle ra- gioni probabili. L'ipotesi copernicana salvava i fenome- ni assai meglio e più comodamente di quella tolemaica ma non aveva ancora l’evidenza che le fu data dal Brad- ley e dal Foucault. «Obbiettivo e coerente, Galileo do- veva inchinarsi allora all’autorità delle sacre lettere e si inchina «con cuore sincero e fede non finta». Chi non ha subito la deformazione idealistica comprende e tace». La tesi è brillante ma non mi pare che resista a una critica attenta. Il Garbasso non dà il necessario valore al fatto che Galileo arrivò al sistema copernicano attraver- so le sue scoperte che distrussero per sempre l’aristoteli- smo medievale, mentre il Sant'Uffizio chiuse gli occhi per non vedere. Galileo non poteva non essere convinto della sua infinita superiorità sugli avversari, che egli rappresentò mirabilmente in Simplicio; ed è certo che mai ebbe dubbi, né prima né dopo la condanna. Si deve aggiungere che il Sant'Uffizio non sostenne che la teo- ria copernicana era non dimostrata e tanto meno che 451 essa fosse più probabile della tolemaica: sostenne e fece dire a Galileo che la dottrina copernicana era erronea e formalmente eretica. L’abiura è dunque incompatibile anche con la tesi del Garbasso. La verità è che, con l’abiura, Galileo diede alla Chiesa la più grande prova di fede che si sia mai data. Egli sapeva benissimo che il Sant'Uffizio, costringendolo all’abiura, comprometteva gravemente la Chiesa ma non poteva non vedere che, at- teggiandosi a Giordano Bruno, l’avrebbe compromessa senza rimedio. Dal punto di vista cattolico è un martire. Sacrificò alla Chiesa non la vita ma qualcosa di più im- portante: la gloria scientifica. E se si pensa che, come vedremo tra poco, Galileo aveva anche offerto alla Chiesa l’unica via d’uscita, non si capisce perché i cat- tolici non abbiano ancora per questo loro eroe la sconfi- nata ammirazione che merita. È superfluo avvertire che con queste parole non intendiamo alludere all’illustre fi- sico dell’ Università di Firenze. Il Garbasso nega esplici- tamente che l’abiura sia la prova di una debolezza senile e ritiene, come s’è detto, che si tratta di un dramma scientifico. È invece, secondo noi, il dramma del cre- dente che vede la sua Chiesa negare la verità. Il Garbasso passa poi ad illustrare brevemente, con la competenza che tutti gli riconoscono, l’opera dei disce- poli di Galileo, quella dell’Accademia del Cimento e quella si può dire di tutti i fisici di valore che ha avuto l’Italia fino al Righi escluso. Buona l’idea di riassumere i risultati principali otte- nuti dagli Accademici del Cimento (determinarono la 452 velocità del suono, trovarono che molti corpi si elettriz- zano oltre l’ambra e che la fiamma scarica i corpi elet- trizzati, anticiparono l’esperienza del pendolo di Fou- cault): ottimi i vari giudizi, specialmente quelli su Volta, che con «elementi tutti suoi, dal primo all’ultimo, co- strui la pila nelle due forme a colonna e a corona di taz- ze, e la pila impiegò a produrre la corrente elettrica»; ot- timo il bilancio: «con Galileo abbiamo fondato la mec- canica e l’astrofisica, col Torricelli la fisica terrestre, con gli Accademici del Cimento la fisica sperimentale. Con Alessandro Volta abbiamo aperto degnamente il se- colo dell’elettricità. L’elettrotecnica è, nelle sue grandi linee, opera nostra. La nuova teoria atomica ha il sug- gello italiano, e lo studio delle radiazioni non visibili fu iniziato da noi. Inoltre, ed è caratteristico per un popolo che ha fama di essere costituito da intuitivi e da artisti, quasi tutti gli strumenti principali di misura: termome- tro, barometro, igrometro, densimetro, galvanometro sono anche essi italiani. Finalmente abbiamo dato al mondo il cannocchiale e il microscopio». Concluderemo, oggi, col discorso di P. Agostino Ge- melli sui rapporti di scienza e filosofia nella storia del pensiero italiano. Che discorso malinconico! La verità è tutta, o quasi tutta, in San Tommaso d’ Aquino; dopo, in Italia e fuori, non c’è che decadenza. È vero che c’è la neoscolastica ma essa non può risolvere per il momento il problema dei rapporti tra la scienza e la filosofia: lo risolverà in seguito. 453 Galileo non era filosofo, com’è provato dalle sue ve- dute sui rapporti tra scienza e fede. «Pretendere che l’una cosa sia radicalmente indipendente dall’altra, l’una depositata nella Sacra Scrittura ispirata da Dio, l’altra elaborata dalla mente umana, è ignorare l’unità dello spirito e quindi le conseguenze che qualsiasi stu- dio serio porta nella visione dell’universo e nella prassi della vita. Galileo per primo, che dalla scoperta dei pia- neti medicei passò alla difesa del sistema copernicano e quindi ad un ordinamento cosmico che disorientava per la sua novità le menti e le coscienze, imparò a proprie spese quanto fosse ingenua la sua concezione». Quest’interpretazione della tragedia galileiana addo- lora e stupisce; la critica è inconsistente. Galileo aveva confermato col telescopio (son parole di Gemelli) la scoperta di Copernico e non poteva perciò, come un Simplicio qualunque, non ammetterla; nè poteva, essen- do incrollabilmente cattolico, uscire dalla Chiesa. Non c’era dunque altra soluzione che quella che lui sostenne (e fu poi sostenuta contro i «concordisti» da Stoppani e fu anche accettata implicitamente dal Sant’ Uffizio che tolse dall’Indice il Dialogo dei massimi sistemi): cioè l’idea che la Bibbia non può essere e non è un testo di scienza. L’unità dello spirito (almeno nel senso di P. Ge- melli) non c’entra, anzi è proprio perché la verità è una che Galileo negò ogni valore scientifico alle affermazio- ni della Bibbia che erano smentite dal cannocchiale. 454 UN’ANTOLOGIA DI PROSA SCIENTIFICA" Se Enrico Falqui non dovesse fare la rassegna della stampa per l’Italia letteraria, probabilmente la farebbe per conto suo. Falqui legge molto e legge da buongusta- 10 più che da critico. Quando un’immagine, un ragiona- mento, un aneddoto, una favola lo colpiscono, egli li se- gna col lapis rosso e, nei momenti d’ozio, se li rilegge con molto gusto. Per gli scrittori del seicento, ha poi evidentemente una predilezione particolare, tanto che qualche volta li imita un po’ quando scrive; e li vorrebbe presi a modello oggi perché, secondo lui, molti dei no- Stri scrittori «si arrabattano per impoverire e render scialbo monotono sordo il loro stile al fine di assogget- tarlo a non si sa quali impellenti necessità “romanze- sche». Falqui aggiunge giustamente che il seicento non si deve riconoscere unicamente nel barocchismo smor- fioso del Marino; «tanto meno se ne esaurisce il caratte- re nel terzetto di don Abbondio, don Rodrigo e don Fer- rante». Egli nega che sia un secolo di aridità creativa il secolo di Galileo e conclude: «Altro che decadenza. Piuttosto età di lotta tra l’uomo e Dio, tra il cielo e la * Recensione ad Enrico Falqui, Antologia della prosa scienti- fica italiana del ’600 (prima edizione, Roma-Milano, «Augu- stea», 1930), pubblicata in «Solaria», gennaio 1931, p. 54 sgg. 455 terra; e dall’approssimativo comporsi in armonia delle due forze è derivata una gloria alla quale ancor oggi guardiamo». (Benissimo). La «ragione del libro» è espressa con queste parole che non riassumiamo per dare un’idea dello stile e quin- di dei gusti letterari dell’autore: «L'intento, d’altronde palese sol che uno voglia prendersi la briga di sfogliar l’indice e leggere i dilettosi titoli apposti d’arbitrio ai brani scelti, fu quello di presentare nella veste disusata d’uomini di lettere, autori che per l’addietro furono te- nuti in conto unicamente di scienziati, anche se pieni di naturale umanità. E siccome sotto il primo aspetto non mancarono di riscuotere vasta eco d’applausi, oggi per fortuna si trovano a non aver più bisogno d’essere illu- strati da chicchessia. Immaginarsi poi da uno che nien- tissimo intende d’ogni scienza, dico né anco i primi ele- menti, le prime definizioni, i primi termini». Diciamo subito che queste dichiarazioni non vanno, per fortuna, prese alla lettera. Con la sua intelligenza, con tante letture di libri di scienza, e di antologie scien- tifiche, Falqui non poteva darci e non ci ha dato una rac- colta di fiori letterari presi dai libri degli scienziati del seicento con assoluta indifferenza nei riguardi del loro valore scientifico. Se cosi avesse fatto, egli avrebbe con- fermato che il seicento è il secolo del secentismo e in ogni caso non ci avrebbe dato un’antologia della prosa scientifica, ma un’antologia letteraria. È vero che questo pericolo non ha saputo evitarlo del tutto: qualche volta la letteratura gli ha preso la mano. 456 Lui stesso in fondo riconosce che le pagine del Carletti, del Gemelli-Careri e del Negri solo per ragioni letterarie sono state scelte. Cosi, anche senza essere sofistici, si può benissimo osservare che cinquantasei pagine date a Daniello Bartoli sono troppe: e io confesso che anche cinque o sei pagine dell’«elegantissimo» a me, in un’antologia scientifica, sembrerebbero troppe, appunto perché il Bartoli non è uno scienziato ma un volgarizza- tore di second’ordine. Pessima letteratura è anche, per esempio, la cicalata sull’acqua di Lorenzo Bellini: «In primo luogo è anch’essa l’acqua un istrumento da ta- glio, e taglia, ma nel suo tagliare nulla s’agita, nulla si muove, e pare perciò che nulla forza faccia nel tagliar che ella fa. Ma con tutto questo suo nulla muoversi, e nulla agitarsi, e parer perciò nulla forza fare mentr’ella taglia, scompone l’acqua e disfà tutte le cose del mondo indifferentemente, tanto quelle che sono molto e moltis- simo resistenti all’esser divise nelle loro parti, quanto quelle che resistono poco e pochissimo» ecc. ecc. Credi pure, caro Falqui, quest’ideuzza, nel linguaggio scienti- fico moderno, che tu, guardandolo dal punto di vista astrattamente letterario, chiami «gergo internazionale rassomigliante appena all’esperanto», si poteva esprime- re assai meglio. Tu non accetti (e sai quanto io ti dia ra- gione) il vieto pregiudizio secondo il quale lo scienziato sarebbe «freddo, logico, astuto, calcolatore impassibile» e sostieni molto felicemente che «si dovrebbe ben consi- derare come in ogni indagatore dell’Universo palpiti commossa l’idea dell’infinito»; ma nelle cicalate sbadi- 457 glia apatica l’idea del finito e quindi esse, se tu hai detto bene, non sono scienza. Con tuo comodo poi, mi dovrai fare il piacere di dirmi come mai hai attribuito ad Ales- sandro Tassoni lo scritto: Se il calore sia sostanza o ac- cidente, che è (tutto almeno lo fa credere) del Don Fer- rante manzoniano. Fatte queste riserve, che vorrebbero soprattutto impe- dire che l’amico Falqui attuasse, in una nuova edizione della sua antologia, la minaccia di aumentare il numero delle pagine troppo (o niente) letterarie, dobbiamo dire che molte sono le pagine scientificamente importanti che Falqui ha saputo raccogliere. Vediamo con piacere nell’antologia — e ben presentati — i nomi di Gian Alfon- so Borelli, Gian Domenico Cassini, Benedetto Castelli, Bonaventura Cavalieri, Evangelista Torricelli, Vincenzo Viviani. Molto opportuna è stata la scelta della relazione di Carlo Roberto Dati sulla esperienza di Torricelli: la «famosissima esperienza dell’argento vivo». A Lorenzo Magalotti avrei dato meno posto. Le sue benemerenze come segretario dell’ Accademia del Cimento sono gran- di, ma i suoi meriti scientifici sono assai minori di quan- to si crede; e anche sul suo valore letterario non tutti sa- ranno d’accordo con l’ Accademia della Crusca. Molto felicemente e con l’ampiezza che meritavano, sono stati scelti Francesco Redi e Galileo, i quali sono (ed era ne- cessario) i due protagonisti del volume. Mi piace in modo particolare la scelta galileiana. Il grand’uomo ci si presenta nella sua meravigliosa complessità: come fisico e come astronomo, come scienziato e come credente. 