Luigi Speranza
Bordighera
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«La storia letteraria di un popolo non è già un elenco delle opere scritte nella lingua nazionale; ovvero una successione di giudizi estetici e di biografie di autori: è invece la rappresentazione della vita spirituale del popolo rintracciata nei canti e nelle funzioni dei suoi poeti, nella meditazione e nelle memorie dei suoi sapienti, insomma nella sua letteratura la quale riflette perciò le vicende della civiltà e l'opera dei fattori che agirono in questa.» -- Natalino Sapegno
La storia della letteratura italiana ha inizio nel Duecento, o secolo XIII, quando nelle diverse regioni della penisola italiana si iniziò a scrivere in italiano con finalità letterarie.
Gli storici della letteratura individuano l'inizio della tradizione letteraria in lingua italiana nella prima metà del XIII secolo con la Scuola siciliana di Federico II di Svevia Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero, anche se il primo documento letterario è considerato il Cantico delle creature di San Francesco d'Assisi. La diffusione del messaggio poetico partì dunque dalla corte, e quando uscì dai suoi ristretti confini per diffondersi in maggiore libertà nei comuni toscani e a Bologna, fu per molto tempo il privilegio di una ricca, benché sempre più vasta borghesia comunale. Anche quando la Sicilia passò il testimone ai grandi poeti toscani, coloro che scrivevano d'amore vi associarono, seppure in maniera fresca e nuova, i contenuti filosofici e retorici assimilati nelle prime grandi università, prima di tutto quella di Bologna, prima università per antichità e respiro culturale. I primi poeti italiani provenivano dunque da un alto livello sociale, e furono soprattutto notai e dottori in legge che arricchirono il nuovo volgare dell'eleganza del periodare latino che conoscevano molto bene attraverso lo studio di grandi poeti latini come Ovidio, Virgilio, Lucano. Ciò che infatti ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua, e la consapevolezza nella popolazione italiana di parlare una lingua, pur nata verso il X secolo d.C., si emancipa completamente dalla promiscuità col latino solo nel duecento.
Come scrive Giuseppe Petronio[2] "Il carattere distintivo che ci permette di parlare di una letteratura italiana è la lingua".
Le origini
«sarebbe impossibile determinare un momento in cui il latino abbia cessato di essere la lingua comunemente usata dal popolo e abbia ceduto il posto alle lingue nuove: sia perché tale trapasso dovette svolgersi diversamente e in diversi tempi nei differenti luoghi, sia perché soprattutto è assurdo scientificamente parlare del nascimento di un linguaggio, il quale non nasce mai e non muore bensì continuamente si trasforma". » Natalino Sapegno
In Italia infatti vi erano già state precedentemente due letterature: quella latina o romana e quella medievale o mediolatina.
L'Italia nel periodo romano e la letteratura latina Per approfondire, vedi la voce letteratura latina.
Nell'VIII secolo a.C. Roma aveva iniziato ad espandersi conquistando, nel corso di alcuni secoli, le varie regioni della penisola italiana, abitate da popoli differenti sia per lingua che per razza, unificandoli e dando così l'avvio ad una letteratura latina che produsse grandi scrittori tra i quali Lucrezio, Catullo, Cicerone, Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio e Tacito.
Ma qualche secolo dopo Cristo l'Impero romano iniziò progressivamente a decadere e nel territorio penetrarono popolazioni di razze diverse, prevalentemente di origine germanica, che i Romani chiamarono barbari. Questo portò allo sfasciarsi dell'impero che si divise in diversi stati con storie separate, anche se alcuni di essi rimasero legati tra di loro, sia per il fatto di parlare la lingua latina, sia per il fatto di aver aderito alla religione del Cristianesimo.
L'Italia nel periodo medievale e la letteratura medievale Per approfondire, vedi la voce letteratura medievale.
Con la detronizzazione dell'ultimo imperatore romano, nel 476 d.C., il potere passò a un re barbarico e l'Italia venne soggiogata dai germanici fino al 553 quando, con la battaglia del Vesuvio, l'Impero romano d'Oriente, costituito dai Bizantini, riuscì a rioccupare una parte dell'Italia. Nel 568 però, con la discesa in Italia dei Longobardi, che riuscirono a conquistare un'altra parte della penisola, si assistette ad una divisione politica, amministrativa e linguistica.
In questo periodo la cultura della penisola italiana, sia a causa delle condizioni economiche che si erano notevolmente aggravate, sia per le invasioni barbariche e altre cause, si abbassò notevolmente e la lingua iniziò una evoluzione diversa secondo le regioni e i differenti strati sociali.
Da una parte ci sono le persone colte, i cosiddetti chierici appartenenti al clero e in grado di leggere e di scrivere, che continuarono a parlare, e anche a scrivere, in latino e dall'altra le persone non colte, i laici, che, incapaci di leggere e di scrivere, utilizzavano dialetti che avevano una origine latina ma che col passare del tempo andavano sempre più allontanandosi e diversificandosi da essa.
Nacque così in Italia una letteratura nuova composta in latino medievale o mediolatino che rispecchiava la nuova civiltà: la civiltà medievale.
Come scrive Alberto Asor Rosa[4] "… è dall'intera maturazione di questa (con tutti i fenomeni linguistici, ideologici e sociologici che l'accompagnano e ne derivano) che si produce a un certo punto una nuova cultura fondata essenzialmente sull'uso dei linguaggi volgari".
Con la ripresa economica che si manifestò dopo il Mille e che vide la nascita delle città, nacquero dei nuovi ceti cittadini appartenenti agli artigiani, ai mercanti o agli industriali, che, pur essendo laici, sentivano il bisogno di possedere una cultura e di esprimersi in modo letterario. Costoro pertanto iniziarono ad utilizzare i loro dialetti di origine latina, i volgari, per rivolgersi non solamente ai chierici, ma a tutti i laici che erano in grado di comprendere il volgare, spesso se letto o recitato da altri.
I primi scritti in volgare sono di carattere religioso nei quali si obbligano gli ecclesiastici a rivolgersi ai fedeli, nel corso delle prediche, nella loro stessa lingua come viene stabilito da Carlo Magno nell'813 durante il Concilio di Tours e spesso formule di giuramenti come il Giuramento di Strasburgo del 14 febbraio dell'842, quando si assistette al giuramento di Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico davanti ai propri eserciti, il primo in francese antico e il secondo in francone.
Per quanto riguarda l'Italia non è facile indicare con precisione l'inizio di questo nuovo processo anche se dal secolo VIII si possono trovare già testi che utilizzano per iscritto il volgare. Alberto Asor Rosa riferisce che nel 1189 si era recato presso la chiesa delle Carceri di Padova il patriarca di Aquileia per tenere un sermone in latino che venne prontamente tradotto ai fedeli presenti in lingua volgare[5].
Si è quindi propensi a pensare che la lingua volgare, già dall'VIII secolo al XII fosse utilizzato in modo sempre più frequente non solo per uso pratico ma anche per usi che dimostravano l'esigenza di esprimere un bisogno letterario.
Per approfondire, vedi la voce Indovinello veronese.
Tra i documenti più antichi che dimostrano questa esigenza vi è in primo luogo un semplice indovinello, l'Indovinello veronese, composto da quattro brevi versi che vennero scoperti nel 1924 in un Codice della Biblioteca Capitolare di Verona verso la fine del secolo VIII e l'inizio del IX, dove l'atto dello scrivere, ripreso dalla letteratura scolastica del secolo VIII, viene paragonato all'atto del seminatore che sparge nei solchi il seme nero su un prato bianco.
Se pareva boves, alba pratalia araba. - albo versorio teneba, negro semen seminaba.
Per approfondire, vedi la voce Placiti cassinesi.
Tra i primi documenti nei quali il volgare assume carattere di linguaggio già ufficiale e colto sono quattro testimonianze giurate che riguardano certe controversie sull'appartenenza di alcuni lotti di terreno ai benedettini del monastero di Capua, di Sessa e di Teano che vennero registrate tra il 960 e il 963, noti come i quattro placiti cassinesi.
Le formule usate in queste testimonianze sono la ripetizione di quanto preparato in precedenza dal giudice in testo latino e in seguito stilate in volgare perché esse fossero comprese dai tutti i presenti al giudizio. Tra questi vi è quello che il Sapegno[7], chiama il placito capuano[8]. Il critico scrive: "In un placito capuano del 960 è riprodotta la formula pronunciata dai testimoni in una lite di confini tra il monastero di Montecassino e tal Rodelgrimo d'Aquino: "Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti"[9].
Così, a poco a poco, con il passare del tempo i documenti di questo genere, e non solo, diventano sempre più frequenti, come i libri di memorie contabili, i tre versi inseriti in un dramma scritto in latino sulla Passione, una iscrizione sulla facciata della chiesa di San Clemente a Roma dove il servitore riferisce parole in volgare e il santo in latino, un privilegio sardo e una confessione di origine marchigiana o umbra tutti appartenenti al secolo XI.
Del XII secolo ci è poi pervenuta una carta di origine calabrese e una scritta piuttosto semplice formata di quattro endecasillabi che si poteva leggere, nel Duomo di Ferrara "Li mille cento trenta cenqe nato - fo questo templo a San Gogio donato - da Glelmo ciptadin per so amore - e mea fo l'opra. Nicolo scolptore", come riporta Sapegno in note[10].
Ricordiamo anche il Ritmo di Travale del 1158.
Al XIII secolo risalgono poi dei frammenti d'un manoscritto appartenente a certi banchieri fiorentini e, sempre in Toscana, seguono altri documenti che riguardano questioni di interessi privati o appartenenti a istituzioni pubbliche.
Per queste prime testimonianze in volgare bisogna tener conto che "… il volgare, che passa nelle scritture e diventa a poco poco lingua letteraria, non è il linguaggio del popolo così come questo direttamente lo parla, ma è quello stesso linguaggio di una persona colta, e che generalmente sa di latino, lo tratta e lo sistema, perché sia comprensibile al popolo ma al tempo stesso abbia la dignità grammaticale e stilistica di stare accanto al latino"[11].
Come tutte le lingue neolatine o romanze, l'italiana discende dal latino, con cui ha legami molto più stretti delle altre lingue romanze proprio in virtù della prolungata permanenza della lingua madre in tutte le fasce sociali italiane. La letteratura italiana scritta si afferma in ritardo rispetto ad altre letterature europee perché la lingua di cultura per eccellenza fu a lungo il solo latino, lingua della Chiesa, dei tribunali e delle corti, ma anche delle scuole e delle università. A questo fattore si aggiunge anche l'uso della lingua d'oc e della lingua d'oïl nelle corti italiane del centro-nord, che produsse, tra i tanti rimaneggiamenti e imitazioni pedestri, anche alcune opere letterarie di un certo pregio, dal Tresor di Brunetto Latini, al Milione che Marco Polo dettò a Rustichello da Pisa in francese, ai canti d'amore di Sordello da Goito. Questo almeno fino al momento in cui il Canzoniere siciliano si diffuse in Toscana, principalmente ad opera di Guittone d'Arezzo, da cui trasse spunti linguistici e poetici, sotto l'influenza di quel preumanesimo che avrebbe portato il travaso della letteratura e retorica classica nel toscano e nel bolognese riavvicinando la poesia italiana ai contenuti classici e distanziandola dal mondo cavalleresco franco-normanno che aveva fino allora cercato di copiare.
Per trovare, in Italia, testi a carattere propriamente letterario in un volgare solido bisogna risalire intorno alla metà del XII secolo con il Ritmo laurenziano (che si fa risalire al 1150-1157) ritrovato in un codice della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze, che consiste nella cantilena di un giullare toscano, o al Ritmo di Sant'Alessio trovato nelle Marche nel secolo XIII[12] o al 'Ritmo cassinese'.
Il passaggio delle nuove lingue volgari da documenti stilati per fini pratici a mezzo letterario nel senso concreto del termine, avviene lentamente e in Italia più tardi che altrove.
Per approfondire, vedi la voce Lingue della Francia.
Per questo motivo si fanno risalire alle origini della letteratura italiana quei testi letterari romanzi già nati nel X - XI secolo nella Francia settentrionale e, a partire dalla metà del secolo XI, quei testi provenzali sorti nella Francia meridionale. Per approfondire, vedi la voce Lingua d'oc.
In Provenza era infatti già nata una letteratura in lingua d'oc che si era rapidamente diffusa in quelle regioni territorialmente più vicine, come la Liguria, il Piemonte, la Lunigiana, la Marca Trevigiana, facendo nascere poesie improntate ai temi provenzali e in lingua provenzale, da parte di autori italiani come il genovese Lanfranco Cigala, il veneziano Bartolomeo Zorzi e Sordello da Goito che sarà nominato da Dante nel Canto VI del Purgatorio.
La lirica provenzale. Bertran de Born, illustrazione dal manoscritto di canzoni trovatoriche, Bibliothèque Nationale FrançaiseNotevole importanza ebbe in Italia l'influsso della lirica provenzale, essenzialmente di carattere amoroso e di contenuto povero e monotono composta con grande e faticoso artificio di stile che veniva appunto chiamata Art de trobar.
Le liriche dei poeti provenzali, come Bertrand de Born e Jaufré Rudel giunsero così in Italia per essere raccolte in florilegi da dedicare per diletto ai signori delle corti italiane. Per approfondire, vedi la voce Sordello da Goito.
Durante la Crociata contro gli Albigesi del 1209 molti trovatori si rifugiarono in Italia soggiornando presso diverse corti italiane e tra i più noti si ricorda Sordello da Goito che, visse a lungo a Verona e a Treviso e poi, dopo essere ritornato in Provenza, rientrò con Carlo I d'Angiò in Italia. A lui si deve il famoso "Compianto in morte di ser Blacatz", un noto feudatario di Provenza, dove trova l'occasione per rivolgere una feroce satira politica ai maggiori sovrani del tempo. Per approfondire, vedi la voce Lingua d'oil.
Anche nella zona settentrionale della Francia era già sorta una letteratura in lingua d'oil, dalla quale vennero assimilati dagli scrittori italiani i francesismi e i motivi.Per approfondire, vedi le voci ciclo carolingio e Materia di Britannia.
I due cicli francesi più famosi furono il ciclo carolingio e il ciclo bretone.
Il ciclo carolingio era formato da canzoni, dette chansons de geste (canzoni di gesta) che narravano le grandi imprese dei paladini di Carlo Magno e delle sue battaglie contro i Mori per difendere la Francia. Soprattutto la Chanson de Roland, che narra la sconfitta a Roncisvalle dei paladini dell'imperatore tra cui Orlando, sarà presto conosciuta in Italia e in seguito ripresa con grandi sviluppi poetici come nell'Orlando innamorato del Boiardo e nell'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
Nel ciclo bretone venivano invece narrate le imprese dei cavalieri della tavola rotonda che si riunivano in Bretagna intorno al re Artù. Questi racconti leggendari ebbero molto successo in Italia dove si diffusero rapidamente e si ritroveranno nei secoli futuri in tanti dei motivi della nostra letteratura di novelle e romanzi.
Accanto a questi due cicli se ne formò un terzo detto dei Ciclo dei cavalieri antichi che riprese gli eroi dell'antichità, come Enea, Giulio Cesare, Alessandro Magno e altri grandi, trasformando le loro imprese secondo la concezione medioevale e cortese.
I troveri[13], che erano i poeti autori che componevano le storie leggendarie e i poemi e li cantavano sulla viola, insieme ai giullari, tipici personaggi della vita medievale. "... cantori e saltimbanchi, buffoni, avventurieri e professionisti della letteratura e della penna... giravano di corte in corte, di città in città, di mercato in mercato e ben presto si diffusero in Italia[14].
In Italia, i poemi carolingi vennero così tradotti, imitati e rielaborati sia in prosa che in versi. Si possono ritrovare, ad esempio, nella biblioteca Marciana di Venezia alcuni poemi scritti in un linguaggio piuttosto rozzo, misto di francese e di veneto, che narrano le avventure di Buovo d'Antona, della madre di Carlo Magno, Berta, di quando Carlo era giovane, del leggendario Uggieri il Danese e di altri, nel tentativo di riscrivere i poemi di Francia in una lingua franco-veneta o franco-italiana.
Spesso però gli scrittori italiani usavano la lingua francese, quella d'oc, per rielaborare la materia del ciclo carolingio, come per il poema scritto in francese da uno sconosciuto padovano, l'"Entrée d'Espagne", e la "Prise de Pampelune" di Niccolò da Verona ambedue appartenenti al secolo XIV.
A Rustichello da Pisa, dobbiamo un romanzo, conosciuto col titolo "Roman de Roi Artus" (Il romanzo di re Artù) scritto in francese, che narra le avventure di Tristano e ad altri scrittori rimasti sconosciuti leggende e racconti rielaborati su materiale bretone, come il "Tristano Riccardiano" il cui manoscritto si trova nella biblioteca Riccardiana di Firenze, la "Tavola Rotonda" e la "Storia di Merlino" scritti in lingua volgare.
Guillaume de Lorris in una miniatura del Roman de la RoseNon solo il materiale del ciclo carolingio e di quello bretone vennero ripresi e diffusi in Italia, ma anche quello dei Cavalieri antichi di cui si ricorda l'"Historia destructionis Troiae", probabilmente scritta in latino dal poeta appartenente alla scuola siciliana Guido delle Colonne nel 1287, e la "Storietta troiana" di un anonimo tratte dal "Roman de Troie" di Benoît de Sainte-Maure risalente al XII secolo oltre "I fatti di Cesare" di scrittore anonimo appartenente al secolo XIII e i "Canti di antichi cavalieri" dove si narra di Scipione, di Fabrizio, Pompeo e del Saladino.
IL DUECENTO
Il periodo storico che va dal 1224, presumibile data della composizione del Cantico delle creature di San Francesco d'Assisi, al 1321, anno in cui morì Dante[15], si contraddistingue per i numerosi mutamenti in campo sociale e politico e per la viva attività intellettuale e religiosa.
Un tipo di letteratura, quella di carattere enciclopedico e allegorico, nata in Francia già nel XII secolo con il poema Viaggio della saggezza. Anticlaudianus. Discorso sulla sfera intelligibile del filosofo Alano di Lilla, giunge nel Duecento in Italia con i suoi modelli, come il famoso Roman de la Rose che nelle due parti composte tra il 1230 e il 1280 circa da Guillaume de Lorris e Jean de Meun narrano, con abbondanti figure simboliche e azzardate personificazioni, le vicende del sentimento amoroso nei suoi vari e drammatici aspetti. L'influsso del Roman si avverte in tutte le opere allegorico-didattiche antiche scritte in volgare. Dal Roman, famoso è il rifacimento del fiorentino Durante, che alcuni vollero identificare nello stesso Dante Alighieri, realizzato in 232 sonetti in volgare italiano verso la fine del secolo XIII e il frammentario intitolato Detto d'Amore che riescono a trasformare il poema francese liberandolo dagli schemi scientifici e tecnologici rendendolo più ricco di spunti amorosi e satirici.