458 Qui si che non c’è più secentismo, ma un nuovo mondo. Aggiungerò che chi legga le pagine galileiane scelte da Falqui sulla questione copernicana, dovrà convenire che, anche dal lato teologico, la posizione di Galileo è fortissima. Ha detto qualche filosofo che Galileo era meno logico dei teologi che ne vollero la condanna: è un errore. Galileo aveva, con le sue scoperte e coi suoi ra- gionamenti, demolito l’aristotelismo medievale e non poteva rinnegare sé stesso. D'altra parte, egli non aveva ancora conquistato un punto di vista filosofico che gli consentisse di rinunziare all’autorità anche nel campo strettamente teologico e perciò l’unica soluzione che conciliasse (sia pure provvisoriamente) la scienza e la fede era la sua, tant'è vero che in sostanza la Chiesa cat- tolica ha finito con l’accettarla integralmente. Se alcuni si accaniscono ancora contro il grandissimo scienziato e fanno l’apologia di coloro che non riuscirono a capirlo, non c’è da meravigliarsene troppo: è pure necessario che Galileo espii il suo privilegio. Tutte le pagine galileiane che Enrico Falqui ci ha fat- to rileggere, anche le più profonde, come quella, cosi ricca di avvenire, sul principio di relatività (e cosi anche quelle degli altri autori), sono di facile lettura, tanto da non richiedere quasi nessuna preparazione specifica: è una lieta conseguenza della sensibilità letteraria di Fal- qui. Qualcuno si rammaricherà che, per questa ragione, di alcuni grandi scienziati (per esempio, del Torricelli) non siano date le pagine migliori; ma noi crediamo che un libro per il pubblico debba soprattutto farsi leggere e 459 perciò ci auguriamo che, nella prossima edizione dell’antologia, Falqui continui a darci pagine facilmente intelligibili ma rigorosamente scientifiche. 460 UN NUOVO ORIENTAMENTO DELLE SCIENZE FISICHE? Il recente volume di Roberto Pavese: Per un nuovo orientamento delle scienze fisiche è stato oggetto di lodi ditirambiche e di ohibò! disdegnosi, ma nessuno, se non m’inganno, è riuscito a penetrare nel pensiero del Pave- se. Scorso il libro, io son rimasto perplesso. È uno di quei libri che si prestano mirabilmente alla stroncatura e alla parodia. Basta aprirlo a caso e leggere. «La neces- saria inerenza nel campo individuo degli elementi via via derivati dal processo di sdoppiamento dell’atomo (come nucleo individuo) deriva dal fatto che la carica positiva del nucleo centrale cresce secondo la serie dei quadrati di 2: il che significa che l’estensione potenzia- le del centro cresce colla stessa legge e nella stessa pro- porzione dell’estensione attuale del campo (come cor- rente macrorbitale costituita di un dato numero di ele- menti atomici di ordine corrispondente). È chiaro per- tanto che il nuovo elemento negativo che va ad accre- scere l’estensione del campo, viene a saturare l’incre- * Pubblicato ne «L’Italia letteraria», 16 marzo 1930, p. 6; vedi risposta di Roberto Pavese, ibid., 4 maggio 1930, p. 2, e nuova re- plica di Timpanaro, ibid., 25 maggio 1930, p. 2. 461 mento di carica positiva realizzato dal nucleo individuo e perciò a formar parte del campo stesso come negativi- tà opposta alla positività del nucleo. Cosi l’organismo individuo come campo (complesso di correnti macrorbi- tali) si sviluppa parallelamente alla carica centrale (cui è contrapposta a formare l’unità del sistema) fino a quel limite che è il Cosmo, come sistema assoluto. È cosi confermato dal punto di vista dinamico il principio, esposto nella prima parte del volume, per cui il proces- so estensivo del sistema individuo è un processo di inte- grazione (dei valori estensivi dipendenti)». Chi ne capi- sce niente? Lo stesso Pavese, fra qualche anno, si trove- rà imbarazzato a riconoscersi in certe parole e in certe formole delle quali si è adesso inebbriato. Ma se stroncare e prendere in giro è facile, capire non è ugualmente facile, ed io non me la sentivo di respinge- re uno che è evidentemente sincero quando dice che «per la santa battaglia, egli è disposto a tutto dare: e tempo e denaro e salute e la vita stessa». Scrissi perciò all’ Autore, facendogli delle domande sui punti che a me sembravano più oscuri o più discutibili, ed egli rispose ampiamente. In quest'articolo mi varrò, oltre che del li- bro, delle lunghissime lettere che egli mi scrisse e per le quali lo ringrazio. Roberto Pavese riconosce per primo che il suo volu- me non può riuscire accessibile a chi non conosca il si- stema di logica che egli ha pensato, almeno nelle sue li- nee essenziali, ma che ancora è inedito. La Logica dove- va essere pubblicata prima e solo per ragioni contingenti 462 non è ancora uscita. Cosi almeno crede l’ Autore, che è soprattutto un uomo di buona fede. La verità è che Roberto Pavese è un cervello in ebol- lizione. Quando comincia a parlare, le idee gli fiorisco- no inesauribili una dietro l’altra o prima o accanto o contro l’altra; a un teorema segue un corollario, al corol- lario un codicillo, una nota, una parentesi, un rinvio; tra le pause un sospiro di soddisfazione: com’è dolce nuota- re in quest’oceano! Secondo il Pavese, occorre sostituire una concezione «centrale» a quella «periferica» del reale, caratteristica della scienza d’oggi. La chiave di questa centralità sarà da lui data nel sistema di logica, ma fin da ora si può af- fermare che «la fecondità che questo criterio centrale ed essenzialmente unitario può rappresentare per la scienza è solo paragonabile — e ne ha l’identico meccanismo lo- gico — alla fecondità che la politica del Duce mostra di avere in confronto delle altre forme, più o meno perife- riche e contingenti, di politica. Per questa via profonda- mente idealista — ma di un idealismo veramente creato- re, e non impotente come “l’idealismo attuale” rinchiuso nel nebuloso olimpo di pochi schemi altrettanto poveri e sterili quanto belli a vedersi — solo per questa via schiet- tamente “fascista”, perché emana da quel principio asso- lutamente centrale che può assumere, a seconda dei li- velli spirituali da cui lo si considera, gli aspetti di Dio, di Patria o di dovere, le scienze potranno compiere, per opera schiettamente italiana, quella miracolosa ascen- 463 sione che già cosi luminosamente si è delineata, per vo- lere di un uomo fatidico, nelle coscienze». Lo sviluppo che il principio della centralità ha nel vo- lume, ricorda, per la sua estrema astrattezza e per il fine che l’Autore si è proposto, la filosofia della Natura di Hegel. Il Pavese dice, del resto, esplicitamente che ha tracciato, nelle sue grandi linee, una meccanica generale nella quale basterà inserire quei vari aspetti particolari che formano oggetto delle scienze fisiche, per interpre- tare, quasi automaticamente, con la chiave di un unico quadro schematico, ciascun fenomeno. Cosi potrà, se- condo lui, sorgere una nuova scienza che non sarà più, come la vecchia, un mosaico di fatti in gran parte slegati ed oscuri, una scienza prevalentemente descrittiva, ma una scienza integrale, una funzione concreta di quell’unico organismo che è il cosmo. Vien subito spontanea la domanda: In che consiste propriamente la rivoluzione che il Pavese vorrebbe ef- fettuare? Galileo è, anche lui, vittima della concezione periferica? Si dovrebbe allora poter riscrivere, dal punto di vista centrale, il Dialogo sui massimi sistemi. In che modo? Il Pavese mi ha risposto che egli non fa questio- ne di metodo, ma questione di mentalità da rifare. «Si tratta in ultima analisi, di sostituire al motto: “Provando e riprovando” che è l’espressione più schietta dell’ empi- rismo scientifico e del contingentismo sperimentale (il cui significato consiste nella “possibilità” di ricostruire l’unità della legge attraverso il ripetersi dell’esperienza), il motto: “Dalla legge l’esperienza”, per cui la legge si 464 pone a priori come valida, mentre l’esperienza è parte passiva, o propriamente mezzo di controllo della legge posta; mentre è assieme, nel suo aspetto positivo, mezzo di integrazione progressivo e formale della legge stessa, in quanto postulabile in forme logiche via via più estese ed adeguate. Non dunque l’osservazione del molteplice come molteplice, ma come se fosse sempre l’espressio- ne di un’unità relativamente nota, se pure solo ipotetica- mente. Guardare all’esperienza non come se dietro di sé non vi fosse nulla, bensi come se vi fosse un’unità non direttamente intuibile e percettibile, ma reale e necessa- ria, come qualcosa che può rettificare gli stessi errori del senso, in quanto è essa unità che determina (più che non sia determinata) l’esperienza. Insomma tenersi in alto, se si vuole dominare e dirigere l’esperienza nei suoi vari elementi determinanti». Dato il carattere filosofico dell’esigenza alla quale il Pavese vuole soddisfare, è difficile rispondere in sede scientifica, come a me sarebbe piaciuto. Tutt’al più egli può dire che lo scienziato si debba comportare come se cercasse Dio o, in termini più strettamente logici, come se ogni fenomeno, pur nella molteplicità contingente dei suoi aspetti, fosse il segno di un’unità necessaria, anzi in fondo, di quell’unità e di quella legge assoluta che ri- sponde al concetto di Dio. E poiché io gli avevo anche parlato del mio indimenticabile maestro Augusto Righi, il Pavese risponde che Righi dava la precedenza all’uni- tà rispetto all’esperienza più o meno bruta, della quale si serviva come di controllo dell’ipotesi e non come di una 465 corrente che ci trascini quasi per forza alla scoperta: «Se tutti operassimo come Righi, io non avrei nulla da dire». È una dichiarazione preziosa, che fa onore al Pavese. Ma veramente il Righi, se apprezzava le ipotesi, apprez- zava assai di più l’esperienza e non avrebbe mai detto che l’unità è tutto e l’esperienza nulla: se mai, avrebbe detto il contrario. L'esperienza, per Righi, non era, come per Pavese, un mezzo passivo di controllo di una legge posta a priori, ma qualcosa di vivente e di creativo. Per Lui, l’ipotesi, prima di essere sottoposta all’esperienza, era qualcosa di astratto, di incompleto, di provvisorio: era quello che