Sempre nel XIII secolo, collegata alla tendenza religiosa e didattica che aveva fatto nascere le grandi opere dette summae, vedono la luce anche alcuni componimenti in volgare veneto e lombardo molto significativi per chiarire la cultura comune del tempo e che "esprimono nel loro insieme il tentativo di un innalzamento dei dialetti settentrionali, veneto-lombardi, ad espressione letteraria"[16]. Per approfondire, vedi le voci Giacomino da Verona e Bonvesin de la Riva.
Alla prima metà del secolo appartiene una raccolta di massime morali e sentenze, lo Splanamento de li proverbi di Salomone, composta da Gherardo Patecchio di Cremona in versi alessandrini e, dello stesso autore, una canzone in endecasillabi dal titolo le Noie dove vengono elencati tutti gli avvenimenti spiacevoli della vita.
Nella seconda metà del secolo Fra' Giacomino da Verona scrive due poemi in versi alessandrini: il De Babilonia civitate infernali e il De Jerusalem celesti dove vengono elencate rispettivamente le pene dell'Inferno e le gioie del Paradiso.
Tra gli scrittori di questo periodo vi fu il maestro di grammatica Bonvesin de la Riva che compose molte opere sia in volgare che in latino. Tra le più note scritte in latino si ricorda il De Magnibus urbis Mediolani, una sintetica storia di Milano, e in volgare il "Libro delle Tre Scritture" (la Nigra, la Rossa e la Dorata), un poemetto dove vengono narrate le dodici pene dell'Inferno, la Passione di Cristo e le glorie del Paradiso. Egli scrisse anche dei Contrasti dove pone a confronto la Vergine e Satana, la mente e il corpo, la viola e la rosa, il Trattato dei mesi dove gennaio, con la sua pigrizia, viene confrontato con l'operosità degli altri mesi dell'anno e un poemetto sulle buone maniere da tenere a tavola intitolato Cortesie da desco.
Contemporaneamente a questi componimenti dell'Italia settentrionale, nasce, soprattutto in Umbria, una letteratura in versi a carattere religioso scritta nei vari dialetti locali per lo più anonima.
Si usa collocare nel 1260 la vera nascita della lirica religiosa al tempo in cui nacque a Perugia, sotto la guida di Raniero Fasani, la confraternita dei Disciplinati che usava come mezzo di espiazione la flagellazione pubblica. Il rito veniva accompagnato da canti corali che avevano come schema la canzone a ballo profana. Attraverso le laude, liriche drammatiche, pasquali o passionali secondo l'argomento religioso trattato, il movimento si diffuse in tutta l'Italia del Nord stabilendone il centro a Perugia e ad Assisi. Ma è il Cantico di Frate Sole o Cantico delle creature di san Francesco d'Assisi ad essere considerato il più antico componimento in volgare italiano mentre solamente con Jacopone da Todi la lauda assunse una dimensione artistica.
Tra i più importanti generi della letteratura religiosa vi sono le laude, componimenti che cantavano le lodi dei Santi, di Cristo e della Madonna, e che vengono spesso raccolte in manoscritti chiamati "laudari" (raccolte di laude) per le Confraternite religiose.
Si tratta spesso di laude scritte sotto forma di dialogo con carattere di dramma sacro che venivano recitate in ricorrenze religiose di una certa importanza con l'accompagnamento musicale.
Le laude di questo periodo sono quasi tutte anonime e vengono soprattutto dalla Toscana, dall'Umbria, dalle Marche, dall'Abruzzo e dall'Italia settentrionale e conservano, nella povertà della loro struttura sintattica, un carattere molto semplice ma estremamente sincero.
Vengono narrati gli episodi del Vangelo di maggior effetto, come i miracoli di Gesù e della Vergine e la vita dei santi. Tra le descrizioni meglio riuscite e piene di religioso e commosso sentimento, vi è quella della Vergine che guarda in contemplazione il Bambin Gesù e il pianto della Madre ai piedi della Croce.
Le opere a carattere religioso furono quindi assai numerose in questo periodo ma quelle che si contraddistinguono per il loro carattere realmente poetico sono il "Cantico di Frate Sole" di San Francesco d'Assisi e le "Laude" di Jacopone da Todi.
"La prima grande figura che incontriamo proprio sulla soglia della nostra letteratura del duecento è quella di San Francesco d'Assisi" come scrivono sia Giuseppe Petronio[17] che Natalino Sapegno[18].
Di San Francesco ci sono giunte alcune operette latine e un cantico, scritto in volgare umbro, conosciuto come il Cantico delle Creature o "Il Cantico di Frate Sole", che può essere considerato il testo più antico della letteratura italiana.
Secondo Natalino Sapegno[19], "il tipo di prosa ritmica e ritmata, che nella divisione irregolare dei versetti, sembra riecheggiare le forme della liturgia non trova rispondenza nella letteratura italiana contemporanea".
Dopo la morte di San Francesco nacque una fiorente letteratura francescana che proseguì anche nel Trecento.
Essa produsse numerose biografie del santo scritte in latino e presto tradotte in volgare. Si ricordano soprattutto di Tommaso da Celano la Legenda prima, che venne scritta per commissione del papa Gregorio IX nel 1229, la Legenda secunda e la "Legenda trium sociorum" redatta non come una vera biografia ma come una sequenza di episodi eccezionali, compiuti da San Francesco e dai suoi tre compagni (Leone, Rufino e Angelo), secondo il modello dei Fioretti; lo "Speculum perfectionis", redatta da uno scrittore anonimo che è stato il primo a tramandarci "Il Cantico delle creature". Per approfondire, vedi la voce San Bonaventura da Bagnoregio.
La seconda biografia del santo di carattere ufficiale è quella che scrisse San Bonaventura, intitolata Legenda maior, per incarico dell'Ordine dei Frati Minori per arrivare agli Actus beati Francisci et sociorum eius considerati la prima fonte de "I Fioretti di San Francesco" in volgare.
Il primo testo della letteratura francescana « Comandò allora Madonna Povertà che fossero imbanditi nelle scodelle cibi caldi. Ed ecco fu portata una sola scodella piena d'acqua fredda perché tutti vi attingessero il pane. »
(Da Sacrum commercium sancti Francisci cum Domina Paupertate, autore ignoto[20].)
Si deve ad un autore ignoto, che da alcuni critici viene individuato in Giovanni Parenti, un'opera scritta in forma di allegoria nel 1227 dal titolo "Sacrum commercium sancti Francisci cum domina Paupertate" (Le mistiche nozze di San Francesco con Madonna Povertà), opera che influenzò sia le future biografie del santo, sia autori come Giotto e Dante. Di Dante troviamo infatti nel canto XI del Paradiso il panegirico di San Francesco, dove vengono evidenziate le nozze del santo con la Povertà. Per approfondire, vedi la voce Jacopone da Todi.
Sarà però con Jacopone da Todi e con il Pianto della Madonna, una lauda dialogata dal linguaggio misto di parole del volgare umbro e di latinismi e dalla metrica che ripropone i modelli della poesia dotta, che la poesia religiosa raggiunge il suo vero apice poetico.
Nel XIII secolo fioriscono anche dei componimenti di carattere popolare che probabilmente servivano come accompagnamento alle danze durante le feste. Si tratta di poesie che trattano d'amore, di canti in forma dialogata tra una madre e una figlia che si deve sposare, di lamenti di giovinette che vogliono marito, di contrasti tra moglie e marito, tra suocera e nuora.
Alcune di queste poesie sono opera di giullari che, come scrive Sapegno[21], "segnano il ponte di passaggio, a dir così, fra la letteratura di popolo e quella degli spiriti più colti e raffinati". Si tratta quindi per lo più di una letteratura anonima "sia sul piano anagrafico (di molti componimenti non conosciamo l'autore) e sul piano culturale: manca infatti un particolare e individuale rilievo stilistico, le forme espressive sono stereotipate, convenzionali, ripetitive perché l'autore, per il successo della propria produzione, si basa soprattutto sull'invenzione, sulla trovata brillante e improvvisa, sulla battuta ad effetto"[22].
Il più antico tra i documenti di questa poesia giullaresca può essere considerata una cantilena toscana intitolata "Salv'a lo vescovo senato" che risale all'inizio della seconda metà del XII secolo composta in monorime di ottonari dove un giullare tesse in modo esagerato le lodi dell'arcivescovo di Pisa per avere un cavallo e il "Lamento della sposa padovana" risalente al XIII secolo. Si tratta di un frammento di autore anonimo scritto in volgare veneziano, dove una donna si lamenta per la mancanza del marito che sta combattendo alle crociate e fa l'elogio della sua fedeltà.
Un altro famoso componimento di carattere giullaresco, oltre al "Vanto", scritta con la forma metrica della frottola da Ruggieri Apuliese che visse nella prima metà del Duecento, è il contrasto "Rosa fresca e aulentissima" di Cielo d'Alcamo, contemporanea alla poesia siciliana, un componimento composto in dialetto meridionale dove un giovane innamorato e sfrontato fa proposte ad una giovane dapprima ritrosa e poi consenziente, che denota da parte dell'autore una buona dose di cultura. Per approfondire, vedi la voce Scuola siciliana.
Una prima elaborazione di lingua letteraria da poter mettere in versi si ebbe al tempo di Federico II di Svevia in Sicilia dove l'imperatore, di ritorno dalla Germania aveva avuto modo di conoscere i Minnesänger tedeschi, aveva dato l'avvio, nel 1220-50 circa, alla Scuola siciliana, una vera scuola poetica che si ispirava ai modelli provenzali e che portò avanti la sua attività letteraria per circa un trentennio concludendosi nel 1266 con la morte del figlio di Federico, Manfredi, Re d'Italia morto nella battaglia di Benevento. I poeti di questa scuola "… scrivevano in un siciliano illustre, in un siciliano cioè nobilitato dal continuo raffronto con le due lingue, in quel momento auliche per eccellenza: il latino e il provenzale"[23]. Il tema dominante nei poeti siciliani fu quello dell'amore inspirato ai modelli provenzali: le forme in cui si espresse questa poesia sono la canzone, la canzonetta e il sonetto, felice invenzione di Giacomo da Lentini, caposcuola del movimento.
Oltre allo stesso re Federico II e ai suoi due figli Enzo (Re nominale di Sardegna) e Manfredi che si dedicarono con passione all'attività poetica, molti furono i poeti siciliani di maggiore o minore importanza che si posero sotto la guida spirituale di Giacomo, non a caso citato da Dante Alighieri nel XXIV canto del Purgatorio come il fondatore della scuola. Scrisse alcune delle migliori canzoni e sonetti che brillano come perle nella varietà e diversità di talenti del canzoniere siciliano e diede la prima definizione dell'amore nella letteratura italiana. "Amor è un desio che ven da core/ per abondanza di gran piacimento".
Tra i maggiori si ricorda inoltre Guido delle Colonne del quale sono pervenute cinque canzoni, Pier della Vigna di Capua nominato da Dante nel XIII canto dell'Inferno, Rinaldo d'Aquino, Giacomo Pugliese, Stefano Protonotaro da Messina al quale dobbiamo l'unica composizione conservata in lingua originale siciliana (Pir meu cori alligrari). In alcuni di questi, accanto al repertorio contenutistico provenzale, fa però riscontro in alcuni poeti, come re Enzo, un interesse psicologico che lascia già intuire qua e là la Madonna angelicata degli stilnovisti. Siamo comunque molto distanti dall'erotismo provenzale e francese, e più vicini al platonismo italiano e alla tradizione classica, che si sente maggiormente nel periodare e nel contenuto. Di diversa estrazione era infatti la scuola dell'isola, composta prevalentemente di giuristi e notai, più vicini del mondo francese alla tradizione umanistica e nel complesso distanti dal mondo cavalleresco francese, ammirato da lontano ma difficilmente sentito come proprio, tanto più in quanto l'imperatore aveva in effetti attuato per la prima volta nella storia, dopo durissime lotte, lo smantellamento del sistema feudale. Sottovalutata dalla critica ottocentesca per il suo carattere accademico di raffinato gioco intellettuale, è stata però rivalutata nel XX secolo grazie all'opera di molti insigni studiosi quali Bruni, Segre, Contini i quali hanno sottolineato i felici risultati linguistici, che dettero per la prima volta all'Italia quel ricco vocabolario in volgare di cui ancora mancava, e che fu assimilato e successivamente arricchito dalle sperimentazioni dei grandi bardi toscani, dalle imitazioni di Guittone all'elaborazione del fresco ma ricco linguaggio degli stilnovisti. Se ne sarebbero conservate forti tracce fino ai giorni nostri. Migliorini conferma la sostanziale vicinanza tra quella lingua siciliana, nata in circostanze fortuite sotto le tende della corte di Federico durante gli assedi alle città guelfe, e la migliore poesia di quell'Ottocento la cui critica romantico-positivista svalutò l'opera dei "notari" siciliani in nome di una poesia che si voleva grande solo in quanto "popolare e spontanea".
Annoverato da molti critici come poeta appartenente alla scuola siciliana vi fu anche Cielo d'Alcamo che scrisse il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima. Cielo (falsa grafia è Ciullo tramandato dalla tradizione ottocentesca) offre una rilettura diversa, in chiave comica e realistica in opposizione alle figure eteree e talvolta stereotipate delle madame provenzali. Parodia dei manierismi e dei luoghi comuni della scuola, è il canto di amore di un giullare e non di un raffinato uomo di corte, che scambia una serie di vivaci e salaci battute con la sua rosa, che da astratto simbolo amoroso diventa la sua carama, la sua bella, che corteggia spietatamente approfittando dell'assenza della famiglia che la tiene gelosamente sotto tutela. Sotto pretesto di conservare il suo onore la ragazza si finge restìa, per ricevere i più splendidi complimenti, e invitare alla fine l'amante a seguirlo nella sua camera. L'effetto burlesco è ottenuto dall'accostamento del raffinato linguaggio letterario ad espressioni dialettali popolari siciliane e meridionali che di fatto smentiscono comicamente la pretesa nobiltà d'animo finta inizialmente.
A Jacopo da Lentini, notaio presso la corte di Federico II e probabile iniziatore della scuola, si attribuisce l'invenzione del sonetto e la teoria dell'amore, inteso come sentimento che nasce alla vista di una donna e che viene alimentato attraverso l'immaginazione, che sarà ripresa da tutta la lirica d'amore del Duecento, dai siciliani agli stilnovisti.
Tra i principali rappresentanti della scuola, che furono tutti funzionari della corte di Federico II, si ricordano, oltre Jacopo da Lentini, Pier della Vigna, Jacopo Mostacci, Percivalle Doria, Rinaldo d'Aquino, Guido delle Colonne, Ciacco dell'Anguillara, Stefano Protonotaro, Giacomino Pugliese, oltre lo stesso Federico e il figlio naturale Enzo di Svevia.
I poeti della scuola siciliana scrivevano canti improntati ai modelli della poesia provenzale che, nata presso le corti, esaltava l'amore come abitudine di gentilezza più che come sentimento immediato e prorompente. Costoro seguivano anche gli stessi schemi metrici di quel genere di poesia riproponendo il genere della canzone, della ballata, del sirventes e del contrasto.
Nella storia della poesia, come scrive Mario Sansone "Non grande è l'importanza della scuola poetica siciliana, ma grandissima è la sua importanza nella storia della nostra cultura e nel formarsi della nostra lingua letteraria"[24].
Nell'Italia settentrionale nasce intanto una interessante letteratura volgare a carattere didattico che si ispira sia alla tradizione provenzale che comprende l'enueg (ciò che produce fastidio) e il plazer (ciò che produce piacere), sia alla tradizione biblico-apocalittica, cioè alla letteratura escatologica dei secoli XII e XIII.
Tra i più rappresentativi autori si ricorda il cremonese Gherardo Patecchio, che scrisse un poemetto di ammaestramenti morali intitolato Slanamento de li proverbi de Salamone e un elenco in endecasillabi sui fastidi della vita dal titolo Noie, Uguccione da Lodi autore di un Libro composto in lingua veneta e in lasse monorime di versi alessandrini che tratta del giudizio divino, Giacomo da Verona che scrisse in dialetto veronese un poemetto diviso in due parti, De Ierusalem celesti e De Babilonia civitate infernali che vengono annoverati tra le fonti della Divina Commedia di Dante.
Ma tra i più validi e importanti scrittori del secolo XIII che scrissero in lingua lombarda si ricorda Bonvesin de la Riva per i suoi poemetti legati a esigenze didattiche, i suoi contrasti di carattere allegorico, ma soprattutto per il Libro delle tre scritture composto circa nel 1274, diviso in tre parti che ha come tema l'Inferno (scrittura nigra), la Passione di Cristo (scrittura rubra), il Paradiso (scrittura aurea). Il testo viene ritenuto il primo della letteratura in volgare lombarda e l'autore considerato tra i precursori di Dante.
Nella seconda metà del Duecento si diffonde nell'Italia del nord una letteratura in volgare in forma di ballata, solitamente anonima, dovuta soprattutto ai giullari e costituita da lamenti di giovani fanciulle che vogliono maritarsi, di donne mal maritate, di canti nuziali.
Da Mantova ci perviene una canzone anonima per danza, mentre da Milano o da Pavia il primo esempio di satira in volgare contro il villano intitolato il Detto di Matazone da Caligano.
Dal Veneto ci perviene invece il Lamento della sposa padovana e dall'Emilia e dalla Romagna diversi sirventesi di argomento politico-cittadino.
Dalla Toscana ci pervengono tre componimenti: una tenzone di argomento politico, una parodia della Passione e un sermone epitaffio attribuite al giullare Ruggiero Apugliese. Per approfondire, vedi la voce Lirica toscana.
Con la morte di Federico II e del figlio Manfredi si assiste al tramonto della potenza sveva e anche l'esaurirsi della poesia siciliana. Dopo la Battaglia di Benevento l'attività culturale si sposta dalla Sicilia alla Toscana, dove nasce una lirica d'amore, la lirica toscana, non dissimile da quella dei poeti della corte siciliana ma adattata al nuovo volgare e innestata nel clima dinamico e conflittuale delle città comunali: sul piano tematico dell'amore cortese si affiancano nuovi contenuti politici e morali.
Vengono così ripresi in Toscana i temi della scuola siciliana e le ricercatezze di stile e di metrica propria dei Provenzali con l'arricchimento dato dalle nuove passioni dell'età comunale.
La poesia dei poeti toscani viene così ad arricchirsi sia dal punto di vista tematico che linguistico anche se viene a mancare "quel livello di aristocrazia formale a cui i siciliani riescono generalmente a mantenersi"[25].