è la velleità, l’aspirazione vaga, rispetto alla volontà realizzatrice. Meglio ancora si può dire che l’esperienza di Righi e di tutti gli scienziati originali è essenzialmente razionale ed è essa sola razionale, nel campo scientifico: e non l’unità posta astrattamente. Il Pavese ha mille ragioni quando rivendica la razio- nalità contro l’esperienza bruta, ma la razionalità non dev'essere quella della vecchia metafisica. Purtroppo la razionalità a cui egli mira è proprio quella. È vero che egli dice che il suo è il vero idealismo in cui il soggetto nulla lascia fuori di sé ed include in un fascio indissolu- bile mondo naturale e mondo spirituale. Ma dice pure, come si è visto: «dalla legge l’esperienza»; dice che af- fermare la trascendenza è il solo modo di dare unità e senso all’immanenza, è il solo modo di parlare di reli- gione senza mala fede e di Dio senza bestemmia; dice ancora che il suo è un idealismo costruttivo che deduce sistematicamente tutte le scienze della natura e dello 466 Spirito. Siamo evidentemente davanti alla vecchia meta- fisica. Si direbbe che Roberto Pavese, il quale è un ingegne- re laborioso e un amico della scienza, quando, nei ritagli di tempo che il suo lavoro gli lascia liberi o che toglie al sonno, si mette a filosofare, si proponga come modello il «filosofo in generale» criticato dal Croce. Pare che, dopo di essere stato per tutta la giornata immerso nella vita, egli senta, la sera, il bisogno di evadere dalla real- tà: e la filosofia gli diventa l’opposto paradisiaco della vita e della storia. «Al metodo empirico e periferico, consacrato dalla scienza, è possibile sostituire, in determinati momenti, periodicamente ricorrenti, il metodo deduttivo che pro- cede dal centro: il quale ha questo vantaggio: che da esso si vedono simultaneamente punti della periferia, come le valli dalla vetta, mentre dalle valli la vetta non appare od appare con aspetti diversi e contrastanti. Ogni ripetersi di eventi, ogni legge, ogni tipico campo (logico o fisico) di esperienze, è il segno di un’unità centrale che determina quella ripetizione, come il sole determina il ciclico ripetersi delle stagioni. Centro che è l’origine ed il riassunto attuale di ciò che si sviluppa successivamente nel campo». Il Pavese non si accorge minimamente che il centro senza la circonferenza, la vetta senza la valle, il princi- pio senza lo sviluppo, sono delle astrazioni. Che occorra rivendicare l’esigenza dell’unità di que- sta luce interna (come dice felicemente il Pavese) orien- 467 tatrice del processo spirituale, va bene, purché la luce sia appunto interna e non estrinseca; e siamo convinti anche noi col Pavese che la mentalità degli scienziati si debba, in massima, riformare. Gli scienziati si devono decidere una buona volta ad abbandonare certe decrepite posizioni positivistiche alle quali rimangono ancora at- taccati. Ma la via da seguire non può essere quella trac- ciata dal Pavese nel suo libro. Agli scienziati non si può parlare di meccanismi universali, che permetterebbero di dedurre ad una ad una tutte le scienze e tutta la realtà, anzi «uno dall’altro, uno dopo l’altro, i vari fatti, in un ordine logico irresistibile». Gli scienziati conoscono troppo bene la scienza, anche se seguono una filosofia arretrata, per non sapere che nessuno potrà mai tentare seriamente deduzioni cosi assurde. Tutti oramai, scienziati e filosofi, sanno che la filoso- fia della natura alla maniera hegeliana e la filosofia a priori della storia sono morte per sempre. Tutti sanno che costruzioni come quelle non prevedono nulla, non anticipano nulla, appunto perché, mentre s’illudono di dedurre tutta la realtà, sono dei castelli costruiti più o meno arbitrariamente sulla realtà: sono schematizzazio- ni. Nè crediamo che sia utile cercare se esista un mo- mento scientifico dello spirito e svolgere una teoria di questo momento scientifico: anche questa è metafisica. Oggi non si vede una teoria della scienza che non sia la scienza stessa come coscienza di sè, la scienza come storia chiara e serena. E se il Pavese vorrà davvero con- 468 tribuire alla creazione di una nuova fisica più coerente e più razionale di quella d’oggi, dovrà rinunciare a quella meccanica generale che consentirebbe d’interpretare quasi automaticamente ogni fenomeno e mantenersi vi- cinissimo alla scienza. La fisica è in crisi e offre molto lavoro al filosofo intelligente. Il Pavese lo sa meglio di noi e ci auguriamo che si voglia mettere su questa via. Cosi soltanto potrà far penetrare un po’ del suo eroico furore filosofico nel mondo scientifico. L'attività svolta finora dal Pavese è una specie di esplosione giovanile. È tempo oramai che il nostro filo- sofo della scienza dica addio alla giovinezza e ci dia qualcosa di meno ambizioso e di più maturo. 469 BARRICELLI SULL’IPPOGRIFO* È uscito postumo, a cura degli amici, un libro di Mau- rizio Barricelli intitolato: J nuovo Universo (Franco Campitelli, editore; Foligno — Roma). Gli amici dicono che il volume, «parola ritardataria detta da una voce che non suona più, fa pensare alla luce di certe stelle che sono già scomparse eppure continuano ad inviarci i loro raggi superstiti». Esso è, secondo loro, la più importante affermazione dell’ingegno multiforme dell’ Autore. «Tutte le esperienze di una vita spesa nelle più disparate ricerche, nella tenace perseverante assimilazione dello scibile, perseguita senza preferenze e senza distinzioni, in ossequio al principio che tutte le realtà percepibili fanno parte d’un unico sistema al quale possono essere indifferentemente ricondotte — quindi, nozioni derivate dall’arte, dalla scienza (astronomia, geologia, fisica, chi- mica, biologia) — sono mirabilmente addensate in queste pagine, che hanno il sapore di un’antologia universale, e ridotte, con evidenza che sente di prestigidazione, al co- mune denominatore». Gli amici aggiungono che non hanno la competenza necessaria per giudicare i principii scientifici del Barricelli, «né sarà per gli scienziati facile impresa accoglierli o rifiutarli»; ma avendo riscontrato * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 31 dicembre 1932. 470 nel libro in gran numero gli «elementi che caratterizza- no la schietta opera d’arte», hanno pensato che senza grave colpa non potevano lasciarlo inedito, tanto più che si tratta di un libro di buona fede, di un documento pre- zioso di «una religione scientifica profondamente senti- ta». Le notizie che essi ci dànno su Maurizio Barricelli sono interessanti. Nacque a Benevento nel 1874 e mori il 14 aprile 1931. Trascorse una parte dell’infanzia in una villa suburbana presso un bizzarro gentiluomo che faceva collezione di orologi a pendolo. «Le cinquecento pendole di ogni forma e dimensione, tutte in movimen- to, che questi sorvegliava nelle vaste sale, acclimatarono il fanciullo a un’atmosfera inconsueta, ripetendogli il mistero del Tempo; mentre la campagna circostante, coi suoi silenzi panoramici, gli sottoponeva l’arcano dello spazio». (Questi amici sono davvero impagabili con questo loro involontario umorismo. Se si fossero propo- sti di prendere in giro, con giudizio, il loro autore non potevano riuscire più efficaci. Il lettore ha visto che il li- bro è stato definito «parola ritardataria detta da una voce che non suona più»; che «tutte le realtà percepibili fanno parte d’un unico sistema al quale possono essere indifferentemente ricondotte»; che il Barricelli riduce le più eterogenee nozioni al comune denominatore «con evidenza che sente di prestigidazione»; che mentre si vorrebbe far passare il volume come una nuova Bibbia della scienza si confessa candidamente l’incompetenza 471 scientifica e si concede senz’altro che la scienza possa non accettarlo). Il Barricelli non si occupò solamente di scienza. Fu anche pittore, anzi fece studi regolari di belle arti a Na- poli sotto la guida del Palizzi e del Morelli, vincendo numerosi premi. Un suo gran quadro: Alla luce! suscitò molte discussioni e mentre fu accolto trionfalmente a Roma, fu rifiutato a Milano; il suo quadro Michelangelo fu acquistato dallo Czar Nicola; un altro suo quadro: / pagliai, fu accettato dalla Galleria d'Arte Moderna di Roma ma «oggi, non si sa perché, è scomparso da quelle sale». Tuttavia su Barricelli pittore non ci vien detto molto, nè ci vengono presentate delle riproduzioni delle sue opere: ci si dice soltanto che alcuni paesaggi «avve- duti e luminosi» ritraenti le «predilette nature» della Svizzera e dei Paesi Scandinavi «esposti in varie mostre personali, rimasero di rado invenduti». È troppo poco, ma forse è sottinteso che si tratti di opere mediocri. Il Barricelli fu anche critico d’arte e autore di varie commedie sulle quali nulla ci vien detto; fu squadrista e fondatore dell’Istituto del Nastro Azzurro. Si battè a duello più volte «sempre per la difesa di un’idealità o di un principio»; combattè volontario per la Grecia contro i Turchi, distinguendosi sui campi di Domokos; fece poi durante la guerra del 1915-18 tre anni di trincea, sempre come volontario, nel 2.° Alpini, anzi per arruolarsi tornò precipitosamente dalla Norvegia dove stava sfruttando industrialmente il suo Autoelastic (surrogato chimico della gomma per pneumatici). Prese vari brevetti in ma- 472 teria di navigazione, di aviazione, di ferrovie e special- mente nel campo fotografico e cinematografico; e di- ventato inabile alla vita di guerra, prestò servizio nella sezione cinematografica dell’Esercito su tutta la frontie- ra alleata, ottenendo dalle Autorità militari francesi la croce di guerra con palme. Sul nostro fronte meritò la medaglia d’argento al valor militare. Sposò una pittrice svedese e, in seconde nozze, una scrittrice norvegese. Ebbe insomma una vita molto varia e avventurosa che potrebbe accendere la fantasia di qualche romanziere e di qualche ammiratore. Forse allora si potrebbe tornare sul volume che ci sta davanti. Esso può essere utilissimo come documento biografico e qualche pagina può esser letta con piacere ma come libro organico, come tentati- vo di riforma della scienza odierna non va. Maurizio Barricelli — dispiace confessarlo — si dimostra irrimedia- bilmente incapace di comprendere la scienza moderna. La sua incomprensione è assai più radicale e più stupe- facente di quella del Simplicio galileiano. Gli entusia- smi di Barricelli sono tutti per il «metodo intuitivo», vale a dire per quanto c’è di più lontano dal metodo spe- rimentale e dal rigore logico. Alla scienza moderna egli non fa che opporre negazioni su negazioni, con l’aria di chi la sa lunga e tratta tutto dall’alto in basso. Problemi importanti e intricati che hanno tormentano 1 fisici più geniali appaiono al Barricelli giochi da bambini, ed egli crede di poterli risolvere senza tener conto dell’enorme lavorio degli scienziati, con quattro frasi a priori del tut- to vuote e campate in aria. Si resta impressionati veden- 473 do, per esempio, come il Barricelli crede di spiegare