Fanno parte del gruppo dei poeti toscani Bonagiunta Orbicciani da Lucca, Monte Andrea, il fiorentino Chiaro Davanzati, Compiuta Donzella e molti altri di cui il più noto è Fra Guittone dal Viva da Arezzo. Per approfondire, vedi la voce Guittone d'Arezzo.
Il caposcuola dei toscani viene considerato Guittone del Viva d'Arezzo, nato verso il 1235 ad Arezzo e morto nel 1294, nel quale si può cogliere, come osserva Asor Rosa[26] "... un concetto della funzione della poesia più articolato di quello praticato dai siciliani e, forse, dagli stessi provenzali".
Guittone ci ha lasciato una vasta raccolta di rime (composta da 50 canzoni e 239 sonetti) nelle quali si rispecchiano i suoi due diversi modi di vita. Si può così dividere la sua opera in due parti: la prima, dove imita i poeti della scuola siciliana ed è dedicata all'amore e alle armi, la seconda di contenuto religioso e morale.
A Guittone si deve il primo esempio di canzone politica (Ahi lasso, or è stagion de doler tanto) scritta in seguito alla sconfitta che i guelfi fiorentini subirono nel 1260 a Montaperti per opera dei ghibellini nella quale, con il tono energico e veemente che si ritroverà in alcune pagine di Dante, egli lamenta la pace perduta utilizzando e alternando il sarcasmo con l'invettiva e l'ironia.
Ma il vero poeta lo si deve cercare nelle sue rime di carattere religioso e specialmente nella laude, come in quella dedicata a San Domenico scritta con lo schema della ballata sacra da lui inventata.
Sempre da attribuire a Guittone d'Arezzo è un Trattato d'amore in 12 sonetti e circa una trentina di Lettere. Tra i poeti più interessanti della scuola di Guittone, rimane il lucchese Bonagiunta Orbicciani al quale Dante nel canto XXIV del Purgatorio affida il compito di definire il nuovo modo di poetare con il nome di stilnovo.
Nacquero nel contempo, a Pistoia, a Pisa e a Firenze, altre scuole che si rifacevano in modo più o meno rigoroso a Guittone. Si ricordano Chiaro Davanzati, che nel suo Canzoniere anticipa i motivi dello stilnovo, il guelfo Monte Andrea, al quale si deve il più valido trobar clus fiorentino, e Dante da Maiano, che scrisse un Canzoniere in uno stile intermedio tra quello siciliano e quello guittoniano.
Non è stata provata la storicità della poetessa Compiuta Donzella alla quale vengono attribuiti, da un solo codice, tre sonetti. Per approfondire, vedi la voce Dolce Stil Novo.
«Il dolce stil novo va riportato, nella cultura, al sentimento che i poeti ebbero di una nuova poesia: sentimento vago, non ragionato pensiero. Va considerato come un'aura letteraria alimentata da una cultura sensibilissima ed eletta a forme elaborate ed eleganti, in una ispirazione meditata che ricerca la più intima voce dell'Amore, e cioè il senso riposto che sotto le parole è celato".[27] »
Tra la fine del XIII secolo e i primi anni del successivo nasce il Dolce Stil Novo, un movimento poetico che, accentuando la tematica amorosa della lirica cortese, la conduce ad una maturazione molto raffinata.
Nato a Bologna e in seguito fiorito a Firenze, esso diventa presto sinonimo di alta cultura filosofica e questo, come giustifica Sansoni[28], "... spiega perciò come i giovani poeti della nuova scuola guardassero con disprezzo, più che ai siciliani, ai rimatori del gruppo toscano, che accusavano di avere in qualche modo imborghesita la poesia e di mancare di schiettezza e raffinatezza stilistica".
Il nome della nuova "scuola" si trae da Dante. Così afferma Natalino Sapegno[29] "È noto che Dante, incontrando, in un balzo del suo Purgatorio, il rimatore Bonagiunta Orbicciani, mentre ci offre il nome (da noi per convenzione ormai antica adottato) della scuola o gruppo letterario cui egli appartiene, definisce poi questo "dolce stil novo" uno scrivere quando Amore spira".
Infatti nel XXIV canto del Purgatorio Bonagiunta Orbicciani di Lucca si rivolge a Dante chiedendogli se si trattasse proprio di
colui che fuore
Trasse le nuove rime, cominciando
"Donne ch'avete intelletto d'amore"
e Dante gli risponde senza dire il suo nome ma così definendosi:
Io mi son un che, quando
Amor mi ispira, noto; e a quel modo
Ch'è ditta dentro, vo significando
ed è a questo punto che Bonagiunta risponde:
O frate, issa vegg'io... il nodo
Che il Notaro e Guittone e me ritenne
Di qua dal dolce stil novo ch'ì odo[30].
I poeti del "Dolce Stil Novo" fanno dell'amore il momento centrale della vita dello spirito e possiedono un linguaggio più ricco e articolato di quello dei poeti delle scuole precedenti.
La loro dottrina "toglieva all'amore ogni residuo terreno e riusciva a farne non un mezzo, ma il mezzo per ascendere alla più alta comprensione di Dio"[31].
L'iniziatore di questa scuola fu il bolognese Guido Guinizelli e tra gli altri poeti, soprattutto toscani, si ricordano i grandi come Guido Cavalcanti, Dante stesso, Cino da Pistoia e i minori come Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi. Per approfondire, vedi la voce Guido Guinizzelli.
Considerato il fondatore del "dolce stil novo", di Guido Guinizzelli non si hanno dati anagrafici certi. Egli viene riconosciuto da alcuni nel ghibellino Guido di Guinizzello nato a Bologna tra il 1230 e il 1240, da altri con un certo Guido Guinizello, un podestà di Castelfranco Emilia.
Egli ci ha lasciato, con la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, quello che deve considerarsi il manifesto del "dolce stil novo" dove viene messa in evidenza l'identità tra il cuore nobile e l'amore e come la gentilezza stia nelle qualità dell'animo e non nel sangue. Egli riprende poi con accenti sublimi il concetto del paragone tra la donna e l'angelo, già valorizzato da Guittone d'Arezzo e da altri poeti precedenti. Per approfondire, vedi la voce Guido Cavalcanti.
Nato a Firenze da una delle famiglie guelfe di parte bianca tra le più potenti della città, Guido Cavalcanti venne descritto dai suoi contemporanei "come cavaliere disdegnoso e solitario, tutto volto alla meditazione filosofica e quasi certamente seguace dell'averroismo"[32].
Fu amico di Dante Alighieri, che a lui dedicò la Vita Nova, e partecipò attivamente alla vita politica fiorentina sostenendo i Cerchi contro i Donati. Mandato in esilio a Sarzana il 24 giugno 1300 ritornò l'anno stesso in patria dove la morte lo colse alla fine di agosto del medesimo anno.
La canzone più famosa di Cavalcanti fu la teorica "Donna mi prega perch'io voglio dire", nella quale il poeta tratta dell'amore dandone una interpretazione di carattere averroista, come sostiene Mario Sansone[33], l'amore è per il Cavalcanti un "processo dell'intelligenza che dalla "veduta forma" della donna estrae l'idea della bellezza, già posseduta in potenza, e se ne compenetra"[34] e non è, come per il Guinizelli, beatificante ma estremamente terreno e dà più dolori che gioie.
Accanto alla lirica cortese un posto di rilievo va assegnato alla poesia comico-realistica: chiaramente antitetica alla contemporanea spiritualità stilnovista, la corrente comico-realistica è giocosa e realista, coltiva il gusto dell'invettiva, della ribellione e della comicità che vanno a sostituire quello della bellezza ideale.
La storiografia letteraria ha coniato espressioni differenti per delineare una tendenza poetica caratterizzata dall'affrontare temi aderenti alla realtà e al quotidiano in chiave generalmente parodica: si parla di poesia borghese, poesia comico-realistica, poesia realistico giocosa. L'etichetta che indubbiamente risulta più esaustiva è "poesia comico-realistica" in quanto il binomio dà indicazioni sullo stile (comico, che i manuali di retorica contrapponevano a quello tragico. Lo stile comico consente l'uso del linguaggio triviale ed è adatto a trattare argomenti legati alla quotidianità e materialità) e sul contenuto (realistico).
Essa si diffonde in Umbria e in Toscana ed ebbe il suo centro a Siena. Tra i poeti maggiori si ricordano Rustico di Filippo,che ha lasciato 58 sonetti nei quali si avverte la lezione siculo-guittoniana ma anche originali temi legati al genere comico, Meo de' Tolomei autore di alcuni sonetti a carattere caricaturale e il giullare aretino Cenne della Chitarra che scrisse canzoni ispirate alla vita rustica. Ma i due poeti più significativi della poesia comico-realistica furono Cecco Angiolieri, Folgore da San Gimignano.
È questa una corrente che si riallaccia ad una tradizione di derivazione mediolatina, quella della poesia goliardica che si era diffusa nel XII secolo in Francia, in Germania e in Italia, ma anche al fabliau.
Essa si ispira a temi realistici (l'amore come vibrazione di sensi, la donna come creatura terrena) e a motivi anticortesi (l'esaltazione del denaro, del gioco, della taverna e del piacere). L'effetto parodico è appunto ottenuto dalla celebrazione dei valori opposti a quelli stilnovisti e cortesi. La donna non è figura angelica, spirituale; l'amore non è esperienza platonica, decarnalizzata ma l'amore è celebrato in quanto valore terreno, da consumarsi.
Anche il linguaggio è quello quotidiano con la ricerca della parola efficace e colorita assoggettato all'utilizzo del rinfaccio e del vituperium, con un frequente uso al discorso diretto e all'uso di un gergo che si può definire "furfantesco".
Il Tesoro, libro IIl peso della prosa latina e francese (considerate lingue più adatte alla composizione letteraria) è ancora molto forte in questo periodo per cui la prosa in volgare, rispetto alla poesia, subì un certo ritardo.
Il primo a fornire i nuovi modelli per il volgare fu il grammatico bolognese Guido Faba che comprese l'importanza che la lingua volgare stava acquisendo nella vita quotidiana e in quella politica.
Nel corso del Trecento si forma una raccolta di novelle scritte in volgare fiorentino, di aurore anonimo, intitolato il Novellino con finalità morali e pedagogiche.
Tra gli altri prosatori in volgare di questo periodo si ricordano Salimbene de Adam, un frate francescano di Parma, che scrisse numerose cronache in un latino colto e nello stesso tempo popolare che accoglieva anche numerose forme di lingua lombarda e di lingua emiliana; Jacopo da Varazze, frate domenicano diventato nel 1292 vescovo di Genova che scrisse in latino una raccolta che venne presto diffusa in versione volgarizzata; Brunetto Latini, senza dubbio la figura principale tra i prosatori duecenteschi che scrisse in lingua d'oil il Tesoro (Li livres dou Trésor), un testo enciclopedico che tradotto in seguito in volgare ebbe due versioni e che Dante considerò una fonte preziosa per la sua Commedia citandolo come maestro ideale nel XV canto dell'Inferno, e il Tesoretto ricalcando il modello del Roman de la rose; Bono Giamboni compilò un'opera a carattere allegorica-didascalica, Il libro de' vizi e delle virtudi creando la prima opera dottrinale autonoma.
Cospicui sono gli scritti che vengono composti in volgare e in francese di carattere dottrinale e morale come il "Libro della composizione del mondo" di Restoro d'Arezzo, una specie di moderno trattato di geografia e di astronomia, il "Liber de regimine rectoris" di fra' Paolino Minorita scritto in volgare veneziano seguendo il modello latino e francese che riporta suggerimenti di carattere morale per coloro che governano, il "Trésor" di Brunetto Latini scritto in francese e dello stesso autore il poema allegorico-didattico rimasto incompiuto intitolato "Il Tesoretto".
Molte prose del Duecento sono in prevalenza tradotte dal francese e hanno carattere morale come i "Dodici canti morali", i "Disticha Catonis" e i trattati di Albertano da Brescia tradotti in volgare da Andrea da Grosseto nel 1268 e dal pistoiese Soffredi del Grazia nel 1278. Il volgarizzamento di Andrea da Grosseto lo si può definire la prima opera in prosa in lingua italiana, poiché l'intento del grossetano era di utilizzare una lingua nazionale, unificatrice, comprensibile in tutta la Penisola, una lingua che lui definisce per l'appunto italica[35].
Altri esempi si trovano nel florilegio il "Fiore di virtù" che per tradizione si attribuisce ad un "frate Tommaso" di Bologna, e nell'"Introduzione alla virtù" di Bono Giamboni.
Di maggiore valore letterario sono alcune opere di carattere retorico che vedono un innalzamento dell'espressione letteraria e un certo sforzo artistico nel raffinare le forme dialettali come nella "Rettorica" di Brunetto Latini, nel "Fiore di rettoricas" erroneamente attribuito a Guidotto da Bologna ma opera di Bono Giamboni[36] e soprattutto le trentasei "Lettere" di Fra Guittone d'Arezzo, di carattere morale giudicate "notevoli perché Guittone mira in esse a fondare una prosa letteraria, basandosi sulla retorica medievale e applicando alla prosa volgare il cursus dello stile romano e i modi dello stile isidoriano"[37].
Fanno parte della novellistica e hanno uno stile linguistico di una certa originalità il Libro de' sette savi e il Novellino.
Il "Libro de' sette savi" è la traduzione volgarizzata dal francese di una raccolta composta da quindici novelle nata in India e in seguito tradotta e rielaborata in latino e in altre lingue orientali ed europee, mentre il Novellino o "Le cento novelle antiche" è una silloge di cento brevi novelle che contengono racconti biblici, leggende cavalleresche o di carattere mitologico scritte da un autore ignoto verso la fine del secolo.
Anche nelle opere a carattere storiografico gli scrittori di questo periodo utilizzano la lingua francese insieme al volgare e seguono un modello tradizionale che era quello della narrazione di una città dalle origini, di solito leggendarie e a volte fantastiche che però possiedono vicende di un certo interesse storiografico. Ne è un esempio la "Cronique des Veniciens" di Martino da Canale redatta in francese che va dalle origini della città al 1275, la "Cronichetta pisana" scritta in volgare e la cronaca fiorentina di Ricordano Malispini che narra le origini leggendarie di Firenze e arriva fino all'anno 1281.
Tra le opere storiche si è soliti tenere in considerazione Il Milione di Marco Polo che narra i racconti di viaggio fatti in Estremo Oriente dal 1271 al 1295 e da lui dettati in francese a Rustichello da Pisa nel 1298 mentre ambedue erano prigionieri nel carcere di Genova. Per approfondire, vedi la voce Dante Alighieri.
Dante in un affresco di Luca Signorelli « Non v'è dubbio che (Dante Alighieri) rappresenti la sintesi suprema delle fondamentali tendenze spirituali ed artistiche di questa età »
(Alberto Asor Rosa[38])
Tutta la letteratura del secolo XIII viene sintetizzata nelle sue linee fondamentali da Dante Alighieri e, come scrive Giulio Ferroni[39], crea allo stesso tempo modelli determinanti per tutta la letteratura italiana. La sua formazione culturale e la sua prima esperienza di poeta del "dolce stil novo" si svolgono nell'ultimo scorcio del secolo XIII, ma la maggior parte delle sue opere (compresa la Commedia) vengono scritte nel primo ventennio del secolo XIV.
Dante nacque a Firenze nel maggio del 1265 da una famiglia guelfa di modeste condizioni sociali anche se appartenente alla piccola nobiltà. Imparò l'arte retorica da Brunetto Latini e l'arte del rimare da autodidatta e la poesia rimarrà sempre il centro della sua vita.
« ... e con ciò fosse cosa che io avessi già veduto per me medesimo l'arte del dire parola in rima, propuosi di fare un sonetto »
(da la Vita Nuova)
Le prime poesie di Dante risentono dello stile guittoniano ma, dopo la conoscenza di Guido Cavalcanti, egli scoprì un nuovo modo di far poesia. Per approfondire, vedi la voce Vita Nuova.
Secondo le indicazioni che Dante stesso ci ha lasciato nel "Convivio", egli compose la Vita Nuova nel 1293, tre anni dopo la morte di Beatrice.
È questa un'opera in versi mista di prosa e poesia che contiene venticinque sonetti, quattro canzoni, una ballata ed una stanza oltre che alcune prose atte a spiegare il perché di certa divisione nelle poesie o a narrare i fatti che furono la causa della loro composizione. In essa Dante racconta il suo amore per Beatrice dal primo incontro sino agli anni che seguono la morte della donna. Per approfondire, vedi la voce Le Rime.
Le Rime contengono tutte quelle composizioni poetiche che ci sono pervenute senza un ordine preciso e in seguito ordinate dai critici moderni. Fanno parte delle rime poesie giovanili che risentono della scuola guittoniana o dell'influenza del Cavalcanti ma anche di carattere già personale e stilnovista e molte canzoni di carattere allegorico e didattico. Per approfondire, vedi la voce Convivio.
Il Convivio venne composto tra il 1304 e il 1307 e nelle intenzioni di Dante doveva consistere in un trattato enciclopedico composto da quindici libri dei quali uno d'introduzione e gli altri come commento a quattordici canzoni di carattere allegorico. In realtà il poeta ne compose solamente quattro: l'introduzione e il commento alle canzoni "Voi che intendendo il terzo ciel movete", "Amor che nella mente mi ragiona", "Le dolci rime d'amor ch'io solia". Per approfondire, vedi la voce De vulgari eloquentia.
L'opera intitolata il De vulgari eloquentia, composta da Dante negli stessi anni del Convivio, è un trattato rimasto incompiuto come il "Convivio". Esso doveva essere composto almeno di quattro libri ma il poeta scrisse solamente il primo e quattordici capitoli del secondo. In esso viene trattata l'origine del linguaggio, si discute delle lingue europee e in modo particolare di quelle romanze e viene fatta una classificazione in quattordici gruppi dei dialetti di tutta la penisola. Per approfondire, vedi la voce De Monarchia.
Il De Monarchia, quasi certamente composto tra il 1312 e il 1313 è un'opera composta da tre trattati scritti in lingua latina dove il poeta vuole dimostrare la necessità di una monarchia universale per mantenere il benessere nel mondo (libro I), dove afferma che a buon diritto l'ufficio dell'impero l'ha conquistato il popolo romano (libro II) e che direttamente da Dio nasce la monarchia temporale (libro III).
L'opera, pur rappresentando la piena maturità del pensiero politico di Dante non è, come sostiene Mario Sansone[40] "... un trattato di tecnica politica - e Dante ripugnava ai problemi della pura scienza - ma una religiosa interpretazione del destino degli uomini nella loro umana convivenza e delle leggi e dei principi che Dio ha disposti a governo e reggimento di essa". Per approfondire, vedi la voce Epistole (Dante Alighieri).
Sotto il nome di Epistole sono raccolte tredici lettere scritte in latino da Dante a personaggi illustri del suo tempo nelle quali tratta i temi importanti della vita pubblica. Per approfondire, vedi la voce Egloghe (Dante Alighieri).