l’esperienza di Michelson e Morley. Per lui la previsione di Michelson è sbagliata ma naturalmente tanto Lorentz che Einstein hanno torto; di Ritz non si parla. L’etere non è immobile perché altrimenti l’esito dell’esperienza non potrebbe essere negativo. Ma come mai Lorentz aveva concluso che l’etere, se esiste, non può che essere immobile? Barricelli non si fa questa domanda ma, se se la fosse fatta, avrebbe risposto, senza dare alcuna giusti- ficazione, che Lorentz aveva torto. E se gli avessimo domandato una teoria dell’aberrazione, egli l’avrebbe subito data con poche parole senza significato. Alle ipotesi sul trascinamento totale o parziale o sull’immobilità dell’etere cosmico, bisogna contrappor- re la quarta ipotesi del Barricelli: l’etere non è immobile né trascinato dai corpi in movimento ma «trascina tutti i corpi nel suo moto». Come mai quest’ipotesi cosi sem- plice spieghi tutto non è minimamente accennato, anzi Barricelli «spiega» l’esito negativo dell’esperienza di Michelson e Morley senza ricorrere alla sua ipotesi. «Poiché — egli dice — i nostri sensi non percepiscono che fenomeni, ossia perturbazioni, eccezioni periodiche e fi- nite a un sistema di moto omogeneo, continuo e quindi infinito, cosi la nostra fantasia non può concepire nulla che non sia finito nel tempo e nello spazio, che non ab- bia una dimensione e una durata. Non è quindi possibi- le, con un esperimento fenomenico, rivelare un moto omogeneo». Forse nemmeno Simplicio troverebbe con- vincente questa spiegazione ma Barricelli trova convin- 474 centissime solo spiegazioni di questo genere e resta in- vece freddissimo davanti alle spiegazioni scientifiche. È questione di mentalità. Barricelli non sa che farsene di Galileo, di Newton, di Lorentz, di Einstein e delle loro laboriose dimostrazioni sperimentali e teoriche: egli ri- solve tutti i problemi con l’intuizione, cioè — lo ripetia- mo — con ipotesi senza fondamento e senza consistenza. Egli crede di spiegar tutto ammettendo cinque stati della materia: 1 tre stati fisici che tutti conoscono (il solido, il liquido e il gassoso), uno stato ultragassoso e uno che si potrebbe dire ultrasolido e che è poi lo stato organico, cioè la vita. Dallo stato ultragassoso, che ha parecchi al- tri nomi (stato unitario, ultra-atomico, originario, omo- geneo) derivano tutti gli altri, cioè tutto l’universo. In- fatti secondo l’Autore lo stato unitario corrisponde al punto (che egli considera come la prima dimensione dello spazio) perché essendo continuo, omogeneo e composto di punti o in altri termini essendo in tutti i punti uguale a se stesso «può considerarsi nel suo com- plesso come un sol punto». In origine dunque l’universo come noi lo vediamo non esisteva: si potrebbe anzi dire che in origine nulla esisteva perché la materia, allo stato unitario è il puro essere ch’è il puro nulla. In seguito, per una causa ignota che potrebbe essere l’intervento di- vino, si son formate nella materia omogenea delle di- scontinuità o depressioni stesse e tendenti a ristabilire l'omogeneità. Questi afflussi sono — continua impertur- babile l’ Autore — dei «raggi gravitali» rettilinei. Si ha cosi il «primo stato dell’energia raggiante» che è la gra- 475 vità e che corrisponde alla retta che è considerata come la seconda dimensione dello spazio. «La conflagrazione di raggi gravitali in un centro di depressione cinetica de- termina onde stazionarie di secondo grado ed energia raggiante pure di secondo grado, ossia la materia pro- priamente detta, allo stato gassoso, e le sue emanazioni ondulari». In modo analogo, cioè con le stesse ipotesi arbitrarie e senza significato, si hanno gli altri stati della materia, tra i quali va compresa, come s’è ricordato, an- che la vita (e anche Dio). Il Barricelli va avanti a gonfie vele senza un momen- to di perplessità, senza critica e purtroppo senza calore e senza poesia. Come teoria della natura — non si può fare a meno di dirlo — il suo libro non ha il minimo valore: non è scienza, nè filosofia, nè arte ma un insieme di pa- role. La sua pubblicazione integrale è stata dunque un errore. Il libro contiene tuttavia qualche osservazione, qual- che pensiero, qualche fantasia su cui l’occhio, stanco di scorrere su tante pagine aride, si posa volentieri; qual- che punto, anche se non resiste alla critica, interessa perché si capisce che appartiene al credo dell’ Autore. Gli amici avrebbero fatto bene a pubblicare soltanto le poche pagine vive o almeno interessanti per chi voglia conoscere il Barricelli. Tra i pensieri che più mi piaccio- no citerò quello della madre nel periodo della gestazio- ne. «Ella certamente concorre col suo spirito e la sua volontà alla formazione e alla perfezione dell’essere nel quale deve sdoppiarsi. Ella pensa, desidera, vuole che il 476 figlio sia bello, forte, intelligente; ella prepara o concor- re a creare in se stessa l’ambiente adatto perché i suoi desiderii si avverino. Ella predilige alcuni cibi che pri- ma non amava e ne scarta altri; si compiace guardare i bimbi e gli uomini più belli per dare l’impronta della perfezione della specie anche al frutto del suo ventre, e spesso una forte impressione gradevole o spiacevole viene ad accentuare o a turbare questo processo d’ente- roplastica ed il figlio ne porterà le stimmate per tutta la vita». Qui c’è simpatia umana e c’è spiritualità. L’arido materialismo che rende cosi ostiche tante pagine del li- bro qui è superato. La vita non è più uno stato della ma- teria ma bellezza, intelligenza, moralità. Mi piacciono pure certe fantasticherie, come quella in cui immagina che gli uomini possiedano un organo per la percezione elettrica e allora avrebbero gran parte de- gli attributi divini ma perderebbero il gran bene della solitudine, dell’intimità e vivrebbero «nudi nel corpo e nell’anima senza speranza di riposo o di tenebre». Più felice è la storietta dell’uomo che ha l’olfatto del cane. Egli non potrebbe vivere perché rientrando in casa «fiu- terebbe le tracce di tutte le persone che vi fossero state e saprebbe riconoscerle e ritrovarle». L’ Autore è riuscito a vivere da artista questa sua fantasia. «Sulle mani, sulle vesti della consorte fiuterebbe il nome di tutti coloro che l’avessero avvicinata. Quelli che non conoscesse potreb- be scovarli uno per uno seguendone le tracce per la città sino alla loro casa». Il Barricelli immagina i dialoghi del marito con la moglie e, caso rarissimo, sa fare dello 477 schietto umorismo; poi conclude che nessuno si salve- rebbe: «per offese alla legge più o meno gravi, tutti do- vrebbero essere imprigionati e allora, o la società e le leggi dovrebbero trasformarsi, o l’uomo cane dovrebbe essere soppresso». 478 RIVENDICAZIONI A VUOTO" Il primo volume dell’«Enciclopedia scientifica mono- grafica italiana del XX secolo»: Invenzioni e inventori del XX secolo, di Artemio Ferrario, è un libro a sorpre- sa. Artemio Ferrario non è uno qualunque: è ingegnere, deputato al Parlamento, segretario dell’ Associazione na- zionale fascista inventori. Convinto che il fenomeno creativo sia, sotto un certo aspetto, un privilegio della nostra razza, vorrebbe rafforzare nei lettori una «co- scienza inventiva» e insieme additare idee sane e temi concreti. Egli soffre quando vede che gli stranieri tendo- no a negare le nostre glorie scientifiche e tecniche e s’indigna dantescamente davanti «a li malvagi uomini d’Italia che commendan le cose altrui e le proprie di- spregiano». I meriti e le glorie dei nostri inventori devo- no essere dappertutto riconosciuti e celebrati; la Patria dev'essere liberata dell’asservimento ai brevetti e ai progetti stranieri e deve avere nuove materie prime e nuovi cicli tecnologici, anzi addirittura l’indipendenza e la vittoria. * Pubblicato in «Omnibus», 9 luglio 1938, p. 7. Il titolo origi- nale fu mutato, all’insaputa dell’autore, in «Le spiritose invenzio- ni». 479 Leggendo queste dichiarazioni, si dice: «Finalmente!»; si va oltre, e cadono le braccia. Sembra che l’autore non sappia che non si può rivendicare ciò che non si conosce, non si capisce, non si ama, e che non si può fare storia della scienza quando mancano preparazione scientifica e senso storico. In troppe pagi- ne di questo libro vediamo insieme alla rinfusa verità, inesattezze e svarioni inverosimili; vediamo sullo stesso piano uomini insignificanti e uomini sommi, chi intrave- de a stento un aspetto di una verità e chi fa consapevol- mente e porta a fondo una grande scoperta. Per questa mancanza di prospettiva, il Ferrario finisce col mettere in cattiva luce, contro le sue più evidenti intenzioni, gli scienziati e gli inventori che più vorrebbe esaltare. La verità è che l’autore non riesce a rivendicare nulla sul serio. I suoi entusiasmi scientifici e i suoi odî sono ap- parenti. Apriamo a caso il libro. Ecco: siamo a pagina 41. Vi leggiamo che l Accademia del Cimento «intraprese per la prima volta l’esperimento noto, non si sa perché, sot- to il nome di pendolo di Foucault». Tutti sanno che l'Accademia del Cimento notò la rotazione apparente del piano d’oscillazione del pendolo, ma non la capi, non capi nemmeno che era una esperienza importante e non la pubblicò. Foucault invece scopri di nuovo il fe- nomeno (indipendentemente dall’ Accademia del Ci- mento) e ne fece la teoria, spiegando che la rotazione deve variare con la latitudine e che è una nuova prova x della rotazione terrestre. Il suo merito è innegabile e 480 nessuno glie l’ha mai contestato. Antonio Garbasso, che è cosí geloso delle nostre glorie scientifiche, dopo aver ricordato che gli accademici del Cimento avevano ese- guito la celebre esperienza circa due secoli prima di Leone Foucault, aggiunge: «Evidentemente, non ne ave- vano compreso il significato». Nella stessa pagina 41 dice il Ferrario: «È erronea- mente attribuita a Newton la paternità della teoria ondu- latoria per spiegare i fenomeni della luce; ma questo merito spetta invece a padre Francesco Maria Grimaldi, bolognese, della Compagnia di Gesù, il quale la enunciò trent'anni prima dell’inglese». Il nome di Newton non può essere uno sbaglio di stampa perché il Ferrario sta parlando proprio di Newton. L’errore è inesplicabile perché tutti sanno che Newton è il sostenitore della teo- ria corpuscolare e lo sa naturalmente anche il Ferrario che a p. 156 dice: «Newton non credette alla teoria on- dulatoria e la sua alta autorità bastò per farla declinare, sicché tutto il secolo XVII tornò, si può dire, alla teoria corpuscolare». Non è nemmeno vero che il padre Gri- maldi sia un vero sostenitore della teoria ondulatoria. Il fisico bolognese aveva idee teoriche piuttosto confuse. Il suo grande merito è la scoperta dei fenomeni di diffra- zione che, non si sa perché, per il Ferrario divengono (p. 161): «la diffrazione del raggio solare, chiamata poi ri- flessione di Newton». Non si può negarlo: Newton porta sfortuna al Ferrario ed è umano che il Ferrario se ne vendichi. La teoria del volo mediante