Le Egloghe sono due componimenti in latino scritti a Ravenna tra il 1319 ed il 1320 in risposta a Giovanni del Virgilio, un professore dell'università bolognese, che gli aveva indirizzato un carme nel quale lo invitava a non perdersi con la lingua volgare e a scrivere qualcosa nella lingua dotta per poter ottenere l'alloro per la poesia. Dante ammette di desiderare il riconoscimento poetico ma afferma che desidera conquistarlo con il poema in volgare che sta scrivendo.
"La "Quaestio de aqua et terra" è un trattato di carattere scientifico letto a Verona davanti al clero nel gennaio del 1320 nel quale Dante, per confutare un passo di Aristotele, sostiene la tesi che nel globo le terre emerse sono più alte delle acque.
La "Divina Commedia"
Dante e il suo poema Affresco di Domenico di Michelino a Santa Maria del Fiore, Firenze (1465) Per approfondire, vedi la voce Divina Commedia.
La Divina Commedia è un poema di carattere didattico-allegorico scritto in lingua volgare toscana in terzine incatenate di versi endecasillabi.
Esso è composto da 100 canti e suddiviso in tre cantiche di trentatré canti più il canto di introduzione della prima cantica.
La data precisa che possa indicare quando Dante iniziò a scrivere il poema non è reperibile da nessun documento, ma molti sono gli studiosi propensi a credere che esso venne iniziato a partire dal 1307 durante l'esilio del poeta e che la cantica dell'Inferno e quella del Purgatorio siano state composte prima dell'aprile 1314 mentre il Paradiso sia da attribuire agli ultimi anni di vita di Dante. Natalino Sapegno afferma[41] che "... essa fu iniziata concretamente negli anni dell'esilio - come par probabile, circa il 1307 -... ed è assai probabile che (secondo un indizio offerto dalla Vita di Dante del Boccaccio) il poeta ricuperasse da Firenze nel 1306, mentre dimorava presso i Malaspina, parti di un'opera in lode di Beatrice da lui incominciata prima dell'esilio... è certo che prima dell'aprile 1314 si poteva discorrere di un libro "quod dicitur Comedia et de infernalibus inter cetera multa tractat", come di opera già pubblicata e diffusa. È da supporre pertanto che l'Inferno e il Purgatorio fossero divulgati entrambi poco dopo la morte di Arrigo VII, e che soltanto il Paradiso sia stato composto negli ultimi anni della vita di Dante; contro l'opinione di quei critici che credono doversi attribuire tutt'intera la composizione del poema agli anni dopo il 1313".
Il Trecento
Nel secolo XIV le tendenze sociali e politiche che si erano fatte sentire nel secolo precedente si esasperano fino a vedere la decadenza dell'Impero e della Chiesa mentre si assiste all'affermarsi di una nuova spiritualità che, come scrive Mario Sansone[42], "... consiste nel senso sempre più energico degli interessi e dei valori mondani e terreni, non in contrapposizione a quelli religiosi e oltremondani, ma sciolti da quelli e viventi nella loro autonomia. Declinava il Medioevo in tutti i suoi aspetti: il papato e l'impero, espressioni eminenti di una particolare concezione e interpretazione della storia, tramontavano. Gli imperatori perdevano sempre più il senso della loro autorità universale, e i papi, in Avignone, avevano tolto vigore alla idea di Roma considerata solo come centro di cristianità, e sorgeva, per contro, sempre più viva l'idea di una missione laica di Roma, da ricongiungersi alla sua grandezza antica".
Nasce così una nuova cultura che si baserà su uno studio attento e preciso dell'antichità classica, sempre più libera da preconcetti di carattere intellettualistico e intenzionata ad allargare ogni forma di pensiero.
I due scrittori che in questo periodo "meglio testimoniano nelle loro opere la complessa fase di trasformazione culturale, sociale e politica del Trecento"[43] e che rappresentano, nella letteratura italiana, un momento di passaggio tra l'età medievale e l'Umanesimo sono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Per approfondire, vedi la voce Francesco Petrarca.
Ritratto di Francesco Petrarca, Altichiero, 1376 circaCon Francesco Petrarca si apre, nella cultura dell'Italia e dell'Europa, una nuova epoca. Egli, come scrive il Sapegno, può infatti essere considerato il "padre spirituale" dell'Umanesimo essendo in lui "già fortissimo il desiderio di conoscere gli antichi, di raccogliere in gran numero le opere, di trarre dall'oblio quelle che giacevan sepolte nella polvere delle biblioteche monastiche"[44].
Figlio di un notaio di Firenze che aveva dovuto esiliare ad Avignone con la famiglia e aveva trovato lavoro presso la corte papale, Francesco Petrarca crebbe quindi lontano dalla società comunale italiana e questo "distacco tanto fortuito quanto fortunato", come sostiene Asor Rosa, lo abituò "a guardare alle cose da un punto di osservazione che trascendeva i localismi e i regionalismi italiani per diventare il punto d'osservazione della Cultura in quanto tale"[45].
Francesco, insieme al fratello minore Gherardo, venne avviato dal padre agli studi giuridici dapprima a Montpellier e in seguito a Bologna che veniva considerato il maggior centro di studi europeo. Egli si applicò con serietà agli studi e ampliò in quel periodo la sua cultura latina ma nel 1326, alla morte del padre, ritornò con il fratello ad Avignone deciso ad abbandonare gli studi di diritto civile.
Il 6 aprile del 1327 incontrò una giovane donna di nome Laura, la cui identità è sempre rimasta sconosciuta, e se ne innamorò. Da questo amore nasceranno molte delle sue liriche in volgare e alcune poesie in latino.
Verso il 1330, dopo aver trascorso quegli anni in modo spensierato e mondano, Francesco si rese conto che era necessario trovarsi una occupazione e decise di intraprendere la carriera ecclesiastica che a quei tempi dava la possibilità di inserirsi nell'ambiente dei dignitari della corte papale. Nell'autunno del 1330 divenne così cappellano di famiglia del cardinale Giovanni Colonna e nel 1935 gli venne concessa dal papa Benedetto XII la canonica di Lombez.
Nel dicembre del 1336 si recò a Roma ospite del vescovo Giacomo Colonna e al suo rientro ad Avignone, colto da una crisi morale e religiosa, acquistò una piccola casa in Valchiusa sulla riva della Sorga dove, lontano dal clamore della grande città, si dedicò alla composizione delle sue opere migliori. Per approfondire, vedi le voci De viris illustribus e Africa (Petrarca).
Risalgono a questo periodo, oltre a numerose liriche che saranno in seguito incluse nel Canzoniere, il De viris illustribus, una raccolta di biografie dei romani illustri da Romolo a Cesare e l'inizio del poema epico in esametri dedicato a Scipione l'Africano intitolato Africa.
Raggiunta ormai la fama e desideroso di ottenere un riconoscimento letterario per le sue opere progettò di farsi incoronare poeta e, invitato sia dal Senato romano che dall'Università di Parigi, accettò l'invito da Roma dove l'8 aprile del 1341, dopo essere stato per tre giorni a Napoli per essere esaminato dal re Roberto d'Angiò, venne incoronato con l'alloro in Campidoglio dal senatore Orso dell'Anguillara.
[modifica] Il periodo della crisiAl ritorno da Roma si fermò a Parma ospite di Azzo da Correggio dove trascorse, alternandolo con il soggiorno sulle colline di Selvapiana, l'autunno e l'estate del 1341 portando a termine la prima stesura dell'"Africa". Per approfondire, vedi la voce Secretum.
Nel 1342 fece ritorno ad Avignone e nel 1343 iniziò a scrivere il Secretum, un'operetta sotto forma di dialogo tra il Petrarca stesso e Sant'Agostino nel quale "ci ha lasciato la più compiuta e sincera confessione dei suoi intimi contrasti"[46] e compose le preghiere scritte in versetti latini seguendo il modello dei salmi della Bibbia, intitolate i "Psalmi poenitentiales" nei quali invoca l'aiuto di Dio per superare lo stato di smarrimento in cui si trova.
Nel settembre del 1343 fece ritorno in Italia e si recò dapprima a Napoli presso la regina Giovanna d'Angiò con l'incarico di ambasciatore del papa Clemente VI dove continuò a scrivere i libri del Rerum memorandarum che, rimasti incompiuti, dovevano essere, nell'intenzione dell'autore, un elenco strutturato di episodi e aneddoti storici inseriti in specifiche categorie che riguardavano particolari virtù morali. Per approfondire, vedi le voci De vita solitaria, De otio religioso e Bucolicum carmen.
In seguito si recò a Modena, a Bologna e a Verona e nel 1345 ritornò in Provenza dove rimase per due anni quasi sempre in Valchiusa dove scrisse per Philippe de Cabassoles il trattato De vita solitaria e il De otio religiosorum per il fratello Gherardo che era entrato nell'ordine monastico dei certosini.
Scrisse in questo periodo delle egloghe latine che verranno in seguito raccolte nel Bucolicum carmen e in una di esse spiega il perché della sua decisione di dimettersi dal servizio presso il cardinale Colonna e di far ritorno in Italia.
Entusiasmatosi per la tentata riforma politica di Cola di Rienzo partì nel 1347 diretto a Roma ma a Genova lo accolse la notizia che gli eventi erano degenerati e così egli iniziò a peregrinare per varie città e a Parma gli giunse la notizia della morte di Laura.
Era infatti scoppiata nel 1348 la peste e a causa di essa morirà il suo protettore, il cardinale Colonna, e tanti suoi amici. Per approfondire, vedi la voce I Trionfi.
Aveva intanto scritto precedentemente due dei Trionfi, quello di Amore e quello della Castità e in questo periodo scriverà quello della Morte oltre a riordinare le poesie italiane nel Canzoniere aggiungendone delle nuove, a raccogliere le sue lettere nel libro delle Familiari che faceva precedere da una dedica all'amico Ludwig von Kempen e ad iniziare la raccolta delle Epistole metriche dedicate a Barbato da Sulmona.
Nell'autunno del 1350 si recò a Roma per il giubileo dopo aver sostato a Firenze dove conobbe Boccaccio, rivide Francesco Nelli, Zanobi da Strada e Lapo da Castiglionchio. Nel giugno del 1351 ritornò per breve tempo ad Avignone e nel 1353 ritornò in patria che in seguito abbandonò solo in rare occasioni. Dal 1353 al 1361 rimane a Milano presso i Visconti e per loro compì diverse missioni diplomatiche. Per approfondire, vedi la voce De remediis utriusque fortunae.
A Milano il Petrarca scrisse il De remediis utriusque fortunae e molte nuove liriche e lettere iniziando la revisione del Canzoniere e delle raccolte epistolari la cui elaborazione durò a lungo. Per approfondire, vedi la voce Epistole.
Come scrive Sapegno[47] "ad introdurci nell'esame della personalità petrarchesca giovano anzitutto moltissimo le raccolte epistolare dello scrittore, dalle quali tante notizie si possono desumere della sua vita e anche dei suoi affetti e del suo pensiero".
Tra il 1361 e il 1370 Petrarca abitò in parte a Padova e in parte a Venezia ma i suoi ultimi anni furono amareggiati per la morte del figlio Giovanni e del nipotino Francesco, figlio della figlia Eletta.
Durante quegli anni egli continuò la corrispondenza con Boccaccio e si occupò seriamente della revisione delle sue opere rinsaldando i rapporti di amicizia con l'allora signore di Padova Francesco Carrara e nel 1368, dietro sua insistenza, si trasferì in quella città.
Nel 1370, fattosi costruire una casa ad Arquà sui colli Euganei, andò ad abitarci con la figlia Francesca, Eletta e il marito, accogliendo con gioia le visite di Francesco da Carrara e degli altri amici. Per approfondire, vedi le voci Canzoniere e I Trionfi.
Durante gli ultimi anni della sua vita si dedicò alla trascrizione del Canzoniere, la raccolta di rime che vennero scritte in vari periodi delle sua vita, terminò il poema allegorico scritto in terzine intitolato I Trionfi che venne pubblicato dopo la morte dell'autore e concluse i "Seniles".
Ad Arquà lo colse la morte il 9 luglio del 1374 e secondo il suo desiderio ricevette onoranze funebri solenni alla presenza del signore di Padova. Per approfondire, vedi la voce Giovanni Boccaccio.
"Boccaccio, come Petrarca, è consapevole del valore della cultura classica latina e greca, sentita come stimoli ad una nuova civiltà, e anch'egli usa e perfeziona il volgare che, nella sua prosa, assume una grandissima varietà di toni e ricchezza di vocaboli e di strutture sintattiche[48].
Figlio illegittimo di Boccaccio di Chellino, un mercante della compagnia dei Bardi di Firenze, Giovanni nacque, come concordano i critici contemporanei, a Certaldo e a soli dodici anni venne inviato dal padre a Napoli perché imparasse l'arte della mercatura. Ma a Giovanni, che non aveva attitudini pratiche, non piaceva quel tipo di occupazione e a diciotto anni il padre gli permise finalmente di seguire altri studi. Iniziò così, sempre su volere paterno, a studiare diritto canonico, studi che però seguì con poco entusiasmo mentre, da solo, si faceva un'ampia cultura leggendo soprattutto i classici latini e la letteratura contemporanea francese.
[modifica] Il periodo napoletano e le opere d'influenza dantescaEra quello il tempo della monarchia di Roberto d'Angiò dove "le influenze culturali che vi s'intrecciavano erano ricche e molteplici, e di ordine artistico e figurativo, oltre che letterario"[49] e presto il giovane Boccaccio, ammesso alla corte del re, fece amicizia con personalità dotte, come l'astronomo genovese Andalò del Negro e il bibliotecario reale Paolo Perugino e in quel mondo ricco di cultura e di splendori egli si trovò perfettamente a suo agio. Per approfondire, vedi le voci Filocolo, Filostrato (Boccaccio) e Teseida.
Al periodo napoletano risalgono le sue prime opere tra le quali il romanzo in prosa il Filocolo, il poema in ottave intitolato il Filostrato, che prende lo spunto da un episodio del "Roman de Troie" di Benoît de Sainte-Maure e un altro poema sempre in ottave, il Teseida, che si basava sul modello dell'Eneide di Virgilio e della Tebaide di Stazio.
[modifica] Il periodo fiorentino e le opere eruditeNel 1340 il Boccaccio, richiamato dal padre che aveva subito gravi danni economici in seguito al fallimento della Banca dei Bardi, dovette fare ritorno a Firenze e degli anni successivi si sa molto poco di quanto gli accadde.
Si ha notizia di un suo soggiorno a Ravenna presso la corte di Ostasio da Polenta e a Forlì nel 1347 o all'inizio del 1348 presso Francesco degli Ordelaffi.
Nel 1349, per la morte del padre, egli fece ritorno a Firenze se, come suggerisce il Sansone[50], "... non v'era già tornato nell'anno precedente per vedere con gli occhi suoi, come afferma nell'introduzione al Decameròn, gli orrori della peste". Per approfondire, vedi le voci Amorosa visione e Comedia delle ninfe fiorentine.
Al periodo del ritorno a Firenze risalgono due opere, composte tra il 1341 e il 1342, che risentono, come le precedenti, dell'influenza dantesca e che esaltano l'amore per Fiammetta, come il poema composto da cinquanta canti in terzine intitolato l'"Amorosa visione" e la "Comedia delle ninfe fiorentine" " detto anche Ninfale d'Ameto, una narrazione mista di prosa e di canti in terzine. Per approfondire, vedi la voce Elegia di Madonna Fiammetta.
Senza dubbio migliore è l'opera l'"Elegia di Madonna Fiammetta", scritta tra il 1343 e il 1344, una narrazione in prosa che racconta del suo infelice amore per la donna nella quale è stata vista, da alcuni critici, un forte risvolto psicologico anche se, come ammette Asor Rosa[51], "... il giudizio di De Sanctis, che la definisce "una pagina di storia intima dell'anima umana, colta in una forma seria e diretta", pecchi di un'involontaria anticipazione, colorandone i contorni quasi si trattasse di un romanzo psicologico del secondo Ottocento, cospicuo è effettivamente il tentativo di obiettivazione che il Boccaccio vi compie nei confronti della materia assai complessa ed autobiograficamente pressante della sua ispirazione". Tra il 1343 e il 1354 Boccaccio scrisse l'ultima delle sue opere composte prima del Decamerone, senza dubbio tra le migliori tra le sue opere minori. Si tratta di un'opera scritta sotto forma di poema in 473 ottave dal titolo il Ninfale fiesolano che prende spunto da una favola sulle origini di Fiesole e di Firenze.
Alle opere minori, e forse ancora risalente al periodo napoletano, si deve aggiungere il breve poema composto in terzine dal titolo Caccia di Diana e l'opera in prosa il Corbaccio composta in anni difficilmente databili (anche se ultimamente Giorgio Padoan[52] la colloca con una certa sicurezza nel 1365), che, pur non avendo particolare valore artistico, segna il momento che precede nella vita dello scrittore la sua crisi religiosa.
Composte in un lungo arco di tempo sono le Rime che, seguendo lo schema del tempo, alterna alle liriche d'amore quelle di devozione e di pentimento nelle quali egli, pur riprendendo i temi del "Dolce stil novo", usa accenti e stile che risentono di un nuovo realismo. Per approfondire, vedi la voce Decamerone.
I dieci giovani protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, LiverpoolIntesa a ragion di critica l'opera della piena maturità del Boccaccio è il Decamerone composta tra il 1348 e il 1353, una serie di cento novelle che, inserite in una originale cornice narrativa, rimangono unite dallo stesso stato d'animo che "è l'amore della vita nella pienezza del suo essere e svolgersi, guardata col cuore sgombro da ogni preoccupazione morale e religiosa, e con una esultanza cordiale per il suo bel fiorire: la vita che è gioco e vicenda della fortuna, vicenda or lieta e ilare ora drammatica e persino tragica"[53].
Il poeta intanto aveva acquistato grande fama e gli venivano affidate, anche per le sue doti di eloquenza, prestigiosi incarichi da ambasciatore presso le varie corti.
Nel 1350 venne inviato presso i signori di Romagna, nel 1351 nel Tirolo presso il marchese di Brandeburgo, Ludovico di Wittelsbach e ancora, nel 1354 presso il papa Innocenzo VI ad Avignone e nel 1365 - 1367 a Roma presso Urbano V.
Due sono in questo periodo i fatti importanti nella vita del Boccaccio: l'amicizia con il Petrarca e la crisi religiosa del 1362.
La conoscenza del Petrarca che egli ammirava fin dagli anni giovanili, avvenne per la prima volta a Firenze nel 1350 e il Boccaccio ebbe l'occasione di rivederlo l'anno seguente a Padova, nel 1359 a Milano e nel 1363 a Venezia.
Con il Petrarca egli tenne una costante e affettuosa corrispondenza e quando nel 1374 il poeta morì ne pianse la scomparsa con parole di sincera commozione.
[modifica] La crisi religiosa e le opere eruditeSopraggiunsero intanto pesanti ristrettezze economiche e sofferenze fisiche che lo lasciarono in uno stato di gran malinconia gettandolo in una profonda crisi religiosa. In questo periodo egli si diede con grande intensità a studi di carattere soprattutto morale, religioso e ascetico. Alla fine del 1362, anno della crisi, il poeta si recò a Napoli per cercare una sistemazione ma rimase deluso sia dall'accoglienza poco calorosa dell'Acciaiuoli, sia nel vedere la città tanto cambiata dopo le guerre civili che aveva subito.
Gli ultimi anni della vita il Boccaccio li visse tra Certaldo e Firenze dove si dedicò allo studio dei classici antichi e di Dante e iniziò anche lo studio dei greci con l'aiuto di Leonzio Pilato, un erudito grecista che aveva lo studio a Firenze.
Nell'animo di Boccaccio si ritrovano pertanto tutti gli aspetti dell'Umanesimo italiano, da quello filologico a quello retorico e stilistico e spirituale tanto che egli avverte, come scrive il Sansone[54], "... l'ufficio della poesia, e più generalmente, il senso della vita in modo nuovo e fresco".
Tra le sue opere di carattere erudito si ricordano il "Bucolicum carmen" scritto tra il 1351 e il 1366 composto da sedici egloghe nelle quali egli riporta molti degli avvenimenti contemporanei e della sua vita; il "De casibus virorum illustrium" di carattere morale, scritto tra il 1356 e il 1374 nel quale tratta di tutti quei personaggi, a partire da Adamo, che sono precipitati da una condizione felice ad una misera; il "De claris mulieribus", composto negli stessi anni della precedente opera, che consiste in un trattato biografico di donne famose, da Eva alla regina Giovanna I e un'opera di carattere geografico, il De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris scritto negli anni che vanno dal 1362 al 1366 nel quale, prendendo in esame molti nomi geografici ritrovati nelle opere dei classici, ne fornisce ampie informazioni.
Il maggiore tra i suoi trattati eruditi è comunque il Genealogia deorum gentilium, opera composta da quindici libri che formano una vera enciclopedia mitologica e che dimostrano per quei tempi una erudizione veramente straordinaria e che, oltre a contenere la sua poetica, vi è anche la difesa dell'opera e in genere l'autodifesa dell'autore in quanto raccoglitore e narratore di favole[55].
L'influenza di Dante, che già si avvertiva nelle sue prime opere, ora si fa fortemente sentire nell'opera compiuta tra il 1357 e il 1362 intitolata Trattatello in laude di Dante dove il Boccaccio esalta le doti morali ed intellettuali del grande poeta e nel "Commento alla Commedia".
Nel 1373 gli venne dato l'incarico di leggere e commentare davanti al pubblico la "Commedia". Le lezioni, che egli tenne nella Chiesa di Santo Stefano di Badia, dovettero però essere interrotte prima del commento del 17º canto dell'"Inferno" a causa dell'acutizzarsi della malattia che lo costrinse a ritirarsi a Certaldo dove morirà il 21 dicembre del 1375).
[modifica] Gli scrittori minoriCome scrive Natalino Sapegno[56] "Il Trecento è caratterizzato, a paragone del secolo precedente (in cui acquista un rilievo predominante l'esperienza della lirica d'amore, dai siciliani agli stilnovisti, riflessa in forma consapevole nella dottrina del De vulgari eloquentia), dalla straordinaria pluralità e varietà delle voci in cui si esprime il sentimento di una cultura letteraria assai più complessa e insieme più dispersiva e obbediente a molte sollecitazioni discordanti".
[modifica] La liricaIl valore poetico della lirica prodotta in questo secolo, senza tenere ovviamente in considerazione il Petrarca, è assai scarso e, se pur si avverte lo sforzo di conservare lo stile del "Dolce stil novo", si avverte che essa è "svuotata della sua sostanza più intima"[57]. Per approfondire, vedi le voci Cino Rinuccini e Fazio degli Uberti.
A distinguersi tra i numerosi rimatori aulici di questo periodo sono, ad inizio secolo il pisano Fazio degli Uberti per le canzoni politiche e soprattutto per le rime d'amore nelle quali si mescola l'influsso della poesia stilnovistica, provenzale, petrarchesca e di quella delle rime pietrose di dante; il padovano Matteo Correggiaio e, sul finire del secolo, il fiorentino Cino Rinuccini, la cui poesia risente dell'influsso di Dante, oltre che del modello petrarchesco.
Tra i vari rimatori di questo periodo molti sono i rimatori di corte, soprattutto nell'Italia settentrionale, che possiedono scarsa ispirazione e poca cultura, che errano da un signore all'altro mettendo al loro servizio la poesia non tanto corredata da sentimenti profondi ma da propositi di adulazione.
Tra questi rimatori si distingue Antonio Beccari di Ferrara, del quale ci sono giunte alcune rime di carattere amoroso e politico, tre frottole di stile giullaresco e alcune liriche di stile confessionale e Francesco di Vannozzo di Padova che visse nella seconda metà del secolo presso alcune corti, come quella dei Carraresi, degli Scaligeri e dei Visconti e che ci ha lasciato tra le sue rime politiche otto sonetti sotto il nome di Cantilena pro comite Virtutum, alcune rime autobiografiche a carattere di confessione, quattro frottole e alcuni sonetti d'amore che, pur riprendendo lo stile petrarchesco in modo grossolano, non mancano di freschezza di sentimenti.
[modifica] La letteratura in prosa e in versiAnche nella seconda metà del secolo XIV Firenze rimane un centro di viva cultura dove fiorisce una letteratura in prosa e in versi più che altro di genere confessionale, fatto di riflessioni, di aneddoti e di ammonimenti che ha tra gli autori degni di essere menzionati il campano Antonio Pucci che ci ha lasciato, in una metrica popolare e dal lessico brioso, una vasta e varia opera che comprende sonetti, serventesi quaternari, capitoli e cantari che possiedono "una vena ingenua e fresca di poesia e una certa attitudine a risentire e riprodurre i semplici affetti del popolo in mezzo al quale e per il quale scriveva"[58]. Nel Pucci si ravvisa l'influenza di Dante il cui culto è ormai molto vivo in Toscana e non solo, come dimostrano i numerosi commentari alla Commedia che fioriscono in questo periodo.
Fiorisce anche in questo periodo e sempre a Firenze un nuovo genere di poesia per musica che si esprime nella forma della ballata, del madrigale e della caccia alla quale si accosta l'opera di Ser Giovanni Fiorentino che è stato identificato da Pasquale Stoppelli in un giullare, Giovanni di Firenze, con il nome di "Malizia Barattone"[59] con la sua raccolta di ballate che all'interno della sua opera intitolata " Il Pecorone ", una raccolta di novelle di ispirazione boccaccesca, rappresentano la parte più riuscita. Per approfondire, vedi la voce Franco Sacchetti.
Ma tra gli scrittori che si avvicinano in questi anni a questi due nuovi generi letterari, il più significativo è il fiorentino Franco Sacchetti tra le cui opere risaltano "Il libro delle rime" e Il Trecentonovelle, "nel quale l'autore svela doti sicure di scrittore: abilità nello schizzare, se non "personaggi" a tutto tondo, almeno macchiette vivaci; sicurezza nel descrivere scene di folla, di confusione, di tumulto; scioltezza di una sintassi popolareggiante; compiacimento per una lingua quanto mai viva e sapida, colta felicemente da tutti gli strati linguistici"[60].
[modifica] La letteratura devota
Stimmate di Santa Caterina da Siena, Domenico Beccafumi, 1515 circa Per approfondire, vedi le voci Jacopo Passavanti, Domenico Cavalca e Santa Caterina da Siena.
Durante tutto il Trecento fiorì anche una abbondante letteratura di carattere religioso che si esprime sotto forma di prediche, trattati, lettere devote, laude, sacre rappresentazioni e opere di carattere agiografico.
Tra gli scrittori religiosi del Trecento si ricordano nell'ambito della tradizione domenicana il frate Jacopo Passavanti che raccolse in un trattato dal titolo "Specchio di vera penitenza" tutte le prediche che aveva tenuto nel 1354 durante il periodo della quaresima e Domenico Cavalca autore delle "Vite dei Santi Padri" e di numerosi testi latini, oltre che di sonetti, laudi e sirventesi. Per approfondire, vedi le voci I Fioretti di San Francesco e Atti del beato Francesco e dei suoi compagni.
In ambito francescano si trovano "I Fioretti di San Francesco" composti da un autore toscano anonimo che consiste in una raccolta di leggende che riguardano la vita del santo tradotte e ridotte i termini di favole dal carattere popolare da un testo latino redatto nelle Marche risalente alla fine del secolo XIII dal titolo "Actus beati francisci et sociorum eius".
Sempre nel Trecento un posto significativo occupa Caterina Benincasa della quale ci sono pervenute 381 "Lettere" e il "Dialogo della Divina Provvidenza" che furono scritte dai suoi discepoli sotto dettatura con una scrittura che "coniuga i modi dello stile biblico e della letteratura sacra con l'immediatezza e l'impressionismo di un linguaggio popolare"[61].
[modifica] La storiografiaLa storiografia in volgare rispecchia i caratteri principali della civiltà del Trecento con le sue storie o cronache che "escono fuori dai confini angusti e aridi della cronachistica medievale, dove così scarsi sono la comprensione e la scelta dei fatti, la cura dei nessi logici, il rilievo dei caratteri individuali... lucido specchio d'una civiltà, nella quale la lotta politica è più varia, mobile e appassionata, le relazioni commerciali più intense, la cultura sempre più ampia ed aperta"[62]. Per approfondire, vedi le voci Dino Compagni e Giovanni Villani.
I più noti cronisti in volgare di questo periodo sono i due scrittori fiorentini Dino Compagni e Giovanni Villani rispettivamente autori, il primo, della "Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi", dove racconta le vicende a partire dal 1280 fino al 1312 e il secondo di una "Nova Cronica" divisa in dodici libri di cui i primi sei vanno dalla torre di Babele alla discesa in Italia di Carlo d'Angiò e gli altri sei dal 1265 al 1348.
[modifica] Il QuattrocentoAlla morte del Petrarca e del Boccaccio e dopo una tanto ricca fioritura trecentesca si assiste nel Quattrocento ad uno strano fenomeno che, a parere di molti critici, "pare interrompere il corso iniziato nei primi decenni del duecento"[63] e che appare "uno dei più squallidi della nostra storia letteraria"[64] per non parlare, come dice il Migliorini, addirittura di "crisi quattrocentesca"[65]. Per approfondire, vedi la voce Leonardo Bruni.
I letterati di questo periodo rinnegarono, disprezzandolo, tutto il lavoro fatto durante i due secoli precedenti per rendere la lingua volgare degna di essere chiamata lingua letteraria e composero non più in volgare ma in latino, arrivando a considerare l'opera di Dante, di Boccaccio e di Petrarca, come scrive Leonardo Bruni[66] nel primo dialogo all'amico Pietro Istriano della sua opera scritta in latino intitolata Ad Petrum Paulum Histrium, solamente "poesia per calzolai e panettieri".
Per approfondire, vedi la voce Umanesimo.
Ma questo periodo, cosiddetto dell'Umanesimo, che sotto molti aspetti può apparire di stagnazione, è in realtà solamente un "momento di pausa e di riflessione; un'età di appassionati studi critici e filologici; una specie di affannoso ed inconsapevole ritorno alle origini prime della nostra civiltà, attraverso il quale tutta la concezione della vita e degli ideali umani si rinnova, e al tempo stesso si opera una trasformazione della cultura e del gusto letterario, che si rivelerà appieno alla fine del secolo negli spiriti e nelle forme della nuova poesia"[67].
Immagine che ritrae Coluccio Salutati, proveniente da un codice della Biblioteca Laurenziana a Firenze[modifica] Il ritorno al latinoIl movimento dell'Umanesimo si diffuse con grande rapidità in tutta Italia e, pur assumendo caratteri diversi a seconda dei centri di diffusione, mantenne comuni caratteristiche dovute sia alla formazione e alle caratteristiche equalitarie ma soprattutto al comune uso della lingua latina.
Il latino degli umanisti, come già quello di Petrarca, è il latino classico, quello che avevano riscoperto attraverso i testi antichi di Cicerone, di Quinto Ennio di Virgilio, di Orazio, di Catullo e di Ovidio e che, con un attento studio filologico, riportano alla luce. Per approfondire, vedi le voci Coluccio Salutati, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini.
Il più importante centro umanistico sorse a Firenze e l'iniziatore dell'umanesimo fiorentino fu Coluccio Salutati, allievo di Petrarca e scopritore delle Epistulae ad familiares di Cicerone, che con i suoi trattati e il ricco epistolario fu considerevole diffusore dei nuovi studi letterari.
Il movimento ebbe seguito a Firenze con altri autorevoli studiosi come Niccolò Niccoli, che trascrisse numerose opere greche e latine e compose una guida per ritrovare i manoscritti in Germania, Leonardo Bruni d'Arezzo, che oltre a tradurre dal greco numerose opere, fu l'autore di una Historia fiorentina scritta in chiave classicheggiante su imitazione di Livio e di Cicerone e infine Poggio Bracciolini che, durante i suoi numerosi viaggi in Francia e in Germania, scoprì antiche opere portando così a conoscere le Institutionies oratoriae di Quintiliano, le Silvae di Stazio, le Puniche di Silio Italico e il De rerum natura di Lucrezio.
Nel 1429 venne ritrovato a Lodi, dal vescovo Gerardo Landriani, il Brutus di Cicerone e nel 1429 il cardinale Giordano Orsini acquista un codice che conservava le dodici commedie di Plauto che fino a quel momento nessuno conosceva.
In questa prima metà del secolo in Italia si iniziano gli studi della lingua greca che diventano parte fondamentale della nuova cultura.
Nel 1397, dopo molta insistenza da parte del Salutati, viene ad insegnare il greco nello Studio di FirenzeManuele Crisolora e molti greci giunsero in Italia in seguito ai concili di Ferrara e di Firenze tenutisi nel 1439 tra i quali si ricorda il cardinale Bessarione di Trebisonda che, giunto a Firenze per il concilio, vi rimase fino alla morte.
A lui e ai suoi cospicui manoscritti ellenici che custodiva nel palazzo dove abitava a Roma si deve il primo prezioso fondo di quella che diventerà la Biblioteca Marciana a Venezia.
La tomba di Gemisto Pletone nel Tempio Malatestiano di RiminiGiunse in Italia anche il filosofo Giorgio Gemisto di Mistra, studioso e ammiratore di Platone che, come scrive in nota Natalino Sapegno,[68]"Per amore del filosofo preferito assunse il soprannome di Pletone, approfittando dell'affinità di significato fra i due verbi greci: γεμίζω = riempire e πλήθω = essere pieno. Per approfondire, vedi le voci Giovanni Argiropulo e Costantino Lascaris.
Nel 1453, dopo la caduta di Costantinopoli, altri grandi maestri greci emigrarono in Italia tra i quali Giovanni Argiropulo docente di greco e di filosofia negli Studi di Roma e di Firenze e traduttore di Aristotele, Demetrio Calcondila, anche lui insegnante presso le stesse scuole, che curò la prima edizione di Omero, e Costantino Lascaris, insegnante presso le Università di Messina e di Napoli. Se durante questo primo periodo dell'umanesimo si ricostruiscono e si interpretano i testi non tanto sulla base di ricerche storiche ma in modo empirico, verso la metà del secolo XV l'approccio ad essi avverrà attraverso indagini di carattere filologico, storico e grammaticale e si cercherà di determinare un modello linguistico per riprodurre l'originalità della lingua di Roma. Per approfondire, vedi le voci Lorenzo Valla, Flavio Biondo, Leonardo Bruni e Ciriaco D'Ancona.
Nel campo della storiografia umanistica, che ebbe come modello l'opera di Livio, si ricorda il romano Lorenzo Valla che seppe affrontare "problemi filosofici, storici, culturali, dovunque recando una spregiudicatezza critica che prelude alla grande direzione del pensiero del Rinascimento"[69]
Accanto al Valla è degna di essere ricordata la figura dell'umanista forlivese Flavio Biondo che instaurò il metodo scientifico negli studi storici dando l'avvio con la sua opera Roma instaurata alla scienza dell'archeologia, quella dell'aretino Leonardo Bruni e dell'anconese Ciriaco D'Ancona. Per approfondire, vedi la voce Poggio Bracciolini.
Gli umanisti, molti dei quali erano al servizio dei signori italiani come segretari o cancellieri, furono anche ferventi scrittori di lettere più che altro di argomento politico, ma anche privato. In questo secondo settore notevole è l'epistolario lasciato da Poggio Bracciolini che, in base al modello ciceroniano, scrisse lettere ricche di umanità e di sentimento.
Merito degli umanisti fu quello di aver ripulito la dottrina aristotelica da tutte quelle alterazioni fatte ad opera degli arabi e degli scolastici e soprattutto di aver scoperto nella sua totalità l'opera di Platone al quale andò la loro preferenza. Per approfondire, vedi le voci Marsilio Ficino, Giannozzo Manetti, Giovanni Pico della Mirandola e Cristoforo Landino.
Dedicato a Platone fu il movimento sorto a Firenze con a capo Marsilio Ficino che, sotto la protezione dei Medici, raccoglieva nella villa di Careggi, quella che in seguito venne chiamata Accademia neoplatonica, numerosi personaggi dotti. Si ricordano inoltre Giannozzo Manetti, Giovanni Pico della Mirandola e Cristoforo Landino che seppero concepire una diversa dignità dell'uomo facendo intravvedere quella che sarà la filosofia moderna che avrà i suoi inizi nel Rinascimento italiano.
Nella prima metà del secolo accanto alla letteratura umanistica in latino nacque anche una letteratura in volgare sia di carattere devozionale e di mediocre valore, sia di carattere artistico e di alto tono.
Nella letteratura di carattere devozionale vennero composte laude, prediche e sacre rappresentazioni che spesso, accanto all'argomenro sacro, "accoglievano anche personaggi e scene di un realismo rozzo e popolaresco, che avvicinavano ancor meglio lo spettacolo ai gusti del popolo che assisteva sulle piazze e che doveva ricavarne edificazione e diletto."[70] [modifica] Letteratura di devozione e predicatori Per approfondire, vedi le voci Feo Belcari, Bernardino da Siena e Girolamo Savonarola.
Tra gli autori della letteratura devozionale vanno menzionati il fiorentino Feo Belcari, San Bernardino da Siena e anche Girolamo Savonarola che, pur essendo vissuto nella seconda metà del secolo, può essere posto tra costoro per i suoi trattati di carattere morale, le sue laude e soprattutto per le su vibranti prediche.