il più pesante dell’aria, egli dice, fece un gran salto indietro per opera 481 di Newton, il quale, essendo un calcolatore formidabile, prese la penna e dimostrò che l’uomo non avrebbe mai potuto volare. «Anzi, andò anche più in là e dimostrò che non possono volare neppure gli uccelli. E siccome, malgrado fosse Newton, vi fu chi osservò, sia pure con qualche titubanza, che gli uccelli volano lo stesso, egli spiegò che questo avveniva per oscure cause fisiologi- che che sfuggono al calcolo». Questa battuta (non esito a dirlo, a costo di scandaliz- zare gli scienziati) mi piace perché, una volta tanto, ot- tiene lo scopo; che è quello di far sorridere. Si intende: si tratta di una parodia, che colpisce non Newton, ma certi newtoniani. Non so invece se si debba piangere o ridere leggendo la singolare affermazione su Galvani (p. 393). Dopo aver parlato delle prime esperienze di Galvani, quelle in cui si ottenevano le contrazioni mediante la scintilla del- la macchina elettrica, il Ferrario continua: «Galvani an- dava soprattutto ricercando elementi nuovi da gettare nella sua polemica con Volta, a sostegno della sua tesi dell’elettricità animale. Allora sostitui all’antenna di pri- ma, ossia allo scalpello e al filo, un archetto formato di due metalli. Toccando questo archetto la rana riebbe le contrazioni muscolari senza bisogno delle scintille della macchina elettrostatica. Ma per contro, l’arco bimetalli- co veniva piuttosto a dar ragione a Volta, che vi vedeva né più né meno che la sua pila». Se alla licenza liceale un candidato ripetesse queste straordinarie affermazioni sarebbe bocciato. Chi ha 482 scritto queste righe (ripetiamo che non può essere il Fer- rario, ma un aiuto incompetente) non sa nulla della pole- mica tra Volta e Galvani, e non ha letto, anzi non ha nemmeno visto la memoria fondamentale di Galvani, che cita, col titolo lievemente inesatto, nella pagina pre- cedente. Se no, si sarebbe accorto che solo nella prima parte della memoria si parla dell’azione dell’elettricità artificiale sul movimento muscolare, mentre nella se- conda parte si parla degli effetti dell’elettricità atmosfe- rica, e la terza parte, che è più ampia, e parecchie pagine della quarta sono dedicate all’elettricità animale. Li Gal- vani descrive e discute l’esperienza con l’arco condutto- re che, secondo il Ferrario, sarebbe stata fatta per com- battere Volta. Il grande fisico di Como (chi non lo sa?) cominciò a occuparsi di elettricità animale dopo aver letto la memoria di Galvani e quindi dopo aver preso co- noscenza di tutte le esperienze fatte dallo scienziato bo- lognese; e arrivò alla pila dopo molti ragionamenti e molte esperienze e quando Galvani era già morto. Il Fer- rario (il suo uomo di fiducia) crede, a quanto sembra, che Volta abbia inventato la pila prima dell’esperienza di Galvani. È una delle tante versioni della famosissima esperienza. Ne sentii una volta una più divertente, in una lezione a soldati. Galvani, raccontò nello stupore generale l’oratore improvvisato, passeggiava per le stra- de di Bologna, quando incontrò una rana. La toccò con un bastone di rame ed essa si commosse. Cosi Galvani inventò la pila. 483 Eppure quel bastone di rame sta bene in mano a Gal- vani, meglio che uno d’argento o di ferro; e una rana che vada a passeggio per via Ugo Bassi o via Rizzoli potrebbe ispirare al mio amico Luigi Bartolini una delle sue più originali acqueforti. Poi Galvani che, vedendo saltellare una rana, inventa la pila è grande. In fondo, col suo curioso racconto, quell’oratore riusci a dare ai soldati un’idea del genio di Galvani; il Ferrario non di- mostra nulla, come non dimostrò nulla Romagnosi. Secondo l’autore invece (p. 187), nel 1802 Giovanni Battista Romagnosi, di Trento, avrebbe fatto l’esperien- za di Oersted. Questa volta però egli procede con una certa cautela perché parla non a nome proprio ma «sulla fede del dottissimo Gian Francesco Rambelli». Parrebbe dunque che quest'uomo dottissimo ammetta un fisico di Trento, chiamato Giambattista Romagnosi. Questo fisico non è mai esistito. Si tratta invece del ce- lebre Gian Domenico Romagnosi, nato a Salsomaggiore e vissuto a Trento e a Milano. Nell’estate del 1802 il fi- losofo del «non so che», che non era più pretore di Tren- to, si annoiava e non avendo voglia di giocare né a sco- pone né a scacchi cercò di passare il tempo con la pila. Fece cosi le esperienze che furono riassunte nell’artico- lo sul galvanismo, pubblicato nel Ristretto de’ foglietti universitari di Trento del 3 agosto 1802, e più volte stroncato. Il Romagnosi non fece e non pretese mai di aver fatto l’esperienza di Oersted; e quando il fisico da- nese annunziò la scoperta si guardò bene dal fare riven- dicazioni. Egli aveva creduto solamente di avere «am- 484 mortizzato» la polarità di un ago magnetico mediante la carica elettrica del polo isolato di una pila. L'esperienza che egli fece non presenta interesse, essendo dovuta a ri- pulsione elettrostatica e ad attrito. È un’esperienza da fi- losofo disoccupato e nient'altro. x k x Poiché lo spazio non ce lo consente non ci fermeremo sulla confusione che fa l’autore (a p. 36) tra peso e mas- sa, né ribatteremo la sua affermazione (p. 35) che le tre leggi della meccanica (0, come dice lui, della dinamica) siano state scoperte da Newton, dimenticando Leonardo e Galileo, o quella piú grave che quei principî e il prin- cipio dell’energia non siano che ipotesi. Ci limiteremo ad invitare il lettore a leggere quello che il Ferrario dice (pp. 379-380) sul telefono. L’autore non distingue (sem- bra impossibile) il telefono dal microfono. Artemio Ferrario e Valentino Bompiani, come tutti sanno, sono due uomini di grande valore. Siamo perciò convinti che essi non tenteranno di replicare, o meglio ci auguriamo che se la cavino con spirito, ritirando il volu- me dal commercio. 485 RISPOSTA A FERRARIO" Nel suo lungo articolo sul Meridiano di Roma, Arte- mio Ferrario non è riuscito a fare nemmeno un piccolo passo avanti. È vero che in compenso ha fatto un bel salto indietro. Il suo metodo è semplice e ingegnoso. Quando un’obiezione è troppo imbarazzante, non la prende in considerazione e si limita a diffondersi nei soliti luoghi comuni a favore dei piccoli che valgono quanto e più dei grandi o contro i vari Larousse che non ci apprezza- no abbastanza. Non una parola sulla trasmutazione del telefono in microfono e viceversa, né su Galvani che fa l’esperienza con l’arco conduttore per combattere Volta. E sempre le solite citazioni di seconda mano. Se per caso si cimenta con un testo, si mette in un diabolico impiccio, come lo stregone novizio. Insiste sulla priorità di Romagnosi, ma in base all’autorità del «grande precursore» Gianfrancesco Rambelli. Perché non si decida a leggere l’articolo sul galvanismo non si capisce. È uno scritto da giornale senza formule matematiche e senza nulla di astruso. Il * Pubblicato in «Omnibus», 30 luglio 1938, p. 2, in risposta ad una replica di Artemio Ferrario all’articolo precedente, pubblicata nel «Meridiano di Roma», 24 luglio 1938, p. 5. 486 Ristretto de’ foglietti universitari non si trova facilmente (nella Comunale di Trento c’è), ma l’articolo è stato ri- stampato nell’ Antologia di Firenze del 1827, negli An- nali di Majocchi del 1844 e negli Atti dell’Accademia di Torino del 1868-69 con una definitiva stroncatura di Gilberto Govi. L'articolo è stato stroncato, pare dal Bel- li, nella Biblioteca italiana del 1840, e più recentemente da Ferdinando Lori, nel fascicolo voltiano dell’ Energia elettrica (1927). Se Ferrario leggerà l’articolo dovrà convenire che, almeno questa volta, il grande Rambelli ha sbagliato. Romagnosi operò a circuito aperto e non poteva perciò scoprire l’effetto magnetico della corrente che non c’era e, per dir la verità, nemmeno lo credette. Egli si limitò ad annunziare di avere, dirò cosi, ipnotiz- zato l’ago magnetico, ma in realtà era il grande giure- consulto che sonnecchiava. E quando nel 1820 Oersted annunziò la scoperta, il Romagnosi non fiatò perché sa- peva benissimo di non averne diritto. La storiella di Ro- magnosi precursore di Oersted è stata inventata dall’Aldini che lo chiamava Romanesi (il filosofo di Salsomaggiore cambia sempre nome e paese di nascita quando diventa un fisico). Quell’esperienza, lo ripeto, non ha valore. «Il documento originale e completo», scriveva il Govi, «toglie ogni dubbio e sarebbe un atto sleale da parte di noi italiani il ripetere per vanità nazio- nale un falso vanto, mentre cosi acerbamente si vanno rinfacciando agli stranieri quelle che noi giudichiamo piraterie esercitate da essi sulle nostre glorie paesane». 487 Per Grimaldi, dice il Ferrario che, attribuendogli sol- tanto la grande scoperta dei fenomeni di diffrazione, ne riduco l’opera «a proporzioni quasi insignificanti». Si vede che Ferrario non ha la più lontana idea dell’impor- tanza fondamentale dei fenomeni di diffrazione. Come teorico il Grimaldi non è un gran che: ha idee confuse e contradditorie, come ha riconosciuto apertamente il suo grande concittadino Augusto Righi, in alcune lettere che il Ferrario dovrebbe conoscere, essendo state pubblicate in un libro da lui citato nella bibliografia. La battuta newtoniana del Ferrario ci era sembrata di- vertente e l’avevamo lodata. Ohimé, il Ferrario faceva sul serio ed ora ritorna con «Newton aeronauta». Tutti sanno che l’impossibilità del volo fu dedotta non da Newton, ma da alcuni newtoniani, e che Newton non applicò mai la sua ipotesi ai gas reali. La teoria oggi ac- cettata sul volo è recente, essendo dovuta ai voli dei fra- telli Lilienthal e alle ricerche di Lanchester, di Kutta, di Goukowski, di Prandtl, di Crocco. Prendendosela troppo contro i newtoniani, si finisce con lo svalutare anche Leonardo da Vinci. Nulla ho mai detto contro Calzecchi Onesti e non ca- pisco perché il Ferrario lo tiri in ballo. Io ho perfino continuato una sua ricerca. E ho sempre parlato nelle mie lezioni del coherer come di un tubetto di Calzecchi. Cosi del resto fanno i fisici da più di trent'anni e il Fer- rario si scalmana troppo. Egli ha torto quando se la prende con Branly. Non bisogna dimenticare il marconi- gramma del 1899: «Marconi invia a Branly un rispetto- 488 so saluto attraverso la Manica, questo bel risultato es- sendo dovuto in parte ai notevoli lavori di Branly». Col criterio di Ferrario si può, si, negare Branly per esaltare Calzecchi, ma a patto di negare poi Calzecchi ed esalta- re Munk af Rosenschéld. E si potrebbe poi sostenere che Branly, come dicono alcuni francesi, e non Marconi è le père de la radio, salvo a sostenere subito dopo che il padre della radio è Hughes o Galvani o Giove Tonan- te. Nessuna esperienza sorge dal nulla. L'importante è di vedere se si risolve interamente nelle esperienze prece- denti. Sulla priorità di Galvani in materia di onde elettriche, non è il caso d’insistere. Ne hanno parlato tanti in occa- sione del centenario e ne ho parlato