[modifica] I memoralisti e i narratori Per approfondire, vedi le voci Lorenzo Ghiberti e Cennino Cennini.
Tra i prosatori minori si ricordano anche i memoralisti, come lo scultore Lorenzo Ghiberti, il mercante Giovanni Morelli e il pittore Cennino Cennini che scrisse il Libro dell'arte, uno tra i primi trattati tecnici sulla pittura.
Per approfondire, vedi le voci Giovanni Sercambi, Giovanni Gherardi e Giovanni Sabadino degli Arienti.
Non mancarono i novellieri che continuavano la tradizione trecentesca come Giovanni Gherardi autore di un romanzo dal titolo Il Paradiso degli Alberti, Giovanni Sabadino degli Arienti che scrisse una raccolta di novelle intitolate Porretane e il più valido Giovanni Sercambi, autore di un Novelliere ad imitazione del Decamerone.
[modifica] Scrittori in versiTra gli scrittori in versi del primo Quattrocento sono da ricordare alcuni scrittori considerati di corte e di popolo.
A continuazione della tradizione trecentesca continuarono ad essere recitati i cantari, ad esserne composti dei nuovi e si diffuse la produzione di versi di argomento politico e di tipo comico-realistico.
[modifica] Scrittori popolari Per approfondire, vedi la voce Burchiello (poeta).
Tra i poeti più noti a carattere burlesco si ricorda Domenico di Giovanni, soprannominato il Burchiello, che compose numerosi sonetti caudati dove riprendeva lo stile della poesia giocosa e delle frottole del Trecento.
Tra i poeti giocosi che vissero presso le corti quattrocentesche si ricordano Antonio Cammelli, detto il Pistoia che ebbe molta fama presso le corti settentrionali e che visse presso le corti dei Da Correggio, degli Estensi e di Ludovico il Moro. Egli compose sonetti di carattere satirico dove viene rappresentata la società del suo tempo.
[modifica] Poeti di corte Per approfondire, vedi la voce Cariteo.
Sempre presso le varie corti nacque anche una poesia più aristocratica che si rifaceva alla tradizione petrarchesca e alla lirica cortigiana della seconda metà del Trecento. Tra i poeti di questo periodo furono noti Giusto de' Conti di Valmontone, autore del canzoniere intitolato La bella mano , Benedetto Gareth, soprannominato il Chariteo autore di un canzoniere intitolato l' Endymione e Serafino de' Cimminelli conosciuto con lo pseudonimo di Serafino Aquilano che fu anche un musicista.
[modifica] La letteratura in volgare nel secondo QuattrocentoA metà del secolo la letteratura in volgare prese il sopravvento e prevalse il concetto che la lingua italiana fosse pari a quella latina per la capacità di esprimere qualsiasi concetto o immaginazione come dirà Leon Battista Alberti nel proemio al II libro della sua opera "Famiglia": "ben confesso quella antica lingua latina essere copiosa molto e ornatissima; ma non però veggo in che sia la nostra oggi toscana tanto da averla in odio che in essa qualunque benché ottima cosa scritta ci dispiaccia...E sia quanto dicono quella antica appresso di tutte le genti piena d'autorità, solo perché in essa molti dotti scrissero, simile certo sarà la nostra, se i dotti la vorranno, molto con suo studio e vigile, essere elimata e polita"[71].
Fu proprio l'Alberti, tipico esempio di uomo dell'Umanesimo e del Rinascimento, che promosse in Firenze una gara pubblica di poesia, il Certame coronario, per dimostrare quali fossero le potenzialità della lingua parlata.
A testimoniare come la lingua volgare e la letteratura assumessero una nuova dignità sono i commenti alla Divina Commedia di Cristoforo Landino, il commento alle rime del Petrarca da parte di Francesco Filelfo e l'epistola del Poliziano che accompagnava la antiche rime della Raccolta aragonese dove viene elogiata la lingua toscana.
Durante tutta la seconda metà del Quattrocento dunque la lingua volgare e la lingua latina si alternarono e spesso si affiancarono negli stessi scrittori, come si può osservare analizzando le loro opere del Poliziano, di Sannazzaro, dell'Alberti e di molti altri.
La nuova letteratura che nacque ebbe un carattere colto e aristocratico perché coloro che ritornarono al volgare lo fecero su una base letteraria, convinti, come scrive il Landino, che "per essere un "buon toscano" occorreva essere "buon latino", cioè conoscitore del latino"[72].
[modifica] Leon Battista Alberti
Statua di L.B. Alberti in una nicchia degli Uffizi Per approfondire, vedi la voce Leon Battista Alberti.
L'Alberti, una tra le figure più poliedriche del Rinascimento fu non solo umanista e scrittore in lingua volgare e latina ma si interessò anche di architettura, di musica, di matematica, di crittografia, di linguista di filosofia e teoria delle arti figurative.
Come scrittore egli realizzò una commedia latina dal titolo "Philodoxeos" (L'amante della gloria), le "Intercoenales" (Dialoghi conviviali), tre libri in volgare intitolati "Della pittura", dieci libri sull'architettura, il "De re aedificatoria", i "Dialoghi della tranquillità dell'anima", il "Momus" o De Principe, i tre libri "Della famiglia".
[modifica] Leonardo da Vinci
Autoritratto, ca 1513, Torino, Biblioteca Reale Per approfondire, vedi la voce Leonardo da Vinci.
Superiore all'Alberti per via di una personalità poliedrica fu Leonardo da Vinci che però non ha un posto rilevante nell'attività letteraria ma in quella delle arti e delle scienze.
Di Leonardo possediamo una serie di passi che egli scelse e catalogò con il titolo "Trattato sulla pittura" e alcuni abbozzi e frammenti di idee che egli aveva l'abitudine di fissare su carta alle volte dandogli un'apparenza di piccola favola o di apologo che hanno un certo carattere letterario.
[modifica] Lorenzo dei Medici il Magnifico Per approfondire, vedi la voce Lorenzo de' Medici.
Lorenzo de' Medici fu il promotore a Firenze della nuova letteratura in volgare e anche amico e protettore di umanisti come il Ficino e Cristoforo Landino. Egli, legato alla tradizione del Trecento, volle che la letteratura di quel secolo fosse diffusa ed egli stesso cercò di imitarla in molte sue opere, specialmente quelle della gioventù. Per approfondire, vedi la voce Angelo Poliziano.
Intorno a Lorenzo de' Medici, dove si era formato un circolo di poeti, letterati e artisti, visse Angelo Poliziano che, trasferitosi a soli 16 anni a Firenze e conoscendo già il greco e il latino, iniziò a tradurre in esametri latini l'Iliade.Fu apprezzato per le sue doti dal Magnifico che lo accolse alla sua corte dapprima come precettore del figlio Piero e in seguito gli affidò la cattedra presso lo Studio fiorentino di latino e greco, incarico che il poeta tenne fino alla sua morte avvenuta nel 1494. Egli compose in volgare alcune opere importanti sia dal punto di vista letterario che poetico, come le Stanze per la giostra e l'Orfeo.
[modifica] Luigi Pulci Per approfondire, vedi la voce Luigi Pulci.
Al circolo di poeti medicei appartenne per un certo periodo anche Luigi Pulci che scrisse un poema in ottave intitolato il Morgante che riprende i motivi e la tecnica carolingia dei cantàri.
[modifica] Matteo Maria BoiardoNato nel castello di famiglia di Scandiano nel 1441 da Lucia di Nanni Strozzi e Giovanni Boiardo, fu sempre legato alla famiglia d'Este per il vassallaggio del feudo di Scandiano, che sarà egli stesso a reggere insieme con il cugino Giovanni tra il 1460 ed il 1474, Matteo Maria Boiardo fu intellettuale e poeta di spicco nella seconda metà del Quattrocento. A lui si debbono un canzoniere amoroso, gli Amorum libri tres, dieci ecloghe comunemente chiamate Pastorale, ma soprattutto l'Orlando Innamorato, un poema epico narrativo incompiuto in ottave che sarà materia del Furioso di Ariosto, oltre, naturalmente, a componimenti poetici giovanili (spesso in latino) e a traduzioni dal greco.
[modifica] Il Cinquecento Questa sezione sull'argomento letteratura è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
Statua di Niccolò Machiavelli nella Galleria degli UffiziI primi decenni del Cinquecento vedono una produzione letteraria di eccezionale livello, in diversi generi letterari. Si va dal poema dell'Ariosto, Orlando furioso, al Principe, trattato di teoria politica di Machiavelli; dal Cortegiano di Castiglione alle liriche petrarchistiche di Pietro Bembo.
In questo periodo, che si estende all'incirca fino al 1530 e che può essere identificato col pieno Rinascimento, la ricca sperimentazione del periodo umanistico comincia a lasciare il posto ad una progressiva regolarizzazione di forme e linguaggi. Non è un caso che l'Ariosto scelga per il suo poema il volgare toscano anziché quello settentrionale/emiliano usato dal Boiardo. Del resto, la discussione sulla lingua letteraria, che occupa intelletti acuti in riflessioni di grande interesse, approda ad una soluzione pressoché definitiva grazie alle Prose della volgar lingua del Bembo (1525), in cui si sostiene l'eccellenza del toscano letterario identificabile nella poesia di Petrarca e nella prosa di Boccaccio.
I valori tratti dalla letteratura classica, di cui si riscopre l'ampiezza di vedute, e la filosofia neoplatonica convergono nell'idea dell'uomo come individuo pieno di potenzialità, padrone della propria esistenza, chiamato a dar prova del proprio ingegno nelle concrete circostanze della storia e a realizzare nei vari momenti della vita un ideale di armonia e raffinatezza. L'ambiente della corte e il diffuso fenomeno del mecenatismo offrono agli scrittori del tempo la cornice e le condizioni adatte a perseguire quei modelli ideali; questo non impedisce però che ci sia chi mette a nudo, anche se con garbo ironico, il rovescio di quell'ambiente idealizzato, ovvero la mancanza di autonomia (Ariosto); o chi proprio dalla assidua riflessione sugli scritti degli antichi e dalla "continua esperienzia delle cose moderne" ricava norme di inaudita spregiudicatezza per l'agire politico (Machiavelli).
Un contributo molto significativo verso la definizione delle"regole" per la scrittura letteraria venne dalla traduzione, nel 1536, della Poetica di Aristotele, fino a quel momento conosciuta solo indirettamente e in parte attraverso l'Ars poetica di Orazio. La traduzione suscitò un immediato ma anche prolungato fervore di studi e di commenti, che tuttavia andarono in una direzione non del tutto coerente con le intenzioni del filosofo greco. Egli infatti - come è ben chiaro ai lettori attuali della Poetica (pervenuta in forma gravemente mutila) - non intese fornire norme per la creazione letteraria, ma descrivere e organizzare quanto la letteratura greca aveva fino a quel tempo prodotto.
Le argomentazioni di Aristotele sui diversi generi letterari, sugli elementi che compongono il testo poetico, sugli scopi della letteratura e così via vennero interpretate dagli studiosi del Cinquecento come altrettante norme da seguire in modo fedele per conseguire l'eccellenza in poesia. Secondo questa rigida impostazione, la poesia - nei tre generi: epica, lirica e drammatica - doveva proporsi un fine educativo da raggiungersi attraverso il diletto (nella versione oraziana miscere utile dulci).
La tendenza precettistica della letteratura confluì ben presto con il riaffermarsi del principio di autorità (ipse dixit) nei vari campi della cultura e con le esigenze di un ritorno alla moralità e alla religiosità promosse dal Concilio di Trento (1545-1563).
Questo orientamento normativo, che venne sviluppato negli scritti di Sperone Speroni, Gian Giorgio Trissino e molti altri, entrò in contrasto con la ricca e varia produzione letteraria del secolo precedente e dei primi decenni del Cinquecento. Ad esempio, un'opera che aveva ottenuto subito successo e ampia diffusione come l'Orlando furioso mal si accordava con le norme elaborate: non poteva dirsi poema epico, per la presenza assai debole dei motivi tipici di quel genere, ed il predominio della fantasia, dell'ironia, del diletto come scopo primario (anche se non unico). Tuttavia non era certo possibile ignorarne il valore, e proprio per questo si misurò con esso, per cercare una strada originale compatibile con il mutato clima culturale, Torquato Tasso.
[modifica] La seconda metà del Cinquecento
Torquato TassoUn profondo mutamento delle funzioni dell'italiano volgare avvenne dalla fine del Cinquecento. A causa del rallentamento degli scambi economici tra le varie città d'Italia ricominciarono a prender piede i dialetti locali, mentre l'italiano venne relegato a funzione di linguaggio di corte. Lo spirito della controriforma del Concilio di Trento fece venir meno gli stimoli culturali innovatori che avevano animato i cenacoli letterarii. La fondazione dell'Accademia della Crusca nello stesso periodo cristallizzò questa situazione nei secoli successivi, facendo della lingua italiana una lingua artificiale.
In questo quadro nascono le opere letterarie di Torquato Tasso, il suo poema la Gerusalemme liberata si può considerare sotto l'aspetto letterario frutto del manierismo, in cui gli strumenti espressivi erano una serie di pose artificiose. L'italiano di fine Cinquecento è una lingua profondamente diversa, nell'anima, da quella dei secoli passati. Ce lo fa notare in alcune postille autografe Galileo Galilei confrontando l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, e la Gerusalemme liberata : per Galilei il Tasso dice parole, Ariosto cose. La lingua italiana che in origine era descrittiva e piena di contenuti diventa vuota espressione adatta solo per fare melodie e canti.
[modifica] Il Seicento[modifica] La poesiaIl gusto barocco, col suo rifiuto del linguaggio ordinario e il suo gusto per l'artificioso e lo stravagante, trovò un campo di applicazione privilegiato nella lirica. Si tratta di una vasta produzione senza capolavori.
Un posto di rilievo è occupato dall'opera di Giambattista Marino, tanto celebre da essere chiamato come poeta di corte in Italia e a Parigi. Il suo testo maggiore, l'Adone, di proporzioni enormi (quasi tre volte la Divina Commedia), è un poema antinarrativo, che si sviluppa per digressioni attraverso una rete di analogie che evocano la realtà sottoponendola, transitoriamente, alla curiosità di tutti i sensi. Già la sproporzione fra la trama esile e la dispersione senza fine delle immagini dice la distanza dai modelli del Cinquecento. Marino portò al limite estremo la figura del letterato cortigiano che si avvale della sua penna per ottenere vantaggi e gloria, e fece anzi dei riconoscimenti del pubblico il criterio di validità estetica della sua opera. Il suo culto della metafora e l'ingegnosità mostrata nel costruire concettini e arguzie lo resero un maestro per i lirici del Seicento. Inoltre le qualità melodiche della sua poesia contribuirono allo sviluppo del melodramma e avrebbero trovato, nel Settecento, la continuazione migliore nelle opere, certo non barocche nell'ispirazione, di Metastasio.
La dissoluzione del genere epico narrativo in un grande castello lirico è un caso di quella anticlassica tendenza alla mescolanza dei generi che caratterizza il secolo. Ad Alessandro Tassoni, figura di letterato dissacratore, si deve il merito di aver creato (con La secchia rapita) il modello del genere eroicomico, un tipo di poema che, a parte gli intenti parodistici, si struttura sull'alternanza continuamente variata di serio e comico.
A conclusione del secolo si ricorda l'opera di due poeti che ebbero fortuna nel Settecento per la tendenza a conservare il senso della misura e della razionalità classicistiche in opposizione al concettismo del Marino. Si tratta anzitutto del savonese Gabriello Chiabrera, che si segnalò e venne in seguito valorizzato per la sensibilità metrica. I suoi risultati migliori stanno nella struttura della canzonetta, configurata sul modello lirico di Anacreonte e giocata su versi brevi, dalla musicalità lieve e scorrevole. L'altro poeta è il ferrarese Fulvio Testi che, nella ricerca di una poesia eroica, rifuggì dal gusto sensuale della metafora barocca e predilesse parole brevi e solenni.
[modifica] La prosa in linguaRispetto alla preziosità artificiosa della poesia, la prosa manifesta un maggiore interesse per l'attualità e la vita degli uomini e comporta alcune delle sperimentazioni più interessanti del secolo. Nel corso del Seicento si diffuse il romanzo in prosa che, anche quando è ambientato in luoghi esotici o fantastici, riproduce ambienti contemporanei riconoscibili e predilige tematiche erotiche e sensuali. Uno di questi romanzi è quell'Historia del cavalier perduto (1634) di Pace Pasini (1583-1644) che il critico Giovanni Getto ha voluto indicare come il manoscritto trovato da Manzoni e riscritto nei Promessi sposi. I romanzieri furono numerosi e godettero di buona fama anche all'estero. La lingua impiegata era ormai italiana, cioè sovraregionale. E il romanzo fu uno dei generi che accrebbero il numero dei lettori. Il risvolto più estroso della prosa barocca si ha con Il cane di Diogene (pubblicato postumo nel 1689) del genovese Francesco Fulvio Frugoni (1620 ca.-1684 ca.), pastiche in cui si combinano vari argomenti, e che ha come modelli la satira menippea e gli autori che la riproposero (Petronio, Luciano, Rabelais). La prosa barocca era un prodotto della cultura laica della prima generazione barocca; ma poi i gesuiti, impegnati nel controllo della produzione e della trasmissione culturale, ne fecero uno strumento importante del proprio intervento nella società per definire comportamenti e scelte. E alcuni dei risultati migliori della prosa del Seicento si devono al padre Daniello Bartoli, autore dell'Historia della Compagnia del Gesù, oltre che di molte opere devozionali. La sua capacità di conciliare precisione e artificio avrebbe destato anche l'ammirazione di Giacomo Leopardi.
Nell'ambito della prosa il Seicento può vantare un'importante produzione storiografica che si ispirava alla linea politico-diplomatica della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini. L'opera più importante del secolo è probabilmente l'Istoria del concilio tridentino del frate veneziano Paolo Sarpi. L'opera, edita a Londra nel 1619 (in Italia solo nel 1689-90) venne subito inserita nell'Indice dei libri proibiti per la battaglia condotta dall'autore contro il sistema ecclesiastico in nome del valore autonomo delle strutture statali.
Tra la fine del Cinquecento e il Seicento proliferarono gli scritti sulla politica che ponevano al centro dell'attenzione gli interessi dell'organismo statale (il concetto della 'ragion di stato'). E per riflettere sui meccanismi del potere dispotico vennero recuperati il pensiero di Machiavelli e l'opera storica di Tacito. L'interesse per questo storico (tacitismo) trova espressione anche nella traduzione, che rivaleggia per concisione con l'originale latino, della sua opera per mano di Bernardo Davanzati (1529-1606). Fra i trattatisti politici si segnalano i nomi di Ludovico Zuccolo (1568-1630), Paolo Paruta (1540-1598), Traiano Boccalini e del gesuita Giovanni Botero, che pubblicò il trattato politico più famoso del tempo, Della ragion di stato (1589).