anch’io. È vero che il Ferrario non ha introdotto di suo che un po’ di confu- sione. Eccoci al razzo finale: agli Accademici del Cimento e l’esperienza di Foucault. In questo punto almeno (anzi, su questo solo, perché al resto non ci crede nemmeno lui), il Ferrario deve avere ingenuamente creduto di avermi vinto (o quasi: con Ferrario le riserve non sono mai superflue). Come, egli dice tra sdegnato e patetico, Timpanaro, studioso di Galileo, non ha dunque letto i Saggi di naturali esperienze? Nella edizione del 1691 dei Saggi c’è, secondo lui, un intero capitolo che si rife- risce all’esperienza che, non si sa perché, si chiama di Foucault. Capisco. Artemio Ferrario aveva sentito dire che gli Accademici del Cimento precorsero Foucault; e poiché 489 essi non pubblicarono che i Saggi, andò a sfogliare fret- tolosamente il libro del Magalotti. Ecco il capitolo che parla dei pendoli o dondoli. Ci siamo. Ferrario legge: «Ma perché l’ordinario pendolo a un sol filo in quella sua libertà di vagare (qualunque ne sia la cagione) in- sensibilmente va traviando dalla prima gita...». Inutile andar più oltre. Non resta che trascrivere la frase e of- frirla in omaggio ai lettori del Meridiano. Se avesse avuto meno fretta si sarebbe accorto dell’equivoco, per- ché Magalotti continua: «E verso il fine, secondo ch’ei si avvicina alla quiete, il suo movimento non è più per un arco verticale, ma par fatto per una spirale ovata in cui più non posson distinguersi né noverarsi le vibrazio- ni, quindi è che, solamente a fine di fargli tener fin all’ultimo l’istesso cammino, si pensò d’appender la palla a un fil doppio», ecc. Più giù chiarisce che i due fili «servono come di falsaredine alla palla, acciò non si butti sur una mano più che sull’altra, ma tenga sempre diritto il cammino per l’istess’arco». Qui c’è, se mai, un’anticipazione di quel movimento elittico studiato da Serpieri e Secchi, ma non dell’esperienza di Foucault. Con la sospensione bifilare gli Accademici del Cimento volevano ottenere che il pendolo oscillasse in un piano. Se la loro priorità su Foucault si basasse su questo capi- tolo dei Saggi sarebbe molto difficile difenderla. E poi- ché, a quanto sembra, il Ferrario non sa altro, se fosse messo alle strette, dopo aver negato Foucault, dovrebbe negare anche l’ Accademia del Cimento. 490 La priorità dell’ Accademia del Cimento è incontesta- bile. Nei manoscritti galileiani della Nazionale di Firen- ze (Posteriori di Galileo, tomo X, Accademia del Ci- mento, parte prima, vol. 10°) c’è una pagina di pugno del Viviani, che non lascia dubbi. Questa pagina è stata esposta all’esposizione di Storia della Scienza del 1929, ed una delle frasi più significative è stata riprodotta dal Boffito nel suo libro sugli strumenti della scienza (senza però la figura, che è essenziale). Integralmente, a quanto credo, la pagina non è stata mai riprodotta, né studiata esaurientemente come io mi riservo di fare. Il Viviani dice che «tutti i pendoli di un sol filo deviano dal piano verticale e sempre per il medesimo verso» che, come ri- sulta dalla figura, è quello giusto. Egli aggiunge che an- che i pendoli con la sospensione a due fili deviano, ben- ché in misura assai minore, e accenna alla variazione della velocità al variare del peso e della lunghezza dei pendoli. Il fenomeno non è chiarito in nessun modo e l’influenza del movimento della terra non dev'essere stata nemmeno sospettata. Fatto è che le esperienze non furono proseguite e che nei Saggi non vengono ricorda- te. La pagina del Viviani non è nemmeno riprodotta nell’edizione dei Saggi, che fu pubblicata nel 1841 «per le cure provvide e munifiche» di Leopoldo II. Non è possibile dunque tergiversare sui meriti di Foucault. Devo dire un’altra cosa al Ferrario. Non è vero che io sia un «ex-letterato». Mi sono occupato fin del 1913 di letteratura e continuerò ad occuparmene quando mi pia- cerà, ma mi sono occupato fin da allora molto più di 491 scienza. Sono allievo di quell’ Augusto Righi che il Fer- rario chiama «immenso», e subito dopo redarguisce. Né è giusto che mi si dica disfattista. Ho fatto delle stronca- ture e ne farò (serenamente, come nel caso del Ferrario, il quale, nonostante che mi accusi d’inconsueta violenza e astiosità, si è divertito anche lui, leggendo il mio arti- colo, e si vede); ma nessuno ha esaltato più di me gli scienziati autentici, grandi o piccoli che fossero. Io cre- do che si possa esaltare senza gonfiature. Né mi sembra di buon gusto denigrare gli scienziati stranieri. Abbiamo tante glorie che possiamo essere generosi con tutti. 492 L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE” L’ingegner Arturo Uccelli ha iniziato (Hoepli editore) la pubblicazione di un’ Enciclopedia storica delle scien- ze e delle loro applicazioni, che consterà di tre volumi in quarto, di complessive pagine 2300 con 6000 incisio- ni e tavole. Il primo volume, uscito da poco, è dedicato alle scienze fisiche e matematiche; degli altri due, che usci- ranno entro l’anno prossimo, il secondo sarà dedicato alle scienze applicate e alla storia della tecnica, l’ultimo ai «problemi teorici del nostro tempo». Cosi il calcolo delle probabilità, la teoria di Einstein, la teoria dei quan- ti, la meccanica ondulatoria, la fisica atomica e nuclea- re, invece che nel primo volume, saranno trattati nel ter- ZO. Il primo volume, di 750 pagine a due colonne, con 1788 illustrazioni nel testo e nove tavole, è scritto, oltre che dal direttore, dal compianto Mentore Maggini, da Giorgio Abetti, Alfonso Fresa, Andrea Marcelin, Carlo Somigliana, Plinio Uccelli, Carlo Zammattio: tutti, come si vede, uomini di valore o addirittura eminenti. Purtroppo, parecchi capitoli, e non dei meno importanti (basterà citare quelli sulla matematica antica, sulla mec- * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 16 luglio 1941. 493 canica, sul calore, sull’ottica, sull’elettrologia), sono anonimi, cioè scritti senza impegno; e il direttore, di cui nessuno mette in dubbio le qualità, si è occupato di trop- pe cose: dallo spazio e tempo al sistema del mondo, dal- la matematica nel secolo decimonono alle grandezze fi- siche, all’astrofisica, all’universo siderale, al sistema ga- lattico e al supergalattico. Arturo Uccelli ha pure scritto la troppo lunga e troppo dotta prefazione, in cui parla, proprio come se volesse prendere in giro il lettore, di classificazione e distinzione, di diversificazione, di clas- sificazione secondo la grandezza unitaria fenomenica, e s’impelaga nella «possibilità teorica e limitata» del me- todo storico. In realtà, l’idea di un’enciclopedia storica delle scien- ze e delle loro applicazioni ad uso del gran pubblico è difficile a mettere in pratica ma può essere esposta in due parole, senza sfoggio di alta filosofia. Si tratta di scrivere un compendio di scienza e di tecnica, tenendo conto, il meglio che si può, del fattore storico: e questo è il semplice concetto a cui si sono realmente ispirati sia Uccelli sia i suoi collaboratori. Dirò subito che molte pagine sono buone e molte ec- cellenti. Gli autori sono bene informati e sanno espri- mersi con chiarezza. Si tratta però il più delle volte (è bene dirlo, per evitare equivoci) di una buona divulga- zione e non di una sintesi originale. Di riserve, specialmente nelle pagine non firmate, che sono quelle che più m’interessano, se ne possono fare e ne faremo qualcuna, perché se ne tenga conto nell’ erra- 494 ta corrige, o almeno nella seconda edizione. Del resto, nell’ultimo volume potrebbe trovar posto un capitolo di complementi. Dirò prima di tutto che l’Enciclopedia Uccelli non è costituita da voci in ordine alfabetico ma è un trattato. Per consultarla facilmente occorrerebbe un indice anali- tico in ogni volume; invece l’indice è stato rimandato alla fine dell’opera. Utilissima ci sembra una bibliografia, limitata, s’intende, alle cose essenziali; e vogliamo sperare che l’ingegner Uccelli colmi la lacuna. Sarebbe giusto anche che si facesse qualche citazione. Per esempio, i sette punti di Aristotele messi a confronto, a pag. 114, con le antitesi di Galileo, era opportuno dichiarare che sono trascritti, parola per parola, dalla Storia della fisica di Rinaldo Pitoni (Torino, Sten, 1913, pp. 114-15). A p. 99 la modernissima figura 18 è intitolata: Gli anelli di diffrazione descritti e studiati da Leonardo. In un libro popolare era necessario avvertire che la figura non è di Leonardo. E a proposito della diffrazione, era meglio non essere tanto recisi. Che Leonardo abbia avu- to sulla luce idee ondulatorie, che abbia fatto osserva- zioni che si spiegano con la teoria della diffrazione è vero; ma da questo a dire che egli ha scoperto la diffra- zione e ha sostenuto la moderna teoria ondulatoria ci corre molto. Non si capisce poi perché si debba diminui- re il Grimaldi, che è il vero scopritore della diffrazione. Se si vogliono fare rivendicazioni storiche bisogna co- noscere bene i testi e interpretarli con senso storico. Al- 495 lora si vedrà facilmente che, in materia di diffrazione, Francesco Maria Grimaldi è molto di più di Leonardo da Vinci e Fresnel più di Grimaldi e la fisica odierna più di Fresnel. Secondo l’Enciclopedia Uccelli (p. 146), Girolamo Maria Fonda propose nel 1770 il tipo di parafulmine che venne costruito dal Melsens un secolo dopo. Se fosse vero sarebbe molto importante. Il modesto scolopio diventerebbe un grand’uomo, perché avrebbe inventato i parafulmini di Melsens prima di Faraday. Non sarebbe assurdo, perché prima di Faraday c’era sta- to un altro scolopio, Giambattista Beccaria, che aveva inventato il pozzo, in cui c’era implicito il parafulmine di Melsens. Ma il Fonda, nella sua «memoria fisica» sulla maniera di preservare gli edifizi dal fulmine, scrit- ta in occasione del fulmine caduto sulla cupola della chiesa della Sapienza a Roma il 17 giugno 1770, non propone niente di diverso dal parafulmine di Franklin. L’unica cosa interessante è la presa di terra, che il Fonda vuole costituita da una lastra metallica bene an- corata al suolo. È vero che la figura D potrebbe far pensare a un para- fulmine di tipo Melsens, perché rappresenta un edificio con una punta nel mezzo del tetto, collegata con altre quattro punte minori agli angoli del tetto e queste punte sono messe a terra. Ma il testo non lascia dubbi. Il Fon- da dichiara che non bisogna prendere alla lettera la figu- ra e che bastano due fili e anche uno solo. Egli ripete che se una certa quantità di «vapore elettrico» non potrà 496 scaricarsi attraverso un certo conduttore vi si scaricherà attraverso più conduttori, oppure attraverso un solo con- duttore di maggiori dimensioni; e dichiara esplicitamen- te che è preferibile aumentare le dimensioni e non il nu- mero dei conduttori. Per proteggere la chiesa della Sa- pienza propone uno o al più due conduttori. All’effetto di schermo elettrico, in cui consiste la novità del para- fulmine Melsens, non c’è il minimo accenno nella me- moria. A p. 520 è ripetuta la storiella di Romagnosi, che avrebbe scoperto l’effetto magnetico della corrente, «proprio con la stessa esperienza compiuta diciotto anni dopo da Oersted». Questa storiella dimostra la verità di un principio che non è registrato nelle enciclopedie ma è incontrovertibi- le: il principio delle conservazione degli errori. Come è stato dimostrato da Gilberto Govi e da vari altri ed è di- mostrato dall’articolo del Ristretto de’ foglietti universi- tari di Trento, l’esperienza di Romagnosi non ha nulla che vedere con quella di Oersted e non ha importanza, perchè Romagnosi operava a circuito aperto e perciò po- teva ottenere tutt’al più un effetto elettrostatico. Nuova è invece l’affermazione (p. 523) che attribui- sce ad Ampère, che gli diede solo il nome, il sistema astatico, descritto per la prima volta da Leopoldo Nobili, all’ Accademia delle Scienze di Modena, il 13 maggio 1825. L'affermazione però è smentita a p. 531, in cui è detto che nel 1826 il Nobili realizzò un grande progres- so nei galvanometri, mediante il sistema astatico. 497 Curiosa è l’affermazione relativa all’equivalente mec- canico del calore (p. 468). Dice l’ Enciclopedia che Do- menico Turazza già nel 1858 trovò che per avere una grande caloria era sempre necessario spendere 424,27 chilogrammetri, mentre solo nel ’78 il Joule esegui il suo famoso esperimento, determinando esattamente l'equivalente meccanico in 427 chilogrammetri. La verità è che Turazza, nella Teoria dinamica del calorico, pubblicata nel volume VIII (1859) delle Me- morie dell’Istituto Veneto, si limita a esporre le espe- rienze degli altri e in particolare quelle di Joule. Il valo- re citato dall’ Enciclopedia è appunto dedotto dalle espe- rienze di Joule. Il Turazza arriva perfino a chiamare «equivalente di Joule» l’equivalente meccanico del ca- lore, «in riconoscimento — egli dice — delle fatiche cosi luminosamente spese da questo abilissimo osservatore». Avendo oltrepassato 1 limiti di spazio che ci sono con- cessi, dobbiamo limitarci a pochi altri rapidi cenni. «Nella pila di Volta — leggiamo a p. 506 — i fenomeni di contatto, se esistono, sono minimi di fronte all’azione chimica». Chi fa questa affermazione non deve, come fa l’ Enciclopedia, citare Corbino perché Corbino ammette- va il principio del contatto «anche nel vuoto (sono sue parole) e perciò indipendentemente da ogni azione chi- mica». La coppia bimetallica costituisce per lui, come per Volta, «un mezzo naturale e perpetuo atto a produr- re, in uno spazio anche di grandi dimensioni, un campo elettrostatico; cosi come un magnete permanente (però 498 con minor stabilità) crea intorno a sé un campo magneti- co». A p. 533 viene attribuita a Faraday la seconda legge dell’ induzione, che è invece di Neumann e del nostro Riccardo Felici. Strana sorte questa del Felici, che vien sempre dimenticato negli scritti popolari, nonostante che sia ampiamente citato dal Roiti e sia compreso nei Classici delle scienze esatte di Ostwald. A p. 536 è detto che Galileo Ferraris scoprì le correnti polifasi nel 1888 e, alla pagina seguente, si afferma che grazie a questa scoperta, è stato anche possibile stabilire (non si sa da chi) che esse producono un campo magne- tico rotante. Sotto la figura 126 (a p. 541) è detto che il primo modello del campo rotante fu costruito dal Ferra- ris nell’agosto 1885, cioè prima della scoperta delle cor- renti polifasi. La prima trasmissione transatlantica, come tutti sanno (è stata oggetto di una speciale commemorazione), è stata effettuata da Poldhu in Cornovaglia a San Giovan- ni di Terranova; Marconi era a San Giovanni e ricevette per primo i tre punti della lettera s. A p. 552 è detto che «il 12 dicembre 1901, Marconi poté constatare che se- gnali trasmessi da una stazione radiotelegrafica installa- ta in America erano giunti in Inghilterra». Di sbagli di stampa ce ne son pochi. Rettifichiamo la data di morte di Augusto Righi: 8 giugno 1920 (e non 1902, come è detto a p. 549 e a p. 551). Abbiamo già avuto occasione di correggere il nome dell’inventore del 499 parafulmine a gabbia di Faraday: Melsens e non Melse- ne, come si legge a p. 146. Un encomio solenne merita l’editore Hoepli per la bella veste che ha dato al volume. Buona la carta, nitida la stampa, belle le illustrazioni, solida la rilegatura. 500 IL CONGRESSO DEI RABDOMANTI" Il comm. Zanella è contento. Il Congresso dei raddo- manti da lui organizzato ha avuto — egli mi scrive — esito brillantissimo e superiore ad ogni aspettativa, anche per la qualità degli intervenuti. Possiamo essere anche noi cosi ottimisti? Occorre in- tendersi. Innegabilmente, il comm. Zanella ha ottenuto un suc- cesso personale, sia perché la rabdomanzia, di cui si oc- cupa da oltre vent’anni, è stata portata davanti all’opi- nione pubblica, sia perché tutte le idee che gli stanno a cuore sono state esaltate dal Congresso. Zanella potreb- be perfino permettersi il lusso di dire che i congressisti hanno dimostrato troppo entusiasmo, perché è vero che egli è «rabdomante bacchettista e pendolista» e si occu- pa da vari anni anche di prospezioni a distanza sui grafi- ci e di trasmissioni a distanza delle oscillazioni pendola- ri ma, nonostante i risultati «talvolta sbalorditivi» da lui ottenuti, egli si compiace di dichiarare che è «il più scet- tico ed il più incredulo su queste manifestazioni delle capacità del corpo umano». * Pubblicato ne «L’ Ambrosiano», 25 marzo 1932. V. anche «L’ Ambrosiano», 8 aprile 1932. 501 Se facciamo astrazione dal successo personale ottenu- to dal comm. Zanella ed esaminiamo 1 risultati scientifi- ci che si sono conseguiti, dobbiamo tuttavia convenire che siamo sempre al punto di prima. Del resto, a me pare che la caratteristica della rabdomanzia sia quella di rimanere sempre allo stesso punto. Benché esista da molti e molti secoli, essa non riesce a diventar scienza. Il rabdomante, anche quando lascia la bacchetta e il pen- dolo, è sempre un po’ in trance: e non si sa mai con pre- cisione se è davvero un ipersensibile, o un attore avido di mistero, o semplicemente un povero diavolo. Certo, nessuno tratta con maggior disinvoltura la scienza e si accontenta tanto facilmente di spiegazioni che non spie- gano nulla. Nei rapporti con la scienza, il rabdomante è come i cercatori del moto perpetuo e della quadratura del circolo. Il comm. Luigi Zanella non ha titoli di studio e dice di essere un modesto amatore senza pretese ma in realtà è tutt’altro che senza pretese. Egli è convinto che la rab- domanzia si debba integrare con nozioni geologiche, idrografiche, topografiche, botaniche. La geologia infat- ti serve moltissimo «per stabilire a priori la possibilità dell’esistenza di correnti sotterranee». Per questa ragio- ne, egli non perde mai tempo «a cercare l’acqua nel cen- tro di una zona a struttura basaltica» ma la cerca nei punti di contatto con altre rocce. «La geologia serve be- nissimo per una identificazione attraverso cognizioni stratigrafiche che stabiliscano a priori determinati spes- sori di determinati strati, le qualità di rocce bibule o im- 502 permeabili, gli strati di argilla, amici accompagnatori dell’acqua, le arene, o le morene, con le diverse stratifi- cazioni di diverse epoche geologiche che le accompa- gnano». Le cognizioni idrologiche possono mirabilmen- te servire a determinare la profondità delle correnti sot- terranee; ed è evidente che, per la ricerca delle acque, è utile la conoscenza delle piante che prosperano soltanto in terreni umidi e degl’insetti che vivono soltanto in quelle zone. Fin qui, come si vede, niente di misterioso e di assur- do: Zanella si vale, sia pure empiricamente, del metodo geologico, la cui importanza è riconosciuta da tutti i cul- tori di geofisica mineraria. D’accordissimo col simpati- co organizzatore del Congresso internazionale di Verona ci troviamo pure a proposito della parte «importante, se non preminente» che, nei cosí detti fenomeni rabdici, ha l’autosuggestione. Osserva il comm. Zanella che quando un rabdomante è... in attività di servizio, si trova già «in quello stato di attenzione sub-ansiosa nella quale entra la suggestione»; e aggiunge che questo stato suggestivo è indispensabile per la buona riuscita del responso rab- domantico, altrimenti la signorina Del Pio, per esempio, che è presa da lieve tremito davanti alle falde acquifere e ai giacimenti minerari, dovrebbe «camminare per le strade tremolando continuamente». Ma i fatti che egli cita e che, come dice lui stesso, «se non vengono a fran- tumare definitivamente, e in pieno, tutte le questioni rabdiche, vengono senz’altro a modificarne molti aspetti ed anche molte conclusioni», a me sembrano gravi. Un 503 collaboratore dello Zanella gli porta la copia di un brano di una rivista francese in cui è detto che, ripetendo un esperimento di Larvaron di Rennes, sul rovescio invece che sul palmo della mano, le manifestazioni s’invertono «non soltanto nel senso rotatorio o oscillante, ma anche nel tipo delle dita». Zanella si mette subito al lavoro e l’esperimento riesce «completamente e in maniera quasi sbalorditiva». Il collaboratore gli rivela allora che il bra- no della rivista era un trucco; ma lo strano è che, passato al prof. Casu il brano della pseudo-rivista, anche lui ot- tiene esito positivo. Si vede che è verissimo che i rabdo- manti vogliano darla a bere ma sono tutt'altro che aste- mi. Sono come quel lottista che disse di aver visto in so- gno un uomo con la barba, il quale gli diede tre numeri, dicendogli: «Giocali alla ruota di Palermo e vincerai». Fra una frottola ma tutti giocarono; senonché all’atto della chiusura del gioco, il lottista fu preso da uno scru- polo: «Se uscissero?»: e giocò anche lui. La bacchetta del rabdomante segue dunque passiva- mente la volontà dell’operatore, almeno in certi casi. Chi ci assicura che non sia sempre cosi? A priori non si può escludere che il rabdomante abbia un’ipersensibilità che gli consentirebbe di avvertire la presenza di acqua, di petrolio o di ferro; ma dove sono le prove? Le pro- spezioni a distanza sono, secondo me, prove negative. Me ne dispiace per lo Zanella, che mi ha mandato vari incartamenti con certificati e testimonianze, ma i re- sponsi su grafici egli li avrebbe potuti dare benissimo senza ricorrere alla rabdomanzia, essendo il frutto del 504 metodo scientifico che egli stesso raccomanda come complemento di quello rabdomantico. Egli raccomanda pure di non applicare le cognizioni geologiche e idrolo- giche delle regioni da esplorare durante gli esperimenti rabdomantici, né sub-coscientemente né per suggestio- ne; ma quali precauzioni ha preso per riuscirvi? Occor- reva non guardare nemmeno il grafico: e allora non si sarebbe avuto nessun risultato. Tra un grafico di una re- gione, fatto a penna o col lapis e la natura della regione non ci può esser alcun rapporto di natura fisica. Si può ammettere che da un terreno vengano fuori delle onde ma è