A fianco della trattatistica politica si sviluppò sul fronte letterario una trattatistica barocca, per precisare, approfondire e sistemare sul piano teorico e in termini retorici la grande avventura del nuovo gusto. Uno dei primi testi è quello dell'emiliano Matteo Peregrini (1595 ca. - 1652); ma il testo più importante è Il cannocchiale aristotelico (1654) del torinese Emanuele Tesauro (1592-1675): le infinite possibilità combinatorie della metafora divennero in lui un modo per celebrare la ricchezza della realtà e la superiorità del tempo presente sul passato.
[modifica] La prosa dialettaleIn parallelo alla prosa in lingua, nel Seicento ebbe un sensibile sviluppo la letteratura dialettale, per il peso delle tradizioni locali o per gusto bizzarro. Si tratta pur sempre di letteratura prodotta dall'alto, ma capace di registrare aspetti della vita popolare. È letteratura che in ogni caso non ambisce a porsi come alternativa a quella nazionale e accetta quindi la posizione subalterna. Le prove dialettali più interessanti e corpose sono quelle napoletane, ma vanno registrate quelle romanesche (il poema Meo Patacca, 1695, di Giuseppe Berneri), quelle bolognesi, quelle veneziane e quelle milanesi. Quella napoletana è legata ai nomi di Giulio Cesare Cortese (1575-1627), che si dedicò soprattutto alla poesia, e di Giambattista Basile, noto soprattutto per Lo cunto de li cunti (1634), cinquanta fiabe destinate ai piccoli e scritte in una lingua manipolata in modo assai personale. Un posto a sé occupa il bolognese Giulio Cesare Croce, la cui fama è legata a Le sottilissime astuzie di Bertoldo (1602) e a Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino (1608), che hanno nutrito a lungo l'immaginario popolare, e che esprimono valori moderati e l'accettazione della scala sociale.
[modifica] Il teatroUna delle costanti della cultura barocca è il senso della teatralità della vita, connesso a quello della vanità della stessa. Da qui lo sviluppo del teatro e delle sue tecniche. Si crearono nuovi generi non più corrispondenti alle forme classiche (dalla tragicommedia, al melodramma, alla Commedia dell'Arte) e nuove professioni legate al teatro, come quella dell'attore, e venne fissata la forma della sala teatrale, con la separazione degli spazi destinati alla scena e agli spettatori. La vitalità del teatro nel Seicento va ben oltre quella dei testi drammatici, che sono modesti in Italia rispetto all'Europa: in Francia (Corneille, Racine, Molière), in Spagna (Lope de Vega, Calderon de la Barca), in Inghilterra (Shakespeare e il teatro elisabettiano) abbondano grandi testi, a fronte dei quali l'Italia può vantare poco. Ma l'Italia tra Cinque e Seicento vide nascere, svilupparsi e passare poi in Europa forme teatrali fortemente spettacolari non dipendenti dal controllo della parola. Un caso è quello della Commedia dell'Arte, teatro profano del corpo e della maschera. È un teatro di professionisti che, organizzati in compagnie girovaghe, comunicano con la bravura tecnica e l'espressività del corpo, improvvisando con la parola sulla base di intrecci e scene tipiche. Gli attori indossano la maschera per tipizzare qualità psicologiche o regionali del personaggio, e anche il linguaggio impiegato nella comunicazione orale è spesso una mescolanza di forme regionali di aree contigue, un plurilinguismo stereotipato. La prima compagnia di comici professionisti si formò a Padova nel 1545. Le compagnie girovaghe, che raggiungevano il popolo più comune nei centri più disparati e anche più piccoli, ebbero particolare successo nel Seicento e per buona parte del Settecento. Un altro caso è quello del dramma per musica (per il quale in seguito si sarebbe utilizzato il termine melodramma). Tutto aveva preso avvio nel tardo Cinquecento dalla sperimentazione della Camerata de' Bardi, e il primo melodramma fu la Dafne del poeta Ottavio Rinuccini, rappresentato a Firenze nel 1598. La produzione più ricca si ebbe a Venezia con la costruzione di teatri pubblici a pagamento e a Roma, dove gli ambienti ecclesiastici diedero vita a un teatro morale o basato sulla storia sacra. In mancanza di norme definite, il genere assunse forme varie, e nel processo evolutivo il testo drammatico assunse forme sempre più schematiche fino alla sua subordinazione alla musica. La commedia letteraria continuò nel Seicento con nuove forme e intrecci destinati a finalità moraleggianti. I centri di produzione più importanti furono Napoli, Firenze e Roma. Qui si sviluppò, alla fine del Cinquecento, un tipo di commedia semplice che riproduceva in forme letterarie gli schemi narrativi della Commedia dell'Arte. La tragedia, con attenzione alla politica e alle riflessioni sulla ragion di stato, indulgeva a un gusto truce e violento secondo il modello del latino Seneca. Lo scrittore più autorevole di questo genere fu il piemontese Federico Della Valle.
[modifica] Il Settecento: l'età dell'Illuminismo
Monumento a Carlo Goldoni in Campo S. Bartolomeo a VeneziaIl Settecento è un secolo di grandi trasformazioni. In Europa si assiste al predominio culturale e politico della Francia, mentre una serie di guerre, dette di successione, vede cambiare il panorama politico e le aree di dominazione.
L'Italia è dominata al nord dagli Austriaci, che, in seguito alla pace di Aquisgrana del 1748, si sostituiscono alla dominazione spagnola; al sud dalla dinastia francese dei Borboni.
La Sardegna è, invece, unita al Piemonte e si costituisce il Regno di Sardegna, governato dalla dinastia dei Savoia.
La presenza straniera si fa comunque meno pressante e gli Stati italiani godono di una maggiore libertà.
Nella seconda metà del Settecento, si afferma in Inghilterra la Rivoluzione industriale: si diffonde cioè un nuovo modello di produzione delle merci, basato sulla fabbrica, dove si esegue il lavoro grazie all'uso di nuovi macchinari, che sfruttano l'energia prodotta dal vapore. Le prime installazioni sono i telai a vapore, che incrementano la produzione e, di conseguenza, allargano la disponibilità sul mercato delle merci, con enormi conseguenze sul settore economico, ma anche sociale e politico.
Si afferma definitivamente il potere economico e, quindi, anche sociale della borghesia, che basa la propria supremazia sulla proprietà dei mezzi di produzione, come le fabbriche, e la capacità di gestire il denaro. Essa, in contrapposizione all'aristocrazia delle corti, ormai decadente e impoverita, afferma la propria visione del mondo e i propri valori, legati all'intraprendenza e al guadagno.
Il conflitto sociale e culturale tra la nuova classe in ascesa e l'antica aristocrazia di sangue provoca alla fine del secolo la Rivoluzione francese, nel 1789, in cui il concetto stesso di potere monarchico entra in crisi, con la diffusione di valori nuovissimi come la libertà, l'uguaglianza e la fraternità.
Anche in campo filosofico il primato spetta alla Francia: il Settecento è infatti il secolo dei philosophes, ossia gli intellettuali che sostengono il razionalismo come base della conoscenza. Le cose, la realtà, la natura sono comprensibili con il solo aiuto della ragione. Questo fa sì che si attribuisca sempre maggiore importanza alle capacità della ragione umana.
I philosophes sono i fondatori dell'Illuminismo o filosofia dei lumi: la ragione è la luce che si apre nel buio dell'ignoranza e della superstizione e supporta la nuova scienza sperimentale che contrappone la libera ricerca intellettuale ai dogmi della religione.
L'Illuminismo troverà un'espressione politica nella Rivoluzione francese. Accanto ai valori già citati, il Settecento regalerà all'Europa i principi fondamentali della tolleranza religiosa e del cosmopolitismo.
Tra le maggiori scuole letterarie del secolo non possiamo non citare l'Arcadia, un'accademia letteraria fondata a Roma nel 1690 da Giovanni Vincenzo Gravina e da Giovanni Mario Crescimbeni affiancati da artisti operanti nei centri culturali urbani più evoluti d'allora: da Paolo Coardi (di Torino) a Jacopo Vicinelli (di Roma), passando per il più importante intellettuale italiano del '700: Pietro Metastasio. Questi letterati, promuovevano, con l'appoggio della Curia romana, l'antibarocchismo e la restaurazione classicistica (Arcadia è il nome di un'antica regione della Grecia, dove, secondo la tradizione letteraria, i pastori, vinta la durezza della vita primordiale, vivevano felici, in semplicità). I soci del circolo fondarono sezioni in tutta Italia. Il classicismo cui essi si rifanno è soprattutto quello di Petrarca, ma anche quello di Poliziano e Lorenzo il Magnifico.
[modifica] Tra il Settecento e l'Ottocento Questa sezione è ancora vuota. Aiutaci a scriverla!
[modifica] L'Ottocento Questa sezione è ancora vuota. Aiutaci a scriverla!
[modifica] Il RomanticismoNella prima meta dell'Ottocento si diffonde in Europa il movimento culturale noto come Romanticismo. Le idee romantiche nascono il Germania dal movimento dello Sturm und Drang Le idee romantiche vengono fatte conoscere grazie alla rivista Athenaeum fondata dai fratelli Schlegel. Le idee romantiche trovano adesione in Francia e Inghilterra. I romantici rivalutano il sentimento, la passione e la libertà. Riavvertono il bisogno di Dio. Si sente un profondo legame con la natura. Da qui atteggiamenti come il pessimismo, vittimismo ma anche il ribellismo ovvero la voglia di ribellarsi a ogni vincolo morale. Ma anche lo slancio eroico e passionale. I principali autori italiani del Romanticismo sono Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni. Invece la poetica di Ugo Foscolo meriterebbe di essere distaccata sia dal Romanticismo che da stili precedenti ed essere analizzata da se.
[modifica] Tra Ottocento e Novecento[modifica] Il verismo
Giovanni Verga
Grazia DeleddaIl Verismo (o realismo) è un movimento letterario che si diffonde in Italia nell'ultimo trentennio dell'Ottocento dietro la spinta di un analogo movimento francese, il Naturalismo Carattere fondamentale del Naturalismo è il il ritorno alla natura che si esprime attraverso la composizione di opere letterarie che hanno come argomento la realtà umana e sociale (anche quella più umile,penosa e sgradevole), rappresentata con rigore scientifico, in modo cioè del tutto oggettivo, distaccato.
I veristi italiani riprendono i principi del Naturalismo francese calandoli però in una situazione storica diversa. In Italia, infatti, l'industrializzazione che ha investito l'Europa in particolare l'Inghilterra e la Francia,è solo agli inizi, per lo più la raggiunta unità politica ha aggravato problemi già esistenti, come il profondo divario tra regione e regione e la netta separazione tre il Nord e il Sud. Nasce, infatti, proprio in questi anni la cosiddetta questione meridionale, che per molti aspetti è ancor oggi irrisolta. Il Verismo acquista così un carattere giornalistico, nel senso che gli scrittori analizzano e descrivono nelle loro opere le proprie realtà regionali in tutta la loro crudezza e drammaticità, con toni a volte decisamente pessimistici. I caratteri fondamentali del Verismo si possono così sintetizzare:
- rappresentazione di una precisa realtà umana e sociale in modo obiettivo, quasi"fotografico"; l'opera letteraria viene ad assumere quindi l'aspetto di un documento oggettivo;
- narrazione impersonale dei fatti, senza interventi (giudizi, considerazioni personali, partecipazione emotiva) da parte dell'autore che rimane così completamente estraneo alla vicenda;
- utilizzo di un linguaggio semplice e diretto che, dovendo riflettere il modo di esprimersi della gente umile, comprende anche espressioni tipiche delle parlate regionali.
I maggiori rappresentanti del Verismo italiano sono senz'altro Giovanni Verga, Luigi Capuana e Matilde Serao. Tuttavia secondo alcuni critici sembrerebbe aderire a questi modi anche Grazia Deledda, anche se questi si trovavano in difficoltà nel collocarla tra Verismo o Decadentismo; in effetti la scrittura della Deledda merita un discorso a parte.
[modifica] Giosuè Carducci e il neoclassicismoIl tema maggiore delle opere di Carducci è l'Italia: il poeta, infatti, spesso si lamenta dell'Italia della seconda metà dell'Ottocento, dicendo che si è scordata dei valori della vecchia Italia e di quelli del Risorgimento.
Altro argomento importante nella poetica di Carducci sono i ricordi e le memorie dell'infanzia. La lingua che egli usa nella sua poesia è rigida, colta e legata alla tradizione latina, ma non per questo familiare ed incomprensibile: spesso trasmette sensazioni tramite le suggestive immagine che il poeta risce ad evocare.[senza fonte]
[modifica] Il Decadentismo
Luigi Pirandello
Francobollo di Fiume raffigurante Gabriele D'AnnunzioIl Decadentismo è una corrente artistico-letteraria che si sviluppa nei primi anni del Novecento. Durante questo periodo i poeti e gli scrittori si sentono estranei da un mondo che considerano materialista. Avvertono un senso di decadenza morale della loro epoca e ne colpevolizzano lo sviluppo di quegli anni. Sentono che solo l'intuizione e la sensibilità, il sentimento, possano farli penetrare nei misteri della vita e farli distaccare dal materialismo. Per questo la loro poesia è libera leggera, carica di significato e simbologie. I principali autori italiani di questo periodo sono Giovanni Pascoli, Gabriele D'Annunzio, Italo Svevo e Luigi Pirandello
[modifica] Primo NovecentoAll'inizio del secolo esplodono a livello europeo le cosiddette avanguardie, movimenti artistici che intendono rompere definitivamente i ponti con le forme più tradizionali della letteratura. Tra i maggiori movimenti d'avanguardia, sia in campo artistico che letterario, sono il dadaismo con Marcel Duchamp; la pittura volutamente deformata di Picasso e in generale del Cubismo; l'espressionismo, che tendeva a far interagire codici linguistici e stilistici diversi tra loro; il futurismo, la prima e più consapevole avanguardia letteraria in Italia. Benedetto Croce giudicò molto severamente quasi tutti gli scrittori contemporanei, influenzando così un largo numeri di critici accademici. Nel contempo, intorno agli anni venti, si veniva rafforzando una tendenza antinovecentesca, cioè ostile ai caratteri sperimentali tipici del primo novecento, che trovava il suo punto di riferimento nel Canzoniere di Umberto Saba.
Il libro poetico più rilevante della fase primonovecentesca è senza dubbio L'allegria di Giuseppe Ungaretti. Per quanto riguarda la narrativa, essa si presenta in Italia dotata di una tradizione molto meno forte rispetto alla lirica, e comunque dominata per lungo tempo dal modello de I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. In questo primo novecento occupano la scena della narrativa Gabriele D'Annunzio e Antonio Fogazzaro. Ma la critica tende oggi a individuare i testi più significativi fra quelli di Luigi Pirandello, che, pur partendo da premesse tardoveriste, si propone nel 1904 come sperimentatore e addirittura precorritore di alcune soluzione metanarrative con Il fu Mattia Pascal, in cui si colgono nel testo le componenti della poetica pirandelliana più tipica: l'antipositivismo e l'antirazionalismo, non ben apprezzate da Croce.
[modifica] Il NovecentoLa letteratura italiana nel Novecento è fortemente influenzata, più ancora che in altri secoli, da fattori storico-politici e socioculturali in genere. Sul primo versante, per esempio, non si può sottovalutare che, durante il ventennio fascista, (1922-1943), la libera circolazione delle idee è stata impedita o fortemente limitata, e che perciò il dibattito letterario è stato fortemente condizionato, e tornato in primo piano alla fine della seconda guerra mondiale, con una massiccia adesione degli scrittori alle ideologie di sinistra.
Sul versante socioculturale, la grande influenza del filosofo e critico Benedetto Croce, tra i pochissimi intellettuali a rimanere indipendente dal fascismo, fece sì che la critica accademica non si aprisse a stimoli provenienti da altri paesi europei. Tuttavia si deve sottolineare che anche sotto il regime fascista rimase vivace l'interesse per il confronto letterario, grazie soprattutto alle riviste fiorentine, come Solaria, alla quale collaboravano autori quali Eugenio Montale o Carlo Emilio Gadda.
Tra i caratteri fondamentali del Novecento letterario italiano è, innanzitutto fondamentale l'interazione fra la lingua nazionale, impostasti di fatto solo nell'ultimo scorcio dell'Ottocento e dopo l'unità (1861), e i dialetti, ovvero le vivacissime lingue legate alle tante realtà socioculturali della nazione. Questa interazione portò spesso all'uso di un bilinguismo, ben evidente per esempio in molti poeti del primo novecento come il veneto Giacomo Noventa che, pur essendo un intellettuale colto ed eclettico, scriveva versi soprattutto nel suo idioma materno, in implicata polemica con l'odiatissimo regime fascista, ostile alle culture regionali. Dalla seconda metà del secolo, però, la scelta dei dialetti risulta soprattutto difensiva o per opposizione contro la massificazione e poi la globalizzazione, come nel caso di Pasolini. L'intersezione dei dialetti diventa, nel secondo Novecento, molto più affine al plurilinguismo colto, e basato magari sul rapporto anche con lingue morte.
Un'altra caratteristica della nostra letteratura è la notevole divaricazione tra il destino della poesia e quello della narrativa: mentre la prima è senz'altro dotata di una propria tradizione, la seconda appare continuamente rinnovata e di fatto azzerata. Non è vero che, come spesso si afferma[senza fonte], non esiste una narrativa italiana di alto valore. È vero però che è difficile che il romanzo italiano svolga una funzione simile a quella che ha avuto, e in parte continua ad avere, nelle grandi nazione europee e negli Stati Uniti, ossia quella di proporre una ricostruzione della società nel suo insieme[senza fonte].
[modifica] I Narratori Questa sezione è ancora vuota. Aiutaci a scriverla!
[modifica] Il Neorealismo
Elsa Morante e Alberto Moravia a Capri negli anni quarantaLa narrazione realistica prosegue anche nel Novecento, ma spesso cambia di prospettiva. Se nel secolo precedente i personaggi concorrevano alla rappresentazione di un dato ambiente, ora l'attenzione è più concentrata sulle contraddizioni interne del personaggio, inquieto per i grandi dubbi esistenziali, sconvolto per il devastante impatto di grandi tragedie storiche: è il caso di tanti protagonisti di Pavese. Nel novecento si afferma inoltre il filone della memorialistica, le cui opere, a essere precisi, non possono essere considerate dei veri e propri romanzi; infatti in esse non ci sono invenzioni narrative, ma solo testimonianze di fatti ed eventi realmente accaduti e vissuti in prima persona dai protagonisti: è il caso delle opere di Primo Levi Se questo è un uomo e La tregua. Il romanzo realista, ormai con il nome di romanzo neorealista, presenta dunque un panorama quanto mai vario e quindi anche tecniche diverse rispetto alla tipologia di narratore e alla focalizzazione: in linea generale, si tende a far scomparire il narratore onnisciente a focalizzazione zero fissa, più caratteristico del romanzo storico; si va dal narratore esterno a focalizzazione esterna o interna, fino al narratore interno; spesso la focalizzazione è variabile e, nel caso dei romanzieri veristi italiani, si tende ad assumere un punto di vista corale.