assurdo pensare che dal grafico possano venire fuori le stesse onde che verrebbero fuori dal terreno. Le varie ipotesi che si son fatte a Verona per spiegare il fat- to non meritano di esser prese in considerazione. I vari rapporti (ne ho sott'occhio una trentina) presen- tati al Congresso di Verona — lo confesso — non mi han- no interessato. Sono pieni di affermazioni vaghe e arbi- trarie e rivelano un’incomprensibile mancanza di senso scientifico. Volta ripeterebbe il giudizio che diede a pro- posito degli esperimenti del rabdomante Bléton: «Ri- guardo ai fenomeni del bletonismo, o dei cosi detti ac- quari, è inutile ch’io vi ripeta che non li ho mai creduti e che non potrò mai indurmi a crederli veri». (Come mai il prof. Giuseppe Favaro, che ha parlato al Congresso degli esperimenti di Bléton in una lettera di Antonio Scarpa, non ha sentito il bisogno di fare i conti con Vol- ta, che, in materia di elettricità, è senza paragone più au- 505 torevole di Antonio Scarpa? E poi perché dare impor- tanza a una breve notizia?). Il torto dei rabdomanti convenuti a Verona è stato quello di dare per dimostrata l’esistenza dei fenomeni rabdomantici come fenomeni di natura occultistica e di non aver pensato che gli scienziati in generale a questi fenomeni non ci credono, e in ogni caso li considerano senza meraviglia, come effetti di autosuggestione e for- se di ipersensibilità. A Congresso finito, si deve ricono- scere che il metodo rabdomantico, se esiste, è il meno sensibile e il meno preciso dei metodi di prospezione mineraria. Nel Parmense i rabdomanti non hanno potuto dare nessuna indicazione utile: hanno mostrato di sapere meno di quanto se ne sapeva prima. Non è possibile — e non sarebbe divertente — analizza- re le varie relazioni. Mi limiterò a qualche osservazione. Raimondo Gemma, rabdomante di Roma, il quale ha fatto una comunicazione intitolata: «Radiazioni terrestri, loro caratteristiche ed analogie coi Raggi Röntgen», cre- de che dalla terra emanino dei «raggi magnetici», i quali sarebbero dei raggi X molto penetranti. Egli si accorge tuttavia che «un ostacolo grave, che comprometterebbe seriamente questa ipotesi, sarebbe rappresentato dalla difficoltà di concepire come possa avvenire la produzio- ne di raggi Röntgen ultrapenetranti in un mezzo che non sia il vuoto molto spinto», ma non si perde d’animo. «Come spiegare dunque — egli risponde — i numerosissi- mi fenomeni osservati? E potremmo negare noi alla Na- tura la possibilità di emettere delle radiazioni identiche a 506 quelle che noi riusciamo ad ottenere nei nostri laboratori con mezzi modestissimi, disponendo di piccole quantità di energia che sono un pallido riflesso di quelle titaniche che ritroviamo negli elementi?». Con questa mentalità, tutti i fenomeni si possono spiegare in un modo qualun- que. Evidentemente quello che Gemma dice per i raggi ultra-X si potrebbe ripetere per qualsiasi altra radiazio- ne. Come potremmo proibire noi alla Natura di emette- re, nelle circostanze più straordinarie, le radiazioni più impensabili? Di Caccamo Gioachino di Trapani dice che conosce «il fenomeno Rabdomante» a mezzo di un altro studio. Egli studiava «il fenomeno della gravitazione della terra per trarne fuori il motore senza combustione, giusta- mente come risulta nella pubblicazione del Giornale di Sicilia in data 16 febbraio 1930»: e ci è riuscito con un congegno semplicissimo. «Sia quello del motore senza combustione, che quello della «Rabdomanzia» sono due congegni molto praticissimi». Un certo interesse presenta la relazione del dott. An- gelo Perduca di Caglio (Como), in cui, tra molte affer- mazioni antiscientifiche, c’è forse qualcosa di serio. Il Perduca ha studiato su se stesso con molta cura i feno- meni rabdomantici; e, per quanto non sia riuscito a otte- nere risultati propriamente scientifici (nessuna società scientifica avrebbe il coraggio di pubblicare la sua rela- zione), pure dà l’impressione che egli abbia una non co- mune sensibilità per le radiazioni infrarosse. Se le sue affermazioni fondamentali saranno confermate, dico i 507 fatti che egli dice di aver constatato, perché delle sue idee teoriche non è il caso di tener conto, si può credere che il fenomeno rabdomantico esista e che sia dovuto a un’eccezionale sensibilità per le radiazioni infrarosse (0 ultrarosse che si vogliano dire). Queste radiazioni ema- nano certamente anche dal suolo; e se ci fossero persone capaci di avvertirne le variazioni, dato il calore specifi- co elevato dell’acqua, non si può escludere che possano avere qualche utilità nelle ricerche di acqua. Il dott. ing. Giuseppe Colacicco, direttore del Consor- zio di Bonifica e Trasformazione fondiaria del Tavoliere Centrale — Foggia, ha parlato della disciplina delle ricer- che rabdomantiche, mostrando con numerose documen- tazioni, che le indicazioni dei rabdomanti portano sem- pre ad insuccessi quando sono in contraddizione con le indicazioni geologiche giacché «la presenza di vuoti, l’alternanza di strati, la presenza di un grosso trovante, una corrente di aria o di gas nel sottosuolo ed altre cause non facilmente precisabili producono nel rabdomante gli stessi fenomeni di una corrente acquifera». Secondo l’ing. Colacicco, le indicazioni dei rabdomanti dovreb- bero perciò essere sempre accompagnate da una relazio- ne geologica. Per quanto in questa relazione non si parli che di insuccessi rabdomantici, è ammessa l’esistenza del fenomeno rabdico; ma purtroppo non se ne dànno le prove. E se si pensa che di prove decisive, in base a se- rie esperienze scientifiche, non ne ha dato nessuno dei congressisti, non resta che aspettare queste prove. Il comm. Zanella deve pure convenire che non si può par- 508 lare di successo fino a che l’esistenza stessa dei fenome- ni rabdomantici possa esser messa in discussione, e do- vrebbe cercare consensi nel campo scientifico. In Italia non mancano fisici valorosi che potrebbero dimostrare sperimentalmente se i fenomeni rabdomantici esistano a no: e questo qualunque sia la loro natura. Occorre però prima di tutto abbandonare alle fattucchiere la ricerca delle cicatrici e delle malattie occulte e le prospezioni a distanza. Se no, saremo sempre daccapo. 509 INDICE DEI NOMI Abetti Accademia (Accademici) del Cimento Accademia della Crusca Adrasto di Afrodisia Agostini Agostino (Santo) Aldini Alhazen Alidel Alliotta Almagià Amaduzzi Amendola Amerio Ampère Anderson Anfossi Archimede Argentieri Aristarco di Samo Aristotele Arnò 510 Babbage Bacone Francesco Badoglio Baglioni Banfi Banti Barberini Maffeo, vedi Urbano VIII Barbulescu Bargagli Petrucci Barlow Barricelli Bartoli Daniello Beaumont Beccaria Giambattista Becquerel Henry Becquerel Jean Bellarmino Bellati Belli Bellini Beltrami Benassi Benda Benedetti Bergson Berkeley Bertrand Betti Bianchi Luigi 511 Biancoli Bilancioni Blackett Bléton Boffito Bohr Bolyai Bongioanni Bonomelli Bonucci Borda Borelli Borgese Bortolotti Ettore Boscovich Bottazzi Boyle Bradley Brahe Tycho Branly Brunetti Rita Bruno Bunsen Buonarroti Michelangelo Burali-Forti Calcagnini Calvi Calzecchi Onesti 512 Cantone Caramella Cardano Carletti Carnot Lazzaro Carnot Sadi Cartesio Carusi Cassini Castelli Benedetto Castelnuovo Castiglioni Arturo Casu Cattaneo Cavalieri Cauchy Cayley Cermenati Chaumat Chwolson Cigoli (Lodovico Cardi) Clifford Colacicco Compton Cook (miss) Copernico Corbino Corsini Coulomb 513 Cristina di Lorena Crocco Croce Crookes Curie Irene Curie Sklodowska Maria Curie Pietro Cusano D'Alembert Danesi Dati De Blasi Jolanda De Broglie Louis De Broglie Maurice De Forest Dehn De La Rive Della Francesca Piero De Lorenzo Del Pio De Ruggiero De Sanctis De Sitter Despretz Desprez De Torri Di Caccamo Dionigi l'Areopagita 514 Dirac Dive Dolivo-Dobrowolsky Dollond Donati G.B. Donati Luigi Doppler Dottori parigini Du Bois Reymond Duford Duhem Dumas Dumoulin Edison Einstein Elster Emanuelli Enriques Federigo Fraclide Pontico Ettingshausen Euclide Eve Fabroni Falqui Faraday Fatio Favaro Antonio 515 Favaro Giuseppe Fedele Felici Fermi Enrico Fermi Stefano Ferrario Ferraris Filolao Fizeau FitzGerald Fleming Fonda Foucault Franklin Fresa Fresnel Freud Froment Fusinieri Gale Galilei Vincenzo Galilei Galileo Galvani Gamow Garbasso Gaulard Gauss Geithel 516 Gemelli Gemelli-Careri Gemma Gentile Gérard Geymonat Gherardi Ghinassi Giacomelli Gianfranceschi Gibbs Gilbert Giordano Giorgi Giraudoux Girolamo (San) Gliozzi Gockel Goethe Goudsmit Goukowski Govi Gilberto Gramme Grassi Guido Grassi Orazio (Lotario Sarsi) Grimaldi Guéry Guglielmini 517 Hall Hallwachs Heaviside Hegel Heisenberg Helmholtz Herschel Hertz Hess Hilbert Hittorf Hoffmann E. Th. A. Hofmann A. G. Holtz Home Hoppe-Seyler Huggins Hughes Huyghens Invrea Ipparco Jamin Joliot Joule Kant Kelvin 518 Kenelle(vedi Gramme) Kennelly Keplero Kerr Kirchhoff Klein Kohlhòrster Krug Kutta Lagrange Laignel-Lavastine Lanchester Lanci Langevin Laplace La Rosa Larvaron Lattanzio Lavoisier Lebedew Leduc Leibniz Lenard Leonardo da Vinci Le Verrier Levi-Civita Libri Lie 519 Lilienthal Lioy Lobacevskji Lodge Lombardo-Radice Giuseppe Lorentz Lori Loria Gino Lo Surdo Lummer Lutero Macaluso Mach Magalotti Maggini Magiotti Majorana Quirino Manetti Manzoni Marcelin Marcolongo Marconi Maria Celeste (Suor) Marino Giovan Battista Mariotte Matteucci Mayer Maxwell 520 Melantone Melloni Melsens Mersenne Meyerson Michelson Mieli Millikan Modigliani Moissan Montalenti Morley Mossotti Munk af Rosensch6ld Murri Naccari Nallino G.A. Napoleone I Negri Nernst Neumann Newton Nicodemi Nicolini Nobili Nogali Nysten Ortensia 521 Occhialini Oersted Oriani Ostwald Pacini Pacinotti Antonio Pacinotti Luigi Paolo (San) Papini Pascal Passignano Pasteur Pastorino Pauli Pavese Roberto Pawlow Peano Péladan Pelaez Perduca Périer Perrin Jean Piccard Pitoni Piumati Planck Platone Plücker 522 Poggiali Poincaré Popoff Prandtl Preece Puccianti Raman Rambelli Ravaisson-Mollien Redi Regener Regiomontano Renieri Revessi Reymers Reymond Reynolds Ricci Richardson Richet Riemann Righi Rignano Rimini Ritz Roiti Rolla Romagnosi 523 Ronchi Röntgen Rossi Bruno Rutherford Sabachnikoff Sagnac Sarsi: vedi Grassi Orazio Sarton Scarpa Scheiner Schiaparelli Schrödinger Schuster Séailles Secchi Sellerio Serenai Servadio Servien Coculescu Silva Solari Solmi Edmondo Solovine Somigliana Sommerfeld Sorbelli Spaini Spallanzani 524 Spaventa Bertrando Spinoza Spirito Steinmaur Stifel Stokes Stoletov Stoney Stoppani Stòrmer Straneo Suida Tassoni Telesio Tesla Thomson J.J. Thovez Tilgher Tolomeo Torricelli Evangelista Torricelli Jacopo Tommaseo Tommaso d'Aquino Trabacchi Turazza Uccelli Arturo Uccelli Plinio 525 Uhlenbeck Urbano VIII Vacca Vailati Van Marum Venturi Adolfo Verga Ettore Veronese Vico Viviani Volta Volterra 270. Waismann Welerstrass Wiedemann Wildon Carr Wilson Wittgenstein Wolf R. Zaleski Zammattio Zanella Luigi Zeeman Zenone 526
Sunday, August 17, 2025
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