[modifica] La letteratura meridionalista Questa sezione è ancora vuota. Aiutaci a scriverla!
[modifica] Altri scrittoriDurante il periodo neorealista e soprattutto negli anni seguenti, la narrativa sperimenta forme e temi nuovi, in una grande varietà di produzione in cui è difficile distinguere dei filoni.
Tra gli scrittori più noti: Carlo Cassola, Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda, Emilio Lussu, Italo Calvino, Elio Vittorini, Dino Buzzati, Alberto Moravia, Elsa Morante, Romano Bilenchi, Natalia Ginzburg, Giovanni Arpino, Goffredo Parise, Primo Levi, Umberto Eco, Beppe Fenoglio, Fulvio Tomizza, Stelio Mattioni, Gesualdo Bufalino, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri, Ennio Flaiano, Ignazio Silone, Francesco Jovine, Raffaele Nigro, Alberto Arbasino, Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Molto cospicua è stata la fioritura della poesia in tutto il Novecento dando l'avvio a particolari correnti come il Crepuscolarismo, il Futurismo, l'Ermetismo.
[modifica] Il CrepuscolarismoVedi la voce principale Crepuscolarismo.
Crepuscolari fu l'aggettivo con cui il critico Giuseppe Antonio Borgese definì[73] un gruppo di poeti che operarono all'incirca nel primo ventennio del XX secolo e che interpretarono in modo particolare la sensibilità e i temi del Decadentismo italiano.
Il crepuscolo è il momento della giornata che segue il tramonto, è l'ora in cui si diffonde una luce tenue e morente: i poeti crepuscolari derivano il loro nome dal gusto per la penombra e dall'amore per gli aspetti più grigi, meno appariscenti e meno solari dell'esistenza.
Essi cantano le piccole cose di ogni giorno, gli oggetti e gli ambienti più banali, le abitudini, gli affetti e l'intimità di una vita senza grandi ideali, rifiutando l'impegno nella realtà sociale, sognando il ritorno all'infanzia e aspirando ad una vita semplice, confortata dai valori della tradizione. Essi stessi si considerano figli della poetica del Pascoli, il primo e più grande cantore delle"piccole cose" e del verso slegato ed intimo.
Manca nei poeti crepuscolari, che non costituirono mai un movimento o una scuola ben definita, lo slancio e la passione ed essi considerano con ironia il loro sogno di una felicità quieta, quasi modesta. Il ripiegamento nostalgico su sé stessi, unito alla malinconia dell'esistenza, ebbero però una precisa funzione polemica contro il lirismo dannunziano: attraverso modulazioni di linguaggio tendenti all'andamento prosastico e discorsivo anziché al canto pieno, i crepuscolari sottolineavano il loro rifiuto del superuomo e dei miti estetizzanti[74].
Fra i crepuscolari il poeta che ha acquistato maggior fama è Guido Gozzano, accanto a lui si ricorda Sergio Corazzini e, per quanto riguarda le prime opere, Corrado Govoni e Marino Moretti.
[modifica] Il FuturismoVedi la voce principale Futurismo.
Aldo PalazzeschiNei primi anni del Novecento, opposta a quella dei crepuscolari fu la voce dei futuristi. Mentre i primi si ripiegavano su se stessi e con linguaggio prosastico e dimesso invocavano un ritorno ai buoni sentimenti del passato, i secondi reagivano alla caduta di ideali della loro epoca proponendo una fiducia fermissima nel futuro.
Fondatore del movimento futurista è Filippo Tommaso Marinetti che a Parigi, nel febbraio del 1909, pubblica il primo Manifesto futurista.
In esso si proclama la fede nel futuro e nella civiltà delle macchine, si affermano gli ideali della forza, del movimento, della vitalità, del dinamismo e dello slancio e si spronano i letterati a comporre opere nuove, ispirate all'ottimismo e ad una gioia di vivere aggressiva e prepotente.
Si auspica inoltre la nascita di una letteratura rivoluzionaria, liberata da tutte le regole, anche quelle della grammatica, dell'ortografia e della punteggiatura.
I futuristi sperimentano nuove forme di scrittura per dar vita ad una poesia tutta movimento e libertà, negano la sintassi tradizionale, modificano le parole, le dispongono sulla pagina in modo da suggerire l'immagine che descrivono.
La loro necessità di liberarsi del passato e il loro desiderio di incendiare musei e biblioteche che lo proteggono, vengono proclamate con enfasi e violenza: dall'esaltazione del movimento si passa all'esaltazione euforica della guerra, vista come espressione ammirabile di uomini forti e virili.
I futuristi sostengono la necessità dell'intervento nella prima guerra mondiale e in seguito aderiscono all'impresa di Fiume e ai primi sviluppi del fascismo.
Fra i poeti che partecipano all'esperienza futurista, oltre che a Marinetti, si ricordano Aldo Palazzeschi, Luciano Folgore, Ardengo Soffici, Corrado Govoni.
[modifica] L'ermetismo Per approfondire, vedi la voce Ermetismo (letteratura).
La poesia ermetica fu così chiamata nel 1936 dal critico Francesco Flora che con l'aggettivo ermetico volle definire un tipo di poesia caratterizzata da un linguaggio difficile, a volte ambiguo e misterioso (il termine è derivato dal nome del dio greco Hèrmes, il Mercurio dei Romani, personaggio dai risvolti enigmatici).
I poeti ermetici con i loro versi non raccontano, non descrivono, non spiegano ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità a cui sono pervenuti attraverso la rivelazione poetica e non con l'aiuto del ragionamento.
I loro testi sono estremamente concentrati e racchiudono molti significati in poche parole e tutte le parole hanno una intensa carica allusiva, analogica, simbolica.
La poesia degli ermetici vuole liberarsi dalle espressioni retoriche, dalla ricchezza lessicale fine a sé stessa, dai momenti troppo autobiografici o descrittivi e dal sentimentalismo.
Gli ermetici vogliono creare della "poesia pura" che possa essere espressa con termini essenziali. Concorrono a questa essenzialità anche la sintassi semplificata che spesso viene privata dei nessi logici, con spazi bianchi e lunghe e frequenti pause che rappresentano momenti di concentrazione, di silenzio, di attesa.
I poeti ermetici si sentono lontani dalla realtà sociale e politica del loro tempo. L'esperienza della prima guerra mondiale, e quella del ventennio fascista, li ha condannati ad una grande solitudine morale e l'impossibilità di farsi interpreti della realtà storico-politica li isola confinandoli in una ricerca riservata a pochi e priva di impegno sul piano politico. Possono considerarsi precursori dell'ermetismo i poeti Camillo Sbarbaro, Clemente Rebora, Dino Campana, Arturo Onofri. Il poeta sicuramente più rappresentativo della corrente è Giuseppe Ungaretti. Fra gli altri poeti: Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Mario Luzi.
Salvatore Quasimodo[modifica] Altre poeticheLa poesia di Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale si può collegare all'ermetismo, ma dopo gli esordi si evolve poi in linee poetiche originali ed innovative.
La poesia di Umberto Saba è del tutto lontana dalla sensibilità ermetica per il tono discorsivo dei suoi versi e per il linguaggio semplice e prosastico. Il poeta crede nella poesia come in uno strumento di comunicazione fra gli uomini e come proposta di valori ideali.
Ugualmente lontana dall'ermetismo è la poesia di Vincenzo Cardarelli che, prendendo a modello la poesia di Leopardi, aspira a perpetuare la tradizione classica.
[modifica] Il secondo Novecento
Pier Paolo PasoliniDopo la Seconda guerra mondiale molti poeti, in un rinnovato clima politico, riaffermano il valore sociale della poesia e criticano il disimpegno dell'ermetismo. In questo periodo si sviluppa in Italia il Neorealismo. Questa nuova tendenza intendeva descrivere l'enormità degli eventi appena accaduti soprattutto durante la seconda guerra mondiale. In questi anni si assunse, in generale, un atteggiamento di condanna verso la letteratura italiana precedente, rea di aver collaborato con il fascismo, con l'eccezione dei realisti degli anni trenta. Principale interprete di questa condanna fu Elio Vittorini, attraverso la rivista del Politecnico, nella quale inoltre ribadiva la libertà e l'indipendenza dell'artista dalla politica. In questi anni di fronte a un'ampia fioritura della narrativa, la poesia si trovò spiazzata. Bisogna tuttavia notare che in questo stesso periodo si ha un progressivo spostamento degli interessi del grande pubblico verso il cinema italiano, e, dalla seconda metà degli anni cinquanta, si riscontra una prima polarizzazione tra produzione di largo consumo e cultura d'élite. Nel secondo dopoguerra, è Eugenio Montale a diventare il modello più seguito dai giovani autori. A Umberto Saba invece si ispirano poeti antinovecenteschi. La riacquisizione della libertà di stampa dopo la fine del Fascismo, favorì la nascita di un'editoria vivace e libera. Vicenda esemplare fu quella della casa editrice Einaudi, fondata da Giulio Einaudi, figlio del grande economista e presidente della repubblica Luigi Einaudi. Questa casa editrice coinvolse filosofi, storici e letterati più importanti dell'epoca.
Umberto EcoFra gli autori più noti: Cesare Pavese, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Sandro Penna, Vittorio Sereni, Giorgio Orelli, Elio Fiore.
[modifica] La neo-avanguardiaDopo gli anni '60 un gruppo di poeti dà inizio ad un movimento di neo-avanguardia caratterizzato dal rifiuto dell'espressione tradizionale e da un accentuato sperimentalismo linguistico; tra gli altri: Umberto Eco, Edoardo Sanguineti, Franco Fortini, Andrea Zanzotto.
[modifica] La letteratura italiana e l'Italia letterariaLa letteratura italiana è naturalmente legata all'identità nazionale. Il discorso storico sulla letteratura si è intrecciato fin dalle origini con la prospettiva della nascita di una comunità, che da comunità letteraria è progressivamente diventata comunità nazionale.
Le storie della letteratura italiana hanno sempre puntato a rivendicare una specificità nazionale della letteratura italiana, da Giovanni Mario Crescimbeni e Giacinto Gimma fino a Girolamo Tiraboschi e Francesco De Sanctis. La letteratura è stata perciò il principale veicolo di unificazione degli italiani, al punto che si può parlare di un'Italia letteraria in contrapposizione o in aggiunta all'Italia costruita su base politica, etnica, o economica.
Già Dante col De vulgari eloquentia si proponeva di creare una lingua e una letteratura capaci di superare i confini municipali per allargare lo sguardo a una comunità unita da sentimenti e interessi collettivi, basati prima di tutto sul discorso d'amore e sullo scambio culturale. In seguito testi famosissimi, su un percorso che va dalla canzone Italia mia di Francesco Petrarca alla canzone All'Italia di Giacomo Leopardi, hanno affrontato il problema del rapporto tra letteratura italiana e identità collettiva. Ancora nel corso del Novecento tutti i principali scrittori, da Gabriele D'Annunzio e Filippo Marinetti, passando per Giuseppe Ungaretti e Elio Vittorini, fino a Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Umberto Eco, si sono proposti come interpreti del sentimento nazionale.
Anche quando ci si è voluti opporre alla tradizione nazionale lo si è fatto all'interno di una prospettiva italiana, come è accaduto ai primordi della neoavanguardia con i romanzi, entrambi pubblicati nel 1963, Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, e Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti. Anche in tempi recenti gli scrittori continuano a confrontarsi col problema dell'Italia letteraria, come si evince dai titoli dei romanzi L'Italia spensierata di Francesco Piccolo, e Italia, De Profundis di Giuseppe Genna.
L'ultima proposta letteraria, il New Italian Epic di Wu Ming, si muove anch'esso in questa direzione, con l'individuazione di una linea attuale, tutta italiana e tutta letteraria, di indagine della storia e di lavoro sullo stile. Sulla stessa linea, infine, la raccolta di racconti pubblicati dalla Minimum Fax, a cura di Giorgio Vasta, Anteprima Nazionale (2009), con scritti di Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giancarlo De Cataldo, Valerio Evangelisti, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Wu Ming 1, che raccontano come sarà il nostro paese tra vent'anni.
[modifica] Italiani premiati con il Premio Nobel per la letteraturaIl Premio Nobel per la letteratura è stato assegnato per la prima volta nel 1901.
1906, Giosuè Carducci
1926, Grazia Deledda
1934, Luigi Pirandello
1959, Salvatore Quasimodo
1975, Eugenio Montale
1997, Dario Fo
Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 4
Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, Firenze, 1968, pag. 9
Natalino Sapegno, op. cit., pag. 6
4.^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 1
5.^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 12
6.^ Da Luigi Morandi, Origine della lingua italiana, Stab. Tip. Scipione Lapi Editore, Città del Castello, 1897, pag. 11
7.^ Natalino Sapegno, 'op. cit.
8.^ Confronta Il placito capuano
9.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 5
10.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 5
11.^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 5
12.^ Confronta I documenti delle origini con testo
13.^ troveri: termine utilizzato da alcuni critici come Mario Sansone
14.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 25
15.^ Per la classificazione di questo periodo storico si prende in considerazione la suddivisione fatta da Alberto Asor Rosa in Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986
16.^ op. cit., pag. 29
17.^ Giuseppe Petronio, op. cit., pag. 26
18.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 52
19.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 53
20.^ Il brano è tratto dalla volgarizzazione del testo da C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Laterza, Bari, 1991, pag. 215
21.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 63
22.^ C. Salinari, C. Ricci, Storia della letteratura italiana con antologia degli scrittori e dei critici, Volume 1, Dalle origini al Quattrocento, Laterza, Bari, 1991, pag. 197
23.^ C. Salinari, C. Ricci, op. cit., pag. 125
24.^ Mario Sansone, op. cit., pag. 35
25.^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 23
26.^ Alberto Asor Rosa, op. cit., pag. 24
27.^ Francesco Flora, Storia della letteratura italiana, vol. I, Arnoldo Mondadori, Milano, 1958, pagg. 62-63
28.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 38
29.^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, vol. I, Dalle origini alla fine del quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 79
30.^ da il Purgatorio, in Dante Alighieri, La Divina Commedia, Sansoni, Firenze, 1905, pag. 466
31.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 39
32.^ Mario Sansone, op. cit. pag. 40
33.^ Mario Sansone, op. cit., pag. 40
34.^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 85
35.^ Dei Trattati morali di Albertano da Brescia, volgarizzamento inedito del 1268 fatto da Andrea da Grosseto, a cura di Francesco Selmi, Commissione per i testi di lingua, Bologna, Romagnoli, 1873, Avvertenza, p.XII-XIII.
36.^ Cesare Segre in Corriere della Sera del 30 ottobre 1994
37.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1960, pag. 41
38.^ Asor Rosa, Sintesi di storia di letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 28
39.^ Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Vol. II, in Dante e il nuovo modello letterario, Mondadori, Milano, 2006
40.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 62
41.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 136
42.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1960, pag. 75
43.^ Rosanna Bisacca, Maria Paolella, L'Altra Biblioteca, volume triennale, Lattes, Torino, 2000, pag. 226
44.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 167
45.^ Asor Rosa, Sintesi di storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 44
46.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 201
47.^ Natalino Sapegno, Compendio della storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 183
48.^ Rosanna Bicacca Maria Paolella, L'altra biblioteca, volume triennale, Lattes, Torino, 2000, pag. 231
49.^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986
50.^ Mario Sansone, Compendio di Storia della letteratura italiana. Dalle Origini al Quattrocento, La Nuova Italia, 1956
51.^ Alberto Asor Rosa, Sintesi di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1986, pag. 52
52.^ G. Padoan, Sulla datazione del Corbaccio, in Il Boccaccio Le muse, Firenze, 1978, pagg. 199-228
53.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, 1960, pag. 110
54.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano, 1956, pag. 107
55.^ Da Mario Sansone, op. cit., pag. 108
56.^ Natalino Sapegno, Introduzione ai Poeti minori del Trecento, in Pagine di storia letteraria, Palermo, Manfredi, 1960, pagg. 197-200
57.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 253
58.^ Natalino Sapegno, op. cit., pag. 260
59.^ Pasquale Stoppelli, Malizia Barattone (Giovanni di Firenze) autore dell'opera "Il Pecorone", in "Filologia e critica" II (1977)), pagg. 1-34
60.^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, 1968, pag. 99
61.^ Roberto Mercuri, La letteratura del Trecento in Toscana in Letteratura italiana, Einaudi, Firenze, 2007, pag. 570
62.^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 282
63.^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Firenze, 1968, pag. 103
64.^ Natalino Sapegno, Compendio di Storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 288
65.^ Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze, 1971, pag. 240
66.^ Leonardo Bruni, Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, Istituto Nazionale sul Rinascimento, 1994
67.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana. Dalle origini alla fine del Quattrocento, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 288
68.^ Natalino Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Dalle Origini alla fine del Quattrocento, I, La Nuova Italia, Firenze, 1956, pag. 293
69.^ Mario Sansone, Storia della letteratura italiana, Principato, Milano-Messina, 1960, pag. 137
70.^ Giuseppe Petronio, Compendio di storia della letteratura italiana, Palumbo, 1968
71.^ Leon Battista Alberti, in Proemio, Opere volgari, a cura di C. Grayson, vol.I, Laterza, Bari, 1960
72.^ da citazione in Giuseppe Petronio, Compendio di Storia della letteratura italiana, Palumbo, Firenze, 1968
73.^ Antonio Maria Borgese. Poesia crepuscolare pubblicato su La Stampa del 10 settembre 1910, all'interno della rubrica Cronache letterarie
74.^ Salvatore Guglielmino, Guida al Novecento, 3a ed., Milano, Principato Editore, 1971, I, 86.
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Bibliografia
Sanctis, Francesco De. Storia della letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870.
Morandi, Luigi
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Giuseppe Petronio,
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3a ed., Palermo, Palumbo, 1968.
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Giulio Ferroni,
Storia della letteratura italiana.
Vol. II, in Dante e il nuovo modello letterario, Milano, Mondadori, 2006.
Stefano Jossa,
L'Italia letteraria, 2006, Il Mulino, Bologna
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Antonio Piromalli: il testo completo della Storia della letteratura italiana scritta da Antonio Piromalli, liberamente disponibile in rete
Francesco De Sanctis: il testo completo della Storia della letteratura italiana (1870)
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